È l’inviolabile diritto alla salute che protegge Renoldi dagli attacchi per le visite al 41 bis di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 22 luglio 2022 Sulle visite accordate a Nessuno tocchi Caino è decisivo un aspetto, come ricordato, in audizione, sia dal capo del Dap che dal sottosegretario Sisto: l’obiettivo era verificare le condizioni sanitarie dei ristretti al “carcere duro”. Una priorità rispetto a qualsiasi altra preoccupazione. Ha destato scalpore e dure critiche dal mondo politico il provvedimento con il quale il capo del Dap, Carlo Renoldi, magistrato giudicante della prima sezione penale della Cassazione, ha autorizzato nelle giornate del 7 e 10 maggio scorsi l’associazione per la tutela dei diritti e delle condizioni di vita dei detenuti “Nessuno tocchi Caino” a visitare due istituti di pena sardi, il carcere di Sassari e quello di Nuoro, ivi incluse le sezioni dedicate ai condannati in regime di 41 bis. Vicenda che ha profondamente scosso e indignato alcuni esponenti di spicco della politica del Paese, i familiari delle vittime di attacchi ad opera di organizzazioni mafiose nonché alcune voci della magistratura antimafia che sempre si sono dichiarate contrarie ad un alleggerimento del cosiddetto carcere duro. A onor del vero la vicenda, sulla quale nelle ultime ore è tornata l’Unione Camere penali con un’affilata nota stampa, costituisce solo il pretesto utilizzato da alcuni esponenti della politica e della magistratura per minare la credibilità della figura di Renoldi, nominato solo nel marzo scorso al vertice del Dap, e - suo tramite - di quella della ministra Marta Cartabia. Il capo dell’amministrazione penitenziaria infatti, attaccano i suoi detrattori, avrebbe espresso più volte, mediante esternazioni pubbliche, un approccio (riformatore) e una sensibilità (evidentemente non condivisa) in materia di 41 bis ed ergastolo ostativo del tutto inconciliabili con lo spirito originario che ha portato all’introduzione del “carcere duro”, calpestando così l’eredità lasciataci da Falcone e Borsellino. Queste, tra le altre, le ragioni che hanno portato alcuni dei più importanti e stimati magistrati del Csm ad astenersi o a votare contro la sua collocazione fuori ruolo in vista della nomina. Da qui le polemiche sulla decisione di concedere l’autorizzazione all’associazione “Nessuno tocchi Caino” di accedere negli spazi del carcere duro degli istituti penitenziari sardi nei quali sono attualmente ristretti alcuni dei più rilevanti esponenti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso del Paese. Decisione che è stata percepita come l’ennesima dimostrazione del tentativo, da parte del neo capo del Dap, di “smantellare” il regime del 41 bis. Nello specifico, si sarebbe trattato - come è stato detto - di un permesso “libero”, dal momento che, oltre a non prevedere più l’esclusione delle visite alle sezioni del 41 bis, nulla statuiva in merito alle modalità delle visite, consentendo, ad esempio, di avere colloqui con i detenuti sottoposti a tale regime. In realtà, forse eccessivamente mediatizzata e amplificata la notizia, come spesso accade quando ad essere in discussione sono tematiche che per il nostro Paese costituiscono una ferita ancora aperta, Renoldi, in assenza in quel momento del suo vice, non ha fatto altro se non esercitare le funzioni che la legge gli prescriveva e autorizzava a compiere. Immediatamente, richiesta e acclamata un’audizione in Parlamento della ministra Cartabia e del capo del Dap affinché “riferissero sul caso”. Nel frattempo, il 12 luglio scorso, prima ancora che lo facesse Renoldi, è intervenuto come rappresentante del governo, in un question time davanti alla commissione Giustizia della Camera, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, e ha risposto ad alcuni interrogativi avanzati da più rappresentanti di diverse forze politiche. E il sottosegretario ha lucidamente osservato che: 1) l’atto ispettivo cui era autorizzata l’associazione ha assunto le forme della visita (e non del colloquio), finalizzata come tale alla ricognizione delle condizioni di vita dei soggetti detenuti; 2) le visite, in ossequio alle norme di esecuzione sull’ordinamento penitenziario, possono essere concesse anche a figure diverse dai parlamentari o da altri soggetti istituzionali, purché autorizzate dal Dap, senza peraltro preclusioni in ordine ai reparti visitabili, nemmeno per quelli destinati ai detenuti in isolamento giudiziario (i quali si trovano in una condizione ancor più limitativa di quella discendente dal regime di cui all’articolo 41 bis); 3) le visite consegnavano esiti non certo “edificanti” con riferimento al (cattivo) funzionamento dell’Area sanitaria degli istituti di pena. Sterili e infondate le “accuse” mosse al nuovo capo dell’Amministrazione penitenziaria di voler smantellare, passo dopo passo, il regime di carcere duro. Come precisato dallo stesso sottosegretario Sisto, “in alcun modo le autorizzazioni concesse in passato e da ultimo possono interpretarsi come un cambio di regolamentazione nel ricorso al cosiddetto carcere duro”. È l’appartenenza ad uno Stato di diritto, e non a uno di polizia, che impone culturalmente, prima che giuridicamente, di rinunciare a facili derive giustizialiste in favore di una costante osservanza e opera di affermazione dei principi costituzionali fondamentali dell’ordinamento (a cominciare dal diritto alla salute) stabiliti, senza distinzione alcuna di status detentionis, in favore di ciascun individuo. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Ministero e Ferrovie dello Stato firmano protocollo per reinserimento detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 luglio 2022 Un protocollo d’intesa triennale è stato siglato stamani dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e dall’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Luigi Ferraris per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso percorsi di formazione e un loro possibile impiego in programmi di pubblica utilità e lavori intramurari. “Collaborazioni con aziende prestigiose che operano a livello nazionale costituiscono uno strumento indispensabile perché l’Amministrazione Penitenziaria possa adempiere al meglio al suo mandato istituzionale, offrendo opportunità formative e lavorative importanti per dare un senso alla pena” - ha commentato la Ministra Cartabia, che ha poi voluto evidenziare “aspetti simbolici in quest’accordo: Ferrovie dello Stato evoca l’idea di rete e connessioni, che sono l’opposto - ha aggiunto la Guardasigilli - dell’isolamento che generalmente si accompagna al mondo del carcere”. L’accordo prevede l’istituzione di un tavolo comune con funzioni di verifica delle iniziative avviate e di studio di nuovi progetti. Saranno così pianificati successivi accordi attuativi che verranno sottoscritti per definire nel dettaglio attività formativa e requisiti dei destinatari. L’individuazione delle persone detenute sarà competenza della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che ha promosso questa nuova sinergia tramite la sezione “Mi riscatto per il futuro” - Ufficio Centrale Lavoro Penitenziario. Tra le mansioni che saranno oggetto dei protocolli attuativi, anche interventi di pulizia nelle stazioni sull’intero territorio nazionale nonché attività di accompagnamento e assistenza rivolte a particolari tipologie di passeggeri. All’interno degli istituti penitenziari, invece i detenuti potranno svolgere attività di tipo manutentivo per conto di aziende legate al Gruppo FS. Tutti questi tipi di attività saranno preceduti da adeguati e specifici percorsi formativi che certificheranno le competenze acquisite. Il gruppo FS SPA si aggiunge da oggi alle tante realtà -comuni, aree metropolitane, istituzioni pubbliche, soggetti del settore privato e imprese di grandi dimensioni - che hanno aderito al modello collaborativo di partnership “Mi riscatto per il futuro”, avviato sotto forma di protocolli d’intesa, per l’attuazione di specifici percorsi di formazione e lavorativi che occupino detenuti in servizi a favore della collettività. “La firma di questo protocollo con il Ministero della Giustizia conferma il particolare impegno del Gruppo FS nel sostenere progetti sociali rivolti a persone in condizioni di fragilità e marginalità” - ha dichiarato l’AD di FS Luigi Ferraris - “La solidarietà è infatti un elemento cardine della sostenibilità sociale, e la sostenibilità permea ogni nostra attività. Vorrei ricordare, in questo ambito, i 18 Help Center ospitati nelle nostre stazioni che ogni anno compiono oltre 49mila interventi di assistenza a persone in difficoltà, attivando percorsi di recupero e reintegro sociale. O, ancora, iniziative come il Treno Solidale, che assicura a chi non può permetterselo viaggi in treno per ricongiungimenti familiari o per partecipare a corsi di formazione”. Sono 110 gli accordi siglati e circa 1500 le persone in esecuzione pena che hanno svolto interventi di manutenzione stradale, rifacimento di segnaletiche, manutenzione del verde pubblico, recupero del patrimonio ambientale e altre attività di rilevante impatto sociale. “Quello sottoscritto oggi è un programma molto importante per il DAP e in particolare per la Direzione generale dei detenuti e del trattamento che lo ha avviato - ha sottolineato Vincenzo Lo Cascio, responsabile della sezione “Mi riscatto per il futuro” - Ufficio Centrale Lavoro Penitenziario - E può risultare importantissimo per i detenuti che saranno coinvolti in progetti di formazione professionalizzante che puntano al loro reinserimento sociale mediante il lavoro. Perché il treno - è proprio il caso di dirlo - delle opportunità possa passare una seconda volta anche per loro”. I verbali post Via D’Amelio al Csm ora sono pubblici, ma erano disponibili da anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2022 Fin dagli anni 90 i verbali non erano secretati, ma disponibili nel faldone della procura nissena. Lo stesso Palamara testimonia che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi. L’avvocato Trizzino denuncia: “Sarebbero dovuti entrare nei primi processi Borsellino!”. Si parla di desecretazione dei verbali del Consiglio superiore della magistratura contenenti le audizioni dei magistrati della Procura di Palermo disposte all’indomani della strage di via D’Amelio e tenute nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992. Ma non è corretto. Infatti sul sito istituzionale, il Csm parla di pubblicazione che è ben diverso. Non a caso, i verbali si trovano anche nella Procura di Caltanissetta fin dalla fine degli anni 90 nel faldone dell’allora Gip Gilda Loforti per quanto riguarda l’indagine, in seguito archiviata dalla Gip stessa, nei confronti di alcuni magistrati della procura di Palermo, tra i quali l’allora procuratore capo Pietro Giammanco, in merito alla fuga di notizie (accertata, ma senza colpevoli) del dossier mafia-appalti e corruzione annessa: posizione archiviata perché non sono stati acquisiti elementi certi e univoci sulla presunta indebita percezione di denaro. Nello stesso procedimento è stata archiviata anche la posizione dell’allora Ros Giuseppe De Donno e dell’ex pentito Angelo Siino accusati di calunnia. Si tratta di atti già conosciuti dalla procura di Caltanissetta - D’altronde, lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, precisa che “in realtà si tratta di atti forse inizialmente secretati, ma successivamente resi ostensibili, tanto ciò è vero che sono stati rinvenuti nei fascicoli del procedimento della dottoressa Gilda Loforti degli anni 90. Procedimento a carico di Pietro Giammanco e altri magistrati in relazione alla ipotesi di corruzione per la rivelazione all’esterno del dossier mafia-appalti, che ovviamente avrebbe dovuto rimanere segretissimo. Atti dunque già conosciuti dalla procura di Caltanissetta competente ex ar.11 c.p.p. per reati eventualmente commessi da magistrati del distretto di Palermo”. E amaramente aggiunge: “A mio giudizio dovevano entrare nei fascicoli del pubblico ministero dei primi processi su Borsellino, per consentire a tutte le parti di prenderne conoscenza. E in particolare alla famiglia Borsellino costituita parte civile in quei processi. Questo non è avvenuto. Ed è quello che conta!”. Luca Palamara in Antimafia rivelò che che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi - Ma a chiarire meglio la questione della mancata pubblicazione dei verbali è stesso Luca Palamara quando è stato audito lo scorso anno alla commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata fino a una certa data, evitando di pubblicare quelli tenutasi dopo l’eccidio di Via D’Amelio, “per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura”. Questi sono i fatti. Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992 in procura a Palermo - Così come è un fatto che dalle testimonianze dei magistrati di Palermo al Csm, emerge che Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992, quindi a cinque giorni dell’attentato, e fece importanti rilievi sull’indagine relativa al dossier mafia-appalti. Non solo. Come si evince dai verbali, in particolar modo dall’audizione del magistrato Nico Gozzo, il giudice Borsellino chiese di rinviare la riunione per poter affrontare meglio la questione del procedimento. Ma non fece in tempo. La riunione del 14 luglio - tranne l’agenzia stampa Adnkronos - non viene riportata da nessun’altra agenzia giornalistica. Di conseguenza anche i maggiori giornali così come alcuni magistrati, perennemente presente in tv o sulla stampa, non hanno fatto riferimento all’unica cosa che conta: ovvero su cosa stava puntando Borsellino e che problematiche lui stesso ha riscontrato a cinque giorni del suo omicidio. Ma non importa, il discorso è stato dirottato sulla presunta mancata carriera di chi - dopo la morte di Borsellino e quindi dopo le forti proteste pubbliche da parte dei cittadini palermitani - ha votato una risoluzione per chiedere la sostituzione dell’allora capo Pietro Giammanco. Ma forse bisogna concentrarsi su quello che accadde quando Borsellino era ancora in vita. Nella riunione del 14 luglio Borsellino chiese delucidazioni del dossier “mafia-appalti” - Ritorniamo alla riunione del 14 luglio 1992. Non fu una riunione ordinaria. A dirlo innanzi al Csm è stata il magistrato Vincenza Sabatino. “Mai era stata convocata un’assemblea di questo genere per i saluti in occasione delle ferie estive”, ha sottolineato. Spiega che Giammanco scrisse “vi prego di intervenire all’assemblea d’ufficio che avrà luogo martedì 14 alle ore 17 nel corso del quale verranno altresì trattate problematiche di interesse generale attinenti alle seguenti rilevanti indagini che hanno avuto anche larga eco nell’opinione pubblica”. E infatti, come si apprende leggendo il comunicato, tra i primi posti dell’ordine del giorno compare proprio “mafia-appalti”. Prosegue la dottoressa Sabatino: “È il procuratore che scrive, e lui già si rende conto alla data dell’11 luglio, quando la convoca, che c’è da tempo una situazione di questo tipo, non è soltanto il lancio delle monetine e sputi che avverrà il 19 sera, ma è una situazione che esiste da tempo”. Quindi cosa significa? Che la tensione nel palazzo giustizia di Palermo era palpabile già da tempo, tanto da convocare un’assemblea straordinaria. Borsellino vi partecipò ed è anche il magistrato Luigi Patronaggio a raccontare che il giudice chiese delucidazioni sul dossier mafia-appalti, sottolineando il presunto mancato respiro dell’indagine. Patronaggio, innanzi al Csm, ha precisato che Borsellino “disse espressamente che i carabinieri (i Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr.) si aspettavano da questa informativa (il dossier mafia-appalti, ndr.) dei risultati giudiziari di maggiore respiro”. Alla domanda se si riferisse alla posizione dei politici, Patronaggio ha precisato: “In realtà no, non è solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori, perché il nodo era valutare a fondo la loro posizione e su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione degli imprenditori”. A cinque giorni dalla sua morte Borsellino si fidava dei Ros - Bisogna fare attenzione a tre elementi che emergono durante quella riunione ancora oggi poco considerata nonostante la pubblicazione dei verbali: l’argomento è il dossier mafia-appalti, Borsellino si fa portavoce delle lamentele dei Ros, il giorno prima i pm titolari di quell’indagine avanzarono già richiesta di archiviazione proprio sulle posizioni degli imprenditori. Quindi si evince che, a cinque giorni dalla sua morte, Borsellino si fidava dei Ros e dalle domande che pone si capisce che - almeno fino a quel giorno - i suoi colleghi non avrebbero condiviso con lui l’andamento dell’indagine. Però, i titolari di quell’indagine, sentiti come testimoni al recente processo Borsellino tenutosi presso il tribunale di Caltanissetta, hanno affermato che mai Borsellino fece quei rilievi durante la riunione e che hanno, fin da subito, condiviso con lui l’indagine mafia-appalti. Anche il magistrato Nico Gozzo, sentito dal Csm, parlò dei rilievi che Borsellino fece su mafia-appalti, aggiungendo altri elementi importanti. La sorella di Falcone: “Borsellino mi disse che era molto vicino a scoprire delle cose tremende” - Interessante anche l’audizione della sorella di Giovanni Falcone. Racconta che lei avrebbe voluto andare dalle autorità competenti per parlare delle difficoltà che il fratello aveva avuto nella procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco. Ma Borsellino le disse di avere pazienza e di aspettare: ci avrebbe pensato lui, perché stava acquisendo delle prove, dei documenti. E ha aggiunto: “Borsellino sapeva che doveva competere come un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili. Verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende”. Interessa a qualcuno? Tranne ai figli di Borsellino e all’avvocato Trizzino, sembra che sia più importante sottolineare la presunta mancata carriera di chi, dopo l’eccidio, firmò il documento contro Giammanco. Meglio dirottare il discorso verso il complotto internazionale, le entità, i servizi e la strategia della tensione (tra l’altro anacronistico visto che parliamo degli anni 90). Ma quello che ha fatto e detto Borsellino fino agli ultimi suoi giorni di vita, passa in sordina per l’ennesima volta. “I miei 18 anni in carcere da innocente accusato dal falso pentito Scarantino” di Elvira Terranova La Sicilia, 22 luglio 2022 Parla Tanino Murana, il netturbino palermitano arrestato sulla base delle dichiarazioni del collaboratore: “Il processo non ha fatto giustizia”. “Sono deluso, molto deluso. La mia vita è stata distrutta per le accuse, false, di un uomo come Scarantino. Sono stato in carcere, da innocente, per quasi 18 anni. Si rende conto? Diciotto lunghi anni al 41 bis, il carcere duro. Per un reato mai commesso. E nessuno pagherà per questa ingiustizia. Sì, lo ammetto, sono deluso da questa sentenza. A me mi “arraggia u cori”, sì mi brucia il cuore”. Tanino Murana fa fatica a parlare. L’ex netturbino palermitano è uno dei sette innocenti accusati falsamente dal finto pentito Vincenzo Scarantino di avere avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio. È una delle vittime del “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”, come lo ha definito il giudice Antonio Balsamo, che ha presieduto il processo “Borsellino quater”. Murana, che ha seguito spesso quasi tutte le udienze del processo a carico di tre poliziotti accusati di avere indottrinato il falso pentito Scarantino, finito pochi giorni fa con un’assoluzione e la prescrizione per gli altri due imputati, non nasconde la sua amarezza. “Ho partecipato a numerose udienze ed ero convinto che l’epilogo fosse diverso. Io ho fatto ingiustamente la galera. Ho perso il lavoro, non ho visto crescere mio figlio, ho avuto un infarto. E nessuno pagherà”, dice oggi una in una intervista esclusiva all’Adnkronos. “Sono amareggiato, non voglio commentare questa sentenza, la accetto, ma valutando la mia situazione e gli atti del processo, e il modo i cui i pm hanno valutato minuziosamente i fatti, mi aspettavo una sentenza certamente diversa. E non la prescrizione”. Ma chi è Getano Murana, detto Tanino? Tutto inizia la sera del 17 luglio del 1994. In tv c’è la finale dei Mondiali di Usa 94 Italia-Brasile, e gli occhi di milioni di persone sono incollate sul pallone. Murana sta guardando la tv con la moglie e il figlio, un bimbo di neppure un anno, sta dormendo. Tra il primo e il secondo tempo il telegiornale dà la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, un “picciotto” della Guadagna che Murana conosce di vista, perché vivono nello stesso quartiere. Non sa che poche ore dopo la sua vita sarebbe cambiata per sempre. All’alba del 18 luglio, Tanino esce di casa per andare all’Amia, l’Azienda per la raccolta dei rifiuti di Palermo, dove fa il netturbino. Mentre sta andando al lavoro viene fermato da una macchina di poliziotti in borghese. “Mi fermarono e mi chiesero i documenti. Quello fu l’inizio di un incubo durato 18 lunghi anni con umiliazioni, torture, vessazioni di ogni genere”, dice oggi tra le lacrime. L’inizio di un incubo durato 18 anni. “Sono stato in carcere in due fasi - racconta oggi - Prima dal 1994 al 1999, poi sono uscito per la scadenza dei termini e poi dal 2001 fino al 2011”. Altri undici anni “di inferno”, come dice lui, fino a quando gli viene sospesa la pena, solo grazie al processo di revisione fortemente voluto dalla sua legale, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, battagliera, che fin dal primo processo sulla strage Borsellino ha sempre gridato l’innocenza del suo assistito, insieme con altri sei imputati. Ci sono voluti 14 processi per sapere che Scarantino era un falso pentito. “Tutti sapevano che era tutto falso, era lampante - racconta Murana - Ma gli unici a gridare la nostra innocenza erano il mio avvocato e quelli degli altri arrestati ingiustamente. Il mio avvocato ha portato alla luce la verità. Non senza fatica. Ci hanno nascosto persino i confronti, e ora sono usciti solo grazie ai pm che hanno portato alla luce la verità, con dei riscontri. Alcune volte mi chiedo dov’è la giustizia. Il depistaggio è stato già acclamato, ma chi lo ha fatto? Arnaldo La Barbera (l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, ndr) perché è morto?”. O l’ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “anche lui morto nel frattempo? Lo capisce perché mi “arraggià il cuore”? Perché mi brucia il cuore. Sono stato accusato con infamia di avere partecipato alla strage Borsellino”. Quali sono stati i momenti più duri per Gaetano Murana? “Tutti”, grida quasi di getto. “A partire dal carcere di Pianosa, ma anche il carcere d Caltanissetta. E tutte le varie carceri che ho girato, ho subito soprusi, abusi, soprattutto a Pianosa. Il tutto perché? Per il loro intento di farmi collaborare? Ma cosa dovevo dire? Cosa dovevo dire?”. Parlando delle scuse del Procuratore nazionale antimafia Gianfranco Melillo, che nel giorno del trentennale della strage di Via D’Amelio, ha detto: “Non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori”, Murana allarga le braccia. “Io non ho mai ricevuto le scuse di nessuno - dice -Tranne una sola volta, quando il Procuratore del processo di revisione mi chiese pubblicamente scusa in aula, a nome del Ministero della Giustizia, ma anche a livello personale, per noi che abbiamo vissuto la carcerazione da innocenti e mi diede anche la mano. Quando è finita l’udienza ci ha voluto vedere, e io l’ho apprezzato molto. Per il resto, non ho mai avuto le scuse di nessuno”, aggiunge amareggiato. Non solo. “Nessuno si è preso la briga, da quando sono uscito dal carcere, di darmi un lavoro - rivendica - io avevo un lavoro all’Amia e nessuno me lo ha più ridato. Mi hanno rovinato la vita, oggi ho 64 anni e non è giusto vivere con la speranza di trovare la busta della spesa comprata dai miei genitori o da qualche amico fraterno che mi porta in macelleria e mi dice “Scegli che carne vuoi”. Non è dignitoso. Devo anche occuparmi di mia moglie che è costretta a letto per un ictus che l’ha paralizzata. E non ho l’aiuto di nessuno. Non è giusto”. “Nessuno si è preso la briga di darmi una mano e farmi trovare un posto di lavoro. Un sussidio, niente - dice ancora Murana - Non ho preso nemmeno i soldi del risarcimento danni che ho subito. Ho fatto tutto l’iter, ma ancora niente”. E poi vuole ringraziare pubblicamente la sua legale, Rosalba Di Gregorio, che gli è sempre stata vicino. “Non solo è stata professionalmente eccellente, ma lo è stata anche da punto di vista personale e io non potrò mai dimenticare quello che ha fatto per me. La ringrazio dal profondo del cuore. Non credo che un avvocato si prenda la briga di pensare al suo cliente, e di fargli una telefonata anche solo per chiedergli “Come stai?”. Nessuno lo ha mai fatto. Farei qualunque cosa per lei”. Il figlio di Murana non aveva neppure un anno quando l’ex netturbino fu arrestato. E negli anni in cui è stato al 41 bis lo ha visto solo tre volte l’anno e sempre dietro un vetro. “Ho recuperato il rapporto con mio figlio solo dopo anni - dice - non posso certo recuperare gli anni persi perché è cresciuto senza un padre. Mia moglie gli faceva da padre e da madre...”, dice senza nascondere la commozione. Alla domanda sul perché Scarantino lo accusò falsamente di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, Murana non sa rispondere. “Non lo so, io glielo chiesi, in aula, e lui mi disse: “Mi hanno detto di accusarti”. Eravamo entrambi della Guadagna, un quartiere periferico di Palermo, ma non eravamo amici. Io non gli davo confidenza. Vorrei sapere chi glielo ha chiesto di accusarmi. E perché proprio io. Perché lui, quando è venuto in aula e ha ritrattato tutte le accuse, mi ha detto: “Io non volevo accusarti”, è tutto agli atti”. Poi, si mette le mani sulla testa e la scuote ripetutamente, ribadendo: “Io non sono stato creduto, nonostante fossi innocente, e lui sì. I giudici hanno creduto a un bugiardo. E non a un incensurato come me”. E ribadisce: “Hanno vestito il “pupo”, lui faceva la recita. Come i bambini quando vanno a scuola. Ed è stato creduto. Per anni e anni, mentre io marcivo in galera, al carcere duro”. E aggiunge: “Capisce perché sono così deluso da questa sentenza? Non me l’aspettavo, non è stata fatta giustizia. Dopo 30 anni la verità ancora non si conosce. Anche se qualcosa si è saputo”. E spiega che la pubblica accusa “ha portato in aula le prove”, come il pm Stefano Luciani. “Non le chiacchiere, i fatti. Ma oggi non so a chi o a cosa credere più...”. Però una cosa vuole dirla, Tanino Murana: “Io ci credo ancora nella giustizia, anche se questa sentenza, per come si è svolto il processo, dimostra che non è stata fatta giustizia. Perché c’è un depistaggio, acclamato in sentenza, ma ad oggi non si sa da parte di chi e perché”. E conclude con un appello: “Nessuno mi ha dato una mano per farmi sopravvivere. Ho perso il lavoro a poco più di 30 anni e non l’ho mai più riavuto. Oggi sono cardiopatico, ho avuto un infarto. Ho la colonna vertebrale scassata, perché me l’hanno massacrata nel carcere di Pianosa, dove dicevano che ci trattavano bene. No, non me lo meritavo tutto questo...”. La casa degli uomini violenti di Carlo Bonini e Sabina Pignataro La Repubblica, 22 luglio 2022 Chi aiuta i responsabili di violenze sulle donne? Inchiesta sui Centri di sostegno e recupero dei “maltrattanti”. Poco più di un mese fa, a Vicenza, Zlatan Vasiljevic uccide l’ex compagna, Lidia Miljkovic, con la quale aveva avuto due figli, e Gabriella Serrano, con la quale conviveva. Nel 2019 era stato arrestato per avere ripetutamente maltrattato la moglie e nel 2020 era stato seguito per sette mesi da un centro dedicato agli uomini autori di violenza: venti colloqui della durata di 50 minuti con uno psicologo dell’associazione Ares di Bassano. Colloqui che secondo la relazione del dottor Giulio Gasparini si sono svolti “con puntualità e sincero coinvolgimento”. “Noi certifichiamo solo la frequenza al corso e ci atteniamo al protocollo”, dicono da Ares. Poche ore dopo Antonella Veltri, la presidente di D.i.Re - Donne in rete contro la violenza tuona: “I percorsi dedicati ai maltrattanti sono presentati come la ‘panacea’ di tutti i mali e stanno diventando una sorta di scorciatoia per la riabilitazione dei violenti. Non basta un breve percorso per un cambiamento profondo e per arginare la violenza”. Siamo dunque partiti da qui per provare a capire cosa facciano esattamente questi centri, quanti siano, come funzionino. E, soprattutto, chi verifichi l’efficacia del loro intervento. Otto su dieci non ce la fanno - Conviene partire da un dato: “In assenza di un intervento di supporto, oltre otto uomini maltrattanti su dieci (85%) tornano a commettere violenze contro le donne. Coloro che riescono a ritrovare autonomamente un equilibrio dopo un primo episodio di violenza sono una minoranza esigua”. Il dato è contenuto nella Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere approvata il 25 maggio dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente. “Limitarsi a punire, senza attivare un trattamento - spiegano gli esperti - non produce alcun effetto preventivo. Anzi peggiora la situazione” perché, si legge nel documento, “la detenzione tende a rinforzare ulteriormente i sentimenti di rabbia di questi uomini, la percezione di sé come vittima e il desiderio di vendicarsi nei confronti della donna, recidivando comportamenti violenti ed esponendola a rischi di escalation di violenza”. Con severe conseguenze anche per i suoi bambini o ragazzi. Il comportamento violento infatti spesso può essere appreso dai figli e replicato anche a distanza di molti anni. Secondo l’Istat molti degli uomini autori sono stati a loro volta vittime o testimoni di violenza da bambini: “I figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre o che l’hanno subita hanno una probabilità maggiore di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime. Dai dati emerge chiaramente che i maschi imparano ad agire la violenza, le femmine a tollerarla”. Potrebbe bastare questo elemento per convincerci dell’importanza di una diffusione capillare dei centri dedicati agli uomini autori di violenza. Invece non è così, perché questi servizi oggi mostrano ancora parecchie criticità. La motivazione - Come si legge nella relazione del Senato, essendo il trattamento sugli uomini autori di violenza finalizzato ad una presa di consapevolezza dei propri agiti e ad evitare che tali agiti si ripetano nel futuro, la motivazione che spinge il soggetto a intraprendere il percorso è di primaria importanza, così come avere ben chiaro se qualcuno l’ha sollecitato oppure obbligato. Oggi sono rari i casi in cui gli uomini accedono al percorso in virtù di una domanda spontanea, dopo aver riconosciuto di essere a rischio di commettere violenza di qualsiasi genere, fisica come psicologica o economica. Spesso al contrario prendono contatto con un centro specializzato perché inviati dalle Forze dell’ordine, dai giudici oppure dai servizi sociali. Per chiarire: il primo caso (invio da parte delle forze dell’ordine) si manifesta in accordo con quanto previsto dal Protocollo Zeus, siglato nel 2018 tra il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM) e la Divisione anticrimine della Questura di Milano e successivamente attivato in più di 30 questure. Il progetto, il cui nome evoca il primo maltrattante (noto) della storia, prevede che i destinatari dell’ammonimento del questore per atti persecutori, violenza domestica e cyberbullismo siano spinti a frequentare un programma di prevenzione organizzato dai servizi del territorio. Tale invito non è obbligatorio ma, essendo l’uomo “attenzionato”, è fortemente suggerito. L’obiettivo? Troncare sul nascere l’agire inadeguato e violento, per evitare che gli Zeus in erba si trasformino in despoti. Nel secondo caso l’accesso al trattamento avviene attraverso la normativa del ‘Codice Rosso’, entrata in vigore il 9 agosto 2019, in base alla quale il giudice può decidere di inviare l’autore ad un percorso trattamentale specifico. In questo caso il percorso - che prevede un contributo economico da parte dell’autore di violenza - può essere vissuto sostanzialmente come un obbligo da adempiere e quindi affrontato senza il necessario coinvolgimento. L’obiettivo che l’uomo si propone potrebbe essere in primo luogo strumentale, ossia scongiurare la detenzione o alleviare la pena. Nel terzo caso, l’avvio di un percorso viene suggerito dall’assistente sociale, con l’obiettivo di individuare la soluzione migliore per le cure e la crescita dei minori in caso di affidamento. In Italia, infatti, anche in presenza di un genitore autore di violenza si dà la priorità a che un figlio mantenga i contatti con lui, in nome del principio della bigenitorialità e nella convinzione che un uomo autore di violenza verso una compagna possa comunque essere un buon padre. Una pratica tanto rischiosa quanto pervasiva: “Nella quasi totalità dei casi (96%) i Tribunali ordinari non approfondiscono gli atti relativi alle violenze, tanto che i minori vengono affidati nel 54% dei casi alle madri, ma con incontri liberi con il padre violento”: lo scrive - per l’ennesima volta - la Commissione di inchiesta sul Femminicidio nella relazione sulla vittimizzazione secondaria (13 maggio 2022), dopo aver esaminato circa 1500 fascicoli processuali. L’esperienza del CAM - Il Centro di ascolto uomini maltrattanti (CAM) di Firenze è un buon termometro per capire come sono si sono spostate le motivazioni degli utenti negli ultimi anni. Dal 2009 questo centro ha assistito 1200 uomini. Il CAM nasce da un progetto dello storico Centro antiviolenza Artemisia di Firenze e oggi ha sedi nel capoluogo di regione, a Prato, Pistoia, Empoli e Montecatini; lavora inoltre nelle carceri fiorentine Sollicciano e Gozzini, in quella di Santa Caterina in Brana (Pistoia) e alla Dogaia (Prato). “Nei primi dieci anni, fino al 2019 circa, a chiamarci erano soprattutto gli uomini che avvertivano, spontaneamente, che qualcosa non andava nei propri comportamenti (raramente anche i famigliari preoccupati dall’uso della violenza fatta da una persona conosciuta)”, spiega Mario De Maglie, psicologo e psicoterapeuta, vicepresidente del CAM. Le cose sono cambiate in concomitanza delle novità legislative (il Codice Rosso è entrato in vigore il 9 agosto 2019). “Da inizio 2022, per fare un esempio, ci hanno contattato 129 uomini di cui 32 volontari e 61 inviati da assistenti sociali e avvocati (di questi 29 con indicazione del giudice)”. “I volontari minimizzano, difficilmente negano. Gli ‘obbligati’ negano, difficilmente minimizzano”, chiarisce De Maglie. “Gli uomini che ci contattano spontaneamente riescono a percepire in modo chiaro che qualcosa non va nella relazione, possono ancora non capire che i problemi maggiori sono dati dal loro comportamento violento, possono quindi non riconoscerlo ancora come tale, ma sono in grado di chiedere aiuto per capire”. Un episodio di violenza più forte del solito, l’intervento delle forze dell’ordine, la donna che si separa da loro, il disagio dei figli fanno sì che questi uomini comincino a mettersi in discussione. “Talvolta ci sono anche uomini che ammettono sin da subito che hanno avuto comportamenti violenti e vogliono cambiare”. Al contrario, aggiunge, “gli uomini inviati dalle autorità giudiziarie, dagli avvocati o dai servizi sociali non credono di dover cambiare, ma solo di dover prendere parte al percorso per non subire delle conseguenze dei propri comportamenti”. Cosa fa il Cam di Firenze Stella Cutini, psicologa e psicoterapeuta del Centro di ascolto uomini maltrattanti di Firenze, racconta la storia e illustra le attività della onlus. “Lo staff del CAM è composto da psicologi, psicoterapeuti, psichiatri ed educatori, sia donne che uomini. Il trattamento prevede una prima fase di accoglienza individuale, attraverso una serie di colloqui (anche telefonici) tesi a capire meglio la motivazione dell’uomo, la situazione di maltrattamento in atto ed effettuare una valutazione del rischio iniziale”, spiega Mario De Maglie. “Alcuni uomini non vengono ammessi al trattamento perché valutati non idonei a causa di una spinta motivazionale inesistente, di un atteggiamento eccessivamente oppositivo o perché non conoscono sufficientemente bene la lingua italiana, in quanto stranieri”. A tal proposito però vale la pena ricordare, come messo in evidenza dal rapporto dell’associazione nazionale D.i.Re - Donne in rete contro la violenza sui dati 2021, che “l’autore della violenza è prevalentemente italiano (nel 73% dei casi) e questo dato, oramai consolidato negli anni, mette in discussione lo stereotipo diffuso che vede il fenomeno della violenza maschile sulle donne ridotto a retaggio di universi culturali situati nell”altrove’ dei paesi extraeuropei”. Se l’uomo è ritenuto idoneo, chiarisce De Maglie, “accede ad un trattamento di gruppo psicoeducativo della durata indicativa di circa 9 mesi, un’ora e mezzo a settimana. Nel gruppo vengono forniti degli strumenti attraverso i quali gli uomini imparano a riconoscere meglio i propri comportamenti e a valutarne l’impatto sugli altri. Per le situazioni su cui si ritiene di poter ancora lavorare c’è la possibilità di un lavoro di carattere più terapeutico di una durata maggiore, in cui viene dato spazio ai vissuti e alle storie di vita dei partecipanti”. Uno su quattro lascia il percorso Un altro elemento rilevante per la valutazione dell’impatto dei trattamenti riguarda la capacità dei partecipanti di portarli a termine. Stando a quanto riportato nella relazione della commissione d’inchiesta sul femminicidio, solo “un uomo su quattro lascia il percorso prima di concluderlo”. Secondo De Maglie, “il tasso di abbandono è molto basso poiché le nuove leggi chiedono agli uomini il rispetto del programma per non avere poi complicazioni processuali. Ad ogni modo - sottolinea- nei nostri percorsi è molto importante riuscire a dare conto dell’effettivo percorso svolto, non solo della frequenza, elemento necessario ma non necessariamente predittivo di un cambiamento reale”. La relazione del Senato non a caso usa l’espressione ‘uomini autori di violenza’ invece di ‘uomini violenti o maltrattanti’. La scelta, si legge nel documento, corrisponde ad una ben precisa scelta politica: attiene infatti alla convinzione che vi sia la possibilità di lavorare sui comportamenti, provocandone un cambiamento. Pur riconoscendo che non tutti gli uomini autori di violenza cambieranno. I centri dedicati agli uomini autori di violenza di genere restano ancora uno strumento scarsamente utilizzato nelle attività di contrasto alla violenza nelle relazioni intime. Questo malgrado il trattamento degli uomini autori di violenza, in un’ottica di prevenzione rispetto a nuove violenze e di modifica dei comportamenti violenti, sia esplicitamente previsto dall’articolo 16 della Convenzione di Istanbul del 2011, che individua nell’attuazione di percorsi di rieducazione “uno degli interventi fondamentali nella strategia di contrasto alla violenza domestica e di genere, nel presupposto che il supporto e i diritti umani delle vittime siano una priorità e che tali programmi siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime”. Nonostante il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020 prevedesse proprio l’attivazione di percorsi di rieducazione, oggi è persino difficile scoprire quanti siano e dove si trovino: gli unici dati disponibili (elaborazioni Istat su dati CNR - IRPPS) sono fermi al 2017, quando erano attivi meno di settanta punti di accesso sul territorio nazionale, concentrati maggiormente nel Nord Italia, soprattutto in Emilia-Romagna e Lombardia. Oggi non si sa quanti siano. Se un uomo, in un momento di consapevolezza, volesse attivarsi personalmente, avrebbe un’unica possibilità: interrogare i motori di ricerca. E sperare poi che qualcuno risponda al telefono, alla mail, o che il centro sia aperto tutti i giorni e magari per più di un’ora al giorno. In bocca al lupo. Esiste una rete nazionale, Relive, che raccoglie alcuni centri e associazioni; tuttavia questa rete, come conferma Silvia Baudrino, “non raccoglie nessun dato dai centri a causa di scarse risorse, anche economiche2. Sul sito non c’è una mappa dei centri: occorre spulciare alla voce ‘soci fondatori, soci ordinari, soci aderenti’. Anche questo non aiuta. Gli investimenti pubblici È probabile che nuovi centri e servizi dedicati agli uomini autori di violenza nascano nei prossimi mesi. Il Governo infatti ha messo sul piatto quasi 9 milioni di euro, ingolosendo anche chi non ha competenze o esperienze pregresse. Per distribuire tali risorse è tuttavia indispensabile l’attivazione dell’accreditamento nazionale dei centri: al momento anche su questo aspetto c’è nebbia fitta e manca un processo finalizzato alla documentazione e valutazione del lavoro svolto e all’individuazione di criteri e verifica di qualità dei servizi. “In attesa di linee guida nazionali - commenta la senatrice Valente - oggi, accanto a chi mette la propria professionalità e organizza da anni percorsi di recupero di alta qualità con serietà, vi possono essere realtà che senza la dovuta esperienza e qualifica si organizzano rapidamente approfittando dell’opportunità ‘di mercato’ che la normativa ha creato”. Anche districare questa matassa di finanziamenti è difficile, dato che arrivano da ministeri e programmi diversi. Del resto, come racconta il dossier di ActionAid Cronache di un’occasione mancata pubblicato a novembre 2021, “le attuali politiche antiviolenza continuano ad essere, per scelta politica, isolate, frammentarie, scarsamente trasversali e per nulla integrate”. Ad ogni modo, stanziare i fondi non basta: i Centri antiviolenza conoscono molto bene la difficoltà di far arrivare a destinazione le somme promesse dal Governo. Come racconta ancora il dossier di ActionAid, al 15 ottobre 2021 le Regioni hanno erogato alle Case rifugio e ai Centri antiviolenza il 71% dei fondi dell’anno 2017; il 67% di quelli previsti per il 2018; il 56% di quelli del 2019 e soltanto il 2% dei 27,5 milioni messi a disposizione nel 2020. Nello stesso anno la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti aveva stabilito uno stanziamento di 3 milioni di euro per le spese straordinarie sostenute dalle Case rifugio per la pandemia: nel novembre 2021 risultava liquidato solo l’1%. Come ricorda il report sui dati 2021 di D.i.Re - Donne in rete contro la violenza, “l’attività dei centri si sostiene per gran parte sul ‘lavoro volontario delle attiviste, di cui’ solo il 33% è retribuito, anche a causa della scarsità e non strutturalità dei fondi”. Come misurare l’efficacia degli interventi Questo è un altro dei punti deboli che attengono al funzionamento dei centri: non ci sono linee guida nazionali, ogni centro ha il suo protocollo, i suoi criteri. Ottenere un dato sulle recidive, poi, è come cercare l’acqua nel deserto: quasi nessuno ne ha idea. “Per avere un dato sulla recidiva dovremmo continuare a seguire gli uomini una volta terminato il percorso, ma questo non ci è possibile”, chiarisce De Maglie, il vicepresidente del CAM. “Terminato il percorso vengono fatte delle valutazioni che vengono fornite al giudice o agli avvocati in cui esprimiamo un parere positivo/negativo su quanto ottenuto oppure sottolineiamo le criticità che a nostro avviso permangono. Dopodiché si conclude il nostro rapporto con l’uomo, a meno che non ci ricontatti il soggetto stesso, oppure le autorità giudiziarie. Se l’uomo non è più seguito o è libero dal processo non c’è modo di operare delle verifiche attendibili”. Il CAM comunque dal 2017 ha adottato un protocollo proposto dall’Associazione europea Work with Perpetrators in collaborazione con l’Università di Bristol e con il Center for Gender and Violence Research, che è diretto da una delle maggiori esperte in ambito europeo sulla valutazione dei trattamenti per autori, Marianne Hester. Un rapporto è atteso per il prossimo autunno. “I Centri per il trattamento degli uomini autori di violenza sono chiamati a un difficile salto di qualità per rispondere pienamente agli obiettivi che si attribuiscono loro”, commenta la senatrice Valeria Valente. “Ad oggi, spesso sono realtà non sufficientemente strutturate, poco supportate e diffuse in modo disomogeneo sul territorio nazionale”. Per il futuro, “chiediamo che ci siano standard di qualità e formazione degli operatori e diciamo no alla guerra tra poveri: i centri per gli uomini maltrattanti non devono contendere le risorse ai centri antiviolenza, ma far parte di una rete per la quale vanno aumentate le risorse”. Focus su Milano “In questi 17 anni, dopo il nostro trattamento, solo il 3% è tornato a commettere violenza”. Intervista a Francesca Garbarino, vicepresidente del CIPM. Dal 2005, il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM) ha seguito circa 1600 uomini autori di violenza domestica sul territorio milanese e 550 circa in ambito detentivo presso gli Istituti di pena di Bollate, Opera, San Vittore: “Dopo il nostro intervento il tasso di recidiva oscilla tra il 3 e il 4%”, spiega Francesca Garbarino, criminologa clinica e vicepresidente del CIPM. Da luglio 2021, il CIPM coordina anche uno dei centri (gratuiti) dedicati agli uomini autori di violenza di Milano, il CeOM. Garbarino, chi sono gli uomini che si rivolgono a voi? Da luglio 2021, il CeOM ha registrato complessivamente 92 accessi, dei quali 69 hanno avviato percorsi di trattamento, mentre 10 casi sono ancora in fase di valutazione. Sono in prevalenza italiani (65 su 92). La maggior parte di loro ha iniziato un percorso di riabilitazione su segnalazione delle forze dell’ordine o dei giudici (56), oppure dei servizi territoriali (24). Per ora gli uomini che sono arrivati spontaneamente perché preoccupati per il proprio comportamento nell’ambito delle relazioni intime sono pochi: 12, cioè meno del 15% del totale. Che tipo di lavoro viene fatto? A seconda dei casi e delle situazioni (uomini autori di violenza provenienti dal circuito penale, oppure su invio di servizi territoriali o per accesso spontaneo), vengono utilizzate metodologie differenti, che prevedono un approccio criminologico oppure psicoeducativo, percorsi individuali e di gruppo. Quanto dura un percorso? Dipende da diversi fattori, quali ad esempio il livello di motivazione e di consapevolezza dell’autore di reato o il livello del rischio. Ad esempio, un percorso connesso ad una condanna per la nostra esperienza dura almeno un anno. Un aspetto determinante del trattamento è il lavoro di rete con i servizi e le istituzioni che hanno in carico il caso. Può spiegare? Il CeOM è il cuore di un progetto sperimentale più ampio, denominato U.O.MO. (Uomini, Orientamento e Monitoraggio). Finanziato da Regione Lombardia, con la regia di ATS Città Metropolitana, U.O.MO. struttura un sistema di presa in carico e di interventi per uomini autori di violenza con alcune tra le maggiori realtà del territorio esperte in quest’ambito (CIPM, Fondazione Somaschi, Cooperativa Sociale Onlus Dorian Gray, Progetto SAVID dell’Università degli Studi di Milano, Centro di Ricerca ADV dell’Università Milano-Bicocca). È importante che chi si occupa degli autori di reato collabori con gli operatori dei centri antiviolenza, come prevede la Convenzione di Istanbul. L’obiettivo comune è la tutela della vittima. Quanto sono efficaci questi percorsi? L’obiettivo principale di questi percorsi trattamentali è l’abbattimento del tasso di recidiva, cioè il fatto che l’uomo possa compiere ulteriori violenze nei confronti delle donne e dei figli. Gli uomini seguiti dal CIPM in questi 17 anni di lavoro hanno avuto un tasso di recidiva che oscilla tra il 3 e il 4%. Si tratta di un dato ‘spannometrico’, non scientifico, in quanto non è stata effettuata una ricerca in merito. Il progetto U.O.MO. sta effettuando una ricerca insieme all’osservatorio ADV - Against Domestic Violence coordinato dalla professoressa Marina Calloni all’Università Bicocca, con un duplice obiettivo: misurare l’efficacia dei percorsi e creare delle Linee guida per favorire la collaborazione tra i servizi. Nel frattempo sono molto incoraggianti i dati del Protocollo Zeus, stipulato nel 2018 tra la Questura di Milano e il CIPM per l’invio a un percorso trattamentale di chi viene “ammonito” a seguito di atti persecutori o della segnalazione di comportamenti prodromici a reati di violenza di genere. Tra i soggetti inviati al CIPM dal 5 aprile 2018 al 16 marzo 2022, il 77% si è presentato; tra questi, la percentuale di recidiva è dell’11,95%, mentre tra i soggetti che non hanno ottemperato all’invito del questore di partecipare ai colloqui al CIPM la percentuale di recidiva sale al 15,95%. Caso Cucchi, a sette ora dalla prescrizione arriva la condanna per “falso” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 luglio 2022 Il lungo processo. La Corte d’Assise di Appello di Roma ha inflitto 3 anni e 6 mesi di reclusione al maresciallo Roberto Mandolini e a 2 anni e 4 mesi al carabiniere. Quando mancavano poco più di sette ore alla prescrizione del reato, scattata ieri a mezzanotte, la Corte d’Assise di Appello di Roma ha condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione il maresciallo Roberto Mandolini e a 2 anni e 4 mesi il carabiniere Francesco Tedesco per il reato di falso nell’ambito del processo bis per l’uccisione di Stefano Cucchi. Era stata la corte di Cassazione, ad aprile, a disporre un appello bis solo per i due militari accusati di aver attestato il falso nel verbale d’arresto (confermata invece la condanna a 12 anni per omicidio preterintenzionale ad Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri che pestarono il geometra romano mentre era in stato di fermo). Potrebbero ora ricorrere in Cassazione di nuovo e sfruttare la prescrizione, i due esponenti dell’Arma: Mandolini, che nell’ottobre 2009 era comandante della stazione Appia dove venne portato Cucchi dopo il pestaggio, e Tedesco, il carabiniere che aveva assistito alle violenze ma non parlò per anni fino a quando, durante il processo bis, decise di rompere il muro di omertà e accusò i suoi due colleghi. Per l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi, Mandolini è “responsabile esattamente come gli autori dell’omicidio di Stefano, perché se avesse fatto il suo dovere e non avesse fatto quei falsi probabilmente il caso Cucchi non sarebbe mai esistito”. È ingiusta detenzione anche quella subita dopo la condanna durante la fase di esecuzione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2022 La riparazione è dovuta per gli errori di calcolo dell’ordine esecutivo che determinano periodi pena “sine titulo”. La Cassazione prosegue sulla strada interpretativa già tracciata di riconoscere il ristoro per l’ingiusta detenzione “comunque subita” cioè anche anche in fase non cautelare e da chi non vi abbia concorso con comportamenti dolosi o colposi. La sentenza n. 28452/2022 ha annullato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di riparazione in un caso in cui a segutio dello scomputo dei giorni riconosciuti a titolo di liberazione anticipata la detenzione subita risultava di fatto superiore al calcolo di quella residua. La norma “allargata” - In effetti l’articolo 314 del Codice penale parla esplicitamente solo di indennizzo per la custodia cautelare subita da chi è stato prosciolto con formula pienamente liberatoria dalla responsabilità penale inizialmente imputata. Però - secondo la pronuncia della IV sezione penale - un’interpretazione costituzionalmente orientata e rispettosa dell’articolo 5 della Cedu non può che condurre a ritenere meritevole di riparazione qualsiasi privazione della libertà personale applicata sine titulo. Già la Corte costituzionale nel 2018 aveva allargato le ipotesi di ingiusta detenzione a tutti quei casi in cui per vicende processuali quali, ad esempio, la remissione della querela la detenzione sofferta era ab initio o successivamente priva di fondamento giuridico. Infatti, l’articolo 314 del Codice si riferisce espressamente ai casi di proscioglimento per non aver commesso il fatto, perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato. Al contrario, di quanto “riaffermato” ora dalla Cassazione penale i giudici di merito avevano letto la sentenza costituzionale come un intervento che ampliava l’operatività dell’istituto dell’ingiusta detenzione però con esclusione di tutte le ipotesi in cui la discrasia tra pena subita e quella che andava in realtà eseguita consegue a vicende successive alla condanna. Invece nel dettare il principio di diritto cui deve attenersi il giudice del rinvio la Cassazione precisa che i ritardi nell’adozione di un corretto ordine di esecuzione che tenga conto degli errori di calcolo commessi in precedenza nella fase esecutiva post condanna rilevano ai fini del diritto alla riparazione a meno che non vi sia il concorso in tale ritardo da parte del condannato. Nel caso concreto i giudici di merito, che avevano respinto la richiesta di indennizzo, sottolineavano l’inerzia del condannato che non aveva fatto ricorso tempestivamente contro l’errore di calcolo contenuto nell’ordine di esecuzione. Se tale circostanza possa integrare anche solo la colpa del condannato sarà da vedere nella pronuncia di rinvio. Omicidio colposo per conducente che provoca incidente sapendo di poter avere crisi epilettica di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2022 I giudici non escludono la mancanza di prudenza e diligenza per il fatto che all’automobilista fosse stata rinnovata la patente. La Cassazione conferma la responsabilità dell’automobilista per l’omicidio colposo di un pedone travolto dalla macchina “fuori controllo” del ricorrente quando questi aveva avuto una perdita di coscienza a causa di un attacco epilettico. La sentenza n. 28435/2022 ha chiaramente affermato che chi è consapevole di essere affetto da una malattia che può determinare repentine perdite di coscienza non deve porsi alla guida. E anche nel caso in cui la commissione competente per il rinnovo della patente pur conoscendo la cartella clinica dell’automobilista gli ha rilasciato il titolo abilitativo alla guida stradale. In realtà questo aspetto è stato totalmente pretermesso nella decisione di legittimità che ha confermato la responsabilità penale del ricorrente. La colpa nonostante l’abilitazione - La Cassazione precisa al contrario punto per punto quale livello di conoscenza della propria malattia determina la colpa di chi commette il reato per un deficit cognitivo dovuto a manifestazioni morbose. Dunque non basta che sia diagnosticata una malattia come l’epilessia per escludere la buona fede dell’automobilista che si pone alla guida confidando di potersi fermare nel caso dovesse percepire le avvisaglie di una crisi. Ma se per la storia clinica il soggetto sa di essere stato vittima di episodi di perdita di coscienza e che ciò si possa ripetere scatta la colpa per essersi posto alla guida nel caso ne derivi un incidente dovuto proprio a una delle manifestazioni “prevedibili” della malattia. Non si tratta di accidente imprevedibile come può essere l’infarto di chi non è clinicamente accertato quale soggetto a rischio. Nel caso concreto, invece, le crisi epilettiche erano state diverse durante l’anno e il ricorrente sapeva di non aver azzerato il rischio assumendo la specifica terapia farmacologica a cui era risultato resistente. In tal caso viene meno la diligenza e prudenza richiesta dal Codice della strada a chi conduce veicoli e sorge invece la colpa che integra l’elemento soggettivo del reato di omicidio stradale. Infine la Cassazione fa rilevare che l’epilessia rientra tra le categorie più gravi per la guida stradale e che necessita controlli medici per il rinnovo della patente. Tutto chiaro se non l’aspetto indiscusso che il ricorrente conduceva l’automobile essendo in possesso di un valido titolo di guida senza aver nascosto la propria patologia in sede di rinnovo. Pavia. Omicidio della Buccella: Michael Mangano si è tolto la vita in carcere di Umberto Zanichelli informatorevigevanese.it, 22 luglio 2022 Lo scorso mese di aprile il Gip del Tribunale di Pavia lo aveva condannato alla pena di 8 anni di reclusione per l’omicidio preterintenzionale di Filippo Incarbone, l’autotrasportatore di 49 anni morto nella notte tra il 4 ed il 5 gennaio dello scorso anno in un appartamento di via Buccella 55 e il cui corpo era stato poi gettato nelle acque del Ticino. Michael Mangano, 33 anni, si è tolto la vita nella notte nel carcere di Pavia dove era detenuto. Da quello che trapela avrebbe utilizzato un sacchetto di plastica. Domani è previsto il giuramento dei periti che sabato effettueranno l’autopsia, il dottor Maurizio Merlano ed il dottor Luca Morini, che si occuperà degli esami tossicologici. A febbraio il Gup aveva derubricato il capo d’imputazione da omicidio volontario pluriaggravato ad omicidio preterintenzionale e occultamento e distruzione di cadavere. L’altro imputato, Gianluca Iacullo, 45 anni, è stato invece assolto a giugno dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano dall’accusa di omicidio preterintenzionale; erano rimaste in piedi invece le accuse di occultamento e distruzione di cadavere. La pena per lui ea così scesa da 6 anni a un anno e 4 mesi di reclusione. Ferrara. “Carcere sovraffollato, servono più investimenti sulle misure alternative” di Domenico Bedin Il Resto del Carlino, 22 luglio 2022 Nei giorni scorsi presso la Casa circondariale di Ferrara è stato presentato a 15 detenuti un vademecum per aiutare coloro che sono ristretti a conoscere, saper chiedere ed eventualmente ottenere le misure alternative al carcere contemplate dalla legge. Iniziativa lodevole che va fatta conoscere anche a tutta la cittadinanza perché spesso in maniera superficiale e gretta si sente dire: “che resti in galera fino all’ultimo giorno”. Neppure si riconoscono i problemi del reinserimento o della possibilità di scontare la pena in forme più costruttive o anche riparative. Non si vuole riconoscere che la ricaduta nei reati (recidiva) diminuisce quando le persone detenute praticano un reinserimento graduale nella società. Ho accolto recentemente un detenuto dopo 16 anni di carcere. I primi giorni non si orientava con i punti cardinali, non sapeva prendere l’autobus e non riusciva a stare in una piazza senza essere colto dal panico. Insomma le leggi che prevedono, consentono e promuovono le misure alternative non solo abbassano il sovraffollamento ma aiutano in generale anche la società abbassando i reati e le ricadute. Mi permetto però di ricordare a tutti, soprattutto agli amministratori e ai politici sia locali che nazionali, che in genere le misure alternative vengono sfruttate da coloro che hanno buoni mezzi economici, un contesto parentale forte e una casa o un lavoro che garantisca loro le condizioni pratiche per ottenerle. Chi è povero, solo, magari senza conoscenze nel territorio o senza un avvocato rischia di farsi tutta la carcerazione. Da tanti anni, andando in carcere, rispondo con particolare attenzione proprio a chi ha meno opportunità offrendo concrete accoglienze per le misure alternative. Io stesso vivo poi in comunità con loro presso un’azienda agricola sociale chiamata ‘Parco Contadino’. La cosa che però mi stupisce è che non ci siano investimenti economici a sostegno delle misure alternative. Tranne qualche soldo per quattro posti per i ‘dimittendi’ non si trova un euro per sostenere le associazioni che si dedicano a questo tipo di accoglienza. Sarebbe un investimento che poi potrebbe autofinanziarsi in quanto si basa sul coinvolgimento attivo dei detenuti stessi in attività produttive. In questo periodo di vacanze sento spesso pubblicità che invitano a salire sulle navi da crociera… ma se le navi non vengono costruite o non vengono rifornite di carburante non si va da nessuna parte. Napoli. Bimbi che crescono in carcere e quartieri abbandonati: così i giovani non li salviamo di Riccardo Polidoro Il Riformista, 22 luglio 2022 La cronaca di questi giorni ha dato risalto a numerosi episodi di violenza minorile. Guerre tra bande, sfregi in volto, bullismo, aggressioni a turisti hanno riempito le pagine dei quotidiani napoletani. Come era prevedibile si è riaperto il dibattito sull’abbassamento dell’età imputabile da 14 a 12 anni. Tra le voci favorevoli a tale modifica, ha sorpreso quella del presidente del Tribunale dei minorenni di Napoli che, in un’intervista, ha affermato che andrebbero puniti anche i genitori. L’autorevole dichiarazione pone una serie di interrogativi e vale la pena citare la riflessione dello scrittore Lorenzo Marone, dopo la sua visita all’Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri (ICAM) di Lauro, riportata sulle pagine di questo giornale. “…C’è anche un grande paradosso ed è legato al fatto che quei bambini, provenienti da situazioni di degrado sociale, trovano la cura, la presenza e l’assistenza dello Stato solo quando entrano nell’Icam…”. È, infatti, assurdo ed incredibile che ciò avvenga proprio nel luogo dove mai i bambini dovrebbero entrare: tra sbarre, cancelli, serrature. Dove il mondo non è “dei balocchi” e la realtà, quanto l’immaginario, non lascia spazio ad una vita normale, perché anche la vista dell’orizzonte è negata, con tutte le conseguenze che ciò potrà comportare sullo sviluppo psico-fisico. L’analisi sulla delinquenza minorile non può prescindere dal farsi carico di un mondo che, invece, si vuole dimenticare e poi distruggere. Noi siamo i buoni, i cattivi li puniamo. Se si consente che bambini crescano in carcere, che interi quartieri della città siano del tutto privi di strutture di accoglienza culturale, che la dispersione scolastica raggiunga cifre altissime, che la stessa istruzione abbia limiti enormi, che il degrado educativo caratterizzi parte della gioventù, dobbiamo porci delle domande e non promuovere inutili soluzioni che aggraverebbero la già drammatica situazione. Punire dai dodici anni in su e non più dai quattordici, potrà mai davvero risolvere qualcosa? E gli undicenni? E i “muschilli”, corrieri della droga a dieci anni? Puniamo anche loro? La deleteria cultura carcerocentrica che imperversa nel nostro Paese, dovrebbe almeno fermarsi dinanzi a giovani vite cresciute a pane e reati. La convivenza sociale non è una guerra e lo Stato ha il dovere di offrire opportunità a tutti. C’è chi ha la fortuna - non bravura - di partire avvantaggiato, perché nato in una famiglia sana e c’è chi ha la sventura - non colpa - di nascere in un contesto familiare problematico, dove l’illegalità fa parte della vita quotidiana e non vengono indicate altre strade. Ed è in questo contesto che è necessario intervenire, prima che sia troppo tardi, perché a breve non ce ne sarà più la possibilità. Il fenomeno della criminalità giovanile è in grande espansione. Vi sono ormai vere e proprie bande che fanno riferimento ad un capo, riproponendo gli schemi delle organizzazioni degli adulti ed addirittura andando, a volte, con loro in conflitto. Omicidi e rapine sono medaglie da mettersi in petto, sul vestito firmato, che attesta la capacità economica, personale e della famiglia. Per arginare tutto questo occorrono interventi sul territorio, con risorse economiche ed umane. Un esercito non di militari, ma di maestri che invada gli spazi abbandonati e avvicini i giovani suscitando il loro interesse per una vita diversa, per un effettivo scatto sociale e culturale. Non più una scuola che attenda che il minore varchi il suo portone, ma una scuola che scenda in strada a “sporcarsi le mani”, per responsabilizzare adolescenti e famiglie. Un imponente investimento per concretizzare la cultura dell’inclusione, primario principio costituzionale spesso dimenticato in favore di strade più semplici, ma deleterie. Il “distanziamento sociale” resti un’inopportuna definizione del comportamento da tenere in caso di pandemia e si promuovano, piuttosto, eventi che sappiano far crescere il livello formativo, evitando di alimentare una nociva e pericolosa sottocultura, che ha nella violenza e nella sopraffazione dell’altro la sua caratteristica. È dovere di un Paese civile impedire che i bambini entrino e crescano in carcere ed intervenire per offrire alternative ad adolescenti che vivono in contesti difficili, dove l’unica strada da seguire è quella del crimine. Napoli. A Poggioreale 30 infermieri per 2mila detenuti. Gli Oss incontrano Cartabia: “Assumici” di Andrea Aversa Il Riformista, 22 luglio 2022 Servirebbero come l’aria, considerata la continua e costante emergenza sanitaria che sta caratterizzando da anni le condizioni delle carceri italiane. C’è la loro disponibilità, quella delle Asl e delle amministrazioni penitenziarie ma lo Stato non li ha ancora stabilizzati. E per ora sono sospesi dal servizio, di fatto sono disoccupati. Stiamo parlando dei 1.500 Operatori socio sanitari (Oss) assunti dalla Protezione civile tramite l’ordinanza numero 665 del 22 aprile 2020. Mille dovrebbero essere impiegati nelle carceri, 500 nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa). Per questo motivo una loro delegazione composta da due persone, insieme a Maurizio Turco e Irene Testa rispettivamente Segretario e Tesoriere del Partito Radicale, sarà ricevuta oggi dal Ministro di Grazia e Giustizia Marta Cartabia. L’incontro avverrà nel pomeriggio, presso la sede del ministero in via Arenula. “Il ministro ha mostrato subito sensibilità rispetto all’argomento - ha affermato Testa - Stiamo portando avanti questa battaglia da mesi perché il tema è fondamentale e allo stesso tempo grottesco: è possibile che la burocrazia impedisca allo Stato di assumere risorse che sarebbero importantissime per garantire un minimo il diritto alla salute ai detenuti?”. Dunque, la burocrazia come nemica dello Stato di diritto. Perché? A quanto pare la procedura di assunzione sarebbe stata fermata a causa di un rimpallo di responsabilità provocato da tre ministeri: quello della giustizia, appunto, quello del lavoro e quello della sanità. Anche alle carceri napoletane e campane gli Oss servono con grande urgenza. “Durante la nostra ultima visita fatta presso il carcere di Poggioreale (lo scorso 15 luglio, ndr) - ha spiegato Testa - la direzione e l’amministrazione del penitenziario hanno chiaramente dichiarato di avere un estremo bisogno di tali risorse”. In particolare a Poggioreale vi sono più di 2000 detenuti. Gli agenti della Polizia penitenziaria sono 800, il rapporto è di un poliziotto ogni 90 reclusi. In pratica ci sono interi padiglioni in cui la sorveglianza è diventata un miraggio. Gli infermieri sono 40 ma una decina di essi è risultata positiva al covid. Di conseguenza nella struttura sono stati disponibili soltanto 30 sanitari per 2000 detenuti. Si è trattato di una proporzione che avrebbe fatto impallidire chiunque. Tranne lo Stato italiano. Le istituzioni lo scorso 16 maggio, con ordinanza numero 892, hanno approvato una proroga: gli Oss possono essere impiegati fino al prossimo 31 dicembre. Una norma, però che non è mai stata realizzata. Un dispositivo che non è mai entrato concretamente in vigore. Per queste 1.500 persone sono stati messi a disposizione fondi per un valore di 7.800.000 milioni di euro. Eppure il loro sistema di retribuzione è stato vergognoso: “Agli operatori è stato riconosciuto un contributo giornaliero di 100 euro al giorno - ha detto Testa - Cifra giustificata come “compenso solidale e forfettario”. Una prassi ridicola, è come se fossero stati assunti in modo volontario”. Un altro mistero ha riguardato i numeri. In pratica sono note le regioni che hanno fatto richiesta per gli Oss ma non il numero esatto e la loro destinazione specifica. La problematica non è relativa solo agli operatori sanitari. La carenza di organico nelle carceri riguarda l’intera categoria degli educatori. Si tratta di figure indispensabili per i penitenziari perché impegnate nella progettazione delle attività utili al recupero dei detenuti. Secondo il XVIII rapporto di Antigone, nel 2021 nelle strutture carcerarie italiane c’erano 733 operatori rispetto agli 896 previsti. La media era di un educatore per 82 detenuti. Stima che al Centro Sud diventa peggiore. Ci troviamo di fronte a un disastro fatto di degrado e disumanità, auspichiamo che il ministro Cartabia si impegni al massimo per sbloccare l’impasse. Siamo sicuri che lo farà, crisi di governo permettendo. Monza. Don Mazzi tiene a battesimo la nuova sede della Cooperativa “Il Ponte” di Sonia Ronconi Il Giorno, 22 luglio 2022 Formazione e un posto di lavoro per detenuti e persone disagiate. Lavoro, solidarietà ed integrazione sociale tra le persone più deboli nel solco della tradizione cristiana ben radicata sul territorio. A Carate è stata inaugurata la nuova sede della Cooperativa sociale onlus “Il Ponte”. Una realtà operativa e associativa che nel corso degli anni ha preso via via una valenza speciale per il territorio. L’Amministrazione comunale non può che essere contenta di questa scelta perché rafforza ulteriormente la sinergica collaborazione tra il Comune e le forze attive a tutti i livelli, sia quello tecnico, che, soprattutto, sociale con questa importante realtà. Particolarmente significativa ed apprezzata la presenza di Don Antonio Mazzi, che ha celebrato la Santa Messa trasmettendo la sua grande testimonianza di sacerdote e uomo sempre in prima linea tra gli ultimi e per affrontare le sfide dei nostri tempi. Un’associazione che ha come scopo aiutare le persone detenute, ex detenute, o comunque in una situazione di disagio, segnalate anche dal Comune, ad ottenere un lavoro dignitoso ed acquisire una specializzazione professionale. La Cooperativa Sociale Il Ponte è stata fondata nel 1995 per iniziativa di un gruppo di volontari dell’Associazione “Carcere Aperto di Monza” e da un gruppo di persone appartenenti all’ambito delle Cooperative di Albiate e Triuggio. L’operatività è concretamente iniziata nel corso dell’anno 1996 nell’ambito della manutenzione del verde pubblico e privato grazie alle commesse di lavoro assegnate dalle amministrazioni comunali ed è stata in costante sviluppo dal punto di vista economico ed occupazionale. “La Cooperativa ha come scopo sociale quello di aiutare le persone detenute, ex-detenute, tossicodipendenti, alcoolisti, o comunque persone in una situazione di disagio sociale - spiegano i rappresentanti de “Il Ponte” che fa parte della rete del Consorzio Comunità Brianza - ad ottenere un lavoro dignitoso e acquisire una specializzazione professionale, nella consapevolezza dell’insostituibile funzione inclusiva e socializzante del lavoro. L’obiettivo quindi è duplice: da un lato offrire la certezza di un’occupazione, dall’altro fornire una formazione all’interno di un’esperienza professionale specifica, utilizzabile poi in modo indipendente dalle persone che hanno lavorato per noi”. Cremona. Incontri sulla Costituzione ai detenuti del carcere cremonaoggi.it, 22 luglio 2022 La Presidenza del Consiglio Comunale di Cremona, in accordo con l’Amministrazione comunale e la Direzione della locale Casa Circondariale, avvierà da settembre una serie di incontri sulla Costituzione italiana rivolti ai detenuti. Il presidente del Consiglio Comunale Paolo Carletti si recherà una volta a settimana in carcere per spiegare ai detenuti il ruolo e la struttura della nostra Costituzione. Gli incontri, suddivisi sezione per sezione in modo da raggiungere il maggior numero di detenuti interessati, saranno così strutturati: Primo: Che cos’è una Costituzione; Tipi di Costituzione; Com’è la Costituzione Italiana; Struttura della Costituzione; La Costituzione nelle fonti del diritto. Secondo e terzo: I principi fondamentali della Costituzione Italiana dall’art. 1 all’art. 12. Quarto e quinto: Diritti e doveri dall’art. 13 all’art. 54. Sesto e settimo: Ordinamento della Repubblica Italiana dall’art. 55 all’art. 134. “Questa iniziativa si inserisce nel progetto che la Presidenza del Consiglio Comunale ha avviato per promuovere le istituzioni e rinsaldare il senso civico. Riteniamo infatti che questo sia un ruolo fondamentale della Presidenza del Consiglio Comunale. Mi recherò in carcere con l’entusiasmo di chi sa che sta facendo il proprio dovere. Ringrazio la Direttrice per la disponibilità ed esprimo l’augurio che si possano intensificare sempre più i rapporti tra la città e la locale Casa Circondariale”, dichiara il Presidente del Consiglio Comunale Paolo Carletti. “Ringrazio il Presidente del Consiglio Comunale Paolo Carletti per l’attenzione alla realtà penitenziaria a tutto tondo, già mostrata in occasione della visita all’Istituto penitenziario del 14 luglio scorso unitamente ai capigruppo consiliari, e per la presente iniziativa, qualificata e preziosa, a favore della popolazione detenuta, in un ambito, quale la conoscenza della Costituzione italiana, di particolare valore per la formazione di ‘cittadini’ responsabili e attivi, destinati, inoltre, a rientrare consapevolmente in un contesto sociale di libertà”, commenta a sua volta Rossella Padula, Direttrice della Casa Circondariale di Cremona. Napoli: “Cinema dentro e fuori”, Cafiero De Raho incontra i detenuti del carcere di Poggioreale sudreporter.com, 22 luglio 2022 Si evade, figurativamente, dal carcere grazie alla settima arte. Al via “Cinema dentro e fuori” nella Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli, un ciclo di incontri curato dall’associazione Arci Movie e dal Cpia, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, Napoli Città 2. Tra i numerosi appuntamenti anche l’incontro dei detenuti con il magistrato Federico Cafiero De Raho. Fino a 30 agosto 2022 le persone private dalle libertà ospitate nel carcere “Giuseppe Salvia” di Poggioreale partecipano alle lezioni tenute da Roberto D’Avascio e Maria Teresa Panariello, rispettivamente Presidente e responsabile della progettazione dell’associazione Arci Movie Napoli. L’obiettivo è parlare e raccontare di cinema così da far immergere i reclusi in uno scenario diverso dalla realtà che vivono quotidianamente e affrontare, grazie all’arte del grande schermo, tematiche di stringente attualità. Il leitmotiv scelto per questa edizione del progetto è il “Cinema di resilienza”, qualità emersa e condivisa da milioni di persone nel recente periodo storico che ha visto tutti privati delle proprie libertà in virtù di beni comuni da tutelare quali la salute pubblica e la sicurezza di ognuno di noi. In particolare, i due laboratori si svolgono nella sezione delle “Lavorazioni” con i detenuti del “reparto Napoli” e nel “reparto Genova” e coinvolgono persone di ogni età. Tra gli appuntamenti anche alcuni ospiti. Venerdì 22 luglio i detenuti incontrano Federico Cafiero De Raho, magistrato ed ex Procuratore Nazionale Antimafia e attuale Presidente del Teatro di Napoli - Teatro Nazionale. “Ripartiamo dal carcere e dai detenuti per parlare di cinema. Lo abbiamo fatto per tanti anni qui a Poggioreale con l’idea che il cinema sia un detonatore di sogni e un moltiplicatore di relazioni umane. E tutto questo si fa in modo avventuroso e sperimentale dentro un reparto, in mezzo a detenuti e sbarre, che ha mostrato grande simpatia e curiosità per il linguaggio delle immagini in movimento”, così Roberto D’Avascio, presidente dell’associazione Arci Movie. Il tempo e lo studio matto han reso il carcerato un letterato di Fabio Cavalli* Il Riformista, 22 luglio 2022 “Sofia aveva lunghi capelli”, il romanzo di Giuseppe Perrone, è uno dei rari casi di osmosi inversa tra carcere e letteratura. L’autore dovrebbe esser tenuto d’occhio più dagli editori che dalle procure. La lettura del romanzo Sofia aveva lunghi capelli di Giuseppe Perrone (Roma, Castelvecchi, 2021) evoca immediatamente la parola tormento. Variazioni sul tema del tormento. Dal latino torqu?re derivano le espressioni verbali torcere, torturare, tormentare e anche torto, aggettivo e sostantivo. Giordano Bruno descrive in commedia la “torcitura dei panni di bucato”: strizzati dopo il lavaggio attraverso trazione e contorsione. La sperimenterà poi nella tragedia della sua vita e morte. Contorto è un’altra derivazione diretta. Così come la estorsione di una confessione obtorto collo. Tormentato è il paesaggio che si para di fronte al Petrarca nell’Ascesa al monte Ventoso nella IV Lettera familiare. Tormentata è la coscienza del reo. E lo è l’amore difficile. Il mal di denti è tormentoso. Un’insistente canzone dell’estate è un tormentone. Il libro di Perrone è una mirabile alternanza di variazioni su due temi: il tormento della coscienza; il tormento degli amori familiari. Inesauribile, sorprendente sequenza di andate e ritorni dentro lo spazio chiuso, metaforicamente e fisicamente. Chi ha frequentato un carcere, anche da volontario, sa cosa vuol dire contare passo passo la diagonale di una cella di quattro metri quadri, per decenni. In tanti hanno cercato di descrivere quello stato di tormento. Dovremmo scomodare grandi nomi della letteratura: coloro che furono prima poeti e poi incarcerati. Evitiamo le citazioni comparative. Chi volesse accertarsi dello stato osmotico fra esperienza letteraria ed esperienza carceraria può utilmente leggere, fra gli altri, il bel volume di Daria Galateria Scritti galeotti - Letterati in carcere (Ed. Eri, 2000). Tranne rari casi, però (J. Genet, P. F. Lacenaire), la condanna è successiva alla poesia. Prima si impara a scrivere alta letteratura e poi la malasorte conduce ad applicare quella scrittura all’esperienza di condannati alla galera o al patibolo. Fra i rari casi di osmosi inversa c’è il romanzo di Perrone che passa dal crimine alla letteratura lasciando interdetto il lettore. Chi non conosce la biografia dell’Autore, leggendo il romanzo certamente si interroga su come si riesca a variare il tema con tali sottigliezze retoriche sul sottostante basso continuo barocco del tormento. Probabilmente ci si riesce perché il tempo e lo studio matto hanno fatto di un condannato un letterato. Una per tutte: “La scolarizzazione è più importante della collaborazione”, affermazione cui segue un dialogo teso, tormentato appunto, nel quale viene detto: “Con tutto il rispetto, ma anche senza. Caro Marco, collaborare costa. Mandare in galera la gente al proprio posto non è immune da rischi” - “Lo so!”. Ci troviamo dunque al centro della questione posta da Perrone, che si può riassumere così: tu, Stato, dopo decenni, stai continuando a tormentare me, al posto di un altro me, che ci pensa già da sé a tormentarsi per sempre. Si presti attenzione al punto, perché è sottile: il patto di collaborazione con le istituzioni Perrone l’ha sottoscritto, l’ha rispettato, e gli è costato la fatica (non il tormento) di quattro percorsi di laurea e di varie pubblicazioni, fra le quali quest’ultima. Scrive: “Le classi dirigenti dei Paesi si formano sui banchi di scuola e non negli uffici delle procure della Repubblica.” Perrone non soltanto lo ha sottoscritto, il patto. Ne è stato concretamente conseguente. Nel tortuoso percorso, come grida che echeggiano da un passo all’altro del suo monte Ventoso, si leggono passi di letteratura. Ad esempio, la gaddiana cronaca della morte annunciata del padre nella stanza: “Il televisore spento armonizzava lo stato di quiete a tratti interrotta dal rumoreggiare del frigorifero. Di colpo una insofferenza strisciante colse le donne. Istintivamente si alzarono. Affrettarono i passi. La casa sembrò come riprendere vita, il rumore della maniglia della camera matrimoniale abbassata con forza provocò un rinculo. Oltrepassata la porta della camera, “papà è morto” disse la figlia. E così era stato”. Non ho dubbi che questa sia un’ottima pagina, e il suo autore debba essere tenuto d’occhio; più dagli Editori che dalle Procure. *Regista, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia “Diritti sempre più a rischio, è il momento di sostenere il modello Riace” di Federica Graziani Il Riformista, 22 luglio 2022 L’ex senatore Luigi Manconi in prima linea per l’accoglienza rilancia la sottoscrizione a favore dell’impegno di Mimmo Lucano. “Oggi - dice - lo scenario si fa più cupo” C’è una vignetta di Altan in cui un bambino dice: “C’è l’incertezza del futuro”. Il babbo gli risponde: “Godiamocela, che quando diventerà certezza saranno cazzi”. Nell’incertezza siamo immersi sempre più. Per schivare le fosche certezze future e tentare una strada di speranza la cosa migliore da fare è rivolgersi a un militante di vecchio corso, politico che ha attraversato decenni di storia italiana, già parlamentare e presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, sociologo dei fenomeni politici, editorialista e presidente di A Buon Diritto Onlus: Luigi Manconi. Come spesso gli capita, Manconi è impegnato in una raccolta fondi che si propone di sostenere l’esperienza di accoglienza diffusa del modello Riace. Si può dare un contributo, piccolo o grande che sia, inviando un bonifico a: A Buon Diritto Onlus, Banco di Sardegna IT73H0101503200000070779827 causale “Per Mimmo”. Abbiamo un elefante nella stanza di quest’intervista, la crisi di governo. Previsioni? Palesemente lo scenario si fa più cupo. La campagna elettorale avrà il sicuro effetto di trasformare, per il centro-destra, il tema dell’immigrazione in un fattore di allarme sociale e, per il centro-sinistra, in un processo di rimozione. Se poi dal voto uscirà un governo di centro-destra avremo la scomparsa certa dall’agenda politica della riforma della legge sulla cittadinanza, un nuovo inasprimento della politica per il Mediterraneo e il rilancio dell’ostilità nei confronti delle Ong del soccorso in mare. Insomma i diritti, che sono al cuore del suo lavoro, se la vedranno sempre peggio... Non c’è pericolo, dal momento che sono - come dice il mio medico ipercinetico. Ma che la svolta possa essere nefasta, lo deduco dalla quasi certa mancata approvazione di quella legge che vorrebbe non ci fossero più bambini in carcere (oggi sono 28): in apparenza un piccolo fatto, ma dal grande significato simbolico-emotivo. Per tornare alla questione dell’immigrazione, le prospettive pessimistiche aperte da questo passaggio politico rendono ancora più importante e urgente - ecco il punto! - la continuità e la valorizzazione di esperienze virtuose di accoglienza nei confronti di migranti e richiedenti asilo quale quella rappresentata dal cosiddetto modello-Riace. Da pochi giorni ha indetto un nuovo appello a sostegno di quel modello, e di nuovo i sottoscrittori sono tanti. Cosa chiedete stavolta? Per tutto quello che abbiamo appena detto, il nostro appello per una nuova sottoscrizione che sostenga l’accoglienza già in atto da alcuni mesi in quel territorio - decine e decine di profughi ospitati - è più che mai ineludibile. Si tratta di trovare risorse economiche per le strutture logistiche di accoglienza, per le vettovaglie, per i corsi di integrazione e formazione. Spese ingenti che possono assicurare la prosecuzione di quella attività che la sentenza abnorme del Tribunale di Locri intendeva piegare. Quanti appelli hai firmato nella sua vita? In realtà pochi. Recentemente, ho pensato che sottrarsi a questo esercizio solo in rarissimi casi esprime una scelta di riservatezza. In genere corrisponde a una notevole supponenza e alla presunzione che il proprio nome e cognome valgano chissà quanto e non debbano essere dissipati e deprezzati. Quindi gli appelli servono? Penso che non si debba essere snob e che firmare un appello quando questo riesce a evidenziare una tematica o a sottrarre un’ingiustizia al silenzio sia doveroso. Nel caso in questione, il nostro primo appello lanciato in ottobre per Mimmo Lucano ha avuto un grandissimo successo, con migliaia e migliaia di sottoscrittori. Abbiamo raccolto somme piccole, piccolissime, ma anche grandi, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Per quanto riguarda dunque la propria firma non bisogna esagerare. Ma essere eccessivamente parsimoniosi non sempre è un segno di sobrietà. Può essere un atto di avarizia. È l’avarizia la malattia della politica di oggi? Sì, spesso si gabella per equilibrio e senso della misura quello che è carenza di passione e, dunque, di fiducia nei propri valori e nei propri fini. A proposito di senso della misura, si sente dire da più parti che Giorgia Meloni sarà pure questo e quest’altro, ma è innegabile sia una grande statista. Che ne pensa? Mi sembra un segno di affettazione. Per un verso si tratta di un’ovvietà. Se Giorgia Meloni ha portato il suo partito a quei risultati - ma si tratta di sondaggi, non dimentichiamolo! - è indubbiamente una brava dirigente politica. Ma da qui a definirla statista ce ne corre. Quel giudizio positivo nasce per un verso dalla solita ansia di legittimazione di una parte della sinistra, che a tutti i costi vuole apparire cavalleresca e galante, e per l’altro da un certo qualunquismo che ritiene che la gran parte dei politici siano cialtroni. Non è affatto così. Molti sono bravi e competenti, per lo meno in un ambito molto circoscritto, e quindi ciò che conta è il giudizio politico che diamo su di loro. Quando abbiamo smesso di capire il mondo? Quando si sono rivelate inservibili le ideologie classiche fino ad allora utilizzate. Le ideologie, infatti, costituivano altrettante ricette per interpretare la storia e per immaginare il futuro. Quando si sono rivelate impotenti tanto per il primo che per il secondo compito ci siamo scoperti privi di strumenti intellettuali adeguati e persino di sentimenti in grado di “sentire” la realtà e di parteciparvi emotivamente. Ci descrive smemorati, mediocri, scemi e indifferenti. Ottimista! Ho sempre pensato che un eccesso di ottimismo produca rinuncia e diserzione. Solo - chiedo scusa per la solennità - una concezione tragica dell’esistenza e una lettura pessimistica della realtà possono determinare la volontà di modificarla, quella realtà. Ma - attenzione! - modificarla non significa scommettere sull’entità di quel cambiamento. Anche il più modesto degli atti di trasformazione, e nella più remota periferia del sistema, ha un valore grande perché certifica la possibilità di non subire lo stato di cose presente e di “limitare il disonore”, che poi è il mio motto. Partiamo da un altro motto: “Solo una sana e consapevole libidine / Salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica”. Oggi cosa ci salva dallo stress? A mio avviso, un’empatia emotiva e intelligente: in grado, cioè, di non perdere la lucidità. Il rapper Ghali ieri ha diramato la notizia di aver comprato una barca per la Ong Mediterranea. Un’impresa del genere è la empatia? Sì, sì e sì! Certo. È empatia perché corrisponde a un sentimento. A una relazione con la sofferenza umana che si esprime attraverso un atto razionale, ovvero denaro versato, sapendo che così non si salva il mondo ma sicuramente un certo numero di persone in pericolo. Lei è da sempre molto attento a limitare non solo il disonore, ma anche la portata retorica delle parole... Penso, con il conforto di Wittgenstein e di Nanni Moretti, che le parole costruiscano il mondo. E penso che la prima operazione che compie il potere per ingannare i cittadini è manipolare le parole. Al contrario, l’esattezza delle parole corrisponde a un grande atto politico e morale: cercare cioè la corrispondenza tra la verità delle cose e il suono che quelle cose riverberano nel nostro cuore e nella nostra mente. La musica è l’altra sua mania. Non sono solo parole e non sono solo canzonette. Una colonna sonora per questa crisi? Mi viene in mente, appunto, Ghali che canta Cara Italia e, poi, più che due canzoni, due grandi voci femminili: quella di Flo e quella Erica Mou. Un impasto intelligente di tradizione e innovazione, di classicità e rottura. E non dimentichiamo Giovanni Lindo Ferretti: “Resisto perché esisto”. “Se oggi mi dicono: resistere, resistere, resistere /non so se piangere o ridere”. Viene più da piangere o da ridere? Sono incerto tra un riso mesto e un pianto ironico. Migranti. Quattro mesi in un Centro per adulti, ma era un minore: Italia condannata di Simona Musco Il Dubbio, 22 luglio 2022 La Cedu sanziona il nostro Paese per aver violato i diritti di un giovane migrante del Gambia sbarcato in Sicilia nel 2016. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver violato i diritti di un giovane migrante del Gambia, scambiato e trattato come un adulto nonostante lui affermasse di essere un minore. Il giovane, sbarcato in Sicilia il 29 giugno 2016, è stato chiuso in un centro d’accoglienza, allora sovraffollato, per oltre quattro mesi, finendo per essere vittima di trattamenti inumani e degradanti e della violazione del suo diritto alla vita privata. Nonostante la capacità del centro di accoglienza fosse di 542 persone, le persone presenti erano oltre 1.400 al momento del suo soggiorno. Un centro sfornito di riscaldamento e acqua calda, con un numero di bagni e di banchi mensa insufficiente, poche attività educative e ricreative e solo 25 persone ad assistere i migranti. Inoltre, nel centro circolavano coltelli, alcol e narcotici e durante il suo soggiorno si sono verificati episodi di violenza e prostituzione. Inadeguati anche l’assistenza sanitaria, compresa quella psicologica, e l’accesso alle informazioni e all’assistenza legali. Il giovane era stato sistemato nel centro di accoglienza a seguito di un esame radiografico del polso e della mano, alla luce della quale era stato considerato adulto. Solo quattro mesi dopo, grazie all’intervento di alcuni avvocati, e in seguito della Corte di Strasburgo, il ragazzo ha ottenuto un secondo esame, che questa volta ha rivelato la sua vera età, ottenendo il trasferimento presso un centro per minori. La Cedu ha stabilito ora che lo Stato dovrà versargli 7.500 euro per danni morali e altri 4mila per le spese legali sostenute. Il giovane non ha infatti beneficiato “delle garanzie procedurali minime” e il suo collocamento in un centro di accoglienza per adulti per più di quattro mesi “ha pregiudicato il suo diritto allo sviluppo personale e all’instaurazione e sviluppo di relazioni con altri. Ciò avrebbe potuto essere evitato se il richiedente fosse stato collocato in un centro specializzato o presso genitori affidatari”, misure adottate solo dopo “un considerevole lasso di tempo”. Le autorità italiane, dunque, “non hanno agito con ragionevole diligenza e quindi non hanno rispettato il loro obbligo positivo di garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata”. E l’accresciuto afflusso di migranti e richiedenti asilo “non esonera gli Stati membri del Consiglio d’Europa dai loro obblighi ai sensi” dell’articolo 3 della Convenzione, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni inumani o degradanti”. Cannabis, la sostanza illegale più utilizzata di Luigi Manconi La Repubblica, 22 luglio 2022 È stata diffusa la relazione annuale sulle tossicodipendenze, nella quale il governo - ora al capolinea - chiede di favorire la depenalizzazione. Alcune settimane fa è stata resa nota la relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Si tratta di un documento tecnico realizzato dal Dipartimento per le politiche antidroga per conto del Governo e presentata al Parlamento. Contiene le conclusioni elaborate durante la VI Conferenza nazionale sulle dipendenze, voluta dalla ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone e tenutasi a Genova nel novembre scorso. Un appuntamento che non veniva organizzato da oltre dodici anni e che vorrebbe dimostrare l’impegno da parte del Governo ad affrontare temi cruciali come quello delle tossicodipendenze e a immaginare nuovi interventi per contrastare la diffusione delle sostanze stupefacenti. E qui - oh, sorpresa! - sbuca fuori qualcosa di decisamente imprevisto. Al punto 4 delle iniziative da promuovere è espressa chiaramente l’opportunità di “favorire la depenalizzazione, intesa come necessità di rivedere le norme che prevedono sanzioni penali e amministrative a carico di persone che usano droghe”. Si aggiunge che, dunque, è il caso di “rivedere la legge attuale passando dal modello repressivo a un modello di governo e regolazione sociale del fenomeno, al fine di sottrarre all’azione penale alcune condotte illecite, contemplate dall’art. 73, rivedendo, contestualmente l’impianto sanzionatorio ed escludendo l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza”. Si deve, pertanto, intervenire sull’art. 73 relativo alla produzione, alla detenzione e al traffico illecito delle sostanze stupefacenti, così da sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto. In effetti qualcosa di non troppo diverso da quanto contenuto nella proposta di legge relativa alla coltivazione domestica di cannabis, giunta alla discussione in Aula alla Camera dei deputati qualche settimana fa. Depenalizzare il consumo di questa sostanza significherebbe, tra le altre cose, accettare la realtà di un fenomeno non più reversibile: la cannabis è la sostanza illegale più utilizzata. In Italia, le stime più attendibili parlano di oltre sei milioni di consumatori, presenti in tutte le fasce sociali e in tutte le classi di età. E per affidarsi ai dati più recenti, basta leggere quelli riportati dalla stessa Relazione del Dipartimento per le politiche antidroga. Il 18% degli studenti italiani ha fatto uso di cannabis almeno una volta nel corso del 2021 e il 2,5% dichiara di farne un uso quasi quotidiano. Oltre la metà dei consumatori ha avuto il primo contatto con questa sostanza fra i 15 e i 16 anni. E ancora, a proposito dell’utilizzo diffuso, il 72,8% delle sostanze menzionate nelle segnalazioni per violazione dell’art. 75 riguarda cannabis e derivati. E tra i giovanissimi fino ai 19 anni di età, senza distinzione di genere, la quasi totalità delle sostanze consumate è rappresentata dai cannabinoidi, così come oltre il 50% di quelle usate tra le persone fino ai 34 anni. Infine, il dato più significativo e per certi versi dirompente: tra quei consumatori, il 91% fa ricorso esclusivamente a derivati della cannabis. In altre parole, la cannabis è pressoché l’unica sostanza illegale utilizzata. Un dato che, d’un colpo solo, fa giustizia di tutte le amenità che si continuano a sentire a proposito dell’automatismo del passaggio “dalle canne alla coca”: e della consequenzialità tra il consumo delle prime e il consumo della seconda. Ce lo dice il Governo. “Cannabis, carcere inutile per il piccolo consumatore” di Caterina Giusberti La Repubblica, 22 luglio 2022 Il Garante dei detenuti: “Sulle pene connesse al consumo di cannabis, bisogna saper distinguere”. A dirlo è il garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, intervenuto ieri a un incontro a Bologna. “Per quanto riguarda le persone detenute per microreati, bisognerebbe chiedersi se il carcere le stia rieducando”, ha aggiunto Palma, insistendo su un tema che gli è particolarmente caro, ovvero “quello del significato del tempo di permanenza in carcere. Le detenzioni di soli pochi mesi non hanno senso”. Poi Palma ha affrontato la questione della cannabis e più in generale quella del mercato clandestino degli stupefacenti. “La questione legata ai grandi spacciatori è diversa, ma per quanto riguarda il piccolo detentore o il piccolo consumatore, il carcere non serve a niente”. Poi il garante dei detenuti ha fatto il punto su un altro problema particolarmente sentito negli istituti di pena italiani, quello del sovraffollamento. “La questione del sovraffollamento è centrale, anche perché in molti casi le carceri si stanno popolando di persone con situazioni marginali che avrebbero dovuto trovare altre risposte sul piano del territorio. Ci sono più di 1.300 persone negli istituti condannate a pene inferiori a un anno. Perché non si trovano misure alternative? Il carcere non può essere la soluzione a problemi irrisolti nel territorio. Il tempo carcerario, il tempo sottratto, deve avere un significato”. E ancora. “Se io tengo una persona in carcere per sette mesi, quel periodo di detenzione a cosa serve? Il tempo sottratto, il tempo in carcere, deve avere un significato, deve cioè essere finalizzato a qualche altra cosa”. Palma ha dato conto anche della questione Covid e delle segnalazioni che arrivano dai parenti di persone “chiuse all’interno di strutture sanitarie e delle cosiddette social care homes. Riceviamo sempre più segnalazioni da persone che non riescono più a vedere i loro cari. Spesso, soprattutto per gli anziani, il punto è il significato che noi diamo al termine “vita” e “protezione della vita”. Non possiamo proteggere la vita biologica, come chiaramente dobbiamo, non avendo presente anche la vita affettiva, soprattutto per una persona molto anziana, ma anche per una persona disabile che ha bisogno di vedere i propri affetti. Occorre trovare un punto di equilibrio tra queste due esigenze”. Repressione (e piazze piene) nel mondo “senza precedenti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 luglio 2022 Amnesty International lancia la campagna globale “Proteggo la protesta”. Diritto negato soprattutto in Russia, Turchia e Iran. Riccardo Noury: “Dal 2009 al 2019 le manifestazioni di massa sono aumentate in media dell’11,5% all’anno. C’è sempre meno separazione tra la mobilitazione digitale e quella reale”. Il diritto di protesta “sta subendo un attacco senza precedenti in ogni parte del mondo”, dice Amnesty International che per questo motivo ha lanciato la campagna globale “Proteggo la protesta”. Ventuno anni dopo i fatti di Genova 2001 - una sospensione dello Stato di diritto che ha macchiato indelebilmente l’Italia e l’Europa - Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty, spiega la necessità di questa iniziativa. Perché “senza precedenti”? Partiamo dai numeri: nel 2021 in almeno 67 Stati del mondo sono stati presi provvedimenti per limitare la libertà di protesta pacifica, e in almeno 85 Stati si è registrato l’uso eccessivo o non necessario della forza per disperdere le proteste. Il Global Protest Trucker ha calcolato che in due terzi del mondo c’è stata almeno una protesta antigovernativa nel periodo 2017-2021. È come se, almeno dal 2019 in poi, si fosse riaccesa quella scintilla del biennio 2010-2011: i movimenti Occupy, le cosiddette primavere arabe, ecc. Milioni di persone sono scese in piazza, nell’ultimo periodo, compresi gli anni della pandemia. E questo ha scatenato una repressione senza precedenti da parte dei governi, con militarizzazione dell’ordine pubblico (Cile nel 2019, Colombia nel 2021), leggi e provvedimenti per limitare le manifestazioni, censura di Internet e dei social, e la progressiva securitizzazione delle proteste, cioè l’individuazione di chi rivendica pacificamente e legittimamente i diritti come un nemico da combattere. Solo nel 2020, che pure è stato l’anno nero della pandemia, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in Bielorussia. Questo Paese, insieme a Russia, Iran, Turchia, Colombia, Cuba e altri ancora, costituiscono un mondo in mobilitazione. Il rapporto World wide protest prodotto da Carnegie Endowment ci dice che dal 2009 al 2019 le proteste di massa, pur con una pausa intorno alla metà dello scorso decennio, complessivamente in media sono aumentate dell’11,5% all’anno. Quanto, soprattutto nei Paesi non occidentali, internet e l’uso dei social hanno influito su questa straordinaria mobilitazione di piazza? Il filo che separa la mobilitazione digitale da quella reale è sempre più sottile. E infatti metodi di sorveglianza e repressione sono stati adottati anche sul web e nei canali di comunicazione. A volte questa straordinaria mobilitazione, dovuta alla misura colma verso la mancanza di diritti e a un maggior coraggio acquisito anche attraverso i social, ha prodotto anche eventi positivi. Come nel caso del Cile, dove il presidente Boric viene proprio dalle piazze del 2019, o il caso di Petro, il nuovo presidente della Colombia, che è stato tra i leader del Paro general dello scorso anno. In Libano e in Iraq le proteste hanno fatto cadere i governi, in Algeria hanno fatto ritirare Bouteflika, in Sudan la piazza ha abbattuto la dittatura di al-Bashir… Nella ricerca con cui lanciate la campagna citate le manifestazioni Black Lives Matter, MeToo e i movimenti contro i cambiamenti climatici. Dove, nel mondo occidentale, si sono intensificate le forme di repressione contro chi protesta? Ci sono episodi come quelli di New York, dove è stata seguita passo passo ogni singola persona che andava a prendere parte alle manifestazioni di Black Lives Matter, per esempio. Ma tra i Paesi europei abbiamo citato soprattutto la Francia per l’uso eccessivo della forza durante le manifestazioni dei gilet gialli; il Regno unito per la legislazione che dà alla polizia il potere di vietare le manifestazioni “rumorose”, qualunque cosa voglia dire. E la Polonia, dove le manifestazioni Lgbti vengono sistematicamente attaccate con violenza da contro-manifestanti omofobi lasciati liberi di agire dalla polizia. Che invece, quando interviene, lo fa contro chi manifesta per i diritti dei gay. Perché l’Italia non compare in questa vostra ricerca? Sarà oggetto di uno studio a parte. Qualche preoccupazione in questo senso c’è anche in Italia. A partire da quella ferita aperta che ancora sanguina dopo 21 anni dai fatti di Genova. Più recentemente abbiamo registrato un uso eccessivo della forza durante le manifestazioni studentesche sul tema scuola-lavoro, in particolare a Torino, e un singolo episodio a Trieste contro i manifestanti “no-vax”. Poi ci sono i casi della Val di Susa. Al top - diciamo così - della vostra triste classifica ci sono però Russia, Iran e Turchia. E oggi proprio questi tre Paesi stanno stringendo una sorta di “patto anti atlantico”. Un segnale un po’ inquietante… Sì, è il segnale che la guerra sta rimescolando tutto. I motivi delle proteste si differenziano, ma non i metodi di repressione. In Turchia, le madri di Istanbul reclamano notizie sui loro cari scomparsi dagli anni ‘90; in Russia, la richiesta è soprattutto di maggiore libertà e ultimamente si sono aggiunte sporadiche proteste contro la guerra; in Iran il tema è prima di tutto quello economico. Ciò che accomuna questi Paesi - e li distingue da quelli occidentali - sta invece nell’uso della polizia e anche dell’esercito: in Iran nel 2019 centinaia di manifestanti sono stati uccisi con armi pesanti; in Turchia sono anni che non si riesce a fare un Pride e le madri vengono sistematicamente pestate in piazza; in Russia c’è tutta una serie di leggi repressive che aumenta di anno in anno. Oggi ci troviamo davanti ad una coalizione di Stati nascente in nome di un anti-occidentalismo - a cui dovremmo aggiungere in qualche modo anche la Cina - che hanno regimi fortemente autoritari. Poi c’è il caso di Hong Kong dove si sono registrati centinaia di arresti, condanne, ecc, e dove con la Legge sulla Sicurezza nazionale del 2020 Amnesty è stata costretta a chiudere l’ufficio locale, perché era diventato impossibile lavorare. Ma ci chiediamo anche che fine farà il diritto di protesta in Algeria, ora che è stata benedetta da Draghi e diventerà il nostro primo fornitore di gas. Nella ricerca si legge che in Bielorussia, così come in Sudan e Colombia, “le donne subiscono aggressioni sessuali durante le proteste”... Nel 2020, quando Lukashenko si è riproclamato presidente, fece arrestare tutti i competitori maschili, non immaginando che potesse nascere una leadership femminile che ne prendeva il posto. Allora scatenò una repressione che mescolava misoginia e patriarcalismo. Tre generazioni di donne ne hanno pagato le conseguenze: descritte come poco di buono, messe all’indice, sottoposte a violenze, incarcerazioni, espulsioni dai luoghi di lavoro e dalle università, ecc. Ma il modo con il quale in Bielorussia sono riusciti a sedare le proteste è stato minacciando le donne di togliere loro la podestà sui figli. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Stati Uniti. Il Covid trova lavoro agli ex detenuti: 53% delle aziende disposte ad assumerli di Filippo Merli Italia Oggi, 22 luglio 2022 Manodopera scarsa a causa della pandemia e chi esce dal carcere ottiene un impiego. Antonio McGowan nasconde le treccine sotto il cappello da baseball. Quando ha lasciato il penitenziario del Mississippi dopo aver scontato una condanna di 17 anni non è riuscito a trovare un impiego fisso. Una settimana tagliava l’erba, quella dopo imbiancava pareti. Poi è arrivata la pandemia. Negli Usa, come altrove, la manodopera ha iniziato a scarseggiare ed ecco che gli ex detenuti come McGowan, paradossalmente, hanno avuto inaspettate opportunità di lavoro stabile negli Usa. I programmi di rientro sono un modo tramite il quale i datori di lavoro stanno cercando di assegnare alcuni degli 11,3 milioni di posti di lavoro aperti negli Stati Uniti nel bel mezzo di una grave carenza di manodopera interna. La pratica di assumere persone con precedenti penali è nota come “assunzione della seconda possibilità”. “La carenza di manodopera provocata dal Covid-19 offre una possibilità agli ex detenuti”, ha spiegato Eric Beamon, reclutatore di MagCor, azienda che offre formazione professionale ai carcerati in Mississippi. “Per loro, in un certo senso, l’emergenza sanitaria è stata di grande aiuto”. Alcuni studi hanno dimostrato che i posti di lavoro stabili sono un fattore importante nella riduzione della recidiva. Tuttavia, non tutti sono disposti ad assumere un ex detenuto. E la mancanza di opportunità di lavoro per coloro che hanno precedenti penali ostacola la partecipazione della forza lavoro all’economia. Secondo la Conferenza americana delle legislature statali, le barriere incontrate dalle persone con condanne per reati erano legate alla perdita di almeno 1,7 milioni di dipendenti dalla forza lavoro e a un costo di 78 miliardi di dollari per l’economia nel 2014, l’anno in cui McGowan ha lasciato il carcere. Le attuali difficoltà in cui si trovano i datori di lavoro potrebbero aiutare a stimolare un cambiamento. In un sondaggio del 2021 condotto dalla Society for human resource management, il 53% dei professionisti delle risorse umane ha dichiarato che sarebbe disposto ad assumere persone con precedenti penali rispetto al 37% del 2018. A McGowan sarebbe piaciuto lavorare nella riparazione di aria condizionata e riscaldamento. I membri dello staff del programma di rieducazione gli hanno organizzato un colloquio all’Upchurch services, una società che consente ai lavoratori di prendere lezioni di servizi di riparazione mentre acquisiscono esperienza sul campo. McGowan è stato assunto la seconda settimana di maggio. Guadagna 15 dollari l’ora, circa 14 euro, lavorando 40 ore a settimana con gli straordinari pagati. “Estate, inverno, primavera o autunno, tutti avranno bisogno di riscaldamento o aria condizionata”, ha detto l’ex galeotto all’Associated Press. “Quindi ho trovato qualcosa con cui posso aiutare le persone e che allo stesso tempo può tenermi nella classe operaia, non ricadendo in quel che facevo prima per guadagnarmi da vivere”. McGowan, che era stato condannato per crimini violenti, ha sottolineato che quel che fa oggi è più di un semplice lavoro. “È lo sguardo sul viso di qualcuno. Quando aggiusti qualcosa che è stato rotto, sorridono. Ho passato così tanti anni a ferire le persone. Quindi conosco lo sguardo che le persone hanno quando si sentono danneggiate. Vedere che adesso accade il contrario è abbastanza per rendermi felice”. Colombia. La messa in scena del suicidio di Mario Paciolla e il ruolo dell’Onu di Francesca De Benedetti Il Domani, 22 luglio 2022 L’indagine della procura di Roma su Mario Paciolla non è ancora conclusa, e il silenzio è tombale, ma nonostante questo ci sono due certezze sulla morte del 33enne napoletano che operava per le Nazioni unite nella missione di pace in Colombia. Una riguarda la messa in scena del suo suicidio, e l’altra il ruolo opaco dell’Onu. L’Onu inquadra da subito, nei suoi registri, la morte di Paciolla come un suicidio. La polizia locale di San Vicente del Caguan trova il cadavere la mattina del 15 luglio 2020, e all’epoca il colonnello Oscar Lamprea riferisce che “la morte è avvenuta in circostanze poco chiare”, parla di lacerazioni sui polsi. Sui media colombiani rimbalza l’ipotesi del suicidio per impiccagione, ma ci sono molte incongruenze. “Le autorità continuano a non fornirci informazioni ufficiali su questa morte”, scrivono all’epoca i cronisti del giornale colombiano Semana. Due anni fa è l’Onu a comunicare alla famiglia Paciolla che il ragazzo “si è suicidato”, chiede l’autorizzazione per l’autopsia, dice che all’esame prenderà parte un certo Jaime Hernan Pedraza: ai familiari viene riferito soltanto che è un medico legale autorizzato, ma non che è il capo del dipartimento medico della missione Onu. A fine luglio 2020 anche la Farnesina dice a Domani che “all’esame ha partecipato un medico di fiducia della missione”. C’è quindi una prima autopsia, in Colombia, la pratica un medico colombiano ma assiste anche il medico Onu. L’autunno seguente l’esito filtra sulla stampa colombiana: “La morte è compatibile con il suicidio”, si parla di soffocamento. Il corpo di Paciolla arriva in Italia il 24 luglio 2020, e l’autorità giudiziaria a Roma dispone un’altra autopsia. Ma in Colombia il corpo è partito ricomposto, ricucito, svuotato degli organi e riempito. Il verbale dell’autopsia colombiana arriva in Italia con insolito ritardo; passano settimane prima che a Roma si possano leggere le note di chi ha effettuato la prima analisi, come apprende Domani da fonti italiane. Intanto dalla Colombia - alla quale le nostre autorità giudiziarie si sono dovute rivolgere con svariate rogatorie, la prima ad agosto 2020 - filtrano estratti che riguardano gli esami svolti in Italia. Ne scrive Claudia Julieta Duque, giornalista colombiana e amica di Paciolla che da subito ha diffidato dell’ipotesi del suicidio: sapeva da Paciolla che c’era qualcosa che lo aveva indignato e spaventato, al punto da prepararsi una via di fuga nell’appartamento. Secondo quanto riporta ora la giornalista colombiana, Paciolla sarebbe stato “torturato e ucciso” e tra le evidenze ci sarebbe il fatto che alcune ferite sul braccio sono state operate a corpo morente e poi deceduto; c’è poi la simulazione della impiccagione per nascondere che Paciolla sarebbe stato strangolato. Finché la procura di Roma non chiude le indagini e toglie il segreto dall’autopsia italiana, non avremo una verità ufficiale. Ma fonti italiane riconoscono nella versione riportata da Duque almeno un fatto autentico e cioè che il suicidio pare una messa in scena. “Non erano passate 24 ore dalla consegna a New York dell’ultimo rapporto della missione di verifica delle Nazioni unite in Colombia quando uno dei tuoi colleghi ti ha trovato morto, mio amico poeta”, scriveva Duque due anni fa. La paura che Mario Paciolla prova nei giorni che precedono la sua morte è legata a quello che succede all’interno della sua missione Onu. “Mio figlio era terrorizzato”, riferisce la madre, Anna Motta, sin dall’estate 2020. L’inquietudine di Mario era legata a “qualcosa che aveva visto, capito, intuito”. Durante una telefonata con la sua famiglia, Paciolla racconta di aver sbottato con alcuni suoi capi; riferisce di aver parlato chiaro e di essersi “ficcato in un guaio”. Paciolla voleva tornare a Napoli, al sicuro, dalla sua famiglia. Luglio 2020 è tempo di pandemia, e per poter volare fino in Italia bisogna appoggiarsi a un volo umanitario, servono inoltre i documenti per la partenza “e solo l’Onu poteva prepararli a mio figlio”, racconta il padre, Giuseppe Paciolla. Questo significa anche che “solo l’Onu sapeva che Mario aveva un biglietto in tasca per tornare in Italia il giorno 20 da Bogotà”. Nell’estate di due anni fa, il responsabile sicurezza della missione di Mario era Christian Leonardo Thompson. Prima di lavorare per l’Onu, Thompson è stato sottufficiale dell’esercito colombiano, dal 2001 al 2006, e dal 2017 al 2019 specialista della sicurezza dell’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti (Oti-Usaid). Ha lavorato anche come mercenario della sicurezza privata, pure per multinazionali Usa come Thor. Nell’estate 2020, pochi giorni dopo la morte di Paciolla, ha però oscurato il curriculum su LinkedIn. Stando a quel che è trapelato, di Thompson negli ultimi tempi Mario non si fidava, ed è lui uno degli ultimi contatti telefonici prima della morte. Dopo la morte, comincia “il depistaggio dell’Onu”, come lo chiama la mamma di Paciolla. “Violazione di domicilio, usurpazione di funzioni pubbliche, occultamento, alterazione e distruzione di prove” sono i termini della denuncia presentata dai genitori Paciolla questo mese alle autorità colombiane. La denuncia coinvolge anche quattro poliziotti colombiani, per quel che a Thompson lasciano fare, e un altro funzionario Onu, Juan Vásquez García, anche lui sul posto. Il posto è l’appartamento di Paciolla, dove il corpo senza vita viene ritrovato. Non è un appartamento dato in dotazione dall’Onu, sottolineano i genitori, il che rende ancor più anomala la mossa di Thompson che, nei momenti cruciali per l’accertamento della verità, “tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo”, recita la denuncia dei genitori. Il gesto più eclatante di depistaggio da parte di Thompson è quello di candeggiare la scena della morte: ha pulito la casa dopo la morte di Paciolla. Ma le anomalie sono numerose, e vanno dalle tracce cancellate ai documenti sottratti. Nell’appartamento di Paciolla ci sono oggetti con campioni biologici, insomma dettagli cruciali per le indagini. Thompson fa qualche foto, ma quelle tracce non vengono acquisite nel modo appropriato dai poliziotti sul posto. C’è di più, come ricostruito nella denuncia dei genitori: “Il materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto”. A due anni dalla morte di Mario, risultano tuttora scomparsi l’agenda e i quaderni dove Paciolla annotava pensieri e fatti. La perdita è doppia: perdiamo le tracce delle sue analisi sulla realtà colombiana, che anni prima aveva pubblicato anche su Limes con lo pseudonimo di Astolfo Bergman. E si può supporre che perdiamo anche tracce importanti di quello che “aveva visto, capito, intuito” e che lo aveva sconvolto. Sono rimasti almeno i dispositivi informatici? “Per quel che sappiamo - risponde la mamma di Paciolla - il pc e il cellulare personali li ha la procura colombiana, ma quelli di servizio li ha l’Onu”. Il mouse è stato rinvenuto, insanguinato, nella sede della missione Onu, stando alla giornalista Duque. Nel 2021 il funzionario Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, ruolo dal quale ha ancor più margine di azione. Intanto le Nazioni unite, che a Domani dicono di garantire “piena collaborazione”, a chi è dentro il caso non risultano affatto collaborative. L’avvocata della famiglia Paciolla lo ha detto pubblicamente, mentre la Farnesina lo fa intendere nelle sue risposte a Domani, quando dice che è stato necessario “sollecitare i competenti organismi delle Nazioni unite a una maggiore collaborazione da parte della missione in Colombia”. I parlamentari italiani che da subito hanno seguito il caso, come Erasmo Palazzotto e Sandro Ruotolo, hanno intenzione di scrivere alle Nazioni unite. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, dice che “gli ultimi sviluppi che chiamano in causa l’Onu rendono ancor più urgente accertare la verità e serve una mobilitazione a più livelli che coinvolga parlamentari di buona volontà, media e società civile”. Sudan. Maryam, chi ha il coraggio di scagliare la prima pietra? di Sergio D’Elia Il Riformista, 22 luglio 2022 Vent’anni, accusata di adulterio, condannata alla lapidazione dopo indagini piene di irregolarità. In Sudan questa sentenza segna un ritorno al terrore della dittatura di Omar al-Bashir. La caduta del regime di Omar al-Bashir nell’aprile 2019 aveva fatto ben sperare. Dopo trent’anni di regime condotto col pugno di ferro e la legge della Sharia, il colpo militare in Sudan avrebbe, se non altro, potuto segnare la fine delle punizioni coraniche. Ma il “nuovo” regime non ha cambiato registro. A fianco del Codice militare sudanese, l’esercito ha lasciato in vita il Codice penale islamico. Con esso è restata in vigore la pena capitale anche per i crimini di Hudud, considerati i più gravi, perché sono rivolti contro Allah. Apostati, ladri, rapinatori, adulteri, calunniatori e consumatori di alcolici rischiano ancora le sanzioni più arcaiche della storia dei delitti e delle pene. Dall’amputazione di mani e piedi alla fustigazione, dalla morte tramite impiccagione alla morte per lapidazione. Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati - in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità - eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato. Tra i diciassette Paesi dove la lapidazione è prevista dalla legge o praticata di fatto compare anche il Sudan. Nel sud del Paese, lo scorso 26 giugno un tribunale di Kosti, nello Stato del Nilo Bianco, ha condannato a morte tramite lapidazione Maryam Alsyed Tiyrab, una donna di 20 anni accusata di adulterio. Si sa molto poco della sua vita personale e della sua famiglia, se non che lei e suo marito si erano lasciati e lei era tornata a casa. Grazie all’organizzazione per i diritti umani Centro africano per gli studi su pace e giustizia, si sa che le autorità sudanesi hanno compiuto diverse irregolarità che hanno contaminato anche le indagini e il processo. La polizia l’ha presa in custodia, gli inquirenti hanno indagato e interrogato, la donna avrebbe confessato. Nessun avvocato di fiducia l’avrebbe difesa davanti a poliziotti e magistrati. Nessuno l’avrebbe informata che le sue parole durante l’interrogatorio sarebbero state usate contro di lei in tribunale. A seguito della confessione da lei resa durante l’interrogatorio, il verdetto del tribunale era solo una formalità. L’adulterio è considerato un reato grave nel Paese, un crimine contro la “morale pubblica” e la “virtù della donna”. Seduta stante, il tribunale ha emesso una condanna alla lapidazione. Una pena di morte per adulterio non veniva comminata in Sudan dal 2013, quando una donna nel Kordofan meridionale è stata arrestata per adulterio e condannata alla lapidazione. La sentenza nei confronti di Maryam segna un ritorno al passato, ai tempi del terrore politico e penale imposto dalla dittatura di Omar al-Bashir. Essa deve essere ancora approvata dalla Corte suprema, che ha una storia di ribaltamento delle decisioni di lapidazione contro le donne condannate. Ma, intanto, la donna rimane in attesa… che qualcuno scagli la prima pietra. A coloro che gli avevano condotto un’adultera con la speranza che egli ordinasse di lapidarla - racconta il Vangelo secondo Giovanni: 8,3[1] - Gesù Cristo disse “chi tra voi è senza peccato scagli la pietra per primo”. Nessuno osò scagliare pietre. Tutti, a partire da quelli più anziani, abbanmere donarono il proposito e si ritirarono in pace. Una parabola perfetta contro la morte per lapidazione: siano usate, le pietre, per costruire case, ponti, città, non per “fare giustizia”, “repriil vizio” e “promuovere la virtù”. A ben vedere, è una parabola che va oltre la giustizia che lapida a morte. È un monito a “non giudicare” l’altro prima di aver fatto un esame di coscienza di se stesso. Ancor di più, è un invito ad abbandonare la logica manichea del diritto penale, della lotta tra il bene e il male, del delitto e del castigo. Un abisso di umanità e civiltà divide la buona novella di duemila anni fa dalla storia - non malsana, ma ordinaria - della giustizia contemporanea. Quella degli avvisi di garanzia, dei giusti processi, dei giudizi definitivi e degli umani castighi, notificati, celebrati, lanciati come se non fossero, anch’essi, pietre mortali. A volere essere umani e civili, occorrerebbe definitivamente uscire dal “sistema di lapidazione” insito nel giudizio, dal principio di diritto penale da cui tutto origina e da cui tutto consegue in una catena senza fine di violenze, sentenze, sofferenze. La rinascita dell’Isis lungo il confine tra Iraq e Siria di Mario Giro Il Domani, 22 luglio 2022 L’Isis non demorde e si fa sentire da entrambi i lati del confine tra Iraq e Siria. Negli anni del suo atroce trionfo, lo Stato islamico aveva cancellato il confine tra i due stati, considerandolo una obsoleta creazione dei “crociati” colonizzatori europei. Anche le cancellerie occidentali avevano a quell’epoca iniziato a creare uffici “Siraq” per seguire un’evoluzione geopolitica non favorevole (un po’ come avevano fatto prima con gli uffici Afpak, Afghanistan e Pakistan). Non si tratta più delle pericolose orde assassine che avevano lasciato il mondo attonito per la loro crudeltà, ma la riemersione di alcune unità combattenti attorno alla frontiera e nelle zone desertiche siriane è ormai certa. Ciò che preoccupa sono le decine di migliaia di donne e bambini, familiari degli ex combattenti, custoditi nel limbo dei campi e che non si riesce a reintegrare nella società araba: nessuno li vuole a causa del loro indottrinamento. Che ne sarà di loro? Si teme che formino uno speciale humus favorevole alla rinascita del terrorismo. Ciò che colpisce è la resilienza di quelle donne che restano legate al fanatismo con cui sono state ammaestrate: malgrado le sofferenze e lo stigma che pesa su di loro, educano i loro figli (i “leoncini” dell’Isis come li chiamano) alla stessa ideologia settaria. L’Isis rinascente se la prende con le tribù arabe della zona, accusandole di non essere abbastanza fedeli: si tratta di una lotta di influenza tra arabo-sunniti e curdi in un contesto del tutto sconvolto dai lunghi anni di guerra. Tali tribù cercano di uscire dall’isolamento a cui l’adesione (attiva o passiva) all’Isis le aveva costrette, provocando la diffidenza delle altre popolazioni: non solo le minoranze cristiane o yazide ma soprattutto gli sciiti e i curdi. Ogni tanto vi sono notizie di condanne a morte emesse dall’Isis nei confronti di elementi arabo-sunniti locali: lo scopo è infondere timore per attirarli (con le buone o con le cattive) dalla propria parte. Dal canto loro il governo iracheno e le varie fazioni che controllano la Siria, mobilitano milizie in funzione anti Stato islamico per non perdere il controllo del territorio. Le forze armate Usa presenti in Siria conducono continue attacchi mirati contro la leadership terroristica riemergente. In mancanza di una presenza capillare sul terreno (gli americani sono meno di un migliaio in Siria ormai), si tenta di scardinare la rete che si sta ricostituendo per evitare all’Isis di riorganizzarsi: si tratta di una nuova fase della guerra dei droni già largamente utilizzata dall’epoca di Obama. L’attuale tattica degli uomini dello Stato islamico è di operare a cavallo della frontiera, sfruttando l’assenza di un reale coordinamento tra le forze armate dei due paesi. D’altronde, mentre in Iraq esiste un esercito unitario e forze di sicurezza ricostituite dal governo, in Siria siamo ancora di fronte ad una pluralità di soggetti armati che non dialogano necessariamente tra di loro ma che anzi sono spesso nemici. A sud della siriana Deir el Zor verso il deserto, e a est della stessa città, l’Isis distende nuovamente i suoi tentacoli, lungo il corso dell’Eufrate che attraversa poco oltre la frontiera ufficiale tra i due paesi, spingendosi fino al triangolo sunnita dove l’Isis era nato, iniziando con la città di Ramadi. È in questa vasta area che lo Stato Islamico cerca di rinascere. In Siria più a nord le tribù arabe devono tener conto della presenza delle Forze democratiche siriane (Sdf), sostenute dagli Stati Uniti e guidate dai curdi, dominate dalle Unità di protezione del popolo (Ypg), quelle milizie accusate dalla Turchia di essere strettamente legate al Pkk presente in forze a nord Iraq. Stati Uniti e Unione europea hanno messo il Pkk nella lista nera dei gruppi terroristici anche se contano sul sostegno curdo nella lotta contro l’Isis: una situazione dai contorni geopolitici ambigui e cangianti. Dalla fine della fase vittoriosa del gruppo (2017), numerose tribù arabo-sunnite dell’area si sono unite all’Sdf per sostenere le proprie famiglie anche se sotto il controllo curdo denunciano persistenti discriminazioni, arresti arbitrari e altri abusi. Di fatto non c’è fiducia tra arabi e curdi e su questo fa leva il rinascente gruppo terroristico. Molti arabi locali dicono di avere paura sia del Pkk sia dell’Isis così come del governo siriano e delle milizie alleate, e non sanno più di chi fidarsi: la guerra ha completamente sconvolto la trama sociale siriana. Nella provincia siriana di Hasakeh - in gran parte controllata dai curdi delle Sdf con alcune sacche gestite dalle truppe lealiste del governo siriano di Damasco - da tempo i rapporti tra arabi e curdi sono divenuti conflittuali: ogni parte teme l’altra. In quella provincia è situato il famigerato campo di al Hol con oltre 50.000 persone, per lo più donne e bambini, molte delle quali legate ai combattenti dell’Isis. A complicare le cose vi è la presenza incombente della Turchia che ha annunciato da mesi una sua nuova offensiva per allargare la buffer zone che già controlla. Il pretesto turco è la presenza crescente de Pkk, già radicato in forze a nord Iraq dove la Turchia ha inviato uomini e armi. La confusione regna: sia le Sdf curde che i gruppi di opposizione siriani legati alla Turchia si accusano a vicenda di aiutare segretamente l’Isis per i propri scopi. Più a sud, dal lato iracheno del confine, sono segnalati attacchi come recenti esplosioni di depositi di armi avvenute nell’area di Husaybah nell’Anbar occidentale, che stanno suscitando un forte allarme. Infine un ulteriore problema da entrambi i lati del confine è la crisi economica e il crescente traffico di droga, utilizzato dai vari soggetti armati (incluso l’Isis) per finanziarsi. Pare che la provincia irachena di Ninive sia divenuta zona di transito per questo tipo di contrabbando che unisce i due stati. Al Monitor stima che la metà dei giovani della regione lavori nel commercio di droga o ne faccia uso. La mancanza di lavoro e il crescente consumo di droga favoriscono il reclutamento nelle milizie armate e nell’Isis, soprattutto nelle aree rurali e periferiche dove gran parte della popolazione si sente abbandonata da entrambi i lati del confine.