“Fatwa sui penalisti”: Ucpi contro le polemiche sul Dap di Valentina Stella Il Dubbio, 21 luglio 2022 L’Osservatorio carcere dell’Unione stigmatizza le inesattezze del Fatto nella polemica sulle visite al 41bis di Nessuno tocchi Caino. Si intitola “La Fatwa del Fatto Quotidiano sui penalisti in visita alle carceri” il documento licenziato dall’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali. Il tema è sempre quello dell’autorizzazione concessa dal Dap a Nessuno Tocchi Caino per visitare anche i reparti di 41bis di due carceri sarde. Ricordiamo che il capo del Dap Renoldi durante la sua audizione alle Camere ha ribadito che “le visite, come riferito dal reparto d’elite del Gom, sono state effettuate in assenza di qualsivoglia anomalia”. Tuttavia da parte del Fatto “l’attacco più stucchevole - scrivono i penalisti - è quello rivolto a due avvocati componenti la delegazione autorizzata”, Maria Teresa Pintus, co- responsabile regionale per la Sardegna dell’Osservatorio, Lisa Vaira, della Camera Penale di Sassari, entrambe difensori di numerosi detenuti al 41 bis. “Secondo la giornalista di “giudiziaria” del Fatto Quotidiano, Antonella Mascali, lo scandalo dell’autorizzazione concessa è da individuarsi nella presenza, tra gli altri, delle due penaliste, ‘non per sacrosanti colloqui da difensori’, bensì per la valenza enorme del segnale, ‘per il mondo mafioso, che vive di simboli, che due avvocate, che difendono detenuti al 41-bis proprio a Sassari, arrivino nella sezione con una delegazione di un’associazione che, legittimamente, dal suo punto di vista, è contro l’ergastolo e contro l’ostativo ai benefici’“. Per i penalisti queste sarebbero delle vere e proprie “farneticazioni” che, “oltre a fondarsi sul solito brocardo travaglino “l’avvocato è un colluso dei mafiosi”, colpevolmente ignorano che l’avvocato difensore di detenuti al 41 bis è l’unico soggetto ammesso a svolgere colloqui con i propri assistiti senza poter essere non solo video-registrato, come avviene di solito per la sezione detentiva speciale per tutti gli altri colloqui, ma nemmeno audito da personale di polizia penitenziaria”. In più, ricordano i membri dell’Osservatorio, “l’istituto delle visite nelle carceri effettuate dagli avvocati penalisti e autorizzate dal Dap ha rappresentato uno dei principali argomenti utilizzati dal Governo italiano per chiedere la chiusura della procedura di infrazione promossa dal Consiglio d’Europa contro il nostro Paese all’indomani della sentenza Torreggiani, circostanza recepita, poi, nel provvedimento di chiusura dell’infrazione stessa”. Aspetto ancora più importante sul piano dei principi è che “l’avvocato è l’unico simbolo vivente di libertà e della inviolabilità del fondamentale e universale diritto alla difesa che nessun regime speciale detentivo può cancellare”. Infine, “se la giornalista di “giudiziaria” avesse approfondito la questione piuttosto che partire lancia in resta contro le presenze degli avvocati nelle visite in questione, soffermandosi sul rapporto dalle stesse redatto, avrebbe potuto toccare con mano che le nostre colleghe, grazie alle interlocuzioni avute con detenuti e detenenti degli istituti visitati, hanno denunciato, tra l’altro: l’assenza all’interno della struttura di medici specialistici; la carenza di ben 33 agenti e di 30 ispettori (l’ 85% in meno) di polizia penitenziaria; la presenza di soli due educatori sui sette previsti; la mancanza di aria e di luce naturale per una struttura collocata ben due livelli sotto terra con conseguente umidità d’inverno e caldo torrido d’estate”. La conclusione è poi netta: “Quanto poi alle posizioni dell’Unione delle Camere Penali e del proprio Osservatorio Carcere sull’ergastolo ostativo o sul regime speciale disciplinato dall’art. 41 bis O. P., possiamo tranquillizzare la giornalista Mascali e tutta la redazione di Marco Travaglio, che esse sono coerenti e cristalline con la concezione liberale e costituzionale della pena e del diritto penale più volte esternata, con forza e rigore scientifico, in occasione delle audizioni nelle competenti commissioni Giustizia del Parlamento o, nello specifico, in occasione dell’audizione innanzi alla Commissione parlamentare antimafia proprio sul 41 bis, avvenuta nel novembre 2019 di cui vi è traccia pubblica nella videoregistrazione istituzionale”. Messa alla prova, protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia e Telefono Rosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 luglio 2022 La promozione di convenzioni locali tra Tribunali ordinari e sedi operative del Telefono Rosa per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova per adulti. Questo l’obiettivo del protocollo nazionale, stipulato presso il ministero della Giustizia, dalla ministra Marta Cartabia con la presidente del Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli e curato dalla Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità. “Grazie a protocolli come questo, il tempo speso nell’esecuzione della pena diventa un tempo costruttivo: al lavoro di restituzione e di recupero degli autori di reato si accompagna il lavoro su se stessi - commenta la ministra Cartabia - la legge delega di riforma del processo penale, di cui stiamo perfezionando i decreti attuativi, intende sviluppare ulteriormente la possibilità di ricorrere alla “messa alla prova”. In quest’accordo con Telefono Rosa, particolare attenzione è rivolta alle donne, in linea con gli interventi già previsti nella riforma”. Oggi sono 25.101 le persone che hanno potuto usufruire della messa alla prova (di cui 4.072 donne), mentre 24.987 sono le pratiche attualmente in lavorazione presso gli uffici di esecuzione penale esterna finalizzate alla concessione della misura. Numeri destinati ad aumentare. “Questo accordo ci consentirà di aiutare meglio le persone a comprendere il significato del loro comportamento, come si può arrivare ad uno stesso obiettivo senza violenza ma attraverso la parola e il dialogo - sottolinea la presidente del Telefono Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli - Un sostegno concreto, facendo loro vivere la realtà del Telefono Rosa, senza mai oltrepassare il limite del rispetto e della solidarietà. Alla luce di questo nostro incontro è emerso il grande lavoro che la ministra Cartabia sta facendo con la riforma del processo penale. Il protocollo sarà uno strumento utile nella battaglia contro la violenza sulle donne. I soggetti che parteciperanno alla messa alla prova acquisiranno consapevolezza attraverso la formazione”. Il protocollo nazionale consentirà di affrontare meglio la crescente richiesta di ulteriori posti per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità in settori a forte impatto sociale e soprattutto con l’entrata in vigore della riforma del processo penale, rappresentando pertanto un ulteriore e significativo progresso verso il potenziamento, anche in Italia, di un modello di giustizia di comunità in linea con le principali tradizioni europee. Il lavoro di pubblica utilità potrà essere svolto presso le sedi dell’Associazione ma anche presso i centri antiviolenza, le case rifugio e tutte le altre strutture che alla parte stipulante fanno capo o siano con essa in convenzione. Il protocollo, di durata annuale e tacitamente rinnovato qualora non intervenga comunicazione scritta di disdetta, prevede che i soggetti ammessi ai lavori di pubblica utilità possano prestare fra l’altro attività nei confronti di alcoldipendenti e tossicodipendenti; a tutela del patrimonio culturale e archivistico; di manutenzione di giardini, parchi, ospedali e case di cura. Bambini in cella, si era detto “mai più” e invece aumentano di Viviana Lanza Il Riformista, 21 luglio 2022 Stando ai dati ministeriali aggiornati al 30 giugno, in tutta Italia si contano 25 bambini al seguito di 24 mamme detenute. Erano 18 al 31 maggio e altrettanti a dicembre quando la ministra Cartabia annunciò un’iniziativa di civiltà che finora ancora non c’è stata. Praticamente in tuti questi mesi non è cambiato nulla, e ora la situazione sta pure peggiorando. Il record è in Campania con 10 bambini, circa la metà del dato nazionale. Intanto l’iter della proposta di legge, voluta dal deputato napoletano Paolo Siani, per sostituire gli Icam con case famiglia protette, dopo circa un anno di attese ha ottenuto l’ok dalla Camera il 30 maggio scorso e chissà ora quanto tempo passerà per la pronuncia del Senato. Del resto, cosa volete che importi alla politica se un bambino resta dietro le sbarre qualche mese o anno in più? C’è grande indifferenza su questo tema. Forse perché si parla di bambini, forse perché si fanno i conti con numeri che non coinvolgono le masse. Eppure si era detto che anche un solo bambino in carcere sarebbe stata una sconfitta della giustizia, della civiltà, del diritto all’infanzia che invece va sempre tutelato. Per aprire uno squarcio nella tela dell’indifferenza e della scarsa conoscenza sotto cui quotidianamente si consumano i drammi di questi bambini innocenti, costretti a vivere i primi anni di vita in carcere, lo scrittore Lorenzo Marone ha visitato l’Icam di Lauro, l’unica struttura per detenute madri con figli al seguito presente in Campania. E da quell’esperienza sono nati il romanzo “Le madri non dormono mai” e la convinzione che “la responsabilità della politica è enorme”. “Entrai nell’Icam nel 2021, in pieno lockdown. L’idea nacque quando, parlando con Paolo Siani, venni a conoscenza di questa realtà di cui si sa pochissimo - racconta Marone al Riformista - Chiesi al garante Ciambriello di accompagnarmi ed arrivai a Lauro”. “Fu una visita strana - ricorda - Quando si arriva all’Icam la sensazione è di entrare proprio in un carcere, con le mura alte e le telecamere. Una volta dentro fui accolto dai bambini che mi vennero incontro curiosi e urlanti. I bambini mi presero per mano e mi portarono a giocare in cortile dove c’erano scivoli e giostrine”. Tutte le contraddizioni di quel luogo si palesarono. “I bambini avevano voglia di mostrarsi, di esibirsi, forse avevano anche un desiderio di interfacciarsi con una figura maschile - racconta Marone. Le madri invece erano molto più diffidenti. Passai lì un’intera giornata, giocai con i piccoli e visitai le celle”. Quei volti e quelle storie hanno ispirato il romanzo corale di Lorenzo Marone che non è un romanzo sull’Icam di Lauro ma una riflessione sugli ultimi, sui vinti, su concetti come carcere e libertà. “I personaggi sono frutto di fantasia ma ispirati a bambini che ho conosciuto a Lauro”, spiega lo scrittore. “Mi auguro - aggiunge - che questo libro possa nel suo piccolo contribuire a far conoscere questa realtà che quasi nessuno conosce ma che è un problema da risolvere. Non possiamo far crescere bambini di due o tre anni, nel pieno della formazione della loro personalità, in un carcere”. Perché non bastano l’arredamento da miniappartamento, le giostre nel cortile e le pareti dipinte con personaggi di cartoni animati a rendere quel luogo diverso da quello che è: un carcere, pieno di sbarre, cancelli e serrature. “C’è anche un grande paradosso - osserva lo scrittore Marone - ed è legato al fatto che quei bambini, provenienti da situazioni di degrado sociale, trovano la cura, la presenza e l’assistenza dello Stato solo quando entrano nell’Icam dove c’è la pediatra che li visita periodicamente, ci sono le volontarie che fanno laboratori e doposcuola, c’è la psicologa. Il punto di domanda è perché questi bambini devono arrivare in carcere per avere questa mano dallo Stato?”. È una riflessione che più volte il Riformista ha sollevato. “C’è una responsabilità politica enorme - sintetizza Marone. Siamo la terra con la maggiore dispersione scolastica in Europa - aggiunge, commentando i dati campani sui minori a rischio - e nessuno fa niente, manca una vera cultura della legalità. Mi trovo in grande conflitto con Napoli in questo momento, è una città martoriata ma non riesco più a difenderla. C’è una mancanza dello Stato a tutti i livelli, dal governo centrale alle amministrazioni locali, non abbiamo un’amministrazione da trent’anni e se ne pagano le conseguenze”. Marrone racconta di aver visitato anche associazioni impegnate in periferie di frontiera, come la Fondazione di Maria a San Giovanni a Teduccio. “È una struttura che coinvolge tante famiglie - spiega. Mi hanno spiegato che quando alle persone che vivono in queste zone degradate si apre una porta, si mostra un modo diverso di stare al mondo e le si coinvolge, queste persone rispondono. Il problema vero, quindi, è che non c’è volontà politica di intervenire con una presenza costante, a cominciare dalla dispersione scolastica”. Lorenzo Marone parla dopo aver visto con i propri occhi i drammi dei bambini in cella e quelli dei bambini delle periferie degradate. “Come dice Paolo Siani, bisogna ripartire dai bambini - conclude Marone -. Siamo la prima terra per dispersione scolastica, bisogna riportare i bambini a scuola ma investendo sulla scuola che oggi è ancora un’istituzione che funziona un quarto di quanto dovrebbe funzionare. È necessario quindi ristrutturare le scuole equi si torna al discorso della responsabilità della politica”. È un discorso circolare, partendo dalle omissioni della politica ti porta alle iniziative che la politica deve assumere altrimenti da questo circolo vizioso non si esce. E Napoli lo dimostra quasi ogni giorno, con la cronaca della violenza e della devianza minorile, con i suoi numeri sempre più alti di quelli di altre città in fatto di minori a rischio e bambini innocenti costretti a vivere in carcere insieme alle madri detenute, con il degrado e l’incuria a cui ancora non si pone fine. Il 28 luglio presentazione online del Rapporto di metà anno di Antigone di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2022 “La calda estate delle carceri” è il titolo del Rapporto di metà anno dell’associazione Antigone che, come consuetudine, fa il punto su quanto avvenuto nei primi mesi negli istituti di pena italiani. Il rapporto sarà presentato il prossimo giovedì 28 luglio, dalle ore 10.00, con una diretta streaming sulla pagina Facebook e il canale YouTube dell’associazione. Il caldo che ha colpito il nostro paese (e non solo) non poteva non avere ripercussioni anche sulle carceri. In carcere non esiste l’aria condizionata, le finestre spesso sono schermate e non consentono un adeguato passaggio di aria, in molti istituti le docce non sono nelle celle, in alcuni manca addirittura l’acqua in alcune ore della giornata. Il sovraffollamento fa il resto. Le visite che l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione ha effettuato in questi primi mesi del 2022 sono servite anche a documentare questa situazione. Numeri, dati, statistiche, approfondimenti e storie saranno illustrate nel rapporto. Per ulteriori informazioni e per concordare eventuali intervista si può fare riferimento al sottoscritto utilizzando i contatti riportati di seguito. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Un azzardo che costa 21 miliardi solo sulla giustizia: riforme addio di Errico Novi Il Dubbio, 21 luglio 2022 Nel suo discorso al Senato, il premier aveva ricordato l’obbligo di approvare i decreti relativi ai ddl Cartabia. Riuscirci sarebbe stato comunque difficile, con questi partiti. Non è un caso: Mario Draghi aveva citato la giustizia al primo posto, ieri mattina, nel rivendicare le riforme portate a casa dal suo governo. I provvedimenti sulla “giustizia”, innanzitutto, poi quelli relativi a “concorrenza, fisco, appalti, oltre alla corposa agenda di semplificazioni, sono”, aveva detto, “un passo in avanti essenziale per modernizzare l’Italia”. È un passaggio chiave dell’intervento che il premier ha pronunciato a Palazzo Madama, ed è strettamente connesso al Pnrr. Perché il capo del governo aveva tenuto a ricordare altre due cose. Da una parte “la riforma del processo penale, del civile e delle procedure fallimentari”, oltre a quella sulla “giustizia tributaria” appena incardinata in Parlamento, “sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani”. Ma dall’altra parte, e soprattutto, il presidente del Consiglio aveva aggiunto che “le scadenze segnate dal Pnrr sono molto precise”, e che perciò “dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale”. Senza contare che pure la riforma tributaria, ora al Senato, “deve essere approvata entro fine anno”. Draghi neppure ha rammentato che “sgarrare” sui decreti attuativi del civile e del penale costerebbe 21 miliardi di Pnrr, oltre il 10 per cento del finanziamento promesso dall’Europa all’Italia. Con uno stile ormai ben riconoscibile, il capo del governo, più che lanciare allarmi disperati, ha consegnato nelle mani dei partiti tutte le responsabilità, le conseguenze di una crisi e di un ritorno anticipato alle urne. Senza nemmeno puntualizzare le perdite mostruose che il paese soffrirebbe sul piano finanziario. E in effetti, i dati sono quelli evocati da Draghi col suo garbato senso di sfida. I patti con l’Europa prevedono che il percorso normativo debba essere completato entro il 2022, e che altrimenti parte dei fondi andrà perduta. D’altronde la giustizia dà anche la misura del nuovo “patto” che il presidente del Consiglio aveva richiesto nel discorso a Palazzo Madama. La materia è divisiva, e infatti Draghi, in un altro passaggio, non ha mancato di ricordare lo “sfarinamento” che nella maggioranza si è registrato, per esempio, attorno alla riforma del Csm. Ha rammentato cioè che, come sembra storicamente inevitabile, sulla giustizia si raggiunge il più alto grado di tensione, in Italia, a maggior ragione all’interno di una maggioranza così eterogenea. Ma il coefficiente di difficoltà della sfida risiedeva, per Draghi, proprio nella necessità che persino sulla giustizia, in tempi brevi, si arrivasse a un accordo, e innanzitutto al via libera sui decreti attuativi del nuovo processo. Si doveva passare da subito, entro l’autunno, dalle sfibranti trattative intavolate fino a poche settimane fa sul ddl Cartabia a una coesione assoluta. Un miraggio. È la cifra del nuovo corso che Draghi si era detto disposto a intraprendere: dovete mettere da parte davvero i contrasti - è stato il messaggio rivolto dal presidente del Consiglio ai partiti - a cominciare dalle nuove norme sui processi. È vero che i decreti attuativi richiedono, in Parlamento, un parere non vincolante per l’esecutivo. Ma è anche vero che quei provvedimenti, una volta usciti dal legislativo del ministero di Marta Cartabia, avrebbero dovuto transitare per un Consiglio dei ministri già dimostratosi capace di clamorose balcanizzazioni, come nel varo del maxiemendamento alla riforma del Csm, nel febbraio scorso. Una maggioranza incapace di disciplinarsi, insomma, avrebbe rischiato di paralizzare anche questa ulteriore produzione normativa. Ed è chiaro che le maggiori tensioni si sarebbero registrate sul processo penale. Ad esempio, sulla definizione puntuale delle nuove regole per i ricorsi in appello e in Cassazione. Non è un caso che il coordinamento dei testi impegni ormai gli uffici di via Arenula da quasi tre mesi. “I testi del penale saranno pronti entro l’estate”, aveva assicurato Gian Luigi Gatta, consigliere della guardasigilli. A questo punto gli sforzi compiuti dai tecnici rischiano di essere inutili. In una prospettiva di coesione e ferrea “disciplina di maggioranza”, Draghi e soprattutto Cartabia avrebbero potuto trovare spazio anche per altri passi, come la normazione secondaria sul carcere, vale a dire le modifiche regolamentari previste dalla commissione Ruotolo per migliorare la qualità della vita di detenuti e agenti. Ipotesi che ora, in una prospettiva ridotta alla gestione degli affari correnti, diventerebbero irrealistiche. D’altra parte, il vero banco di prova, sul carcere, sarebbe stato un altro: l’impatto, sulla maggioranza, di quei decreti attuativi del penale che prevedono di superare l’esecuzione inframuraria quando la pena è al di sotto dei 4 anni. Il ddl delega di Cartabia lo prefigura con chiarezza, ma in una maggioranza affamata di bandierine da sventolare, partiti come Lega e avrebbero approfittato, probabilmente, di quelle materie per infiammare ancora gli ultimi mesi di legislatura. La posta in gioco era alta. E i partiti non se ne sono mostrati all’altezza. Una malattia chiamata processo di Alberto Cisterna Il Riformista, 21 luglio 2022 Vite sospese per anni, impigliate nell’attesa di un verdetto. Quando tutto termina, assolti o guariti, resta un vuoto da colmare. E il problema è lo stesso: da dove ripartire. Esistono i “non luoghi” insegnava Marc Augè. Spazi in cui le vite degli uomini si incrociano, si sfiorano senza tessere tra loro alcuna relazione. Ambiti in cui non si consuma neppure l’apparenza di un rapporto, in cui le individualità si contano, si sommano, ma senza che ciascuna vita abbia la minima rilevanza in sé considerata per gli altri. Trovarsi imputato in un processo, rispondere di un reato per anni e anni crea un “non luogo” dell’anima, uno spazio indeterminato in cui la vita fluttua nella sola attesa di un verdetto. Certo non tutta la vita, ma una parte importante di essa resta come sospesa, impigliata: aspetta, spera, dispera, impreca, blandisce, teme, minaccia. Sentimenti sprecati, emozioni indotte, paure provocate, speranze ondivaghe. Quando tutto termina, quando l’innocenza risuona si ha l’impressione di un vuoto da colmare, di nuove emozioni da sperimentare, di un guado da cercare nel fiume impetuoso della vita, forse, un po’ più a monte o, forse, un po’ più a valle e, comunque, altrove. Certo la malattia genera paesaggi interiori in gran parte simili. La guarigione lascia l’anima senza un obiettivo preciso da raggiungere e senza lo scopo verso il quale era proteso fino a poco prima ogni soffio vitale. La vita sanata dal male resta priva di quel velo di incertezza e di inquietudine che la rendeva, comunque, tenace, fragile, reattiva. Poi tutto riprende a scorrere: un po’ più in là, in un altro punto. Nel punto in cui i rugosi e taglienti canali carsici della sofferenza restituiscono l’acqua alla luce del sole dopo averla imprigionata in mille meandri e dispersa per mille anfratti bui e tortuosi. Accettare il processo come si accetta una malattia, sperando in un’assoluzione che possa suonare come una guarigione. Ma assolti o guariti il problema resta lo stesso: dove guadare nuovamente il torrente dell’esistenza, a partire da quale roccia saltare gli argini per fare rientro a casa. L’illusione di tornare indietro, di poter volgere lo sguardo a un passato divenuto irraggiungibile e che, quindi, è definitivamente seppellito. Peggio, crogiolarsi nella retorica dell’ingiustizia, dell’autocommiserazione affidandosi al vaticinio ingannatore di una ricompensa impossibile, credendo alle sirene di una riparazione che nessuno può dispensare. Oppure tener dritto lo sguardo in avanti e riprendere la vita esattamente nel punto in cui era stata sfregiata; senza rievocare sogni e progetti, divenuti ormai fantasmi, ma anche senza rinunciare al tentativo di riannodare fili, di ricomporre la tela, di ultimare i dettagli di un bozzetto rimasto incompiuto e senza autore per un calcio sferrato alla tavolozza dei colori. Quando uno dei più importanti intellettuali del secondo scorso, cacciato dal fascismo e privato della sua cattedra universitaria, fece ritorno - oltre venti anni dopo - nel suo ateneo trovò ad attenderlo i suoi nuovi studenti. Non erano, certo, quelli della sua ultima lezione bruscamente interrotta dai picchiatori in camicia nera. Erano altri, molti dei quali neppure nati al tempo dell’infamia. Il professore si accomodò sulla sua cattedra, la stessa di quel giorno di vergogna, sfogliò lentamente il libro di testo in un silenzio composto, alzò lo sguardo verso quei ragazzi e disse: “allora, se non sbaglio, eravamo rimasti a pagina”. Violenza sulle donne, l’Onu condanna l’Italia di Eleonora Cirant Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2022 “Nel sistema giudiziario del Paese stereotipi sessisti”. Lo fa sapere in una nota stampa il gruppo di avvocate Differenza Donna, che ha presentato un ricorso - accolto - in merito a un caso riguardante una donna che, già vittima di violenza domestica, aveva subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito. Per la prima volta il Comitato Cedaw, organo delle Nazioni Unite incaricato di monitorare l’applicazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ha condannato l’Italia: “Ha accolto il nostro ricorso e ha riconosciuto che l’Italia ha violato gli articoli 2 (b)-(d) e (f), 3, 5 e 15 della Cedaw nei confronti di una donna che, già vittima di violenza domestica, aveva subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito”. Lo scrivono in una nota stampa ripresa dall’Agenzia Dire le avvocate Teresa Manente, Ilaria Boiano, Rossella Benedetti, Marta Cigna dell’associazione Differenza Donna, che riprende alcuni passaggi salienti di quanto affermato dal Comitato Cedaw. “L’agente delle forze dell’ordine era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, poi assolto in secondo grado. La Corte di cassazione ha poi confermato l’assoluzione. Lo Stato italiano nel procedimento ha difeso le politiche nazionali adottate negli ultimi anni in materia di prevenzione della violenza di genere nonché l’operato dell’autorità giudiziaria, ma il Comitato Cedaw ha ritenuto che il trattamento riservato alla donna, prima dalla corte d’appello, e poi dalla Corte di Cassazione, non ha garantito ‘l’uguaglianza sostanziale della donna vittima di violenza di genere”. Il Comitato ha sancito per la prima volta che “l’eliminazione di stereotipi sessisti nel sistema giudiziario è un passo cruciale per garantire equità e giustizia per le donne vittime di violenza. Il trattamento discriminatorio subito dalle donne nelle aule di giustizia non dipende solo dall’impatto discriminatorio che le leggi di per sé hanno nei confronti delle donne, ma anche dall’assenza di specializzazione e di sensibilità delle autorità giudiziarie nell’applicazione della legge nei casi di violenza di genere e dall’utilizzo di pregiudizi e stereotipi discriminatori”. In particolare, prosegue la nota, il Comitato ha stabilito che: “Spesso i giudici hanno adottato dei modelli rigidi riguardo il comportamento che considerano giusto per una donna e penalizzano coloro che non si conformano a quel modello. Gli stereotipi, inoltre, pregiudicano la credibilità delle donne, delle testimonianze e delle argomentazioni. Ciò ha delle conseguenze gravi, per esempio, nella giustizia penale, ove gli imputati di violenza sessuale non sono resi legalmente responsabili per le violazioni commesse, dunque sostenendo una cultura di impunità. In tutte le aree della legge, gli stereotipi compromettono l’imparzialità e l’integrità del sistema di giustizia e conducono a decisioni disancorate dalla realtà dei fatti e alla ri-vittimizzazione delle persone offese”. Nel caso in esame, secondo la Cedaw, le corti nazionali abbiano dimostrato: “Una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia e l’impatto dell’esposizione ai traumi successivi. Il Comitato ha affermato- continua la nota stampa- che gli stereotipi crescono dove la legge non identifica in maniera chiara ‘il consenso’ quale elemento centrale del reato di violenza domestica. L’assenza di ciò porta a un errato scrutinio sulla vita privata della vittima e ad un a interpretazione delle norme basata su norme culturali e preconcetti che nega equo accesso alla giustizia e fallisce, non solo di proteggere la donna, ma ripetutamente la sottopone a discriminazione e ri-vittimizzazione. Se il consenso è portato come argomento della difesa, allora l’onere della prova non deve gravare sulla vittima, ma sulla difesa che deve provare l’esistenza ben fondata di un esplicito consenso”. Sono stati riconosciuti, prosegue la nota, i danni specifici conseguenti all’accettazione degli stereotipi e i miti basati sul genere da parte dell’autorità giudiziaria di merito e della Corte di cassazione. Il Comitato ha deliberato anche misure di ordine generale che lo Stato deve adottare con urgenza e che riguardano la risposta legislativa e giudiziaria del nostro ordinamento dinanzi alla violenza di genere e sessuale. Sono state accolte, infatti, le nostre richieste di adottare misure efficaci per garantire che i procedimenti giudiziari relativi ai reati sessuali siano portati avanti senza ritardi ingiustificati e di garantire che tutti i procedimenti giudiziari relativi a reati sessuali siano imparziali, equi e non influenzati da pregiudizi o stereotipi di genere, indicando una vasta gamma di misure correttive rivolte a tutti i livelli del sistema legale. Chiude la nota stampa: “È stato raccomandato inoltre di fornire programmi di formazione specifici per la magistratura, per l’avvocatura e le forze dell’ordine, il personale medico e tutte le altre parti interessate, con la finalità di far comprendere le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere. Il Comitato raccomanda di sviluppare, implementare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere, che approfondiscano i danni prodotti dagli stereotipi e pregiudizi mediante ricerche basate sull’evidenza e l’identificazione delle migliori pratiche. Ulteriore raccomandazione del Comitato, che noi riteniamo cruciale, è quella di predisporre un sistema di monitoraggio e analisi delle sentenze delle tendenze del ragionamento giudiziario, predisponendo anche meccanismi di denuncia e controllo dei casi di stereotipizzazione giudiziaria. Ciò significa che magistratura, avvocatura e tutti coloro che agiscono nella qualità di agente statale (forze dell’ordine, servizi sociali, personale socio-sanitario ecc.) e fanno ricorso a stereotipi e pregiudizi sessisti nel loro operato, ne debbano rispondere”. Arriva il commento positivo della senatrice Pd Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio: “Differenza Donna ha riscosso una vittoria storica destinata a lasciare il segno nel nostro ordinamento, a favore delle donne e contro la violenza maschile. Si tratta di un grande risultato, completamente in linea con gli esiti delle diverse indagini svolte dalla Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e in particolare della relazione sulla vittimizzazione secondaria di donne e minori. Ora è determinate approvare il ddl in Commissione Giustizia che stabilisce che quando non c’è consenso c’è violenza”. Soddisfazione anche da Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea Onlus e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama: “Si tratta di un altro passaggio importante per prevenire non solo la violenza e ma anche la vittimizzazione secondaria nei tribunali, un tassello che si aggiunge alle altre pronunce internazionali sia della Cedaw che della Convenzione di Istanbul secondo cui quando non c’è consenso c’è sempre violenza sessuale. È su questo principio che occorre modificare l’ordinamento italiano, che deve porre al centro il consenso della vittima e garantire giustizia alle donne. Una giustizia che, troppo spesso, il sistema italiano ancora non garantisce e che invece dovrebbe essere già una pratica in tutti i tribunali italiani perché si tratta di disposizioni contenute nella Convenzione di Istanbul e negli articoli della Cedaw sula violenza. Ora occorre dar seguito quanto prima a queste ultime raccomandazioni, che ci auguriamo di leggere quanto prima con l’auspicio che vengano applicate il prima possibile nella loro integrità”. Processato e condannato a sua insaputa, torna in Italia per un funerale e finisce in carcere di Francesca Sabella Il Riformista, 21 luglio 2022 A suo carico era stato celebrato un processo, di cui lui non sapeva nulla, terminato con una condanna a 8 mesi passata in giudicato. Che strano universo quello della giustizia. Cioè quella che noi comunemente chiamiamo giustizia, ma che di giusto a volte non ha davvero nulla. Quella che leggerete ora sembra una favola tragicomica, uno spettacolo teatrale volto a suscitare il riso e l’amarezza. No. È successo davvero. Siamo nel lontano 2014 e Alexander Gotter è un cittadino tedesco di 24 anni in vacanza a Milano. Viene sorpreso a scarabocchiare un vagone della metropolitana. Fermato e identificato dalle forze dell’ordine, viene portato in questura, gli viene nominato un difensore d’ufficio e dopo nemmeno ventiquattro ore viene espulso dall’Italia. Fin qui, pare non ci sia nulla di strano, se non fosse che si apre un processo di cui lui non sa nulla. Il suo avvocato non lo contatta mai; tutte le notifiche a lui vengono fatte al suo difensore; nel processo non viene minimamente difeso; il giudice lo condanna a otto mesi senza sospensione condizionale; il difensore non impugna e la sentenza di condanna diventa definitiva. “Ma a questo punto accade qualcosa di ancora più kafkiano - commenta l’avvocato napoletano Andrea Castaldo che solo in un secondo momento ha assunto la difesa di Gotter - Per condanne di questo tipo, il Pubblico Ministero è obbligato a sospendere l’esecuzione della pena e il condannato può chiedere l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione; la notifica dell’ordine di esecuzione sospeso viene nuovamente fatta al difensore d’ufficio. Quindi, nessuna istanza di conversione viene depositata e il Pubblico Ministero emette l’ordine di carcerazione”. Ora si tocca l’apice del surreale: Gotter finisce in carcere. Nel 2020 Gotter, per ragioni lavorative, chiede un certificato del casellario giudiziale e l’Italia risponde attestando l’assenza di precedenti. Siamo nel 2022, Alexander, ormai sposato e con una figlia di soli quattro anni, viaggia in Italia per partecipare al funerale di un parente. Viene fermato a Livorno e condotto in carcere. Capite? Fermato, ammanettato e sbattuto in cella mentre stava per imbarcarsi con la famiglia su un traghetto. Non ne sapeva nulla. Per otto anni la sua vita è andata avanti nella ferma convinzione che l’episodio di Milano fosse stata una bravata iniziata e finita quella notte. E invece per otto anni la giustizia italiana, il Tribunale di Milano per la precisione, ha fatto un processo a sua insaputa. Processo che l’ha trascinato in galera. Gotter si è trovato improvvisamente in carcere a Livorno, in cella con altri detenuti, senza conoscere né l’italiano né l’inglese, ma solo la sua lingua madre, il tedesco. Ma soprattutto senza conoscere il perché dovesse andare in prigione, non avendo mai avuto alcuna notizia del processo e della condanna. Una vicenda surreale. “Gotter si è rivolto a me e con estrema difficoltà sono riuscito preliminarmente a ottenere una detenzione domiciliare presso la casa di uno zio, residente in Sardegna - racconta l’avvocato Castaldo - e con il provvedimento della Corte d’Appello di Milano giustizia è stata fatta, poiché il provvedimento ha annullato l’intero processo (che quindi ricomincerà daccapo), affermando che il condannato non aveva mai avuto conoscenza della contestazione”. Il giovane tedesco è stato arrestato il 25 marzo e solo dopo un mese è riuscito a ottenere gli arresti domiciliari. Un mese dietro le sbarre, senza parlare una parola di italiano, ma forse non avrebbe avuto parole per quanto stava accadendo. Questa è una follia tutta italiana sulla quale ha alzato la voce anche l’ambasciata tedesca. Gotter ha rischiato di perdere il lavoro, la Bmw ha minacciato di licenziarlo più volte. Ora Alexander ha ottenuto la scarcerazione immediata. È un uomo libero. Ma noi siamo ancora liberi di chiamare questa strana creatura giustizia? 21 anni fa il G8 di Genova: il ricordo di Carlo Giuliani e un dibattito su dissenso e repressione di Marco Preve La Repubblica, 21 luglio 2022 Sono passati 21 anni da quelle tragiche giornate del G8 genovese del 2001 ma i temi e soprattutto il dolore per la morte di Carlo Giuliani - il manifestante ucciso da un colpo di pistola sparato da un giovane carabiniere durante l’assalto a una jeep dell’Arma- e il dolore di chi in quei giorni e in quelle notti subì da parte delle forze dell’ordine violenze, soprusi e umiliazioni impossibili da dimenticare, consentono ancora oggi alla memoria di svolgere il suo compito di analisi ed elaborazione senza il rischio di malinconiche derive verso celebrazioni nostalgiche. Come ogni anno da quel 2001 il momento emotivamente più importante è previsto in piazza Alimonda dove venne ucciso Carlo alle 17.27. Le iniziative sono state organizzate dal comitato “Piazza Carlo Giuliani” insieme ad altri soggetti come “Osservatorio repressione”. Dalle ore 14 alle ore 20 in piazza Alimonda, musica, canzoni e interventi all’interno dell’evento “Per non dimentiCarlo”. Numerose le band e gli artisti che si alterneranno sul palco. In apertura del pomeriggio ci sarà la premiazione per le borse di studio promosse da CPCG, Osservatorio Repressione, Madri per Roma Città Aperta. Poi la Presentazione del progetto Ombra di tutti di Patrizio Raso con Cristina Franceschi, sorella di Roberto che venne ucciso nel 1973 dalla polizia a Milano, e Patrizio Raso. Poi interventi dal palco di: Rappresentante ICAP, Ora in silenzio per la Pace, GKN, Mamme in piazza per la libertà di dissenso, Madri per Roma Città Aperta. Il 21 luglio dalle ore 10.30 presso la sede di Music for Peace in via Balleydier 60, è in programma il dibattito “Repressione e diritto al dissenso: che fare?”. Scrivono gli organizzatori: “Le cariche indiscriminate della polizia, gli arresti e le misure cautelari contro gli studenti che manifestavano pacificamente in tante città italiane contro l’alternanza scuola/ lavoro, non possono passare sotto silenzio, sono infatti azioni e misure degne di un regime autoritario e ciecamente repressivo. La gestione dell’ordine pubblico, le politiche di controllo sociale e la criminalizzazione dei movimenti crediamo vadano analizzati con molta attenzione”. Parleranno: Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova che fu il pm del processo per le torture alla scuola Diaz; Salvatore Palidda, sociologo, Lorenzo Guadagnucci, giornalista, membro del Comitato Verità e Giustizia per Genova che fu picchiato alla Diaz e poi arrestato e recluso con un braccio spezzato nel carcere lager di Bolzaneto; Gilberto Pagani, avvocato delle parti civili la processo Diaz, e infine una rappresentante delle “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”. Moderatore Italo Di Sabato dell’Osservatorio Repressione. Gratuito patrocinio, no a revoca se reddito non dichiarato non determina superamento della soglia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2022 L’infedeltà in sé dell’autocertificazione non travolge il diritto riconosciuto ai meno abbienti. L’omessa indicazione di una parte del reddito nell’istanza con cui si chiede accesso al gratuito patrocinio non giustifica la revoca del beneficio di essere difesi da difensore di fiducia a spese dello Stato, se computando il reddito omesso non viene superata la soglia per l’ammissione. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 28249/2022 cancella la revoca ex tunc disposta a norma dell’articolo 95 del Dpr 115/2002 nei confronti del ricorrente. Non era stato, infatti, indicato dall’istante il reddito del figlio rientrante nel suo nucleo familiare. Nella decisione annullata la norma posta a base della revoca non ha rilevanza immediata nel far venir meno i presupposti del beneficio, ma persegue la falsità dell’autocertificazione reddituale. E la revoca con effetti ex tunc del beneficio e di quanto fino ad allora percepito scatta con la definitività dell’accertamento penale sulla condotta. Quindi se - come nel caso concreto - a seguito di rapporti della Guardia di Finanza, risultano fonti di reddito non comprese nella dichiarazione sostitutiva resa dall’istante va valutato se sommate, a quanto invece dichiarato, determinino o meno il superamento della soglia di ammissione al gratuito patrocinio. Se tenuto conto dei redditi occultati consapevolmente o inconsapevolmente non c’è sforamento della soglia massima stabilita. i presupposti per aver diritto all’ammissione al gratuito patrocinio non possono considerarsi de plano venuti meno. Emilia Romagna. Carceri, un bando per il reinserimento sociale e nel mondo del lavoro estense.com, 21 luglio 2022 Entro il 15 settembre gli enti di formazione accreditati potranno presentare i progetti. Formazione e progetti di reinserimento sociale per consentire alle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che limitano o privano della libertà personale di acquisire, o recuperare, abilità e competenze individuali. Con l’obiettivo di rafforzare il percorso di inserimento nel mondo del lavoro, e, soprattutto, terminata la detenzione, di poter avere un ruolo attivo nella società. Sono gli interventi orientativi e formativi per l’inclusione socio-lavorativa degli adulti sottoposti a procedimento penale in Emilia-Romagna. Li prevede il bando approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’assessore alla Formazione e Lavoro, Vincenzo Colla, che mette a disposizione risorse per 1 milione e 100mila euro del Programma Fondo sociale europeo+ 2021/2027 sulla priorità 3 che riguarda l’inclusione sociale. “Vogliamo agire su ogni forma di fragilità, per contrastare l’emarginazione e favorire, attraverso il lavoro, il reinserimento nella comunità- afferma Colla-. La Regione crede con forza nello sviluppo di progetti che, a partire dall’acquisizione di un profilo professionale spendibile nel mercato del lavoro, consentano di acquisire autonomia e competenze utili per operare attivamente nella società. In questo modo la possibilità di accedere a percorsi formativi e di orientamento durante la detenzione o in area penale esterna diviene un vero e proprio strumento di crescita da un punto di vista umano e sociale”. Le misure dovranno essere coerenti con quanto i singoli Istituti penitenziari e Uffici esecuzione penale esterna hanno rilevato e si dovranno riferire alle persone detenute in uno solo dei 10 Istituti penitenziari di Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Piacenza, Ravenna, Rimini, Castelfranco Emilia, Parma e Reggio Emilia, o in carico a uno dei 9 Uffici esecuzione penale esterna (Uepe) dell’Emilia-Romagna. I progetti dovranno essere presentati, entro le ore 12 del prossimo 15 settembre, esclusivamente attraverso l’applicazione web all’indirizzo: https://sifer.regione.emilia-romagna.it. Santa Maria Capua a Vetere. Carcere, l’altro scandalo: da 26 anni senza acqua potabile di Barbara Polidori vita.it, 21 luglio 2022 Dopo la vicenda dei pestaggi dell’aprile 2020, per la quale sono stati recentemente rinviati a giudizio 105 fra poliziotti penitenziari, dirigenti del Dipartimento amministrazione penitenziaria - Dap e funzionari dell’Asl (processo in novembre in Corte d’Assise), la storia di un istituto di pena in cui continua a mancare l’allaccio alla rete idrica. E l’acqua arriva con le autobotti. In questa estate rovente, per 900 detenuti, di cui uno su 10 ha il Covid, un inferno. L’”acqua alla gola”, per i detenuti della Casa circondariale Francesco Uccella, è tutto fuorché un gioco di parole. La struttura penitenziaria, sorta nel 1996, fu messa in piedi fin dall’inizio con un grande difetto di progettazione, che rappresenta un diritto leso per le persone: il carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) non ha infatti alcuna rete idrica. È la condizione con cui si confrontano circa 900 detenuti e il personale di Santa Maria Capua Vetere, che oggi ricorrono all’acqua in bottiglia per scongiurare il caldo, delle celle e del non poter nemmeno farsi una doccia liberamente, il tutto in una delle estati più calde della storia secondo il National Centers for Environmental Information. “L’acqua fino a oggi è stata portata con 2 autobotti e distribuita via bottigliette d’acqua, 2 a testa”, spiega Emanuela Belcuore, Garante dei diritti delle persone private di libertà personale dell’area di Caserta. Belcuore si è insediata a giugno 2020, a pochi mesi dal pestaggio dei 292 detenuti della sezione Nilo, per cui solo pochi giorni fa 105 agenti della polizia penitenziaria sono stati rinvitati a giudizio. Da allora, si è trovata ad affrontare condizioni di vivibilità drammatiche. “Com’è possibile pensare che un edificio del genere, senza acqua corrente, possa ospitare le persone? Siamo in estate, la gente ha caldo e non può rinfrescarsi, le docce non funzionano, senza contare che ci sono 95 casi Covid che hanno bisogno di spazi arieggiati”, interviene la Garante. Una domanda che affonda le sue ragioni ragioni fin dalle fondamenta di Santa Maria Capua Vetere. Anzi, nel calcestruzzo. In verbale del 1993, il pentito camorrista Carmine Schiavone sostenne che il Francesco Uccella fu messo in piedi infatti con il calcestruzzo del consorzio Cedic, facente capo ai Casalesi. Il sistema idrico negli anni è stato creato ma a tutt’oggi non c’è ancora l’allaccio alla rete cittadina: questo fa sì che la struttura debba essere rifornita periodicamente di acqua dall’esterno o che, come nel caso delle docce, si ricorra a pozzi artesiani non a norma. Come ironia della sorte, il carcere ancora oggi non ha acqua corrente, ma i sei padiglioni della struttura di Caserta recano invece ciascuno il nome di un fiume: Danubio, Tamigi, Senna, Tevere, Volturno e Nilo. Ma a parte i giochi di parole, Santa Maria Capua Vetere è tutt’oggi a secco. Diritti a secco - Anche se la situazione va avanti da 26 anni, la giurisdizione si sta facendo sentire e i detenuti stanno serrando le braccia appellandosi ai propri avvocati. Tra questi, Emilia Sibillo: condannata per organizzazione camorristica e moglie del boss Giuseppe Buonerba, è riuscita a farsi riconoscere dal proprio avvocato un risarcimento di giorni di libertà, adducendo come motivazione i problemi di salute dovuti alla mancanza d’acqua. “Il magistrato di sorveglianza le ha riconosciuto un risarcimento con giorni e ore di libertà” - spiega Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania - “L’acqua che fuoriesce dai condotti è spesso gialla, creando conseguenti problemi di dermatiti e salute. Di criticità ce ne sono molte per chi vive nelle mura del carcere, dal sovraffollamento e gli ambienti poco accoglienti, fino ai servizi igienici a vista. Parliamo di una violazione bella e buona, stando all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta trattamenti con pene inumane o degradanti nei confronti delle persone in carcere”. Un vuoto umanitario che emerge anche dalla “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” del Ministero della giustizia, per cui il detenuto “ha diritto di avere a disposizione acqua potabile e di utilizzare, nel rispetto delle regole di sicurezza”. “È dal 2016 che la Regione Campania ha stanziato 2 milioni e 190mila euro per allacciamento della conduttura idrica del Francesco Uccella” - precisa Ciambriello - “I lavori si dovevano chiudere nel febbraio 2019 ma, nonostante le nostre denunce parlamentari, ci sono evidenti ritardi nel cronoprogramma. Sei anni per fare un allacciamento sono tempi biblici, non stiamo parlando della Salerno-Reggio Calabria! Sono tempi che hanno leso i diritti delle persone diversamente libere: accanto alla certezza della pena, per loro dev’esserci la qualità della detenzione. Il carcere non è una discarica sociale dove dimenticarsi delle persone”. Catanzaro. Il calvario di Luigi: gli negano un intervento e ora rischia la vita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 luglio 2022 La denuncia di Yairaiha Onlus del caso del detenuto, del quale i familiari non hanno notizie, con una trombosi alle gambe e gravi problemi al fegato, la cui richiesta di trapianto è stata etichettata come “inutile”. Una grave trombosi alle gambe, rischia di compromettere il fegato con patologie legate dall’epatite. Ha bisogno di un intervento chirurgico, ma nulla e ciò ha creato delle gravi emorragie senza che i famigliari ne fossero messi al corrente. Una denuncia, gravissima, che solleva l’Associazione Yairaiha Onlus segnalando alle autorità competenti i problemi riportati dalla lettera della famiglia di Luigi Iannaco, così si chiama il detenuto attualmente detenuto nel circuito A. S. 1 della Casa circondariale “U. Caridi” di Catanzaro. “La sua storia - esordisce Yairaiha nella segnalazione al Dap e alla ministra della Giustizia - è esemplificativa di come, soprattutto nel contesto penitenziario, la professionalità e l’umanità di chi ha solennemente compiuto il “Giuramento d’Ippocrate” possano fare la differenza, migliorando la vita quotidiana dei detenuti o, come nel caso sottoposto alla nostra attenzione, trasformandola in un calvario”. Accade che dal 2014, l’epatite di tipo “B” del detenuto Iannaco degenera in cirrosi epatica, opportunamente trattata dal personale sanitario del carcere di Novara, presso il quale si trovava in regime detentivo del 41 bis. Oltre ai problemi al fegato, il detenuto soffriva anche di un’ernia inguinale e di una trombosi alle gambe: quest’ultima, in particolare, richiedeva un pronto intervento chirurgico per evitare che potesse compromettere il fegato o altri organi vitali. L’associazione prosegue nella segnalazione spiegando che, trasferito presso la Casa Circondariale “U. Caridi” di Catanzaro nel gennaio 2020, dopo le iniziali visite di controllo, il detenuto richiedeva all’ormai ex Dirigente sanitario del carcere di poter essere messo in lista d’attesa per un trapianto al fegato, dato che emergeva un peggioramento della sua condizione di salute e si temeva un avanzamento della malattia e una sua progressiva trasmutazione in patologia tumorale. La richiesta, etichettata come “inutile” dallo stesso, non avrebbe avuto alcun seguito e questo mancato intervento avrebbe comportato un serio aggravamento del suo stato di salute. Infatti, dopo periodici controlli di routine presso l’Ospedale “Pugliese - Ciaccio” di Catanzaro, il personale sanitario del nosocomio rendeva edotti i medici del carcere della necessità di un immediato intervento chirurgico, a causa del peggioramento delle varici esofagee (passate da stadio “F1” ad “F3); nonostante le sollecitazioni, il tempo scorreva inesorabile fino a quando, in data 31.05.2022, plurime emorragie erano già in corso, tanto da richiedere il trasferimento in codice arancione del detenuto a causa di un grave malore accusato in cella, dato che la trombosi aveva già coinvolto la vena Porta. L’associazione Yairaiha Onlus, osserva che, nonostante il grave rischio per la sopravvivenza del detenuto, le cui emorragie diventavano sempre più copiose, alcuna notizia era giunta ai familiari o al legale rappresentante del detenuto, da parte della Direzione del carcere. “Nella lettera a noi indirizzata - sottolinea Yairaiha nella segnalazione - emerge chiaramente lo sgomento, la solitudine e lo smarrimento del detenuto Iannaco di fronte alla superficialità e all’incuria del personale sanitario del carcere di Siano. Un vero e proprio “muro di gomma” con cui quotidianamente i detenuti devono scontrarsi, senza tuttavia ricevere la giusta attenzione e rischiando a caro prezzo la vita”. Yairaiha, rivolgendosi alle autorità, osserva che la vicenda in questione, come molte altre che da anni porta avanti l’associazione, dimostra ancora una volta “che la dignità della persona reclusa e il suo diritto alla salute continuano ad essere considerate marginali dalle Istituzioni e dagli stessi “professionisti” del mestiere”. Vicenza. Appena scarcerato muore in stazione, forse nei video la soluzione del giallo di Benedetta Centin Corriere del Veneto, 21 luglio 2022 Aveva 35 anni. Dai primi accertamenti esclusa una morte violenta. Era stato scarcerato martedì pomeriggio dal penitenziario di San Pio X, finita di scontare la sua pena. Qualche ora dopo, alle prime ore di ieri, è stato trovato cadavere in un deposito-piazzale dell’autostazione dei pullman Svt, in viale Milano. Il corpo riverso a terra in posizione supina, poco distante da un mezzo pubblico in sosta. Vestito solo di pantaloncini e scarpe, presentava diverse escoriazioni a gambe e mani e una ferita al naso. Ma dare un nome a quel corpo non è stato immediato visto che non aveva alcun documento con sé, nulla che potesse aiutare ad identificarlo, se non una serie di tatuaggi su emitorace e braccio. Dagli accertamenti effettuati in seguito, passati anche attraverso il riscontro delle impronte digitali, la vittima è stata identificata: si tratta di un friulano, il 35enne Stefano Nocent, originario di Palmanova, noto alle forze dell’ordine per una serie di precedenti, tra furti e rapine, l’ultima, nel 2019, ai danni di un 23enne in centro storico a Vicenza, bottino di appena venti euro, gli era costata una condanna a quattro anni di cella. Cosa gli sia accaduto starà alle indagini della squadra mobile appurarlo e i filmati degli impianti di videosorveglianza della zona potrebbero fornire elementi utili se non determinanti visto che ci sarebbero degli occhi elettronici che puntano proprio nell’area del piazzale interessato. La società di trasporto pubblico Svt ha già messo a disposizione le registrazioni delle telecamere di sicurezza, ora al vaglio degli investigatori. Ulteriori risposte arriveranno anche dagli esami tossicologici e dall’autopsia che il pubblico ministero di turno ha già disposto. Al momento gli inquirenti, che mantengono il massimo riserbo, stanno lavorando a ritmo serrato per chiarire i fatti e a quanto è dato sapere non escludono alcuna ipotesi anche se il cerchio potrebbe stringersi a breve verso un’unica pista. Ma facciamo un passo indietro. L’allarme per il macabro ritrovamento è stato lanciato prima delle 4 di ieri mattina. Durante la notte l’autostazione di Vicenza viene costantemente monitorata attraverso il ripetuto passaggio di squadre di sorveglianza, oltre appunto alle telecamere. Per il friulano, così come appurato dal medico del Suem 118, non c’era più niente da fare. Impossibile far tornare a battere il suo cuore. Mezzo svestito, con quelle escoriazioni sul corpo e quella ferita più evidente sul naso poteva essergli accaduto di tutto. I poliziotti della questura hanno blindato la zona e gli specialisti della scientifica hanno effettuato i primi accertamenti. Ora, dalla questura non filtrano informazioni, ma sembrerebbe che quelle ferite non possano essere compatibili con una morte violenta, con un eventuale pestaggio, anche se questo dovrà accertarlo il medico legale che procederà con l’autopsia nelle prossime ore. Potrebbe essere stato quindi un incidente. Che la vittima cioè si sia ferita da sola, forse cadendo. C’è da capire anche cosa il 35enne abbia fatto una volta uscito dal carcere. Se si sia incontrato con qualcuno, se, dopo il lungo periodo di detenzione, una volta libero abbia assunto una qualche sostanza che possa avergli fatto perdere lucidità, ma questo potranno determinarlo solo gli esami tossicologici. Napoli. Quella rabbia dei giovani a cui abbiamo rubato i sogni di Antonio Mattone Il Mattino, 21 luglio 2022 A Napoli non si può sognare, se sogni “t’arragge ncuorpo”, mi dice sconsolato un ragazzo ventenne, che chiameremo Ciro, rinchiuso nel carcere di Poggioreale. Cioè se provi ad immaginare un futuro per realizzarti, ti prende una grande rabbia dentro di te. Nel dibattito sulla violenza giovanile, forse quella che è mancata è la voce di questi adolescenti perduti e spietati, finiti nel vortice della violenza e della delinquenza. Quale malessere covano fino a spingerli a compiere gesti così brutali? Qui non si tratta di trovare giustificazioni, ma di provare a capire, perché è davvero difficile comprendere come dei ragazzini possano essere responsabili di comportamenti tanto efferati. Ciro è sorpreso che qualcuno voglia chiacchierare con lui, “qui nessuno ti sente - mi dice - nessuno si interessa a quello che hai dentro”, e inizia a raccontare. Sognava di diventare un rapper, abile nel cimentarsi con il “freestyle”, ha cominciato a seguire alcuni rapper emergenti. Ma per sfondare in questo mondo occorrono disponibilità economiche. Lui non aveva grandi possibilità, e per racimolare qualche soldo lavorava in una cornetteria. Ma a un certo punto, stanco di essere sfruttato dal suo datore di lavoro, ha smesso di portare cornetti in giro ed è finito col perdersi. Con il padre sempre assente e la madre che si massacrava di lavoro per portare avanti la famiglia, il ragazzo è cresciuto senza la guida dei genitori. “Non mi mancavano solo i soldi, ma anche l’attenzione di qualcuno”, dice con un filo di voce. Certo bisogna poi spiegare a Ciro che i sogni non sempre si avverano e spesso restano tali. Questi giovani in cerca di identità e di considerazione provano ad emergere e a cercare un riscatto sociale, conformandosi alla realtà che li circonda. “Una volta i boss erano i grandi e i giovani stavano al posto loro - continua il giovane detenuto - poi vedi un ventenne che diventa capoclan e allora anche i piccoli hanno cominciato a pensare che potessero ambire alla scalata criminale”. Prendiamo ad esempio il caso della dodicenne sfregiata perché aveva deciso di lasciare il fidanzatino. Quanti casi di violenza sulle donne registriamo in questi anni, da parte di uomini di ogni categoria sociale! Ed ecco la grande responsabilità del mondo degli adulti. E poi non sono forse i grandi a vendere coltelli e armi improprie ai minorenni senza che venga esercitato alcun controllo su questi venditori senza scrupoli? Il coltello è la cosa più facile da trovare a Napoli, mi dice un altro ragazzo. E racconta che si riforniva in una uccelleria, dove per pochi soldi aveva comprato una scacciacani e uno sfollagente. La violenza minorile è un fenomeno complesso che richiede interventi articolati e multidisciplinari. Le risposte securitarie che tanti invocano danno solo l’illusione di poter incidere. Non è pensabile di risolvere il problema della devianza giovanile abbassando l’età imputabile. Possiamo immaginare cosa sarebbe un carcere pieno di bambini, con un sistema penitenziario autoreferenziale e poco interessato al riscatto e al reinserimento dei detenuti: solo una precoce scuola del crimine. E poi le recenti vicende di cronaca non hanno mai riguardato minori con meno di 14 anni. Certo esiste anche la responsabilità personale, e chi commette un reato deve prenderne coscienza, magari in silenzio, senza invocare scuse e richieste di perdono pubbliche con il coltello ancora sporco di sangue. La questione culturale assume una grande importanza non solo per le serie tv o per i modelli commerciali che vengono proposti ai giovani, ma anche per quello che riusciamo a trasmettere con i nostri valori e gli esempi di vita vissuta. Se è vero che esiste una sub-cultura giovanile che si ispira a comportamenti violenti, ugualmente assistiamo ad una resa del mondo degli adulti. Troppo spesso si oscilla tra il difendere a spada tratta i propri figli, soprattutto nel mondo della scuola e, nello stesso tempo, ci si deresponsabilizza lasciando fare quello che si vuole senza intervenire più di tanto. Si, proprio la scuola è il fronte da cui partire, dove si possono intercettare disagi e inadempienze. E dove si possono costruire relazioni e interessi che appassionino questi ragazzi. Quella scuola che da qualche anno sembra un fortino sotto assedio. Lo stesso Ciro mi ha parlato di una insegnante che credeva in lui, ma che una volta presa la terza media, ha perso di vista. Qui allora emerge la grande responsabilità di non intraprendere azioni sinergiche di fronte al fenomeno dell’abbandono scolastico, nonostante i ripetuti allarmi che sono stati lanciati da diverse parti. E’ una voce che grida nel deserto, come resta inascoltato il grido inespresso di tanti giovani che non riescono a sognare un futuro diverso, e a cui resta solo un grande carico di rabbia dentro. Lecce. Sviluppo sostenibile, nei penitenziari del Sud Italia la moda è sempre più circolare di Rosanna Auriemma riciclanews.it, 21 luglio 2022 Rinascita delle persone, ma anche dei rifiuti: è questo l’obiettivo di Made in Carcere che tra Puglia e Basilicata riunisce i detenuti in un progetto di economia rigenerativa. Donne, uomini e bambini nei laboratori dei penitenziari trasformano scarti tessili in borse e accessori di tendenza, mentre ricuciono i pezzi della propria vita Messi ai margini della società, dimenticati, privati della loro quotidianità, separati dai propri figli: la vita dietro le sbarre non è facile per nessun carcerato, ma da qualche anno c’è chi ha iniziato a prendersi cura di loro. Si chiama Made in Carcere ed è un progetto che mira a una doppia rinascita: quella dei detenuti, che sempre troppo spesso vengono considerati lo scarto della società e parallelamente, quella dei veri scarti, tessili nello specifico, che con ago e filo i detenuti trasformano in borse, shopper bag, accessori, mascherine, sottraendoli alle discariche o agli inceneritori. “La nostra sfida nasce 15 anni fa - racconta Luciana Delle Donne, CEO di Made in Carcere - quando di carcere nessuno voleva parlare. Noi abbiamo sdoganato il mondo del carcere, creando un modello di economia rigenerativa. Insieme ai detenuti realizziamo bracciali, borse, cartelline con gli scarti tessili, di tappezzeria e pelletteria. Accessori colorati e originali, in seta pura, lycra, ottenuti riutilizzando persino la moquette del salone dell’Università Bocconi di Milano”. Così, nei laboratori di vari penitenziari del Sud Italia donne, uomini e bambini si alternano per fare qualcosa di buono per se stessi e per l’ambiente. E mentre assemblano colorati scampoli di tessuto, giorno dopo giorno si impegnano a ricucire i pezzi della propria vita. “In Made in Carcere lavorano circa 40 persone divise tra i vari penitenziari di Puglia e Basilicata - continua Luciana Delle Donne - precisamente nelle carceri di Lecce, Trani, Taranto, Bari e Matera. Lavoriamo principalmente con donne detenute, sono pochi gli uomini coinvolti. Tanti, invece, i ragazzi che nel carcere minorile preparano con noi le ‘Scappatelle’, biscotti vegani certificati biologici”. E se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, rendendolo libero di inseguire una crescita personale e professionale, è altrettanto vero che proprio il lavoro rappresenta il principale strumento di riscatto per guardare al proprio futuro e a quello delle tante famiglie al di là delle sbarre. “Il nostro lavoro è sottotraccia - spiega la CEO di Made in Carcere - perché costruiamo valori intangibili per l’ambiente, per le persone che sono dentro e per quelle che sono fuori. Attraverso uno stipendio che percepiscono regolarmente con contratto di assunzione, i detenuti riescono a mantenere gli studi anche ai propri figli”. Perché il bello si può costruire in ogni luogo e a crederci sono sempre più aziende che sostengono il progetto da Nord a Sud del Paese, donando all’associazione i propri tessuti di scarto. Un piccolo gesto per il bene delle persone e dell’ambiente. “Da tutta Italia le aziende donano i propri materiali di scarto tessile - aggiunge Delle Donne - che noi siamo felici di raccogliere, anche perché sarebbero destinati alla discarica. Il nostro obiettivo è di moltiplicare questo modello rigenerativo in tutti i penitenziari italiani. Tutti devono essere consapevoli che dare e darsi è la nuova frontiera della ricchezza”. Viterbo. I detenuti a realizzano borse e sacche con vele riciclate giornaledellavela.com, 21 luglio 2022 La veleria italiana Millenium Tech, conosciuta a livello mondiale per produrre vele di alta tecnologia per imbarcazioni di ogni genere e dimensione, ha abbracciato con grande entusiasmo il progetto Seconda Chance. Ideato dalla giornalista del Tg La7 Flavia Filippi (oggi cronista giudiziaria, ma molti la ricordano anche come inviata a San Diego per TMC in occasione dell’America’s Cup del 1992), che incoraggia le aziende a instaurare un autentico rapporto di lavoro con i detenuti, nell’ottica di assicurare una occupazione alle persone in stato di detenzione. Una volta presa la decisione di intraprendere il percorso indicato da Seconda Chance, lo staff di Millenium Tech ha effettuato alcuni sopralluoghi, rimanendo favorevolmente impressionato dalle strutture, dalle attrezzature e dalle competenze incontrate presso la Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo. Millenium Tech ha quindi presentato un primo importante ordine di lavorazione al personale della sartoria, che ha riguardato la realizzazione di sacche per le vele e borse tecniche. Per la fabbricazione di tali prodotti sono stati impiegati i tessuti di vecchie vele dismesse e materiali rimasti inutilizzati. “L’eticità del progetto da un lato e la possibilità di riciclo dei materiali di vele dismesse dall’altro, sono stati i due elementi che da subito ci hanno spinto a instaurare un rapporto lavorativo con la sartoria del penitenziario di Viterbo”, spiega Davide Innocenti di Millenium Tech. “Le vele non sono riciclabili, se non con processi di difficile attuazione e, specialmente, costosi. Noi, con la produzione di borse di vario tipo, a partire da quelle semplici per fare la spesa, diamo realmente una seconda vita ai nostri materiali in maniera concreta, economica e facilmente realizzabile”. Fino a oggi, Millenium Tech ha prodotto presso la sartoria della Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo circa 250 borse in ottica di riciclo vele e circa 60 sacchi per vele. l’intenzione è di commissionare il 100% della produzione sacchi vele nel 2023. Soddisfazione personale più che professionale - Particolarmente legato alla collaborazione con la Casa Circondariale di Viterbo è Matteo Holm di Millenium Tech: “Mio nonno, Mario Gozzini, ha dedicato la maggior parte della sua carriera politica alla realizzazione di un testo di legge che aveva l’intento di puntare su un percorso rieducativo del detenuto rispetto al semplice aspetto detentivo della pena. Questo è esattamente quello che oggi stiamo facendo con la veleria Millenium Tech. I ragazzi del carcere, grazie alla legge Gozzini, lavorano con grande trasporto e impegno a questo progetto ed è per noi motivo d’orgoglio aver avuto la possibilità di fornirgli quest’occasione”, racconta Matteo Holm. “Spero che la nostra collaborazione vada avanti a lungo e che altre aziende del settore nautico seguano il nostro esempio. Il valore di una seconda occasione è inestimabile nel mondo di oggi e poter essere noi a fornirla è motivo di grande soddisfazione personale, più che professionale”. Progetto Unico - “L’unicità di questo progetto è che i detenuti lavorano alla realizzazione di prodotti commissionati da un’azienda esterna, a loro volta destinati a un utilizzo esterno”, afferma Anna Maria Dello Prete, direttrice della Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo, che aggiunge: “Grazie al Provveditorato e all’azienda Millenium Tech, che ci fa pensare al mare e al vento, siamo soddisfatti di condividere questa esperienza unica. Che sia un’azienda privata a commissionare lavoro ai detenuti è un caso molto raro. Da noi, per esempio, 150 detenuti sono impiegati in attività domestiche, ma sono tutte mansioni rivolte al mantenimento stesso dell’Istituto, quindi non è un lavoro che trasferisce competenza. Il rapporto instaurato con Millenium Tech, invece, risponde alla finalità di portare professionalità da acquisire per lavorare poi una volta fuori da qua”. Rapporto lavorativo autentico - La sartoria della Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo ha avuto il merito di farsi trovare pronta una volta giunta la richiesta da parte di Millenium Tech di realizzare alcuni prodotti specifici. “Non ci hanno scelto a caso, perché noi abbiamo investito su macchinari efficienti attraverso la Cassa Ammende, istituita nel 2013 proprio per l’inserimento lavorativo dei detenuti, e acquisendo personale con esperienza pregressa”, confessa Marco Bracaloni, Responsabile Contabilità del penitenziario, che precisa: “Con questo lavoro commissionato dall’esterno, i detenuti che lavorano in sartoria ricevono una paga regolare, il versamento dei contributi e il conteggio per il trattamento di fine rapporto”. L’attività operativa della sartoria e l’apprendimento sul lavoro viene coordinata e gestita da Fabrizio Tardito, tecnico (Capo d’Arte) convenzionato con l’Istituto, che ha saputo trasferire con passione e competenza stimoli e motivazioni nelle persone detenute, inserite nel percorso lavorativo. L’esperienza professionale raccontata da quattro detenuti - Arlind, 40 anni, proveniente dall’Albania, detenuto dal 2014 e impiegato in sartoria da quattro anni, esprime soddisfazione per il suo lavoro e racconta la sua personale esperienza nella lavorazione di un materiale così nuovo per lui, il tessuto delle vele: “Quando sei impiegato in cucina come inserviente o aiuto cuoco, sei soggetto alla turnazione, lavori per cinque mesi e poi stai fermo per altri cinque mesi. In sartoria, invece, il lavoro è fisso e continuativo tutti i mesi, con le pause solo ad agosto e a dicembre. È molto meglio, perché se non hai nulla da fare, qui il tempo non passa mai”. Arlind percepisce una media di 400 euro al mese per il suo lavoro, che gli consente di essere autonomo senza dovere chiedere aiuto da fuori a familiari e amici. Ora ha fatto una richiesta per un permesso premio, dato che i genitori da otto anni li vede solo in videochiamata. Prima delle vele, cuciva vestiti: “La prima volta non credevo che si potesse lavorare un materiale come quello delle vele con le macchine da cucire. Mi sembrava normale plastica”, racconta. “All’inizio è stato difficile, ma ora che ho preso la mano sono molto incuriosito e sono sempre attratto dalle cose nuove che di volta in volta il Capo d’Arte ci chiede di fare. Non c’è mai nulla di noioso”. Arlind è nato vicino al mare, ma è la prima volta che tocca questi materiali. “In un primo momento le vele mi procuravano irritazione alla pelle, forse per il sale che ancora contengono quando arrivano qua in sartoria, ma poi mi sono abituato e ora è tutto a posto”. È interessato a come sono fatte le vele: “Una volta qui in sartoria ce ne hanno consegnata una ancora tutta intera e l’ho guardata a lungo perché volevo capire come fosse fatta. Poi l’abbiamo dovuta tagliare tutta in piccoli pezzi. Ora, quando posso, mi capita di guardare un canale in tv che parla di vela. Le vele sono belle e, appena potrò, le vorrò guardare dal vero mentre navigano. Mi interessano le barche piccole”. Fabio, 52 anni di Roma, è detenuto da più di tre anni. Lavora in sartoria, dove da tre mesi ha iniziato a trattare i materiali delle vele: “Avevo già una buona esperienza con le macchine da cucire, qua siamo dotati perfino con quelle digitali, quindi devo ammettere che il passaggio alla lavorazione di questi nuovi prodotti per me non è stato troppo difficile”, racconta. “All’inizio, con i materiali mi sono trovato un po’ spiazzato perché erano duri da lavorare, ma il Capo d’Arte ci ha messo rapidamente in grado di gestirli. Ogni cosa nuova è una ripartenza, quindi sono contento di questa esperienza con le vele. Un domani che sarò fuori saprò fare una cosa in più”, aggiunge Fabio, che confessa anche un desiderio: “Queste vele le vorrei poter utilizzare anche per farmi un giro in mare su una barca. Prima seguivo anche le regate di Luna Rossa, ma ora su uno yacht ci vorrei salire io”. Tra i lavoratori della sartoria, Fabio è soprannominato il “cinese”, perché sa eseguire in autonomia ogni fase del processo di fabbricazione di una borsa o di una sacca, dall’inizio alla fine. Walid, 45 anni, proveniente dalla Tunisia, lavora in sartoria da due mesi. Prima non aveva mai tagliato e cucito e il mare lo ha sempre attraversato solo in aereo, mai in barca. “Mi diverto moltissimo con questo lavoro, ho trovato un’esperienza perfetta per me”, racconta Walid. “Quando il Capo d’Arte mi dà un nuovo compito lo faccio con piacere. Ora spero di uscire presto da qui e quando accadrà questo sarà il mio lavoro”. Walid è stato realmente conquistato da questo lavoro di cui prima non sapeva nulla: “Quando sono in videochiamata con mia moglie e con i miei figli (rispettivamente di 3, 5 e 7 anni, ndr) per mezz’ora parlo solo di tutto quello che sto imparando in sartoria con le vele. In passato ho fatto altri lavori, ma bello come questo mai. Continuerò a farlo anche in futuro”, racconta Walid, aggiungendo che con questo lavoro nella sartoria riesce a mandare i soldi a casa, dove servono. Fabrizio, 40 anni di Fondi, adora il mare ed è anche andato in barca. Da quattro anni lavora in sartoria e ha accolto con entusiasmo l’inizio della produzione di borse ricavate da vecchie vele. “Il mare è nel mio DNA, ho amici proprietari di barche e mio padre faceva le immersioni. La barca a vela la trovo molto rilassante e queste vele che arrivano qua in sartoria mi fanno tornare la voglia di andare al mare. Ma non la vivo come una sofferenza, anzi è un piacere”, racconta. “Questo posto è solo di passaggio, so che un giorno tornerò là”. A Fabrizio del nuovo materiale che utilizza in sartoria piace il fatto che sia un prodotto tecnologico e innovativo: “Trovo bella l’idea di sfruttare un materiale che altrimenti sarebbe stato buttato, per realizzare cose nuove. Dobbiamo stare al passo con i tempi, il riciclo è importante e dobbiamo imparare a essere ecosostenibili per i nostri figli. Bisogna guardare al futuro”. Un lavoro reale - Rastrello, Vice Sovrintendente di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale Mammagialla di Viterbo addetto alla sorveglianza dell’area dedicata alle lavorazioni dell’istituto: “Da quando hanno iniziato a lavorare con i nuovi materiali, abbiamo notato che i detenuti sono più motivati del solito. Sono stimolati ad affrontare un’attività unica nel suo genere e sono gratificati nel vedere una finalità realizzativa concreta della loro attività. Prima erano abituati a fabbricare oggetti sempre uguali e in serie, ora vedono che il lavoro che svolgono non gli è assegnato solo per tenerli occupati, ma perché c’è un progetto reale da portare avanti”. Bologna. Il Garante nazionale presenta Relazione a Magistrati sorveglianza e Garanti territoriali Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2022 Nella giornata di giovedì 21 luglio si svolgeranno nella sede del Comune di Bologna, a Palazzo d’Accursio, due incontri promossi dal Garante nazionale e ai quali quest’Autorità di garanzia attribuisce un particolare valore strategico. La mattina, dalle 11 alle 13, si terrà il primo ciclo del programma di formazione sulla privazione della libertà nelle strutture sanitarie, socio-sanitarie e assistenziali, rivolto alla Rete dei Garanti territoriali. Grazie a tale formazione, il personale di diversi Garanti territoriali della libertà personale (a livello regionale, provinciale o comunale) acquisirà ulteriori competenze per effettuare i monitoraggi delle social care homes e di altre strutture di ambito sanitario nelle quali si possono verificare situazioni di privazione, o di forte limitazione, della libertà personale delle persone ospiti. Tali monitoraggi avverranno in accordo con il Garante nazionale che, secondo i casi previsti dalla Legge, potrà delegare i Garanti territoriali a svolgere un’azione di vigilanza in ambiti diversi dall’area penale. Nel pomeriggio, dalle 15.30 alle 17.30, si svolgerà l’incontro del Garante nazionale con i Magistrati di sorveglianza e i Garanti territoriali, alla presenza del Capo Dap, Carlo Renoldi. L’iniziativa è volta ad offrire agli addetti ai lavori un confronto sulle principali criticità rilevate in ambito penale nella Relazione al Parlamento 2022, svoltasi nel giugno scorso al Senato. Nel corso dell’incontro verrà inoltre presentato il Protocollo firmato dal Garante nazionale e dall’Anci, volto a valorizzare il ruolo dei Garanti comunali e a definire i requisiti minimi da adottare per la loro nomina, rafforzando la cooperazione tra il Garante nazionale e i Garanti territoriali. Il Garante Mauro Palma afferma a questo proposito: “La nostra Autorità di Garanzia punta molto sull’accrescimento della collaborazione con i Garanti territoriali, che potranno moltiplicare la sguardo di attenzione e di vigilanza del Garante nazionale sulle diverse realtà sul territorio nazionale che, pur non essendo strutture penitenziarie intaccano la libertà personale delle persone”. “Cambiano i governi ma le spese militari aumentano sempre: sabato in piazza per la pace” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 21 luglio 2022 “Povertà, gas serra: questi sono i nostri nemici. Per spegnere gli incendi, è più utile un F35 o un Canadair? Condanniamo l’aggressione russa, ma le armi non sono la strada”. Se i pacifisti fossero saliti al Quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, della delegazione avrebbe di sicuro fatto parte Mao Valpiana. Per la sua storia, per le battaglie condotte nel tempo. Presidente del Movimento non violento, membro dell’Esecutivo di Rete Italiana Pace e Disarmo, Valpiana è anche direttore della rivista Azione non violenta, fondata nel 1964 da Aldo Capitini. In una lettera aperta a Gad Lerner, Luigi Manconi, Adriano Sofri ed Emma Bonino, sostenitori dell’invio di armi all’Ucraina, Valpiana ha affermato che “Tra l’arruolarsi per la guerra o predicare la resa, c’è la terza via della nonviolenza attiva”. Una pratica che ha caratterizzato la sua vita. E che Valpiana rilancia nell’intervista. Guardando alla mobilitazione pacifista del 23 luglio. Se i pacifisti fossero saliti al Quirinale per essere consultati dal Presidente Mattarella sulla crisi di governo, che avrebbero detto al Capo dello Stato? Be’, intanto l’avremmo ringraziato, essendo la nostra prima volta al Colle per una consultazione, come invece avviene per i partiti e le parti sociali, nonostante il movimento pacifista rappresenti gran parte dell’opinione pubblica italiana e abbia sempre cercato l’interlocuzione con la politica e le istituzioni. Poi avremmo iniziato il dialogo partendo da due punti fermi della nostra Costituzione, senza tenere fede ai quali non è possibile risolvere nessuna delle crisi in cui siamo precipitati: politica, sociale, economica, ecologica, persino culturale (e qualcuno dice anche antropologica). Il primo punto è il ripudio della guerra, sancito dall’articolo 11 della Carta. Il governo ha il dovere di essere conseguente e non può avallare nessuna politica che giustifichi la guerra “come risoluzione delle controversie internazionali”, dunque nemmeno le guerre degli altri. Il ruolo dell’Italia previsto dai Costituenti dev’essere quello di una “potenza di pace”, quindi tutti gli sforzi (e i conseguenti finanziamenti) vanno indirizzati a sostenere gli organismi internazionali (a partire dall’Onu) preposti a rapporti pacifici tra le nazioni. Questo non è un “mondo dei sogni”, ma dovrebbe essere il timone del governo del nostro Paese. Il secondo punto fermo è scritto nell’articolo 52 della Carta, “la difesa è un sacro dovere”. Non dice “difesa armata”, ma parla solo di “difesa” che viene affidata ai cittadini, e non ai militari. Dunque la domanda legittima da porre al Capo dello Stato sarebbe: quali sono i pericoli reali dai quali dobbiamo difenderci? E con quali mezzi? Quale politica deve attuare il governo per difenderci dalla emergenza climatica, dalla recessione, dalla disoccupazione, dalla fragilità ambientale? I veri nemici oggi sono la povertà crescente e le emissioni di gas serra: questi nemici si battono con politiche economiche ed energetiche lungimiranti, non con le nuove produzioni dell’industria bellica. Per essersi opposti all’invio di armi all’Ucraina, i pacifisti sono stati accusati di essere al servizio di Putin. La stessa accusa che Di Maio ha rivolto a Conte. Come la mettiamo? La mettiamo che anche su questo punto il movimento per la pace italiano ha le carte in regola. Altri, arrivati all’ultimo momento a ricostruirsi una verginità, forse molto meno. Noi abbiamo sempre denunciato e condannato il fatto che l’Italia e l’Europa vendessero armi sia alla Ucraina che alla Russia. L’abbiamo fatto nei decenni, non da oggi; ci sono i nostri dossier e le campagne a testimoniarlo. Lo facevamo anche quando il nostro paese vendeva blindati Iveco alla Russia di Putin, nonostante l’embargo e le sanzioni in vigore dopo la guerra del Donbass del 2014. Altri, che oggi fanno finta di essere pacifisti, con la Russia ci facevano gli affari. Noi siamo pacifisti, ma non utopisti. Anzi, il nostro pacifismo è molto concreto e pragmatico; ci opponiamo all’invio di armi perché riteniamo che altri e più efficaci dovrebbero essere gli aiuti e la solidarietà verso una popolazione attaccata e invasa, ma anche perché lo dice anche la Legge 185/90 che prevede il divieto di esportazione verso i Paesi in stato di conflitto armato, tant’è che il Consiglio dei Ministri ha dovuto applicare una deroga per la cessione delle armi all’Ucraina. L’iper realismo dell’attuale Ministro degli Esteri, divenuto estremista dell’atlantismo, lo ha portato a barattare la solidarietà verso l’Ucraina con il tradimento del popolo Curdo sacrificato in cambio dell’unità della Nato. Questo realismo io lo chiamo cinismo. Le spese militari hanno battuto ogni record con il governo Draghi che ha alla guida del ministero della Difesa un esponente, Lorenzo Guerini, del Partito Democratico… In tema di spese militari, ormai ogni governo polverizza il record precedente. Quest’anno il Bilancio del Ministero della Difesa sfiorerà i 26 miliardi di euro, cioè un +5,4% rispetto al 2021. Al di là del colore dei vari governi, l’Italia non ha avuto una contrazione delle spese militari negli ultimi anni ma anzi abbiamo visto una crescita molto rilevante legata soprattutto all’acquisto di nuovi armamenti, cioè spendiamo tanto per comprare nuovi cacciabombardieri, nuove navi, nuovi carri armati. E così torniamo a quanto dicevo prima: sono questi gli strumenti che come popolo ci fanno sentire più sicuri? È più utile avere in garage un F35 a capacità nucleare, o un Canadair per spegnere gli incendi in Sardegna? Su questo tema penso che il Partito Democratico viva una certa schizofrenia … da una parte c’è chi come Rosy Bindi dice: “Inaccettabile aumentare la spesa militare, la pace non si fa con le armi; bisogna ripensare la funzione della Nato”, mentre dall’altra il Ministro Guerini dice che “l’aumento delle spese militari è un impegno da rispettare perché l’Italia deve dimostrarsi affidabile nei confronti dei suoi alleati della Nato”; sono due visioni antitetiche, e su questo il PD non è ancora riuscito a fare sintesi. I pacifisti insistono molto sul principio della “neutralità attiva”. L’accusa è che in questo modo mettete sullo stesso piano l’aggressore - la Russia - e l’aggredito -l’Ucraina... Chi dice questo è in malafede. Non c’è bisogno di scomodare Gandhi per saper distinguere la violenza di oppressione dalla violenza degli oppressi, la violenza di chi attacca dalla violenza di chi si difende. Tuttavia, se la nonviolenza condanna e combatte la violenza del carnefice (la Russia di Putin), essa però viene a rimettere in questione anche la violenza della vittima (l’Ucraina di Zelensky). Solidarizzare con le vittime non obbliga ad assumere il loro punto di vista, ma significa anche aiutarle a liberarsi dalla loro violenza. Condannare l’aggressione e sostenere le giuste ragioni della nazione invasa non richiede automaticamente che si debba inviare armi o intervenire militarmente in quel contesto. Se così fosse, si dovrebbe fornire armi a tutti i popoli che lottano per la propria sovranità come il popolo palestinese o quello curdo. Non viene fatto perché inviare armi configura sempre una situazione di belligeranza e une escalation del conflitto. L’Ucraina ha deciso di intraprendere la via della difesa armata mobilitando tutti i cittadini maschi dai 18 ai 60 anni e, tra l’altro, imprigionando gli obiettori di coscienza. Crediamo che non sia questa la via da seguire, anche perché i risultati sul piano militare non si vedono ... Occorre invece un salto di qualità che può essere fatto solo mettendo in atto la ratio della lotta nonviolenta che è quella di “fare per primi il primo passo”. In concreto ciò significa promuovere la de-escalation militare, ritirare tutte le bombe nucleari presenti nel territorio europeo smantellando la “nuclear sharing” e indire una Conferenza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La “neutralità attiva” - che non è equidistanza - è ancorata al diritto internazionale con un effettivo impegno per la neutralità dell’Ucraina come parte del processo di distensione regionale e attivando un dialogo diretto tra le istituzioni europee, a partire dal Consiglio d’Europa, e la Federazione Russa, in una logica di sicurezza condivisa, di cooperazione e di promozione dei diritti umani e della democrazia Sabato prossimo i pacifisti saranno in tante piazze italiane. Con quali propositi? Sono decine e decine le città che hanno aderito alla mobilitazione di Europe for Peace del 23 luglio, a 150 giorni dall’inizio della guerra: una mobilitazione nazionale per far tacere le armi e per aprire un serio negoziato che porti ad una conferenza internazionale di pace. Noi ci impegniamo a lavorare insieme per un’Europa di pace, con l’obiettivo di costruire una proposta di cosa deve essere e cosa deve fare l’Europa di pace, attraverso il lavoro comune di una grande alleanza della società civile europea, che si riconosce in questi cinque punti: la condanna dell’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina e la difesa della sua indipendenza e sovranità, nonché la piena affermazione dei diritti umani delle minoranze e di tutti i gruppi linguistici presenti in Ucraina; la solidarietà con la popolazione ucraina, con i pacifisti russi che si oppongono alla guerra e con gli obiettori di coscienza di entrambe le parti; il rilancio della richiesta del cessate il fuoco per l’avvio di un immediato negoziato in cui sia protagonista l’organizzazione delle Nazioni Unite; l’impegno per la de-escalation militare in quanto leva fondamentale per l’iniziativa diplomatica e politica; la costruzione di un sistema di sicurezza condivisa in Europa, dall’Atlantico agli Urali, fondato sulla cooperazione e il disarmo per un futuro comune. Gli invisibili dei campi: la vita di chi ci sfama pagata tre euro l’ora di Michele Serra La Repubblica, 21 luglio 2022 I caporali, i ghetti e le morti sotto il sole per la fatica. Il lavoro senza diritti di migliaia di stagionali agricoli. Non si chiamano più “braccianti”, nome antico e per niente eufemistico che definiva chi, per vivere, poteva contare solo sulle proprie braccia: e quelle dava in affitto al padrone. Si chiamano operai agricoli, o lavoratori stagionali. Ma pochi lavori, pochi ruoli sociali, poche vite sono rimaste così simili nel tempo, una generazione dopo l’altra. Con una differenza: che per i braccianti ottocenteschi di Pellizza da Volpedo e quelli novecenteschi di Di Vittorio valeva un’idea di redenzione politica, e di emancipazione sociale, che oggi sembra essersi dissolta, o comunque viaggia a ranghi dispersi, senza la compattezza “di classe” del socialismo degli avi. Le braccia sono la macchina più usata - Non dappertutto, e non ovunque allo stesso modo, le braccia in agricoltura sono ancora la macchina più utilizzata ma anche la più trascurata. La più preziosa e la meno pagata, la più versatile e la meno custodita. E la grande disponibilità di manodopera immigrata, spesso indifesa, incosciente dei propri diritti, ricattabile, ha enormemente infoltito i ranghi delle braccia a basso costo. Si parla di salari che possono toccare il fondo dei tre euro all’ora, e il fondo, sia chiaro, non è solo per chi li percepisce. È anche per chi li paga, reso miserabile e tirchio pure lui da un’economia miserabile e tirchia; è per una società intera che vede la sua patina di modernità e di progresso traballare su fondamenta così arcaiche, incredula di contenere nel suo profondo (il primario, la produzione del cibo) condizioni umane e paesaggi sociali da secoli passati. Presenza sul campo indispensabile - La meccanizzazione ha fatto molto, la tecnologia altro farà, ma la fanteria, sul fronte del cibo, è ancora l’uomo, specialmente in certe fasi (le potature, la pulizia, i trattamenti, la raccolta) in cui la presenza sul campo è indispensabile, e nessuna macchina, nessun drone può surrogare le braccia, le gambe, gli occhi, l’esperienza. Il corpo umano è una macchina frutto di centinaia di migliaia di anni di evoluzione e sperimentazione: non è un brevetto che la robotica e l’automazione possano illudersi di rendere obsoleto d’un tratto. Perché dunque lo trattiamo così male? Gli invisibili e il caporalato - Aboubakar Soumahoro, ivoriano, sindacalista inquieto, agitatore politico, figura di primo piano in quel mondo nonché l’unico, fin qui, che sia riuscito a conquistare la scena mediatica e l’attenzione politica, li ha chiamati “gli invisibili”. Definizione che si scontra, almeno in apparenza, con la grande quantità di materiali (giornalistici, istituzionali, politici, sindacali) sui lavoratori stagionali nelle campagne italiane, e sulla principale piaga che li affligge, che è il caporalato. Ovvero l’intermediazione illegale di mercanti di uomini che da un lato speculano sulla tratta delle braccia, dall’altro esercitano un odioso controllo sociale sui braccianti: spesso ambedue le cose per conto delle mafie. Un modello che ha preso piede anche nelle città - È un “modello”, quello del caporalato, che secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni del lavoro nel nostro Paese ha preso piede anche nelle città, in particolare nella logistica e nel facchinaggio. È come se la stagionalità del lavoro, prerogativa strutturale delle campagne (mesi di attività febbrile, poi mesi di disoccupazione) avesse contaminato anche il terziario. E quando il lavoro diventa fragile, frantumato, indifeso, prosperano i “protettori”, gli organizzatori di strada, le finte cooperative. Il lavoro “liquido” è più trasportabile, manipolabile, sfruttabile, ricattabile. Più vendibile e comprabile a buon mercato. “Sotto padrone” - Basta una breve ricognizione in rete per farsi un’idea del tanto che si è detto e scritto in materia di stagionali agricoli e caporalato. A partire dal lucido e tremendo romanzo-inchiesta di Alessandro Leogrande, “Uomini o caporali”, viaggio agli inferi nelle campagne pugliesi; dal libro-inchiesta di Marco Omizzolo “Sotto padrone” sui braccianti sikh dell’Agro Pontino; e le decine di inchieste giornalistiche e talkshow dedicati al tema, la legge 199 del 2016 (disciplina organica per il contrasto del caporalato), i fascicoli aperti dalla magistratura, i documenti parlamentari e relazioni sindacali, possiamo dire di sapere tutto, o quasi, della condizione di semi-schiavitù di centinaia di migliaia di persone, in larga parte immigrati. Vivono di stenti con turni di lavoro massacranti - Spesso accampati come capita, in condizioni igieniche primitive, malpagati, massacrati da turni di lavoro che nell’industria sono dimenticati dai tempi dell’inchiesta di Engels sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra. Qualcuno morto di fatica, finito sui giornali e nelle interrogazioni parlamentari, altri ammazzati per “punizioni” a sfondo razziale, altri ancora imbottiti di farmaci per sopportare la fatica, come i sikh del Lazio; tutti comunque in balia di un sistema produttivo che raramente li considera persone, depositari di diritti e di dignità. Il mondo agricolo è sempre più periferico - Sappiamo tutto o quasi tutto, dunque. Molto è stato raccontato e documentato. Eppure, la definizione di “invisibili” conserva una sua verità, una sua durezza. La visibilità oggettiva del problema, la sua narrazione spesso drammatica, devono poi fare i conti con un fenomeno di vera e propria rimozione sociale, che non riguarda solo le condizioni del lavoro, riguarda il mondo agricolo nel suo complesso. Nella percezione comune, che è una percezione urbana (i partiti, i giornali e le reti televisive sono in città), l’Italia rurale rimane sempre sottotraccia. La filiera del cibo è tra le più occultate, e il mondo agricolo è diventato, dal dopoguerra a oggi, sempre più periferico, culturalmente e politicamente. Falcidiato nel numero degli addetti, non è più quel formidabile serbatoio di voti che fu dopo la guerra, tanto che nessun partito, oggi, metterebbe l’agricoltura, il cibo e il settore primario in cima alla sua agenda. I campi abbandonati nella seconda metà del secolo scorso - Nei manuali di economia e nelle enciclopedie (qui cito Wikipedia) si legge che “nelle economie meno progredite il primario occupa gran parte della forza lavoro, che si sposta poi progressivamente verso i settori secondario e terziario al progredire della società stessa”. C’è dunque una equivalenza tra il “progredire della società” e lo spostamento del lavoro lontano dai campi. L’abbandono dei crinali e delle campagne nell’Italia della seconda metà del secolo scorso è stato forse il più impressionante fenomeno di mutazione sociale e urbana della storia nazionale (in Appennino è normale che paesi di mille abitanti, in un paio di decenni, i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, si siano ridotti a cento, quasi solo i vecchi, con scuole chiuse, negozi chiusi, ambulatori chiusi). La parola “contadino” è sepolta nel passato - Il Paese ne è uscito profondamente rinnovato, ma anche stravolto. La parola “contadino” parla dei nostri nonni, muove nostalgie arcadiche, è come consegnata al passato. I legami un tempo profondi con la produzione del cibo, le bestie, i campi, i pascoli, i boschi, non sono leggibili nei supermercati, dove il cibo arriva quasi “sterilizzato”, monco della sua storia e del lavoro che contiene. Le nuove leggi sulla etichettatura di molti prodotti (non tutti) costringono almeno a rivelarne l’origine, ma la grande distribuzione pialla le differenze e recide le radici. Anche per questo le notizie che ci arrivano dai campi ci colgono sempre di sorpresa, come se l’agricoltura fosse sempre altrove, o sepolta nel passato o nascosta ai nostri sguardi cittadini. Consumatori vigili, attenti a evitare palloni da calcio cuciti da bambini, o abbigliamento a basso costo confezionato da schiavi, non sanno che lo sfruttamento feroce degli stagionali contribuisce molto al prezzo invitante di molti prodotti della grande distribuzione alimentare. Non in India o in Cina: in Italia. Primario avanzato e non solo terziario - Ci vogliono le alluvioni e le frane (dissesto idrogeologico prodotto in buona parte dell’abbandono dei crinali), ci vuole la siccità per lacerare la coltre di artificialità sotto la quale ci siamo accomodati, e richiamarci alla nostra dipendenza dalla natura e al nostro obbligo di governarla, se non vogliamo esserne disarcionati. Non sono solo gli stagionali, a essere “invisibili”, è nel suo insieme l’enorme questione della produzione del cibo, così impattante su ambiente e clima, sulla salute umana, sulla vita quotidiana. Si parlò tanto, sul finire dello scorso millennio, di “terziario avanzato”, bisognerebbe che qualcuno, anche solo come slogan, lanciasse l’idea di un “primario avanzato”, una nuova agricoltura che al supporto della tecnologia affiancasse quello della cultura dei diritti, del lavoro ben retribuito. Non c’è proprio nulla di arcaico, nella produzione di cibo, né di scontato. Sta alla base della sopravvivenza e del benessere. Mangiare è un atto agricolo - “Mangiare è un atto agricolo”, scrisse Wendell Berry, contadino e intellettuale, tra i padri nobili dell’ambientalismo americano. Voleva sottolineare le profonde implicazioni culturali, sociali, politiche di un atto primario che nelle società opulente affrontiamo con frettolosa distrazione. Come se l’opulenza, moltiplicatrice di bisogni e di desideri, avesse reso meccanico, non consapevole, il gesto primario di nutrirsi. Il Paese più opulento, gli Stati Uniti, è anche quello dove forse nella media si mangia peggio nel mondo, a parte le élites più informate e più esigenti. Lontano dagli occhi - La separazione delle nostre bocche e dei nostri sguardi da luoghi e modi dove il cibo nasce è una forma di alienazione, che riassumiamo in genere nella formula retorica “i bambini di oggi non hanno mai visto una mucca”. Parafrasando, potremmo aggiungere che non hanno mai visto nemmeno un bracciante, a conferma che non solo animali e piante, anche gli esseri umani perdono fisionomia, identità, consistenza fisica, nella società incorporea nella quale ci siamo temporaneamente trasferiti sperando di farla franca. Un nero su un macchinone non è per forza un delinquente di Gabriella Nobile* La Stampa, 21 luglio 2022 Nessuno vuole mettere in dubbio, la segnalazione che è stata diramata il 2 luglio, a Milano: “Rissa e sparatoria tra nordafricani e centrafricani, possibili fuggitivi su Suv scuro”. Purtroppo non mi è stato possibile leggere il testo reale ma più o meno doveva essere questo se ha indotto una volante a fermare e perquisire in modo violento il giocatore del Milan Bakayoko, trattandolo come un delinquente pericoloso. Per fortuna il lieto fine è arrivato, con pacca sulla spalla, dopo aver scoperto che quel nero, non era uno spacciatore ma una persona ricca e famosa. Tutto è bene quel che finisce bene, se questo episodio, non avesse portato alla luce un problema reale, quello della profilazione etnica. Provo a spiegare cosa avviene normalmente nella nostra Italia, dal sud al nord, e lo faccio forte di centinaia di segnalazioni arrivate in tutti questi anni alla nostra associazione Mamme per la Pelle. Ragazzi o ragazze nere, fermati di continuo per controlli, spesso usando maniere violente, solo per il loro colore della pelle, senza quindi giustificazioni oggettive e ragionevoli. Ricordo una mamma adottiva che mi telefonò disperata raccontandomi che il figlio da poco maggiorenne, di origini etiopi, in 30 giorni era stato fermato 24 volte. Forse non sarà questo il caso, i poliziotti hanno dovuto agire in quel modo aggressivo per la pubblica sicurezza, quindi normale non chiedere i documenti, normale portarlo fuori dalla macchina con violenza, normale la pistola puntata dritto sul passeggero, normale una perquisizione corporale. Tutto normale. Siamo sicuri? Chiediamoci cosa pensa un bianco quando vede un nero al volante di una macchina molto costosa: che è un imprenditore? Un medico? Un ambasciatore? Mio figlio che sta usando la macchina del padre per fare il figo con gli amici? La risposta è una sola: un nero che guida un macchinone è un delinquente. Partiamo da questo per capire come mai tre poliziotti bianchi, dopo una segnalazione del genere hanno fermato proprio lui. Cercavano un centrafricano con la maglietta verde, quindi tutti i neri con la maglietta verde erano sospettati? La verità è che per molti un nero vale l’altro, sono tutti uguali, parlano l’africano, arrivano dallo stesso posto, rubano, violentano, spacciano e non rispettano la legge. Questi pregiudizi sono così radicati nella nostra cultura colonialista e biancocentrica che si insinuano anche nella mente di giovani poliziotti che senza una specifica formazione o meglio informazione, spesso pensano che un nero vale un altro. Al primo corso antirazzista organizzato da Mamme per la pelle e dall’Oscad a Milano, c’erano poliziotti, carabinieri e ragazzi neri che si sono parlati, occhi negli occhi, senza filtri e intromissioni. Sono venute alla luce storie raccapriccianti, degne dell’Alabama degli anni 60. Ricordo G. una ragazza indiana adottata di 20 anni che singhiozzando, con le lacrime agli occhi, raccontava di quando due poliziotti la fermarono mentre tornava a casa da scuola e di come la toccarono dove non si deve, con la scusa di una perquisizione, aveva solo 16 anni e da allora non era più uscita di casa da sola. Ricordo però anche come la poliziotta che era al suo fianco le teneva la mano e la consolava chiedendole scusa per quello che aveva subito. Poi c’era Y., di 20 anni, che era stato portato in caserma perché non aveva i documenti e picchiato selvaggiamente senza motivo, solo perché nero, anche qui gli agenti con gli occhi lucidi gli stavano vicino. Sono certa che dopo questa esperienza ognuno di loro ha del tutto cambiato la propria percezione sui ragazzi non bianchi e, ogni ragazzo traumatizzato, ha riacquistato fiducia nelle forze dell’ordine. Quindi la soluzione c’è ed è parlarsi, mettere a nudo i pensieri e le esperienze perché dietro quella pelle scura o quelle uniformi ci sono ragazzi sensibili e intelligenti che parlano la stessa lingua e cercano giustizia e libertà. Non serve negare che in Italia ci sia razzismo, purtroppo è reale, tangibile, doloroso ma si può combattere e questa storia, avvenuta ad un giocatore del Milan, deve aprire la porta a discussioni civili e costruttive che possano portare ad una vera cultura antirazzista. Cosa sarebbe accaduto se al suo posto ci fosse stato un ragazzo comune? Forse ci sarebbe stato un finale diverso, meno lieto ed è a questi ragazzi che dobbiamo pensare. Quelli che subiscono ogni giorno e non possono avere le copertine dei giornali, quelli che vivono sulla propria pelle il razzismo istituzionale fatto di micro aggressioni e soprusi. Quello che è accaduto a Bakayoko non è l’eccezione ma la quotidianità e la notizia bella, è che si può cambiare. Non aprire allegati se l’identità del mittente non è nota. Verificare sempre l’autenticità del link della pagina che ti richiede dati personali. In caso di dubbi contattare l’help desk di riferimento. *Presidente dell’Associazione Mamme per la pelle, autrice di “Coprimi le spalle” (Chiarelettere) La cybersicurezza è un ingranaggio collettivo di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 21 luglio 2022 Aumenta i dispositivi connessi e l’uso di Internet, così aumentano anche gli attacchi alle macchine e alle persone. L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale aiuterà a fermarli ma non ce la farà da sola. Il rischio informatico cresce all’aumentare dei dispositivi connessi. É una questione statistica: quando sulle strade aumenta il traffico automobilistico, aumentano gli incidenti. Nell’ultima analisi di ComScore sul consumo di Internet in Italia si evidenza come: 1) Cresce il tempo speso online rispetto al periodo pre-Covid: 2 ore e mezza ogni mese per utente (+10% su maggio 2019), con Entertainment e Social Networking tra le categorie più rilevanti. 2) In Italia il 77% della popolazione maggiorenne usa internet ogni mese, una crescita di 7 punti percentuali rispetto al 2019. 3) L’86% del tempo totale è speso da dispositivi mobili (+11 punti percentuali vs maggio 2019). 4) Prosegue la crescita nel mondo dei Social (12.4 milioni i contenuti pubblicati nel 2021, +19% rispetto al 2020) con gli influencer che dominano i dati di engagement (43% delle interazioni totali). Tutto qui? No. Secondo l’Osservatorio Cybersecurity di Exprivia sulle minacce informatiche, nel primo semestre del 2022 l’Italia ha registrato un boom di fenomeni superiore all’intero anno 2021: 1.572 tra attacchi, incidenti e violazioni della privacy in soli sei mesi, a fronte dei 1.356 casi complessivi dello scorso anno. Secondo CybergON, business unit di Elmec Informatica, la Lombardia nel 2022 è stata la regione italiana maggiormente bersagliata dalle cyber gang perché, dicono, “Il tessuto imprenditoriale del nostro Paese si concentra per quasi la metà nell’Italia settentrionale (48,4%) e, nello specifico, per il 27,5% nel Nord-Ovest e per il 20,9% nel Nord-Est mentre, mentre a livello regionale, è la Lombardia ad avere un peso del 16,7%sul quadro complessivo. Questa regione conta da sola circa il 25% degli attacchi su superficie italiana, numero correlato al ricco tessuto imprenditoriale. Ma non è solo un problema dell’Italia. Negli ultimi giorni ha fatto scalpore il furto di 23 Tb di dati digitali dal gigante cinese Ali Baba con conseguente crollo in Borsa, come pure l’attacco informatico all’Albania costretta a spegnere letteralmente i suoi server per limitarne i danni. Da questo punto di vista il crimine informatico non è diverso dal crimine in generale: i delinquenti vanno dove ci sono i profitti da fare. Ma la regola generale è che laddove si sono macchine, ci sono incidenti e dove ci sono i dati, ci sono le fughe di dati. Questa consapevolezza, ancora implicita nella gran parte della società italiana, ci sta portando a rimettere molte aspettative nell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) e nella strategia firmata a maggio dal presidente del consiglio Draghi. Ma, attenzione, è lo stesso ente attuatore della strategia, l’Acn, che nei documenti ufficiali ricorda come la protezione di reti, sistemi, servizi e infrastrutture digitali sia un compito di tutte le componenti della società, ognuno con le sue prerogative e il suo ruolo. Quindi nessuna bacchetta magica in mano al direttore dell’agenzia Roberto Baldoni, ciascuno dovrà continuare a fare meglio quello che faceva prima per proteggere i propri asset informativi. Sapendo che adesso c’è un ente, l’Acn che, grazie ad accordi quadro nel campo della formazione, investimenti nelle tecnologie emergenti, il potere di certificare le tecnologie e di irrogare sanzioni, darà un importante contributo alla sicurezza di tutti. Non sarà facile. Alcune delle previsioni di legge contenute nella legge sul Perimetro nazionale di sicurezza cibernetica di cui l’ente è elemento centrale saranno difficili da rispettare per molte aziende, rappresentando un costo e un carico di lavoro aggiuntivo. Abbiamo alternative? Cannabis terapeutica: denunciato il club che aiuta i malati di Angela Stella Il Riformista, 21 luglio 2022 L’Associazione The Hemp: “Siamo pronti al processo”. Il presidente indagato per coltivazione a fini di spaccio: “Niente patteggiamento, la nostra è disobbedienza civile, le piantine sono dei pazienti con regolare ricetta”. Magi: “Legge folle, attività da sostenere”. Sabato scorso, nel tardo pomeriggio, gli agenti del commissariato Comasina di Milano al termine di un blitz hanno sequestrato 17 piantine di cannabis terapeutica con un Thc oltre i limiti di legge e altre 17 piantine neonate presso la sede del noto The Hemp Club (il club della canapa, ndr). Ispirato a Marco Pannella, The Hemp Club - per richiamare l’acronimo Thc - è il primo cannabis social club del capoluogo lombardo, nato due anni fa quale presidio sul territorio per aiutare i pazienti che ne abbiano necessità a reperire farmaci a base di cannabinoidi. All’interno del club i cittadini che ne avevano bisogno potevano effettuare un teleconsulto con i medici che predisponevano per loro un piano terapeutico e ricette per farmaci a base di cannabinoidi. “Il club resta aperto, però non sappiamo ancora se riprenderemo la coltivazione delle piantine - ci dice il presidente Raffaello D’Ambrosio - stiamo valutando con il nostro legale”. D’Ambrosio è stato denunciato per coltivazione a fini di spaccio (art. 73 del Testo sugli stupefacenti), reato che prevede la reclusione da sei a vent’anni e una multa da 26 mila a 260 mila euro. “Faremo comunque un processo, nessun patteggiamento perché vogliamo sollevare in Aula tutte le contraddizioni e i vulnus della normativa vigente”. Ma qual è lo scenario entro cui ci muoviamo? “Con il decreto 25 giugno 2018 dell’allora ministra della Salute Giulia Grillo - ci spiega sempre D’Ambrosio - tutti i medici possono prescrivere cannabis e la platea di coloro che vogliono essere consumatori legali si è allargata moltissimo”. Per questo “una parte della nostra attività consiste nel fare da intermediari tra i pazienti e le farmacie per accorciare i tempi, anticipare loro i soldi ed evitare, a chi già ha un problema, di girare in lungo e in largo per la città in cerca del farmaco che gli è stato prescritto da un medico”. Questa attività è del tutto legale. Poi c’è l’altro filone, quello della coltivazione, che ricade in una azione di disobbedienza civile in pieno stile radicale. “Ogni piantina corrisponde a un paziente che delega la coltivazione al club e poi, una volta pronta, passa a ritirare le infiorescenze a un prezzo più basso, circa 5 euro al grammo rispetto ai 12 della farmacia dove comunque è difficile reperirla. Un paziente che ha bisogno di un grammo al giorno si troverebbe a dover sborsare anche 350 euro mensili, a cui vanno aggiunti quelli della visita medica. Diventa così una ‘terapia di classe’“. Il paziente che vuole aderire all’iniziativa “firma un atto di disobbedienza civile, quindi un modulo dove c’è richiamato l’articolo 32 della Costituzione, quello sul diritto alla salute appunto, ma anche precedenti giuridici come l’assoluzione di Walter De Benedetto (il malato di artrite reumatoide finito sotto inchiesta e poi assolto per aver coltivato in casa cannabis a scopo terapeutico, ndr) e la sentenza della Cassazione per cui non è reato la coltivazione domestica destinata all’uso personale del coltivatore avente ad oggetto due sole piante di cannabis”. Il club in pratica è stato denunciato perché venderebbe le piantine ad altri: “Non è così - conclude D’Ambrosio - perché le piantine da quando nascono a quando vengono restituite hanno sempre un padrone che non è l’associazione ma un associato paziente con ricetta medica”. Ma se c’è la ricetta, qual è il problema chiediamo a Raffaello. “Bella domanda, questo è il nostro grande dilemma. Per questo abbiamo intrapreso questo tipo di attività, cercando di andare a processo per capire se vale di più la Costituzione italiana o le leggi che sono in conflitto tra di loro”. Accanto al club si è schierato l’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa: “L’operazione di polizia effettuata sabato scorso presso The Hemp Club di Milano e che ha portato al sequestro di piante di cannabis e all’indagine nei confronti del presidente Raffaele D’ambrosio per violazione dell’art. 73 della legge sugli stupefacenti ci mostra ancora una volta la follia della legge italiana”, ha dichiarato il parlamentare. “L’associazione milanese a cui sono iscritto - ha proseguito - offre un servizio di facilitazione ai malati che hanno bisogno di una terapia a base di cannabis e al contempo offre ai malati il supporto tecnico logistico nella autocoltivazione in forma associata di cannabis. Un’attività del genere andrebbe riconosciuta, sostenuta e incentivata e le forze dell’ordine impiegate in operazioni sensate e non in operazioni che danneggiano la possibilità di accedere alla cannabis per cittadini che ne hanno bisogno. Anche episodi come questi sono responsabilità di un Parlamento immobile e insensibile che non modifica norme sbagliate e controproducenti”, ha concluso il deputato Riccardo Magi. Afghanistan oggi, dieci mesi di diritti umani violati di Giuliano Battiston Il Manifesto, 21 luglio 2022 Talebani. Il rapporto della missione Onu a Kabul. Cresce la violenza “selettiva”, donne senza giustizia. Meno violenza militare, più violenza selettiva e forte repressione del dissenso. Nelle 58 pagine del rapporto sull’Afghanistan reso pubblico ieri da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, emerge una prima panoramica sullo stato dei diritti nel Paese. Il periodo in esame va dal 15 agosto 2021, giorno in cui i Talebani sono entrati a Kabul in seguito alla fuga del presidente Ashraf Ghani, al 15 giugno di quest’anno: 10 mesi di governo e di violazioni dei diritti umani. Rese possibili anche grazie al graduale, sistematico lavoro di repressione verso quanti - giornalisti, attivisti, esponenti della società civile - possono o potevano denunciare la progressiva perdita delle libertà fondamentali. Una repressione più intensa dallo scorso agosto, ma già in corso tra la fine del 2020 e la prima metà del 2021, quando nel Paese si sono registrati numerosi attacchi e omicidi, non rivendicati, contro la società civile: i Talebani preparavano il terreno. Da allora, Unama nota una significativa riduzione della violenza militare legata al conflitto. Tra l’agosto 2021 e il giugno 2022, ci sono state 2106 vittime civili: 700 morti e 1406 feriti, mentre negli ultimi anni i morti erano più di 3.000 ogni anno. La maggioranza delle vittime “va attribuita agli attacchi mirati della cosiddetta Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico, “contro le minoranze etniche e religiose”. A fronte di una generale riduzione della violenza militare, si afferma però una violenza più selettiva: da parte delle nuove autorità di fatto, i Talebani dell’Emirato, contro coloro che vengono percepiti come nemici o antagonisti. Tra i primi vanno inclusi alcuni ex membri delle forze di sicurezza o del governo, i membri del cosiddetto Fronte di resistenza nazionale e, appunto, quelli della Provincia del Khorasan. Tra i secondi, giornalisti (circa 170 gli arresti arbitrari), attivisti, individui accusati di “crimini morali”. Non è un caso che venga sottolineato il ruolo di due organi dell’Emirato, in particolare: il ministero di fatto per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio e l’Istikhbarat, il Dipartimento di intelligence. Dal primo dipendono molte direttive che limitano i diritti e le libertà delle donne, dal secondo le punizioni per chi non si attiene alle direttive, spesso presentate solo come raccomandazioni. In evidenza, la distanza tra parole e fatti. Così, nonostante l’amnistia del 17 agosto 2021 per gli ex membri di sicurezza e governo, Unama registra 160 omicidi extragiudiziali, 178 arresti e detenzioni arbitrarie, 56 denunce di torture o trattamenti degradanti verso questa categoria. E poi 59 omicidi extragiudiziali, 22 arresti e detenzioni arbitrarie di individui accusati di far parte della “Provincia del Khorasan”, molti dei quali uccisi con metodi particolarmente crudeli. E ancora 18 omicidi, 54 denunce di torture o maltrattamenti di persone considerate parte del “Fronte di resistenza nazionale”, il fronte militare che comincia a impensierire i Talebani in alcune province settentrionali. Secondo Unama, il miglioramento delle statistiche generali sulla sicurezza non basta, perché “la popolazione afghana, in particolare donne e ragazze, sono private del pieno soddisfacimento dei loro diritti umani”. Dal 15 agosto, “donne e ragazze hanno visto progressivamente ridotti, e in molti casi completamente eliminati, i loro diritti a partecipare in pieno all’educazione, ai luoghi di lavoro e ad altri aspetti della vita pubblica”. Anche “l’accesso alla giustizia per le vittime di violenza di genere è stato limitato con la chiusura dei meccanismi di denuncia, giustizia e protezione”. Bolsonaro annuncia il golpe al mondo, sdegno in Brasile di Claudia Fanti Il Manifesto, 21 luglio 2022 Militari a contare i voti: reazioni choc dalla stampa conservatrice allo stesso esercito. Il fatto che il presidente non sia stato arrestato “è la prova che non ci troviamo in uno stato di diritto”. Il segno lo ha passato molte volte, ma fino a tanto Bolsonaro non aveva ancora osato spingersi. Gettare fango sulla democrazia del proprio paese dinanzi a una cinquantina di ambasciatori stranieri, come è avvenuto lunedì, è infatti qualcosa di talmente grosso da far insorgere persino le forze conservatrici. “Bolsonaro disonora il Brasile”, ha non a caso titolato O Estado de São Paulo, il quotidiano che rappresenta gli interessi del potere finanziario, parlando di “un atto assolutamente inedito e insolito, che offende le istituzioni nazionali, umilia il paese e riempie di vergogna l’intera popolazione”. Non si è trattato “solo” di un altro tra innumerevoli attacchi al sistema di voto elettronico: nella riunione con gli ambasciatori convocata al Palácio da Alvorada, la residenza ufficiale del presidente del Brasile, e trasmessa in diretta dalla televisione pubblica, Bolsonaro ha sparato menzogne a raffica sul sistema elettorale, definito “completamente vulnerabile”, ha attaccato i giudici del Tribunale superiore elettorale (Tse) e della Corte suprema e ha chiesto a gran voce, per le elezioni del 2 ottobre, un conteggio parallelo dei voti da parte delle forze armate. Con tanto di Power Point, uno strumento già reso tristemente celebre dal procuratore Deltan Dallagnol in funzione anti-Lula al tempo della farsa giudiziaria contro l’ex presidente, Bolsonaro ha diffuso teorie cospiratorie e denunciato presunti brogli, per esempio richiamandosi all’indagine della polizia federale su un attacco hacker alle urne elettroniche nel 2018. “Ad oggi l’indagine non è stata conclusa. Le elezioni del 2020 non avrebbero dovuto realizzarsi in assenza di una verifica”, ha mentito il presidente. Perché l’indagine ha avuto eccome una conclusione: che l’accesso degli hacker non aveva comportato “alcun rischio all’integrità del processo elettorale”. Ma il presidente è stato anche capace di attaccare a testa bassa un altro potere dello stato, descrivendo senza fondamento il presidente del Tse Edson Fachin come avvocato di quel gruppo “terrorista” che sarebbe il Movimento dei senza Terra, oltre che come giudice che avrebbe “rimesso in libertà Lula”, e accusando lui e i giudici Moraes e Barroso di essere “persone che portano instabilità” nel paese. Le reazioni, stavolta, sono arrivate quasi da ogni parte: da membri dell’Alto comando dell’esercito, dalle tre associazioni della polizia federale e anche dalla grande stampa conservatrice, oltre che dalle forze politiche, dai giuristi, dalle più diverse organizzazioni della società civile e dai movimenti che hanno dato vita alla Campagna Fora Bolsonaro nel 2021 e che oggi sollecitano “una forte reazione contro il possibile golpe”. Ha reagito persino l’ambasciata degli Stati Uniti, che, in una nota, definisce il sistema elettorale brasiliano come un “modello” per il mondo, ricordando la “forte tradizione” del paese in materia di “elezioni libere e giuste, nel segno della trasparenza e di alti livelli di partecipazione”. A tacere è stato quasi solo il presidente della Camera, il bolsonarista di ferro Arthur Lira, lo stesso che ha protetto il presidente da ogni richiesta di impeachment. Ma le reazioni, per quanto indignate, non sono bastate in passato e non bastano neppure oggi. Come ha denunciato l’antropologo e politologo Luiz Eduardo Soares, il fatto che Bolsonaro abbia “annunciato il golpe e non sia stato arrestato, né la popolazione sia scesa in massa per le strade, è la prova che non ci troviamo in uno stato di diritto”: “Se le istituzioni funzionassero”, è chiaro, il presidente non sarebbe già più al suo posto. Myanmar, l’orrore delle mine antipersona contro i civili di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 luglio 2022 In una nuova scioccante ricerca pubblicata oggi, Amnesty International ha accusato le forze armate di Myanmar di crimini di guerra attraverso il massiccio uso di mine antipersona all’interno di almeno 20 villaggi e nei loro dintorni dello stato di Kayah, dove nel maggio 2021 si è riacceso il conflitto tra l’esercito birmano e i gruppi armati dell’etnia karenni. Le mine antipersona sono armi inerentemente indiscriminate e vietate a livello internazionale. Oltre a causare morti e feriti nell’immediato, la loro presenza sul terreno come ordigni inesplosi può avere effetti nel lungo periodo: non solo fare nuove vittime ma rendere impossibili allevamenti e coltivazioni. Ma dei divieti del diritto internazionale, nel caso specifico un Trattato del 1997 cui hanno aderito 164 stati, le forze armate che hanno preso il potere in Myanmar il 1° febbraio 2021 hanno dato più volte prova di infischiarsene. Secondo Landmine Monitor, nel 2020-21 Myanmar è stato l’unico stato al mondo le cui forze armate hanno usato le mine antipersona. Per aggirare gli ovvi divieti di esportare armi proibite, l’esercito di Myanmar se le produce in casa. Le più usate sono le M-14 e le MM-2, queste ultime di maggiore potenza dato che possono esplodere all’altezza del ginocchio e anche altrove, causando mutilazioni e anche la morte per dissanguamento. Abu Dhabi. Scarcerato Andrea Costantino: ma deve pagare mezzo milione per tornare in Italia di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 21 luglio 2022 La detenzione è durata da marzo 2021 al 30 maggio 2022. La compagna: “Non ha quella capacità finanziaria. In questo periodo in carcere ha perso tutto. È stato tutto un caso politico”. È stato scarcerato Andrea Costantino, il trader milanese del petrolio arrestato il 21 marzo del 2021 negli Emirati Arabi. La notizia trapela solo ora ma Costantino è uscito dal penitenziario di Al Wathba lo scorso 30 maggio, su disposizione del procuratore generale di Abu Dhabi che avrebbe ricollegato la scelta a “superiori interessi di Stato e della Nazione”. L’8 giugno la Corte di Abu Dhabi dove era in corso il processo, ha condannato Costantino a una pena pecuniaria di 500 mila euro, il cui pagamento è condizione minima e indispensabile per lasciare gli Emirati. Ragione per cui il trader è ancora costretto ad Abu Dhabi, dove è ospite dell’ambasciata italiana. “Cinquecento mila euro sono fuori della capacità finanziaria di Andrea e lo obbliga al soggiorno forzato”, ha spiegato la compagna e madre di sua figlia, Stefania Giudice. Stefania lo vide per l’ultima volta il 21 marzo del 2021, quando una decina di uomini lo fermarono nell’albergo di Dubai dove si trovavano per qualche giorno di relax. “Mi portano ad Abu Dhabi, ti giuro che non so perché”, le disse. Da allora è passato oltre un anno, che Costantino ha trascorso fino a giugno in una cella di Al Wathba, mentre Stefania ha seguito da Milano gli sviluppi dell’indagine e del processo, nel quale era accusato di aver collaborato con un’organizzazione terroristica per via di un paio di forniture allo Yemen. “Ma dalla sentenza si è capito che alla base dell’intera vicenda c’è la politica, tant’è che è stato rimesso a piede libero in base all’articolo 228 del codice penale emiratino che ricollega il procedimento a superiori interessi dello Stato e della nazione. Però Andrea non è ancora un uomo libero”, ha sottolineato la compagna ricordando la necessità del pagamento per poter lasciare il Paese. “In questi sedici mesi di vita sospesa Andrea ha perso tutto, risparmi, azienda lavoro”. L’ambasciatore italiano ad Abu Dhabi, Nicola Lener, era andato a trovarlo nel mese di maggio: “Ho incontrato Andrea... è provato dalla situazione detentiva degli ultimi giorni - aveva riferito - è stato infatti trasferito in un seminterrato caratterizzato da pessime condizioni igieniche, dove mi ha detto di essere stato persino morso da un topo. Gli è stato somministrato il siero antitetanico ed è sotto antibiotici... è preoccupato perché non sta recuperando peso”. Ora Costantino si è ripreso, assicura Stefania: “È felice per la scarcerazione, ma preoccupato per il fatto di non poter rientrare in Italia”. E si appella alla politica: “È necessario, ora più di prima, che le più alte cariche dello Stato si interessino e intervengano per consentire di percorrere l’ultimo miglio necessario al ritorno a casa di Andrea”.