Vita e morte dei malati psichici dietro le sbarre di Roberto Falessi* Il Dubbio, 20 luglio 2022 La storia di un ragazzo affidato a una comunità e del suo avvocato. “Bentornato alla libertà! Prendi fiato e respira tutta l’aria che c’è!”. Questo il mio saluto al ragazzo che, in uscita da San Vittore, mi veniva affidato per accompagnarlo a una Comunità psichiatrica in provincia di Savona. Mi ha guardato ancora un po’ estraniato; poi è uscito dai suoi pensieri, dal “carcere” che gli era rimasto dentro, e finalmente ha abbozzato un mezzo sorriso, abbracciandomi forte. L’attimo del ritorno alla libertà non si dimentica. È un punto di svolta nella vita. In un istante ha riavvolto il nastro di 9 mesi di detenzione che aveva tanta voglia di raccontare. All’inizio tutto gli era sembrato surreale, deformato dall’incredulità provata, lui disabile mentale con diagnosi di disturbo borderline di personalità, con un’invalidità riconosciuta del 100%, incensurato, abituato al ritiro sociale, accusato di maltrattamenti per le discussioni per farsi dare 5 euro per i giochi on line dalla madre, alla quale la psichiatra aveva dato l’incredibile suggerimento di denunciare il figlio “per salvarlo e farlo mandare in una Comunità” (cosa che, invece, non aveva fatto, perché “non si può denunciare un figlio malato”). Poi la vita in carcere era rimasta sospesa in un’angosciosa attesa, mentre il CPS veniva sollecitato da difensore e Gip a reperire una Comunità psichiatrica che nessuno riusciva a trovare. Infine lo scorrere lento del tempo aveva preso le forme di un’abitudine insensata; tra l’aria ferma, calda, greve di odori e opaca di luce e il sole oltre le sbarre visto soltanto a scacchi. La cartella clinica descrive i momenti più drammatici di disperazione e di ribellione durante quel “soggiorno”: “le ferite al collo con frammenti di vetro della porta dell’antibagno”, “l’urto della testa contro il muro e le sbarre del cancello”, “il pugno contro il muro e le fratture alla mano”, “il tentativo di impiccagione con un cappio fatto con la propria felpa”. Cosa ha evitato il peggio? Più che l’assistenza del Dipartimento di Salute mentale interno del carcere, probabilmente solo la generosità e l’altruismo di un concellino che gli ha ridato speranza e fiducia nelle relazioni umane. Poi è arrivato il momento della liberazione ed è tornato a vedere il cielo sopra di sé, l’aria leggera, il sole immenso e non più cesellato dai quadratini di una finestra a sbarre. Ma dopo la gioia per quel ragazzo restituito alla vita piena, rimane una riflessione amara. Da quel carcere altri non sono usciti. Nel mese di giugno, nel giro di pochi giorni, due ragazzi, di poco più giovani, si sono tolti la vita. Gesto folle oppure logico di chi sente di non valere nulla e accumula una disperazione e un disagio insostenibili? Il carcere genera e amplifica le patologie psichiche. Lo ha scritto con chiarezza nella sua relazione del maggio 2022 il dottor Francesco Maisto, Garante dei detenuti nominato dal Comune di Milano che ha descritto una popolazione detenuta caratterizzata per il 60-70% da patologie croniche, anche gravi. Il carcere, per le sue condizioni di vita difficili, precarie e insalubri fa ulteriormente ammalare. Lo conferma la Relazione al Parlamento, sempre del maggio 2022, del dottor Mauro Palma, Garante delle persone private della libertà, nella quale si evidenzia il disagio molto presente nel sistema di detenzione adulta, per cui vi sono fenomeni di gesti autolesionistici e soprattutto suicidi: 30 nel 2022 fino ad oggi, 54 nel 2021, 60 nel 2020. Il Garante ha scritto che i suicidi sono un monito, interrogano per “la doverosa riflessione su cosa apprendere per il futuro da queste imperscrutabili decisioni soggettive, cosa imparare per diminuire il rischio del loro ripetersi”. Le imperscrutabili decisioni soggettive sono ampiamente prevedibili, tenuto conto che già le “Linee di indirizzo per la riduzione del rischio auto lesivo e suicidi ario in ambito carcerario”, approvate dalla Conferenza unificata Stato-Regioni del 19.1.2012, avevano spiegato che “La condizione di reclusione è una esperienza umana limite, che coincide da un lato con la perdita della libertà individuale e della propria autonomia e dall’altra con la frattura della continuità esistenziale attraverso la sottrazione dell’individuo dal corso della propria vita e dalla sua rete relazionale. L’impatto psicologico dell’arresto e dell’incarcerazione, la paura di essere abbandonati da familiari e amici, la crisi di astinenza dei tossicodipendenti, la consapevolezza di una condanna lunga, lo stress quotidiano della vita in carcere, sono tutti elementi in grado di superare la soglia di resistenza di una persona”. Per prevenire atti suicidari occorre allora investire risorse; l’esiguo numero di ore a disposizione degli specialisti dei servizi di salute mentale operanti all’interno degli istituti penitenziari dimostra che il problema non è considerato una priorità. Occorre festeggiare le scarcerazioni ma sensibilizzare su un problema che ancora non è stato adeguatamente affrontato e fronteggiato. *Avvocato “Il carcere è inutile, abolirlo non è utopia” di Roberto Davide Papini riforma.it, 20 luglio 2022 Intervista a Elisabetta Zamparutti (Nessuno tocchi Caino): “La giustizia, partendo sempre dalla verità, deve puntare da un lato alla rieducazione, e insieme alla riparazione. I detenuti stessi possono farsi speranza”. “Un aggettivo per definire il carcere? “Inutile. È un’istituzione inutile e va superata”. Elisabetta Zamparutti non ha dubbi, il carcere va abolito. D’altronde, su questo tema il dibattito va avanti da tempo, prima sommessamente, poi in maniera sempre più larga (seppur minoritaria) come dimostra la nuova edizione del libro “Abolire il carcere” di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta con prefazione di Gherardo Colombo e postfazione di Gustavo Zagrebelsky. Da parte sua, Zamparutti conosce molto bene la realtà carceraria in Italia e non solo. È componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell’Italia, oltre che tesoriera di “Nessuno tocchi Caino” e consigliera generale del Partito radicale transnazionale. L’abolizione del carcere viene vista da molti come una cosa assurda e invece... “È un progetto politico che promuove un cambio di paradigma nella concezione della giustizia del modo di dire e di fare giustizia. Come diceva Gustav Radbruch (poi ripreso da Aldo Moro), “Più che cercare un diritto penale migliore dobbiamo cercare qualcosa di meglio del diritto penale”. Cambiare, ma in che senso? “Mettere in discussione il giudicare, in fondo richiamandosi anche al monito biblico sul “non giudicare”, perché occorre trovare forme di giustizia diverse che più che giudicare, condannare, separare, mettere in disparte siano orientate alla riparazione. Certo si deve partire dalla verità, dalla consapevolezza del danno procurato. Più che il sistema del giudizio va concepita una forma di acquisizione della verità che porti a una riparazione. Il carcere è l’espressione più crudele, ovunque ci siano istituti penitenziari, per quanto possano essere evoluti, comunque c’è una componente punitiva prevalente che pregiudica il suo uso a fini rieducativi, nonostante quello che abbiamo scritto nella Costituzione. L’impianto è quello di una giustizia portata a infliggere altro male rispetto al male commesso. Non c’è educazione che possa venire dalla punizione. Il cambio di paradigma deve essere da un pensiero violento a un pensiero nonviolento. Coltivando una concezione nonviolenta il carcere va superato”. Così però viene meno il concetto di punizione? O va bilanciato con l’intento rieducativo e riparativo? “Il concetto di punizione va eliminato, occorre proprio un’altra concezione che metta al centro l’educazione, la riparazione e il cambiamento della persona. Servono forme di giustizia riparativa. Vanno pensate forme di acquisizione della consapevolezza del danno procurato, per passare a un’evoluzione della coscienza che ti porta a riparare. Questo comporta che tutta la società deve cambiare evolvendo verso forme più civili. Non è che il carcere sia una parte a sé stante, è un’idea di insieme e il carcere fa parte di una società che pensa e agisce in questo modo violento”. Questo presuppone una grande fiducia nell’essere umano e nella sua capacità di cambiare... “Esattamente, occorre una grande fiducia e un grande amore per l’essere umano. Sa chi non ha fiducia nelle persone?”. Chi? “I regimi totalitari, quelli illiberali che partono da una sfiducia nell’essere umano e quindi gli negano i suoi diritti”. Certo, così uno si immagina che domani vengano aperte le porte di Regina Coeli, dell’Ucciardone e di San Vittore e comprensibilmente si preoccupa... “Non siamo dei pazzi furiosi. Delle strutture di contenimento ci devono essere, ci sono situazioni in cui qualcuno è dannoso a sé stesso e agli altri agli altri e lo devi fermare. Quello che non ci deve essere è il preminente ruolo della punizione. Direi il carcere come eccezione e non come regola, non come punizione ma come contenimento. D’altronde, ci sono situazioni in cui ci si rende conto che il diritto penale viene usato per regolamentare problemi sociali, in carcere c’è una grande manifestazione di disagi sociali”. Come “Nessuno Tocchi Caino” avete scelto di aggiungere al nome un’altra frase biblica, quella dell’apostolo Paolo “Spes contra Spem” (“Sperando contro speranza” - Romani 4, 18). Una frase sulla quale il leader radicale Marco Pannella ha sempre insistito molto. Che cosa significa per voi? “Vede, “Nessuno Tocchi Caino” vale sempre più per lo Stato affinché per difendere le giuste ragioni di Abele non diventi esso stesso Caino. Invece “Spes contra spem” è rivolta ai detenuti perché siano loro, con il loro comportamento e cambiamento, a determinare il cambiamento che vogliono vedere rispetto alla loro situazione. Devono essere loro speranza”. Resta il fatto che l’abolizione del carcere per molti è un’utopia... “Parlare di utopia spesso è anche una buona giustificazione a non fare. Di fronte alla violenza, pervasiva e diffusa, solo un pensiero nonviolento può mutare le cose. Quando la speranza non c’è negli altri devi essere tu speranza. Se noi siamo arrivati a superare l’ergastolo ostativo attraverso i pronunciamenti delle alte giurisdizioni (Corte Europea di Giustizia e la nostra Corte costituzionale) è perché ci sono stati ergastolani ostativi che hanno saputo essere loro speranza. Hanno manifestato un cambiamento più forte dell’ergastolo ostativo stesso”. I punti deboli della riforma Cartabia di Gianluca Schiavon Il Manifesto, 20 luglio 2022 Giustizia. La sfiducia nella giustizia deriva dalla dimensione classista del suo funzionamento: il peso economico del contributo unificato, in particolare davanti il Tar, le condanne alle spese nei giudizi di lavoro, la sperequazione tra esecuzione penale in carcere per gli stessi fatti verso soggetti con basso reddito e scarsa formazione. Otto elettori su dieci hanno bocciato la consultazione popolare ancor più dei cinque quesiti nel merito. Ciò non significa promozione della Ministra o approvazione dell’attuale funzionamento della magistratura e dell’esercizio della giurisdizione. I quesiti IV e V, pur respinti dal corpo elettorale, hanno trovato recepimento nella riforma dell’ordinamento giudiziario approvata il 16 giugno con la legge n. 71. Ora i magistrati potranno candidarsi al Csm senza firme e vedranno le loro carriere giudicate nei Consigli giudiziari anche da avvocati e professori. Parva materia, se non che l’ultima delle deleghe legislative al Governo volute da Marta Cartabia, riesce a non rafforzare il prestigio della magistratura, indicata in Costituzione come “ordine autonomo e indipendente”, e a non rendere efficiente e ragionevole (non solo nella durata) il processo. Il nuovo ordinamento giudiziario non restituisce credibilità a una categoria la cui valutazione di professionalità è positiva per il 99,4% degli appartenenti e il cui trattamento economico è più alto di qualsiasi altro dipendente pubblico in posizioni di responsabilità. Al disdoro conseguente alla scoperta - solo per i disattenti - del ‘metodo Palamara’, come sistema di accesso e carriera nella magistratura, la legge 71 risponde con una delega vaga a rendere trasparenti i meccanismi di nomina degli incarichi direttivi e semi-direttivi sempre con concorsi per soli titoli. Non valorizza nell’accesso alla carriera altre esperienze professionali qualificate o il titolo accademico per eccellenza, qual è il dottorato di ricerca, e cancella, tra le materie dell’esame orale, le istituzioni di diritto romano base degli istituti di diritto civile. Paradossale pare la disciplina dell’elezione dell’organo di autogoverno mai tanto screditato. Evitata la scelta con la riffa, in sfregio all’art. 104 Costituzione, è stata prescelta una legge elettorale iper-maggioritaria premiante due candidati per collegio che spingerà verso un inedito bipolarismo. Ultimo tema à la page è la impossibilità per il magistrato di svolgere mandati parlamentari o, più in generale, elettivi sul presupposto privo di evidenze che perda per sempre imparzialità, persino candidandosi. L’attaccamento al potere - politico, economico e in qualche caso opaco - di settori della corporazione, tuttavia, non è causato dall’eccesso di politica o dall’ambizione per lo scranno, ma da un deficit di politica intesa come confronto tout court. La confusione tra poteri si deve anche ai magistrati che preferiscono gli uffici legislativi e i gabinetti dei Ministeri, delle Agenzie fiscali o delle Autorità indipendenti alle aule di Giustizia. La sfiducia nella giustizia deriva dalla dimensione classista del suo funzionamento: il peso economico del contributo unificato, in particolare davanti il Tar, le condanne alle spese nei giudizi di lavoro, la sperequazione tra esecuzione penale in carcere per gli stessi fatti verso soggetti con basso reddito e scarsa formazione. Sfiducia cui nessuno ha dato risposte, specie nel diritto penale, ad esempio introducendo le depenalizzazioni, impensabili per il triplice populismo: reazionario salviniano, qualunquista grillino e tecnocratico. Nessuno, ben prima della crisi, ha percorso nemmeno un tratto del diritto penale ‘liberale’: la riscrittura della legittima difesa e dell’eccesso colposo violentati dal duo Salvini/Bonafede, la depenalizzazione dei delitti di blocco stradale, ferroviario e in navigazione. Avremo il recepimento del principio dalla Carta europea dei diritti dell’uomo del processo solo con una ragionevole previsione di condanna, in relazione criteri di adozione della custodia cautelare? Vedremo se si darà spazio ai riti alternativi al dibattimento, alla luce della decisione della Corte costituzionale sull’estensione della messa alla prova, se sarà rinnovato il sistema delle pene detentive brevi. Vedremo se il Parlamento, dopo l’ultimatum della Consulta, avrà il coraggio di perpetuare la barbarie dell’ergastolo ostativo. L’Unione europea promuove l’Italia sulla giustizia. Avvisare il Fatto di Claudio Cerasa Il Foglio, 20 luglio 2022 La Commissione Ue elogia le riforme Cartabia, a dispetto delle bufale spacciate dal giornale di Marco Travaglio. “L’Italia sta realizzando una riforma della giustizia su larga scala: alcuni buoni esempi sono le riforme della giustizia civile e penale per migliorare l’efficienza della giustizia”. A scriverlo in un tweet è stato il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, commentando la relazione sullo stato di diritto pubblicata la scorsa settimana dalla Commissione europea. L’Unione europea elogia dunque i risultati raggiunti dal governo Draghi, e in particolare dalla Guardasigilli Marta Cartabia, spazzando via alcune letture politicamente strumentali diffuse nei giorni scorsi. “Giustizia, l’Ue stronca le leggi Cartabia”, aveva titolato in prima pagina il Fatto quotidiano, sostenendo che la Commissione europea avesse “bocciato senza appello le riforme di Palazzo Chigi sulla giustizia”, capaci addirittura di mettere a rischio l’indipendenza dei magistrati. Una bufala gigantesca. Uno dei bersagli del giornale di Travaglio è la riforma della prescrizione, con l’introduzione del sistema di improcedibilità nei processi di appello e Cassazione. La relazione sottolinea che con questo meccanismo numerosi processi per corruzione potrebbero essere resi improcedibili in appello, dunque occorre un “attento monitoraggio” degli effetti della riforma. Ma è una cosa che il governo sta già facendo: “Un comitato tecnico-scientifico istituito presso il ministero della Giustizia è stato incaricato di monitorare la transizione graduale verso il nuovo regime”, si legge in un passaggio della relazione (ignorato dal Fatto). Un altro tema riguarda la riforma dell’ordinamento giudiziario. La relazione riporta le preoccupazioni espresse da Csm e Anm sul nuovo sistema di valutazione di professionalità delle toghe, ma - anche qui - osserva che la normativa di attuazione “consentirà di elaborare disposizioni più dettagliate sui modi di garantire l’indipendenza della magistratura”. Nel complesso, il report promuove le azioni intraprese dall’Italia “volte a migliorare la qualità e l’efficienza del sistema giudiziario”. La completezza dell’informazione, questa sconosciuta. L’Ue loda Bonafede, quindi per i giornali è merito di Cartabia di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2022 Nel Paese della bugia la verità è una malattia, diceva tanti anni fa Gianni Rodari. Così per timore di infettarsi e magari di perire, accade che quasi tutti in politica, in tv e sui giornali spesso preferiscano tacere. Guardate cosa avviene nella casa opaca della nostra malandata giustizia. Nella sua ultima relazione sullo Stato del diritto, la Commissione europea prende a ceffoni la riforma firmata dal ministro Marta Cartabia. Le modifiche al Codice di procedura penale, secondo Bruxelles, possono mettere a rischio “l’effettività del sistema giudiziario” e sarà quindi necessario “uno stretto monitoraggio per assicurare che i processi per corruzione non si interrompano automaticamente in grado di appello”. Mentre la riforma dell’Ordinamento giudiziario per la Commissione “rischia di comportare indebite influenze sull’indipendenza dei giudici”. A dire il vero non ci volevano gli euroburocrati per capire che, in un Paese come il nostro, in cui interi distretti giudiziari sono sotto organico e inefficienti, la trovata di far evaporare i processi in appello, se durano troppo, sarà solo raramente una spinta a essere più veloci. Sarebbe invece bastato un po’ di realismo per capire (e dire) che la balzana idea avrà più che altro effetti inutili o addirittura dannosi. Allo stesso modo, non ci voleva Giustiniano per comprendere che la (condivisibile) “ricerca di una maggiore efficienza non dovrebbe compromettere l’indipendenza del potere giudiziario” messa in forse dalla sempre maggiore gerarchizzazione degli uffici (traduzione: se riesco a controllare il procuratore controllo tutti i pm). Ma visto che di novelli Giustiniano in giro non se ne vedono e abbondano anzi i Nerone, in Italia si è adottata una tattica diversa: il silenzio. Il contenuto della relazione della Ue è stato di fatto segretato: ne hanno parlato un paio di giornali, nessuna tv e nessuno tra i politici che avevano salutato la riforma Cartabia come una positiva rivoluzione. È un modus operandi conosciuto che può essere riassunto in una frase: far scomparire i fatti per non disturbare le opinioni. Le cose, del resto, vanno avanti così da anni. Tanto che nel luglio del 2021, quando ancora la riforma non era legge, in occasione della pubblicazione della vecchia relazione, Repubblica titolava: “Una sponda Ue al progetto Cartabia”, mentre per Il Sole 24 Ore l’Europa “loda i progressi italiani”. Non è vero niente: in quel documento c’è solo la cronaca di quello che stava accadendo in quei giorni, ma non c’è nessun giudizio (l’articolato era approdato in Cdm l’8 luglio). O meglio, un giudizio positivo c’è, ma solo sul passato: cioè sul tentativo di modifiche portate avanti dal vecchio ministro Alfonso Bonafede e su quanto da lui già fatto. “Rilevante in questo contesto - si legge in quel documento - è anche la riforma, entrata in vigore dal 2020, che prevede l’interruzione della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, in linea con una raccomandazione specifica per un Paese formulata da tempo”. La Ue, insomma, nel luglio del 2021 ribadisce quello che aveva già detto il 26 febbraio 2020 quando, ovviamente senza clamore, aveva definito lo stop alla prescrizione una “riforma benvenuta” aggiungendo pure che la lotta alle mazzette stava “migliorando” perché l’Italia aveva “migliorato il suo sistema anti-corruzione, tra le altre cose, adottando un programma per proteggere gli informatori (…) e approvando una nuova legge anti-corruzione nel gennaio del 2019”. Solo che a farlo era stato il ministro sbagliato. Meglio per tutti tacere. Ma non per la vergogna, purtroppo. Anm-penalisti calabresi, prove di dialogo dopo lo scontro di Valentina Stella Il Dubbio, 20 luglio 2022 Continua il botta e risposta a distanza tra penalisti calabresi e magistratura. Dopo la richiesta di pratica a tutela nei confronti delle toghe calabresi avanzata dal gruppo di Area in Csm, è arrivata la nota della Giunta esecutiva dell’Anm: “Amareggiano alcune espressioni usate nel corso dell’incontro che si è tenuto a Lamezia Terme” lo scorso 14 luglio dal titolo “A tutela della libertà dei cittadini”, organizzato dal coordinamento delle Camere penali calabresi. Si è parlato, aggiunge la nota del sindacato delle toghe, “di una magistratura calabrese “soffocata dal metodo staliniano” e del processo Rinascita-Scott come “summa delle storture della malagiustizia”, espressione addirittura di un “potere esercitato sulla società, sull’economia, sulla politica da un asse di ferro costituito da procure distrettuali, forze di polizia, informazione”“. Si tratta per l’Anm “di affermazioni offensive, slegate da riferimenti concreti e prive di fondamento, che si traducono in un attacco indiscriminato e generico al difficile lavoro della magistratura calabrese, da sempre impegnata nella tutela della legalità e dei diritti dei cittadini”. Tuttavia in conclusione viene aperto uno spiraglio al dialogo: “Nel manifestare pieno sostegno ai colleghi calabresi, l’Anm ribadisce la propria disponibilità al dialogo anche con le Camere penali, purché nel rispetto dei reciproci ruoli, e ricordando come la tutela delle libertà dei cittadini sia assicurata proprio dall’azione di contrasto al crimine organizzato in territori angustiati dal fenomeno mafioso”. Non si è lasciata attendere la replica del Coordinatore delle Camere penali calabresi, l’avvocato Valerio Murgano a nome di tutti i colleghi: è “doveroso rivendicare come l’avvocatura abbia posto al centro del dibattito temi di stretta attualità riguardanti lo stato di salute della giurisdizione in Calabria, indicando proficuamente un percorso virtuoso di dialogo con la magistratura (tutta), teso a superare le evidenti criticità”. Certamente, ammette Murgano, “durante il dibattito - al quale la magistratura, compreso l’Anm locale dei Distretti giudiziari di Catanzaro e Reggio Calabria si è sottratta - sono state espresse critiche (anche) aspre nei confronti di quella parte della magistratura che ha colposamente concorso, a volte nel silenzio nocivo dell’avvocatura, all’acuirsi di una crisi, ormai endemica, della giurisdizione in Calabria”. Ma a gettare benzina sul fuoco ci ha pensato una testata giornalistica che “ha faziosamente estrapolato frammenti del dibattito per poi affastellarli in un ordine tutt’altro che casuale e a un solo fine: scongiurare il pericolo che l’avvocatura possa iniziare un percorso di dialogo con i rappresentanti della magistratura, depotenziando chi dal contrasto e dall’isolamento della classe forense trae linfa vitale”. Per queste ragioni, ha concluso Murgano, “nel riaffermare gli obiettivi che l’assemblea dei penalisti del 14 luglio si è prefissa di perseguire, si esprime autentico apprezzamento per l’annunciata disponibilità al dialogo con l’avvocatura da parte dell’Anm, nella convinzione che ciò debba avvenire con il confronto sui “temi” e con la finalità di tutelare i cittadini attraverso l’esercizio della giurisdizione nel rispetto della legge e delle garanzie poste a presidio di un “sistema penale” aderente al dettato costituzionale. Occorre, infatti, preservare la necessità che il processo non sia concepito quale strumento di lotta sociale, ma come luogo deputato ad accertare la sussistenza o meno di un fatto-reato e la sua attribuibilità all’imputato, nel rispetto assoluto del principio cardine della presunzione d’innocenza”. Giulio Regeni e gli altri: la sfida per i diritti di Alessandra Ballerini* La Repubblica, 20 luglio 2022 La forza di queste famiglie, partigiane di giustizia, è corale e inarrestabile. Combattono in apparente solitudine battaglie a beneficio di tutti, contro nemici comuni. Forse non si sa quanta fatica costi chiedere giustizia. Consumare suole, giunture, energie. Passare notti insonni. Svegliarsi all’alba, rincorrere aerei o treni, dribblare scioperi, immergersi nella folla, sorreggere cartelli o striscioni, stringere mani, sperare. Caricarsi fascicoli sulle spalle, trascinare trolley. Nomadi di Giustizia percorrere chilometri, bussare a porte di palazzi, pietire ascolto. Non crederci. Leggere avidamente ogni notizia, studiare sempre, accumulare carte, scrivere atti, firmare petizioni, preparare comunicati in frazioni di secondo. Arrabbiarsi, guardarsi le spalle, sopportare espropri, sciacallaggi, tentativi di manipolazione e tradimenti. Convivere con l’ansia di sbagliare, consapevoli che nessun errore verrà perdonato. Tenere botta. Non perdere la pazienza, non darsi per vinti, mai. Non avere fiducia, ma non perderla completamente. Avere coraggio. Fingere. Avere paura. Si gonfiano occhi, piedi e ginocchia, si perde la voce, si trattengono lacrime e imprecazioni, si domano fitte nelle parti sensibili del corpo, nelle viscere dell’anima, così vicine alla bocca dello stomaco. Si trattiene la nausea, si mastica e sputa amarezza, si sciolgono nodi e crampi. Si serrano i denti, si frena la lingua e si accumulano rughe. Si impara a dissimulare. A volte ci si abbraccia e la muscolatura improvvisamente cede e si rilassa. Poi si rientra svelti nell’armatura divenuta di colpo pesante e insopportabilmente claustrofobica. E comunque non basta a proteggerci. Ci sono a volte pause, battute di arresto, inutili tuttavia per riprendere fiato, chè va tenuta alta l’attenzione e viva l’adrenalina. Poi si ricomincia a correre e a sudare. E ogni delusione, ogni ferita di ingiustizia si somma alle altre, scava più in profondità e corrode. Ci si trasforma, cambiano visioni e lineamenti. I pensieri si avvelenano e inquinano l’anima. Si perde in gentilezza, si acquista in rabbia. Ad ogni sconfitta provare vergogna, voler sparire, nascondersi. Ricordarsi e ripetersi che non siamo noi i colpevoli. Noi siamo gli offesi. Non potersi comunque fermare, se no vincono loro, quelli che questa fatica non la sanno neppure vedere né immaginare. E che ignorano cosa la sostiene. Perché, se sapessero, ne avrebbero giusto rispetto e doveroso timore. Perché la forza di queste famiglie, partigiane di giustizia, è corale e inarrestabile, come i diritti. Combattono in apparente solitudine battaglie a beneficio di tutti, contro nemici comuni. Preservano dignità e garanzie che dovrebbero essere patrimonio di ogni cittadino, anche di quelli che ripetono che tanto non cambierà mai nulla e con questa aspettativa cercano di trarre personali, miserevoli benefici o, peggio, conservare indecenti poteri. Quando penso a tutta questa fatica mi incanta sapere che la giustizia, seppure a brandelli, che queste famiglie e chi li accompagna riusciranno a conquistare, contribuirà a proteggere anche le famiglie di chi ha investito e confidato nell’oblio, nell’indifferenza e nell’impunità. È il bello dei diritti, generosi per definizione, la loro magia: valgono per tutti, anche se a difenderli sono solo alcuni. *Avvocata, difende tra gli altri le famiglie Regeni, Paciolla e Rocchelli Mario Paciolla è stato torturato e assassinato, anche l’autopsia italiana lo chiarisce di Francesca De Benedetti Il Domani, 20 luglio 2022 Ferite inflitte quando Mario Paciolla era agonizzante, se non già morto. Sono i dettagli che fanno escludere, se mai ci fosse stato ancora il dubbio, l’ipotesi del suicidio. Emergono a due anni dalla morte del 33enne napoletano che operava per le Nazioni Unite nella missione di pace in Colombia. Quando il 15 luglio 2020 il suo cadavere è stato ritrovato nel suo appartamento a San Vicente del Caguan, con l’apparenza di un corpo impiccato, ma anche tagli, e sangue, l’Onu ha affidato la prima autopsia al medico della sua missione, per poi derubricare il caso come suicidio. Ma a Roma è stata disposta una seconda autopsia, ed è tuttora in corso l’indagine della procura, dunque gli esiti non sono pubblici. Filtrano in parte, dall’indagine dell’amica di Mario, e giornalista colombiana, Claudia Julieta Duque, che riporta alcuni dettagli i quali corroborano l’ipotesi di tortura e assassinio. “Alcune prove che non trovano alcuna spiegazione alternativa nel contesto dell’ipotesi del suicidio supportano prevalentemente l’ipotesi di strangolamento con successiva sospensione del corpo”, è l’esito dell’esame svolto dal medico legale Vittorio Fineschi e dalla tossicologa forense Donata Favretto, i cui risultati sono stati consegnati alla procura già nell’autunno 2020; ma le autorità italiane, oltre che colombiane, hanno preservato il totale riserbo. Da uno dei documenti filtrati si apprendono ulteriori dettagli, riformulati così da Duque: “Sebbene le coltellate sul cadavere potessero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato delle lesioni ha permesso ai medici legali di determinare che mentre le ferite del polso destro presentavano “chiari segni di reazione vitale”, nella mano sinistra mostravano “caratteristiche sfumate di vitalità”, o “vitalità diffusa”,a suggerire che alcune delle ferite potessero essere inflitte “in limine vitae o anche post-mortem”, cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto”. Come se non bastasse, questa seconda autopsia italiana che accerta tutte le ambiguità è stata svolta in condizioni estremamente difficili, perché prima che il corpo arrivasse a Roma, in Colombia il materiale era stato gestito male, mancavano documentazione fotografica, dettagli, e il solco sul collo era stato descritto in modo impreciso; la precisione è rilevante, perché dal tipo di pressione sul collo è possibile ricostruire se c’è stata impiccagione suicida oppure strangolamento omicida. Dunque in queste condizioni così controverse, l’opera degli scienziati italiani è stata minata alle basi, rendendo più complesso divulgare un esito assolutamente certo. Il depistaggio - Il motivo per cui all’inizio è stata divulgata la versione del suicidio, alla quale la famiglia Paciolla non ha mai creduto, è che la scena della morte è stata camuffata in modo da accreditare questa versione; e la scena è stata alterata dai funzionari Onu. Il responsabile sicurezza della missione, Christian Leonardo Thompson, uno degli ultimi contatti telefonici di Paciolla prima di morire, ha operato un repulisti della scena della morte, e proprio per questa opera di depistaggio figura - assieme al collega Onu Juan Vásquez García, e ai quattro poliziotti presenti sul posto - nella denuncia depositata in Colombia dai genitori di Mario in occasione del secondo anniversario della morte del ragazzo. Quando il corpo di Paciolla viene ritrovato, nell’appartamento che “mio figlio pagava a sue spese, non era in dotazione dell’Onu”, succede che Thompson - dice la denuncia - “tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo”. Lì ci sono oggetti con campioni biologici che Thompson fotografa, ma che non vengono acquisiti nel modo appropriato dai quattro poliziotti sul posto. Poi “materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto”. Oltre alle sparizioni, Thompson ha candeggiato la casa di Mario. Sono scomparse le agende, i quaderni, di Mario, serbatoio prezioso di fatti e pensieri. La chiave della storia - “Non crediamo alla tesi del suicidio, perché Mario era un amante della vita”, racconta Giuseppe Paciolla. “Ma la cosa più importante è che mio figlio aveva un biglietto in tasca di ritorno in Italia per il giorno 20 da Bogotà. Il volo era un volo umanitario vista la pandemia e solo l’Onu poteva preparargli i documenti per la partenza”. Ed era l’Onu a sapere dell’imminente ritorno in patria del ragazzo. Il corpo di Mario viene trovato senza vita poco prima del rientro in Italia, dove voleva tornare per paura. Prima di morire, aveva riferito ai genitori di essersi scontrato coi capi missione. “Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio”. Da qui il volo prenotato, il desiderio di Napoli. Ma la morte arriva prima. Dall’ultima comunicazione coi suoi cari su WhatsApp, con le spunte blu, al silenzio, passa solo una manciata di ore: sono le ore del mistero da chiarire. Uno degli ultimi contatti telefonici prima della morte, alle 22, è proprio il responsabile sicurezza della missione, Christian Thompson; di cui Mario non si fidava più, stando alle ricostruzioni. “Abbiamo la certezza che nella squadra di Mario all’Onu ci siano persone che sanno la verità, e assistiamo a comportamenti omertosi”, aveva detto a Domani quest’autunno la mamma di Mario. Paciolla aveva lavorato ai report che documentavano l’uccisione di bambini durante un bombardamento. Nell’autunno 2019 il senatore Roy Barreras scatena lo scandalo sul bombardamento, costringendo il ministro della Difesa Guillermo Botero a dimettersi. Dalle ricostruzioni di Duque, è per decisione di Raul Rosende, direttore della missione di Mario, che alcune sezioni del report sono finite in mano al senatore. “La fuga di notizie è stata decisa con una manciata di funzionari internazionali da Raúl Rosende, a quel tempo direttore della missione di verifica, e possibile successore di Carlos Ruiz Massieu, capo dell’agenzia in Colombia, recentemente criticato per una vicinanza impropria con il governo colombiano di Iván Duque”. Il ruolo dell’Onu e dei governi - Thompson un anno dopo la morte di Mario si è ritrovato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, ruolo dal quale ha ancor più margine di azione: riceve i report di tutte le missioni e registra gli incidenti di sicurezza che possono verificarsi, e diventa anche la figura che riferisce al procuratore i viaggi e i report svolti da Mario in relazione alla vicenda del bombardamento. “Tempi brevi” per la verità. È la promessa formulata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio a luglio di due anni fa, quando Mario Paciolla, il 33enne napoletano che si trovava in Colombia come operatore Onu, è stato trovato morto. Due anni dopo, la verità ancora latita. Cosa ha fatto il governo finora? Stando alle risposte che Domani ha ottenuto dalla Farnesina, l’ultima occasione nella quale Di Maio si espone risale a ben nove mesi fa. Il ruolo dell’Onu nel caso Paciolla è dirimente, ma la trasparenza non è altrettanta, come conferma la necessità di solleciti da parte del nostro governo. Che comunque, per quel che riguarda Di Maio, si fermano all’autunno, come pure i riferimenti a Mario durante i bilaterali col governo colombiano, col quale l’Italia ha rapporti stretti nonostante le violazioni dei diritti. David Rossi, la super-perizia dei Ris: “L’ipotesi più probabile è che si lasciò cadere nel vuoto” di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 20 luglio 2022 Le conclusioni del rapporto dei carabinieri presentate alla Commissione d’Inchiesta smontano i dubbi della famiglia. Il comandante Schiavone: “Spinto da terzi? Non compatibile con le riprese del filmato”. “Era cosciente e si è lasciato cadere nel vuoto”. La superperizia del Ris sulla morte di David Rossi, il responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena precipitato il 6 marzo 2013 da una finestra del suo ufficio, sembra dare pochi spazi ad altre interpretazioni. Stamani, dopo le indiscrezioni e le immancabili polemiche, è stato il comandante dei Ris, Sergio Schiavone, a presentarla durante una conferenza stampa a Palazzo San Macuto a Roma. Un migliaio di pagine, volute dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, generate dalle indagini dei carabinieri di Ros, Ris, Racis e di medici legali. E adesso l’ipotesi del suicidio (“un’azione anti conservativa”), sembra prendere ancora più forza. “Tra le varie ipotesi di caduta la dinamica la più compatibile è quella in cui David Rossi, cosciente, si tiene aggrappato con le mani alla barra di protezione e si lascia cadere nel vuoto con la parte anteriore verso il palazzo con il moto a candela”, ha detto Schiavone. Che poi ha spiegato che “altre ipotesi con la presenza di terzi che lasciano cadere il dottor Rossi riproducono ipotesi di caduta non compatibili con le dinamiche di caduta”. La super perizia sembra anche smontare altri indizi a favore della pista dell’omicidio. Come quella dell’orologio di Rossi caduto dalla finestra venti minuti dopo il corpo del dirigente Mps che avrebbe provocato un luccichio ripreso dalle telecamere di sicurezza. “Verosimilmente quel bagliore luminoso è una goccia di pioggia e non l’orologio del dottor Rossi”, ha sottolineato ancora il colonnello Schiavone. Che ha poi spiegato nei dettagli come si sono svolti gli accertamenti. “Abbiamo ipotizzato due moti di precipitazione, uno a candela e l’altro con scorrimento sulla sbarra e abbiamo realizzato simulazioni con manichini antropomorfi virtuali”. Infine, il comandante dei Ris ha spiegato che “altre ipotesi relative alla presenza di terzi che spingono o lasciano cadere il corpo inanimato di Rossi, producono dinamiche di caduta non compatibili con la precipitazione del corpo riscontrata nel filmato di videosorveglianza”. L’altro giallo, quello della mail con la quale David Rossi manifestava le sue intenzioni di suicidarsi, non avrebbe poi “nulla di strano perché è stata scritta e spedita prima della morte di Rossi”, come ha specificato il colonnello Massimo Giannetti, comandante del reparto tecnologie informatiche del Racis. “La mail di help del dottor Rossi in cui manifestava le sue intenzioni di suicidarsi si trovava nel pc di Rossi, in un file di archivio della posta elettronica esportata da Mps e nel pc portatile che è stato successivamente restituito alla famiglia” ha spiegato il colonnello aggiungendo come “di questo pc non abbiamo la copia forense originale che è risultata danneggiata e non è stata più utilizzata”. “È stato ripreso in un successivo momento dalla postale di Genova e ne è stata fatta una seconda copia che non è la stessa cosa perché il pc è stato nella disponibilità della famiglia” ha detto ancora Giannetti. “Sul file del dottor Rossi di ufficio la data è corretta antecedente il suicidio, sul file che ha fornito Mps c’è questo problema che si spiega con il fatto che quando si esporta un file di archivio Microsoft cambia la data con quella di esportazione. Il fatto che si ritrova lo sbilanciamento anche nell’altro file” del pc portatile “è sintomatico che su quel pc è avvenuto qualcosa” ha concluso il colonnello. Ma le polemiche e soprattutto i dubbi non sembra esaurirsi. Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, ha parlato di un altro video inviato alla procura di Genova. “È di una seconda telecamera di video sorveglianza e individua due soggetti che alle 20.01 escono da piazza dell’Abbadia - ha detto Zanettin -. Un video tenuto fino ad ora segreto e già trasmesso alla procura di Genova perché contrasta con tutti gli atti processuali in cui era stato detto che c’era un unico video relativo ai momenti successivi alla caduta di Rossi”. “Sul video - ha aggiunto Zanettin, come riportato dall’Ansa - la procura ha già fatto accertamenti rispetto al fatto se le due persone potessero essere in qualche modo coinvolte”, con esclusione di soggetti coinvolti in eventuali reati: “Si trattava di due dipendenti che uscivano da lavoro”, ma “resta sorprendente che questo video che era stato acquisito in una chiavetta da 8 giga sia stato cancellato”. “Rispetto a questo - ha concluso Zanettin - a mio avviso sulla cancellazione” si potrebbe ipotizzare “il falso per soppressione. Non sappiamo chi l’abbia cancellato”. “Segni di aggressione su Rossi”. Trovato un video cancellato dal fascicolo di indagine di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2022 Il corpo di David Rossi presentava ferite “incompatibili con la caduta” mai spiegate dalla tesi del suicidio sostenuta per otto anni nella versione ufficiale. Nell’ordine: una tumefazione all’occhio sinistro; ferite al volto verticali; segni sugli avambracci a forma “di dita”; abrasioni al polso e il segno del quadrante dell’orologio strappato, che “non si può escludere” siano state provocate da una presa. In altre parole, il manager del Monte dei Paschi - morto dopo essere precipitato (forse) dal suo ufficio il 6 marzo 2013, nel pieno dello scandalo finanziario che investiva la banca - sarebbe stato picchiato. E sarebbe successo prima delle 18.20 (viene soccorso alle 20.30), perché vari testimoni lo avevano incontrato senza notare stranezze. Ad affermarlo non sono più solo i consulenti della famiglia, ma il pool medico-legale della commissione parlamentare d’inchiesta, coordinato da Vittorio Fineschi, ordinario della Sapienza di Roma. Per gli esperti quelle ferite non possono essere state “autoinferte”. E Rossi, se soccorso, poteva essere salvato. Invece è rimasto agonizzante sul selciato 20 minuti e i suoi polmoni si sono riempiti di sangue. Un lasso di tempo in cui le telecamere riprendono un uomo (mai identificato) che parla al telefono, osserva un attimo la scena e poi scompare. Per i legali della famiglia Rossi, Carmelo Miceli e Paolo Pirani, e anche per parte della commissione parlamentare, ce n’è abbastanza perché i pm riaprano un fascicolo per omicidio o istigazione al suicidio. Ma queste non sono le uniche scoperte divulgate ieri durante la presentazione della superperizia consegnata alla commissione, in parte già trasmessa alle Procure competenti. Dagli accertamenti di Luca Migliorino, parlamentare del M5S, è emersa l’esistenza di un secondo video, oltre a quello della caduta di Rossi. Un filmato ripreso dalla telecamera numero 8, da cui si vedono uscire due dipendenti Mps da una porta secondaria, 2 minuti e 17 secondi dopo la caduta di Rossi. Il documento, trovato nella copia forense dei dati, è stato cancellato dal fascicolo di indagine. “Un fatto anomalo - dice il presidente della Commissione Pierantonio Zanettin (FI) - lo abbiamo segnalato alla Procura di Genova”. I pm liguri sono competenti su eventuali depistaggi. E negli ultimi mesi hanno interrogato decine di persone, tra cui molti carabinieri, che affollavano la scena di una morte (o di un potenziale delitto) affidata in teoria alla polizia, l’unica ad aver redatto dei verbali. Che rilevanza ha quel video? Viene escluso che le due persone riprese siano coinvolte nella morte di Rossi. Il problema è un altro: per 8 anni si è detto che dall’istituto non c’erano uscite alternative e che tutte le porte erano allarmate. Quell’uscita, peraltro, è collegata con un tunnel all’edificio della stanza di Rossi in cui, per una prima perizia dei Ris, il manager potrebbe essersi sporcato le scarpe di calce (altro fatto mai chiarito). La superperizia registra anche lo scetticismo di Racis, Ris e Ros a tesi alternative: la più verosimile, per i carabinieri, rimane il suicidio. Restano però molti interrogativi aperti. C’è il famoso numero 4099009, digitato sul cellulare della vittima dopo la sua morte, così simile a un conto bancario, giustificato come una ricarica automatica al telefono della figlia adottiva Carolina Orlandi (che non aveva esaurito il credito). In uno dei computer sequestrati nell’ufficio di Rossi sono state trovate (per la prima volta) tracce di foto cancellate a sfondo sessuale. File distrutti, sfuggiti a due inchieste della Procura di Siena, secondo cui Rossi si è suicidato, e a una terza di Genova che indagava su presunti depistaggi legati a festini hard, anch’essa archiviata. Per alcuni membri della commissione sarebbe addirittura in dubbio che quel pc appartenesse a Rossi. Le ultime stranezze emergono da alcune denunce di Migliorino alle forze dell’ordine. Il parlamentare ha trovato fiori mortuari davanti alla porta di casa, uccelli morti sulla macchina, e tre personaggi identificati dalla Digos, che stazionavano di notte sotto il suo appartamento. Circostanze che hanno destato l’attenzione della questura, che gli ha assegnato una sorveglianza dinamica, mentre il deputato ha cambiato aria per qualche tempo. Migliorino evita di commentare - è anche membro della Commissione Antimafia - ma queste ultime anomalie si aggiungono a una lunga serie. “Askatasuna a delinquere”. Maxi-inchiesta contro il centro sociale torinese di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 luglio 2022 Il Tribunale del riesame riformula l’ipotesi dell’associazione sovversiva, ma nel merito deciderà il Gup il 29 luglio. Dana Lauriola, militante del centro sociale e inquisita: “Attacco politico. Questa criminalizzazione del dissenso deve far riflettere”. Decine di migliaia di ore di intercettazioni, 5mila pagine di faldone, 112 reati contestati, 69 indagati e una sola tesi: Askatasuna è un’associazione sovversiva. Sono i numeri della maxi-inchiesta contro il centro sociale torinese, punto di riferimento dei movimenti autonomi e No Tav. È proprio nella battaglia contro la devastazione della Val Susa che si concentra la gran parte delle azioni illegali attribuite agli indagati. Nella fase preliminare, intanto, i reati contestati sono scesi a 72 e le persone sotto accusa a 28. Il Tribunale del riesame ha riformulato l’ipotesi che fa da collante all’operazione in associazione a delinquere, confermando 11 misure cautelari e restrittive, di cui due in carcere. Sei sono sospese e su di esse si pronuncerà la Cassazione. Dietro le sbarre è rimasto solo Giorgio Rossetto, 60 anni, storico militante antagonista di Torino e dintorni. Il 29 luglio è fissata l’udienza preliminare che si esprimerà nel merito: il Gup dovrà decidere se confermare l’imputazione per associazione sovversiva richiesta dalla procura o, sulla base della decisione del riesame, contestare quella a delinquere. Chi conosce bene i corridoi del tribunale torinese per vicende legate ai movimenti sociali ritiene quasi scontato il rinvio a giudizio. In città è in corso un secondo processo per sovversione contro i militanti anarchici dell’ex Asilo occupato. Una concentrazione davvero anomala. Tra i reati contestati ad Askatasuna: resistenza e violenza a pubblico ufficiale, per azioni di disturbo alla costruzione del Tav e attacchi al cantiere, e poi estorsione e sequestro di persona. Questi riguarderebbero l’allontanamento con la forza di un occupante dallo spazio popolare Neruda, dove vivono decine di famiglie, che sarebbe avvenuto a seguito di un pestaggio. Il teorema accusatorio sostiene che dietro i diversi fatti ci sia una struttura verticistica che per digos e procura è da identificare con lo stesso centro sociale, mentre per il giudice del riesame con un nucleo di sei persone. Tra i documenti allegati al faldone il testo pubblicato il 10 giugno 1976 sulla rivista Rosso “Dall’area dell’autonomia operaia e proletaria al movimento dell’autonomia operaia” e ripubblicato sul sito Infoaut, curato anche da militanti di Askatasuna, 24 anni dopo nella sezione “Storia di classe”. Secondo gli inquirenti indicherebbe, insieme a un’intervista a Rossetto, una sorta di programma politico del centro sociale. Per l’avvocato della difesa Claudio Novaro: “L’errore principale è scambiare la progettualità criminosa della presunta associazione con il suo apparato ideologico. Significa muoversi in una prospettiva di criminalizzazione di qualsiasi collettivo che si prefigga di mutare lo stato di cose presenti”. I reati si concentrano nel biennio 2019-2021 sebbene la contestazione iniziale faccia riferimento al 2009, quando nel capoluogo torinese gli studenti dell’Onda si rivoltarono contro il G8 sull’università. Askatasuna occupa uno stabile in corso Regina Margherita dal 1996. All’interno si svolgono momenti assembleari di auto-organizzazione e attività culturali, sportive, di mutuo aiuto e solidarietà. I suoi militanti hanno attraversato le lotte studentesche, per la giustizia ambientale e i movimenti transfemministi con la fluidità organizzativa e la molteplicità di pratiche che caratterizza da 40 anni i centri sociali italiani. “L’attacco al sindacalismo di base è in continuità con il nostro, le ragioni sono politiche - dice Dana Lauriola, anche lei inquisita - Continueremo a lottare con serenità e determinazione, ma sta accadendo qualcosa di preoccupante. Questa criminalizzazione del dissenso deve far riflettere”. “Il sindacato associazione a delinquere”. Sei arresti nel polo della logistica a Piacenza di Marco Bettazzi La Repubblica, 20 luglio 2022 Picchetti, tessere e passaggi di denaro: ai domiciliari il coordinatore nazionale di Si Cobas e dirigenti dell’Usb. “Un attacco alle nostre lotte”. E scattano nuovi scioperi. Due associazioni a delinquere parallele, che hanno usato i lavoratori “come pedine” e il sindacato “come cosa propria, anche a livello economico”. Sono queste le accuse che hanno portato a Piacenza all’arresto di sei dirigenti sindacali di Si Cobas e Usb, due sigle di base molto presenti nei magazzini della logistica, cui vengono contestati reati come, appunto, associazione a delinquere, violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio e contro cui vengono contestati anche bonifici passati dal sindacato ai conti personali di alcuni di loro. La replica con lo sciopero immediato - Un’operazione che ha portato all’immediata dichiarazione di sciopero delle due sigle, sia nella logistica (Usb) che generale (Si Cobas) partito già ieri sera e che continuerà anche oggi per contrastare quello che viene definito “un attacco giudiziario repressivo contro l’attività del sindacato”. I sei arrestati - Agli arresti domiciliari (la procura aveva chiesto gli arresti in carcere) sono finiti quattro esponenti del Si Cobas, e cioè il coordinatore nazionale Aldo Milani e tre dirigenti piacentini, Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli. Più due dell’Usb, Abed Issa Mohamed e Roberto Montanari, cui si aggiungono altri due con obbligo di firma o divieto di dimora a Piacenza. L’ordinanza: la guerra tra sigle e i sabotaggi dei macchinari - Nelle 350 pagine dell’ordinanza si mettono in fila proteste e picchetti nei magazzini di Piacenza dal 2016 al 2021 in aziende come Gls, Tnt, Ikea, Amazon o Sda dove, secondo gli investigatori, si sarebbe svolta una vera e propria guerra tra sigle con blocchi delle attività, scontri, manifestazioni non autorizzate e sabotaggi dei macchinari. Per far valere la propria organizzazione a scapito dell’altra, piuttosto che ottenere il bene dei lavoratori. “Non è un’indagine contro i sindacati di base, ma contro alcuni leader che hanno gestito il sindacato come cosa loro anche a livello economico. Le prime vittime sono i lavoratori stessi”, ha spiegato il procuratore capo di Piacenza, Grazia Pradella. Secondo il giudice dell’udienza preliminare, Sonia Caravelli, ci sono “numerose conferme” alle ipotesi degli investigatori, con gli indagati “che si sono serviti per anni dello schermo sindacale per commettere reati”, oltre che per “consolidare rapporti di forza, financo col perseguimento di scopi di lucro”. Lo scopo di lucro - Lucro che deriverebbe sia dall’aumento delle tessere che da una gestione delle conciliazioni e degli incentivi strappati alle aziende nei cambi d’appalto, coi sindacalisti che al telefono definiscono “galline dalle uova d’oro” le multinazionali del piacentino. In Leroy Merlin, per esempio, vengono ottenuti 1,6 milioni di conciliazioni dal consorzio Ucsa per oltre 50 lavoratori soprattutto di Usb, col Si Cobas che così aumenta il peso nei magazzini: ai lavoratori, sostiene la procura, arrivano però 25-30mila euro mentre Arafat ottiene 100mila euro. Ai facchini vengono anche chiesti oboli da 150 euro per la causa legale di Milani (che a Modena anni fa è stato accusato di estorsione e poi assolto) per una “cassa di resistenza”, così come percentuali “in nero” verrebbero chieste da un dirigente Usb per contrattare gli incentivi. Ad Arafat vengono contestati decine di bonifici del sindacato finiti sui conti personali e quelli della moglie con cui sarebbero state acquistate case in Italia e in Egitto: a denunciarlo è l’ex cognato, che è poi stato minacciato più volte perché non parlasse. E prelievi riguardano anche un conto Usb, con spese per ristoranti, supermercati, negozi cinesi e altri megastore. La replica della difesa - Ricostruzioni contestate dai legali. “Si tratta di una lettura distorta di vicende di carattere sindacale - ribatte Arturo Salerni, avvocato di Usb - Il conflitto può essere molto duro in questo settore, anche perché è spesso sottratto alle regole e luogo di infiltrazioni”. “È singolare che vengano ipotizzate due associazioni a delinquere con lo stesso disegno criminoso - continua Marina Prosperi, legale del Si Cobas - Inoltre non c’è nessuna contestazione puntuale di estorsione, in altri casi simili abbiamo sempre avuto archiviazioni”. Secondo Cgil, Cisl e Uil “è necessario fare chiarezza al più presto”. Arresti nei sindacati, ma quell’accusa criminalizza la rappresentanza di Gianluca Di Feo La Repubblica, 20 luglio 2022 La procura accusa Si Cobas e Usb di associazione per delinquere. Ma i subappalti negli hub della logistica sono spesso paragonati a un Far West e quelle delle due rappresentanze sono battaglie sindacali, non opera di delinquenti. Può un’attività sindacale configurare un’associazione per delinquere? Al di fuori dei singoli episodi, che verranno vagliati dai tribunali, la scelta di contestare il reato associativo a due rappresentanze di lavoratori fa discutere. La procura di Piacenza, guidata da un magistrato esperto come Grazia Pradella che ha condotto difficili istruttorie sul terrorismo, legge una serie di dinamiche in un’ottica criminale con l’intento di dimostrare come la lotta dei sindacati di base Si Cobas e Usb nel grande hub della logistica è stata dura ma non pura, perché finalizzata a un interesse economico. Quale? “Lucrare gli introiti derivanti dalle tessere e dalle conciliazioni (ndr con le aziende) nonché consolidare il potere clientelare in grado di garantire assunzioni su base clientelare, stabilizzazioni ma anche ricche buonuscite in caso di cambio appalto”. Ammesso che questi addebiti vengano provati, la lottizzazione delle assunzioni è una prassi diffusa nel nostro Paese, anche e soprattutto negli uffici pubblici: una questione morale - come denunciò Enrico Berlinguer nella celebre intervista a Eugenio Scalfari - mai considerata di rilevanza penale. Stabilizzazioni e buonuscite per i lavoratori, così come i tesseramenti, invece non paiono patologie ma aspetti virtuosi dell’attività sindacale. A Piacenza, però, secondo i magistrati le mobilitazioni di Si Cobas e Ubs non sarebbero nate dalle condizioni di sfruttamento nel settore della logistica, quello dove regna un meccanismo di subappalti spesso paragonato al Far West e dove un operaio è stato ucciso da un camion durante una protesta, bensì da un duello tra i due sindacati che ha assunto una dimensione delinquenziale perché “alimentavano il conflitto nei magazzini, provocando scontri con la parte datoriale, con la cooperativa che appaltava la manodopera, ovvero con appartenenti alla sigla avversa, così alimentando il proprio potere e, usciti vittoriosi dal conflitto, ottenendo l’affiliazione di più lavoratori, assicurandosi i proventi di tessere e conciliazioni”. Le rappresentanze di base hanno una loro storia, fatta di confronti condotti con ostinazione e talvolta fuori dalle regole. L’ordinanza parla di picchetti e serrate, di “rallentamenti pretestuosi e strumentali dell’attività lavorativa”, qualifica come “sabotaggi” l’uso dei freni di emergenza per fermare lo smistamento dei pacchi. Sono comunque battaglie sindacali, non l’opera di una banda di delinquenti. Padova. 27enne muore di overdose in carcere: si indaga per omissione di soccorso di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2022 Dalle registrazioni emergerebbe che il ritardo nell’allarme di almeno un’ora, fatale all’uomo, non è stato causato dagli agenti, ma dai detenuti. Per questo il sostituto procuratore Sergio Dini, titolare dell’inchiesta, vuole verificare se ci siano state responsabilità da parte delle persone che erano assieme alla vittima. Morire di overdose in carcere. È accaduto a un 27enne, che sarebbe riuscito a procurarsi la sostanza stupefacente e a condividerla con altri reclusi di Padova. Ma è stato colto da malore e quando lo hanno soccorso era troppo tardi. I detenuti delle altre celle avevano pensato a un ritardo nell’intervento da parte degli agenti penitenziari, al punto da inscenare una protesta. Adesso si sospetta, invece, che l’allarme sia stato dato con un ritardo di un’ora ma da parte dei suoi compagni. La Procura di Padova sta indagando sul decesso del tunisino Mohammed El Habchi e ha acquisito i filmati delle telecamere relativi a ciò che è accaduto il 15 giugno scorso. Dalle registrazioni emergerebbe che il ritardo nell’allarme di almeno un’ora, fatale all’uomo, non è stato causato dagli agenti, ma dai detenuti. Per questo il sostituto procuratore Sergio Dini, titolare dell’inchiesta, vuole verificare se ci siano state responsabilità da parte delle persone che erano assieme al 27enne. Per questo potrebbe prefigurarsi un’ipotesi di omissione di soccorso. L’autopsia effettuata sul corpo del tunisino ha dimostrato che si è trattato di overdose, anche se bisogna attendere i risultati tossicologici per accertare di quale tipo di droga si tratti. Avrebbe assunto la droga non nella propria cella, ma in quella di altri detenuti, quasi fosse stato organizzato una specie di festino. La ripresa mostra, infatti, due detenuti che trasportano il corpo di Mohammed fuori da una cella, fino a quella da lui occupata, dove lo abbandonano sul letto. L’allarme viene dato un’ora dopo. È troppo tardi. Il decesso avviene nel tragitto verso l’infermeria. I detenuti avrebbero cercato di nascondere il fatto che la droga era stata assunta in un’altra cella, per non dover chiarire i molti aspetti inquietanti della vicenda. Da dove hanno ricevuto la droga? Chi l’ha introdotta in carcere? È una consuetudine o si è trattato di un episodio isolato? Il tunisino era stato arrestato a dicembre, dopo un furto in un grande magazzino che lo aveva costretto a un aggravio di pena. Era infatti agli arresti domiciliari, ma aveva violato la misura cautelare attenuata. Il carcere di Padova è stato negli ultimi anni al centro di numerose inchieste proprio per la facilità con cui la droga veniva portata dall’esterno. In alcuni casi è stato represso anche un giro che consentiva di far arrivare cellulari ai detenuti. L’indagine più recente ha riguardato la droga liquida, che arrivava in pacchi destinati ad alcuni reclusi, provenienti dalla Spagna o dalla Romania. All’interno c’erano dei piccoli flaconi con droga liquida, camuffati da “Profumo d’oriente, acqua aromatica con tè verde”. In qualche caso fogli di carta formato A4 erano stati nebulizzati con sostanza stupefacente, poi tagliati in striscioline e venduti al prezzo di 30 euro. Milano. Morto nel carcere di Opera Nino Santapaola, era al 41bis anche se gravemente malato La Repubblica, 20 luglio 2022 Il suo legale: “Era detenuto al 41bis a cui era sottoposto nonostante la grave malattia da cui era oggettivamente affetto. È un caso che deve fare riflettere tutti noi”. È morto nel carcere di Opera a Milano, dove era detenuto in regime di 41bis, il boss Antonino ‘Nino’ Santapaola, fratello dello storico capomafia Benedetto. Aveva 68 anni e da tempo era malato. Proprio ieri a Milano un processo in cui era imputato era stato rinviato per l’impossibilità del boss di “prendere parte scientemente al processo”. La notizia del decesso ha trovato conferma anche in ambienti della Procura di Catania. “Tutti i suoi processi - commenta il suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera - sono sospesi per il grave stato di salute del mio assistito. Avevo presentato più volte istanze per la sua scarcerazione o di concessione degli arresti domiciliari e, almeno, la revoca della misura del 41 bis, a cui era sottoposto nonostante la grave malattia da cui era oggettivamente affetto. È un caso che deve fare riflettere tutti noi”. Milano. A San Vittore ci sono altre otto donne in stato di gravidanza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2022 Cinque giorni fa, l’Agi ha diffuso la notizia di una donna incinta che ha perso il bambino dopo essersi sentita male nel carcere di San Vittore, dove era arrivata in esecuzione di un ordine di arresto. Il neonato è morto nell’ospedale in cui è stata trasportata in seguito al malessere. Il fatto riportato dall’Agi è accaduto nei giorni scorsi dopo che il 30 maggio è entrata in vigore un’ordinanza della Procura di Milano in base alla quale è diventato obbligatorio l’ingresso negli istituti di pena delle donne incinte o con bimbi di un anno di età in presenza dell’ordine di esecuzione di un arresto. Una svolta che ha provocato le proteste della Camera Penale perché la Procura ha revocato una precedente circolare del 2016 nella quale si raccomandava al contrario di non eseguire questi ordini di arresto. Ebbene l’associazione Antigone, a inizio giugno, durante la visita nel carcere di milanese di San Vittore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, ha incontrato 8 donne in stato di gravidanza. Un numero altissimo, che non ha pari nel resto del Paese. Oltretutto - aggiunge - in un carcere dove manca un servizio ginecologico e medici specialisti. Alla delegazione dell’associazione avevano raccontato anche di una nona ragazza, all’ottavo mese di gravidanza, portata d’urgenza in ospedale qualche settimana prima. Ed è proprio quella ragazza che all’arrivo in ospedale ha perso il suo bambino. Quella giovane donne - sottolinea Antigone - sapeva che la sua gravidanza aveva delle complicanze e che il suo bambino sarebbe probabilmente nato prima del nono mese. I medici le avevano raccomandato di recarsi immediatamente in ospedale in casi di dolori. Nel frattempo è stata arrestata. “La legge italiana - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - permette che la donna in caso di gravidanza possa non entrare in carcere ed essere sottoposta a diversa misura. Si tratta di una scelta di civiltà, che tutela la salute della donna e del bambino”. Dichiara ancora Gonnella: “Sul caso specifico chiediamo si faccia piena luce, accertando le responsabilità e chiarendo cosa è davvero successo quel 30 maggio nel carcere di San Vittore e quanto tempo è trascorso da quando la donna ha iniziato a lamentare dolori al suo ricovero in ospedale”. E conclude: “Vanno chiarite le modalità di trasporto della donna in ospedale: se sia stato fatto sotto controllo medico e in ambulanza oppure se la donna sia stata ammanettata e accompagnata in ospedale scortata solo dalla polizia penitenziaria. Serve inoltre che si riservi maggiore attenzione alla tutela della gravidanza”. Voghera (Pv): Un anno fa l’omicidio di Youns: “Giustizia, ma non in piazza” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 20 luglio 2022 Un colpo di pistola sparato dall’ex assessore Adriatici, il Pd incalza il sindaco: serviva una manifestazione. A un anno dalla morte di Youns El Boussettaoui, 39 anni, ucciso dall’ex assessore comunale leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici con un colpo di pistola in piazza Meardi il 20 luglio 2021, le indagini proseguono. È prevista per settembre infatti la scadenza della proroga per proseguire le indagini concessa alla Procura dal gip a febbraio 2022. Fino a ieri, non era stato notificato alcun avviso di conclusione indagini. Adriatici è indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Intanto è già fissato un appuntamento giudiziario per settembre, quando in udienza il gip stabilirà la possibilità o meno di condivisione con i legali della famiglia della vittima di una copia forense del cellulare di Adriatici. Inizialmente il gip non aveva accolto la richiesta di opposizione dei legali dei familiari al diniego di condivisione da parte della Procura, i legali avevano quindi impugnato la decisione in Cassazione che aveva rimandato a un nuovo giudizio. In quest’anno, “noi non ci siamo mai fermati. Un intenso lavoro per raccogliere più elementi per arrivare ad accertare la verità”, spiega l’avvocato Marco Romagnoli che assiste i parenti di El Boussettaoui. Adriatici, assistito dai difensori Colette Gazzaniga e Gabriele Pipicelli, è in stato di libertà ed esercita la professione di avvocato. Una volta chiuse le indagini, la Procura potrà chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione, la famiglia di El Boussettaoui sostiene da sempre che l’accusa debba essere modificata: “Per noi si tratta di omicidio, nessun elemento può scemare la realtà dei fatti”, commenta il legale Romagnoli. E mentre a Palazzo di giustizia si lavora, in città a Voghera il dibattito sociale e politico è centrale. Domani rappresentanti del Pd depositeranno un fiore sul luogo dell’accaduto: “Non vogliamo dimenticare - scrive la sezione locale del partito - In una città normale si sarebbe organizzata una manifestazione pacifica, un momento di preghiera o di aggregazione. Ma la sindaca (Paola Garlaschelli, ndr) ha chiesto responsabilità all’opposizione, che spesso secondo lei ha cavalcato tensioni e polemiche. E noi accogliamo la richiesta, ma respingiamo con forza tali insinuazioni perché abbiamo sempre agito ed espresso le nostre idee democraticamente e nelle sedi opportune. Invece vorremmo avere risposte. Un anno fa, quando le fu chiesto di intervenire dal momento che era coinvolto un assessore, ci è stato risposto che era un fatto privato. Invece la scorsa settimana la sparatoria di piazza Duomo, che sembrerebbe scaturita da dinamiche personali, è diventata curiosamente un fatto politico”. Ivrea (To). “Carcere senza sbarre”, Buccoliero racconta la sua esperienza La Sentinella del Canavese, 20 luglio 2022 Cosima Buccoliero è stata a lungo vicedirettrice e poi direttrice del carcere di Milano Bollate. Il suo può sembrare un lavoro duro, in cui freddezza e rigore sono i presupposti per avere tutto sotto controllo. Eppure il suo approccio è un altro. Terzo appuntamento, dopo la proiezione del film di Leonardo Di Costanzo e il recente incontro pubblico con Gherardo Colombo, autore de Il perdono responsabile, edito da Ponte alle Grazie, dedicato al tema della realtà carceraria e proposto dalla rassegna Ivrea Estate, giovedì 21, allo Zac, alle 18.30. Si tratta della presentazione, in collaborazione con la Libreria Mondadori, del libro di Cosima Buccoliero con Serena Uccello Senza sbarre-Storia di un carcere aperto, edito da Einaudi. “Un modello virtuoso di carcere: un carcere diverso, dove si trova un’umanità che non ti aspetti. -spiegano le note di presentazione diffuse dalla casa editrice- La pena detentiva deve mirare al reinserimento, non ridursi alla sola punizione. Cosima Buccoliero è stata a lungo vicedirettrice e poi direttrice del carcere di Milano Bollate. Il suo può sembrare un lavoro duro, in cui freddezza e rigore sono i presupposti per avere tutto sotto controllo. Eppure il suo approccio è un altro. Quando ha dichiarato che gli ergastolani nel suo carcere hanno diritto a una camera singola, Buccoliero ha suscitato stupore in chi crede che oltre le sbarre non ci debba essere più speranza”. Dialogheranno con le autrici alcuni redattori del giornale dal carcere La Fenice. Cosima Buccoliero dirige attualmente la Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. In precedenza ha ricoperto la vicedirezione della Casa di reclusione di Opera a Milano, la piú grande in Italia, mantenendo anche la guida dell’Istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria. Quindi, è stata direttrice della II Casa di reclusione di Milano Bollate. In questi anni ha rivoluzionato l’approccio alla detenzione, contribuendo a trasformare Bollate in un carcere modello, ove si incontra “l’umanità che non ti aspetti”. Serena Uccello, giornalista de Il Sole-24 ore, si è occupata di economia del lavoro, ha scritto di cultura per il web e di società per il mensile IL. Per Einaudi ha pubblicato, con Nino Amadore, L’isola civile. Le aziende siciliane contro la mafia (2009), con Marzia Sabella, Nostro Onore. Una donna magistrato contro la mafia (2014), con Piergiorgio Baita, Corruzione (2016) e, appena uscito, questo libro con la Buccoliero. Ha scritto anche Generazione Rosarno (Melampo 2015) e La nostra casa felice (Giulio Perrone Editore 2019). Pisa. “The Golden Egg” il primo film realizzato dai detenuti a Internet Festival di Costanza Baldini intoscana.it, 20 luglio 2022 A Pisa a ottobre sarà proiettato il lungometraggio sostenuto da Fondazione Pisa e Regione Toscana e girato interamente dentro il carcere. Cosa succederebbe se un uovo d’oro scendesse misteriosamente all’interno di un carcere? La risposta a questa domanda si troverà nel film “The Golden Egg” realizzato dai detenuti della sezione maschile del carcere Don Bosco di Pisa in collaborazione con la compagnia teatrale I Sacchi di Sabbia e la regia di Davide Barbafiera. Il lungometraggio verrà presentato in anteprima all’Internet Festival che si terrà dal 6 al 9 ottobre a Pisa, come progetto finanziato da Regione Toscana e Fondazione Pisa. Il film è interpretato dagli allievi detenuti dei laboratori della Scuola di teatro Don Bosco in tutto nove attori che hanno realizzato anche scene e costumi, oltre a partecipare alla realizzazione tecnica del film ad esempio dal ciak, ai microfoni. Tutti i personaggi, che sono ispirati a un immaginario fantasy, interagiranno a turno con l’uovo d’oro, nel tentativo tragicomico di decifrare l’enigma che in esso è racchiuso. “Tutto parte dai laboratori teatrali che teniamo da anni nel carcere Dan Bosco tramite la Scuola di espressione teatrale - ci ha raccontato Giovanni Guerreri de I Sacchi di Sabbia - c’è un corso annuale sostenuto da Regione Toscana e Fondazione Pisa che tutti gli anni affronta tematiche legate al teatro. Quest’anno grazie a un confronto con Internet Festival è nata l’idea di realizzare un film e quindi introdurre oltre alle consuete lezioni sulle tecniche teatrali anche discipline legate alla recitazione per film. Non solo nozioni attoriali ma anche tecniche”. La storia dell’uovo che cade dal cielo come nasce? L’abbiamo inventata noi, era un piccolo soggetto per una pièce teatrale. Abbiamo dato ai detenuti un canovaccio con le scene divise, loro le hanno imparate e hanno iniziato a lavorarci sopra, è nato tutto un mondo di battute e situazioni inventate da loro. Non solo, loro hanno realizzato anche le scene e i costumi. Il film è stato tutto girato dentro il carcere quindi, non siete mai usciti? Assolutamente, è tutto giocato su quel niente che c’è, un gioco di parole. Cosa simboleggia questo uovo d’oro che scende dal cielo? Un enigma tu sai cos’è? È una cosa che non si può spiegare a parole. È qualcosa che arriva, che è inspiegabile e che muove tutta la vicenda. Prima non c’era nulla, ora c’è questo. Ma questo è meglio di nulla? “Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto” di Leonardo Merlini affaritaliani.it, 20 luglio 2022 Il libro di Maria Paola Guarino racconta, attraverso alcune sue riflessioni su tanti detenuti che ha avuto come alunni, la difficoltà come donna ad essere accettata più dal personale penitenziario che dai carcerati. Edito da Vittoria Iguazu Editora, è disponibile su tutti gli store digitali e in libreria “Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto”, il nuovo romanzo di Maria Paola Guarino. Nato da un’esperienza dell’autrice come educatrice in un carcere di massima sicurezza. Il libro è diviso in due parti: nella prima, attraverso i temi dei suoi alunni-detenuti Maria Paola si fa carico delle loro storie, del loro bisogno di ottenere una seconda occasione agli occhi di una società che non sa guardare oltre la rubrica di reati che loro sono ascritti; la seconda, invece, attinge più chiaramente alle forme e agli stilemi del racconto epistolare, con l’autrice impegnata in un fitto scambio di lettere con uno dei detenuti. “Scrivere lettere oggi è diventato inusuale”, nota Guarino, “Ma se dovessi prendere carta e penna, lo farei per far sapere alle persone che non sono più con me, se non attraverso il ricordo, quanto siano state importanti nella mia vita”. Poi spiega: “Ho deciso di scrivere Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto, quando ho capito che i temi, le storie dei miei alunni-detenuti meritavano di essere conosciute anche al di fuori delle quattro mura del carcere. Tutte sono accomunate da un unico denominatore: i detenuti chiedono di essere riconosciuti ancora come persone, e non solo attraverso il reato che hanno commesso”. Non solo il titolo, che è una frase di Borges: “Il Tempo è la sostanza di cui sono fatto” è colmo di citazioni e rimandi letterari, merito del passato da insegnante di Lettere di Maria Paola Guarino, nata a Portoferraio sull’Isola d’Elba e da anni divisa tra Porto Azzurro e Livorno: “Ho iniziato l’esperienza in carcere spinta dalla mia proverbiale curiosità”, ricorda, “I primi tempi mi sono sentita spaesata, travolta dalle dinamiche di un mondo per me tutto nuovo, come Renzo Tramaglino dei Promessi Sposi che arriva per la prima volta a Milano”. “Il Tempo è la Sostanza di cui sono fatto” conferma il valore terapeutico, catartico della scrittura: attraverso di essa i detenuti si riappropriano della loro identità, danno un senso al Tempo altrimenti asfittico trascorso dietro le sbarre, viene loro mostrata la possibilità di una vita alternativa, nuova. E, a proposito di citazioni, si chiude con un brano da “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi: “Pur essendo stato scritto circa trent’anni fa, con molteplici traduzioni in tutto il mondo”, chiosa Guarino, “rimane un romanzo attualissimo, che ha puntellato diverse fasi della mia vita. Rileggendolo ho pensato potesse completare perfettamente il senso del mio racconto”. Senza tetto, né legge: 10 mila lavoratori ostaggi nei ghetti del caporalato di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 20 luglio 2022 Il rapporto del ministero del lavoro e dell’Anci sui lavoratori migranti sfruttati nei campi dal caporalato e dal capitalismo agroalimentare. Almeno diecimila lavoratori agricoli migranti vivono in 150 ghetti presenti in 38 comuni e collocati in 11 regioni. Questa urbanistica del disprezzo della vita umana, e del capitalismo razzista, è composta da casolari, baracche, tende e roulotte. tollerati dallo Stato crescono in maniera programmata nelle terre di nessuno durante le stagioni del raccolto dell’ortofrutta e sono i punti di raccolta di una forza lavoro che risponde alle esigenze della divisione del lavoro stabilita dall’industria agro-alimentare implicata, direttamente e indirettamente, nel sistema di sfruttamento di persone senza tutele né cittadinanza, soggetto ideale del lavoro servile organizzato anche attraverso il sistema del caporalato. Nel Rapporto “Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare” pubblicato ieri dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (Anci) la provincia con il numero maggiori di ghetti è quella di Foggia: 8 Comuni, dunque oltre il 20% del totale. In quella di Trapani ci sono 4 comuni, Reggio Calabria (3), Andria-Barletta-Trani (2), Caserta (2), Cuneo (2) e Rovigo (2). Gli insediamenti più grandi - quelli che superano il migliaio di lavoratori forzati sono Borgo Mezzanone a Manfredonia (4 mila presenze) e il Ghetto di Rignano a San Severo (2 mila presenze). 77 insediamenti risultano avere meno di 100 abitanti, 15 insediamenti hanno presenze uguali o superiori a 100 e di questi, come già evidenziato, 2 insediamenti hanno oltre 2 mila abitanti. I ghetti sono strutturali. Sono gli snodi del sistema dello sfruttamento sul territorio. Lo dimostra il rapporto quando evidenzia come 11 insediamenti esistano da più di 20 anni, 7 da oltre 10 anni, 16 da oltre 7 anni. In alcuni casi i servizi essenziali sono del tutto assenti (32 insediamenti), cioè il 34% dei ghetti ufficialmente censiti. Molto scarsa (meno del 30% dei casi) è la presenza negli insediamenti di servizi igienici e mezzi pubblici di trasporto. Di solito i ghetti sorgono in media a 10 km dai campi. L’integrazione sociale e lavorativa è un miraggio. Se un lavoratore si ammala, si infortuna viene assistito solo nel 13,8% dei casi. Non esiste la formazione professionale, né la rappresentanza sindacale, senza parlare della lotta al lavoro nero/caporalato. Nel 76,6% dei casi mancano del tutto anche i presidi dell’assistenza sanitaria. Nella grande maggioranza dei casi (90,4%) gli abitanti dei ghetti sono cittadini extracomunitari: Marocco, Bangladesh, Tunisia, India, Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia. I rifugiati o i richiedenti asilo sono stati censiti nel 29,9% degli insediamenti mappati. Gli europei sono presenti in circa un quarto degli insediamenti e provengono prevalentemente dai paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria, Polonia). La presenza di italiani è assolutamente marginale. L’83% dei 10 mila prigionieri del sistema dei ghetti è uomo, il 62% ve in condizioni di irregolarità con il permesso di soggiorno. Il “Piano Nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr), scrivono il ministro del lavoro Andrea Orlando e il presidente Anci Antonio De Caro, ha destinato 200 milioni di euro per “superare gli insediamenti abusivi”. I comuni, si legge nel rapporto, avrebbero a disposizione mille unità abitative per ospitare le diecimila persone ufficialmente censite. I posti a disposizione sarebbero 6 mila. Colpisce la percentuale dei comuni che hanno risposto alla richiesta di ospitare i forzati dei ghetti: sono 54, ovvero il 9% dei 608 comuni dove è stata registrata la presenza dei lavoratori agricoli stranieri. Continua a mancare una politica nazionale capace di riconoscere il diritto all’abitazione dignitosa, insieme a quello al reddito, a un contratto, la tutela integrale della persona sul lavoro e nella società. L’implicita volontà di non intervenire in maniera organica, sistematica e senza sconti per nessuno equivale alla connivenza con il sistema che sospende migliaia di vite, le riduce in servitù, le bandisce dalla cittadinanza e le trasforma in esistenze senza tetto, né legge. “Chi ha commesso crimini in Ucraina dal 2014 in poi può essere imputato” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 luglio 2022 Silvana Arbia è una delle magistrate italiane più apprezzate all’estero. Ha ricoperto, tra le varie cose, l’incarico di Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, ottenendo le condanne dei responsabili del genocidio del 1994 (quasi un milione di morti in poco più di tre mesi di violenze). A vent’anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, che ha istituito la Corte penale internazionale, è ancora vivo il ricordo dei giorni che portarono gli Stati aderenti a dotarsi di un trattato fondamentale per assicurare alla giustizia internazionale gli autori di crimini ben precisi. Eccellenza, quanto è cambiata la giustizia penale internazionale negli ultimi anni? Parlare di cambiamento è ancora presto, poiché la giurisdizione internazionale in materia penale ha cominciato a strutturarsi e diventare sistema con la creazione della Corte penale internazionale attraverso l’adozione dello Statuto di Roma, entrato in vigore venti anni fa, il primo luglio 2002. E, nonostante la rilevanza per quantità e qualità degli interventi della Cpi in diverse situazioni, i primi vent’anni sono serviti a testare e consolidare un meccanismo di giustizia indipendente, permanente e basato su un trattato internazionale, inteso a porre fine all’impunità dei più gravi crimini di rilevanza internazionale, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Parlerei, dunque, di sviluppo più che di cambiamento. La Cpi è stata sottoposta a una sorta di “tagliando” dopo la sua creazione? Sviluppi importanti si sono registrati già nei primi dieci anni di funzionamento della Corte: l’esercizio di tutti i trigger mechanisms (self-referral, referral di Stati e referral da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) ha consentito l’avvio delle indagini con susseguenti processi che hanno visto la partecipazione delle vittime con soddisfazione del loro diritto a riparazione. Nel 2010 si è adottata la prima revisione dello Statuto con la definizione del crimine di aggressione e alcune integrazioni della lista dei crimini contro l’umanità. In quell’occasione gli Stati parte hanno formalmente dichiarato che la giustizia garantita dalla Cpi è pietra miliare di progetti di pace, hanno consolidato l’impegno di rafforzare il sistema di protezione e riparazione in favore delle vittime, e di rendere più efficiente la cooperazione internazionale. Un’ulteriore tappa nell’evoluzione della giustizia penale internazionale sarà segnata dall’attuazione, da parte degli Stati, del loro obbligo di dotarsi di strumenti necessari per perseguire e punire, a livello nazionale, i crimini di competenza della Cpi, essendo questa complementare alle giurisdizioni nazionali. La Corte penale internazionale interviene nei casi in cui le giurisdizioni nazionali non possono o non vogliono effettivamente perseguire e punire i crimini in questione. Ha un ricordo particolare del periodo legato alla redazione e all’adozione dello Statuto di Roma? Tanti ricordi e tante soddisfazioni. Le caldissime notti passate negli uffici della Fao, che ha ospitato la Conferenza diplomatica per la creazione di una Corte penale internazionale, la marea travolgente delle Ong che hanno svolto un importante lavoro di sensibilizzazione, le lunghe discussioni tra giuristi e diplomatici del mondo intero, le estenuanti opposizioni di paesi molto ostili, come Israele e Siria, e la vittoria sulla questione relativa alla partecipazione delle vittime nei processi. Un ricordo personale per me riguarda il ricevimento in albergo proprio in quei giorni, di un fax proveniente da New York che mi annunciava la selezione per il posto di procuratore internazionale presso il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per il Ruanda. Il termine per accettare era breve, avrei dovuto assicurarmi l’autorizzazione del Csm e terminare gli impegni alla Corte d’Appello di Milano, dove operavo all’epoca. Una sovrabbondanza di soddisfazione perché era una conquista tutta mia, che mi ripagava degli sforzi di anni di studio e di tempo libero investito per corsi di specializzazione in materia di diritto internazionale e diritto penale internazionale. Ricordo che il professor Bassiouni, uno dei coordinatori del lavoro del Comitato di redazione dello Statuto di Roma, si congratulò molto calorosamente. La scelta era difficile, ma necessaria. Ho accettato e ho speso quasi nove anni presso il TPIR, che, con il TPIY (Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia), ha gettato le fondamenta della giustizia penale internazionale. La guerra in Ucraina ha riacceso l’attenzione sugli strumenti della giustizia internazionale. Sarà possibile perseguire gli autori dei crimini che si stanno consumando? Sicuramente. I mezzi disponibili per effettuare indagini e la tempestività delle stesse, in un contesto di mobilitazione massima della comunità internazionale, delle istituzioni dell’Ue e della società civile costituiscono condizioni molto favorevoli a risultati positivi. La qualità delle prove e la loro conservazione sono sempre comunque aspetti critici. Nelle prime settimane di guerra in Ucraina in tanti hanno discusso su una eventuale incriminazione di Putin. È pura utopia? No, l’Ucraina ha accettato la giurisdizione della Cpi, un gran numero di Stati hanno denunciato la situazione Ucraina alla Corte, consentendo al Procuratore di avviare senza ritardo le indagini. È una fase in cui le informazioni non sono accessibili al pubblico. Ove necessario, persino una richiesta di mandato di arresto può essere segretata (under seal). Chiunque ha commesso crimini di competenza della Cpi in Ucraina dal 2014 in poi è suscettibile di essere imputato e processato. Il ministero della Giustizia ha istituito la Commissione per un Codice dei crimini internazionali, che da poco ha concluso i suoi lavori. Una personalità come lei non è stata coinvolta. È rammaricata per questo? Moltissimo, perché io non ho scritto saggi sul genocidio e altri crimini internazionali, rimanendo comodamente a casa, ma ho costruito casi di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, svolgendo funzioni giurisdizionali sul campo, e presentandoli al processo, ottenendo condanne che hanno segnato tappe storiche nella giustizia penale internazionale. Tuttavia, non sono sorpresa da queste pratiche perché le ho subite molte volte e le ho riciclate per accrescere la mia autostima e la mia volontà di servire la verità e la giustizia. Servire non declamare. Germania. È partita la sfida della legalizzazione della cannabis di Maria Krause* Il Manifesto, 20 luglio 2022 Oggi in Germania non parliamo solo di “se”, ma di “come” legalizzare la cannabis. La riforma della legge tedesca sugli stupefacenti fa capo al Ministero della Salute che in queste settimane ha ospitato le audizioni sulla legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo con oltre 200 esperti. I risultati dovrebbero gettare le basi che permetteranno all’Ampel - la coalizione rosso-giallo-verde composta da liberali, verdi e socialdemocratici - di presentare una prima bozza della nuova legge entro l’anno. Attualmente in Germania solo le farmacie possono fornire cannabis terapeutica ai pazienti, legale dal 2017. Anche per i pazienti tedeschi è molto difficile trovare un medico che sostenga la cannabis terapeutica, ottenere l’autorizzazione alla prescrizione e la copertura del trattamento dalla propria assicurazione sanitaria. L’accordo di coalizione stabilisce che la cannabis ricreativa sarà distribuita in negozi autorizzati e specializzati, che venderanno solo cannabis e prodotti a base di cannabis. Nonostante l’accordo sulla legalizzazione, i consumatori tedeschi continuano a essere perseguiti. Si tratta di 180.000 persone all’anno, 500 al giorno: ogni 3 minuti viene avviato un procedimento penale. Non c’è un’argomentazione razionale che giustifichi questa situazione. Vi sono però tre problemi all’orizzonte. Il primo è il Bundesrat, la camera alta del parlamento tedesco: la maggioranza degli Stati federali è ancora governata da una coalizione a guida CDU, che si oppone fermamente alla legalizzazione. Una soluzione potrebbe essere quella di sperare che perda le elezioni a livello federale nei prossimi anni. Una soluzione migliore e più rapida è quella di convincere i cristiano-democratici con l’argomento dei benefici finanziari derivanti dalla tassazione della cannabis legale, perché non sembrano preoccuparsi dei benefici per la salute e ignorano che il proibizionismo ha fallito. Il secondo è la Convenzione Unica delle Nazioni Unite. C’è una soluzione semplice: ignorarla! La Convenzione unica delle Nazioni Unite è un fallimento in sé. È razzista, disumana e sbagliata. Ignorare il diritto internazionale sarebbe una novità nella politica tedesca, ma probabilmente sarebbe accettato dall’opinione pubblica, anche perché non ci si aspetta alcuna sanzione. Il terzo sono i Trattati UE, compreso l’Accordo di Schengen che richiama la Convenzione Unica. Ignorare il diritto dell’UE e magari accettare le sanzioni, non sarebbe una buona soluzione. Si potrebbe cercare di ottenere un permesso di deroga, con scarse possibilità. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di cambiare la legge europea e stabilire un percorso europeo comune per la legalizzazione. Il divieto non è solo disumano, ma addirittura incostituzionale. Il diritto dell’UE rispetta e protegge le Costituzioni dei suoi membri. Una sfida costituzionale a livello nazionale e internazionale potrebbe essere un’ultima via legale. Un esempio è la causa intentata alla Corte costituzionale austriaca dall’attivista Paul Burger che punta a rendere la proibizione della cannabis incostituzionale. In Germania un ricorso simile è stato presentato dal giudice Andreas Müller nel 2020, quest’anno ci si aspetta la decisione della Corte costituzionale tedesca. Se una Corte nazionale stabilisce che la proibizione è incostituzionale, diventerebbe obbligatorio un accordo a livello europeo per consentire il commercio legale. Il divieto è irrazionale. Rappresenta una violazione dei valori fondamentali dell’Unione Europea, come la libertà e la dignità umana. Viola i diritti umani. Pertanto, sono necessari cambiamenti strutturali e un’azione a livello europeo, ad esempio un’iniziativa dei cittadini europei. Gli europei devono unirsi dietro la scienza e l’umanesimo. *Consulente politico, Associazione tedesca della canapa Stati Uniti. Ocasio Cortez e altre 16 parlamentari arrestate durante protesta per l’aborto La Repubblica, 20 luglio 2022 La manifestazione era una delle tante iniziative in difesa del diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza, negato dalla Corte suprema. Diciassette parlamentari democratiche, fra le quali Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, sono state arrestate nel corso di una manifestazione in favore dell’aborto a Washington, non lontano dalla Corte suprema e da Capitol Hill. “Abbiamo arrestato un totale di 35 persone, tra le quali 17 componenti del Congresso” perché dopo che era stato loro intimato tre volte di disperdersi “si sono rifiutate di sgomberare la strada”, ha riferito la polizia. Ilhan Omar, come Ocasio-Cortez esponente dell’ala radicale del Partito democratico, ha scritto sui social di essere stata fermata durante “un’azione di disobbedienza civile”. “Farò tutto quello che posso per suonare l’allarme sull’attacco ai nostri diritti riproduttivi”, ha aggiunto. Ocasio-Cortez ha postato un video in cui si vede un poliziotto che la fa allontanare dalla strada di fronte alla Corte suprema. La stessa strada in cui decine di migliaia di persone si erano radunate nelle ore e nei giorni immediatamente successivi alla sentenza con cui il 24 giugno la Corte suprema statunitense ha negato il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza rimandando ai singoli Stati la regolamentazione della materia. Una decisione che ha scatenato uno scontro politico di grande portata, nei palazzi del potere e nelle piazze. In questa situazione l’amministrazione Biden sta valutando di dichiarare un’emergenza sanitaria “limitata” per difendere l’aborto e in particolare l’accesso alle pillole abortive. Iran. Condannato Jafar Panahi, sconterà sei anni di carcere Il Manifesto, 20 luglio 2022 Il regista arrestato l’11 luglio scorso sconterà una vecchia condanna per “propaganda contro il regime”. Dovrà scontare una pena detentiva di sei anni il regista e oppositore iraniano Jafar Panahi, arrestato l’11 luglio scorso dopo essersi recato alla Procura di Teheran per avere aggiornamenti sul caso di altri due registi, Mohammad Rasoulof e Mostafa al-Ahmad, detenuti da alcuni giorni. Dovrà scontare una condanna per “propaganda contro il regime”, dopo aver sostenuto il movimento di protesta del 2009 contro la rielezione dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad a presidente della Repubblica islamica. La condanna gli era stata inflitta nel 2010 ma il regista era stato detenuto solo per due mesi, godendo poi del regime di semilibertà condizionale. Parallelamente gli era anche stato imposto il divieto di dirigere o scrivere film, viaggiare o addirittura parlare ai media fino al 2030. Così non è stato, le autorità iraniane hanno chiuso un occhio e sono usciti nel frattempo Closed Curtains (2013) premio della sceneggiatura alla Berlinale e Taxi Tehran (2015), Orso d’oro. Una tolleranza che però si è conclusa nove giorni fa presso l’ufficio del procuratore della capitale. L’arresto dei tre registi ha suscitato clamore in Europa: gli organizzatori dei festival di Berlino e Cannes hanno infatti condannato le azioni degli ayatollah contro la libertà di espressione. Negli ultimi tempi la repressione contro il dissenso in Iran si è manifestata con numerosi arresti anche nei confronti di figure politiche, come l’esponente del movimento riformista Mostafa Tajzadeh, fermato l’8 luglio a Teheran. Tajzadeh è attualmente in custodia cautelare ed è stato accusato tra l’altro di propaganda contro la Repubblica islamica. Panahi, che nel 2000 ha vinto il Leone d’Oro a Venezia con Il cerchio, dovrebbe aver terminato un nuovo film che forse potrebbe essere presentato proprio in Laguna quest’anno. Nicaragua. La triste sorte della rivoluzionaria Téllez di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 20 luglio 2022 La leggendaria “Comandante Due” abbandonata in cella da Ortega. I parenti consegnano al Pais le foto che la mostrano com’era e com’è dopo 13 mesi di detenzione isolata e al buio: ha perso 15 chili, la pelle ridotta a carta velina. Ci sono immagini che non hanno bisogno di parole. Come quella che raffigura due momenti della stessa persona, Dora María Téllez, ritratta nel giugno del 2021e come è adesso. Dopo un anno di carcere speciale a El Chipote, sede della Direzione di Assistenza Giudiziaria del regime di Managua, dove vengono rinchiusi, vessati, torturati i prigionieri politici. In 13 mesi ha perso 15 chili, la pelle ridotta a carta velina, il viso smunto, pallido. È chiusa in una cella al buio. Non vede mai la luce. Daniel Ortega e sua moglie Rosario Murillo, ubriachi del loro potere assoluto, la tengono così per vendetta, puro sadismo. Si era candidata con altri sei ex sandinisti alle ultime elezioni presidenziali. Il nuovo satrapo temeva di perdere. Li ha tolti di mezzo, senza tanti scrupoli. Tutti in carcere. L’eroina della rivoluzione sandinista - Ortega sa bene chi è Dora María. Non una detenuta qualsiasi ma una figura storica della rivoluzione sandinista. Un’eroina. Oggi ha 66 anni. Il 18 luglio del 1979, ne aveva 23. Era una giovane studentessa che studiava Medicina. Decise di unirsi alla resistenza. Decisa e fiera, con lo stesso sguardo che mostra adesso. Combatte con coraggio, guida una colonna di sandinisti. È anche grazie a lei se la lunga guerra contro la dittatura si conclude con la fuga, notte tempo, di Anastacio Somoza a bordo di un aereo. Partecipa all’assalto del Palazzo Presidenziale. Poi, mentre i sandinisti festeggiano la presa di Managua, si sposta con la sua colonna a 93 chilometri di distanza. Assedia León, una città strategica per quello resta dell’esercito del dittatore. Riuscirà a conquistarla imprimendo la svolta definitiva a un regime brutale e corrotto. L’arresto - Diventa un mito, una leggenda. È nota come Comandante Due, la seconda nella scala della gerarchia militare rivoluzionaria. Per anni collabora alla prima giunta sandinista. Suggerisce, consiglia, torna a studiare Medicina. Tutti la ricorderanno per i suoi capelli tagliati corti, il berretto in testa, il fucile in mano mentre studiava le carte poco prima dell’assalto finale a León. Con altri sei ex consiglieri sandinisti è stata arrestata e rinchiusa in carcere dalla nuova coppia di dittatori. Due dei tanti che formavano le fila dell’esercito di liberazione. Con accuse ridicole. Inventate. “Tradimento, lesione dell’integrità nazionale”. La repressione di Ortega - Molti altri, giornalisti, docenti, intellettuali, giornalisti, commentatori, sono fuggiti in Costa Rica, altri sono invece finiti in carcere nel corso della serie di ondate repressive che Ortega ha scatenato contro chi minaccia il suo potere assoluto. Proprio lui, figura di secondo piano, trasformato in un eroe dalla solidarietà internazionale, cinico e abile a salire i gradini della politica fino a diventare il padrone assoluto del paese. D’altronde, ha fatto morire in cella pure chi lo aveva liberato durante l’assalto al carcere dove era stato rinchiuso da Somoza: il generale in pensione Hugo Torres, il Comandante Uno. Anche lui chiuso in cella con l’accusa di tradimento, privato del sonno, del cibo, delle medicine di cui aveva bisogno. Lo ha fatto trasferire in ospedale mentre chiedeva aiuto. È spirato prima di arrivarci. La notizia è stato un vero trauma per il Nicaragua. Ed è giunta anche a Dora María. “È caduta in depressione”, raccontano ora i parenti al El Pais, cui hanno consegnato la foto in esclusiva per lanciare la campagna “Ritratti parlanti”: foto al posto di parole per denunciare lo scempio criminale commesso dalla coppia di dittatori. “Sii umano!”, è il grido lanciato da chi vuole fare qualcosa per liberare i 47 detenuti già condannati a pena tra gli 8 e i 14 anni. La reazione di Ortega è stata vergognosa: “Sono figli di puttana dell’imperialismo”. Il deperimento in carcere - La Comandante Due non cede. Resiste alle torture, a tutte le privazioni a cui è sottoposta. “La cosa che la fa più soffrire è la mancanza di luce”, raccontano i parenti che hanno raccolto le testimonianze di chi è riuscito a vederla, a parlarci pochi minuti, sempre sotto lo sguardo delle guardie carcerarie che hanno ordine di piegarla. “Non riesce a vedere neanche più il dorso della sua mano. È una sepolta viva”. Ma Dora María ha la tempra della combattente. Non ha mai smesso di credere in quello per cui ha lottato e continua a lottare. Ancora oggi, mentre chi ha tradito festeggia sorridente il 43 anniversario della Rivoluzione sandinista.