Mario è morto e con lui anche il diritto e la pietà di Sergio D’Elia Il Riformista, 1 luglio 2022 Ergastolano, dei suoi 69 anni ne aveva trascorsi in cella 40. Gli avevano tolto la semilibertà. L’udienza per restituirgliela era fissata per il 14 luglio, ma se n’è andato via prima. Alla fine del Laboratorio Spes contra spem nel carcere di Parma, Mario mi aveva consegnato una lettera. Forse, sentiva di non avere altre parole da aggiungere a quelle che aveva già scritto due anni fa a Carmelo Musumeci. Forse, temeva di non avere altro tempo da aggiungere al tempo della sua vita che stava per scadere. L’inizio della lettera a Musumeci è straordinario. “Carissimo Carmelo, non so se questa mia missiva ti giungerà, ma provo ugualmente. Dei tuoi buoni insegnamenti ho fatto tesoro e seppur ancora oggi mi ritrovo a dover soffrire (per colpe non mie) non mi lascerò mai più guidare né dall’odio né dalla prepotenza, come quand’ero giovane... A settembre 2006 ho avuto la fortuna di ottenere la semilibertà, fruita in Arborea, in provincia di Oristano. A novembre 2010, per mia richiesta, fui trasferito al penitenziario di Opera (MI), sempre in semilibertà. Dietro mia richiesta, a gennaio 2011, spostai la mia semilibertà al carcere di Pavia. Senza mai aver commesso nessuna infrazione, all’alba del 30 marzo del 2012, con una ordinanza di misura cautelare. sono stato chiuso dalla semilibertà e portato in cella, nello stesso carcere di Pavia. Dopo circa un mese, il Tribunale di Sorveglianza di Milano mi revoca la semilibertà; fatto sta che, nell’immediatezza di questa revoca, fui trasferito al carcere di Padova. Da qui, per il processo in videoconferenza, mi mandarono al carcere di Tolmezzo. Dopo aver subito una condanna a 20 anni per la sola associazione mafiosa (per il reato estorsivo fui assolto), fui trasferito qui a Parma dove tutt’ora mi trovo. A marzo 2017, la Corte di Appello di Catanzaro mi assolve definitivamente anche da questo capo d’imputazione e, poiché il Procuratore Generale non ritenne opportuno ricorrere in Cassazione, il 5 giugno del 2018, questa sentenza passò irrevocabile. Il fatto che il P.G. non fece ricorso in Cassazione la dice lunga sulla fondatezza delle accuse (e non solo...) ... Dopo circa un paio di mesi, il tempo di preparare tutta una serie di documentazioni, i miei avvocati presentarono al Tribunale di Sorveglianza di Bologna la richiesta della semilibertà. La Camera di Consiglio ci viene fissata il 5 novembre del 2019; la decisione di rigetto di questa Camera di Consiglio mi è stata notificata il 7 febbraio dell’anno in corso. Gli Avvocati, ovviamente, ci sono rimasti anche loro male e subito presentarono ricorso in Cassazione... È dura ed è molto penoso vedersi imprigionato ingiustamente anche quando si viene addirittura assolti dal reato per cui si è stati arrestati. Si sa che la legge non ragiona col cuore, perciò è inutile “snocciolare” la mia situazione familiare per riottenere un diritto meritatamente acquisito dopo tantissimi anni di carcerazione che con i giorni di liberazione anticipata vado oltre i 50 anni, ci pensi? Da quello che si desume dal ragionamento che ha fatto il Tribunale di Sorveglianza di Bologna nel concedermi o meno il beneficio che ho chiesto, mi sembra di capire che io dovrei ricominciare da zero (come un detenuto che chiede per la prima volta questo beneficio) non tenendo conto né dell’errore che ha commesso la Procura, né del mio trascorso (prelevato e rinchiuso nella semilibertà senza aver commesso mai una sola infrazione). In altre parole, dovrei passare di nuovo nel crudele gioco delle “forche caudine”: ti sembra giusto?” La lettera di Mario Serpa a Musumeci è del 18 maggio del 2020. Al testo di Mario, ai tempi di carcerazione, di attesa e di decisioni non prese, quindi, vanno aggiunti almeno due anni, durante i quali sono accaduti fatti gravi. Nel dicembre del 2020, la Corte di Cassazione aveva censurato la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna di richiudere in una gabbia un condannato a vita che aveva cambiato vita. La Suprema Corte aveva anche chiesto al Tribunale di restituire subito il maltolto. Ma, di rinvio in rinvio, sono passati un anno e mezzo. L’udienza della riparazione era stata fissata per i114 luglio. Troppo tardi. Il 28 giugno Mario se n’è andato via per sempre. Questa è l’ultima lettera di Mario, non è quella che avremmo voluto pubblicare, ma è l’unica che lui ci ha lasciato. Abbiamo scelto di pubblicare le parti più belle, quelle in cui esprime parole animate da un senso di giustizia, di fiducia e di grazia nei confronti di chi non gli ha reso giustizia, non gli ha manifestato fiducia, gli ha negato la grazia. Un 16enne per due anni in carcere con gli adulti per errore. È l’unico caso? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2022 Un adolescente senegalese, appena sbarcato in Italia, è stato recluso nel carcere di Trapani con l’accusa di traffico di essere umani. Dopo due anni si accorsero che era minorenne e rilasciato. Ha visto altri migranti detenuti con gli adulti, più giovani di lui. Era sbarcato in Sicilia, sollevato per essere sopravvissuto ad un pericoloso viaggio in barca dalla Libia. Ma dopo due giorni di permanenza, si era ritrovato in carcere con l’accusa di traffico di esseri umani. Non in un penitenziario minorile, ma quello per adulti. All’epoca dei fatti, nel 2015, era un minore e aveva 16 anni. Lui stesso ricorda altri giovani migranti africani della sua età e più giovani in prigione con lui. Finalmente, nel 2017, il giovane adolescente ottenne una data di udienza in appello a Palermo. Ma quando entrò in aula il giudice si alzò e disse che non poteva presiedere il caso di un minore. Poi, tre giorni dopo, nelle prima ore del mattino, gli agenti penitenziari andarono nella sua cella e gli dissero di fare le valigie perché stava per essere rilasciato. La vicenda del minore riportata dal giornale inglese Bbc.com - Parliamo di una vicenda che recentemente è stata riportata dal giornale inglese Bbc.com. Con stupore, Moussa - il cui nome è stato cambiato per proteggere la sua identità - si era ritrovato nel carcere di Trapani. “Non può essere, sono arrivato in Italia e sono finito dritto in prigione. Ho 16 anni”, aveva pensato tra sé e sé. Non riusciva a credere a quello che gli era successo. Moussa avrebbe quindi passato quasi due anni in una prigione per adulti con l’accusa di traffico di esseri umani, anche se era minorenne. Il ragazzo racconta che, una volta sbarcato, è stato portato in una stazione di polizia per essere interrogato con l’aiuto di un’interprete marocchina di lingua francese. Lei gli ha spiegato che due compagni di viaggio sulla barca lo avevano accusato di aver guidato l’imbarcazione. Lui ha supplicato di sapere chi fossero queste due persone, perché non riusciva a capire l’accusa, ma lei gli ha detto che era una traduttrice e non un avvocato. Alla Bbc ha raccontato di non essere stato il solo migrante minore a subire questo trattamento - La mattina dopo è stato messo in una macchina della polizia. “Non sapevo che mi stavano portando in prigione. Pensavo fosse un centro di accoglienza”. Nel carcere dice che gli avrebbero fatto due scansioni per determinare la sua età. Una valutazione ha rilevato che era minorenne, mentre l’altra no. Poiché i risultati erano inconcludenti, è stato messo in una prigione per adulti. Alla Bbc ha raccontato di non essere stato il solo ad avere avuto questo trattamento. Ricorda di aver visto in carcere altri suoi coetanei migranti africani della sua età e addirittura più giovani di lui. Dovettero passare nove mesi prima di poter chiamare la sua famiglia in Senegal, che lo aveva dato per morto. Qualche mese dopo, con una seconda telefonata, scoprì che suo padre era morto. In prigione poté almeno studiare per la licenza media italiana mentre sognava di fuggire dal carcere. Finalmente, nella primavera del 2017, Moussa ottenne una data di udienza in appello a Palermo. Come detto, il giudice rilevò la sua giovane età e fu rimandato in carcere. A quel punto, dopo tre giorni, gli agenti gli dissero di fare le valigie perché era libero. “Mi hanno accompagnato alla porta e l’hanno chiusa dietro di me. Ero lì, con un sacchetto di plastica pieno di vestiti”. Non aveva idea di dove andare e uno degli agenti gli suggerì di prendere la strada e aspettare di trovare altri africani a cui chiedere consiglio su cosa fare. Ora il ragazzo lavora a Cefalù e fa lo chef - Quella notte arrivò in Piazza Vittoria a Trapani. Lì incontrò alcuni senegalesi che gli dissero di dirigersi a Volpita, un campo di migranti. Alla fine Moussa ha lasciato Volpita dopo aver sentito che poteva fare soldi raccogliendo le olive da qualche altra parte. Dopo aver passato molti mesi a lavorare lì, si è stabilito nella popolare città turistica di Cefalù, vicino a Palermo, dove ora lavora come cuoco in un hotel. Ma il suo caso non è stato ancora affrontato e rimane in un angosciante limbo legale. Quanti casi simili ci sono attualmente? Secondo un recente rapporto dell’organizzazione non governativa Arci Porco Rosso di Palermo, nell’ultimo decennio più di 2.500 persone sono state arrestate in Italia con le stesse accuse. Tra loro ci sono anche giovani adolescenti che per sbaglio hanno la stessa sorte di Moussa? Studiare in carcere non dovrebbe essere un’eccezione di Madi Ferrucci L’Essenziale, 1 luglio 2022 Negli istituti penitenziari accedere all’istruzione è molto complicato. Eppure lo studio è fondamentale per favorire la rieducazione dei detenuti e per il loro rapporto con la società. “La parola è quella cosa che ti distingue dagli animali”, dice quasi sottovoce Cesare (il nome è di fantasia), vissuto per più di vent’anni in regime speciale di carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis. È seduto in una piccola sala dell’università Statale di Milano, a cui può accedere per motivi di studio. Parla lentamente e sceglie ogni termine con molta cura. Al chiasso del chiostro universitario preferisce una piccola stanza, che chiama “il suo rifugio”, perché dopo anni di isolamento i troppi rumori, l’ampiezza degli spazi e le tante persone che camminano per i corridoi ancora lo disorientano. Ha poco più di cinquant’anni, un profilo esile e una certa eleganza nei movimenti. “Nel silenzio di una cella molti sensi rimangono addormentati, in tutti questi anni i libri sono stati l’unica alternativa concreta alla follia”. Oggi è iscritto all’università, alla sua pena non c’è un termine, ma lo studio gli ha permesso di uscire dai due metri quadrati in cui ha vissuto per tutti questi anni, prima con la mente e poi con il corpo. “Non posso dire di sperare di uscire, ma posso almeno sperare di trascorrere una bella giornata, di godere di un po’ di bellezza”. Ottenere quei libri non è stato semplice, è entrato in carcere poco più che ventenne e si è diplomato da autodidatta, senza poter usufruire di lezioni o di altri aiuti: “Sono siciliano, la realtà sociale da cui arrivo è quella dei margini. In terza media i professori mi dissero che non dovevo azzardarmi a iscrivermi alle superiori. Appena sono entrato nel mondo reale mi sono perso, sono arrivato a fare molto del male”. A interrompere il suo isolamento è stato Stefano Simonetta, professore di filosofia medievale della Statale che dal 2015 porta avanti in tre carceri di Milano un programma di tutoraggio in cui ogni detenuto viene affiancato da uno studente che lo supporta nello studio. Nel 2021 erano 127 gli studenti in carcere iscritti alla Statale, primo ateneo in Italia per numero di detenuti iscritti (nell’anno accademico 2021-2022 sono 1.246 in totale, secondo la Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari): “Oggi, dopo anni di battaglie, ogni settimana tengo lezione in carcere con cinquanta persone, la metà degli studenti sono interni e l’altra metà esterni”, dice il professor Simonetta. “Eppure l’istruzione non dovrebbe essere una missione, ma un diritto. Spesso le direzioni carcerarie ci vedono come delle anime belle a cui prima o poi passerà la voglia. Solo che a noi la voglia non passa”, racconta sorridente. “Abbiamo incontrato persone che dopo decenni di detenzione e isolamento non avevano mai avuto l’occasione di incontrare qualcuno della società civile”, gli fa eco la tutor Chiara Dell’Oca. “All’inizio molti erano diffidenti e riuscivano a malapena a parlare. Una volta un detenuto che stavo accompagnando all’università continuava a inciampare e mi confessò di non riuscire più a camminare in uno spazio diverso da quello dritto e definito dei corridoi del carcere. Con il tempo hanno imparato ad aprirsi, ma soprattutto hanno ripreso a sorridere. Il cambiamento è stato sconvolgente”. Solo nella memoria - Simonetta è stato uno dei primi a riuscire a entrare nella casa di reclusione di Opera, in alta sicurezza, con un cospicuo numero di studenti. Per i detenuti è stato uno dei primi veri contatti umani con l’esterno. “L’arrivo dei ragazzi da fuori è stato un modo per vedere oltre il muro, lo hanno reso poroso”, racconta Vincenzo (il nome è di fantasia), ex 41 bis, in carcere per reati di mafia da oltre vent’anni. “In loro ho rivisto me da giovane, mentre entravo qui dentro, nell’età in cui avrei potuto fare scelte diverse”. Lo studio per molti è un ritorno alle origini, a un tempo che esiste solo nella memoria, prima di commettere i reati che li hanno condotti in carcere: “Mi sono iscritto ad agraria, perché da ragazzino lavoravo nella ristorazione, in un certo senso l’ho fatto per allungare lo sguardo. Quando per vent’anni oltre le inferriate vedi solo altre pareti, la vista si riduce e allora ho cercato di arrivarci con la fantasia là fuori”. Vincenzo parla anche del futuro, del suo sogno di lavorare in un’azienda agricola o in un agriturismo. Ma con l’ergastolo ostativo quel “diritto alla speranza” codificato dalla Corte europea dei diritti umani, in Italia è di fatto negato dall’impossibilità di uscire. L’articolo 27 della costituzione parla di pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo senso, l’istruzione non dovrebbe essere considerata un privilegio, ma un diritto da garantire a tutti i detenuti. Eppure ad accedere all’istruzione è ancora una minoranza. A confermarlo sono i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presentati il 20 giugno nella relazione al parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “Negli ultimi quindici anni ci sono stati progressi miseri. È vero che nell’anno accademico 2021-2022 le persone iscritte all’università sono state 1.246, con un aumento di oltre duecento unità rispetto all’anno precedente, ma dobbiamo considerare che sono poco più del 2 per cento su una popolazione carceraria di oltre 54mila detenuti e un alto tasso di analfabetismo. Su questo le disuguaglianze in carcere sono enormi”, spiega Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Oltre la metà dei detenuti (25.171) non ha dichiarato un titolo di studio e della restante metà più di 16mila sono fermi alla licenza media inferiore. “I numeri sono molto simili a quindici anni fa, sia nel tasso di laureati sia nella percentuale di analfabetismo, questo significa che in carcere la situazione non si è evoluta di un passo”, aggiunge Palma. Anche nel carcere di Bollate a Milano, nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per i detenuti comuni, con un’attenzione speciale all’aspetto rieducativo della pena, la percentuale di iscritti a un percorso d’istruzione è molto bassa. Julian Dosti, albanese nato nel 1978, è stato il primo detenuto di Bollate a iscriversi alla Statale per studiare filosofia. Passeggia nell’ateneo come se fosse di casa e a ogni passo qualcuno si ferma per salutarlo. “Sono un punto di riferimento qui”, dice fiero, “ho fatto amicizia con tutti”. Arrivato in Italia nel 2002, ha avuto difficoltà a ottenere i documenti. Ha quindi cominciato a lavorare in nero, per poi passare al piccolo spaccio. In breve tempo si è ritrovato coinvolto in traffici internazionali. È stato in carcere più volte, ma la pena più lunga l’ha ricevuta per l’omicidio di un connazionale nel 2007. Ora sta scontando l’ultimo periodo tra casa e lavoro. “Non facevo il criminale perché ero costretto, in un certo senso mi piaceva. Ero quasi orgoglioso di stare in carcere con i pezzi grossi”, racconta. “Col tempo, guardando quei volti ogni giorno, ho cominciato a non riconoscermi più. Vedevo uomini stanchi e deboli, quasi mi intenerivano, e anch’io stavo diventando così. Ho capito che dovevo studiare, trovare un modo per uscire dalla cella, alla fine sono i libri che mi hanno fatto prigioniero. Ho preso il diploma, poi un giorno un amico mi ha regalato l’Apologia di Socrate”. Pochi corsi - Dopo quella lettura Julian ha scelto di cambiare: “Quel libro parla di un uomo che accetta la legge, che accetta la sentenza, ma che preferisce morire piuttosto che perdere la dignità. È allora che ho pensato che dovevo studiare filosofia e lo scorso anno mi sono laureato”. Oggi lavora per una compagnia assicurativa ma vorrebbe trovare un impiego nel sociale. “Il percorso scolastico e quello lavorativo in carcere spesso non si parlano”, spiega. La formazione professionale nelle carceri è molto complicata talvolta entra in conflitto con i percorsi di studio per il sovrapporsi degli orari e non sempre si concretizza in esperienze spendibili all’esterno. “C’è la tendenza all’infantilizzazione del detenuto, spesso si propongono corsi di cucito, di falegnameria o magari giochi. Se si vuole pensare al loro reinserimento nella società bisogna preoccuparsi di come usciranno e di cosa andranno a fare. Sono adulti che hanno capacità ed esperienze”, dice Alberto Martinelli, fino a pochi mesi fa professore delle superiori a Opera. Complice la pandemia, dal 2019 al 2020 i corsi professionalizzanti sono passati da 203 a 92, come riporta il rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone. E anche le iscrizioni sono calate: nel 1990 la percentuale di iscritti ai corsi era intorno al 7,75 per cento della popolazione detenuta, nel 2020 si è arrivati all’1,41 per cento, il picco più basso mai raggiunto. Nel primo semestre del 2021 sono stati 148 i corsi attivati e solo 100 quelli terminati. Si tratta in media di meno di un corso professionale per istituto. La pandemia ha comportato anche l’interruzione di ogni tipo di attività extrascolastica, dal teatro allo sport. La scuola è andata avanti con enorme fatica e gli insegnanti per mesi non sono riusciti ad avere contatti con i detenuti. Durante la prima ondata, su 38.520 ore di lezione da svolgere all’interno degli istituti penitenziari ne sono state erogate solo 1.410. A gennaio 2021, quando ormai in tutta Italia la didattica a distanza era una realtà diffusa, la scuola in carcere non era ancora ripresa. “Prima che mi arrestassero avevo preso una laurea triennale in economia e stavo per finire la magistrale in giurisprudenza”, dice Salvatore, 51 anni, ex agente di polizia locale, in cella per omicidio. “Sono entrato in carcere nel 2015 e sono arrivato a Bollate nel 2018, lì ho ricominciato gli studi, ma durante la pandemia è stato impossibile proseguire”, racconta. “Sono stato da una parte e dall’altra della barricata, quando ero operatore di polizia pensavo che fosse giusto che chi sbagliava pagasse marcendo in prigione. Poi ho compreso il dolore di questa esperienza e l’importanza di un percorso di rieducazione. Se tieni un essere umano chiuso in una gabbia per trent’anni senza far nulla, quando uscirà tornerà a mordere”. Ritorno alla vita - Il terzo ateneo con il maggior numero di iscritti (80 studenti) in carcere è l’università di Roma Tre, dove studia anche Alessandro, appassionato di ingegneria informatica e uscito dal carcere di Rebibbia appena trentenne, poco prima della pandemia. Per lui il ritorno alla vita è stato possibile, la sua era una condanna di tre anni, ma racconta che avere una pena breve gli ha reso gli studi ancora più complicati. “Spesso se non hai una condanna definitiva lunga, c’è la tendenza a non investire su di te. Ma io sono entrato a 27 anni e per me tre anni sono stati tanti. Fortunatamente ho avuto la possibilità di studiare, di conoscere professori come lo scrittore Edoardo Albinati che ha catturato la mia attenzione, però ci sono moltissimi casi di esclusi dal diritto allo studio per questa ragione della temporaneità della pena”. Una tendenza confermata dal garante Mauro Palma: “I detenuti sono continuamente mobili, hanno pene di pochi anni, oppure sono trasferiti molte volte e spesso quando cambiano istituto la garanzia del percorso di formazione non è mantenuta, ci vogliono mesi per riattivarla. Poi c’è il tema di chi va ai domiciliari o di chi vuole continuare a studiare anche una volta uscito, lì i detenuti sono lasciati a loro stessi”. “Quando sono uscita avrei voluto iscrivermi all’università, avevo preso da poco il diploma, una soddisfazione enorme per me, ma dovevo pagare le tasse universitarie”, racconta Laura, ex detenuta del carcere di Rebibbia, mentre fuma una sigaretta davanti a un piccolo bar di San Giovanni a Roma, non troppo lontano da dove vive. “Fatico a trovare un lavoro e quindi mi sono adattata. Non voglio ricascare nella droga a costo di fare la dog sitter in nero per tutta la vita”. Laura ha più di cinquant’anni, ma ha ancora voglia di studiare. È seduta e sorseggia una bibita fresca mentre aspetta la sua ex insegnante Barbara Battista, che arriva dopo pochi minuti. Racconta che la lettura l’ha aiutata a uscire dai periodi più difficili della sua vita, sin da quando è stata mandata in collegio all’età di undici anni: “Passavo le ore in biblioteca e sognavo attraverso le storie che leggevo, mi facevano sentire meno sola. Quando sono uscita ero come una bambina, ho iniziato a innamorarmi delle persone sbagliate, sono caduta nella droga e ne sono uscita del tutto quando sono entrata in carcere dopo quella sera”. La sera che ha cambiato la sua vita risale al 2013, quando in una colluttazione dentro casa ha ucciso l’ex compagno, che l’aveva maltrattata per oltre dodici anni. “In prigione ho deciso che qualcosa doveva cambiare, ho un figlio giovane, volevo dargli una madre diversa”, racconta. “Anche io volevo riuscire a guardarmi di nuovo allo specchio e ad avere un’autostima. Ho pensato di tornare in quel luogo pieno di libri che da piccola mi aveva fatto sentire bene, passavo ogni momento che potevo nella biblioteca del carcere. Lì un’altra donna mi ha aiutato a ricominciare gli studi”. La sua ex insegnante la guarda con orgoglio: “Le donne di Rebibbia hanno delle capacità enormi, la scuola dovrebbe essere la priorità per tutte loro”. Barbara è anche una sindacalista e durante la pandemia si è battuta per non veder ridurre l’organico degli insegnanti. Con il sistema attuale il personale è calibrato in base al numero degli scrutinati annuali, ma l’emergenza sanitaria li ha estremamente ridotti. Dopo giorni di sciopero è riuscita a ottenere il mantenimento delle classi senza che ci fossero tagli. “Mi fa soffrire, però, vedere che quando escono anche le più volenterose e costanti non riescono a reinserirsi”, dice Barbara abbassando lo sguardo. “A Ba’ nun te preoccupa’”, le dice la sua ex studente, “io mo cammino a testa alta”. Perché la Francia ha rifiutato l’estradizione per Pietrostefani e gli altri ex Br di Frank Cimini Il Riformista, 1 luglio 2022 Il diritto di ogni imputato ad un equo processo e al rispetto della sua vita privata. Questi diritti non sono stati rispettati nelle vicende dei dieci ex appartenenti a gruppi della lotta armata in Italia a cavallo tra gli anni settanta e ottanta secondo la corte d’Appello di Parigi che ha rigettato la richiesta di estradizione nel nostro paese. A rischiare l’estradizione respinta in modo secco dai giudici francesi erano Giorgio Pietrostefani condannato come mandante dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi, gli ex Br Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti, l’ex esponente di Autonomia Operaia Raffale Ventura, l’ex militante dei Proletari Armati per il comunismo Luigi Bergamo,l’ex dei Nuclei armati per il contropotere territoriale Narciso Manenti. Tutti erano stati fermati ad aprile dell’anno scorso e rimessi in libertà in attesa della decisione della magistratura arrivata ieri pomeriggio e contro la quale l’Italia potrà fare ricorso amministrativo al Consiglio di Stato francese anche se l’unica impugnazione vera potrà presentarla solo la procura generale di Parigi. Per il momento vanno registrate le proteste sguaiate dei politici di casa nostra che accusano i magistrati d’Oltralpe di “proteggere gli assassini”. In prima fila ci sono Antonio Tajani di Forza Italia secondo il quale “questo non è garantismo” e Matteo Salvini che sentenzia: “È una vergogna”. Maurizio Gasparri usa la definizione di “fiancheggiamento criminale”. A iniziare il percorso approdato all’insuccesso davanti alla corte d’Appello parigina era stata la ministra Marta Cartabia ispirata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale il giorno del rientro di Cesare Battisti ripreso dagli smartphone di due ministri da lui nominati aveva tuonato: “E adesso gli altri”. Per Irene Terrel storica legale degli italiani rifugiati in Francia “sono stati applicati i principi superiori del diritto” con riferimento al rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati e alle molto controverse norme del processo in contumacia. Irene Terrel più volte nel corso delle udienze aveva ribadito quello che è da anni il suo pensiero relativo a un fenomeno politico che doveva e poteva essere risolto solo politicamente con un provvedimento di amnistia. Grida di gioia, abbracci e lacrime in aula alla lettura della sentenza che potrebbe aver messo la parola fine all’operazione Ombre Rosse. I dieci ex militanti dell’estrema sinistra italiana di tanti anni fa vivono da tempo in Francia, si sono rifatti una vita trovando lavoro costruendo una famiglia, diventando padri e addirittura nonni. Giorgio Pietrostefani ex dirigente di Lotta Continua ha rischiato di tornare in manette in Italia, oltretutto in condizioni di salute precarie da tempo, per un fatto l’omicidio Calabresi che risale al 17 maggio del 1972. Sarebbe auspicabile, ma con i tempi che corrono non pare proprio scontato, che la decisione dei giudici francesi contribuisca ad avviare finalmente una riflessione seria sui cosiddetti anni di piombo. Purtroppo la debolezza della politica trova conferma pure in questa vicenda antica che però sembra essere utilizzata per governare oggi con il potere che mostra i muscoli e manifesta sentimenti di vendetta strumentalizzando il dolore dei parenti delle vittime. Va ricordato che il comportamento degli apparati statali non fu proprio da stato di diritto anche se ci sono voluti 50 anni per vedere in tv in un documentario di Sky che gli arrestati venivano torturati. L’Italia non ha ancora una legge adeguata per sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. Che farebbe la Francia se noi rifiutassimo di consegnarle un terrorista del Bataclan? di Giancarlo Caselli La Stampa, 1 luglio 2022 La giustizia francese ha negato all’Italia l’estradizione di vari cittadini italiani riparati in Francia per sfuggire all’esecuzione di condanne definitive inflitte nel nostro Paese per gravi reati (anche omicidi) di matrice terroristica. A fronte di questa eventualità, qualche tempo fa un ministro francese ebbe a rivolgersi a quella fazione dei suoi concittadini che era contraria alla estradizione chiedendo che cosa avrebbe detto se qualcuno avesse osato rifiutare alla Francia l’estradizione di uno o più responsabili del grave attentato terroristico del Bataclan (proprio in questi giorni arrivato ad un pubblico processo lungamente atteso dall’opinione pubblica tutta). In questo modo quel ministro voleva significare che ci sono leggi dell’umanità che devono affermarsi come vere leggi sanzionate, anziché essere solo frasi di stile, relegate in qualche preambolo di accordi internazionali. In altre parole, che vi sono diritti insopprimibili legati alla dignità, ai sentimenti, alle radici culturali e alle esigenze di ogni stato democratico. La giustizia francese - nel caso dei terroristi italiani non estradati - sembra aver deciso in base a criteri tutt’affatto diversi. In sostanza, chi uccide e viene condannato in Italia per gravi fatti di terrorismo, se scappa in Francia può essere perdonato e sottratto alla giustizia italiana. Difficile, davvero difficile, non ipotizzare che su atteggiamenti di questo tipo possa influire in modo decisivo anche un antico pregiudizio verso il nostro Paese, alimentato dalla favola di un’Italia di fatto “fascista” che ha combattuto il terrorismo a colpi di teoremi, di accuse senza prove, di imputati condannati in violazione dei principi dello stato di diritto. La favola quindi di personaggi che se commettevano gravi delitti lo facevano per nobili ideali da assumere come giustificazioni scriminanti. Un saggio ha detto che si può anche diventare ex terroristi ma non si diventa mai ex assassini. Vale a dire che ci sono delitti contro la civile convivenza democratica che non possono essere cancellati con un tratto di penna, dimenticando che sono stati commessi nell’ambito di una guerra unilaterale spietata e feroce, dichiarata dalle catacombe della clandestinità contro persone arbitrariamente elette a simboli da abbattere. Farlo equivale a rendersi vittime di una colpevole amnesia, con un senso etico a corrente alternata o geograficamente variabile, se non del tutto carente. Mi rendo conto di aver espresso opinioni che mi espongono alle ire dei tanti “benpensanti” (anche italiani) sempre pronti ad autoproclamarsi garantisti doc, squalificando nel contempo come giustizialisti, manettari o forcaioli tutti coloro che la pensano diversamente. In realtà molto spesso il loro è un garantismo peloso, selettivo: nel senso che l’applicazione delle regole viene diversificata a seconda dello status ed in particolare delle tendenze politiche di questo e di quello. Il contrario del garantismo vero, classico: che è veicolo di eguaglianza o altrimenti non è. Infine, non per alimentare altre polemiche, ma unicamente per registrare dati di fatto, mi sembra legittimo chiedersi se le nostre istituzioni politiche facciano sempre tutto il possibile (nei limiti s’intende del reciproco rispetto della sovranità nazionale) perché le istanze di giustizia che nel nostro Paese appaiono inderogabili siano davvero soddisfatte. Ed è chiaro che mi riferisco non solo ai terroristi di cui la Francia ha rifiutato l’estradizione ma anche al gravissimo scandalo di Giulio Regeni. La svolta di Macron sugli ex terroristi: “Noi con l’Italia, valutiamo il ricorso” di Anais Ginori La Repubblica, 1 luglio 2022 La svolta di Macron sugli ex terroristi: “Noi con l’Italia, valutiamo il ricorso”. Dopo il clamoroso no dei giudici di Parigi alla richiesta di estradizione avanzata dall’Italia, il presidente si schiera. Possibile una istanza alla Cassazione. “Ma potrebbero esserci anche altre strade per andare ancora più lontano”. La decisione sfavorevole sulle estradizioni di dieci italiani condannati per reati di terrorismo durante gli Anni di piombo, si trasforma in un braccio di ferro tra governo e magistratura. A entrare in campo è direttamente Emmanuel Macron che ipotizza un ricorso possibile contro il parere della Chambre d’Instruction della Corte d’Appello di Parigi che ha respinto in blocco le domande che riguardano tra gli altri l’ex dirigente di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, le ex brigatiste Roberta Cappelli e Marina Petrella, l’ex militante dei Pac Luigi Bergamin. Rispondendo a una domanda di giornalisti a margine del vertice Nato di Madrid, il presidente francese ha ribadito l’auspicio che per le domande di estradizione ci sia un “giudizio in Italia”. In realtà, i fuoriusciti dalla lotta armata che si sono rifugiati in Francia negli anni Ottanta grazie alla cosiddetta Dottrina Mitterrand sono già stati giudicati in Italia e su di loro ci sono condanne definitive, in alcuni casi con la pena massima dell’ergastolo. Ma il messaggio di Macron è politico ed è un attacco indiretto alla scelta della magistratura francese che di fatto ha confermato posizioni già espresse in passato attraverso altre sentenze contrarie alle domande arrivate da Roma. Era stato Macron, nella primavera scorsa, a decidere una svolta, dando il suo via libera all’esame delle dieci domande, dopo una telefonata con Mario Draghi, preparata dal dialogo avviato tra i due Guardasigilli, Eric Dupond-Moretti e Marta Cartabia. “Non commento le decisioni della giustizia francese” ha premesso ieri il capo di Stato, per poi aggiungere. “Ho detto che politicamente appoggiavo e sostenevo la richiesta del governo italiano”. Macron ha poi ricordato la sua lettura della Dottrina Mitterrand, su cui negli ultimi decenni ci sono state varie interpretazioni. “La Francia aveva respinto solo le richieste di estradare persone che non erano implicate in reati di sangue. In questo caso - ha aggiunto - queste persone sono coinvolte in reati di sangue e meritano di essere giudicate sul suolo italiano. È una questione di rispetto dovuto alle famiglie delle vittime e alla nazione italiana”. Il capo di Stato ha spiegato ai giornalisti di voler continuare a collaborare con il governo italiano su questo spinoso tema, che avvelena le relazioni bilaterali da quarant’anni. Le motivazioni complete della decisione della Corte d’appello non sono state ancora depositate. “Spetta a noi nelle prossime ore - ha proseguito - valutare se è possibile un ricorso in Cassazione o, in ogni caso, se ci sono delle vie che ci permettano di andare più lontano”. Il ministro Dupond-Moretti ha avuto un colloquio telefonico con la ministra Cartabia poche ore dopo l’annuncio del respingimento delle dieci domande di estradizione. Da Roma è filtrata la sorpresa e la delusione per un percorso faticosamente costruito sui fascicoli da esaminare. “L’autorità giudiziaria francese ha preso la sua decisione e il ministero della Giustizia non ha bisogno di commentarla” ha dichiarato un portavoce a Parigi, ribadendo “l’alto livello di fiducia reciproca tra le autorità francesi e italiane, che condividono entrambe una concezione esigente dello stato di diritto”. In un’altra dichiarazione, il procuratore generale presso la Corte d’appello, Rémy Heitz, ha sottolineato che le decisioni della Chambre d’Instruction, competente per le estradizioni, “possono essere impugnate”, senza però sbilanciarsi. I procuratori generali sono nominati dallo Stato e sono quindi un potere politico dentro al sistema giudiziario. Il pressing dall’Italia per un ricorso esiste, e Macron ha messo tutto il suo peso nella valutazione che ora dovrà essere fatta. Il tempo per fare ricorso è poco: entro martedì. No all’estradizione. Dalla Francia lezione di diritto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 luglio 2022 Il Giudice ha parlato. Chi ha rifiutato l’estradizione di nove condannati italiani per fatti di terrorismo e di Giorgio Pietrostefani, accusato di aver organizzato l’omicidio del commissario Calabresi, cioè la Chambre de l’Instruction della Corte d’appello di Parigi, è un Giudice. Cioè un organo autonomo, indipendente e imparziale. Le cui sentenze andrebbero rispettate anche quando non condivise, come ci spiegano ogni giorno, non sempre a proposito, magistrati, giornalisti, e partiti politici. Invece, a quanto pare, l’unico a ricordarsene è il Presidente Macron da cui dipendono, secondo l’Ordinamento francese, i Pubblici Ministeri, ma non, ovviamente, i giudici. La sua dichiarazione, quasi “estorta” dai cronisti nel corso della conferenza stampa al vertice Nato, è quanto di più diplomatico potesse essere, visto il contesto e anche la sentenza, un po’ a sorpresa, della Corte d’Appello di Parigi. “Non è mia norma - ha detto il Presidente - giudicare le decisioni della giustizia, ma posso dire che appoggio politicamente l’Italia nella sua domanda di estradizione”. Non poteva parlare diversamente, dopo aver stipulato un accordo con il premier italiano Draghi tramite un patto di ferro tra la guardasigilli Cartabia e il ministro Dupond-Moretti che impegnava i due Stati in una comune battaglia politica perché si superasse quella “dottrina Mitterand” che, fin dai tempi del leader socialista, aveva garantito la Francia come Paese dell’ospitalità e dell’asilo per chi è accusato di reati politici, anche gravi, purché prenda le distanze dal terrorismo e conduca una vita “regolare” nella terra che lo ospita. Regola cui i dieci italiani giudicati due giorni fa si sono sempre attenuti. Così come gli altri duecento che l’Italia avrebbe voluto fossero estradati, prima che i due Paesi arrivassero alla mediazione su un gruppo molto più ristretto ma significativo, soprattutto per la gravità dei reati. Macron con il suo “valuteremo”, non si è sbilanciato più di tanto sulle intenzioni del governo rispetto alla possibilità di un ricorso in cassazione tramite il Procuratore generale. È una decisione politica, che rischia però, qualora fosse adottata, di andare a sbattere di nuovo contro un’altra decisione dei giudici, quelli della cassazione, che potrebbero essere più rigorosi ancora di quelli dell’appello. Perché occorre essere chiari. In Italia, in un improvviso rigurgito di nazionalismo patriottico, tutti i partiti di destra e sinistra o centro, insieme a tutta la stampa e l’opinione pubblica, si sono scagliati contro la “dottrina Mitterand” che impedirebbe all’Italia di giudicare e punire i propri assassini. Ma qui stiamo parlando della sentenza di un tribunale, non di un accordo tra Stati. E bisogna avere il coraggio, e anche il pudore, nell’attesa di motivazioni più articolate, di leggere attentamente quei due articoli, il 6 e l’8, della Convenzione dei diritti dell’uomo, sottoscritta anche dall’Italia, su cui si è fondato da parte dei giudici il rifiuto di estradare Pietrostefani e gli altri nove. Non stiamo parlando di bagatelle. L’articolo 6 dice che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”. Seguono poi una serie di precisazioni sui diritti dell’imputato, che ne presumono la presenza e la possibilità concreta di difendersi con una forza che sia il più possibile simile a quella dello Stato che lo accusa. È il principio dell’habeas corpus, che contrasta in modo tangibile con la condizione di contumacia, cioè di assenza, in cui è stata giudicata in passato in Italia la maggior parte dei condannati su cui ha deciso la corte d’appello di Parigi. Ma potrebbe non essere questo l’unico motivo che ha determinato i giudici a rifiutare le estradizioni: non dimentichiamo il clima di emergenza in cui si sono celebrati i processi sui fatti degli anni 70 e 80, con l’uso smodato dei reati associativi, dei concorsi morali e della parola dei “pentiti”. Se a tutto ciò si aggiunge la citazione, nella sentenza, dell’articolo 8 della Convenzione europea, che invoca il “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, si capisce quanto sia stretta la via per l’Italia per ottenere le estradizioni. Del resto, che giustizia sarebbe mettere in galera un gruppetto di anziani, dopo trenta-quaranta anni dai fatti, se pur tragici? Persone che da tempo non hanno nessuna somiglianza con gli sciagurati ragazzi che furono? Sarebbe soddisfazione, per lo Stato italiano e i parenti delle vittime, o sarebbe solo una misera e povera piccola vendetta? Ha ragione Mario Calabresi, più del carcere serve la verità di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 1 luglio 2022 Come un po’ tutti quelli che hanno fatto i cronisti negli ultimi 35 anni in Italia, ho conosciuto diversi ex terroristi. Alcuni - penso ad esempio a Chicco Galmozzi - erano consapevoli del dolore causato, delle sofferenze di chi resta, del contesto in cui la lotta armata era nata e cresciuta. Altri dimostravano una freddezza, una rimozione, un menefreghismo inaccettabili. È lo spirito che ho trovato nelle dichiarazioni di uno dei dieci condannati di cui l’altro ieri la Francia ha negato l’estradizione: Narciso Manenti, condannato all’ergastolo in Italia per l’assassinio del carabiniere Giuseppe Gurrieri, davanti al figlio Mauro che era con lui. Intervistato dal Corriere di Bergamo nel 2019, Manenti ha parlato della sua nuova vita in Francia, la casetta a Châlettesur-Loing, Valle della Loira, l’impresa di pulizie, i tre figli: “Sono innocente. Non rivedo mai quegli anni, è una storia passata e non ci penso mai”. Beato lui. Mauro Gurrieri ci pensa. Noi ci pensiamo. In estrema sintesi: verità. Ha ragione Mario Calabresi: il carcere a Pietrostefani non cambia e non serve; la verità sì. Serve alle famiglie e alla comunità nazionale. Il figlio del commissario ha incontrato Pietrostefani, “Dio è passato anche da lui” ha detto al Corriere la signora Gemma Calabresi. Ultima cosa: inutile firmare i trattati del Quirinale, mandare un ministro in gita a Parigi alle riunioni del governo francese, ricevere l’omologo transalpino, quando le sentenze italiane vengono trattate alla stregua di quello di uno Stato totalitario e persecutore. Macron non c’entra nulla, la decisione è della magistratura francese. Ma ai tempi della dottrina Mitterrand l’integrazione europea era molto più indietro. Qualcosa dovrebbe essere cambiato nel frattempo. E la dottrina Mitterrand escludeva la protezione per i responsabili di reati di sangue. Genova. Tentò di uccidere la compagna, si suicida in carcere di Annissa Defilippi genovatoday.it, 1 luglio 2022 Il 70enne era in stato di fermo con l’accusa di tentato omicidio per aver preso la donna a sprangate. Alcuni mesi fa l’anziano aveva già tentato di togliersi la vita assumendo una forte dose di farmaci. Una settimana fa aveva tentato di uccidere la compagna a colpi di spranga. Oggi, consumato dal rimorso, si è impiccato in carcere. La tragedia si è consumata a sette giorni esatti dal giorno in cui, in stato di choc, era stato trovato dai carabinieri accanto alla compagna sessantenne sdraiata a letto, mentre le tamponava le ferite che lui stesso le aveva provocato con una chiave a T di alluminio. Oggi pomeriggio, intorno alle 15, ha aspettato che i due compagni lasciassero la cella, è salito su una sedia e si è impiccato con un lenzuolo appendendosi alla finestra. A fare la scoperta gli agenti della penitenziaria che lo hanno trovato già esanime; inutili i tentativi di rianimarlo. Il 70enne era in stato di fermo come detenuto psichico con l’accusa di tentato omicidio. Nel carcere di Marassi, si è recata la pm di turno Patrizia Petruzziello che ha fatto intervenire anche il medico legale Francesco Ventura, al quale sarà affidata l’autopsia. Del fatto è stato informato il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati. Alcuni mesi fa l’uomo oggi deceduto era finito all’ospedale perché aveva assunto una forte dose di farmaci, un gesto definito volontario e per il quale era stato seguito da uno specialista. Mercoledì scorso era stato proprio lui a chiamare i soccorsi confessando quello che aveva fatto, in lacrime e senza saper spiegare il perché. La donna, che ha rischiato di perdere la vita, si trova ancora ricoverata all’ospedale San Martino dove l’aspetta una lunga degenza dopo una delicata operazione chirurgica subita per sanare le numerose ferite alla testa. Bari. Detenuto biscegliese suicida. La Camera penale: “ripensare pena” La Repubblica, 1 luglio 2022 “Non restiamo indifferenti di fronte al suicidio di un ragazzo di Bisceglie, posto in essere nel giorno in cui avrebbe dovuto cominciare ad espiare una lunga carcerazione. Rimaniamo sgomenti quando l’idea della funzione rieducativa della pena si frantuma di fronte alla percezione di chi la deve subire, con estrema sofferenza. Ecco, dunque, che la morte diventa una sanzione alternativa alla pena, irrogata dal giudice in assoluto più severo, ossia se stesso”. Lo dichiara la Camera penale di Bari commentando il suicidio di un detenuto 30enne, paziente psichiatrico, avvenuto nei giorni scorsi nel carcere di Bari. “Quando ciò avviene all’interno di un carcere, ci si pone delle domande - dice la nota dei penalisti baresi - non soltanto dirette a comprendere come è possibile che all’interno di una cella un ragazzo si tolga la vita usando le lenzuola, ma anche e soprattutto dirette a comprendere quali siano gli strumenti per rendere la pena effettivamente rieducativa in un contesto nel quale la condizione dei detenuti viene unanimemente riconosciuta come drammatica. Pensare ad una pena non deve significare soltanto darne esecuzione. La pena costituzionalmente orientata va necessariamente individualizzata - conclude la Camera penale di Bari - sì da trasformarsi in quel percorso virtuoso che comporterebbe beneficio per l’intera società”. Pavia. “Carcere sovraffollato”. Denuncia di Verni e commissione speciale di Stefania Prato La Provincia Pavese, 1 luglio 2022 Restano critiche le condizioni del carcere di Torre del Gallo, secondo il consigliere regionale del M5s Simone Verni che ieri pomeriggio ha visitato la struttura insieme alla presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia Antonella Forattini (Pd) che, a Regione, chiede più fondi per i progetti di reinserimento dei detenuti. Un carcere, quello di Pavia, dove si contano 518 posti, 566 detenuti presenti e si registra un affollamento pari al 109,27%. “Abbiamo visitato la casa circondariale di Torre del Gallo purtroppo nota per i numerosi episodi di suicidio, con sei detenuti che si sono tolti la vita, tre dei quali nel 2021 e l’ultimo a giugno di quest’anno - spiega Verni. A dicembre 2021 i detenuti hanno organizzato lo sciopero del carrello, rifiutando il cibo per protestare contro le condizioni troppo precarie della struttura, tra guasti del riscaldamento, infiltrazioni d’acqua e muffa ma anche carenza di personale medico”. E, sempre nel 2021, ricorda il consigliere, il Garante nazionale dei detenuti ha rilevato gravi carenze strutturali e sanitarie soprattutto riguardanti i detenuti con problemi psichici. “Sono ad esempio state segnalate criticità di sovraffollamento, legate alla carenza di personale - spiega il consigliere -. Lo stesso Garante ha parlato di “carcere abbandonato a se stesso” dove non ci sono opportunità per rendere il tempo detentivo utile alla risocializzazione. Viste le drammatiche circostanze che ancora si evidenziano e nonostante abbia coinvolto personalmente la ministra Cartabia, senza ottenere al momento un suo positivo riscontro, ho chiesto un diretto intervento della Commissione Speciale regionale di cui faccio parte, affinché avvenga una presa di coscienza dell’ormai insostenibile situazione. Che resta allarmante”. “Abbiamo in corso - aggiunge Forattini - un’indagine conoscitiva sulla salute mentale e, dopo lo stop dovuto alla pandemia, ora si è ripartiti con le visite alle strutture per verificare come si stia affrontando il problema”. Resta la necessità, per Verni, di un maggiore coinvolgimento delle associazioni di volontariato: “Svolgono un ruolo fondamentale per il reinserimento”. - Saluzzo (Cn). La nuova sezione del Polo universitario per detenuti di Noemi Giraudo laguida.it, 1 luglio 2022 UniTo inaugura uno spazio dedicato alla formazione universitaria dei detenuti. L’Università di Torino ha inaugurato oggi, giovedì 30 giugno, la nuova sezione del Polo universitario per detenuti della casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo. La cerimonia si è tenuta nella sala polivalente dell’istituto di detenzione con la partecipazione del delegato del rettore dell’Università di Torino, Franco Prina, la vicerettrice per la ricerca delle scienze economiche, giuridiche e sociali, Laura Scomparin, Francesco Profumo, presidente della compagnia di San Paolo, l’Ufficio Pio, la Fondazione Musy, il garante regionale per i detenuti, Bruno Mellano, quello di Saluzzo, Paolo Allemano, e il vicesindaco Franco Demaria. Il progetto, promosso dall’università di Torino e sostenuto dalla Compagnia San Paolo, ha lo scopo di facilitare il reinserimento dei detenuti all’interno della società una volta scontata la pena, offrendo, per mezzo di attrezzature idonee, docenti, borsisti e tutor, la possibilità di costruirsi un futuro. I risultati nel campo della formazione avanzata delle persone detenute ottenuti da UniTo, operativo già da molti anni nella casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino e dal 2019 a Saluzzo, sono stati nettamente positivi, con un totale di 66 iscritti di cui 24 solo a Saluzzo. In tutta Italia sono 1.250 gli iscritti a facoltà universitarie detenuti in 91 istituti carcerari. Un impegno, quello di UniTo, sentito come la possibilità di mantenere aperta una finestra sul mondo e dare un’occasione di riscatto. Milano. Come aiutare chi sta dentro a vivere fuori di Antonella Barina Venerdì di Repubblica, 1 luglio 2022 Il brasiliano Fernando Gomes da Silva ha buttato via un bel po’ della sua vita, se si trova a dover scontare 18 anni di carcere. Ma deve essere un uomo intraprendente e ingegnoso se, una volta dentro. è riuscito a trovare proprio in ciò che la società “butta via” - nei rifiuti - la leva del proprio riscatto. Fatto è che, per ammazzare il tempo infinito che ogni detenuto ha davanti a sé, Fernando ha inventato e brevettato un “rifiutometro”, con cui ha avviato la raccolta differenziata nel carcere milanese di Bollate. E ora nella periferia di Milano si sperimenta la sua idea: un “cassonetto intelligente” che registra il comportamento dei condomini, per premiare i più virtuosi con sgravi fiscali nella tassa sui rifiuti. Pare che funzioni davvero. E Fernando, ormai in semilibertà, è stato assunto da Digital 360, azienda di consulenza digitale. Che oggi si impegna a sensibilizzare altre imprese sui benefici dell’offerta di lavoro ai detenuti. Un’opportunità per chi sconta una pena, che così si prepara a un futuro di legalità. Per la società, che riduce i casi di recidiva. Ma anche per aziende e cooperative. a cui la trascurata Legge Smuraglia (dal nome dell’ex senatore e partigiano) offre indubbi vantaggi: un credito d’imposta di 520 euro al mese e sgravi contributivi del 95 per cento ad ogni ingaggio. Insomma, assumere un detenuto non è questione di buonismo, ma di convenienza per tutti. Eppure oggi sono solo 2.305 (su 55 mila) ad avere un lavoro che non sia quello sottopagato dall’amministrazione penitenziaria. Perciò varie realtà, profit e non, aiutano le aziende a trovare il talento che cercano e formarlo. Tra queste, la Onlus Sesta Opera San Fedele, che da 99 anni fa volontariato negli istituti di pena milanesi. Per cui ha bisogno di fondi, ma anche, fatto curioso, di scarpe maschili, che in carcere mancano. Viterbo. Al via il progetto Clip & Go per il reinserimento sociale dei detenuti orvietosi.it, 1 luglio 2022 È partito il progetto Clip & Go, finanziato dalla Regione Lazio incentrato sulla promozione del miglioramento della vita detentiva e sul reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. La partecipazione al bando è stata fortemente sostenuta dal Rettore, Stefano Ubertini, dal Direttore Generale, Alessandra Moscatelli e dal Delegato del rettore per il diritto allo studio e i servizi agli studenti, Andrea Genovese. Le attività saranno coordinate e promosse dal Dipartimento di Scienze Umanistiche, della Comunicazione e del Turismo (Disucom) in collaborazione con il Centro di Ateneo per la Multimedialità (Cam) in sinergia con la casa Circondariale di Viterbo diretta da Annamaria Dello Preite e con le educatrici coordinate da Natalina Fanti. Il progetto, sotto la responsabilità scientifica di Giovanni Fiorentino, direttore del dipartimento, è coordinato da Mirca Montanari docente di Pedagogia speciale. La digitalizzazione è l’aspetto su cui il bando ha posto maggiormente l’accento e, considerando le peculiarità della casa circondariale di Viterbo, l’Unitus ha deciso di realizzare varie knowledge clips (brevi video formativi) della durata massima di 15 minuti l’una. Il progetto Clip & Go, basato sull’apprendimento non formale e informale, si prefigge di fornire ai detenuti alcuni strumenti di analisi e di riflessione della realtà contemporanea. I differenti argomenti affrontati nelle clips spazieranno dall’analisi della pubblicità alla comunicazione politica, dal social/citizen journalism alle tecniche del cinema digitale, dai nuovi media all’editoria digitale. Le clips saranno raggruppate per percorsi tematici coerenti ed omogenei garantendo, al tempo stesso, una rete di connessioni e di collegamenti tra di esse. Per la partecipazione ad ognuno dei cicli formativi, al termine del percorso, verrà rilasciato ai frequentanti un attestato congiunto da parte dell’Università degli Studi della Tuscia e della Regione Lazio. Il progetto si colloca in un orizzonte temporale e geografico molto più ampio di quello previsto dal bando regionale. L’idea complessiva prevede il potenziamento della formazione dei detenuti estendendo, l’opportunità, anche ad altre case circondariali sul territorio nazionale, oltre a quelle di Viterbo e Civitavecchia. Il progetto Clip & Go conferma, ancora una volta, la costante attenzione dell’Università degli Studi della Tuscia alla cosiddetta terza missione, attività con le quali gli atenei interagiscono direttamente con la società e il proprio territorio di riferimento, sia mediante azioni di valorizzazione della conoscenza sia, più in generale, mediante eventi di natura culturale, sociale e di divulgazione scientifica. Volterra (Pi). “Colazione in carcere”: Luisanna Messeri cucina per i detenuti di Lara De Luna La Repubblica, 1 luglio 2022 Dalla collaborazione tra Unicoop Firenze e la Casa di reclusione, un progetto che parla di inclusione e solidarietà. Il primo luglio appuntamento per tutti i detenuti e verrà svelato il programma 2022, nel solco delle Cene Galeotte. Nel solco delle Cene Galeotte, Unicoop Firenze continua a lavorare ai suoi progetti di solidarietà e inclusione sociale che caratterizzano parte dell’attività della cooperativa da anni. Si torna così al Carcere di Volterra, riaprendo le porte al pubblico - e al futuro dei detenuti stessi - il primo luglio, data di inizio di un nuovo corso dell’iniziativa nata in collaborazione anche con Fondazione Il Cuore. Il primo appuntamento sarà con Luisanna Messeri e una colazione speciale, durante la quale verrà presentato anche il programma 2022. Il progetto, ideato insieme alla Fondazione Il Cuore, è divenuto nel tempo un “punto di riferimento per tanti altri istituti italiani ed europei” che hanno poi cominciato a proporre in altre località percorsi rieducativi similari: un percorso formativo incentrato sull’enogastronomia che culmina in esperienze di cene aperte al pubblico. Sempre affiancati da chef professionisti. Nella speciale occasione del 1° luglio 2022, un appuntamento importante con un volto significativo della cucina toscana, Luisanna Messeri, che tra Prova del Cuoco, Alice Tv e in tempi più recenti Detto Fatto, si è sempre spesa e impegnata a tramandare le tradizioni culinarie della sua terra. Unicoop Firenze offrirà così una colazione (con la partecipazione dei prodotti della Linea Colazione Coop) a sua firma a tutti i detenuti, per creare un momento di socialità importante. L’esperienza delle Cene Galeotte ha evidenziato, come sottolineano da Unicoop Firenze, “l’importanza della formazione per i detenuti e i percorsi di apprendimento in cucina, anche in collaborazione per il locale istituto alberghiero, hanno già portato oltre 40 detenuti a trovare un impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere”. La collaborazione con la cooperativa non è l’unico momento relativo alla formazione professionale e alla riabilitazione messo in atto dalla casa di reclusione di Volterra: tra i tanti l’orto, che fornisce anche buona parte delle materie prime alla cucina. Milano. Da Renzo Arbore al Gr con i detenuti di Bollate di Cinzia Ficco magazine.tipitosti.it, 1 luglio 2022 “Porto le loro voci oltre le sbarre”. Parla Paolo Aleotti, giornalista. I “suoi” detenuti domani incontreranno la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. L’appuntamento è stato programmato da tempo e di sicuro la responsabile del dicastero della Giustizia non potrà rinunciare. Si discuterà dei problemi legati al sovraffollamento carcerario, di conseguenza dell’aumento di malattie psichiche per molti detenuti, della necessità di una maggiore trasparenza, oltreché della possibilità di un ricorso ottimizzato alla pena detentiva, incentivando la depenalizzazione di alcuni reati, spingendo per una giustizia riparativa e trasformando il carcere in extrema ratio. L’iniziativa è del gruppo di Paolo Aleotti, romano, del 1949, volto storico della Rai. Qualcuno lo ricorderà come free lance nella trasmissione Per Voi Giovani, condotta da Renzo Arbore, al Gr3 della Rai, come inviato, ma anche come corrispondente dagli Stati Uniti per i gr ed i tg Rai per dieci anni, ma anche come inviato di Ballarò, Curatore di Che tempo che fa, inviato per la trasmissione di Enzo Biagi, RT, Documentarista per Rai3. Oggi è docente all’Università Cattolica di Milano e per la Scuola di giornalismo della Fondazione Basso. Da alcuni anni si è innamorato del mondo carcerario. “La passione è nata quasi per caso - racconta - Un giorno del 2014 l’associazione culturale Antigone, guidata da Patrizio Gonnella, mi ha chiesto di insegnare come si fanno gli audio-documentari nel carcere di Bollate, alle persone ristrette. Fino a quel momento ero entrato in alcune carceri, ma solo per realizzare interviste: a Porto Azzurro sull’isola d’Elba, Rebibbia a Roma, alla Giudecca, la casa di reclusione femminile di Venezia. O negli States per incontrare alcuni condannati a morte: ad Huntsville in Texas, o a Draper nello Utah state prison, dove nel 1996 era stata ripristinata la fucilazione. Ma non mi era mai balenata l’idea di trascorrere giorni, mesi, anni in un carcere. Accettai, soprattutto per la curiosità di tentare un’esperienza nuova”. Poi? Dopo il primo anno, tutto risultò così nuovo, così potente, così interessante, da indurmi a continuare. Conobbi Carte Bollate Di che si tratta? È un giornale scritto, pensato e finanziato dai detenuti del carcere di Bollate. Nasce nel 2002 con una tiratura attorno alle mille, milleduecento copie. La redazione è formata da circa venti detenuti e detenute - a seconda dei periodi e con eccezione per il periodo di pandemia - supportati da alcuni volontari giornalisti professionisti ed esperti di comunicazione. La direttrice è Susanna Ripamonti. Testata autonoma, registrata presso il Tribunale di Milano. I lettori sono i detenuti di Bollate, gli operatori del carcere, ma è distribuito per posta a giornalisti e magistrati e a chi ne fa richiesta. Si può ricevere a casa attraverso una donazione di 25euro annui. Il valore aggiunto rispetto ad altre testate è nella sua mission. Che è? Promuovere una nuova cultura nel carcere e imporsi come strumento di democrazia interna e dibattito con l’istituzione carceraria. Dal 2011 ha avviato un’attività di formazione rivolta alle scuole di giornalismo, organizzando seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere. Ma si è andati avanti. Cioè? Il Gr Bollate è uno dei prodotti del Laboratorio Teleradioreporter, che dirigo dal 2014. Obiettivo? Il Laboratorio si propone di avvicinare le persone ristrette alla comunicazione radiotelevisiva. Anche qui la composizione della redazione cambia a seconda dei periodi. Nei primi anni è stata mista, con la partecipazione di quindici, venti detenute e detenuti, integrati da sette, otto studenti di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano. Pandemia e conseguente lockdown hanno ristretto di molto la redazione che ora sta riprendendo vita e oggi è suddivisa in gruppi, femminile e maschile. Hanno partecipato e partecipano detenute, detenuti di ogni tipo, rango, nazionalità e reato. Uniti dal desiderio di imparare, crescere, comunicare. Parlano dei propri reati? Il reato commesso non è mai materia di discussione. E aggiungo, di discriminazione. Ognuno conta per quello che fa sul momento, per come agisce e come si comporta. Ho dovuto reprimere non poco il mio spirito giornalistico, trovandomi di fronte a persone protagoniste di clamorosi casi penali mediatici. In che senso? Nessuno scoop per raccontare la prigionia di questo o quel killer famosi. L’impegno massimo, al contrario, per creare un gruppo di lavoro palpitante. All’interno studiamo, discutiamo, dibattiamo ci esercitiamo nella lettura, dizione e scrittura, sceneggiatura, riprese radio e tv), montaggio. Produciamo un Gr alla settimana, trasmesso da Jailhouserock, programma curato da Antigone e messo in onda da Radio popolare. Abbiamo prodotto documentari radiofonici e televisivi, alcuni di questi trasmessi dalla Rai (Gr1 e Tg2Dossier) o premiati nel corso di eventi prestigiosi come il Premio Morrione. I contenuti? Spaziano da temi legati alla vita del carcere a tematiche come la spiritualità, le neuroscienze, le nuove povertà, la guerra in Ucraina vista attraverso gli occhi di detenuti ucraini a Bollate. Interviste con personaggi di spicco che entrano a Bollate, scrittori, magistrati, cantanti registi. Le reazioni di chi vi ascolta? Sulla possibilità di portare all’esterno la propria voce, alcune reazioni significative si possono ascoltare nel podcast sul nostro Laboratorio realizzato, come tesi di laurea, da Martina, studentessa della Cattolica. Ve ne virgoletto un paio: Ivan: “Quando mia zia mi ha detto: Ti ho sentito in radio, solo allora ho realizzato. Fuori le persone mi ascoltavano. E da lì mi si è aperto un mondo, ho cominciato ad appassionarmi, ho cominciato ad ascoltare la radio per prendere spunto da conduttori radiofonici esperti. Ed è iniziato qualcosa che mi permette di essere più vicino alle persone fuori.” Giuseppe: “Spesso là fuori pensano che qua dentro non ci siano persone di cultura, persone che provano sensazioni e le sanno anche esprimere. E invece poi ci ascoltano e restano basiti e si accorgono che qui ci sono persone pensanti, che creano, che sanno raccontare e portare fuori le proprie emozioni.” Elena. “In carcere ci sono persone che ogni giorno cercano di dare un senso a quello che hanno fatto e spesso al loro futuro. E questo non è condiviso da chi è fuori, che non ci conosce. Che non sa quanto fatichiamo, pensiamo, studiamo. La radio può essere uno strumento fondamentale perché tutto ciò che si ignora fa paura. Più si conosce il carcere, più si comprende che noi siamo come voi. Martina: Abbiamo solo varcato la linea che c’è tra restrizione e libertà. La mia esperienza di radiofonica in carcere mi ha permesso di far capire al mondo fuori chi è Elena. La radio si aprirà ad altri detenuti? La collaborazione di nuovi detenuti è sempre aperta. Siamo una struttura in movimento anche perché, per fortuna, prima o poi alcuni redattori ci lasciano per tornare in libertà, parziale o totale. Di recente le new entry sono un ex magistrato, un giovane informatico, un esperto in telecomunicazioni dalla Nigeria, un bravo artista trentenne e una ragazza 28enne proveniente da San Vittore, italo-rumena, che dopo una parte di vita tumultuosa sogna ora la normalità e, se serve per ricominciare, anche la noia. Con i nuovi e la vecchia guardia, sto impostando la ripresa autunnale, dopo una pausa estiva. Come è strutturata la programmazione? Nei nostri piani domina il Gr settimanale, ma poi c’è in produzione un documentario audio e video per denunciare le carenze del reparto femminile rispetto al maschile, un podcast studiato come un docufiction audio, che racconterà in dieci puntate la storia di un detenuto iconico, dal suo ingresso in una casa circondariale al suo passaggio in casa di reclusione, attraverso tutte le tappe che lo porteranno in un istituto che applica il trattamento avanzato, come Bollate. Le parti di fiction saranno recitate dai detenuti che partecipano al laboratorio teatrale. La radio, il giornale radio uno strumento politico? Gli strumenti della comunicazione hanno un’anima anche politica. Nel caso del carcere concorrono a mantenere alta la coscienza critica dei detenuti, riprendere la propria identità, inquinata rispetto a se stessi e alla società dal reato commesso. E a far conoscere tutto questo al mondo esterno. Cosa proporrete alla Ministra? I nostri piani futuri: creare una rete di informazione tra diverse carceri, partendo da esperienze parallele presenti in Italia. Fino ad arrivare a gemellaggi con carceri più distanti, come quello di San Quentin, California, dove il podcast Ear Hustle, ideato e condotto dai detenuti del maggiore carcere californiano, si è imposto come punta di diamante, vincendo tanti premi internazionali. Dalla crudeltà del crimine alla spiritualità della resurrezione di Mario D’Anna Il Dubbio, 1 luglio 2022 “Frammenti di memoria sparsi sui marciapiedi”, di Sabrina Renna e Roberto Cannavò. Il libro coniuga due aspetti dell’animo umano che in tanti pensano siano mondi separati, paralleli e destinati a non incontrarsi mai. La crudeltà del crimine e la spiritualità della resurrezione. Nel volume di Sabrina Renna, componente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” e consigliera comunale nel Comune di Acireale, e di Roberto Cannavò, ex ergastolano condannato per omicidio e per essere stato affiliato a Cosa Nostra, il rapporto di autocoscienza e di parola tra i due autori diventa un momento profondissimo di riflessione ed il lettore non può fare a meno di percepire tutte le possibilità della natura umana come indissolubili e inscindibili. Il bene e il male, il crimine e la coscienza, i percorsi di umanizzazione, le condizioni dei detenuti nelle carceri, l’isolamento e la spinta alla rinascita sono i pilastri di questo dialogo narrato che percorre tutto il libro e percuote fino alla più intima sensibilità del lettore. Roberto Cannavo racconta la sua infanzia infelice, vissuta all’interno di dinamiche familiari complesse e disordinate, ricorda di avere anelato di avere al fianco una guida autorevole e ricorda l’omicidio del padre vittima di uno “scambio di persona”. Roberto Cannavò appena poco più che un ragazzino entra a far parte di Cosa Nostra e ne diventa uno dei killer. Racconta gli omicidi e il suo racconto è frutto dell’autoanalisi e del senso di colpa. Per questi reati hapagatocon27 anni di carcere ma la pena prevista era l’ergastolo. Fine pena, mai. Poi il lungo percorso riabilitativo svolto al carcere di Opera ed infine la libertà condizionale e l’impegno con l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Quello di Roberto Cannavò è un racconto crudo e la precisione narrativa è il frutto dell’elaborazione della colpa, è la consapevolezza che ogni uomo può “deviare” e come, con sacrificio e anni di autodisciplina, può redimersi e dare ancora un contributo alla comunità. Roberto Cannavo diventa nel libro la personificazione della redenzione, la liberazione interiore ancora prima della liberazione del corpo. Diventa il simbolo della barbarie dell’ergastolo che non concede nessuna possibilità di reinserimento e polverizza l’art. 27 della Costituzione Italiana. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sabrina Renna ascolta e cuce con sapienza i racconti di Roberto perché è nell’ascolto senza pregiudizi che si salda la loro unione, nell’ascolto si costruiscono le pagine del libro. Renna non giudica, non condanna, segue con rigore ogni passaggio del recupero del detenuto e comprende e dà ai lettori la possibilità di concepire il significato più profondo di umanità. Il volume è importante per i suoi contenuti altamente spirituali, sono pagine che vanno lette e comprese soprattutto in questi momenti così brutali che scuotono la comunità civile. Troppo spesso abbiamo assistito sconcertati alle urla “del popolo” nei confronti dei criminali, rabbia comprensibile quando viene dall’irrazionale popolano ma che non devono mai compromettere e turbare le decisioni dei Tribunali. “Frammenti di memoria sparsi sui marciapiedi”, è un racconto realissimo e crudele ed allo stesso tempo magico e ricco di una cristianità concreta, la stessa che da secoli ci ammonisce quando pensiamo di essere nelle condizioni di giudicare un nostro simile. La ricchezza di questo volume consiste proprio nello stabilire che ogni uomo può essere travolto dalla devianza criminale ma che ogni uomo può riprendere il cammino nella direzione di un nuovo, sano e personalissimo umanesimo. “Frammenti di memoria sparsi sui marciapiedi” è un documento di speranza, di riscatto e di grande spiritualità. Un resoconto necessario fin quando saremo immersi in una società che spesso si ritrova a naufragare nelle acque terribili e tempestose della vendetta e dell’autoassoluzione. Rinvio alla Camera per ius scholae e cannabis. La Lega presenta 1.500 emendamenti di Giovanna Casadio La Repubblica, 1 luglio 2022 Entrambi i provvedimenti rimandati alla seconda settimana di luglio. Pit stop per lo “ius scholae” e la depenalizzazione della cannabis, le due leggi sui diritti che le destre vorrebbero cancellare dalla discussione in Parlamento, ma che sono state solo rinviate alla seconda settimana di luglio. Pausa tecnica - La pausa, chiesta stamani a Montecitorio dal dem Lele Fiano, ha ragioni tecniche: riuscire a contingentare i tempi di esame in aula sia della riforma della cittadinanza, che della cannabis, e fissare una data certa per il voto. Ma gli effetti sono politici: mirano a raffreddare lo scontro nella maggioranza. Matteo Salvini ha accusato la sinistra di mettere a rischio il governo, perché - dice - “altro che cittadinanza agli immigrati e droga libera”, le famiglie e le imprese hanno bisogno di ben altro. Ugualmente dure le accuse di Fratelli d’Italia. 1.500 emendamenti della Lega - Perciò la Lega ha depositato alla Camera ben 1.500 emendamenti. Igor Iezzi, capogruppo leghista in commissione Affari costituzionali, rincara: “Il nostro obiettivo sarebbe non discutere affatto lo ius scholae, giudichiamo non solo una forzatura, ma una vera e propria provocazione della sinistra avere posto all’ordine del giorno sia la cittadinanza agli immigrati che la droga libera”. Di riconoscere i ragazzi figli di immigrati, che abbiano compiuto un ciclo di cinque anni di scuola in Italia, come cittadini italiani a tutti gli effetti, per la destra non se ne parla. La Lega e Fratelli d’Italia sono sulle barricate. Forza Italia si adegua, nonostante la spaccatura che il coordinatore del partito Antonio Tajani non riesce a ricomporre. La forzista Renata Polverini è infatti a favore dello “ius scholae”. La Lega quindi ripresenta e raddoppia gli emendamenti con i quali ha fatto ostruzionismo in commissione Affari costituzionali. Tra i 1.500 previsti ci sono gli emendamenti-burla che subordinano la cittadinanza all’esame sulle sagre locali, le feste regionali, le canzoni popolari, sui costumi romani e solo se i ragazzi figli di stranieri hanno a scuola il massimo dei voti. Ma - spiega Iezzi - ce ne sono di più seri: come quelli che prevedono siano i ragazzi stessi, e non un genitore, a fare richiesta di cittadinanza”. L’altolà di Letta - Nella Direzione del Pd, il segretario Enrico Letta dà l’altolà ai leghisti: “Si fa cadere un governo per fatti drammatici, non si fa cadere un governo perché un ragazzo italiano a tutti gli effetti, dopo anni di scuola in Italia, che parla il dialetto come posso parlarlo io, viene ad avere finalmente la possibilità di avere la cittadinanza, e si decide addirittura di far cascare il governo per evitare che quella ragazza e quel ragazzo abbia la cittadinanza italiana. Io rimango senza parole di fronte ad una scelta di questo genere”. E comunque ribadisce Letta: “Noi non arretriamo di un millimetro”. Insomma nessun ricatto “sulla testa di questi ragazzi e di queste ragazze, nei confronti delle loro famiglie”. Dal Pd parte un appello “accorato” per non deludere la speranza di circa un milione di bambini e di ragazzi. Pd, M5Stelle, renziani, Leu sono compatti. Marco Di Maio, di Italia Viva, twitta: “Sullo “ius scholae” non c’è alcun parallelismo col ddl Zan: temi e condizioni sono diversi. C’è la concreta possibilità di ottenere il risultato; ma se si trasforma la legge in bandiera di partito, avremo solo l’ennesimo fallimento di chi sui diritti preferisce le chiacchiere ai fatti”. Autore del testo e relatore è Giuseppe Brescia, il presidente della commissione Affari costituzionali, che afferma: “È surreale chiedere lo stop dello “ius scholae” dopo aver occupato i lavori della commissione per circa 30 ore. La verità è che questo testo può essere approvato e la Lega non ha argomenti validi. Il governo ha dato in commissione e darà in aula solo pareri tecnici. Non ha senso metterlo in mezzo”. “Da Salvini un teatrino ridicolo”, chiosa il dem Piero De Luca. 89 emendamenti per la legge sulla cannabis Sull’altra legge nel mirino - quella sulla depenalizzazione della coltivazione di quattro piantine di cannabis a uso personale - sono stati presentati finora 89 emendamenti. Anche qui nessuno stop. Replica alle destre il presidente della commissione Giustizia, e relatore del provvedimento, il grillino Mario Perantoni: “Le due leggi sono all’esame dell’aula perché una maggioranza le sostiene. Salvini le contrasti, se ha la forza, con argomentazioni e senza slogan. La democrazia funziona così, capisco che sia un concetto difficile da accettare per chi aspirava ai pieni poteri ma dovrà prenderne atto”. Il calendario di Montecitorio prevede il ritorno in aula il 5 luglio, ma occorre anticipare il Decreto aiuti, e perciò l’esame comincerà il 12 luglio. Draghi: “Cannabis e ius scholae non creeranno problemi al governo” di Carlo Lania Il Manifesto, 1 luglio 2022 Letta: “Sulla cittadinanza non arretriamo di un millimetro”. Ma poi apre a possibili cambiamenti. La discussione slitta di una settimana. La Lega ha già pronti 1.500 emendamenti. “Forse sono ottimista ma sono certo che le diversità di vedute su ius scholae e cannabis non porteranno nessun problema per il governo”. Al termine del consiglio dei ministri Mario Draghi prova a raffreddare gli animi della sua maggioranza, resi incandescenti dall’arrivo in aula di due disegni di legge riguardanti la riforma della cittadinanza e la possibilità di coltivare in casa fino a quattro piantine di cannabis per uso personale. Due provvedimenti parlamentari, ricorda non a caso il premier, sui quali il governo non ha alcun titolo per intervenire. Entrambi argomenti, però, contro i quali Lega e Fratelli d’Italia hanno subito alzato barricate con la prima che, pur di ottenerne il ritiro, è arrivata a ventilare una crisi di governo. Proclami a parte, almeno per ora invece la ventilata crisi sembra rinviata. La discussione sui due ddl, cominciata solo due giorni fa, è slittata alla prossima settimana su richiesta del Pd. La mossa è tutt’altro che una ritirata visto che servirebbe a impedire che i due provvedimenti finiscano in coda ai lavori dell’aula, come assicura la dem Debora Serracchiani a proposito della cittadinanza: “Il rinvio dell’esame del provvedimento sullo ius scholae ci consente di continuare ad averlo nel calendario di luglio”, spiega la capogruppo alla Camera. “Diversamente avendo la precedenza i lavori della commissione sul dl Aiuti che deve essere mandato al Senato, lo ius scholae sarebbe finito in coda all’intero calendario di luglio già predisposto, mettendo a rischio il via libera”. In questo modo, invece, la discussione riprenderà il 5 luglio con l’obiettivo di arrivare al voto entro la fine del mese. “Nessun cedimento”, promette Serracchiani. Oggetto dello scontro è soprattutto lo ius scholae, la possibilità per i figli di immigrati nati nel nostro Paese o che vi sono arrivati prima di aver compiuto i 12 anni di diventare cittadini italiani al termine di un ciclo di studi di 5 anni. Enrico Letta ne ha parlato ieri intervenendo nella direzione del partito. “Rimango senza parole se si pensa di fare cadere governo se non si vogliono dare dei diritti”, ha detto il segretario. “Il metodo della Lega e di Salvini è incomprensibile: è un tema parlamentare, non di governo”. E poi: “Cosa avremmo dovuto fare noi quando cadde il ddl Zan?” ha chiesto riferendosi alla legge contro l’omotransfobia bloccata al Senato. Quindi la promessa: “Sullo ius scholae non arretriamo di un millimetro”, dsalvo poi aggiungere: Siamo pronti a discutere, siamo aperti ai cambiamenti necessari ma non diamo un’altra volta a questi giovani italiani la speranza frustrata”. La stessa apertura fatta proprio con il ddl Zan e pericolosa visto come è andata a finire. Chi a discutere non ci pensa proprio è la Lega. Per Matteo Salvini la riforma della cittadinanza è soprattutto un’occasione per tornare ad attaccare sull’immigrazione, specie dopo i risultati delle amministrative. “Mentre gli italiani hanno problemi di stipendi troppo bassi e bollette troppo alte, la sinistra blocca il parlamento con leggi per legalizzare le droghe e regalare cittadinanze agli immigrati”, è tornato a ripetere anche ieri. Al di là delle parole, lo scontro vero si avrà in aula a partire dalla prossima settimana, con la Lega che ha già depositato 1.500 emendamenti allo ius scholae: “Faremo di tutto per evitare che l’attuale legge sulla cittadinanza venga stravolta da questo scempio” ha promesso il leghista Igor Iezzi, relatore di minoranza della legge. Sbarra (Cisl): “Sono maturi i tempi per introdurre lo Ius Scholae” di Carlo Forte Il Dubbio, 1 luglio 2022 “Grazie a Mohamed Saady per aver guidato l’Anolf Cisl per tanti anni con una carica unica di umanità e di empatia”. Maria Ilena Rocha è stata eletta nuovo presidente. “I tempi sono maturi nel nostro paese per dare vita a nuovi e più inclusivi percorsi di integrazione fondati sulla responsabilizzazione ed l’inclusione sociale. Penso in particolare all’opportunità di introdurre anche in Italia quella particolare forma di Ius culturae che è lo Ius Scholae che permetta a bambini e bambine figli di migranti di richiedere la cittadinanza una volta compiuto in Italia un ciclo di studi”. È quanto ha sottolineato ieri il Segretario Generale della Cisl, Luigi Sbarra intervenendo al Consiglio Generale dell’Anolf Cisl, riunito a Roma per eleggere Maria Ilena Rocha, nuovo presidente dell’associazione cislina che si occupa dell’accoglienza ed integrazione dei lavoratori stranieri nel nostro paese. È stata una giornata di grande festa e di soddisfazione per i tanti dirigenti e militanti di questa importante struttura di proselitismo della Cisl. “Maria Ilena è una giovane e preparatissima dirigente a cui va tutto il nostro sostegno. Sono certo che la sua affermazione darà all’Anolf una prospettiva nel solco del rinnovamento e della competenza”, ha aggiunto Sbarra che ha poi ringraziato Mohamed Saady per aver guidato l’Anolf Cisl per tanti anni con una “carica unica di umanità e di empatia, consolidando il protagonismo dell’Anolf, confermandola riferimento per tante migliaia di persone nel nostro Paese. Una esperienza vera di solidarietà associativa, una rete viva e capillare, che oggi conta quasi 100 strutture, anche fuori dall’Italia”. Il leader della Cisl ha sottolineato ieri la necessità di una politica migratoria che promuova sempre più ingressi legali nel nostro Paese. “Va cambiato il regolamento di Dublino ed incentivate le positive esperienze dei corridoi umanitari. L’Italia deve, per conto suo, adottare una politica migratoria che abbia una visione lungimirante, basata sull’accoglienza e sulla valorizzazione dell’interculturalismo, a cui tanto può dare anche la contrattazione, specialmente decentrata”, è stato il ragionamento del numero uno della Cisl che ha altresì ricordato che “sono oltre 800 mila gli alunni con cittadinanza straniera che si formano nelle nostre scuole, parlano l’Italiano e persino il dialetto, giocano e sono amici dei nostri figli. Ragazze e ragazzi a cui fino a 18 anni è negata la possibilità di richiedere la cittadinanza italiana, con il paradosso che per i genitori bastano 10 anni. Ecco perche’ noi diciamo sì a una riforma di civiltà, su sui non si devono scatenare lotte ideologiche e sterili strumentalizzazioni tra le forze politiche. Un grande Paese come il nostro deve includere e non escludere. E i processi di inclusione ed integrazione devono passare anche attraverso la possibilità formale per bambini e bambine, ragazzi e ragazze di prima o seconda generazione di poter far parte a pieno titolo della comunità nazionale”. Parole forti e chiare quelle di Sbarra, in coincidenza temporale con il dibattito politico in corso nel paese sul tema dello Ius Scholae, ma coerenti con la linea portata avanti dalla Cisl in questi anni sul riconoscimento della cittadinanza alle seconde generazioni. Nel suo saluto all’Anolf, Mohamed Saady (che oggi è anche Segretario Nazionale della Fai Cisl) ha ripercorso, non senza un pizzico di emozione, il suo lungo percorso nell’Associazione cislina, fin dai primi anni novanta, insieme ad Oberdan Ciucci ed altri dirigenti cislini. Un cammino improntato sempre sulla valorizzazione della persona e sulla tutela dei diritti di migliaia di lavoratori stranieri presenti nel nostro paese. La neo Presidente Maria Ilena Rocha, eletta ieri in questa carica all’unanimità, ha valorizzato la grande unità dell’Anolf ed il ruolo centrale delle politiche di accoglienza e di inclusione che l’Associazione cislina continuerà a portare avanti, potenziando ed allargando la sua rete associativa anche nelle sedi all’estero. In classe gli immigrati sono già italiani di Sabrina Efionay La Stampa, 1 luglio 2022 Più consapevolezza significa più apertura, più diffusione di una necessità significa maggiore consenso. È fondamentale spiegare e comprendere che si parla di persone che fanno parte integrante del tessuto sociale italiano, quando si parla di italiani senza cittadinanza. Forse è la prima, se non una delle prime volte, che una questione così tanto divisa per gli italiani stessi ha trovato una via di mezzo che mette d’accordo quasi tutti: lo Ius Scholae. Solo che in gioco c’è la vita di quasi un milione di italiani senza cittadinanza, un numero irrisorio che sembra crescere ogni anno con gli iter burocratici sempre più complessi o falle che compaiono da ogni dove. E ottenere un diritto, come quello di essere riconosciuto in quanto italiano perché si è passata la maggior parte della propria esistenza o addirittura nati in questo paese, diventa una delle sfide più controverse mai affrontate. Lo Ius Scholae è quello di cui avevamo bisogno oggi per poter quanto meno mettere nuovamente sul tavolo il discorso della cittadinanza e del non riconoscimento dell’identità italiana, il primo passo di una maratona. Bambini nati in Italia ma da genitori senza cittadinanza italiana, ad oggi, possono richiederla solo al compimento dei diciotto anni e sperare di ottenerla il prima possibile; tempi che possono arrivare a pochi mesi, nei migliori dei casi, o, nel peggiore dei casi, anche ad anni. Anni di attesa per la cittadinanza italiana non è solo la sintesi di non essere italiani, ma è un quadro che comprende non poter esercitare il diritto al voto, partecipare a concorsi pubblici, viaggiare in determinate parti del mondo. Non parliamo di una semplice condizione formale, ma di vantaggi per il cittadino di natura civile e politica. E, cosa non meno importante, l’opportunità di lasciar essere italiani ragazzi e ragazze che per tutta la vita rischiano di essere bloccati tra due identità e due paesi e che vivono nel terrore di non poter chiamare casa nessun posto. Molto spesso questi ragazzi sono figli di immigrati che non hanno mai visto il paese d’origine dei loro genitori, ma vengono descritti e riconosciuti come cittadini di quei paesi lontani. Non sono stranieri, ma senza cittadinanza all’università vengono registrati come extracomunitari. Nonostante non ci sia nulla che li differenzi realmente dagli altri, sono costretti a file interminabili, nella grande maggioranza dei casi anche ogni anno, per il rinnovo di un permesso di soggiorno che gli permetta di restare nello stesso paese in cui sono nati. Abbiamo bisogno che la cittadinanza ai figli degli stranieri nati e cresciuti in Italia diventi un diritto, non un merito, non una medaglia e non qualcosa da conquistare. Lo Ius Scholae apre una finestra su una risposta a questo bisogno, mettendo un freno alle lunghe attese e alle incertezze che per anni hanno visto protagonisti milioni di ragazzi e bambini. Le loro vite, fatte di passioni sogni e lavori futuri, vengono messe a rischio quando non si sentono riconosciuti, quando al tempo stesso vivono facendo da ponte di responsabilità tra la cultura italiana che appartiene loro e quella straniera dei loro genitori. Riconoscerli come cittadini italiani attivi, anche dopo un ciclo scolastico, è un primo riconoscimento di grandissima importanza per loro che non hanno nulla da invidiare ai propri compagni già italiani per Ius Sanguinis. Nati nello stesso ospedale, sotto la stessa stella, imparando a parlare la stessa lingua e diplomandosi allo stesso istituto superiore: uno è italiano, l’altro no. Oggi è inevitabile una riforma della legge sulla cittadinanza, in modo che queste vite non vengano più viste come invisibili, in un’Italia madre che non ha ancora riconosciuto i suoi figli che dice di amare e che la amano. Il caso Assange e la democrazia in tempi di guerra di Gianni Marilotti* Il Manifesto, 1 luglio 2022 Al Consiglio d’Europa. Il Diritto alla Conoscenza riguarda il futuro di tutti noi, di tutti noi democratici: in gioco vi è la formazione di possibili alternative nei processi decisionali che devono essere dibattute apertamente in un confronto adeguato, nei luoghi legittimi per orientare il più possibile le scelte politiche e prevenire decisioni sbagliate. Pochi giorni fa il ministro dell’Interno britannico, Priti Patel, ha autorizzato L’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti dove lo aspettano una detenzione preventiva indefinita in un carcere di massima sicurezza, un processo sulla cui regolarità e trasparenza vi sono più ombre che garanzie, una condanna a 175 anni di reclusione e nessuna possibilità di riduzione della pena. Un anno fa, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (Apce) ha adottato a stragrande maggioranza un rapporto curato dal collega Rampi con cui è stato riconosciuto il diritto alla conoscenza. Diritto che si intreccia con la libertà di stampa, sia on-line che off-line, e con la cultura democratica. La scorsa settimana, poco dopo la decisione della Patel che, assieme a molti colleghi parlamentari, giornalisti, analisti, semplici cittadini, ritengo del tutto ingiusta, ho preso parte al dibattito nella plenaria dell’Apce sul Rapporto Reiss. Esso mira a rafforza la libertà di stampa e sono soddisfatto per aver inserito con successo alcuni emendamenti che denunciano l’effetto intimidatorio contro i giornalisti derivante dall’estradizione e il pericoloso precedente che questa creerebbe. Già il 20 febbraio 2020, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, si era espressa contro l’estradizione perché la potenziale estradizione di Julian Assange avrebbe implicazioni sui diritti umani che vanno ben oltre il suo caso individuale. L’accusa solleva importanti interrogativi sulla protezione di coloro che pubblicare informazioni riservate nell’interesse pubblico, comprese quelle che espongono violazioni dei diritti umani. (…) qualsiasi estradizione a una situazione in cui la persona coinvolta sarebbe a rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante sarebbe contrario all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il Diritto alla Conoscenza riguarda il futuro di tutti noi, di tutti noi democratici: in gioco vi è la formazione di possibili alternative nei processi decisionali che devono essere dibattute apertamente in un confronto adeguato, nei luoghi legittimi per orientare il più possibile le scelte politiche e prevenire decisioni sbagliate. Ciò è stato sintetizzato anche nel Rapporto della Commissione d’inchiesta Chilcot creata nel 2009 su impulso governativo nel Regno Unito a seguito dello scellerato attacco militare all’Iraq nel marzo 2003. Il Rapporto finale, del 2016, definisce l’intervento in Iraq come affrettato, sanguinoso e destabilizzante; era possibile considerare altre opzioni pacifiche prima di scatenare la guerra, era possibile contenere Saddam Hussein. Le circostanze nelle quali il Governo Blair stabilì l’esistenza di un fondamento legale per l’azione militare sono tutt’altro che soddisfacenti. I servizi segreti non avevano stabilito al di là di ogni ragionevole dubbio che Saddam fosse in possesso di armi di distruzione di massa. Secondo Chilcot non è vero che non si poteva prevedere la rapida ascesa del terrorismo. Blair fu messo in guardia sulla minaccia che le attività di al Qaeda, in seguito all’invasione, potessero aumentare. È l’amaro paradosso della vicenda Assange: da un lato c’è il fondatore di Wikileaks che rischia l’ergastolo per aver agito da giornalista portando alla conoscenza fatti tragici e violazioni dei diritti umani; dall’altro c’è chi non corre alcun rischio nonostante abbia mentito, ingannato, distrutto, destabilizzato Paesi e, non ultimo, il funzionamento e il prestigio della democrazia parlamentare. Nel 1961, il Presidente americano Eisenhower mise in guardia contro il complesso militare industriale. Un attualissimo discorso di commiato alla nazione in cui affermò: “Non dobbiamo dare nulla per scontato, solo una cittadinanza vigile e consapevole può contribuire all’integrazione dell’enorme complesso militare industriale con i nostri metodi e obiettivi pacifici, così che sicurezza e libertà possano prosperare insieme. *Senatore del gruppo Pd, presidente commissione Archivio e Biblioteca del Senato Più soldi e più soldati: è la nuova Nato, non in guerra ma neanche in pace di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 1 luglio 2022 Come vincere la guerra senza farla? È la risposta a questa domanda d’emergenza che il vertice Nato chiuso ieri a Madrid - 40 anni dopo l’entrata della Spagna nell’Alleanza, che allora aveva suscitato molta contestazione - ha cercato di definire, camminando su un crinale sottile Travolti dall’attualità, come già al G7 appena concluso a Elmau in Baviera, i paesi Nato hanno avuto una sola risposta: “investire nella Nato” per far fronte alla guerra riapparsa in Europa. Anche se, ha frenato Emmanuel Macron, “la Nato non è in guerra” ma “il continente europeo non è più in pace” e “la Russia porta da sola la responsabilità di questa guerra e delle conseguenze gravi che impone al mondo intero”. Per l’Ucraina c’è l’assicurazione che l’aiuto durerà “fino a quando sarà necessario”, anche se il paese non è membro Nato. Più soldi, dunque, per le armi: un aumento del budget “considerevole” ha detto il segretario della Nato, Jens Stoltenberg. Boris Johnson ha affermato che l’investimento nella Difesa britannica salirà al 2,5% del pil nel 2030, l’ospite Pedro Sanchez ha assicurato che la Spagna porterà al 2% la spesa militare a causa del “cambiamento tettonico” causato dalla guerra in Ucraina, la Germania ha già portato a 100 miliardi la spesa militare (calcolata fuori dal budget dello stato). Joe Biden ha annunciato altre armi all’Ucraina per 800 milioni, per rafforzare la difesa aerea, e si è impegnato a vendere dei caccia F-16 alla indisciplinata Turchia, che ottiene quello che vuole mercanteggiando la rinuncia al veto sull’ingresso di due ex paesi neutrali, Svezia e Finlandia, con l’arrivo di nuove armi e la testa dei rifugiati curdi e dei dissidenti politici fuggiti in quei paesi, per ora una lista di 33 nomi. Per la vendita di F-16 alla Turchia ci vuole l’accordo del Congresso, ma Biden è fiducioso di “poterlo ottenere”. Erdogan fa pesare anche il ruolo che può avere per sbloccare i cargo di cereali nel Mar Nero, il cui blocco è minaccia alla sicurezza alimentare mondiale. Intanto, Svezia e Finlandia hanno firmato un memorandum che impegna sulla “cooperazione nella lotta al terrorismo”. Macron però ricorda: “Non spetta alla Nato definire chi è terrorista e chi non lo è”. Più soldati: 300mila uomini in più sul fronte orientale per agguerrire la difesa terrestre, marittima e aerea. Per Italia e Germania ci sarà un sistema di difesa aereo, per la Spagna due cacciatorpediniere nel porto di Rota. In Polonia è già stata inaugurata una base permanente, un posto di comando avanzato che avrà 10mila uomini. Aumenta la presenza Nato in Romania e nei Baltici. La Germania e la Spagna si preparano a fornire dei carri Leopard all’Ucraina, dopo i Caesar francesi e la profusione di armi anglosassoni. La Nato ha presentato lo Strategic Concept, il nuovo piano a lungo termine dell’Alleanza, che non era stato rivisto dal 2010. Allora, la Nato si era illusa su una possibile “partnership strategica con la Russia”. Oggi la Russia è “la più importante e la più diretta sfida” per la Nato. Che per la prima volta cita nel documento finale anche la Cina, considerata “una sfida” per “interessi, sicurezza, valori” occidentali, che si “impegna a minare l’ordine internazionale”. La Nato, a questo stadio, vuole evitare che il riavvicinamento Russia-Cina sia inevitabile. Il nuovo Strategic Concept deve tener conto dell’evoluzione recente della difesa europea, lo Strategic Compass varato a marzo, un obiettivo di rafforzamento per far fronte al rischio di un disimpegno Usa, che malgrado il dispiegamento ora in aumento in Europa a causa della guerra in Ucraina, guarda prima di tutto alla Cina. Ancora ieri Biden ha insistito sulla “sfida sistemica” rappresentata da Pechino. Il documento finale Nato afferma che Nato e Ue hanno “ruoli complementari, coerenti e che si rafforzano mutualmente” e insiste sul “valore” della difesa europea “più forte e più capace” per “contribuire positivamente alla sicurezza globale e transatlantica”. La Nato infine ha firmato ieri una partnership con Tunisia e Mauritania per la lotta al terrorismo (islamico). Invece, la Spagna non ha ottenuto la garanzia Nato sull’applicazione dell’articolo 5 (la norma “attacchi uno, attacchi tutti”) per Ceuta e Melilla. E alla Georgia è stato detto che dovrà aspettare per diventare membro Nato (come per la Ue). L’indulgenza verso Erdogan rivela l’ipocrisia dell’occidente di Piero Ignazi Il Domani, 1 luglio 2022 Curdi al macello per compiacere il “dittatore” Erdogan? Il presidente della Turchia venne definito tale per non aver assegnato la poltrona al suo fianco alla presidente dalla commissione Ue Ursula von der Leyen in occasione di un meeting a Istanbul. Mentre su questo sfregio al galateo diplomatico si sono spese milioni di parole indignate, non si trova un rigo sui dieci anni comminati ad una oppositrice come Canan Kaftancioglu, sul carcere a vita all’attivista per i diritti civili Osman Kavala, difensore di Gezi Park dalla speculazione edilizia, sulle decine di giornalisti incarcerati tanto che nella classifica di Reporters sans frontières del 2020 la Turchia era valutata più repressiva della Russia, classificate rispettivamente al 149° e al 154° posto. La Turchia di Ergodan continua a essere un paese fuori categoria tra i membri Nato non solo per sua politica interna autoritaria quanto per la sua politica estera: è l’unico paese che, pur essendo parte di una alleanza militare come la Nato, acquista armamenti dal nemico russo, i missili antiaereo S-400. Senza che questo provochi alcuna sanzione (Se l’avesse fatto il governo Conte cosa sarebbe successo?). La Turchia ha anche spadroneggiato nel Mediterraneo: la sua marina ha fatto sloggiare da acque internazionali le navi dell’Eni che erano alla ricerca di giacimenti di idrocarburi. La Francia gli ha poi fatto capire le ragioni della forza. Poi, in Libia continua a fare una partita a sé, indipendentemente da qualsiasi intesa con gli alleati atlantici. Di fronte a un regime di tal fatta, amareggia e sconcerta che un paese di grande tradizione liberale come la Svezia pur di accedere alla Nato abbia chinato la testa e accettato le pretese di Erdogan di avere per le sue carceri dei militanti del partito curdo Pkk, rifugiati nel paese scandinavo (e lo stesso vale per la Finlandia). La stessa Svezia si è dichiarata favorevole ad eliminare l’embargo delle armi alla Turchia senza che fossero venute meno le ragioni della precedente decisione. Il che significa, implicitamente, il via libero dell’Occidente libero e democratico ad una ulteriore invasione del kurdistan siriano. Evidentemente alcuni paesi possono invadere, e altri essere invasi, con il nostro plauso. Seguendo questo doppio binario, non si può pretendere di innalzare l’Occidente e la Nato a baluardo della civiltà. Meglio abbassare i toni. C’è un vasto mondo al di là del G7 che ci guarda perplessi e non è più disposto ad accettare la supremazia dei nostri valori, tanto più se li sventoliamo solo a giorni alterni, in base alla nostra convenienza. Non si può essere leader morali del mondo con queste ambiguità (e molti aspettano ancora un mea culpa sull’invasione dell’Iraq e su Guantánamo). Stati Uniti. I giudici della Corte Suprema sostituiscono i politici nella crociata culturale di destra di Gianni Riotta La Repubblica, 1 luglio 2022 La sentenza che impedisce all’Epa di promulgare misure di protezione dell’ambiente, senza autorizzazione del Congresso, fa della Corte Suprema il forum guida dei conservatori. “Primavera silenziosa”, classico saggio di Rachel Carson che denunciava la strage ecologica seguita all’uso dei pesticidi, ddt in testa, apparve negli Stati Uniti nel 1962 (poi tradotto da Feltrinelli), aprendo la crisi di coscienza americana sull’ambiente. Otto anni dopo, il presidente Nixon, conservatore repubblicano, vara l’Epa, Environmental Protection Agency, cosciente che l’opinione pubblica, in quel cruciale 1970, fosse solidale con il disegnatore satirico Walt Kelly, che faceva dire al suo personaggio Pogo, il saggio opossum, davanti alla palude di Okefenokee, in Florida, rovinata dall’inquinamento: “Abbiamo incontrato il nemico e siamo noi”. La sentenza della Corte Suprema che impedisce all’Epa di promulgare misure di protezione dell’ambiente, senza previa autorizzazione del Congresso, azzera ora il sentimento comune Usa, custodire il paese compreso “dal mare al mare scintillante”, come nei versi classici dell’inno “America the Beautiful”, il feeling capace di arruolare il duro Nixon, la studiosa Carson, l’artista Kelly e milioni di cittadini. Al di là della natura, del ridurre l’Epa a semaforo burocratico azionato o spento dagli umori politici di Washington, della possibilità per gli stati repubblicani di tornare al carbone delle vetuste miniere a ovest della Virginia, la sentenza di ieri, i sei giudici di destra contro i superstiti tre liberal, dopo lo stop all’aborto dei giorni scorsi, fa della Supreme Court il forum guida delle destre. Dal XVII secolo, nella common law della giurisprudenza anglosassone, uno dei cardini fondamentali è il principio “stare decisis”, rispetto per le sentenze pregresse, e nella Supreme Court, il motto “stare decisis et non quieta movere” era cruciale, come toga nera e carica a vita. Non più. I tre giudici nominati dall’ex presidente repubblicano Donald Trump, record raro in soli quattro anni alla Casa Bianca, grazie anche all’ostruzionismo opposto a Obama dall’allora capo del Senato McConnell, hanno deciso, guidati dall’attivista veterano Alito, di sradicare l’America liberal e le conquiste sui diritti degli anni Sessanta. Non è solo revanche politica, non è nemmeno solo la lettura “originalista” della Costituzione, che si illude di interpretare la carta fondativa nel modo restrittivo inteso dai Padri Fondatori. È, soprattutto, crociata culturale, reimporre all’America un canone tradizionalista, familista e autoritario. Gli stati liberal, dalla California a New York, reagiranno con le proprie regole, il presidente Biden proverà a mobilitare gli elettori al voto di novembre a Midterm, ma lo scontro fra le due Americhe riaperto dalla Corte non si fermerà, fino al successo di una delle due parti, o a un compromesso raziocinante che, per ora, non ci sembra prossimo. La Tunisia appesa alla “Costituzione” del presidente golpista Kais Saied di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 1 luglio 2022 Il Paese nel precipizio della crisi sociale ed economica. “La necessità di un uomo forte al potere è la malattia d’infantilismo del terzo mondo”, mi ripeteva un noto intellettuale algerino Mustafa Lacheraf. E purtroppo la storia ce lo conferma. È il caso ora anche della Tunisia, il paese che sembrava aver tratto maggior profitto dalla rivoluzione del 2011, rispetto alle altre rivolte arabe. Il protagonista del ritorno ai poteri forti è l’attuale presidente Kais Saied. Eletto nel 2019 senza l’appoggio di un partito e di un programma, sull’onda del discorso populista di ridare il potere al popolo, si presentava come un uomo onesto di cui ci si poteva fidare. E invece più che come un politico in grado di risolvere i problemi del paese ha approfittato del sostegno popolare per imporre una deriva autoritaria. E sarà proprio il 25 luglio, anniversario del suo “quasi-golpe”, che un referendum sulla nuova costituzione dovrà legittimare l’assunzione dei pieni poteri con l’instaurazione di una Repubblica presidenziale. “Che si tratti di un sistema presidenziale o parlamentare non conta. Quello che conta è che il popolo abbia la sovranità. Per il resto si tratta di funzioni e non di potere”, ha affermato il presidente. Il testo della costituzione che doveva essere pubblicato ieri, e forse lo sarà entro la mezzanotte, sarà sottoposto a un referendum senza nemmeno aver fissato il quorum necessario per l’approvazione, basterà una maggioranza di sì. E a questo referendum si prevede una scarsa partecipazione, come ha affermato Raja Jabri, presidente dell’osservatorio elettorale Mourakiboun, anche “per uno scarso coinvolgimento degli elettori nella discussione del testo da convalidare”. Infatti il dibattito, prima ancora dell’ufficializzazione del testo, si è già incentrato sul referendum. Del resto la Costituzione, che dovrebbe sostituire quella del 2014 elaborata sull’onda della rivoluzione, è stata redatta da una Commissione che escludeva i partiti, vera bestia nera di Kais Saied, in sole tre settimane. La Commissione redattrice che doveva coinvolgere associazioni e personalità è stata però disertata dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (la potente Ugtt) e da molti esperti perché ritenevano che il testo fosse già stato scritto dal presidente. Il sindacato è anche tornato in piazza con uno sciopero generale proclamato per le imprese pubbliche, il 16 giugno, per protestare contro le misure che il Fondo monetario internazionale vuole imporre alla Tunisia. Tra l’altro, uno dei pilastri della nuova costituzione dovrebbe essere la limitazione dell’intervento dello stato a favore della libera impresa. La Costituzione del 2014 prevedeva un sistema bicefalo e imperfetto attribuendo poteri forti sia al presidente eletto con suffragio universale che al parlamento. Un parlamento spesso paralizzato dalla ricerca di alleanze tra i diversi partiti. A questo si sono aggiunti scandali e corruzione che hanno minato la credibilità dei politici. Anche di queste debolezze ha approfittato il presidente per assumere tutti i poteri e sciogliere il parlamento. Ma l’opposizione ha cominciato a opporsi alla deriva autoritaria. Anche i magistrati hanno scioperato per quattro settimane consecutive per protestare contro la rimozione di 57 di loro da parte del presidente. Tra le questioni sollevate dalla costituzione e molto dibattuta vi è quella della eliminazione dal nuovo testo dell’”islam religione di stato”. Non si tratta come si potrebbe supporre di separare la politica dalla religione, ma di collocare la Tunisia all’interno della Nazione-Umma, la comunità definita dalla sua identità arabo-musulmana. Lo scontro ora si gioca intorno al concetto di nazione, mentre per i laici la Tunisia è uno stato-nazione per gli islamisti è un’entità che fa parte di un’ampia comunità islamica (Umma) che si estende dall’Atlantico al Pacifico. Quindi “Lungi dall’emancipare il campo giuridico dall’imperativo religioso, questo progetto mira in realtà a rinstaurare il religioso, come il mantenimento dell’islamità del presidente…”, sostiene in un lungo e documentato articolo Sana Ben Achour, avvocata e femminista, pubblicato da Leaders. Saied non aveva mai nascosto le sue posizioni, subito dopo l’elezione aveva cominciato a frequentare assiduamente le moschee. Nei discorsi pubblici cita spesso versetti del corano, deplora i cattivi costumi e accusa l’opposizione di apostasia. Secondo l’analista Raouf Ben Hédi, “Kais Saied sta riuscendo da solo a realizzare quello che gli islamisti di Ennahdha, gli estremisti di Hizb Ettahrir e i terroristi salafiti d’Ansar Chariaa non sono riusciti a fare”. Tuttavia, Saied aveva tratto in inganno con la sua feroce opposizione a Ennahdha. E mentre sta per varare la sua costituzione diversi leader islamisti, tra cui il fondatore di Ennahdha Rachid Ghannouchi, sono accusati da un giudice dell’antiterrorismo “di appartenenza a una organizzazione terrorista e di riciclaggio di denaro”.