Con la crisi la giustizia resta al palo di Errico Novi Il Dubbio, 19 luglio 2022 I testi attuativi delle maxi riforme finirebbero in freezer fino alla prossima legislatura. Nel d-day del governo sarebbe dovuta approdare in aula al Senato anche la legge che tutela le retribuzioni dei professionisti, e che ora rischia il naufragio. Doveva essere una giornata importante, per i professionisti: mercoledì prossimo, nell’aula di Palazzo Madama, sarebbe attesa la legge sull’equo compenso, con le nuove tutele retributive per le categorie ordinistiche. In realtà di qui a poche ore si consumerà uno dei passaggi chiave degli ultimi anni per la politica stessa. Ed è inevitabile che il provvedimento rivolto alle libere professioni, nella migliore delle ipotesi, dovrà passare alla discussione dell’Aula in un altro momento. Nella migliore delle ipotesi: perché nella peggiore, se cioè l’addio di Mario Draghi a Palazzo Chigi non fosse scongiurato, né la maggioranza trovasse un successore, l’equo compenso, al pari di altre leggi ancora da approvare, naufragherebbe: andrebbe perso dunque il via libera ottenuto dal testo a Montecitorio nello scorso mese di ottobre. E immaginare che, nella prossima legislatura, la materia possa essere ripresa senza particolari perdite di tempo è da ingenui. Sulle norme tutt’ora nelle mani del Senato, la convergenza politica è instabile, e vede ad esempio Pd e 5 Stelle schierati per introdurre modifiche rispetto alla versione passata alla Camera. Oggi come oggi vorrebbe dire un’altra incertissima lettura parlamentare, in proiezione futura significa che un’eventuale nuova maggioranza uscita dalle urne rischia di partire, sulla questione, ampiamente divisa. E in fondo l’incognita avvalora la posizione assunta a maggio da gran parte delle rappresentanze forensi, che avevano chiesto ai senatori di far presto e approvare la legge senza modifiche in modo da non infilarsi in un tunnel di incertezze: Cnf, Ocf, Cassa forense, Aiga e diverse associazioni specialistiche dell’avvocatura avevano diffuso, due mesi fa, una nota congiunta proprio con quella raccomandazione. Altre componenti del mondo forense - alcuni Ordini come quello di Roma e alcune associazioni come l’Anf - si erano invece schierate per il restyling. Ma le vicende delle ultime ore dimostrano che, quando la legislatura si avvicina al termine, il “meglio” rischia di essere davvero “peggio del bene”. Nel caso dell’equo compenso c’è una coincidenza particolarmente sfortunata: se la commissione Giustizia del Senato avesse votato solo qualche settimana prima il mandato al relatore Emanuele Pellegrini (della Lega), ora le nuove norme sui professionisti sarebbero in Gazzetta ufficiale. Ma si possono comunque citare diversi altri provvedimenti destinati a restare in freezer. Sul fronte della giustizia basti ricordare i decreti legislativi che devono attuare diverse previsioni contenute nei tre ddl delega: vale a dire le le riforme del Csm, del civile e del penale. Se si entra in una fase sclerotica della legislatura, il governo (in carica per i soli affari correnti) non potrebbe emanare quei provvedimenti. Resterebbero per esempio imprecisate le nuove regole per le impugnazioni nel penale, cosi come le modalità di esercizio del voto, da parte degli avvocati, nei Consigli giudiziari (all’interno della riforma del Csm). Certo, diversamente da quanto avviene con le leggi, l’efficacia della delega, nel passaggio da una legislatura all’altra, non svanirebbe, ma peserebbero, e molto le incognite politiche. E comunque si produrrebbe un danno non indifferente in vista del Pnrr. Inoltre, le riforme Cartabia vanno completate anche per dare senso alle tante novità introdotte: nel caso del civile, per esempio, richiedono misure di dettaglio anche le norme sugli incentivi alle Adr. Che altrimenti resteranno sulla carta. Ma, sempre per rendere l’idea dell’impatto pesante, anche sul fronte giustizia, di una crisi di governo, si può citare da ultimo un’altra legge che il Senato in teoria dovrebbe licenziare a breve, di sicuro entro novembre: quella sull’ergastolo ostativo, che la Corte costituzionale sollecita al Parlamento dall’11 maggio dell’anno scorso. È vero che il testo approvato a Montecitorio, e ancora all’esame della commissione Giustizia di Palazzo Madama, è infarcito di tagliole, per i condannati al “fine pena mai”. Verrebbe quasi da dire che in questo caso l’eventuale naufragio della legge sarebbe, al contrario, provvidenziale. Se non fosse che le Camere uscite dalle future elezioni politiche potrebbero fare perfino peggio. E che comunque, agli ergastolani ostativi “non collaboranti” non resterebbe neppure quel sottilissimo spiraglio previsto nel testo attuale. “Abbassare l’età imputabile è una sciocchezza: i giovani vanno inclusi, non esclusi” di Simona Musco Il Dubbio, 19 luglio 2022 Il dramma della dodicenne accoltellata al volto a Napoli da un ragazzo di soli 16 anni ha riaperto il dibattito sull’età imputabile per i ragazzi, dividendo i commentatori tra chi ritiene sia giusto scendere sotto la soglia dei 14 anni e chi difende il limite fissato dal legislatore. E tra questi ultimi c’è Nicola Quatrano, storico magistrato anticamorra del Tribunale di Napoli e oggi avvocato, secondo cui i fenomeni di violenza minorile sono frutto di un disagio che si alimenta di esclusione sociale. E ritenere dei bambini responsabili penalmente delle proprie azioni equivale proprio a questo: buttarli fuori dalla società, mentre ciò che serve è protezione. Il presidente del Tribunale minorile di Napoli Giancarlo Posteraro propone di affrontare il problema della violenza giovanile abbassando l’età imputabile. È una proposta utile? Queste proposte sono ricorrenti. Sembra il gioco dell’estate, ma se ne potrebbe fare a meno. Queste risposte ai fenomeni di criminalità giovanile lasciano il tempo che trovano: ci sono ragioni serissime per fissare a 14 anni l’età dell’imputabilità. E sono ragioni complesse, frutto di esperienze, studi clinici e scientifici: secondo queste ricerche è quella l’età in cui si diventa responsabili e si può rispondere delle proprie azioni. E sono argomenti talmente seri che sicuramente non possono essere superati dalle boutade estive di questo o di quello. Lo spunto è dato dalla vicenda della ragazzina di 12 accoltellata al volto, ma a compiere il gesto è stato un ragazzo di 16 anni, dunque queste proposte non hanno nemmeno a che fare con il caso concreto. Ma cosa comporterebbe? Intanto credo sia sbagliato partire dal caso concreto per pretendere di modificare il sistema normativo e adeguarlo al singolo fatto. Non si può fare. In merito alle conseguenze, voglio proporne provocatoriamente una tra quelle possibili: se noi abbassiamo l’età di imputabilità sotto i 14 anni, allora andrebbe abbassata anche quella del consenso sessuale. Se si è responsabili allora lo si è in entrambi i casi. Questi signori che pretendono di mettere in galera i ragazzini di 12 anni che fanno cose che non vanno dovrebbero dunque accettare anche che alla stessa età si possa avere un rapporto sessuale con un adulto: siamo sullo stesso piano. Ovviamente, ribadisco, è una provocazione, ma dà il senso immediato di questa proposta. A 12 anni, però, un bambino non è in grado di autodeterminarsi, in entrambi i casi, perché troppo influenzabile. E non può essere considerato penalmente responsabile delle azioni che compie. Siamo in una fascia d’età che deve essere protetta, in cui il valore prioritario rispetto a tutte le altre esigenze che concorrono è quello della protezione e della formazione. E questo impone che non sia ritenuto responsabile. C’è una serie di strumenti, anche applicabili al minore di 14 anni in termini di interventi sociali e correttivi. Ma la responsabilità penale è impensabile. C’è comunque un’emergenza: nella sola Campania in un anno 5mila ragazzi sono finiti a giudizio. Come si interviene? Certo che c’è: che viviamo in un mondo violento non lo scopriamo certo oggi. Per cui occorrerebbe davvero farsi carico della violenza. Ma in quali termini? Nei confronti degli adulti si interviene con metodo repressivo, nei confronti dei bambini si interviene con metodo educativo e con l’assistenza sociale. Però i dati sugli assistenti sociali sono impietosi: in alcuni comuni, specie al Sud, ce n’è uno solo per un’intera comunità. Da cosa bisogna partire? Non sono un pedagogista, ma posso dirle che mi colpì molto, qualche tempo fa, in occasione di una manifestazione che si tenne alla Sanità da parte di un gruppo di cittadini che invocava più tutela e più sicurezza proprio contro la devianza giovanile, il fatto che si presentò padre Alex Zanotelli con un cartello in cui c’erano le cifre delle bocciature nella scuola di quartiere. Ed erano cifre impressionanti. L’intervento educativo, secondo me, passa per prima cosa dal non buttare fuori dalla scuola i ragazzi più complicati. Abbiamo inutilmente celebrato il centenario della nascita di don Milani: a chiacchiere lo esaltiamo, esaltiamo il suo insegnamento, dopodiché quello che è l’essenza dello stesso, cioè una scuola che si prende carico del “peggiore”, quello che ha più problemi, è del tutto dimenticato. E in un quartiere in cui si cacciano dalla scuola i bambini poi non ci si può lamentare del fatto che la violenza cresce. Cacciare dalla scuola equivale a ridurre l’età di imputabilità e spedire in carcere un bambino: sono due forme parallele di esclusione sociale, che eliminano fisicamente non il problema, bensì la persona. Tutto il resto, però, rimane invariato. C’è il rischio che ciò rafforzi le convinzioni errate che portano i ragazzini a delinquere? Per stabilirlo è necessaria una valutazione riservata agli specialisti e non vorrei aggiungermi alle vox clamantis del luglio caldo che parlano di cose di cui magari farebbero bene a non parlare. Quello che solo per buon senso mi sento di dire è che il problema non si risolve escludendo il minore dal consorzio sociale, ma cercando con tenacia, con insistenza di mantenerlo dentro il contesto sociale. Poi è chiaro che ogni minore che si sottrae alla devianza è tanto una battaglia vinta e più battaglie vinte consentono di vincere la guerra. Ma così come sono contrario all’abbassamento dell’età imputabile sono contrario anche ad allontanare dalla famiglia i figli dei camorristi: ne penso tutto il male possibile. Il presidente dell’Associazione nazionale Camera penale minorile Mario Covelli sostiene che andrebbero riformati sia l’articolo 699 del codice penale sulla detenzione e il porto di coltello sia l’articolo 4 della legge 110/ 1975 sulle armi improprie, oggi puniti solo con una contravvenzione. È d’accordo? Una migliore architettura del sistema sanzionatorio va articolata, perché l’intervento penale deve essere ragionato e ispirato alla riduzione del danno. Quindi mi pare ragionevole l’idea di intervenire in questo senso, come suggerisce Covelli. Però questo mi fa pensare un’altra cosa: il dibattito sulla riduzione dell’età imputabile non fa i conti con la facilità con cui si riesce ad ottenere un’arma da fuoco. Negli Usa ci si batte per cercare di controllare il mercato delle armi e per una parte politica è diventata la battaglia principale per ridurre gli episodi di stragi nelle scuole. È vero che in Italia è più difficile l’accesso alle armi, però c’è una grande circolazione, eccessiva e questo potrebbe essere uno dei settori sui quali intervenire. La proroga del Csm non sarebbe una bella figura, ma neanche una catastrofe di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 luglio 2022 In caso di ritorno anticipato alle urne, il Parlamento non potrebbe eleggere i nuovi membri laici del Consiglio superiore della magistratura, che dunque sarebbe prorogato. Una figuraccia, ma l’attuale Consiglio continuerebbe a funzionare. Parla Vietti. In caso di definitiva crisi di governo e di ritorno anticipato alle urne, l’attuale Consiglio superiore della magistratura, tanto vituperato dopo lo scandalo Palamara, sarebbe prorogato per un tempo indefinito, almeno un mese e mezzo o due. Il 18 e il 19 settembre, infatti, i magistrati italiani eleggeranno i venti componenti togati del nuovo Consiglio (quello attuale scade il 25 settembre), secondo il nuovo sistema elettorale previsto dalla riforma Cartabia. Con lo scioglimento anticipato delle Camere, invece, il Parlamento non sarebbe in grado di eleggere i nuovi dieci membri laici del Consiglio, che dunque sarebbe prorogato nella sua composizione attuale, come previsto dalla legge istitutiva dello stesso organo di governo autonomo delle toghe (“Finché non è insediato il nuovo Consiglio continua a funzionare quello precedente”). La proroga non sarebbe di breve durata. Bisognerebbe attendere l’esito delle elezioni politiche, la formazione del nuovo governo, la definizione dunque di una maggioranza e di un’opposizione a livello parlamentare, le elezioni dei presidenti di Camera e Senato, insomma lo svolgimento di tutte le procedure necessarie al funzionamento del Parlamento. Poi a quel punto, i partiti dovrebbero trovare un accordo sui dieci nomi da eleggere (scelti tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra gli avvocati dopo quindici anni di esercizio professionale), in grado di soddisfare il quorum previsto dalla legge: maggioranza di tre quinti dell’assemblea per la prima votazione, mentre per gli scrutini successivi al secondo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti. Insomma, prima dell’insediamento del nuovo Consiglio passerebbero almeno novanta giorni, se non di più. Un paradosso se si considera l’intensità con cui la Guardasigilli Marta Cartabia ha spinto per far approvare la riforma del sistema elettorale del Csm, in seguito ai continui appelli del capo dello stato. A essere prorogato sarebbe il Consiglio travolto nel 2019 dallo scandalo Palamara e che ha visto ben sei consiglieri dimettersi per le vicende legate all’inchiesta di Perugia (in aggiunta al procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio). Nonostante il ricambio, l’attuale consiliatura rimarrà sempre legata al caso Palamara, e dunque fa un certo effetto sapere che potrebbe pure essere prorogata oltre la sua scadenza. La proroga, comunque, almeno dal punto di vista del funzionamento dell’istituzione, non costituirebbe un disastro. “L’attività del Csm potrebbe procedere normalmente, senza limitazioni”, dichiara al Foglio Michele Vietti, vicepresidente del Csm dal 2010 al 2014. Proprio la consiliatura che lo vide vicepresidente venne prorogata di due mesi per il ritardo del Parlamento nell’elezione dei nuovi componenti laici. “Certo - aggiunge Vietti - poi è rimesso alla sensibilità del vicepresidente se assumere determinazioni che sarebbe invece più prudente affidare ai successori, ma questo vale sulle questioni gestionali o organizzative di carattere generale e non sulle specifiche nomine. Le nomine dei magistrati alla guida degli uffici giudiziari sono un adempimento che fa parte dell’attività ordinaria del Consiglio. Su quelle non ci possono essere limitazioni. Se invece occorresse deliberare su una circolare che abbia delle incidenze particolarmente rilevanti sull’organizzazione giudiziaria allora si potrebbe riflettere se sarebbe meglio lasciare questo compito ai successori, ma limitazioni non ce ne sono”. Certo, ammette Vietti, “questo Csm arriva a destinazione già molto acciaccato. Una proroga, dopo tutto quello che ha vissuto, forse non farebbe bene perché tutti speravano in un rinnovo il più rapido possibile. Però, come si dice, ad impossibilia nemo tenetur”. Ciò che resta sicura è l’elezione della componente togata del nuovo Csm il 18 e 19 settembre, sulla base delle nuove regole elettorali, che non convincono Vietti soprattutto rispetto all’obiettivo dichiarato, quello di ridurre il peso delle correnti: “Il nuovo sistema elettorale non mi convince - dichiara Vietti - Visto sulla carta mi pare che metta insieme i difetti del proporzionale e i difetti del maggioritario. Pensare che questo meccanismo eviti le interferenze delle correnti mi sembra molto illusorio. Temo che i buoni propositi di lasciar fuori le correnti dalla competizione elettorale si infrangeranno miseramente contro la prassi abituale”. Conclude Vietti: “Bisognava avere il coraggio di arrivare a un sistema di sorteggio temperato, con l’elezione di una platea più vasta di magistrati all’interno della quale poi effettuare il sorteggio”. Via D’Amelio, trent’anni di bugie e silenzi. Quella verità negata dal depistaggio di Stato di Salvo Palazzolo La Repubblica, 19 luglio 2022 Il depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità. Caltanissetta - La grande incompiuta del nuovo tribunale, accanto al vecchio palazzo di giustizia, è diventata un monito per tutti quelli che passano. Qui, lo Stato si è fermato. Da dodici anni non riesce a completare un edificio che doveva essere il simbolo della verità e della giustizia nel distretto di corte d’appello chiamato a trovare i responsabili delle stragi del 1992. Un monito sinistro, che però non ha mai scoraggiato magistrati, investigatori, avvocati di parte civile e familiari delle vittime che sono arrivati in questa trincea nel cuore della Sicilia. Nei dodici anni della grande incompiuta, al quarto piano del vecchio palazzo di giustizia, dove ha sede la procura della Repubblica, sono state invece scritte pagine che nessuno immaginava: le dichiarazioni del killer Gaspare Spatuzza hanno svelato la grande impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino e hanno consentito di avviare l’indagine sul depistaggio messo in atto da alcuni poliziotti. Il depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta, trent’anni dopo le stragi, sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità. Resta la domanda: perché i poliziotti guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera si resero protagonisti del “più colossale depistaggio della storia giudiziaria d’Italia”? Se non era per favorire la mafia, come dice il tribunale, per quale altra finalità? Solo per ottenere presto un risultato? “Tesi troppo riduttiva”, hanno osservato i legali di parte civile. Un falso pentito e una verità di comodo potevano trasformarsi presto in un boomerang per chi invece coltivava sogni di gloria antimafia. Dunque, cosa c’è davvero dietro il depistaggio? Se non fu architettato per favorire il boss Giuseppe Graviano e gli altri mafiosi che sventrarono via D’Amelio con un’autobomba, chi doveva proteggere e nascondere? Sono stati trent’anni di misteri e di silenzi di Stato. La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Salvatore De Luca, non ha mai smesso di indagare. I magistrati sono tornati a riesaminare decine di vecchi fascicoli in archivio, alla ricerca di piste e tracce. Un’attenzione particolare viene adesso data al dossier mafia e appalti, a cui Borsellino si era dedicato negli ultimi tempi: secondo la famiglia del giudice, potrebbe essere stata la ragione dell’accelerazione della strage. Questa è una storia che continua a portare verso ambienti esterni alla mafia. Non sono dei mafiosi (già condannati) i volti ancora senza nome che compaiono nel lungo video che la procura fece realizzare anni fa dalla Scientifica, con tutti gli spezzoni Tv esistenti del 19 luglio. Chissà se fra quegli uomini c’è l’agente dei servizi segreti di cui ha parlato uno dei primi poliziotti arrivati in via D’Amelio, chissà se fra quegli uomini senza nome c’è il ladro dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Di un altro Mister X ha parlato il pentito Spatuzza: “Il giorno prima dell’attentato, nel garage di via Villasevaglios dove si caricava l’autobomba, c’era una persona che non conoscevo”. La verità la conosce Giuseppe Graviano, il capomafia di Brancaccio a cui Salvatore Riina affidò l’incarico di realizzare l’attentato. “All’inizio di luglio partì, andò fuori dalla Sicilia”, ha raccontato il suo autista oggi collaboratore di giustizia, Fabio Tranchina. Dove andò Giuseppe Graviano? E chi incontrò? Da qualche tempo, sono tornati gli operai nella grande incompiuta di Caltanissetta. E lo Stato ha riaperto il cantiere dell’opera simbolo. Ma, intanto, fra i corridoi e le aule del vecchio palazzo in cui si cerca la verità sulle stragi, sembra di stare dentro un labirinto. I pm hanno appena svelato l’ennesima impostura, quella dell’ex pentito Maurizio Avola, che aveva annunciato addirittura con un libro di essere fra i killer di via D’Amelio, vestito da poliziotto. Forse, voleva allontanare tutti i sospetti sugli uomini senza volto? Sono tante le domande che continuano ad animare questo palazzo di giustizia dove negli ultimi anni è stata riscritta anche la storia dell’antimafia, con le condanne di due “paladini”, Antonello Montante e Silvana Saguto. Sussurra uno dei ragazzi delle scorte: “Qui, i magistrati hanno toccato fili ad alta tensione”. Paolo Borsellino, il depistaggio dura ancora di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 luglio 2022 L’inchiesta su cui lavoravano sia lui che Falcone fu affossata e la storia del depistaggio si intreccia con il falso pentito Scarantino e poi con la trattativa Stato mafia. Come viene ricordato Paolo Borsellino, a trent’anni dal suo sacrificio? Con il depistaggio continuo. Il 19 luglio del 1992 la mafia l’ha assassinato e da quello stesso giorno sono iniziati i complotti e le trame, in modo che non si sapesse perché il magistrato è stato ucciso, perché con tanta fretta subito dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, né chi esattamente e in che modo gli ha tolto la vita. Il depistaggio è stato immediato, ha avuto percorsi che hanno attraversato caserme e procure e poi aule di ingiustizia. Con tante complicità, volute e non, di uomini in divisa e in toga, e persino di incolpevoli giudici popolari. Finché si è arrivati alla farsa del processo sugli anelli ultimi della catena, finito con le prescrizioni. Ma intanto erano stati opportunamente tenuti fuori da ogni responsabilità, tutti i pubblici ministeri che parteciparono alle giornate in cui fu costruito il pentito fantoccio. Ma anche tutti i gip. E poi tutti i giudici dei processi Borsellino uno-due e tre. Finché non è arrivato quel bel personaggio di nome Gaspare Spatuzza, l’assassino del magistrato che, in cambio di notevoli vantaggi, ha detto “sono stato io”. Ma il depistaggio continua. Si parte da Scarantino e si arriva a Berlusconi. Il depistaggio perpetuo. Possiamo metterle in fila, tutte le trame di questi trent’anni, non sono poche. Si parte dall’inchiesta su “Mafia e appalti”, su cui Borsellino stava lavorando e che fu frettolosamente archiviata mentre lui stava chiudendo gli occhi. Chi è abituato a chiedersi il perché di quel che accade, potrebbe ragionare su quell’accelerazione improvvisa che fece esplodere la bomba di via D’Amelio a soli due mesi da quella di Capaci. Una tempistica fuori dall’ordinario e apparentemente senza senso, su cui è calato un “opportuno” silenzio. Perché alcune toghe e divise erano troppo impegnate a costruire il burattino del falso pentito da una parte e a inventare un’inesistente “trattativa” tra la mafia a una parte dello Stato dall’altra. Negli intervalli c’era sempre di che trastullarsi con il nome di Silvio Berlusconi. Qualche pentito da strapazzo, pronto a fare il ventriloquo del pm in cambio di qualche favore, lo si trova sempre. Né Falcone né Borsellino avrebbero mai costruito il burattino Scarantino, né, qualora lo avesse loro proposto su un piatto d’argento qualcun altro, lo avrebbero accettato. Forse si sarebbero messi a ridere, davanti a tanta incompetenza, quasi si fossero trovati di fronte a una burla. E possiamo immaginare per esempio la faccia di Falcone se gli si fosse presentato davanti un Ingroia, o un Di Matteo o uno Scarpinato a raccontargli la favola della “trattativa”? Vogliamo provare a fare il conto di quanti decenni, quanti processi-farsa, quanto denaro pubblico sprecato, quanti inquirenti fallimentari vanno messi insieme per proclamare il Grande Fallimento giudiziario del più grande depistaggio della Storia, quello che non è ancora finito e di cui non si sa se e quanto finirà? Il depistaggio “trattativa” è partito da subito, negli stessi anni in cui iniziava quello sull’uccisione di Borsellino. Tutti e due sono durati trent’anni e nessuno dei due si è ancora concluso. Se pure il 23 settembre del 2021 la corte d’assise d’appello di Palermo ha mandato assolti Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (ma precedentemente anche Calogero Mannino e Nicola Mancino) dal sospetto infame di essere collusi con la mafia, il depistaggio non è ancora finito. E ha le sembianze di Silvio Berlusconi. Perché la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica ha radici lontane. Ed echeggia ogni giorno negli scritti di pubblici ministeri del presente e del passato che ci ricordano che non è finita lì. Che i giudici non contano niente, soprattutto quando assolvono. Che cosa ha scritto uno che la sa lunga per esperienza personale come Luca Palamara? Se sei un pm sveglio e hai dalla tua un bravo poliziotto e uno o due cronisti di riferimento, puoi distruggere chiunque. Ma distruggere Silvio Berlusconi non è facile. Ci provano dal 1994, da quando è entrato in politica. Prima non contava niente, agli occhi dei pubblici ministeri dell’antimafia militante. Ma in quell’anno partì l’operazione Oceano e immediatamente un’indagine sull’origine dei finanziamenti alla Fininvest. Un buco nell’acqua che costringerà i pm di allora a chiedere l’archiviazione. Sono gli anni in cui l’antimafia militante sbriglierà la fantasia a tutto campo. Possiamo ricordare “Sistemi criminali”, un polpettone del 1998 che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta di imprenditori, massoni, piduisti, politici e terroristi. Un flop che sarà secondo solo a quello clamoroso iniziato con il fascrittura moso papello di Totò Riina, che sfocerà nel grande depistaggio del processo “trattativa”. Il fantasma di Berlusconi abita quotidianamente nella mente di due pm di Firenze e due cronisti del Non si lamenti troppo Matteo Renzi, per l’attenzione del procuratore aggiunto Luca Turco, perché almeno non gli dà del mafioso. Perché lo stesso magistrato, insieme al collega Luca Tescaroli, indaga Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi mafiose. Il che è un po’ più grave dell’inchiesta su Open. Soprattutto se si fa attenzione alla provenienza geografica del dottor Tescaroli: Palermo, procura della repubblica. Evidentemente non gli bastano i numerosi fallimenti di quegli uffici nelle inchieste su Berlusconi. Ora succede che periodicamente dal palazzo di giustizia di Firenze escano fogli e foglietti, con la veste di atti giudiziari, che planano sulle scrivanie di due cronisti del Fatto, Marco Lillo e Valeria Pacelli, che disciplinatamente pubblicano. Domenica scorsa siamo stati allietati dalla lettura integrale di una memoria depositata dai due pm al tribunale del riesame che deve decidere se, nonostante il “no” sonoro della cassazione, siano valide perquisizioni e sequestri a persone non indagate che hanno il solo torto di essere parenti del boss mafioso e assassino Giuseppe Graviano. Uno che sta facendo i conti con la propria vita di ergastolano e ogni tanto ripete che suo nonno aveva raccolto negli anni settanta un bel gruzzoletto e l’aveva dato a Berlusconi per finanziare la Fininvest. La prova sarebbe in una privata affidata ai parenti. Che naturalmente non è stata trovata nelle perquisizioni. L’ipotesi dei due pm è che, se il nonno di Graviano ha dato cinquant’anni fa soldi alla Fininvest, per forza di cose e di rapporti consolidati nel tempo, Berlusconi vent’anni dopo ha organizzato le stragi del 1993 e del 1994. Perché non anche quelle del 1992, allora? Ma qualcuno ci crede. Così i giornalisti Lillo e Pacelli, pubblicano sul Fatto in due intere pagine la memoria dei pm. Poi scrivono, usando la vecchia astuzia di Lillo, che queste accuse sono state “già più volte archiviate in passato e tutte da dimostrare”. Ma intanto pubblicano. Aggiungono che sono “accuse che vanno però raccontate all’opinione pubblica, perché riguardano personaggi di primo piano e un momento di svolta della storia recente del Paese”. La svolta, cioè la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, si chiama democrazia, caro Lillo. Chiaro? Che ne diresti, se domani una ragazza ti accusasse di averla stuprata e un magistrato le desse retta, e qualcuno decidesse di pubblicare tutto? Ma per fortuna noi, e forse la maggior parte dei giornalisti italiani, siamo diversi e non lo faremmo mai. Infatti non facciamo parte dello squadrone di divise toghe e penne per i quali il depistaggio non finisce mai. Subito dopo via d’Amelio dall’ufficio di Borsellino sparirono molti documenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2022 L’agenda rossa di Paolo Borsellino, di fatto, è diventata un feticcio da esporre al pubblico, un simbolo da brandire come se fosse il libretto rosso di Mao. Sulla sua scomparsa si sono creati racconti suggestivi, ipotesi, una narrazione costante per tutte le stagioni. Eppure tutto tace sui documenti scomparsi dal suo ufficio della procura di Palermo il giorno stesso dell’attentato del 19 luglio 1992. Non se ne parla, sembra che non ci sia stato nessun approfondimento su questo episodio che non viene menzionato in nessuna sentenza o atti di indagine. Com’è possibile che tutti si concentrino sull’agenda rossa e non sui documenti, gli unici che potrebbero dare una risposta definitiva e inoppugnabile sulle sue indagini informali relative alla morte del suo collega e fraterno amico Giovanni Falcone? Anche perché, altro dato oggettivo, Borsellino non si sarebbe di certo presentato innanzi alla procura di Caltanissetta (non fece in tempo ad andarci perché trucidato) con una agenda, ma con una memoria e documenti annessi. Abbiamo solo una certezza sull’agenda rossa. Borsellino la usava per scrivere appuntamenti importanti che non trascriveva più nell’agenda grigia. Ciò lo si può riscontrare analizzando l’intera agenda: prima della strage di Capaci, Borsellino annotava tutto, anche quante volte si recava al ministero della Giustizia. Dopo invece ha omesso di trascrivere appuntamenti importanti come l’incontro con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno in caserma del 25 giugno per discutere del dossier mafia-appalti (circostanza confermata anche dal magistrato Stefano Manduzio, intervistato per la prima volta dall’inviata di Radiorai uno Rita Pedditzi) oppure l’incontro avuto con il suo collega Fabio Salomone, fratello dell’imprenditore agrigentino (menzionato nel dossier mafia-appalti come titolare dell’Impresem) che in un secondo tempo verrà indagato sul discorso della spartizione degli appalti pubblici per conto di cosa nostra. Eppure, Borsellino stesso, prima della strage di Capaci lo aveva già incontrato: lo si evince proprio dall’agenda grigia dove il 29 aprile 1992 annota l’incontro avvenuto all’abitazione estiva di Villagrazia alle ore 19 e 30. Sappiamo che incontrerà nuovamente Salomone il 29 giugno del 1992, ma in questo caso non è segnato sull’agenda grigia. Lo testimonierà sua moglie Agnese Piraino Leto: “Rimasero nello studio in un colloquio riservato per circa tre ore. Ricordo solo che quando lo accompagnò sul pianerottolo gli sentii dire a Paolo: ““Io ti consiglio di andar via dalla Sicilia”“. Perché ci si concentra sull’agenda rossa e non sui documenti che sono stati portati via dal suo ufficio in Procura? Come mai questo particolare viene sempre omesso durante le narrazioni mediatiche e nessuno ha preso la briga di indagare su questo importante episodio? Che Borsellino stesse raccogliendo vari elementi relativi alla causa dell’uccisione di Falcone per poter andare alla Procura di Caltanissetta, è storia nota. Avrebbe voluto riferire notizie sugli appalti e i motivi per i quali Falcone dovette lasciare la procura di Palermo. Lo ha testimoniato nel 2012 anche Carmelo Canale, il tenente dei carabinieri che fu l’ombra del giudice Borsellino. Di certo non si sarebbe presentato innanzi ai procuratori nisseni di allora con una agenda. Dove sono finiti i documenti e le sue eventuali annotazioni? Che siano scomparsi dal suo ufficio al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo è un dato inoppugnabile. Lo hanno testimoniato innanzi ai pm di Caltanissetta, nel 2013, Manfredi e Lucia, figli del procuratore aggiunto di Palermo Borsellino. Il giorno dopo la strage del 19 luglio, infatti, raccontano di aver partecipato all’inventario dell’ufficio del padre della procura di Palermo e notarono la mancanza di tutti i fascicoli delle ultime inchieste che il magistrato stava seguendo. “Era chiaro che qualcuno aveva messo le mani in quella stanza - hanno spiegato - non c’erano fascicoli, né interrogatori legati alle inchieste sulle quali papà lavorava”. In sostanza sono stati fatti sparire, con tutta tranquillità e alcun clamore, i documenti dall’ufficio di Borsellino. Un fatto inquietante che la stessa moglie di Borsellino rivelò al giornalista Sandro Ruotolo, che rese pubblica la testimonianza solamente dopo la sua morte (il 5 maggio 2013), rispettando il volere della signora. Cosa disse? “Il giorno dopo la strage - ha rivelato la signora Agnese prima di morire - la polizia investigativa entra dentro l’ufficio della procura di Paolo, ci vanno anche i miei figli Lucia e Manfredi: entrano e si accorgono che tutti i suoi cassetti erano stati svuotati, non c’erano né carte e né tantomeno i suoi appunti!”. Un fatto gravissimo questo episodio, molto più inquietante dell’eventuale scomparsa dell’agenda rossa che, com’è detto, al massimo poteva esserci qualche riflessione e appuntamenti importanti non riportati nell’agenda grigia. Parliamo di documenti che scompaiono nel nulla dalla procura di Palermo. A che ora sarebbe stato svaligiato l’ufficio di Borsellino? In qualsiasi ora fosse accaduto, in quell’indicibile giorno di trent’anni fa non poteva passare inosservato. I piantoni di servizio devono aver visto qualcosa. E i magistrati? Sicuramente sappiamo che alcuni di loro vi trascorsero la notte. Lo racconta l’ex pm Antonio Ingroia durante l’udienza del Borsellino Quater del primo aprile 2014: “La sera stessa del 19 luglio, quando dopo, diciamo, alcuni di noi magistrati tornammo in Procura dopo... dopo, quando era ormai notte alta, diciamo, per... per ragionare, riflettere insieme”. Di fatto, qualcuno - piantoni o magistrati che siano - deve aver visto qualcosa. Emerge però un altro dettaglio. Dalla notizia Ansa del 20 luglio 1992, si apprende che nella mattinata, alla presenza dei figli Lucia e Manfredi, sono stati posti i sigilli all’ufficio di Borsellino, compreso il suo personal computer. Quindi l’inventario è stato svolto per mettere i sigilli. Ciò significa che l’ufficio è rimasto scoperto per tutto il pomeriggio e la notte del giorno prima. Chiunque, dunque, poteva accedere e senza che emergesse la manomissione dei sigilli visto che ancora non erano apposti. Sono mai state svolte le indagini su questo inquietante episodio? Hanno interrogato gli eventuali testimoni? La certezza che sia stato svuotato l’ufficio è un dato oggettivo e forse ancora non è troppo tardi per individuare i soggetti che vi entrarono. Che qualcuno avvertisse la necessità di far sparire qualsiasi documento di Borsellino, appare evidente anche quando, a distanza di diversi mesi dall’attentato, si verificò uno strano furto presso la villetta al mare del giudice, a Villagrazia, nella notte fra il due e il tre febbraio del 1993. Dalla casa, disabitata, sono stati portati via soltanto pochi spiccioli, circa 400 mila lire di allora, e qualche vaso. Sono stati i carabinieri di Carini ad accorgersi della porta d’ingresso sfondata, avvertendo a Palermo la signora Agnese. Pare che nella villetta, che il giudice e la famiglia abitavano in estate, il procuratore non avesse l’abitudine di custodire i suoi fascicoli. E infatti non c’erano. Questo strano furto, molto probabilmente è stato fatto per togliersi qualche dubbio. Ma, di certo, dall’ufficio di Borsellino, presso la procura di Palermo, i documenti sono stati fatti sparire. Mentre ci si concentra sull’agenda rossa, in questi trent’anni un fatto così importante sembra passato in sordina. Eppure si potrebbe fare ancora in tempo visto che gli eventuali testimoni dell’accaduto potrebbero essere ancora in vita. E magari si potrebbero recuperare tali documenti finiti insabbiati presso chissà quale anonimo fascicolo. Così come, d’altronde, a distanza di 24 anni, è accaduto con il ritrovamento dei brogliacci contenenti le intercettazioni dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino. Ci si augura che questa volta la Direzione Nazionale Antimafia abbandoni la ricerca dell’entità (leggasi “astratto”), e ritrovi un coordinamento tra procure affinché ricerchi quello che è ben definito. Fiammetta Borsellino: “Mio padre tradito dai pm” di Paolo Comi Il Riformista, 19 luglio 2022 La figlia del magistrato non presenzierà oggi alla commemorazione della strage di via d’Amelio in segno di protesta: “Mio padre non è stato ucciso solo dalla mafia, ma pure da chi l’ha tradito”. “Ho deciso di disertare tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non spiegherà cosa è accaduto davvero e non dirà la verità: nonostante le celebrazioni, si è sempre fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. A dirlo è Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, il magistrato palermitano che trenta anni fa perse la vita nell’attentato di via D’Amelio assieme a cinque agenti della sua scorta. Fiammetta, in questi giorni non si trova a Palermo e nessuno è riuscito a farle cambiare idea. “Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito”, prosegue Fiammetta. Erano le 16:58 del 19 luglio del 1992 quando una Fiat 126 rubata e imbottita di 90 chilogrammi di esplosivo telecomandato a distanza esplose in prossimità del civico 21, proprio nel momento in cui il magistrato stava entrando nella casa della madre. Da quel giorno un susseguirsi di presenze continue nell’abitazione di casa Borsellino invase la vita dei tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, oltre che della moglie Agnese. “A casa mia da quando è morto mio padre, è entrato chiunque. Ma se all’inizio questa presenza continua era giustificata come forma di attenzione, alla luce di tradimenti e depistaggi, ci ha fatto capire che c’era una forma di controllo, una necessità di una sorta di ‘stordimento’. Ad una finta attenzione non è infatti seguito alcun percorso di verità: abbiamo avuto solo tradimenti e false rappresentazioni”. Fiammetta, la più giovane dei tre figli del magistrato, ha ingaggiato una battaglia di verità soprattutto negli ultimi anni da quando, dopo la sentenza di primo grado del Borsellino Quater, poi confermata dalla Cassazione, si è accertato che le dichiarazioni rese dall’allora super teste dell’accusa Vincenzo Scarantino furono “al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Furono diversi i magistrati che si occuparono di Scarantino, ad iniziare da Ilda Boccassini. “Lei non sapeva dire di no alle pressioni del questore Arnaldo La Barbera”, puntualizza Fiammetta: “Per mettersi il ferro dietro la porta ha una letterina al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Io dico che se la dottoressa Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo”. “La Boccassini - ricorda Fiammetta - è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino nel super carcere di Pianosa e poi si è saputo che servivano a fargli dire il falso con torture e minacce”. “Ilda Boccassini chiede ai colleghi di applicare le norme del codice perché si rende conto di ciò che fanno, una cosa così grave non la puoi scrivere in una letterina. E darla a un procuratore che poi la mette in un cassetto e la lascia lì. Per me la denuncia è un’altra cosa. La si fa pubblicamente. Come mi ha insegnato mio padre. Io l’ho letto come un mettersi il ferro dietro la porta. Questa non è una denuncia o stoppare un percorso deviato”, continua Fiammetta. La figlia del magistrato è da sempre critica verso quella magistratura che non ha saputo (o voluto), a tempo debito, effettuare indagini efficaci per scoprire gli autori della strage. Fu solo grazie al pentito Gaspare Spatuzza che Scarantino si scoprì essere un taroccatore. “Abbiamo avuto magistrati che non hanno fatto le verbalizzazioni dei sopralluoghi nei garage dove Scarantino diceva di avere rubato la macchina. Se fosse stato fatto un verbale ci si sarebbe resi subito conto della inattendibilità di Scarantino che non sapeva neppure come si apriva quel garage, se non avessero delegato segmenti di indagine ai servizi segreti, se avessero esercitato quel controllo previsto dalla legge sugli organi investigativi il depistaggio non ci sarebbe stato. Tutto questo non può avvenire sotto gli occhi di chi invece deve controllare e coordinare, cioè i magistrati”, prosegue ancora Fiammetta. “Se un medico avesse sbagliato un’operazione di questo tipo - aggiunge - sarebbe stato messo subito dietro le sbarre, qui invece si è deciso di non avviare nessuna indagine, né sul piano disciplinare o penale. E quel poco che si è fatto è stato subito archiviato. C’era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la Procura di Palermo ‘quel nido di vipere’”. “Mio padre, pochi giorni prima di quel tragico 19 luglio 1992 disse a mia madre che “non sarà la mafia ad uccidermi, ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. Bene, qualcuno vuole andare a vedere finalmente cosa c’era dentro quel ‘nido di vipere’?”, conclude Fiammetta. Melillo: “Le mie pubbliche scuse per il depistaggio e gli errori sul delitto Borsellino” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 luglio 2022 Il procuratore nazionale antimafia: ostacolata la ricerca della verità. Sulle stragi del ‘92-’93 c’è ancora molto da indagare e da scoprire. Gli archivi dell’intelligence saranno messi a disposizione dei magistrati. Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia dal 4 maggio scorso: che senso ha celebrare, trent’anni dopo, l’anniversario della strage di via D’Amelio? “È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il Paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari. Un debito che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni”. La sua sembra una risposta ai figli di Paolo Borsellino. Che cosa può dire ai familiari del magistrato e degli agenti uccisi, su quello che una sentenza ha definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani”, dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia? “A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali, per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta”. Si poteva arrivare prima a scoprire le bugie smascherate dal pentito Spatuzza solo nel 2008? “Nessuno può dirlo con certezza. Però non c’è dubbio che la scelta di Spatuzza di collaborare con la giustizia fu per anni frenata dal timore di ritorsioni e vendette di Cosa Nostra. Non bisogna dimenticarlo. Anche per non rischiare di perdere di vista l’importanza, assolutamente fondamentale nel contrasto alle mafie, dello strumento dei collaboratori di giustizia, per cui tanto si spese Giovanni Falcone. Anzi, da tempo è matura l’esigenza di assicurare al sistema di protezione dei collaboratori reali standard di modernità ed efficienza; ancora oggi, ad esempio, per un’inerzia legislativa davvero incomprensibile, manca una disciplina dei documenti di copertura che impedisca, come purtroppo è accaduto, che una cosca mafiosa rintracci il collaboratore che ne ha svelato i delitti attraverso mirati accessi abusivi alle informazioni dei sistemi sanitari, previdenziali e fiscali”. Ma proprio il depistaggio sul delitto Borsellino ha mostrato i rischi di un cattivo uso del pentitismo. “In generale, proprio il valore essenziale di quello strumento rende ancora più importante la responsabilità della magistratura di assicurare un rigoroso controllo della sua applicazione. Ciò richiede elevata professionalità, rigore metodologico e profonda conoscenza della natura e delle dinamiche dei fenomeni mafiosi. A partire dalla raccolta delle dichiarazioni del collaboratore”. Ci sono analogie tra quanto accaduto per la strage di via D’Amelio e altre pagine oscure della storia giudiziaria italiana? “Abbiamo bisogno di riflettere a fondo su ognuna di quelle che lei chiama “pagine oscure”. Il prossimo anno, ad esempio, sarà l’occasione per ricordare, quarant’anni dopo, la strage mafiosa nella quale perse la vita Rocco Chinnici, cui tanto deve l’esperienza del pool antimafia di Palermo, ma anche per riflettere sull’emblematica storia di Enzo Tortora. I delicatissimi poteri affidati a magistratura e apparati di polizia a fini di giustizia esigono, per ricevere una “giustificazione sociale”, la più scrupolosa osservanza delle regole e delle garanzie individuali. Un generale ripudio della tentazione di coltivare immagini edulcorate e a tutto tondo di sé, assegnandosi sempre e solo ruoli benefici e salvifici, aiuterebbe a evitare ogni affievolimento di quel ruolo di garanzia dei diritti e della legalità processuale, innanzitutto nella fase delle indagini, che fonda l’indipendenza della magistratura, e in particolare del pubblico ministero. Ma bisogna evitare anche rischi contrapposti”. Ad esempio? “L’uso politico strumentale dell’errore giudiziario e persino della fisiologica diversità delle pronunce giudiziarie traspare spesso nelle proposte di comprimere le prerogative processuali del pubblico ministero, indebolendone la responsabilità nella direzione delle indagini. Che resta essenziale, anche per evitare che la giustizia torni, come in un tempo non troppo lontano, a scorrere solo lungo i binari tracciati dai mattinali delle questure”. Che cosa resta da scoprire sulle stragi di mafia del 1992-93? “Obiettivamente, molto. Sin dal primo momento fu drammaticamente chiaro che le stragi rivelavano disegni e relazioni criminali difficilmente riconducibili alle sole strategie di un’organizzazione schiettamente criminale come Cosa Nostra. Basti ricordare le parole che il presidente del Consiglio Ciampi pronunciò dinanzi alle Camere riunite dopo i simultanei attentati del luglio ‘93, additando la responsabilità di “una torbida alleanza” di forze eterogenee, ma con comuni obiettivi di destabilizzazione politica. Molti elementi, anche di recente acquisizione, sembrano indicare quello scenario anche in relazione ad altri non meno gravi delitti, la ricostruzione dei quali esige però ancora grande impegno ed un estremo rigore nelle valutazioni del materiale indiziario; anche perché ogni tentativo mal riuscito allontana la formazione di prove affidabili. In questa prospettiva, stiamo definendo un’apposita intesa con il Dis per rendere concretamente accessibili ai magistrati che indagano tutti i documenti dei servizi segreti versati all’Archivio di Stato, in attuazione delle direttive politiche, da ultimo del presidente Draghi, sulla declassificazione delle informazioni di intelligence sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia repubblicana”. Che cosa può e intende fare la Procura nazionale per aiutare le indagini ancora in corso? “La Dna deve garantire l’impulso e l’effettivo coordinamento delle indagini che da tempo impegnano le Procure di Caltanissetta, Firenze, Palermo, Roma, Reggio Calabria e Catanzaro. Siamo dunque impegnati ad assicurare la tempestiva condivisione delle informazioni e l’opportuna concertazione delle iniziative dei vari uffici, anche attraverso l’applicazione ad alcune di quelle indagini di magistrati della Dna, secondo un modello di integrazione degli indirizzi investigativi che va consolidato e va potenziato. Anche per evitare aporie, contraddizioni e tensioni, che sono incomprensibili all’opinione pubblica e capaci di minare la credibilità e l’efficacia della nostra azione. Tuttavia, va riconosciuto che la grandissima parte dei pm italiani ha da tempo imparato a lavorare insieme, interiorizzando la cultura del coordinamento. Confido che ciò renderà più efficace il nostro sforzo di lavorare accanto alle Procure distrettuali per sostenerne e valorizzarne l’impegno, rifuggendo dai rischi di approcci autoritari e autoreferenziali”. Caso Mollicone, giustizia non vuol dire solo condanna di Valentina Stella Il Dubbio, 19 luglio 2022 La nota della procura fa infuriare gli addetti ai lavori. Insulti e minacce contro gli imputati dopo la sentenza di assoluzione. Qualche mese fa durante un convegno il professor Glauco Giostra ha osservato: “Non avete notato che si dice “Giustizia è fatta!” solo quando c’è un verdetto di condanna? Assolvere non equivale mai a fare giustizia”. Questa considerazione è attualissima se pensiamo a cosa è accaduto dopo la sentenza di primo grado che venerdì scorso ha assolto l’intera famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso ventuno anni fa la giovane Serena Mollicone. Appena i giudici della Corte di Assise di Cassino hanno terminato la lettura del dispositivo in Aula si sono udite urla contro i togati - “Vergogna, vergogna” - e contro gli imputati - “Assassini, vergogna, come fate a dormire stanotte?” -, mentre fuori dal Tribunale sia i Mottola che i loro avvocati e consulenti hanno rischiato un vero e proprio linciaggio: sono stati aggrediti dalla folla inferocita con spintoni e sputi e la situazione si è resa talmente incandescente che sono dovute intervenire le forze dell’ordine per creare un cordone intorno a loro per condurli nella sede dove era stata programmata una conferenza stampa. Come ha detto l’avvocato Francesco Germani, a capo del pool difensivo: “È molto triste vivere in un Paese dove per fare una conferenza stampa bisogna essere scortati dalla polizia, è molto triste ed amaro vivere in un Paese che non rispetta le sentenze dei giudici perché si ritiene da parte dei più che giustizia significhi solo condannare. Giustizia vuol dire riconoscere colpevole chi è colpevole e riconoscere innocente chi è innocente”. Il criminologo Carmelo Lavorino ha annunciato che presenteranno “un esposto-querela alla Procura di Cassino con la richiesta di individuare i responsabili e i loro mandanti e di punirli. Questo è il risultato del clima d’odio creato ad arte dal Comitato d’Affari del giallo di Arce e di qualche soggetto nemico della verità e del vivere civile. Altresì denuncio gli insulti, le offese e le intimidazioni rivolte ai Giudici togati e popolari che hanno assolto i cinque imputati, ulteriore esempio del clima di intolleranza, di minaccia e di violenza creato ad arte”. Aggiungeremmo anche “esempio di ignoranza” del processo penale. Fin quando non capiremo le sue regole e le sue differenze con la verità storica, da cui talvolta si discosta, troveremmo sempre piazze inferocite contro le sentenze di assoluzione. E in questa partita un ruolo importante lo ha anche la stampa. Molti colleghi hanno commentato la decisione dei giudici di Cassino con parole simili a quelle delle tricoteuse dei social e della piazza reale che ha inveito contro gli imputati: “Vergogna per una giustizia che non fa giustizia su Serena Mollicone - Serena uccisa una seconda volta - Si fa davvero fatica a credere fino in fondo nella giustizia, dopo una sentenza del genere”. Le sentenze si possono certamente criticare e anche chi scrive è rimasto deluso perché quel terribile delitto è rimasto insoluto e forse lo rimarrà per sempre. Però chi nella stampa si occupa di cronaca giudiziaria dovrebbe, prima di esprimere un parere, spiegare ai lettori e al pubblico televisivo quali sono le regole del processo. Evidentemente in questo caso la procura della Repubblica di Cassino non è riuscita a provare la sua tesi di colpevolezza e nel contraddittorio tra le parti ha prevalso la ricostruzione della difesa. Questo è il processo penale che è altra cosa dalla realtà. Non si possono mandare in carcere persone senza prove ed è inutile gridare allo scandalo: se si sapesse come funziona il processo in Aula non ci si stupirebbe. A non placare gli animi ci ha pensato un comunicato della procura della Repubblica che ha suscitato molte perplessità tra gli addetti ai lavori. Alla luce della norma di recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza ci si chiede se ci sia l’interesse pubblico alla divulgazione. Forse sì, data la rilevanza del caso. Ma il contenuto è appropriato? Molto probabilmente no. La Procura “prende atto della decisione della Corte d’Assise” che “nella sua libertà di determinazione ha scelto”. E ci mancherebbe altro. Poi sembra volersi giustificare: “È stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La procura non poteva fare di più. Gli elementi a sostegno dell’accusa hanno superato l’esame dell’udienza preliminare”. Sappiamo bene cosa sia l’udienza davanti al gup, tanto è vero che la riforma Cartabia del processo penale è intervenuta per cambiare la regola di giudizio e rafforzare il potere di filtro del giudice per evitare dibattimenti inutili. Ed infine: “Sarà interessante leggere le motivazioni sulle quali si farà un analitico e scrupoloso esame per proporre le ragioni dell’accusa innanzi al giudice superiore”. I pubblici ministeri sbraitano tanto contro la separazione delle carriere perché essa pregiudicherebbe la comune appartenenza alla cultura della giurisdizione con i giudici, ma questo comunicato conferma che non c’è traccia di tale condivisa cultura: con esso, a prescindere dalle motivazioni, la procura contesta la decisione dei giudici e in un’ottica prettamente di parte processuale annuncia già ricorso in appello. Lazio. “Colpo di mano” sulla Consulta regionale per la salute mentale di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 luglio 2022 Si dimettono per protesta tutti i rappresentanti delle associazioni che ne fanno parte. “Colpo di mano della giunta sulla Consulta regionale per la salute mentale”: il Presidente dell’organismo consultivo della Regione Lazio non sarà più scelto dalle associazioni - di familiari, di utenti, scientifiche e a tutela dei diritti - che ne fanno parte, “ma sarà nominato dal Consiglio regionale in assoluta discrezionalità, scegliendo in una rosa di nominativi di esperti, senza graduatorie di merito o attribuzioni di punteggio”. A denunciarlo sono i rappresentanti delle associazioni che costituiscono la Consulta regionale per la Salute Mentale (selezionate attraverso un bando pubblico in base al numero di iscritti e agli anni di attività) e che si sono dimessi in massa dopo aver appreso - “ma solo dal Bollettino regionale” - di una modifica apportata in sordina alla legge 6/2006, quella costitutiva dell’organismo. La piccola ma sostanziale correzione alla composizione della Consulta regionale è stata ottenuta grazie ad un emendamento presentato in Aula dall’assessore alla Sanità, il dem Alessio D’Amato, alla legge regionale sulla disabilità, la n°10 del 17 giugno 2022, il cui testo era stato discusso e messo a punto in Commissione. “Così l’Associazionismo degli utenti, delle famiglie e del volontariato viene privato del diritto ad esprimere il proprio voto, torna ad essere subalterno ai tecnici (psichiatra, psicologo, ecc.), e si riporta l’ambito della salute mentale alla cultura e alla situazione antecedente la legge 180/1978”, denuncia Daniela Pezzi, della Caritas Roma, eletta presidente della Consulta nell’ottobre 2013. E sarebbe proprio lei - troppo critica nei confronti della giunta Zingaretti - l’obiettivo della nuova norma, secondo il punto di vista delle stesse associazioni dell’organismo consultivo (molte delle quali d’ispirazione cattolica, come Sant’Egidio, Acli, Caritas, Aresam, ecc.), ma anche delle organizzazioni che non ne fanno parte, come l’Unasam, Fenascop e il comitato “Si può fare” che in una nota spiega: “La Consulta e la sua Presidente si sono opposti ottenendo la cancellazione alla scandalosa Delibera che scaricava il costo economico delle rette delle strutture residenziali sulle famiglie ed ancora alle scelte nefaste sul riutilizzo dell’Ex Ospedale Psichiatrico S. Maria della Pietà, rivendicando il rispetto delle norme nazionali che imporrebbero la messa a reddito degli Ex O.P. per finanziare i Servizi Territoriali di Salute Mentale”. Servizi, ricorda Pezzi, “smantellati a colpi di decreti e delibere”. Padova. Detenuto di 27 anni muore di overdose di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 19 luglio 2022 I filmati delle telecamere interne del carcere acquisiti dalla Procura fanno emergere alcuni retroscena sulla morte del detenuto 27enne di origini tunisine Mohammed El Habchi, avvenuta lo scorso 15 giugno per overdose. Le immagini smentiscono un ritardo nell’intervento degli agenti penitenziari subito dopo il malore del carcerato, e al contrario fanno emergere come i detenuti abbiano dato l’allarme quasi un’ora dopo. Per questo il pubblico ministero Sergio Dini, titolare dell’inchiesta, vuole verificare se ci siano responsabilità di alcuni compagni di Mohammed El Habchi. L’ipotesi che potrebbe prefigurarsi è l’omissione di soccorso. È il pomeriggio del 15 giugno scorso quando il 27enne tunisino muore nel trasferimento dalla cella all’infermeria del carcere nella casa di reclusione Due Palazzi. L’autopsia, eseguita dal medico legale Sindi Visentin su ordine del pm Dini, stabilisce che a uccidere il detenuto è stata un’overdose. Mohammed El Habchi aveva assunto della droga (cosa lo chiarirà a giorni l’esito dell’esame tossicologico). E non l’aveva assunta nella sua cella, bensì in quella di altri detenuti. Questo si evince proprio dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza del carcere, dove si vedono due carcerati uscire dalla propria cella con il 27enne portato a braccia, già privo di sensi. I due lo portano nella sua cella e solo dopo un’ora allertano la polizia penitenziaria, che invece si vede intervenire repentinamente. Purtroppo il 27enne non ha neppure fatto in tempo ad arrivare nell’infermeria, è morto durante il trasporto. In seguito all’accaduto i detenuti avevano improvvisato una protesta durata alcune ore. Questi infatti sostenevano che il 27enne tunisino fosse in perfetta salute e che a ucciderlo era stato il ritardo di intervento della polizia penitenziaria, cosa poi rivelatasi non vera. L’ipotesi è invece che il detenuto abbia preso parte a una sorta di “festino” a base di droga nella cella di altri compagni del Due Palazzi, che abbia accusato il malore e che gli altri carcerati, per evitare di incorrere in problemi, abbiano tentato di risolvere la faccenda senza avvisare nessuno. Poi però, quando hanno visto che la situazione era molto grave, si sono decisi a chiamare la polizia penitenziaria. Il pm Dini ha disposto l’autopsia e un esame tossicologico sul corpo del 27enne. Esame, il cui esito dovrebbe essere disponibile a giorni, fondamentale per individuare quale tipo di stupefacente abbia ingerito il 27enne. Ovviamente si indaga anche per capire chi sia lo spacciatore che ha consegnato la droga mortale in carcere. Mohammed El Habchi era finito dietro le sbarre nel dicembre scorso in seguito a un aggravio della misura cautelare: era sottoposto agli arresti domiciliari mentre era stato sorpreso a rubare nel negozio Decathlon in via Venezia. Non è una novità che la droga entri al Due Palazzi, al centro di vari filoni d’indagine tanto da essere definito un carcere “colabrodo”. L’ultima in ordine di tempo è quella sulla droga liquida: arrivava in pacchi destinati ad alcuni reclusi, provenienti dalla Spagna o dalla Romania contenenti flaconcini con droga liquida, camuffati in flaconi di “Profumo d’oriente, acqua aromatica con tè verde”, o carta imbevuta di stupefacente. Il liquido era nebulizzato su fogli A4 poi tagliati in striscioline e vendute a 30 euro Forlì. Nuovo carcere, tutto in alto mare. Cantiere senza fine al Quattro di Luca Bertaccini Il Resto del Carlino, 19 luglio 2022 La direttrice della Casa circondariale: “Doveva essere pronto 10 anni fa. E a noi serve più personale”. Intanto alla Rocca arriva il Codice ristretto, per spiegare ai reclusi come accedere a misure alternative. Quando sarà pronto il nuovo carcere al Quattro? Una data certa al momento non c’è. “È una vergogna”, commenta il direttore della casa circondariale cittadina, Palma Mercurio, durante la presentazione del progetto Codice ristretto, opuscolo destinato ai detenuti per informarli sui percorsi e sui diritti da seguire per accedere alle misure alternative alla detenzione. “Nel 2011 il provveditore regionale alle carceri, Nello Cesari, mi disse ‘sarà pronto l’anno prossimo’”. “Senza però dire quale sarebbe stato, l’anno prossimo”, ironizza il consigliere regionale del Pd, Massimo Bulbi. Al Quattro la struttura tanto attesa, parola della dottoressa Mercurio, “ha solo la sezione femminile”. Nel complesso “ci sono solo le pareti”, dentro l’opera è ancora tutta da costruire. In questi anni, per quello che è stato possibile ricostruire dato che la competenza è ministeriale (lo stesso Comune di Forlì fatica a ottenere informazioni), il problema principale è stato il fallimento dell’azienda che si era aggiudicata l’appalto. “Il consiglio regionale, quasi all’unanimità - ricorda Bulbi -, ha votato una risoluzione con la quale chiediamo alla giunta e al presidente Bonaccini di sollecitare il governo a portare a termine l’opera”. Quale sia la stabilità dell’attuale governo è cosa nota, dunque a ritardo potrebbe aggiungersi altro ritardo. Sia come sia, alla Rocca intanto, dice il direttore Mercuri, “serve più personale qualificato”. Parlando di funzionari “giuridico-pedagogici” ce ne sono “uno e mezzo, nel senso che uno è part-time”. All’organico della polizia penitenziaria “mancano 30 agenti”, a fronte di 140 detenuti, 130 dei quali hanno alle spalle sentenze definitive. Arrivando al Codice ristretto, a spiegarne i contenuti a un gruppo di detenuti al lavoro nei laboratori sono stati Bulbi e l’avvocato Luca Donelli. “Questo documento è stato fatto nel vostro interesse - ha detto il legale, in rappresentanza della Camera Penale della Romagna. Si tratta di un prontuario, diviso in tre opuscoli, attraverso il quale saprete cosa fare e cosa no”. Qualche esempio: un detenuto ordinario condannato a una pena inferiore ai 6 mesi, può chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali dopo un mese di osservazione, mentre non ha diritto la riduzione di pena, che matura solo dopo aver scontato un semestre di detenzione. Altro caso è quello di chi, dopo l’evasione, è finito di nuovo in carcere. In questo caso il diretto interessato non potrà accedere al lavoro esterno per i successivi tre anni. Complessivamente i casi sono 26. Se una detenuta è incinta può scontare la pena ai domiciliari a patto che abbia da scontare un periodo residuo non superiore ai 4 anni. “Il Codice ristretto - spiega Bulbi - è nato con l’obiettivo di darvi contezza di ciò che potete chiedere”. E non sempre ottenere, perché la buona condotta ha un peso sulle decisioni del magistrato di sorveglianza. Bari. Carcere, istituito lo Sportello anagrafico per i detenuti Gazzetta del Sud, 19 luglio 2022 Il Comune di Bari ha accolto la richiesta della Casa circondariale, condivisa e sollecitata dall’ufficio del Garante regionale, di istituire uno Sportello demografico dedicato ai detenuti nella sede dell’istituto penitenziario in corso Alcide De Gasperi, con aperture periodiche. Nell’ambito delle attività previste in attuazione del protocollo di intesa tra Comune di Bari e la Casa circondariale, l’amministrazione comunale, su proposta dell’assessore ai Servizi demografici Eugenio Di Sciascio, sta portando avanti una serie di azioni sperimentali che garantiscano l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone private della libertà personale. Nel corso dei mesi scorsi, da una disamina delle esigenze della popolazione detenuta condotta presso la Casa circondariale di Bari, è emersa la necessità di assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali di stato civile in favore dei soggetti destinatari di misure restrittive della libertà individuale, con particolare riferimento ai servizi anagrafici (emissione di certificati, rilascio autentiche di firme su dichiarazioni sostitutive, emissione di carte di identità) e ai servizi di stato civile (celebrazione di riti civili, dichiarazioni di nascita, riconoscimento di paternità). Per dar seguito a tale esigenza, il Comune di Bari ha accolto la richiesta della Casa Circondariale, condivisa e sollecitata dall’ufficio del Garante regionale, di istituire uno sportello demografico dedicato ai detenuti all’interno della sede dell’istituto penitenziario in corso Alcide De Gasperi. A questa decisione sono seguiti una serie di approfondimenti normativi che hanno sancito la facoltà dell’amministrazione comunale designare quali “case comunali” luoghi ulteriori, ed anche plurimi rispetto al Municipio, purché il sito prescelto, anche se esterno alla casa comunale, sia nella disponibilità giuridica del Comune con carattere di ragionevole continuità temporale e vincolato allo svolgimento di funzioni istituzionali. Pertanto, la giunta comunale oggi ha così disposto l’istituzione di uno sportello anagrafico e di un separato ufficio di Stato civile, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 396/2000, da individuarsi all’interno della Casa circondariale di Bari, quale casa comunale, da destinare in via esclusiva allo svolgimento delle funzioni istituzionali di anagrafe e di stato civile in favore dei detenuti, con aperture a cadenza periodica, nelle modalità sancite dal direttore della ripartizione in base alle esigenze interne agli uffici. “La volontà di garantire pari diritti e pari dignità a tutti i cittadini è stato il principio secondo il quale, nel corso di questi mesi, abbiamo condotto una serie di ricerche e approfondimenti che ci permettessero di raggiungere i detenuti e la casa circondariale con una serie di servizi nel pieno della legittimità delle funzioni di Stato civile e di legittimità degli atti - spiega Eugenio Di Sciascio. Eleggendo al rango di casa comunale uno spazio dell’istituto penitenziario saremo così disponibili ad organizzare le aperture periodiche garantendo piena accessibilità ai servizi e il riconoscimento dei diritti di cittadinanza a tutti”. Reggio Calabria. Diritti umani, Patto etico tra Garante dei detenuti e Fidu reggiotoday.it, 19 luglio 2022 Giovanna Russo e Antonio Stango hanno siglato il protocollo che prevede tra i suoi obiettivi di garantire le migliori forme di monitoraggio istituzionale e diffusione di una cultura della giustizia e della legalità. Nella giornata internazionale di Nelson Mandela, uomo simbolo dell’uguaglianza e dell’antirazzismo, premio Nobel per la pace, due importanti istituzioni, esperti di massimo spessore umano, morale e professionale nel campo dei diritti umani hanno sottoscritto un Protocollo etico riguardante la diffusione della cultura dei diritti umani volta a sconfiggere le criticità delle condizioni detentive presso gli Istituti penitenziari di Reggio Calabria. Una risposta istituzionale formativa e di consapevolezza del detenuto rispetto ai propri diritti. Giorni fa si trovava in Calabria per alcuni importanti impegni istituzionali l’ambasciatrice per la pace e responsabile relazioni esterne presso UPF Italia (Universal Peace Federation), vicepresidente WFWP Italia, Maria Gabriella Mieli; giunta a Reggio la stessa ha incontrato la garante dei detenuti Giovanna Russo alla presenza dell’assessore ai diritti umani Lucia Anita Nucera. Durante la riunione tantissime sono state le tematiche affrontate: dalla promozione della pace alla concreta applicazione di alcuni progetti già inquadrati in ambito internazionale, che potranno trovare concreta attuazione in Calabria ed in particolare per le persone private della libertà personale. Tra i suoi plurimi impegni ha preso parte alla riunione il professore Antonio Stango, che ha con la garante Russo condiviso una serie di temi delicatissimi rispetto alle criticità del sistema penitenziario locale ed al contempo vagliato alcune azioni concrete al fine di dare risposte credibili. “Antonio Stango - dice la garante Russo - è uno dei massimi esperti a livello nazionale e internazionale nel campo dei diritti umani, un professionista che fa onore all’Italia per la sua massima preparazione. Il suo curriculum è di tutto rispetto: “Politologo, presidente della Federazione Italiana Diritti Umani (www.fidu.it), ha operato per i diritti umani fin dai primi anni Ottanta. Ha diretto Ong e progetti internazionali, svolto attività di monitoraggio in aree di conflitto e di crisi, collaborato come consulente con la Commissione e il Parlamento europei e con la Camera e il Senato italiani, organizzato decine di conferenze internazionali, condotto iniziative nonviolente in Stati totalitari e rappresentato diverse organizzazioni al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu a Ginevra. Per la International Helsinki Federation ha partecipato a missioni in diversi paesi stranieri. È professore a contratto di International Organisations and Human Rights alla Link Campus University di Roma e presidente del Centro Europeo Studi Penitenziari”. “Oltre al percorso professionale, parla chiaro il suo impegno condotto - continua Russo - seppur tra innumerevoli difficoltà con zelo e abnegazione al fine di dare risposte concrete alla realtà penitenziaria reggina di cui è competente”. Stango ha condiviso con la garante Russo tutta una serie di interventi, progetti e azioni future che prenderanno avvio proprio da Reggio Calabria con uno sguardo sul Mediterraneo. Tra i due vi è una fitta corrispondenza ed un leale confronto, tipico tra istituzioni che ricoprono il loro incarico nel rispetto dei ruoli, ma ancor prima nella condivisione etica, morale e valoriale dei loro incarichi. Della nostra terra sentiamo spesso dir male, ma c’è chi non perde le speranze, crede, e lotta fino in fondo per gli ultimi: così è nel caso della nostra garante. Capace di interloquire a livello nazionale e internazionale perché la promozione dei diritti umani e in particolare la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale non è un fatto chiuso, settoriale, piuttosto un’opportunità da non sprecare, anche nel panorama internazionale. Mandela a proposito di diritti umani diceva: L’educazione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo. Bene, oggi due persone con specifiche esperienze e competenze professionali hanno siglato un patto etico. E per citare nuovamente Mandela, a cui viene dedicata la giornata del 18 luglio a livello internazionale: Una buona testa ed un buon cuore sono sempre una formidabile combinazione. Il protocollo prevede tra i suoi obiettivi (a titolo esemplificativo), all’art.2, di garantire le migliori forme di monitoraggio istituzionale, contribuendo parimenti alla diffusione di una cultura della giustizia e della legalità contro ogni violazione dei diritti umani e dei diritti delle persone private della libertà personale. Prevede inoltre, previo parere istituzionale, l’affissione delle 122 regole di Nelson Mandela all’interno dei due plessi dell’Istituto Penitenziario di Reggio Calabria “G. Panzera” e la possibilità di concordare con l’amministrazione competente le modalità operative di diffusione dei diritti umani alle persone recluse e di promozione consapevole e responsabile dell’esercizio dei loro diritti e doveri, partendo dalla dichiarazione Onu di recepimento delle 122 regole di Nelson Mandela. Lo sanno bene Stango e Russo che nei prossimi giorni forniranno ulteriori specifiche rispetto al lavoro che stanno svolgendo. È un work in progress di una squadra che non lascia nulla al caso, ma del resto non è possibile occuparsi di diritti umani senza una minuziosa, attenta ed equilibrata visione del diritto e delle situazioni concrete. La garante Russo si ritiene onorata dell’attenzione riservata alla realtà penitenziaria reggina dal presidente Stango e dichiara che “presto spera di averlo in terra calabra, un territorio che a lui sta particolarmente a cuore”. Roma. Anche dietro le sbarre, l’abbraccio di una famiglia di Giulia Rocchi agensir.it, 19 luglio 2022 Insieme a Giovanni Panozzo siamo entrati nella Casa di reclusione di Rebibbia, a Roma, accompagnando il cappellano, don Antonio Pesciarelli. Con mons. Marco Fibbi, anch’egli cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia, scopriamo quale servizio svolgono in carcere. Qualche volta porta notizie dei familiari, qualche altra gli spiccioli per telefonare. Ma soprattutto porta conforto, vicinanza, capacità di ascolto. Il cappellano del carcere è sempre “una presenza significativa, perché i detenuti lo cercano, lo incontrano, lo frequentano. Forse molto di più di quello che succede all’esterno, tra le persone libere”. Lo sa bene monsignor Marco Fibbi, cappellano della casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia. Con lui, ogni giorno, si prendono cura di circa 1.400 detenuti anche padre Lucio Boldrin e don Stefano Occelli. C’è poi la Casa di reclusione di Rebibbia, il cui cappellano è don Antonio Pesciarelli (il protagonista del nostro video, “Ti ascolto”); ancora la Terza Casa Circondariale di Rebibbia, con padre Moreno Versolato e per finire il ramo femminile, dove le detenute possono contare su don Andrea Carosella. “Il cappellano richiama il mondo libero - riflette monsignor Fibbi -. Può entrare e uscire, e lo fa non per un obbligo lavorativo, ma perché è la sua missione. Tutte le persone che frequentano un carcere sono inquadrate in un servizio e hanno un ruolo molto ben definito, servono per determinate cose, diciamo. Mentre il cappellano è una figura che è presente e disponibile proprio per i detenuti”. E questo conta molto, agli occhi di chi sta scontando una pena. “Il cappellano è lì proprio per loro, per stare loro vicino non solo per questioni di carattere spirituale ma anche materiale”. Accanto alle funzioni più prettamente religiose, come le celebrazioni liturgiche, infatti, “noi è come se facessimo sempre centro d’ascolto”, sottolinea ancora il sacerdote. “Ad esempio, facciamo da tramite nei rapporti con le famiglie - spiega - e cerchiamo di mantenere i legami, perché il carcere limita molto la possibilità di comunicare; il cappellano è un mediatore spesso unico tra il detenuto e i familiari”. Una situazione che si è complicata ancora di più a causa della pandemia, quando le visite sono state interrotte, e in diverse carceri italiane - anche a Rebibbia - ci sono state rivolte da parte dei detenuti. “Anche le quarantene hanno influito moltissimo sugli ingressi in carcere - ricorda il cappellano - perché ad esempio dei detenuti venivano spostati per fare le quarantene e le famiglie erano completamente tagliate fuori. In quella fase eravamo noi cappellani a fornire informazioni ai parenti”. Aiutati, ci tiene a sottolineare don Marco, dai tanti volontari laici, da suore e seminaristi, presenze indispensabili in tanti penitenziari italiani. “Soprattutto in alcuni periodi particolari, come Natale o Pasqua, i volontari della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio fanno un gran lavoro - evidenzia -, portano doni e dolci come colombe o panettoni”. Molto graditi in un contesto in cui manca tutto. Ma quello di cui davvero i detenuti sentono la mancanza, rimarca il sacerdote, “è il rapporto con la famiglia, sia vicina che lontana. Ci sono familiari che sono formalizzati, come le mogli, i figli, i genitori che hanno accesso al carcere - spiega -. Poi ci sono altri casi tipo la fidanzata, la compagna o convivente che non è autorizzata al colloquio, quindi in questo caso mantenere il rapporto diventa più difficile”. A tenere uniti i fili ci pensano sempre loro: sacerdoti, religiose, volontari. “Proprio stamattina - racconta - ho dovuto portare la notizia di un lutto. Ho dovuto dire a un detenuto sulla cinquantina che era morta sua sorella, di 38 anni. Quasi non ci poteva credere, pensava che fosse morta la madre anziana. A noi tocca dare conforto sia religioso che umano”. Anche perché in una casa circondariale i detenuti non credenti o che professano altre religioni sono parecchi. I cappellani non fanno distinzioni, si mettono al fianco e al servizio di ciascuno. Grazie alle catechesi che si tengono periodicamente, c’è anche chi si riaccosta alla fede. A Rebibbia Nuovo Complesso i detenuti hanno commesso i reati più vari, ma don Marco e gli altri cappellani guardano a loro soltanto come a delle persone. Nessuno è solamente un ladro o un assassino. “Celebriamo tante cresime, anche se durante la pandemia abbiamo dovuto interrompere - riprende il sacerdote -. E c’è stato perfino qualche battesimo”. Verona. Metti… una sera d’estate al carcere di Paola Tacchella* Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2022 Serata speciale alla Casa Circondariale di Montorio. Per la prima volta, grazie al Direttore Maria Grazia Bregoli, le donne detenute e 50 ospiti hanno assistito ad una performance teatrale elaborata da un gruppo di detenute che hanno partecipato al laboratorio teatrale promosso e gestito dal Cpia di Verona. Il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti gestisce la scuola statale in carcere proponendo corsi di istruzione e formazione alle sezioni maschili e alla sezione femminile, dall’alfabetizzazione alla scuola media e collabora con l’Istituto Alberghiero Berti e Odontotecnico Fermi per il biennio superiore. Il Laboratorio Teatrale, condotto dalla regia di Lia Peretti con il coordinamento e l’assistenza di Paola Tacchella, ha realizzato già 3 spettacoli fra cui Risonanze con il quale ha vinto l’edizione 2022 nella Rassegna del Teatro della Scuola, a Valeggio sul Mincio, per Miglior Testo - elaborato e scritto dalle donne detenute - e il Primo Premio del Concorso. Lo spunto all’elaborazione di questo spettacolo è stato il tema del concorso: la scuola sposa l’ambiente. Ma quale ambiente in un carcere? le donne hanno allora preso per mano gli spettatori accompagnandoli, come in un viaggio al buio, nella quotidianità incarcerata scandita dai suoni e dalle voci. Dalla pesantezza e dal dolore che vi abita emerge pian piano lo sguardo d’amore, espresso nella riconoscenza per il bene delle piccole e grandi cose che illuminano la vita..” guardo le stelle e penso ai figli lontani, alle persone che non mi hanno abbandonato, ringrazio la scrittura e la lettura che mi sostengono in un respiro di libertà…” in una gratitudine alla vita espressa con la chiarezza delle parole autentiche nella loro disarmante semplicità. Come nelle edizioni precedenti l’emergenza sanitaria, e anche quest’anno con tre repliche realizzate in carcere, è stato fondamentale il supporto tecnico gratuito della Compagnia La Pocostabile di Verona. Le donne che hanno partecipato alla serata del 13 luglio sono otto, ma complessivamente hanno dato un contributo anche altre tre che sono uscite in pochi mesi, sempre nell’imminenza delle esibizioni; questo particolare racconta della realtà delle case circondariali dove le persone in attesa di giudizio possono essere scarcerate o trasferite all’improvviso. Proprio questa è stata la sfida della Compagnia delle Donne, sono state capaci di risolvere le difficoltà gestendosi in autonomia per riuscire a realizzare lo spettacolo. Per il Cpia la motivazione al progetto del teatro è infatti promuovere esperienza, accrescere competenze personali e relazionali ed esercitare ad un approccio positivo nella risoluzione dei problemi che si presentano non solo nel teatro ma nella scena più grande dove si svolgono le nostre vite. Il successo di quest’ultima sera ha avuto il sapore dello scambio, in un dialogo aperto e libero tra gli ospiti e le attrici, nell’aria ormai rinfrescata della notte, dove sotto una grande luna il cortile dell’ora d’aria si è trasformato in una corte libera. La cornice suggestiva delle pareti cementate ormai ridotte a carta velina, lo spettacolo e le voci sparse che ne sono seguite, e la brezza assaporata della notte aperta hanno riassegnato all’ambiente una dimensione riconquistata di umanità e di libertà. *Cpia Verona Pisa. Dal carcere al film: i detenuti del Don Bosco diventano attori gonews.it, 19 luglio 2022 Col mese di giugno, si sono conclusi i laboratori annuali del carcere Don Bosco, che anche quest’anno hanno visto detenute e detenuti, impegnati sul fronte della pratica scenica e performativa. Un corso durato otto mesi e finanziato da Regione Toscana e Fondazione Pisa. Dopo questa esperienza teatrale, gli allievi attori hanno accettato una nuova sfida: confrontare le tecniche attoriale perseguite nel tempo, con le prassi recitative legate alla video-arte, al video-teatro e al cinema. Ne è nato un film: una sorta di fantasy - il cui titolo provvisorio è “The Golden Egg” e che verrà presentato in prima nazionale a ottobre all’Internet Festival di Pisa che è tra i sostenitori del progetto. Il film, interpretato interamente dagli allievi detenuti e ideato dalla compagnia teatrale “I Sacchi di Sabbia” e da Davide Barbafiera, racconta di un uovo d’oro che piove misteriosamente dal cielo di un regno incantato, scombussolandolo completamente. Gli attori sono nove e hanno realizzato scene e costumi, oltre a partecipare alla realizzazione tecnica del film ad esempio dal ciack, ai microfoni. L’idea del soggetto nasce da un espediente favolistico: un grande uovo d’oro atterra in un Regno, che assomiglia un po’ al medioevo brancaleonico di Mario Monicelli. Questo mondo, in cui non c’è niente, è sconvolto dall’avvento di questo dono del cielo. Tutti i personaggi, che sono ispirati ad un immaginario fantasy (ci sono i tre sapienti, il mago Wikipedio, una principessa con la sua dama, un cavallo col suo cavaliere, un monaco penitente) interagiranno a turno con l’uovo d’oro, nel tentativo tragicomico di decifrare l’enigma che in esso è racchiuso. Ne sapremo comunque di più ad ottobre, quando il film uscirà. L’introduzione di questa nuova disciplina filmica segna un nuovo passo nel percorso creativo dei detenuti: un importante tassello che completa la proposta formativa che la Scuola di Teatro Don Bosco offre ai suoi partecipanti. Dopo essersi cimentati con la radio - ricordiamo il progetto Dantesco, nato in collaborazione con Punto Radio di Cascina e tutt’ora disponibile in podcast - gli attori del “Don Bosco”, erano già stati in “scena”, coordinati da Francesca Censi, Gabriele Carli, Letizia Giuliani, Carla Buscemi e Davide Barbafiera, in occasione della Giornata Mondiale del Teatro in Carcere, il 27 marzo scorso, proponendo un testo di profonda attualità: “Il gioco dell’epidemia” di Eugene Ionesco. La scuola di Teatro Don Bosco, realizzata dalla compagnia Sacchi di Sabbia, grazie al contributo della Regione Toscana e della Fondazione Pisa è ormai un punto di riferimento stabile all’interno delle attività della Casa Circondariale Don Bosco, le cui attività, grazie a questo lavoro filmico, avranno ancora maggior visibilità. Messina. I detenuti del carcere di Gazzi in scena con “Storie da Liolà” scomunicando.it, 19 luglio 2022 Il progetto “Tindari a cielo aperto - uno spazio di libertà” sarà il protagonista del prossimo appuntamento del Tindari Festival con la messa in scena di “Storie da Liolà” tratto da Pirandello. Lo spettacolo, in programma mercoledì 20 luglio alle ore 20:30, al teatro antico di Tindari, rientra nell’ambito dell’iniziativa ideata da Daniela Ursino e Tindaro Granata e vedrà esibirsi nel teatro di pietra la “Libera compagnia del Teatro per Sognare” composta dai detenuti della casa circondariale di Messina Gazzi. L’associazione D’arteventi diretta da Daniela Ursino sviluppa durante l’anno presso la casa circondariale di Messina dal 2017 un progetto che porta all’interno del carcere il teatro come strumento di riscatto sociale. “Questo progetto - ha spiegato il direttore artistico Tindaro Granata - è stato voluto per esaltare il lavoro di formazione teatrale all’interno della Casa Circondariale di Messina, che vede la sua massima espressione nell’incontro, al Tindari Festival, tra pubblico, detenuti in scena con artisti del teatro italiano, studentesse universitarie della facoltà Scienze Politiche e Giurisprudenza di Messina e dieci cittadine del Comune di Patti che per la prima volta abiteranno il Teatro Greco della propria città in veste di attrici”. La regia e le musiche sono a cura di Mario Incudine. Prenderanno parte allo spettacolo anche gli attori messinesi Giampiero Cicciò e Antonio Previti. Il progetto “Tindari a cielo aperto - uno spazio di Libertà” punta a mettere in connessione il mondo carcerario con la società esterna sulla scia del concetto della rieducazione della pena. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla sinergia tra l’Associazione D’arteventi, Tindari Festival, Comune di Patti, la Casa Circondariale di Messina, il Parco Archeologico di Tindari, la Caritas Diocesana di Messina e l’Università degli Studi di Messina. Il Progetto gode del patrocinio del Ministero della Giustizia e il patrocinio della Camera dei Deputati. “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” di Federico Girelli* tag24.it, 19 luglio 2022 Il senso del libro di Alessandro Capriccioli “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” (People, 2022, con prefazione di Manconi e Fortuna) viene appalesato nitidamente in uno degli ultimi capitoli, non a caso intitolato “Aria”: far conoscere a chi sta fuori come si vive lì dentro, dentro il carcere. Alessandro Capriccioli è un membro del consiglio regionale del Lazio e nell’esercizio dei suoi poteri ispettivi ha visitato gli istituti di detenzione presenti sul territorio regionale. Con questo libro racconta gli anni di lavoro impiegati a garanzia dei diritti dei detenuti: non si tratta di una relazione da presentare all’assemblea legislativa di appartenenza, ma di una sorta di diario che consente al lettore di scoprire ciò che di norma è celato, recluso, chiuso dietro delle porte. Ma come scrive lo stesso Capriccioli: “Le porte sono fatte anche per essere aperte, oltre che per essere chiuse”. Il titolo del volume fa evidentemente riferimento alla nota sentenza “Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha stabilito appunto in tre metri quadri lo spazio minimo (di “sopravvivenza”, verrebbe da dire), che dev’essere garantito: sotto questa soglia la detenzione diviene un trattamento inumano e degradante. Eppure l’Autore scrive: “Tre metri quadrati: provate a restarci per una mezz’ora, non per dieci o vent’anni, e poi riparliamone”. In questo viaggio si scopre che in carcere non ci sono solo efferati criminali, ma anche tanti “poveri diavoli” (diremmo noi che viviamo fuori), persone malate, persone con disturbi psichiatrici, anziani, analfabeti, bambini innocenti, anche piccoli, che sono costretti “dietro le sbarre” per stare vicino alle proprie madri, che per i motivi più diversi non hanno potuto beneficiare della detenzione domiciliare. Soprattutto ci sono anche i ragazzi minorenni, giovani che hanno “tutta la vita davanti” per comprendere i propri errori, per cambiare rotta; ragazzi e ragazze per i quali la detenzione dovrebbe costituire un’occasione di riscatto per cominciare una nuova vita o, meglio, per riprendere in mano la propria, per essere sul serio “rieducati” a correttamente partecipare al consesso sociale, secondo quanto, né più né meno, prescrive la Costituzione della Repubblica. Capriccioli ha incontrato anche le “irriducibili”, cinque signore, brigatiste rosse, che sono detenute dalla metà degli anni Ottanta e che non hanno mai richiesto alcun beneficio previsto dalla legge, perché hanno deciso di non dialogare con lo Stato che non riconoscevano e che non riconoscono, nemmeno per ottenere un trattamento migliore. Ci sono poi detenuti che debbono essere “protetti”: fra questi, emblematico è il caso degli autori di violenza sessuale sulle donne o sui bambini, una categoria “che suscita disprezzo e aggressività in ragione di un “codice d’onore” tuttora in vigore tra la popolazione carceraria”. Capriccioli scrive che “fa un certo effetto” incontrare queste persone condannate per reati così odiosi; ma il punto è che “il garantismo, che in ultima analisi significa recupero e quindi sicurezza, non va necessariamente a braccetto con l’empatia”. Leggete questo libro: comprenderete che i problemi di chi sta dentro, sono problemi di chi sta fuori. *Professore di Diritto Costituzionale Università Niccolò Cusano di Roma “Le madri non dormono mai”. Come vivono il carcere le mamme detenute ed i loro figli di Chiara Giacomi ilbacodaseta.org, 19 luglio 2022 “Le madri non dormono mai”, di Lorenzo Marone, è romanzo corale, dove protagonisti sono gli invisibili della nostra società. La storia è ambientata infatti in un Icam, un Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri. In strutture come questa i bambini possono trascorrere i primi anni con la loro mamma, in spazi che non ricordano eccessivamente un carcere vero e proprio. La finalità è quella di evitare il più possibile traumi e problemi legati alla sfera emotiva durante la crescita dei minori, ma è ovvio che, per quanto queste strutture si sforzino di essere accoglienti, all’interno vivono pur sempre donne che si sono macchiate di reati e quindi i figli non possono fare una vita “normale”: stanno sempre tra le sbarre, in spazi limitati, dove l’unica concessione è quella di andare a scuola con un pullman apposito e ogni tanto giocare in un parco, scortati dagli educatori. Nel romanzo Marone ci racconta, alternandole, le storie di varie detenute, che per ragioni diverse si trovano a scontare una pena più o meno lunga. Tra queste c’è la giovane Miriam e suo figlio Diego, il vero protagonista. Ha nove anni e prima di entrare in carcere se l’è dovuta vedere ogni giorno con i bulletti del quartiere napoletano in cui è cresciuto per colpa dei suoi chili di troppo e della sua scarsa autostima. Suo padre è in carcere e Diego non ha parenti prossimi che possano prendersi cura di lui, perciò vive dentro l’Icam. Ma lì trova paradossalmente un posto in cui si sente al sicuro e dove viene stimato dagli altri bambini presenti; essendo il più grande, funge da fratello maggiore e da guida per molti di loro, costretti a vivere da reclusi. Questo libro, coinvolgente e straziante, ha il merito di fare luce sulla questione carceraria ed in particolare sulla vita reale delle detenute madri. È nato dopo che il suo autore ha visitato l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, nel 2021. Lì ha potuto conoscere alcuni bambini ma anche chi cerca di trovare delle soluzioni dignitose, che permettano loro di non vivere l’infanzia da reclusi. Il romanzo “è dedicato ai bambini di Lauro, a tutti i bambini sfruttati e invisibili, emarginati e schiavi”, […] a chi m’ha insegnato a portare fiducia e rispetto per il prossimo, a chi mi ha educato ad avere affetto e attenzione per gli ultimi e non per i vincenti”, scrive Marone nei ringraziamenti finali. “Le madri non dormono mai”, più in generale, ci fa riflettere sul concetto di libertà, sulle carceri e le gabbie che spesso tutti abitiamo senza saperlo, che scegliamo senza rendercene conto e da cui poi veniamo stritolati, privati di desideri, speranze, ambizioni senza avere sconti di pena, senza poter fuggire dalla finestra calandoci con un lenzuolo per scappare all’infelicità che ci mangia vivi dentro. L’autore ci invita a guardare meglio alle nostre vite e a quella di chi ci gravita accanto, ad essere più delicati e sensibili nei confronti degli altri perché non possiamo sapere, anche quando crediamo il contrario, le loro verità e le loro sofferenze. “L’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire com’è fatta la prigione”. Filmando l’inferno del popolo curdo, diario di consapevolezza di una guerra di Giuseppe Gariazzo Il Manifesto, 19 luglio 2022 Cinema. “Kurdbûn - Essere curdo” di Fariborz Kamkari è ora visibile su Mubi, si basa sulle riprese della giornalista Berfin Kar a Cizre nel 2017. Cronaca di un assedio, di un massacro. Quello attuato dal regime turco e dal suo esercito, e dai paramilitari che facevano il lavoro sporco, a Cizre, nel Sud-Est della Turchia al confine con Iraq e Siria tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Un attacco pianificato contro gli abitanti di quella città a maggioranza curda, esempio di confederalismo democratico basato sulle idee e la loro realizzazione di Abdullah Ocalan, dei partiti curdi (messi al bando da Ankara, come l’Hdp), dei tanti sindaci, attivisti, giornalisti perseguitati, arrestati, uccisi nel corso del tempo nel tentativo di silenziare un intero popolo da parte della seconda forza della Nato, mai condannata dalle potenze internazionali. A Cizre, poco prima che l’inferno si scatenasse, era giunta, “per caso” come disse lei stessa, la giornalista televisiva curda Berfin Kar con il suo operatore Baran Yasak. E vi rimase per settimane, inizialmente decisa a filmare la città e le persone e poi rimasta intrappolata quando iniziò a scatenarsi l’offensiva turca nel momento in cui la popolazione non rispettò l’ultimatum dell’esercito di evacuare Cizre. Filmò, intervistò, entrò nelle case, si spinse nelle strade, visse nei rifugi sotterranei dove la gente era così tanta da rendere impossibile avere un piccolo spazio per coricarsi. A un certo punto, giunta un’apparente tregua, dovette andarsene, essendo per lei troppo rischioso rimanere, salvando così anche tutto il materiale che lei e Baran avevano girato. Quel materiale incandescente è confluito in Kurdbûn - Essere curdo (ora su Mubi dopo una breve uscita in sala), documento più che documentario costruito esclusivamente con i filmati “in diretta” di quel periodo che Fariborz Kamkari ha assemblato dando loro una forma narrativa. Ne è nato un lungometraggio incalzante, una “lezione” di Storia partendo da una delle più recenti atrocità compiute contro i curdi. Un assemblaggio non solo visivo - che accanto alle immagini televisive più classiche nella forma pone quelle “all’ultimo respiro” filmate sotto i bombardamenti con la videocamera che anch’essa ansima, cade, si nasconde al pari dei civili - ma pure di fonti che compongono la densa narrazione (tratte dallo scrittore iraniano Sadeq Hedayat, Brecht, Adorno, Abdullah Ocalan, il Gramsci di Odio gli indifferenti) affidata alla voce narrante di Heja Netirk che “interpreta” Berfin Kar (ancora in attesa del processo in Turchia insieme a Baran Yasek). IL “DIARIO” si fa così doppio: per immagini e parole. Un flusso di entrambe che dà al film il senso del thriller, una lunga serie di brevi scene chiuse da dissolvenze a nero. Come se, ma solo per una quasi impercettibile frazione di tempo, l’occhio fosse chiamato a riposarsi, a trovare un istante di riparo da quanto sta vedendo, prima di essere di nuovo scaraventato nei dettagli di quell’orrore quotidiano. Che per un attimo sembra fermarsi quando gli abitanti di Cizre un mattino si svegliano e scoprono che è nevicato, e bambini, ragazzi, adulti si lanciano per strada palle di neve, e una ragazza piange - ma per la gioia. La guerra sembra non esserci mai stata, o essere sparita, ma ben presto riprenderà furiosa. “Ho pensato di scrivere un diario esistenziale e ideologico che riflettesse la coscienza individuale e la consapevolezza che ogni curdo ha della propria storia e identità”, afferma Kamkari, cineasta e scrittore curdo-iraniano attivo in Italia che a ogni film ama reinventare il suo cinema esplorando sempre nuove traiettorie. Un anno di “Pegasus Project”, sorveglianza digitale fuori controllo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 luglio 2022 A un anno di distanza dalle prime rivelazioni del “Pegasus Project”, il frutto della collaborazione tra giornalisti di 17 organi di stampa di dieci paesi, coordinati da Forbidden Stories, Amnesty International ha dichiarato che l’assenza di una moratoria globale sulla vendita di spyware permette all’industria della sorveglianza di andare avanti senza controlli. Il “Pegasus Project” ha rivelato che governi di ogni parte del mondo stavano usando lo spyware “Pegasus”, sviluppato dall’azienda israeliana Nso Group, per sorvegliare illegalmente attivisti per i diritti umani, leader politici, giornalisti e avvocati. Dopo ripetuti solleciti affinché si adottassero regole sull’industria della sorveglianza, sono state intraprese alcune azioni nella giusta direzione ma i governi non hanno ancora fatto abbastanza: le aziende che sviluppano software per la sorveglianza stiano ancora traendo profitto da violazioni dei diritti umani su scala globale. Occorre sottolinearlo nuovamente: la sorveglianza mirata e illegale nei confronti dei difensori dei diritti umani e della società civile è uno strumento di repressione: viola il diritto alla riservatezza e può violare anche i diritti alla libertà di espressione, opinione, associazione e protesta pacifica. Nell’ultimo anno, il Security Lab di Amnesty International, che ha creato un apposito strumento per verificare la presenza dello spyware nei telefoni, ha scoperto nuove prove dell’uso di “Pegasus” in Marocco/Sahara Occidentale e Polonia e ha potuto confermare in modo indipendente numerosi altri casi di sorveglianza illegale come in El Salvador, Israele/Territori palestinesi occupati e Spagna. Ogni mese emergono nuovi casi di persone prese di mira da “Pegasus”. Ma cosa è stato fatto nell’ultimo anno? Indagini nei confronti della Nso Group sono in corso in Francia, India, Messico e Polonia. Nel marzo 2022 il Parlamento europeo ha istituito il “Comitato Pega” per indagare sull’uso di “Pegasus” e di altri spyware in Europa. Nel novembre 2021 il governo degli Usa ha inserito la Nso Group nella “Entity List”, l’elenco delle aziende che svolgono attività che rappresentano un pericolo per gli interessi della sicurezza nazionale o della politica estera. Un mese dopo, Apple ha presentato una denuncia contro la Nso Group chiedendo che fosse chiamata a rispondere per la sorveglianza subita dai suoi clienti. Nelle ultime settimane si sono diffuse voci sull’intenzione di L3Harris, un’azienda di subappalti della difesa statunitense, di acquisire la proprietà del software “Pegasus”. Il futuro della Nso Group resta incerto. Quello della sorveglianza digitale rischia di essere ancora molto florido. Cannabis terapeutica, sequestrate a Milano 34 piante nel circolo ispirato a Pannella di Luca Caglio Corriere della Sera, 19 luglio 2022 “Colpevoli di aiutare i pazienti”. Perquisita l’associazione The Hemp Club, che distribuisce dietro ricetta medica prodotti a base di cannabis. Il presidente D’Ambrosio: “Ciascuna pianta aveva il nome di un paziente che aveva firmato un atto di disobbedienza civile”. Domenica 17 luglio. “Ma quando arriva Raffaello? Sono le 15, dovrebbe essere già qui”. Al 70 di via Brusuglio, quartiere Affori, una signora cammina nell’androne aspettando il presidente di The Hemp Club, l’associazione culturale ispirata a Marco Pannella dove da ottobre 2020 si coltiva cannabis, ma non in versione light: solo infiorescenze con Thc oltre il 20 per cento per uso terapeutico dietro prescrizione medica. “Ce l’ho, rilasciata da un primario dell’ospedale Sacco - avverte la donna prossima alle vacanze, soffro di dolori alle ossa, la cannabis è la mia terapia e qui riesco ad averla subito con grandi benefici”. Raffaello D’Ambrosio si palesa in bicicletta. Lasciando l’androne si attraversa un cortile, poi sulla sinistra si imbocca una breve rampa che conduce al club, uno spazio di 600 metri quadri dove c’è anche una stazione radiofonica, perché tra gli obiettivi c’è anche quello di informare senza nascondersi. L’allestimento interno è tipico di un circolo, niente in comune con le farmacie eccetto le ricette esibite per il ritiro del farmaco, assumibile anche con vaporizzatore o a gocce se si tratta di olio. Intorno: foto alle pareti, graffiti, elementi botanici, un bancone da bar, la therapy room già occupata da una manciata di soci fumatori, altri posti a sedere per raccontarsela. “E questa è la stanza delle coltivazioni, o meglio lo era - mostra il presidente -: sabato scorso la polizia di Stato ha posto sotto sequestro le piante, 34 in tutto, ciascuna con il nome di un paziente che aveva firmato un atto di disobbedienza civile”. Nessuna autorizzazione ufficiale. Per questo l’associazione, unico cannabis social club a Milano, è ora indagata per coltivazione a fini di spaccio (art. 73 del Testo sugli stupefacenti), reato che prevede la reclusione da sei a vent’anni e una multa da 26 mila a 260 mila euro. “Ci impegniamo nel facilitare l’accesso a una sostanza spesso innominabile, consentendo ai pazienti di consumare nei nostri locali, è questa la nostra colpa?”. Campanello. Entrano due ragazzi per il ritiro del prodotto. Ne sopraggiunge un altro, pugno sul cuore e saluto al presidente: “Massimo supporto, bro’”. Già sa. La maggior parte delle ricette mediche sono “bianche”, non rimborsabili dal Sistema sanitario, e non sempre si fa accenno alla terapia del dolore, per esempio c’è anche chi ricorre alla cannabis per combattere ansia e insonnia. “Organizziamo un centinaio di visite specialistiche al mese, con una media di 15 grammi per ricetta, stiamo cercando di promuovere la nostra attività politica e di resistenza civile” spiega D’Ambrosio, certo che prima o poi l’avrebbero perquisito. Non la fine ma un nuovo inizio, sperando di creare un precedente come fatto da Marco Cappato, socio onorario, per il diritto all’eutanasia nel processo per il suicidio assistito di dj Fabo. “Vogliamo consentire ai pazienti di coltivare la propria terapia, senza gravare sullo Stato e senza alimentare la criminalità”. Secondo Valentina, animo barricadero, medici e infermieri andrebbero formati su un tema che taluni considerano ancora tabù, nonostante l’Onu abbia riconosciuto le proprietà terapeutiche della cannabis, con raccomandazione agli Stati di rimuoverla dalla categoria “stupefacenti”. Riprende il discorso D’Ambrosio: “Ho visto ricette rosse, mutuabili, con evidenti lacune, dove si richiedeva la somministrazione di mille grammi di sostanza, un chilo, ma è una quantità enorme, un chiaro errore”. Tra gli altri episodi citati per nobilitare l’operato del club, quello di una persona affetta da sclerosi multipla che non riusciva a ottenere la ricetta, lo stesso problema di un ragazzo paraplegico. “Interveniamo laddove viene precluso un diritto, consapevoli anche della difficoltà delle farmacie a reperire il farmaco, da loro venduto a prezzi molto elevati: un grammo al giorno per un mese ha un costo di almeno 340 euro”. Guerra giusta e giusta pace. Due visioni a confronto di Sabino Cassese Il Foglio, 19 luglio 2022 Una realtà, a certe condizioni, o un’utopia, se è impossibile porre la violenza sotto il controllo di regole. Le contraddizioni nel diritto dei conflitti armati. Lezioni dalla storia e dalla guerra in corso. Nella misura in cui c’è un diritto bellico, ci possono essere una guerra e una pace giuste? Se la risposta è negativa, vuol dire che non è stato possibile porre la violenza sotto il controllo di regole, e quindi del diritto, e renderla, di conseguenza, giusta. Due guerre mondiali o, come altri dicono, una guerra mondiale che è durata dal 1914 al 1945, 60 milioni di morti solo nel teatro europeo, tre volte tanto il numero dei feriti, distruzioni fisiche incalcolabili: tutto ciò non ha insegnato nulla? Militarista. Fin dai tempi di Agostino e di Tommaso, si pensava che una guerra potesse essere giusta a tre condizioni: che fosse dichiarata da un’autorità legittima, che fosse motivata da una giusta causa, che si svolgesse in modi legittimi. È poi intervenuto l’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, che legittima le guerre se sono necessarie per la propria difesa, e se non lasciano altra strada o mezzo per risolvere un conflitto. Pacifista. Nella guerra non esistono solamente i belligeranti. Gli Stati fanno parte di una comunità internazionale e occorre che la guerra sia condivisibile, oppure accettabile, oppure tollerabile dagli altri. Come osservò Franklin Delano Roosevelt, con una frase che è stata citata anche da Putin a suo tempo, “quando la pace viene infranta in un luogo qualunque, la pace di tutti i paesi è in pericolo ovunque”. Purtroppo, il diritto dei conflitti armati è pieno di contraddizioni. Consente l’uso legale della forza, ma accetta anche misure di ritorsione. Stabilisce che i civili vanno protetti, ma non riesce a tracciare la linea di confine tra civili e militari. Non è riuscito a introdurre un meccanismo internazionale di supervisione per i casi che vengono definiti di “belligerant occupation”, qual è quello dell’aggressione russa alla nazione ucraina. Non riesce a porre sotto controllo la restrizione dell’uso di alcune armi, nonostante che in teoria le regole ci siano. Riconosce i diritti individuali durante le ostilità, ma senza assicurarne l’effettiva protezione. È un campo nel quale - come è stato osservato - occorre nutrire un un’utopia realistica, sviluppare un pensiero immaginativo, ricorrere a riformatori giudiziosi, per affrontare le più avvilenti inadeguatezze della comunità internazionale. Militarista. È facile parlare di pace. Ma vi sono tipi diversi di pace. Una cosa è un periodo di pace tra due guerre, altra cosa la pace sistemica alla quale aspiravano gli illuministi. Il secondo luogo, che vuol dire pace giusta? Correttamente Lucio Caracciolo, sulla Stampa del 4 luglio di quest’anno, si è chiesto se sia possibile ottenere una pace subito tra due contendenti tra i quali è andata crescendo, negli ultimi trent’anni, ma specialmente dal 24 febbraio 2022, una carica di odio tanto forte. Caracciolo pensa possibile una tregua piuttosto che una pace, cioè una pace provvisoria, per mettersi d’accordo su un percorso, con più tappe. Rimangono, peraltro, sullo sfondo, domande senza risposta. La prima è la seguente: qual è lo scopo dell’aggressione russa? Conquistare un piccolo pezzo di terra, oppure, più in generale, ristabilire un equilibrio - che si pensa rotto - tra Occidente e Oriente? La seconda domanda: in un conflitto che vede contrapposte forze dotate di armi atomiche, sopravvive ancora la categoria della guerra giusta? Pacifista. Bisognerebbe però almeno ascoltare i giudici. Il diritto internazionale ha avuto, da parecchi decenni, uno sviluppo interessante. Ha superato la tecnica di soluzione dei conflitti mediante la guerra, e quella che fa ricorso al negoziato, per affidare la soluzione dei conflitti a terze parti, cioè a giudici. Mi rendo conto che questo è molto difficile, ma, nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina, qualche passo è stato fatto. La Corte internazionale di giustizia ha adottato misure provvisorie e urgenti chiedendo la sospensione delle operazioni militari in Ucraina e proponendo di non aggravare il conflitto. Già il 16 marzo ha emesso un ordine di fermarsi e risarcire i danni. L’ha fatto su ricorso dell’Ucraina contro la Federazione russa, sulla base della convenzione del 1948, per difendersi dall’accusa della Federazione russa di genocidio. Anche la Corte penale internazionale ha aperto un’inchiesta, perché ad essa si sono rivolti 41 Stati, tra cui l’Italia. Militarista. Che cosa è stato fatto dalle forze pacifiste per mantenere la pace in questi anni? Si sono cullate nella idea kantiana che il commercio mondiale avrebbe prodotto la pace. Hanno tentato la strada della esportazione o della promozione della democrazia, pensando che questa, come il commercio, potesse a sua volta produrre automaticamente la pace. Ma né il commercio internazionale, né lo sviluppo delle democrazie nazionali garantiscono automaticamente la pace. Bisognava fare qualcosa di più. Stabilire altre forme di collaborazione tra le nazioni. Trovare il modo di sottrarre al governo unilaterale degli Stati quegli strumenti che possono causare conflitti. Un esempio è quello delle frontiere. Un altro esempio è quello delle fonti di energia. Un altro esempio ancora è quello del commercio delle armi (i tentativi fatti nel 2008 e nel 2014 a questo proposito non sono stati sufficienti; non basta il divieto assoluto dell’uso delle armi per commettere genocidi, crimini contro l’umanità e gravi violazioni della convenzione di Ginevra). Anche la giustizia internazionale è lenta, o non funziona, o non è ascoltata. Pacifista. L’aggressione russa alla Repubblica Ucraina presenta però caratteristiche peculiari, che rendono più grave il conflitto provocato dalla Federazione russa. È una guerra di conquista, non di liberazione, mira al territorio, non a liberare la popolazione. Si svolge tra paesi tra i quali vi è un fortissimo squilibrio: il territorio ucraino è per estensione meno del 4 per cento del territorio della Federazione russa, che è per di più dotato di risorse naturali infinitamente più ricche. Militarista. Un’altra difficoltà dell’attuale situazione deriva dal tipo di intervento di soggetti terzi a favore dell’Ucraina. Sono state disposte sanzioni. Vengono chiamate sanzioni, ma sarebbe meglio chiamarle ritorsioni. Per quanto le nazioni che hanno disposto sanzioni siano convinte di stare dalla parte della ragione, salvo le iniziative della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale, non vi sono pronunce dei giudici che ordinino sanzioni, e quindi queste ritorsioni sono un modo per farsi ragione da sé. Si differenziano anche dalle “retaliatory measures” dell’Organizzazione mondiale del commercio, perché quelle sono previste dai trattati e sono disposte sotto il controllo dell’organo di risoluzione delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio. Anche quelle, peraltro, producono asimmetrie. Come ha osservato un esperto del commercio internazionale, una cosa è per l’Unione europea essere esclusa dal mercato dell’Ecuador, una molto diversa per l’Ecuador di essere esclusa dal mercato europeo. Pacifista. In questo caso, però, c’è una pronuncia della Corte internazionale di giustizia, che in base all’articolo 36, primo comma, del suo statuto e all’articolo IX della convenzione del 1948 ha disposto che l’Ucraina ha il diritto a non essere soggetto alla falsa accusa di genocidio e che non si può usare la forza nel territorio di un altro Stato con lo scopo di prevenire o punire un supposto genocidio. Militarista. Nel 1983, Milan Kundera, nello scritto “Un Occidente prigioniero”, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2022, riferendosi principalmente a Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, osservava che “l’Europa centrale non è uno Stato, ma una cultura e un destino. I suoi confini sono immaginari e a ogni nuova situazione storica debbono essere tracciati daccapo”. Kundera lo scriveva per caldeggiare l’idea dell’eurocentrismo. Anche di questo bisogna tener conto, nel valutare il conflitto attuale. Pacifista. Consideriamo però anche alcuni altri dati di fatto, relativi alla Russia. Questa invasione, in sostanza, nasce 15 anni fa, quando Putin ha cominciato a opporsi al cosiddetto modello unipolare, a concepire la Russia come fortezza, a contrastare le teorie di George Kennan (1947) del contenimento. L’aggressione all’Ucraina è il prodotto di un nazionalismo accentuato, è stata preceduta da una forte centralizzazione del potere, da un ridisegno delle linee di comando tra centro e periferia, da una forte accentuazione della retorica patriottica, da una sottolineatura della continuità tra la Russia zarista, la Russia sovietica e la Russia post-sovietica, da una dura contrapposizione con l’eurocentrismo, dal bisogno di riconoscimento come grande potenza, da una accentuazione di valori, cultura, esperienza tradizionali russi. Basta leggere in proposito due libri importanti, quello di Giuliano da Empoli, “Il mago del Cremlino” (Mondadori, 2022) e quello di Orietta Moscatelli, “Putin e putinismo in guerra” (Salerno editrice, 2022). Militarista. Proprio Moscatelli, in quest’ultimo libro, ricorda che Putin avrebbe spiegato ad Angela Merkel quanto sia difficile tenere unito un paese che va dalle rive del Baltico di Kaliningrad a Petropavlovsk in Kamchatka. Moscatelli riporta una frase detta da Putin alla cancelliera tedesca nel 2012: “Caterina II all’inizio voleva cancellare in fretta il diritto di schiavitù. Poi studiò la composizione della Russia e sa cosa fece? Rafforzò i diritti della nobiltà e distrusse i diritti dei contadini. Da noi è impossibile fare altrimenti, fai un passo a destra, uno a sinistra ed ecco, fine, hai perso il potere”. Pacifista. Ma proprio Caterina II è l’esempio di una sovrana illuminata. Basti ricordare i suoi rapporti con l’illuminista Diderot e leggere quei “Mélanges pour Catherine II”, scritti tra il 15 ottobre e il 3 dicembre del 1773, che contengono tante osservazioni acute sulla Russia, sulla sua storia e i suoi governanti, oltre ad essere una vera e propria “école d’un souverain”. Militarista. Non dimentichiamo che la Russia è una potenza mondiale recessiva. Questa è una conclusione che appare chiara dall’ultimo libro della costituzionalista italiana Fiammetta Salmoni, intitolato “Guerra o pace. Stati Uniti, Cina e l’Europa che non c’è”, edito dalla Editoriale scientifica nei giorni scorsi. È un libro che contiene una riflessione costituzionalistica nutrita di storia delle relazioni internazionali su imperialismo, guerra fredda, difesa comune, contenimento, e considera la divisione del mondo tra superpotenze, mettendo a fuoco le tensioni che si affacciano nel mondo internazionale e considerando gli attori principali, non solo gli Stati. In questo libro la Russia appare un attore secondario. Pacifista. Ma proprio il ruolo della Russia dimostra che non bisogna temere soltanto la “trappola di Tucidide”, così bene esposta dal politologo americano Graham Allison nel 2012 e ripresentata da Fiammetta Salmoni nel modo seguente: “Una nuova potenza emerge, insidiando con la propria continua espansione la preesistente egemonia di un’altra potenza, accresce il timore di quest’ultima di perdere la propria posizione di primazia fino al punto di scatenare una vera e propria guerra”. È quello che racconta Tucidide nella “Guerra del Peloponneso”, e che accadde tra Atene e Sparta. Ma questo quadro non considera il pericolo delle potenze non emergenti ma recessive, né l’insieme dei contropoteri di cui gli stessi imperialismi hanno bisogno, ivi inclusa la globalizzazione, che serve alla realizzazione sia di interessi, sia di valori delle forze imperialistiche, che hanno bisogno di aprire il campo ai propri commerci e non possono negare alcuni valori essenziali, come il divieto del lavoro forzato. Militarista. Torniamo al conflitto Russia-Ucraina. Se le dimensioni delle due nazioni in conflitto sono tanto diverse, tuttavia, non sono tanto squilibrate le forze militari perché la Repubblica Ucraina dispone di 145 mila militari e i russi di 160 mila. Pacifista. Vediamo anche i risultati di questa guerra. Il riarmo della Germania. La Nato che si rafforza (diventata tre volte più grande nei 20 anni della Russia putiniana, e ora ingigantita da questa guerra). Il rafforzamento dell’asse baltico. Se si affronta questo con l’idea, maturata nell’ultimo decennio del secolo scorso, che potesse esservi una comunità di Stati democratici estesa da Vancouver a Vladivostock, si capisce quale differenza si è prodotta. Non dimentichiamo che la Federazione russa opera con le armi, uccidendo e distruggendo, e che l’Occidente opera mediante finanziamenti, fornitura di armi, ritorsioni, quindi con strumenti che non producono i danni delle armi. Militarista. Ma è proprio questo che cerca di osteggiare Putin, come disse nel discorso all’Onu del 2015, nel settantesimo anniversario dell’Organizzazione: l’esportazione della rivoluzione democratica, la penetrazione dello stesso diritto internazionale nel diritto interno, il tentativo di influenzare il regime politico dei singoli Stati attraverso istituzioni come il Fondo per la democrazia delle Nazioni unite o l’Iniziativa similare dell’Unione europea. Questo fa sentire Putin accerchiato. Pacifista. Il tipo di reazione della Federazione russa ha rivitalizzato la Nato. Questa ha avuto una vera e propria trasformazione. Entrata della Finlandia e della Svezia. Appoggio all’Ucraina a lungo termine. Nuova strategia. Ampliamento delle attività fuori del settore militare, dal terrorismo alla crisi alimentare, al cambiamento climatico, all’innovazione. Aumento del bilancio. Nuove relazioni con l’India e con l’area del Pacifico. La Nato sta diventando da un’organizzazione speciale un’organizzazione generale, attenta non solo al fianco est ma anche al fianco sud, con una presenza militare quasi otto volte più grande e un’estensione territoriale che passa da quella regionale a quella globale. La Russia sta deportando un gran numero di ucraini (nel silenzio generale) di Alessandro Cappelli linkiesta.it, 19 luglio 2022 Attraverso i campi di filtraggio creati nei territori occupati, il Cremlino ha detenuto o portato fuori dal Paese donne, uomini e bambini accusati di aver collaborato con la resistenza di Kyjiv. Secondo le stime più affidabili, ad aver subito questa violazione dei diritti umani sono state finora tra 900mila e 1,6 milioni di persone. “Le autorità russe devono rilasciare le persone detenute e consentire ai cittadini ucraini deportati con la forza, o costretti a lasciare il loro Paese, la possibilità di tornare a casa il più presto possibile e in sicurezza. Chiediamo alla Russia di fornire a osservatori indipendenti esterni l’accesso alle cosiddette strutture di filtraggio e alle aree di trasferimento forzato in Russia”. Il messaggio è firmato dal segretario di Stato americano Antony J. Blinken, in una dichiarazione che si può leggere sul sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Secondo stime provenienti da diverse fonti, compreso lo stesso governo russo, le autorità di Mosca hanno interrogato, detenuto o espulso con la forza un gran numero di cittadini ucraini, si pensa tra i 900mila e gli 1,6 milioni. Tra loro ci sarebbero anche 260mila bambini. Persone estromesse dalle loro case e deportate in Russia, spesso in regioni isolate dell’Estremo Oriente. Le deportazioni della popolazione ucraina sarebbero operazioni premeditate, studiate e già testate, paragonabili ad altre già messe in atto dal Cremlino in Cecenia e in altre regioni, secondo il Dipartimento di Stato americano, che dice di aver identificato 18 campi di filtraggio allestiti lungo il confine. “Le decisioni del presidente Putin stanno separando famiglie, confiscando passaporti ucraini e rilasciando passaporti russi nell’apparente sforzo di cambiare la composizione demografica di parti dell’Ucraina”, scrive Blinken. Il Segretario di Stato americano ha descritto i trasferimenti come “una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili” e “un crimine di guerra”. Ma la stessa Russia ha riconosciuto che 1,5 milioni di ucraini si trovano ora sul suo territorio, dicendo però che sono stati evacuati per questioni di sicurezza. Mosca nega di aver costretto gli ucraini a lasciare le loro case e dice di fornire assistenza umanitaria e passaggio sicuro alle persone che vogliono lasciare il Paese: li avrebbero allontanati di migliaia di chilometri dalle loro case, nella nazione che ha attaccato la loro, per salvarli. Già lo scorso marzo, il ministro degli Esteri britannico Liz Truss aveva denunciato il “rapimento e la deportazione” di ucraini dalla città assediata di Mariupol, paragonando le operazioni dell’armata russa a quelle della Germania nazista. Ad aprile, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno aveva fatto lo stesso: “Le notizie che giungono dall’inferno ucraino riportano di centinaia di cittadini deportati in territorio russo, mentre la lista dei crimini contro l’umanità si allunga giorno dopo giorno. Scene di distruzione e termini orribili che pensavamo di aver rimosso dal nostro linguaggio e rilegato nelle pagine più buie della Storia”. L’Economist ha offerto una prospettiva su questa vicenda partendo dal caso di un fornaio di Bucha di nome Matviy. “Quando lo scorso marzo è iniziato l’assalto al sobborgo poco distante da Kyjiv, in cui è stato perpetrato un massacro, Matviy è rimasto ad aiutare i suoi vicini. Il 18 marzo i soldati russi hanno fatto irruzione nella sua casa e lo hanno portato via. La polizia, i pubblici ministeri e le organizzazioni per i diritti umani dell’Ucraina non sono stati in grado di aiutare”, scrive l’Economist. Ma Bucha è solo la punta dell’iceberg. I numeri delle deportazioni sono altissimi e comprendono attivisti, giornalisti e operatori umanitari. I giornalisti Serhey Tsyhipa e Oleh Baturin, ad esempio, sono stati sequestrati il 12 marzo mentre riferivano di atrocità commesse dalle forze russe. E Tsyhipa dopo giorni è apparso sulla tv di Stato russa con un aspetto malmesso e in cattive condizioni di salute, ripetendo qualcosa impostagli dalla propaganda del Cremlino. Il 21 aprile scorso 308 rifugiati provenienti da Mariupol sono arrivati a Nachodka, una città dell’estremo oriente russo, poco distante da Vladivostok, di fronte al Giappone. Come riportava Meduza in quei giorni, prima del loro arrivo, il governo regionale ha riferito che c’erano più di 1.700 posti di lavoro vacanti per i rifugiati di Mariupol in più di 200 organizzazioni. Una settimana prima dell’arrivo dei rifugiati, l’ufficio stampa del ministero per lo Sviluppo dell’estremo oriente e dell’artico russo aveva annunciato che c’erano ben 62mila posti vacanti elencati nel database del Servizio per l’impiego di Primorsky e che gli specialisti stavano già offrendo lavoro ai rifugiati. Ma una fonte a conoscenza della situazione aveva detto che la maggior parte dei rifugiati provenienti da Mariupol non è riuscita a trovare lavoro. “Le sparizioni in Ucraina non sono una storia nuova”, si legge sull’Economist, facendo riferimento a operazioni codificate ben prima dell’invasione del 24 febbraio. “Tra il 2014 e il 2021 sono scomparse oltre 2mila persone: erano implicate sia le forze filo-russe che i servizi di sicurezza ucraini. La Russia ha dispiegato queste tattiche terroristiche per decenni. Dopo aver annesso la Crimea nel 2014, attivisti tartari di Crimea e leader della comunità sono scomparsi a frotte. Durante le due guerre russe in Cecenia negli anni ‘90, le sparizioni erano così diffuse che Human Rights Watch le aveva denunciate come crimine contro l’umanità”. Alcuni deportati fuggiti da questi cosiddetti “campi di filtraggio” hanno parlato con il New York Times e altri organi di stampa fornendo descrizioni e resoconti di interrogatori, percosse e torture riservate agli ucraini, specialmente a chi ha legami con le forze armate del Paese: chi ha combattuto con l’Ucraina o ha legami con il reggimento Azov viene separato dagli altri e spesso scompare per sempre. Diversi funzionari europei hanno denunciato l’allestimento di questi luoghi in scuole, centri sportivi e istituzioni culturali disseminati in quei territori dell’Ucraina recentemente conquistati dalle forze russe. Michael Carpenter, l’ambasciatore degli Stati Uniti all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), lo scorso maggio aveva parlato di “interrogatori brutali” e denunciato deportazioni nell’ordine di almeno decine di migliaia di persone. Le famiglie spezzate dalla brutalità dei metodi russi stanno facendo di tutto per riavere indietro i propri cari. Kyjiv riesce a far molto poco in merito, le istituzioni internazionali ancora non hanno trovato il modo di fermare le operazioni. La denuncia di Blinken della settimana scorsa non era la prima né sarà l’ultima su questo tema. Ma al momento la risposta occidentale a questa forma di offensiva criminale è ancora troppo debole. Ucraina. Intrighi e tradimenti: dietro le purghe di Zelensky la trama di un golpe incompiuto di Fabio Tonacci La Repubblica, 19 luglio 2022 La mancata difesa di Kherson e Kharkiv ma soprattutto il presunto accordo segreto con il Cremlino per rimuoverlo dal potere sono alla base della decisione del presidente ucraino di sospendere i vertici di intelligence e magistratura. Il lungo rosario di licenziamenti, sospensioni e arresti che, dal 24 febbraio, ha sforbiciato i vertici degli apparati statali ucraini disegna la trama di un golpe incompiuto e, insieme, l’ordito di un radicale riassetto del potere. Sempre più saldo nelle mani del presidente Zelensky, sempre meno accessibile ai suoi oppositori politici. A precipitare nello sconcerto l’opinione pubblica, ieri, è stato l’allontanamento improvviso di Ivan Bakanov e di Iryna Venediktova. Non due nomi qualsiasi: capo dei servizi segreti (Sbu), il primo; procuratrice generale che indaga sui crimini di guerra russi, in sostanza il magistrato più importante dell’Ucraina, la seconda. “Li abbiamo solo sospesi, per fare accertamenti sul loro operato”, è la spiegazione del governo. In effetti, sessanta dipendenti della procura generale e dello Sbu sono rimasti nelle zone occupate dai russi e i loro fascicoli sono nella pila dei 651 casi aperti contro pubblici ufficiali ritenuti collaborazionisti. Bakanov, che faceva parte di Kvartal 95, la società di produzione di Zelensky, paga per non aver visto arrivare il complotto: alla vigilia dell’invasione, una parte dello Stato si è accordata segretamente con l’intelligence russa, e Bakanov non ne sapeva niente. Nelle stesse ore in cui veniva sospeso (l’incarico, pro tempore, è stato dato al vice, Vasyl Malyuk), è finito in carcere un suo amico, Oleg Kulinich, fino al marzo 2022 responsabile Sbu per la Crimea, la penisola da cui è partita indisturbata la colonna di carri armati che si è presa Kherson in poche ore, senza neanche il fastidio di dover sparare un colpo. La mancata difesa di Kherson, unica città conquistata a ovest del fiume Dnepr e punto strategico per la Crimea (da lì arrivano le riserve idriche), è un tema sensibile. Perché non sono stati fatti brillare i ponti per tagliare l’avanzata nemica? Come hanno fatto i soldati di Mosca a evitare i campi minati? Qualche interrogativo lo solleva anche la storia di Kharkiv, la seconda città del Paese, dove nelle prime ore del conflitto una gran fetta dell’esercito si è rifiutata di combattere, lasciando alle forze di difesa territoriale l’onere improbo di arginare l’ondata russa. C’era un accordo segreto, il governo di Kiev ne è ormai certo e la sfilza di epurazioni ne è la prova. Il Cremlino aveva avuto rassicurazioni da una parte degli apparati ucraini - ancora pieni di funzionari nominati dal vecchio premier filorusso Yanukovich - che non ci sarebbe stata vera resistenza e che i blindati avrebbero sfilato a piazza Maidan al massimo in tre giorni. A patto che Zelensky fuggisse dalla capitale. Il presidente, però, non è salito sull’elicottero degli americani, è rimasto al suo posto, e si è vendicato su chi, a suo parere, aveva tradito. Nell’ordine: il generale Serhii Kryvoruchka (capo Sbu a Kherson, gli sono stati tolti i gradi), il suo assistente Igor Sadokin (arrestato a marzo), Gennadii Lahutia (capo dell’amministrazione militare di Kherson, rimosso il 28 giugno), Andriy Naumov (capo della sicurezza interna dello Sbu, arrestato in Serbia), Roman Dudin (capo Sbu di Kharkiv, arrestato il 29 maggio). Al repulisti, Zelensky ha affiancato però un’operazione di rafforzamento politico. Così va letto lo stop della procuratrice Venediktova, da lei considerato illegale. “Al di là del motivo ufficiale”, ragiona con Repubblica Gennady Maksak, analista del think tank Prizm di Kiev, “avevano dubbi sulla sua fedeltà all’ufficio presidenziale e alla lotta di questo contro l’ex presidente Poroshenko”. Venediktova in passato non ha voluto firmare delle carte sull’inchiesta per tradimento a carico di Poroshenko, lasciando l’incombenza al suo vice, Oleksiy Symonenko. Symonenko, in seguito, ha anche fatto trasferire allo Sbu, di fatto insabbiandola, un’indagine per corruzione su Oleg Tatarov, uno degli uomini più vicini a Zelensky nonché vice dell’Ufficio presidenziale. Proprio quel Symonenko che, oggi, è stato messo al posto di Venediktova. Russia. Nuovo arresto per Ovsjannikova, la giornalista che portò il poster pacifista in tv di Rosalba Castelletti La Repubblica, 19 luglio 2022 La producer è stata rilasciata nella notte, ma è sospettata di “discredito delle forze armate”. Venerdì aveva tenuto una protesta davanti al Cremlino. “Gde Marina?”. Dov’è Marina? Ancora una volta per diverse ore non si hanno avute più notizie di Ovsjannikova, l’ex giornalista di Pervyj Kanal, Primo Canale, protagonista lo scorso marzo di una clamorosa irruzione durante il tg della sera con un poster pacifista. “È stata arrestata e le informazioni sulla sua posizione sono sconosciute”, si leggeva ieri sul suo canale Telegram accanto ad alcune foto che la ritraevano mentre due agenti la allontanavano da una bicicletta e la scortavano verso un cellulare della polizia. Nella notte è stata Marina Ovsjannikova stessa a rassicurare: “Sono a casa. Va tutto bene. Ora so che è meglio uscire di casa con il passaporto e una valigia”. Secondo il suo avvocato, Dmitrij Zakhvatov, è stata interrogata perché sospettata di aver “screditato” l’esercito per le sue parole pronunciate la scorsa settimana davanti al tribunale di Mosca dove veniva processato l’oppositore Ilja Jashin. Venerdì scorso Ovsjannikova aveva manifestato sulla sponda opposta della Moscova rispetto al Cremlino con un cartello in mano: “Putin è un killer e i suoi soldati fascisti. Hanno ammazzato 352 bambini. Quanti altri volete ucciderne prima di fermarvi?”. Era successa la stessa cosa il 14 marzo. Per ore dopo il suo blitz per denunciare le “balle” della propaganda russa su quella che qui si può chiamare solo “operazione militare speciale”, di Ovsjannikova non si era saputo nulla finché non era riemersa nella stazione di polizia di Ostankino ed era stata condannata a pagare una multa da 30mila rubli (535 euro al tasso di cambio attuale) per “organizzazione di un evento pubblico non autorizzato”. Il mondo intero aveva tirato un sospiro di sollievo. Ma molti avevano iniziato a dubitare: in tanti in Russia sono finiti in carcere per molto meno, perché Ovsjannikova se l’era cavata con così poco? Non solo: com’era stato possibile che una producer raggiungesse lo studio del tg senza essere intercettata dalle forze di sicurezza? E perché erano trascorsi ben 4 secondi prima che qualcuno interrompesse la trasmissione? Dubbi che si erano moltiplicati quando poi il 27 marzo Ovsjannikova aveva preso parte alla trasmissione Che tempo che fa? su Rai3 lamentandosi delle sanzioni occidentali: “È la gente comune a soffrirne principalmente. Mia madre disabile non può acquistare le medicine necessarie. Mia figlia non può pagare la mensa scolastica. Non c’è zucchero sugli scaffali dei negozi, olio e prodotti per l’igiene stanno finendo”. Tanto che molti in Ucraina non hanno più avuto dubbi che la protesta di Ovsjannikova e la sua successiva intervista altro non fossero che una studiata “Psyop”, “operazione psicologica” dei servizi segreti russi per perorare in Occidente la revoca delle sanzioni. Ovsjannikova si è sempre difesa. “In Ucraina mi odiano e mi credono una spia dell’Fsb, in Russia pensano che sia una spia britannica... Quelle frasi sulle sanzioni le ho dette prima di aver visto il massacro di Bucha, ora ho cambiato idea! Ora sono convinta che l’offensiva in Ucraina sia una responsabilità collettiva dei russi e che la comunità internazionale debba colpire la Federazione con più sanzioni di quante ne ha già approvate”, ha detto lo scorso giugno a Repubblica. E venerdì ha tenuto un picchetto di protesta contro le morti dei bambini in Ucraina per dimostrare che fa sul serio. Chissà se dopo l’ultimo arresto verrà creduta. Egitto. Il sistema che permette al regime di tenere gli oppositori in carcere per anni senza processo di Francesca Caferri La Repubblica, 19 luglio 2022 In un’inchiesta minuziosa, frutto di un anno di lavoro, il New York Times ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute raccontando nei dettagli la strategia repressiva di Al Sisi. Uno squarcio nel muro del silenzio. È l’inchiesta minuziosa, tutta basata sui dati, che il New York Times ha pubblicato sabato dopo un anno di lavoro del suo ufficio del Cairo: il quotidiano americano ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute - spesso senza nessuna notifica alle famiglie - nelle prigioni egiziane. Persone arrestate e in un secondo momento accusate, per lo più di diffusione di notizie false e di associazione con gruppi terroristici che, in base alla legge egiziana possono restare in carcere fino a due anni senza processo, in una serie infinita di rinvii. Come accaduto al ricercatore Patrick Zaki, studente di un master dell’università di Bologna. Ma che spesso in carcere restano più a lungo perché poco prima della scadenza viene loro notificata una nuova accusa: e il calcolo riparte da zero. Il “sistema delle porte girevoli”, come viene chiamato dalle Ong, in riferimento all’uscita dei detenuti dal carcere, immediatamente seguita da un nuovo ingresso, era noto: così come, in linea approssimativa, note sono le dimensioni del fenomeno. Fra le 50 e le 60 mila persone sono in cella in questa maniera secondo i calcoli di Human Rights Watch e Amnesty International: ma non esistono numeri ufficiali. Il giornale prova a farli, e scrive che solo fra settembre 2020 e febbraio 2021 almeno 4500 persone sono state detenute per più di cinque mesi al Cairo. Una fotografia necessariamente limitata: perché copre solo Il Cairo e perché copre solo chi è in carcere per più di cinque mesi. Ma un dato che comunque dà le proporzioni di un fenomeno in costante crescita: questo tipo di detenzioni sono, secondo Human Rights Watch, lo strumento con cui il governo egiziano controlla in maniera preventiva ogni forma di dissenso. Il dato arriva dalle note a mano - le foto sono pubblicate con il testo - tenute dagli avvocati difensori del Cairo: disperati per la mancanza di notizie a decine di loro entrano nelle aule ogni giorno e chiedono ai detenuti i loro nomi e l’accusa che pende sul loro capo, per poi comunicare alle famiglie dove si trovano persone di cui spesso epr settimane non si sono avute notizie. Ma non c’è solo questo: il giornale entra nei numeri e racconta le storie che li compongono in maniera dettagliata, nome per nome, storia per storia, per quanto sempre in un periodo di tempo e di spazio limitato (come viene spiegato in un articolo sulla metodologia seguita dall’inchiesta che è linkato all’inchiesta stessa sul sito del giornale). La pubblicazione, come spiegano gli autori, è avvenuta in contemporanea con l’incontro del presidente americano Joe Biden con il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi in occasione del vertice regionale appena concluso a Gedda in Arabia Saudita. E puntava a chiedere conto all’amministrazione americana dei suoi rapporti con un leader che - come il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che ha ospitato l’evento - ha mostrato negli ultimi anni un crescente disprezzo per la questione dei diritti umani. Intanto, sul fronte della vicenda Zaki, è da registrare la presa di posizione di un gruppo di parlamentari che ha chiesto al presidente del Consiglio Mario Draghi di farsi carico della sorte del ricercatore, su cui pende ancora l’accusa di diffusione di notizie false e a cui è vietato lasciare l’Egitto. Cuba. 700 persone ancora in carcere dopo gli scontri di un anno fa Agenzia Fides, 19 luglio 2022 Un anno dopo gli eventi dell’11 luglio 2021, la Conferenza cubana delle Religiose e dei Religiosi (ConCuR) richiama “quanto vissuto e quanto stiamo vivendo”. In primo luogo circa 700 persone sono ancora in carcere. “Ciò continua a causare dolore e angoscia a molti, in particolare ai parenti dei detenuti” sottolinea il comunicato pervenuto a Fides. Per alcuni detenuti “il processo non si è ancora svolto, violando i termini ordinari e straordinari stabiliti dalla legge”. Inoltre “nelle udienze di appello svolte, le prove presentate dalla difesa continuano a non essere ammesse e a non essere adeguatamente valutate, con pregiudizio per l’imputato”. Quindi ribadiscono che “l’attuale situazione generale è simile a quella che abbiamo vissuto un anno fa, o anche peggio. Con dolore, ci rammarichiamo che le sanzioni e l’intero processo dei detenuti da un anno, siano usati come risorsa intimidatoria”. “Come parte di questa società, in cui viviamo e che accompagniamo in vari modi, questo ci preoccupa e ci ferisce” ribadiscono i religiosi cubani, che chiedono la “liberazione definitivo degli imputati che non sono stati processati, nonché il riesame delle sentenze di condanna definitive delle persone processate”. Quest’ultima procedura può essere avviata dalle autorità competenti su richiesta di una persona o di un ente, quindi le famiglie possono richiederla. Domenica 11 e lunedì 12 luglio 2021, nei principali città cubane, si verificarono scontri tra la popolazione e le forze dell’ordine, con numerosi arresti. Le proteste erano state causate dall’esasperazione della gente, che aveva difficoltà nel reperire il cibo, per l’aumento dei prezzi, l’inasprirsi della pandemia e la mancanza di democrazia. Le principali agenzie di stampa riportarono che per il governo cubano guidato da Miguel Diaz Canel, si trattava di una manovra per “destabilizzare” l’isola. La Chiesa locale, attraverso la Conferenza episcopale cubana, citando Papa Francesco ricordava che “le crisi non si superano con il confronto ma quando si cerca la comprensione”, quindi ammonivano: “la violenza genera violenza, l’aggressività di oggi apre ferite e alimenta risentimenti futuri che poi ci vorrà molto a superare”. Perciò invitavano tutti “a non favorire la situazione di crisi, ma con serenità di spirito e buona volontà, ad esercitare l’ascolto, la comprensione e l’atteggiamento di tolleranza, che tiene conto e rispetta l’altro, per cercare insieme soluzioni giuste e adeguate”. Anche la Conferenza Cubana dei Religiosi (ConCuR) si espresse sulla situazione cubana: “Quelli che sono scesi in piazza non sono criminali, sono persone comuni delle nostre città che hanno trovato il modo di esprimere il loro malcontento”. Quindi proposero “cinque punti che ci sembrano essenziali per superare l’attuale difficile situazione e costruire la fraternità tra tutti”.