La scuola in carcere è un miraggio ma con i libri ci sono meno recidivi di Isabella De Silvestro Il Domani, 18 luglio 2022 La scolarizzazione di partenza dei detenuti è molto più bassa della media nazionale. Nicola Dettori, ex detenuto, è entrato in carcere semianalfabeta e ne è uscito laureato. “Al tempo dell’arresto non riuscivo a scrivere due righe in una lettera”. “Negli ultimi anni invece ne scrivevo anche quindici al giorno”. Il periodo delle attività scolastiche è quello in cui diminuiscono gli eventi critici in carcere; e i detenuti che portano a termine un percorso di studi soddisfacente hanno un tasso di recidiva minore. Edoardo Albinati, scrittore di successo ma da 27 anni insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia, racconta: “C’è una persona che si sta sgolando per te, che sta dando il meglio di sé proprio a te che fuori da quell’aula sei considerato solo un delinquente. Questo aggiunge alle lezioni un senso di solidarietà e trasmette un’idea di dignità alle persone per cui si fanno”. Il carcere è un luogo con una sua lingua. Il detenuto che lavora è chiamato “lavorante”, la sua paga è la “mercede” e quando ci si rivolge, tramite “domandina”, all’amministrazione penitenziaria, si scrive “alla Signoria Vostra illustrissima”. A trovare le parole per chi non sa scrivere è lo scrivano della galera. Un ruolo informale ma solenne ricoperto dal detenuto che ha studiato: a lui si delegano le istanze per gli avvocati, le lettere per le mogli, le madri, i figli, i pensieri più intimi e i bisogni più urgenti. Lo scrivano traduce l’oralità disordinata dei compagni e le dà una forma compiuta. In galera le lettere sono l’unico modo per comunicare con l’esterno ma la parola scritta rimane un mezzo elitario. Perciò molti detenuti sono condannati a un isolamento e a una frustrazione ancora maggiore di quello che già la detenzione determina. Detenuti senza titoli - Il livello di scolarizzazione di partenza dei detenuti è molto più basso della media nazionale. Al 31 dicembre 2021 il 2,9 per cento dei detenuti risultava analfabeta, il 2,2 per cento era privo di un titolo di studio, il 17,5 per cento aveva la sola licenza elementare mentre il 57,6 dei reclusi con un titolo di studio non era andato oltre la licenza media inferiore. La scuola dovrebbe quindi essere uno dei pilastri del trattamento penitenziario, ma sono molte le carceri dove si registrano gravi carenze. Nicola Dettori, ex detenuto che ha scontato vent’anni tra il carcere di Nuoro e quello di Spoleto, è entrato semianalfabeta ed è uscito laureato. “Il mio percorso è stato molto significativo ma non rappresenta la norma” racconta Dettori. “Al tempo dell’arresto non riuscivo a scrivere due righe in una lettera. Negli ultimi anni invece ne scrivevo anche quindici al giorno, per me e per conto di altri. Ho imparato a modulare i registri, a scrivere lettere d’amore e istanze ufficiali. Scrivevo a mogli, figli, amici, attivisti, associazioni, preti, professori, compagni che studiavano in altre carceri. Questo è stato possibile perché mi sono iscritto alle medie, poi all’istituto d’arte e infine a Beni culturali. Ho iniziato a comprare libri di ogni sorta (“Chiedo alla signoria vostra illustrissima di acquistare un libro sulle opere di Raffaello”) e leggevo giorno e notte, al punto da venire ripreso perché avevo sempre la luce accesa”. La galera non è un luogo dove sia facile concentrarsi. Il sovraffollamento, la mancanza di luoghi adatti allo studio, i rumori, i tempi scanditi da un volere che non è il proprio rendono la concentrazione un lusso. “Uno studente mi raccontò di aver trovato un metodo per studiare di notte: attaccava con lo scotch gli appunti alla branda sopra la sua, leggendo disteso sul letto mentre il compagno di cella dormiva”, racconta Paola Nobili, insegnante di diritto che per anni ha lavorato al carcere di Sollicciano. Aule inospitali - L’ambiente in cui le scuole carcerarie operano è dominato dallo stato di abbandono e di ozio in cui versa la maggioranza dei detenuti, un mondo chiuso in cui si perpetuano la pratica degli abusi e dei maltrattamenti, l’inesistenza dei rapporti affettivi, la diffusione capillare degli psicofarmaci utilizzati per mantenere l’ordine e sedare le coscienze, l’autolesionismo, l’illegalità sistematica, le malattie e le morti causate dai disservizi della sanità carceraria o dall’insalubrità di strutture trasandate quando non chiaramente fatiscenti al punto da risultare pericolose. La scuola quindi, con il suo corpo insegnanti, rappresenta spesso l’unico spazio dove ai detenuti è concesso di estraniarsi dalle mura abbrutenti della galera, per dedicare il proprio tempo a qualcosa di costruttivo, instaurando rapporti umani che vadano oltre a quelli con i compagni di sezione e gli agenti penitenziari. A scuola si è studenti prima che detenuti. Nonostante ciò, il tasso di abbandono scolastico rimane alto. “Talvolta gli insegnanti hanno la sensazione di stare dando una mano di vernice su un muro marcio e screpolato”, racconta Edoardo Albinati, scrittore di successo ma da 27 anni insegnante di lettere nel carcere di Rebibbia, a Roma. “Le aule sono celle e quindi squallide e trasandate, mancano i libri di testo, la frequenza degli studenti è intermittente. C’è chi viene trasferito dalla sera alla mattina, chi si ammala. Capita di vedere gli alunni più brillanti presi a lavare il pavimento dei corridoi del carcere perché gli è stato offerto un lavoro da scopini che non hanno potuto rifiutare, inconciliabile con gli orari scolastici. L’insegnante non sa se lo studente che ha in classe un certo giorno sarà ancora presente il mese dopo. Così non si lavora più in vista di un remotissimo obiettivo come il diploma ma ci si impegna sulla singola giornata, sulla singola ora di lezione, sapendo che è un’occasione che potrebbe non ripresentarsi”. I princìpi che regolano la galera sono contraddittori. Il carcere è pensato come deterrente, e al reato corrisponde una pena in senso etimologico: castigo e sofferenza. In prigione si deve stare peggio di come si stava fuori. Poi c’è il principio opposto, quello del deficit da recuperare: la devianza è il risultato di vite segnate da carenze (economico-sociali, culturali, affettive) che l’istituzione dovrebbe compensare, in un’ottica rieducativa. La scuola carceraria è l’unico luogo dove il detenuto si impegna in qualcosa che accresce il senso delle possibilità e la stima di sé. “Non ho mai visto tanta gratitudine verso gli insegnanti e tanto impegno nello studio come nelle aule del carcere. Ricordo un detenuto alle prese con difficili esercizi di matematica asciugarsi la fronte, assorbito da uno sforzo quasi fisico”, racconta Nobili. Un’idea di dignità - Albinati crede al suo lavoro: “L’unico ambito del carcere in cui vedo una compensazione è proprio la scuola. Capita di aver classi formate da pochissimi studenti, quindi c’è un investimento addirittura maggiore sul singolo individuo. E questo impegno manda un altro messaggio: c’è una persona che si sta sgolando per te, che sta dando il meglio di sé proprio a te che fuori da quell’aula sei considerato solo un delinquente. Questo aggiunge alle lezioni un senso di solidarietà e trasmette un’idea di dignità alle persone per cui si fanno”. Racconta uno studente detenuto: “Una delle principali ragioni per cui si inizia a frequentare la scuola è che si tratta spesso dell’unica occasione per uscire dalla cella”. Il banco come alternativa alla branda, la sola maniera per sottrarsi a giornate ripetitive e vuote. Ma ciò non significa che la qualità della didattica possa essere un aspetto secondario. “La scuola deve provare a far accadere qualcosa nella mente”, spiega Albinati, “bisogna trovare un equilibrio tra il racconto d’avventura, la poesia, lo stimolo della curiosità che tengono alto il morale degli studenti e l’analisi logica e grammaticale. Entrambi i vettori sono fondamentali: il primo dà soddisfazione, ma l’analisi logica, così come lo studio delle leggi della chimica, della fisica o dell’informatica, insegnano indirettamente, senza bisogno di prediche, che tanto il mondo della conoscenza quanto la società nella quale viviamo hanno bisogno di leggi e regole per funzionare. È quindi anche un’educazione alla legalità, al rispetto delle forme e delle procedure, dimensioni spesso estranee a chi ha commesso reati”. Solo i libri ti cambiano - Le statistiche danno ragione ad Albinati: il periodo delle attività scolastiche è quello in cui diminuiscono gli eventi critici in carcere; e i detenuti che portano a termine un percorso di studi soddisfacente hanno un tasso di recidiva minore. Eppure le amministrazioni penitenziarie sono generalmente ostili e diffidenti nei confronti della scuola e degli insegnanti, ostacolando in vari modi le attività, quasi che fossero di disturbo all’ordinato fluire della vita carceraria. Nicola Dettori, il detenuto che si è laureato in carcere, è incredulo: “Il detenuto cambia solo con i libri: sono inutili la repressione, l’isolamento, i trasferimenti dall’altro capo del paese, lontano dalla famiglia, le umiliazioni, le prediche, le punizioni. Così uno non cambia mai. Il detenuto rinchiuso a far nulla diventa una belva”. Il diritto allo studio e l’università in carcere di Michele Baboni vulcanostatale.it, 18 luglio 2022 Il carcere è notoriamente una realtà complessa, in cui molteplici fattori di disagio sociale ed economico si intrecciano a una serie di inefficienze del sistema penitenziario, come ad esempio le fatiscenti strutture e la scarsa tutela dei carcerati. In un simile contesto, in cui spesso e volentieri viene sensibilmente ridotta la dignità umana dei reclusi, è logico che vengano meno quelle che dovrebbero essere le finalità del carcere, ovvero la rieducazione e il reinserimento sociale. Secondo il rapporto sulle condizioni delle carceri italiane, pubblicato il 28 aprile dall’associazione Antigone, in Italia il tasso di recidiva carceraria è pari al 62%, una percentuale che indica chiaramente il fallimento della funzione formativa del nostro sistema penitenziario. Un altro dato rilevante del rapporto indica che circa il 45% della popolazione carceraria è al di sotto della soglia dei 40 anni di età, una fascia entro la quale rientrano moltissimi giovani, che potrebbero senza dubbio beneficiare della possibilità di intraprendere un percorso universitario. È dunque logico chiedersi se effettivamente sia garantita a tutti questa opportunità, senza discriminanti o differenze. Giuridicamente parlando, l’insieme di norme che regolano nel dettaglio la vita nel carcere sono contenute nel d.P.R (decreto del Presidente della Repubblica) n.431/1976, che a sua volta è l’approvazione del regolamento di esecuzione della legge 354/1975. Nel regolamento originale del ‘75, i cenni allo studio sono presenti nell’art. 19, il quale affermava inizialmente che “è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”, un’affermazione sicuramente significativa ma insufficiente, poiché vaga ed eccessivamente discrezionale. Il decreto del ‘76 riafferma sostanzialmente questa agevolazione, aggiungendo a ciò l’esenzione dal lavoro per gli studenti, oltre che il rimborso delle spese sostenute per tasse e materiali didattici; infine, vengono menzionati dei “premi di rendimento” per gli studenti in condizioni economiche meno agevoli (art. 45, comma 4). Il testo è stato però ripreso e modificato nel 2000, con il d.P.R n. 320/2000, un decreto teso a modificare le precedenti norme in materia penitenziaria; in questo documento, le modifiche alle disposizioni sugli studi universitari hanno disposto l’accesso degli studenti ai materiali didattici e l’accesso a spazi appositi per lo studio, assieme alla possibilità di tenere nella propria camera i manuali ed i libri di testo necessari allo studio (art. 44). Pertanto, si potrebbe dire che il diritto allo studio nel contesto carcerario sia adeguatamente coperto e garantito, ma sfortunatamente la realtà dei fatti è diversa, specialmente per la difficile e problematica applicazione delle disposizioni in materia. Bisogna infatti considerare diversi fattori in gioco, a partire dal fatto che le precedenti disposizioni si applichino nei contesti in cui ciò sia possibile, secondo la discrezione dei singoli istituti penitenziari; per fare un esempio, negli istituti penitenziari in cui c’è un problema significativo di sovraffollamento (nel 2020 la media italiana di sovraffollamento era del 107%, con istituti che superavano il 150%), è difficile immaginare che si riescano a garantire degli spazi appositi per lo studio, specie nelle strutture meno moderne. Inoltre, l’accesso alla carriera universitaria dipende soprattutto dai rapporti convenzionali che gli istituti singoli stringono con le varie università, da cui vengono istituiti i poli universitari penitenziari. Attualmente, i poli universitari sono attivi solamente in 75 carceri su un totale di 190, il che implica che circa il 60% degli istituti carcerari italiani non garantisce l’accesso allo studio universitario. Un altro aspetto non irrilevante è quello riguardante gli aiuti economici e i premi di rendimento, spesso non assegnati e non percepiti dagli studenti meritevoli. In un simile contesto, in cui lo Stato non è sempre presente, risulta fondamentale la collaborazione tra le università e gli istituti carcerari, da cui nascono le iniziative di supporto e tutoraggio. L’istituzione dei diversi poli universitari è frutto di molteplici collaborazioni, che nascono spesso per una convergenza di interessi tra strutture detentive e singoli atenei. Si tratta dunque di realtà solo parzialmente coordinate dal Cnupp (Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari), nelle quali non è presente un protocollo uniforme a livello nazionale. Tuttavia, pur essendo delle istituzioni piuttosto diversificate, spesso producono dei progetti estremamente prolifici, spesso fondamentali per la buona riuscita degli studenti nel loro percorso accademico. Un esempio di questo tipo di percorsi lo offre anche la Statale di Milano, con le diverse attività formative proposte nel “Progetto Carcere”, composto da una serie di laboratori didattici organizzati assieme ai penitenziari di Bollate, Opera e San Vittore, finalizzati a valorizzare l’interazione tra gli studenti in carcere e quelli provenienti dall’esterno. Il risultato è una serie di esperienze estremamente costruttive, tanto per i detenuti, che stringono un legame con persone nuove, e gli studenti che vengono da fuori, che per la prima volta entrano in contatto con un contesto che in pochi conoscono realmente. arrrrIn sintesi, il percorso accademico delle persone in prigione è una strada in salita, in cui, tra le pagine dei libri, ognuno cerca di dare un senso ed un ordine ad un’esperienza tanto complessa ed impegnativa, con una prospettiva su ciò che verrà dopo il carcere. Si tratta di un percorso puramente individuale in cui l’impegno e la dedizione sono cruciali, ma che può essere arricchito dalle esperienze che gli atenei studiano per questi contesti. Un dato sorprendente, che lascia ben sperare per il futuro, è il numero attuale di detenuti iscritti ad un corso universitario, 1.246 nell’anno accademico 2021/2022. Attualmente, gli studenti carcerari rappresentano circa il 2.3% della popolazione carceraria totale (54.609 nel marzo del 2022), una percentuale di poco inferiore alla percentuale totale di universitari rispetto alla popolazione totale, che nel 2021 si attestava al 3%. Tuttavia, ciò che realmente sorprende, specialmente se pensiamo alle statistiche generali sullo stato di salute del sistema scolastico in Italia, è che il numero di carcerati che intraprendono una carriera universitaria è in aumento: basti pensare che nello scorso anno accademico se ne registravano 1034, e che nel 2018 erano 796. Parliamo dunque di un aumento del 64% negli ultimi 3 anni accademici, una crescita che dimostra l’efficacia dell’impegno degli atenei in carcere. Le questioni su cui lavorare per rendere il diritto allo studio in carcere effettivo per tutti sono ancora molteplici, in particolare l’istituzione effettiva dei poli universitari in tutte le carceri italiane e gli aiuti economici per chi ne ha bisogno. Ma, come già detto, i risultati stanno dando ragione alle università, in grado di farsi conoscere e di attrarre nuovi studenti in percorsi in grado di svoltare la loro vita, sia dentro che fuori dal carcere. In sintesi, parliamo di una realtà che, pur essendo forse acerba, getta delle ottime basi, che lasciano ben sperare per il futuro. Un detenuto su quattro ha distorsioni cognitive sull’agito sessuale dire.it, 18 luglio 2022 Presentato da Simspe il progetto europeo Protect per valutare i reati a sfondo sessuale dei detenuti in carcere e per formare gli operatori sanitari. Mondo scientifico e accademico sono al lavoro per costruire un nuovo modello di trattamento dei detenuti sex offender e di formazione degli operatori sanitari. È il progetto di ricerca-intervento sui detenuti per reato a sfondo sessuale PR.O.T.E.C.T. - Prevention, Assessment and Treatment of sex offenders, finanziato dall’Unione Europea nell’ambito dei progetti tematici sulla Giustizia. Il progetto è stato proposto dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria Simspe Onlus, attiva da oltre un ventennio negli Istituti Penitenziari italiani, in partnership con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP, l’Università Sapienza di Roma, l’Università di Braga (Portogallo) e l’Associazione non Governativa croata Healthy City. Le fasi attuative hanno previsto la mappatura e lo scambio delle buone prassi a livello europeo per la valutazione e il trattamento degli autori di reato a sfondo sessuale, per poi mettere a punto con i partner un protocollo per la valutazione di questi detenuti basato sugli esiti delle fasi precedenti. Questo protocollo è stato valutato su 96 autori di reato a sfondo sessuale (64 italiani e 32 portoghesi) presso gli istituti penitenziari di Arghillà (Reggio Calabria), Carinola (Caserta), Terni, Velletri (Roma) e Viterbo. “I risultati del protocollo di valutazione dei detenuti per reati a sfondo sessuale hanno mostrato che circa il 14% degli autori di reati sessuali ha riportato un livello di devianza moderato/grave di convinzioni distorte relative ai bambini - evidenzia Luciano Lucanìa, Presidente Simspe - Il 28% del campione totale (ma il 53% degli italiani) ha segnalato un livello di devianza moderato/grave legato a distorsioni cognitive sull’agito sessuale. I risultati hanno anche mostrato come gli autori di reati sessuali che hanno subito abusi emotivi durante la loro vita riportano livelli più elevati di empatia emotiva, depressione, ansia, ideazione paranoica e psicotismo rispetto a coloro che non ne hanno subito”. Tra gli obiettivi del progetto vi è anche una formazione adeguata delle diverse figure professionali in diretto contatto con gli autori di reato a sfondo sessuale (personale del comparto ministeri, polizia penitenziaria e personale sanitario), per un numero complessivo di 120 operatori. Anche per questo scopo è stato messo a punto un protocollo che possa superare il pregiudizio e lo stigma. “L’intero percorso formativo, durato l’intero mese di marzo 2021 per un totale di 40 ore, è stato strutturato in 2 corsi distinti di 20 ore ciascuno: Corso di formazione sul Protocollo PR.O.T.E.C.T. e Corso di formazione sullo Stigma nei confronti dei sex offender - spiega la Prof.ssa Irene Petruccelli, Professore associato di Psicologia Sociale, Universitas Mercatorum - Il primo corso è stato finalizzato alla presentazione dei risultati del protocollo sperimentale PR.O.T.E.C.T., e in particolare ha riguardato la mappatura dello stato dell’arte a livello europeo sui sex offender; lo scambio di buone pratiche europee e nazionali; la formazione per lo sviluppo e l’implementazione di un protocollo di assessment diagnostico-terapeutico per un’approfondita conoscenza della personalità del reo e successiva possibile pianificazione personalizzata dell’intervento; la valutazione del rischio di recidiva. Il secondo corso, focalizzato sui processi di etichettamento, marginalizzazione e gli stereotipi nei confronti dei sex offender, ha avuto come obiettivo quello di sviluppare la capacità di gestire i sentimenti di riprovazione e pregiudizio, al fine di ridurre lo stigma che si può generare nei confronti dei sex offender”. Il percorso formativo è stato proposto in primis agli Istituti nei quali è stata svolta la fase di ricerca (Viterbo, Velletri, Terni, Carinola, Reggio Calabria plesso “Arghillà”) e poi allargato anche agli operatori in servizio presso gli Istituti di Napoli Poggioreale, Benevento, Chieti, Palermo Pagliarelli, Palermo Ucciardone, Augusta, Sassari, Matera e Altamura. Gli esiti del progetto PR.O.T.E.C.T. saranno presentati domani 18 luglio presso l’Università Mercatorum di Roma. Introducono i temi la Prof.ssa Maria Antonella Ferri, Preside dell’Ateneo; Carlo Renoldi, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria; Prof. Marino Bonaiuto, Professore ordinario di Psicologia Sociale - Sapienza Università di Roma. Discutono del progetto e dei suoi risultati la Prof.ssa Silvia Cataldi, Professore associato di Sociologia Generale - Sapienza Università di Roma; Prof. Giulio Di Mizio, Professore associato di Medicina Legale - Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro; Chiara Frontini, Project Manager SIMSPe e da pochi giorni anche sindaco di Viterbo; Prof.ssa Uberta Ganucci Cancellieri, Professore associato di Psicologia Sociale - Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria; Maria Donata Iannantuono, Direttore del Carcere di Velletri, presso il quale la progettualità è stata proposta ed attuata; Prof.ssa Irene Petruccelli, Professore associato di Psicologia Sociale - Universitas Mercatorum. Conclude Lina Di Domenico, già Vice Capo del DAP ed oggi magistrato consulente la Commissione Antimafia del Parlamento. La moderazione sarà di Carla Ciavarella, Ufficio del Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Direttore dell’Ufficio V - Coordinamento dei Rapporti di Cooperazione Istituzionale. Con questo progetto - significativo per le sinergie concettuali ed operative nel concreto sviluppate - è stata aperta una pagina nuova sia nel trattamento penitenziario di questa particolare tipologia di reclusi, che nella collaborazione istituzionale fra lo stesso DAP, gli Atenei e le Società Scientifiche. “Una partita con papà per mantenere e rafforzare il legame tra figli e genitori detenuti” di Gigliola Alfaro agensir.it, 18 luglio 2022 Bambinisenzasbarre Onlus tra giugno e luglio ha organizzato 82 match, in un caso, a Roma, anche in una casa circondariale femminile. “Dopo il Covid - dice la presidente dell’associazione - c’era l’esigenza di apertura, di recuperare le relazioni e anche la fisicità che una partita può regalare”. “Mantenere e rafforzare il legame tra figli e genitori detenuti”: a giugno 2022, con quattro match disputati a luglio, negli istituti penitenziari italiani, è tornata “La partita con papà”, che quest’anno in un caso è stata anche “La partita con mamma”, l’atteso incontro tra papà o mamme detenuti e i loro figli, dopo due anni di sospensione a causa della pandemia. L’iniziativa è organizzata da Bambinisenzasbarre onlus, in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Quest’anno complessivamente sono state 82 le partite organizzate, con l’adesione di 77 istituti distribuiti da Varese a Ragusa. La Lombardia è risultata la regione con il maggior numero di adesioni con 13 istituti: Bergamo, Brescia, Busto Arsizio, Lodi, Mantova, Milano Bollate, Milano Opera, Milano San Vittore, Monza, Pavia (dove si sono giocate 2 partite), Varese, Vigevano e Voghera. A seguire la Sicilia con 11 istituti, la Campania con 10 e la Calabria con 7. Per la prima volta c’è stata l’adesione di una casa circondariale femminile, la “Germana Stefanini” di Roma. “Quest’anno la partita con papà ha superato le nostre aspettative, abbiamo deciso di riproporla dopo questi due anni così difficili di chiusura del carcere, per la pandemia, e siamo stati premiati perché questa esigenza di apertura, di recuperare le relazioni e anche la fisicità che una partita può regalare, si è tradotta in tantissime partite promosse con tanto entusiasmo”, ci racconta Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre. “La partita con papà - chiarisce - è una partita ‘affettiva’ più che sportiva, lo sport in questo caso è al servizio della relazione, il tema è sempre quello: il rapporto genitori-figli e il sostegno alla genitorialità. Bambinisenzasbarre in questi anni ha avuto uno sviluppo della sua attività e stiamo realizzando un progetto nazionale di applicazione della Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti con i partner istituzionali, il Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, la Garante nazionale dell’infanzia e adolescenza. La partita con papà è un momento che ci consente di veicolare la questione dei bambini che hanno il papà in carcere e metterlo all’attenzione di tutti, perché la cultura dell’inclusione sia sempre più forte”. La “Carta”, prima nel suo genere in Italia e in Europa, riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti e mira a sostenerne il diritto alla genitorialità. Il protocollo prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute. “La possibilità di giocare con il proprio papà o mamma e di condividere questo momento ludico, normale per tutti gli altri bambini, risulta eccezionale per questi bambini e le loro famiglie e rimane a lungo nella loro memoria”, spiega la onlus. “Queste sono giornate bellissime perché sembra che papà è a casa e posso restare ancora un po’ con lui”, ha detto la figlia di un detenuto. “Stare con i propri figli è la cosa più bella che esiste. Tutto diventa importante anche solo uno sguardo, un sorriso, una carezza. Quando sono vicino alla mia famiglia mi sento libero”, ha commentato un papà detenuto. Un altro ha ammesso: “Purtroppo non vedevo i miei figli da 28 mesi. E non c’è niente di più bello che giocare con i miei figli. La lontananza dei figli fa male fa molto male e non nascondo che in cella si piange anche”. “È stata una giornata splendida e da quando sono in carcere è la prima volta che vivo un’esperienza del genere. C’è una grande armonia e avere qui i miei figli e mia moglie è importantissimo”, ha affermato un altro detenuto. “Al papà è legatissima e le manca molto. La lontananza è quella che pesa di più. Però ci facciamo forza l’una con l’altra. Oggi siamo stati benissimo”, ha dichiarato una mamma, moglie di un detenuto. La partita con papà, precisa Sacerdote, si iscrive nell’ambito dell’annuale campagna “Carceri aperte”, declinazione della campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” promossa da Cope (Children of Prisoners Europe), rete che riunisce venti associazioni in diciotto Paesi. La campagna vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere e sono emarginati. Questi bambini vivono in silenzio il loro segreto del papà recluso per non essere stigmatizzati ed esclusi. Bambinisenzasbarre è attiva in rete sul territorio nazionale con il Sistema Spazio Giallo. Opera direttamente in Lombardia (Milano, Voghera, Vigevano, Pavia e Bergamo), in Toscana, Campania e Calabria e supervisiona le attività dei partner in rete a Brescia, Varese e Lodi e in Piemonte, Marche, Puglia e Sicilia. Il Sistema Spazio Giallo comprende fra le varie attività la creazione e la gestione, nelle carceri, dello Spazio Giallo, ideato da Bambinisenzasbarre. È uno spazio relazionale di ascolto e sostegno psicologico alle famiglie e in particolare ai bambini che entrano in carcere quotidianamente per incontrare il genitore, un’interfaccia con funzione di mediazione tra il mondo esterno e il carcere. “In carcere c’è un grande impegno, una grande volontà di recuperare normalità - osserva la presidente di Bambinisenzasbarre. Il Covid ha cambiato la nostra vita. In carcere c’è stato il blocco dei colloqui in presenza, sostituiti dalle video-telefonate Skype, ora il ritorno alla normalità ha bisogno di tempo, anche se sta avvenendo con una certa accelerazione. Per i bambini è fondamentale l’incontro con il genitore detenuto per prendere considerazione la realtà e fare delle scelte diverse. Per noi protezione dell’infanzia non significa non far entrare in carcere i bambini perché non è un luogo adatto. Con la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata la prima volta nel 2014 e rinnovata nel dicembre 2021, vogliamo dare visibilità a questi ragazzi. La genitorialità in carcere vuol dire anche lavorare con il genitore detenuto, con la sua responsabilità di raccontare la verità al proprio figlio, di recuperare una fiducia, coinvolge in un accompagnamento sia il genitore detenuto, sia l’altro genitore che sta fuori e ha il peso di portare avanti la famiglia, il lavoro, sia il figlio, è un intervento complesso, sistemico. Ora, è come se dopo la pandemia l’impatto con il carcere riprenda la sua gravità per questi bambini, è una fase da accompagnare”. Riforma dei processi e nuovo Csm: se saltano a rischio 21 miliardi di Liana Milella La Repubblica, 18 luglio 2022 Mancano i decreti attuativi. Alla scadenza del 19 ottobre legati anche i fondi del Pnrr. Nuovo Csm e riforme della giustizia. Ecco le due “vittime” se Draghi cade e prevalgono le urne. Con il concreto rischio di perdere anche i 21 miliardi della seconda tranche del Pnrr se, entro il 19 ottobre, non vengono approvati i sei decreti attuativi della riforma del processo penale, ed entro il 26 novembre i sette decreti del civile. Un costituzionalista come Gaetano Azzariti è scettico sul via libera del consiglio dei ministri e delle commissioni parlamentari, mentre un politico esperto di giustizia come Enrico Costa di Azione vede soprattutto il niet che si scatenerebbe a palazzo Chigi “su una riforma divisiva come quella penale”. Sul nuovo Csm non ci sono dubbi. I magistrati, il 18 e 19 settembre, potranno votare per i 20 togati, ma il Parlamento sciolto non potrà scegliere i 10 membri laici. Mattarella dovrà firmare un decreto di proroga dell’attuale Consiglio, terremotato dal caso Palamara, che resterà in carica finché i futuri deputati e senatori, un terzo in meno degli attuali, non troveranno un’intesa sui nomi. Un’ondata di centrodestra potrebbe segnare il destino anche di palazzo dei Marescialli e del futuro vice presidente. Previsioni fosche per le leggi della Guardasigilli Marta Cartabia. Proprio mentre l’Europa - nel rapporto della Commissione Ue sull’Italia appena pubblicato anche in italiano - esprime un giudizio positivo su leggi che “intendono affrontare le gravi sfide legate all’efficienza del sistema giudiziario, compresi gli arretrati e la durata dei procedimenti”. Ma le due riforme comportano numerose deleghe e altrettanti decreti attuativi. Che devono ottenere il sì del consiglio dei ministri e il parere non vincolante delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Cartabia ha detto più volte, anche nei question time in Parlamento, che porterà a palazzo Chigi le deleghe “entro l’estate”. E il suo consulente giuridico Gian Luigi Gatta assicura che “l’ufficio legislativo sta lavorando a pieno ritmo, anche nei fine settimana, per definire il decreto del processo penale”. Ma la crisi cambia lo scenario. Il costituzionalista Azzariti è scettico: “Il governo resta in carica per gli affari “correnti”, cioè decisioni che non impegnano l’indirizzo politico e amministrativo del futuro esecutivo. Ma l’espressione “affari correnti” è fuorviante. Perché in realtà si riferisce a quelli improrogabili, come i decreti legge. Mentre i decreti attuativi non sono atti di straordinaria necessità e urgenza. L’unica ragione che può imporre al governo di attivarsi è il termine di scadenza che farebbe cadere per intero non solo le riforme già approvate e ratificate dall’Europa, mettendo a rischio i relativi fondi”. Ma Azzariti è dubbioso sul voto delle commissioni parlamentari. Enrico Costa vede invece un ostacolo tutto politico e si dichiara “francamente pessimista”. “In questo caso il problema non è tecnico, in quanto difficilmente i partiti, alla vigilia del voto, potrebbero mettersi d’accordo su una riforma come quella penale che giusto un anno fa ha rischiato di spaccare la maggioranza. Nel 2013, a Camere sciolte, le commissioni Affari costituzionali e Giustizia furono convocate per esprimere il parere, che fu dato, su un decreto delegato sui magistrati fuori ruolo. Ma poi il consiglio dei ministri non esercitò la delega. Ma qui, con gli scontri che ci sono stati, non riesco proprio a vedere un consiglio dei ministri che dice sì a Cartabia”. I processi e la teoria della finzione: l’enorme carico di lavoro è solo un sotterfugio di Andrea R. Castaldo Il Riformista, 18 luglio 2022 Make-believe è un’efficace espressione inglese che fotografa alla perfezione lo stato attuale della giustizia penale in Italia. Non esiste una parola corrispondente precisa in italiano, ma traducendo con ‘fare finta’ si rende bene l’idea. Come ben sanno attori e comprimari (avvocati, ma soprattutto imputati e vittime) che affollano quotidianamente i Tribunali, da anni va in scena lo spettacolo ormai rodato della finzione. E i segnali provenienti da differenti contesti non sono incoraggianti, al contrario inclinano al pessimismo. E allora proviamo a mettere ordine, quanto meno per dismettere quel velo di ipocrisia e retorica che peggiora la situazione. Cominciando dalla definizione. Ora, la finzione ha un doppio volto e ciascuno di noi può scorgervi quello preferito. Nel linguaggio comune, la fictio viene convenzionalmente associata all’idea di menzogna, di inganno; ma nella versione nobile e più sofisticata assume contorni quasi positivi. Infatti, per i filosofi del finzionalismo la finzione svolge un ruolo fondamentale nell’individuazione della realtà, sino a costituirne una forma di manifestazione. Non resta che applicare il principio nella prassi. Entrando in un’aula di Tribunale qualsiasi in un giorno qualsiasi, l’incauto osservatore si troverà di fronte un ruolo di udienza particolarmente carico, anche di 30-40 processi. Una concezione meccanica della giustizia, che si muove per numeri e statistiche. Ma dietro l’assurdità delle cifre compaiono con prepotenza le persone e le loro storie, in un tessuto di sofferenze che coinvolge indifferentemente autore e vittima del reato. E dove lo sbocco finale inevitabilmente deluderà una parte. Ma la quantità non è l’unico problema, forse neppure quello maggiormente rilevante. Intanto è da considerare il peso. In senso fisico e virtuale. Ogni fascicolo è composto da molte, troppe pagine, spesso da atti inutili. Un peso che si trasferisce sulle spalle del giudice, sotto forma di zavorra, che dovrà decidere. E per leggere (tutto?) occorre tempo e per comprendere e valutare ciò che si legge ne occorre di più. Peraltro, a ogni stazione della via crucis (le diverse fasi e i vari gradi del giudizio) il peso aumenta. Ora, bisogna compiere un ulteriore sforzo e dalla immaginazione calarsi nella realtà. Il nostro processo penale è (o almeno dovrebbe essere) imperniato sul modello accusatorio. In parole semplici, significa che la prova si forma nel contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo, privilegiandosi oralità e celerità. Ma se il dibattimento si celebra a distanza di anni dai fatti, l’attendibilità dei testimoni è inevitabilmente compromessa e i ‘non ricordo’ vengono costantemente suppliti dalle precedenti dichiarazioni scritte. La finzione si autolegittima. Ma il giudice, dopo l’esame di quel teste, non si ritira in camera di consiglio; semplicemente, rinvia a una prossima udienza; che si terrà a distanza di mesi, o addirittura di un anno. Con l’inevitabile conseguenza che il suo giudizio si fonderà sulla trascrizione fredda nei verbali e non nelle ‘sensazioni’ raccolte in presenza. La ciliegina sulla torta è che sarà molto probabile che il giudice (monocratico o collegiale) che emetterà la sentenza non sarà neppure colui che ha partecipato alle precedenti udienze. L’immutabilità del decisore, un principio di civiltà ancor prima che di diritto, è stata infatti sacrificata sull’altare del pragmatismo nell’orientamento giurisprudenziale attuale, ammettendosi in buona sostanza la deroga, sulla base del consenso delle parti e con qualche garanzia formale e non sostanziale. Di nuovo la teoria della finzione. Se si prova a trasferire questo desolante affresco nei processi di criminalità organizzata o con una molteplicità di imputati, o dalle contestazioni tecniche, il modello (concreto) che viene fuori è francamente impressionante. Eppure, è ciò che quotidianamente si avvera in Italia. Con l’aggravante che le indagini replicano il sistema della pesca a strascico: prendere ogni carta possibile per la selezione futura. ‘Fare finta’ diventa dunque una necessità: il carico di lavoro per essere smaltito vale bene un sotterfugio. La finzione della conoscenza e dello studio si accompagna però sul versante psicologico all’alibi del principio di affidamento, noto soprattutto nel lavoro di équipe. Confidare cioè nella correttezza e diligenza professionale di terzi. Che si traduce nel processo penale nel neutralizzare il senso di colpa auspicando che qualcun altro nella cinghia di trasmissione del processo avrà tempo (e voglia) di leggere e studiare. Make-believe, per l’appunto. Borsellino, un mistero lungo 30 anni di Francesco La Licata La Stampa, 18 luglio 2022 La vicenda pare un “affaire” fatto per una soluzione assai semplicistica. I figli chiedono verità e giustizia: “Vogliamo i nomi dei depistatori”. I misteri siciliani, che sono misteri italiani e in più d’una occasione si sono rivelati misteri internazionali, sono storie del potere della peggiore specie. Da Salvatore Giuliano in poi - per rimanere al contemporaneo - non c’è avvenimento che abbia ottenuto almeno una spiegazione ufficiale, se non un riscontro giudiziario. L’elenco sarebbe troppo lungo e si rischierebbe qualche dimenticanza: per saperne di più basterebbe sfogliare i giornali della nostra “meglio gioventù”. Oppure consultare gli accurati, quanto inutili, atti parlamentari custoditi nella polvere degli archivi delle numerose Commissioni, raramente aperti al pubblico e solo dopo un numero di anni sufficiente a garantire l’impunità di presunti colpevoli mai condannati. In questo panorama la storia di Paolo Borsellino “merita” un posto di assoluto rilievo perché contiene in sé tutti gli elementi del grande “affaire”, concepito ed eseguito per rimanere insoluto o quantomeno relegato alla soluzione minimalista del “buono” ucciso per volontà del “cattivo”, mafioso e crudele. E tre decenni di inchieste, processi, condanne, assoluzioni, revisioni e inchieste parlamentari non hanno dato nessuna certezza, anzi hanno prodotto un’unica certezza consacrata in sentenza: che le indagini sulla strage di via D’Amelio, 19 luglio 1992, rappresentano il più grande depistaggio della storia giudiziaria della Repubblica. E, ancora dopo trent’anni, non sappiamo perché è stato ucciso il giudice Borsellino. Ma questa storia non è destinata all’oblio. Mai come in questo momento gode di una risonanza mediatica che difficilmente consentirà un’archiviazione indolore. E questo per merito dei figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia e Manfredi che hanno portato pesantemente all’attenzione generale le precondizioni e il “contesto” cupo che hanno consentito l’isolamento del giudice e, quindi, l’eliminazione fisica di un ostacolo che dava fastidio non solo alla mafia delle giacche di velluto di Corleone ma a quella delle grisaglie delle segreterie di partito e delle stanze della finanza dei salotti buoni. I figli di Borsellino hanno intrapreso, dopo anni di silenzio in ossequio all’educazione istituzionale del padre, un percorso di richiesta di giustizia “per amore della verità”. Ma le loro richieste non sono grida scomposte e sete di vendetta. Fiammetta ha parlato a lungo nella sede appropriata, dopo l’inattesa ed esplosiva confessione del pentito Gaspare Spatuzza che rivelava l’esistenza del grande depistaggio: la costruzione a tavolino, da parte di magistrati e investigatori dell’epoca, di una falsa verità che (oltre a mandare all’ergastolo mafiosi, ma innocenti rispetto alla strage) impediva la ricerca di un movente (inconfessabile?) che apriva le porte di un potere ben più importante di quello gestito di Totò Riina. Fiammetta è andata davanti ai giudici, sostenuta dai fratelli e dall’ostinato avvocato di parte civile, Fabio Trizzino, a dire semplicemente: se il depistaggio è provato (tanto da doversi rifare il processo) voglio sapere i nomi dei depistatori, anche i nomi dei magistrati, e perché è stato messo in atto. E ha ragione, Fiammetta. Un depistaggio, infatti, serve a proteggere l’identità di un colpevole nascosto o impedire che venga fuori un intreccio di collusioni e di illegalità. Normale, dunque, che la parte lesa faccia una simile richiesta non per vendetta ma “per amore di verità”, come recita il libro che Fiammetta, Lucia e Manfredi hanno scritto affidandone la “tessitura” alla lucida competenza del giornalista Piero Melati. È un prezioso documento, questo scritto. Perché racconta una parte inedita della dolorosa perdita della famiglia Borsellino. Racconta dell’assedio subito dalla signora Agnese, la moglie di Paolo, da parte delle cosiddette Istituzioni; di come tutto il falso affetto riservatole si concludesse puntualmente con la domanda “su cosa stava indagando Paolo”? Già, perché è quello il punto critico: a chi avrebbe nuociuto quanto andava scoprendo il giudice? Perché Borsellino, reduce da colloqui con un pentito, disse che stava venendo fuori di tutto (“Altro che Tangentopoli”). E perché i verbali delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo (28-31 luglio 1992) sono rimasti sepolti negli archivi di Palazzo dei Marescialli? Conoscere lo stato d’animo di Borsellino dopo la strage di Capaci, il suo totale isolamento per mano del suo capo, Pietro Giammanco, i dubbi sull’amico “che mi ha tradito”, sul perché non riceveva risposta dal procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra, a cui chiedeva di essere interrogato sulla morte dell’amico Falcone. Ecco conoscere tutto ciò, forse, avrebbe aiutato le indagini. Forse avrebbe potuto svelare l’incongruenza macroscopica di una strage imponente affidata ad un organizzatore ed esecutore (Vincenzo Scarantino, il pentito “inventato”) di infimo livello. Ma il Csm probabilmente preferiva preservare il quieto vivere di una Procura palermitana che lo stesso Borsellino definiva “nido di vipere”. Si preferì mettere il silenziatore trasferendo in Cassazione Giammanco e sostituendolo con Giancarlo Caselli, magistrato di ben altra consistenza e dirittura morale. Ma il nido di vipere non era solo in Procura. L’avversione a Falcone e Borsellino era cosa antica. Valga per tutte la storia dei “Professionisti dell’Antimafia”. Leonardo Sciascia scrisse sul Corriere della Sera un articolo che contestava, dal punto di vista delle regole allora esistenti, la nomina di Paolo Borsellino a procuratore di Marsala. Secondo lo scrittore, aver preferito Borsellino per meriti di antimafia, trascurando il criterio vigente e oggettivo dell’anzianità, rappresentava un pericolo perché apriva una porta all’arbitrio. Quell’articolo fu una mazzata per il pool antimafia, anche se in seguito Sciascia e Borsellino si chiarirono durante un pranzo, in occasione di un convegno ad Agrigento. Ma non tutti sanno un particolare che la dice lunga sul nido di vipere. Sciascia fu indotto a scrivere quel pezzo. Una delegazione di magistrati palermitani si recò a casa sua, a Villa Sperlinga, portando lo “scandaloso” carteggio del Csm che sceglieva Borsellino. E i “Re Magi” che andarono da Sciascia non erano della Procura, erano ermellini giudicanti. Quindi il nido di vipere arrivava ai piani alti. Com’era stato per Falcone, osteggiato dal Procuratore Generale Pizzillo che riteneva le sue (di Falcone) indagini una rovina per l’economia siciliana. Ecco, ancora i piccioli, i soldi. In fondo in Sicilia si è ucciso solo per quelli e per il potere che ne deriva. L’indolenza sul caso Regeni mina la sovranità dello Stato di Luigi Manconi La Stampa, 18 luglio 2022 Italia e Ue continuano a trattare l’assassinio dello studente come “un tragico fatto umanitario”. In queste ore sono in molti a ribadire un ferreo sillogismo: 1. La politica estera dell’Italia è fatta dall’Eni; 2. L’Eni ha enormi interessi in Egitto; 3. L’Italia non avrà mai l’autonomia e la determinazione necessarie per perseguire verità e giustizia a proposito della morte di Giulio Regeni, barbaramente trucidato nel territorio di un così importante partner economico. Vero, ma solo parzialmente. In altre parole, è incontestabile che la politica estera dell’Italia risulta condizionata in profondità dal sistema di relazioni finanziare, economiche e politiche che intercorrono con il regime dispotico di al-Sisi. Ed è facile constatare che il nostro paese è influenzato - in particolare dopo “la crisi del gas” - dal ruolo geo-strategico svolto dal Cairo. E, ancora, che la funzione dell’Egitto come presidio politico-militare nei confronti dello Stato islamico e, prima e dopo, come argine rispetto ai grandi flussi migratori, ha costretto l’Italia in una condizione di subalternità. Ma, concesso tutto questo, come spiegare un atteggiamento tanto rinunciatario e remissivo del nostro paese in una crisi diplomatica acuta come quella apertasi dopo il rapimento, le torture e l’assassinio di Giulio Regeni? Due le possibili interpretazioni. La prima: l’Italia, nel corso dei sei anni trascorsi dall’omicidio di Regeni, ha manifestato una sorta di senso di inferiorità nei confronti dell’Egitto. L’incapacità, cioè, di comprendere come quella morte, avvenuta in terra straniera e con il coinvolgimento di servizi di sicurezza stranieri, non rappresentasse soltanto uno strazio irreparabile per famiglia e amici, ma anche uno smacco per l’Italia. Ovvero un pesante oltraggio per la nostra sovranità nazionale e per la nostra indipendenza di stato democratico. Si aggiunga che, quando Regeni venne torturato e ucciso, nel nostro ordinamento giuridico non era ancora stato introdotto il reato di tortura, nonostante che l’Italia avesse ratificato la relativa convenzione internazionale già ventotto anni prima (giusto l’età del ricercatore italiano). Per chi, come me, crede che “le istituzioni pensano” (Mary Douglas), non è assurdo ipotizzare che l’Italia abbia avuto una qualche difficoltà, come dire?, psicologica a esigere la ricerca e la punizione dei torturatori, non avendo le carte in regola a sua volta. Seconda considerazione: l’Italia come, ahinoi, tutti gli stati democratici, sottovaluta la questione della tutela dei diritti universali della persona. Ne consegue che, quando - e accade raramente - nelle relazioni sovranazionali viene posto il tema dei diritti umani, esso slitta fatalmente all’ultimo posto dell’ordine del giorno degli incontri bilaterali, dei colloqui tra gli stati, delle assemblee generali delle istituzioni mondiali. E, su questo, i governi italiani che si sono succeduti dal 2016 hanno rivelato tutta la loro impotenza: mai si è riusciti a internazionalizzare la crisi diplomatica apertasi con l’assassinio di Regeni. Mai se n’è fatta materia di una controversia politica, capace di aggregare consensi intorno alla chiamata in causa dell’Egitto come regime che viola sistematicamente i diritti umani; mai si è creata - e nemmeno si è tentato di creare - un’alleanza tra democrazie europee, e non solo europee, per chiedere conto di quelle migliaia e migliaia di egiziani che hanno subìto la stessa sorte di Regeni. Gli atti del Parlamento europeo sono stati esili e flebili, affidati alla buona volontà di alcuni; la Commissione europea ha sostenuto - sono in grado di darne testimonianza - che la vicenda non fosse di sua “pertinenza”. E i successivi governi italiani hanno accettato, pressoché supinamente, questo stato di cose, in nome di un realismo politico che si è rivelato, più che una strategia, un povero alibi. Dietro a tutto ciò c’è quell’idea prima accennata: l’assassinio di Regeni come “un tragico fatto umanitario” o un incidente inevitabile all’interno di regioni del mondo dove dominano il disordine e l’insicurezza. Mentre il ruolo avuto dalla National Security Agency, il boicottaggio delle indagini messo in atto dalla procura del Cairo e il comportamento aggressivo del regime, insultante nei confronti del nostro connazionale e sprezzante verso le istituzioni italiane dicono chiaramente che, oltre alla persona di Regeni, è stata la nostra dignità nazionale a subire un gravissimo attentato. Ed è la dignità di un popolo e dei suoi organismi a costituire il fondamento della sovranità dello Stato. Di fronte a tanto sfacelo restano due elementi positivi. Innanzitutto, il grande e intelligente lavoro svolto dalla procura di Roma col contributo essenziale dei reparti investigativi specializzati di carabinieri e polizia di Stato. E poi, il messaggio incancellabile trasmesso da Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio. Sono stati loro a far sì che quella che si sarebbe potuta considerare “una vicenda privata” diventasse una grande questione pubblica. Sono stati loro che, rinunciando a riservare il loro lutto esclusivamente alla sola sfera più intima, hanno consentito che si affermasse come grande tema civile. Sono stati loro, posso dirlo?, a salvare l’onore dell’Italia. Che non è declamazione retorica bensì consapevolezza dell’identità di un’organizzazione sociale e di una comunità di persone libere. Una coltellata alla nostra indifferenza di Paolo Crepet La Stampa, 18 luglio 2022 Centro storico di Napoli, una settimana fa. Notte torrida, dalla pietra scura dei vicoli affiora il peggio del giorno. Tutto sembra amplificato, corrotto dall’afa. I rumori, il sudore, l’immondizia. L’ora è tarda, ma in casa è peggio. La gente chiacchiera, si ristora, guarda seduta su sedie da bar la prospettiva di porte, balconi, lampioni: tutto risuona di voci, risate, richiami, clacson di motorini. Poi, improvviso, un urlo perfora il buio e fa trasalire. Non è stato sparo, eppure s’intuisce il dramma. Subito altre grida a catena, infine la sirena di un’ambulanza fa destare anche chi era riuscito ad assopirsi. Un corpo steso a terra, una donna, forse. Non è malavita, nemmeno resa di conti tra vecchi amanti. In molti si avvicinano, è una bambina. Ha 12 anni, è stata colpita da una coltellata in pieno volto dal suo “fidanzato” di 16. Portata in ospedale, non morirà, ma rimarrà sfregiata probabilmente a vita. Così racconta la cronaca di una notte troppo calda diventata tragedia, ma non di questa vorrei parlare. Non dei particolari, non delle responsabilità, compiti di giornalisti e giudici. Penso ai 12 anni. A chi dovrebbe essere bambina e non lo è più. Non c’entra Napoli, accade ovunque. Bambini scomparsi, solo neonati subito adolescenti. Età evolutiva evaporata nella fretta di crescere, di farli crescere. Molti pensano che occorra anticipare tutto, maturità e libertà, e cancellare il resto, la bellezza dello stupore, l’ingenuità di sguardi innocenti. Qualcuno ha ucciso la purezza per far spazio alla precocità che non significa rispetto, ma furto di sogni. Sembra che i bambini non possano più giocare, non abbiano tempo per la spensieratezza, ma debbano correre, amare e fare sesso da adolescenti vissuti, bere e drogarsi come chi ha qualche anno in più. In una discoteca o in un bar notturno si ritrovano bambini e bambine cresciuti chimicamente. Genitori accompagnano tredicenni a mezzanotte e li/le lasciano davanti ai locali “giusti” con un po’ di denaro perché possano ubriacarsi per tutta la notte. Genitori incapaci e pavidi che non riescono a dire di no nemmeno di fronte al pericolo più ovvio e scontato. Piccoli Buddha dopati, adulti ridotti a pusher. In tanti anni di lavoro ho visto crescere entrambi con sconcerto. Ho sempre cercato di contrastare quel trionfo dell’omologazione al nulla, l’orrenda normalizzazione della crescita, ovvero la sua uccisione. Anni fa a Genova ho insegnato ai bambini e alle bambine delle elementari la lentezza, la necessità di perdere tempo, un’esperienza fantastica: finalmente potevano essere ciò che volevano e non fare vite da manager con l’agenda fitta tra scuola, ginnastica, piscina, playstation, festicciole alcoliche. A loro piacque tanto, a genitori e insegnanti molto meno. Una ragione c’è se si sceglie questa decadenza che porta un’esistenza più lunga ad essere più povera d’emozioni. Si chiama marketing, la possibilità di poter vendere tutto a più gente possibile, poco importa se si deve sacrificare l’età più bella, fondamentale che diventino precoci acquirenti di ciò che ha già imbrogliato gli adulti. Eppure ci sono padri e madri che riescono a essere orgogliosi di una Lolita o di un bullo. Anche tra gli adulti sta crescendo la rassegnazione. Perfino quella coltellata in pieno volto sarà scordata per un altro caso di cronaca di “piccoli cuori violenti”. “È così che va il mondo” mi sento ripetere, come se una comunità che si rifiuta di educare a desideri e passioni possa pretendere di disegnare un futuro che non sia tragico. Forse l’infanzia era già ferita a morte e quella coltellata alla nostra indifferenza è stata soltanto la più recente, non l’ultima. Certe “bagatelle” fanno tanto male di Giusi Fasano Corriere della Sera, 18 luglio 2022 Alcuni truffatori si sono impadroniti dell’identità di Gaia, morta in un incidente stradale per aprire dei contratti e nessuno ha controllato la sua identità. E adesso il conto di quei falsi contratti è arrivato alla madre. Nel linguaggio del diritto sono “bagatellari”. Quei reati che non comportano grave allarme sociale, che hanno lesività minore e che quindi sono di poco conto. Una fesseria, insomma. Bisognerebbe che qualcuno convincesse Donatella Ramarro che anche nel suo caso si è trattato di una cosuccia da niente. Una fastidiosa stupidaggine. L’Enel le ha chiesto via mail 240,99 euro perché dice che fra aprile e giugno di quest’anno sua figlia, Gaia Volpes, non ha saldato i conti di quattro bollette dell’energia elettrica. Peccato che sua figlia non ci sia più: è morta il 5 gennaio dell’anno scorso in un incidente stradale vicino Mantova, aveva 27 anni. E per quanto piccolo sia l’importo richiesto, per quanto si tratti di una minuzia nella scala infinita che misura la gravità dei reati, Donatella ha letto la mail dell’Enel e si è sentita sopraffatta dal dolore. Perché di questo si tratta. Alla fine dietro ogni reato, bagatellare o gravissimo che sia, ci sono cuori che battono, che si agitano, si addolorano. Persone per le quali potrebbe contare moltissimo anche quell’anellino rubato che valeva niente oppure un’identità violata per non pagare le bollette. “Mamma ha pianto molto”, racconta Christopher, il fratello di Gaia. “Per lei è stata una violenza sapere che dei truffatori abbiano maneggiato il nome di mia sorella. È già tutto così difficile…”. In un sistema giustizia sovraccarico e spesso malfunzionante come il nostro, è praticamente impossibile immaginare più attenzione (nelle indagini, nella definizione delle pene, nella celerità dei processi) per le vittime di reati bagatellari. Impossibile pretendere che Donatella chiuda in poche settimane questo capitolo della sua sofferenza. Intanto il bar/piadineria al quale è stata intestata la finta utenza (poi chiusa dagli stessi truffatori) è in provincia di Milano ed è ancora aperto. I carabinieri vedranno, faranno, la magistratura valuterà, provvederà… Chissà se i truffatori sanno che Gaia non c’è più, chissà se è proprio per questo che le hanno rubato il nome. Era una soccorritrice, Gaia. Quando è morta era su un mezzo per il trasporto sanitario semplice di pazienti. Una sbandata, un fosso, lo schianto senza rimedio. Non guidava lei perché non ha mai avuto la patente. E anche qui: il documento di identità inserito nel falso contratto stipulato online era proprio una patente. È troppo chiedere una verifica prima di dare l’ok? Trattamento inumano limite all’estradizione di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 18 luglio 2022 Solo un accertamento fondato su elementi oggettivi che consenta di escludere la violazione dei diritti fondamentali del soggetto del quale sia stata richiesta la consegna consente di ritenere accoglibile una richiesta di estradizione. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n.18044/2022 depositata il giorno 5/05/2022. Il caso di specie trae origine dall’accoglimento da parte della Corte di Appello di Milano di una richiesta di estradizione proposta da parte della Federazione Russa ed avente ad oggetto un cittadino greco residente in territorio russo. Il difensore ricorreva allora alla Corte di cassazione al fine di ottenere la revoca della predetta decisione. Nella tesi difensiva veniva rappresentata la palese violazione del principio posto dall’art.698 comma 1 cpp, che vuole che non sia consentita l’estradizione nel caso in cui il Paese richiedente non fornisca adeguate garanzie circa la tutela dei diritti fondamentali del soggetto del quale viene richiesta la consegna. Il procedimento giungeva all’esame della Cassazione che ritengono fondato il motivo circa l’obbligo di verifica dei giudici nazionali. Sul punto precisano i giudici come la Corte di Appello, organo istituzionalmente competente, in tali casi, prima di ritenere accoglibile una domanda di estradizione debba compiere una verifica fondata su elementi oggettivi circa la normativa processuale e penale vigente nel Paese richiedente e ove essa risulti sufficientemente garantista e idonea a tutelare i fondamentali diritti umani si possa dare corso alla consegna al Paese richiedente. Tutto ciò in ottemperanza ai dettami della Carta costituzionale ed a quelli della legislazione ordinaria che con l’art.698 comma 1 cpp, come osservato anche dal difensore, vieta di procedere all’estradizione nel caso in cui si sia in presenza di un rischio di trattamenti inumani e degradanti per l’estradato. Ricorso accolto e sentenza revocata. Napoli. Obeso (270 kg) e cardiopatico, tre anni in cella prima dei domiciliari di Andrea Aversa Il Riformista, 18 luglio 2022 La telefonata è arrivata verso le 19 dell’altro ieri. Alla moglie di Mario Barone era stato annunciato che il marito sarebbe uscito entro un’ora dall’inferno, ovvero dal carcere di Poggioreale. Barone, 41 anni, ha dovuto attendere tre anni prima di ottenere il regime detentivo degli arresti domiciliari. La sua storia è una delle tante eclatanti che hanno dimostrato il corto circuito burocratico di una giustizia italiana che nega i diritti ai cittadini. Cardiopatico e dal peso di 270 chili, Barone si è visto riaprire le porte del carcere nel 2019. Doveva finire di scontare la sua pena: 5 anni di detenzione. Ora dovrà trascorrere i restanti 1 anno e 4 mesi a casa. Dopo un intervento alla gamba che lo ha costretto sulla sedia a rotelle, tre ricoveri e due fratture, Il Tribunale di sorveglianza ha autorizzato il suo trasferimento ai domiciliari. “Una vicenda incredibile - ha spiegato a Il Riformista l’avvocato difensore Salvatore Rotondo - Già da quando ho avuto la possibilità di occuparmi del caso, ho compreso la gravità della situazione. Sono stato costretto a incontrare il mio assistito, non negli spazi adibiti ai colloqui, ma nel suo padiglione. Il motivo? Essendo il signor Barone affetto da obesità e stando sulla sedia a rotelle, era impossibile spostarlo con facilità”. In passato, il letto della cella su cui dormiva il 41enne non ha retto al suo peso, la caduta gli ha causato una frattura alla clavicola. Barone è stato poi trasferito presso il reparto detentivo ospedaliero San Paolo. Quest’anno, per lo stesso motivo, il 41enne è stato ricoverato all’Ospedale del Mare per una frattura al bacino. Nel mezzo, lo scorso giugno, un ricovero all’ospedale Cardarelli, questa volta a causa di alcune complicazioni cardiache. “Dal nosocomio napoletano, il più grande del Mezzogiorno, sono stati costretti a trasferirlo perché non ci sono più posti letto disponibili per i detenuti”, ha dichiarato il Garante regionale per i diritti dei reclusi Samuele Ciambriello. “Ho presentato diverse istanze al magistrato di sorveglianza - ha affermato l’avvocato Rotondo - ma la burocrazia è nemica della giustizia. Ci sono dei problemi cronici: mancanza di risorse, di personale e nessun collegamento diretto tra i penitenziari e le autorità di sorveglianza. Questo - ha continuato Rotondo - rende biblici i tempi delle procedure. E sono diversi i casi allarmanti, da un punto di vista sanitario che meriterebbero tempestività”. “Abbiamo fatto una battaglia per Barone - ha detto il Garante Ciambriello - Il problema sta nel comprendere il concetto di pericolosità. Che pericolo può costituire un detenuto come Barone, impossibilitato a muoversi? Perché tenerlo in carcere, contesto dove regna il sovraffollato?”. La risposta andrebbe data ad altri due detenuti, sempre reclusi a Poggioreale. Uno ha 90 anni, l’altro soffre anche lui di obesità, pesa 170 chili e un mese fa è stato intubato al Cardarelli. Si chiama Gerardo Di Scala, ha 44 anni ed è ischitano. Detenuto per reati minori, finirà di scontare la sua pena a giugno del 2023. Come Barone è cardiopatico ma in più soffre di ipertensione. L’avvocato Rotondo si sta occupando anche di questo caso: “In Italia ci sono molte difficoltà nell’applicazione delle pene alternative - ha concluso il legale - Detenuti per reati minori con pochi anni da scontare, alcuni sono anziani e malati potrebbero stare a casa o rientrare nei regimi di messa alla prova. Dimentichiamo che anche i detenuti sono persone che magari hanno una famiglia che li aspetta”. Ma questo nel Belpaese non avviene. Perché non sono soltanto i tribunali di sorveglianza a non funzionare in modo adeguato. Anche gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) non sono in grado di garantire un servizio giusto, efficiente ed efficace. Nel frattempo i diritti degli esseri umani sono calpestati e lo Stato sta continuando a girarsi dall’altra parte. Alba (Cn). Il Garante dei detenuti Alessandro Prandi si dimette ufficialmente avocedialba.it, 18 luglio 2022 Pur non volendo commentare, Prandi ha sottolineato come la decisione non sia stata presa per “motivi personali”. A inizio mese commentava in modo aspro l’ennesimo ritardo sui lavori di ampliamento del carcere “Montalto”. Alessandro Prandi ha rassegnato le proprie dimissioni da garante dei detenuti del carcere di Alba. La notizia arriva dalla serata di ieri (sabato 16 luglio), ed è stata confermata dal sindaco di Alba Carlo Bo, informato della cosa. Ma che, essendo stata protocollata proprio in serata la lettera scritta da Prandi, ancora non ha avuto modo di leggerla per commentarla. Lo stesso Prandi non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione, pur specificando come la decisione non sia stata presa per ‘motivi personali’. Non può, quindi, non saltare all’occhio come Prandi abbia commentato in modo duro sul proprio profilo Facebook, lo scorso 9 luglio, la notizia dell’ennesimo ritardo nei lavori di ampliamento del carcere Montalto di Alba comunicato in un incontro avvenuto in provveditorato: “Apprendo la notizia solo ora - aveva scritto. Peraltro l’incontro, a cui non ho potuto partecipare, tra la Provveditora, il sindaco Bo e l’assessora Boschiazzo, si è tenuto ‘solo’ il 16 giugno scorso e, nello scarno resoconto fattomi a voce, di questa enormità non c’era traccia. Le ultime comunicazioni giunte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per bocca della stessa Provveditora davano per certo l’inizio dei lavori per ‘i primi giorni del mese di giugno’. Comunque sia la notizia non fa altro che confermare la totale inaffidabilità e la poca serietà di chi è chiamato a gestire il sistema penitenziario”. Prandi era stato riconfermato nel proprio ruolo proprio da Bo nel novembre 2020. Nel settembre 2015 la prima nomina. Ecco perché sono state chiuse le Alcatraz italiane di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2022 Nel libro di Sebastiano Ardita “Al di sopra della legge” la storia dei boss mafiosi detenuti a Pianosa e all’Asinara. Edito da Solferino, il saggio s’intitola “Al di sopra della legge” e ha un sotto titolo eloquente: “Così la mafia comanda dal carcere”. Sul tema, Ardita è uno dei magistrati più competenti: consigliere del Csm e in passato procuratore aggiunto a Catania e Messina, è stato per dieci anni - dal 2002 al 2011 - direttore dell’Ufficio centrale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un incarico delicato quello ricoperto da Ardita: in passato ben due direttori dell’Ufficio centrale detenuti sono stati assassinati dalle Brigate rosse. Nel suo libro il magistrato racconta la sua esperienza in quello che è uno degli uffici ai vertici del Dap, ma si sofferma anche su quello che è avvenuto dopo: le rivolte in carcere durante l’esplosione del Covid, le scarcerazioni di detenuti mafiosi nelle settimane del lockdown, i pestaggi della polizia penitenziaria. Ma per spiegare i limiti della gestione carceraria, Ardita è spesso costretto ad andare indietro nel tempo fino al 1992, l’anno delle stragi. È dopo l’attentato di Capaci che viene introdotto per la prima volta il 41bis, il carcere duro per detenuti mafiosi, inserito in un decreto legge che rappresentava la risposta dello Stato all’omicidio di Giovanni Falcone. Come tutti i decreti, però, anche quello aveva una data di scadenza: se il Parlamento non lo avesse convertito in legge entro il 7 agosto del ‘92, il carcere duro per i mafiosi sarebbe evaporato. A leggere i giornali dell’epoca, dopo i primi giorni di commozione, al Senato e alla Camera stava prevalendo una linea garantista, spinta anche dall’inchiesta su Tangentopoli che stava colpendo duramente la classe politica della Prima Repubblica. Già dopo alcune settimane dalla morte di Falcone l’emergenza mafia era svanita dalle agende parlamentari: secondo numerosi commentatori è altamente probabile che il decreto sul 41 bis non sarebbe stato convertito dalle Camere. Solo che poi, appena due settimane prima della scadenza, Cosa nostra decise di uccidere anche Paolo Borsellino. E il Parlamento rispose convertendo in legge la norma sul carcere duro per i mafiosi. Il governo decide di reagire portando i mafiosi sulle isole di Pianosa e dell’Asinara, dove veniva applicato il 41bis. La strage di via d’Amelio, dunque, è una sorta di boomerang per Cosa nostra: anche per questo motivo l’eliminazione di Borsellino resta ancora oggi una delle più misteriose decisioni prese da Totò Riina. Le minacce dei familiari dei detenuti - Nei fatti è da quel momento che tra gli obiettivi di Cosa nostra viene inserita la guerra contro il carcere duro. L’abolizione del “decreto legge 41bis”, la “chiusura super carceri” e la “carcerazione vicino le case dei familiari”, sono tre dei dodici punti inseriti da Riina nel famoso “papello” di richieste avanzate nei confronti delle Istituzioni per far cessare le stragi. Nel febbraio del 1993, dopo l’arresto di Riina, una lettera firmata da “familiari dei detenuti di Pianosa e Asinara” viene inviata al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e ad altri destinatari istituzionali. In quella missiva si usava un tono minaccioso, chiedendo l’intervento del capo dello Stato per mettere fine a violenze in carcere contro detenuti. La lettera conteneva accuse all’allora direttore del Dap, Nicolò Amato, definito “dittatore spietato”: quattro mesi dopo sarà sostituito da Adalberto Capriotti. “Ma al di là del carcere duro, quello che i mafiosi non tolleravano era la distanza dal loro mondo. Una condizione per loro assolutamente insopportabile era il dover stare sulle isole. Le isole erano il loro problema principale. Non c’era giorno che un vecchio funzionario o qualcuno del Gom - il Gruppo operativo mobile, il reparto speciale di polizia addetto alla vigilanza dei 41 bis - non mi suggerisse di proporre di riportare i mafiosi sulle isole. Ma questo argomento era un vero tabù. Non se ne poteva neppure parlare, perché la politica aveva alzato un muro”, scrive Ardita nel suo libro, ricordando i suoi anni al Dap. L’indagine di Ardita - L’attuale consigliere del Csm racconta allora di aver svolto una sorta d’indagine interna sulla chiusura delle due isole carcere. “Ho cercato di capire cosa fosse avvenuto in quegli anni - tra il 1992 e il 1997 -, dopo che il ministro Martelli aveva fatto riaprire Pianosa e l’Asinara. E perché a un certo momento, in modo precipitoso, dall’oggi al domani, il governo alla fine del 1997 - quando il ministro non era più Martelli - aveva deciso di chiuderle e di trasferire tutti i detenuti sulla terraferma. Questa decisione precipitosa mi incuriosì, e così provai a cercare una spiegazione altrettanto interessante”. È a quel punto che Ardita racconta di aver portato avanti una vera e propria indagine documentale. “Per prima cosa andai a indagare quale fosse stata la effettiva permanenza dei più importanti capimafia a Pianosa e all’Asinara tra il 1992 e il 1997. Scoprii subito che, a causa della necessità di celebrare i processi in corso, avendo essi il diritto a presenziare ai dibattimenti, in realtà sulle isole i boss rimasero ben poco”. Quello che scopre Ardita è un fatto poco noto: anche se i capi di Cosa nostra, sulla carta, rappresentavano detenuti nelle Alcatraz italiane, nei fatti ci trascorrevano pochissimi giorni. “Stavano molto tempo nelle carceri delle loro città, dove si celebravano i processi. Trascorrevano lunghe giornate nelle aule di udienza, dove avevano modo di parlare - fuori dalle occasioni previste dal regime - con altri detenuti, avvocati e familiari. E in qualche caso mandavano messaggi agli affiliati anche attraverso interviste rilasciate dalle gabbie”. Il magistrato fornisce dati precisi: il capo dei capi Totò Riina in teoria ha trascorso quattro anni all’Asinara: tra una trasferta per motivi processuali e un’altra, però, ci passò alla fine solo 185 giorni. Suo cognato Leoluca Bagarella si fermò a 157 giorni, cento in meno di quelli trascorsi sull’isola dal capo di Cosa nostra a Catania, Nitto Santapaola. Il dibattito politico - Ardita prosegue il suo racconto: “Questo privilegio di poter eludere la permanenza sull’isola con la scusa dei processi sarebbe dovuto cessare nel gennaio 1998, quando una legge stabilì che i mafiosi dovevano partecipare ai processi in videoconferenza. Con quella legge la permanenza dei boss nelle isole sarebbe diventata stabile e duratura. Ma, con un colpo di scena, un decreto-legge fissò al 31 dicembre 1997 il termine ultimo per l’utilizzo delle isole a fini penitenziari, disponendo la chiusura definitiva degli stabilimenti penali. Con una singolare coincidenza rispetto alla conclusione dell’iter parlamentare della legge sui processi a distanza, le carceri sulle isole da un giorno all’altro furono evacuate. E così si evitò che i boss vi rimanessero stabilmente”. È il 1997 quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi con Giovanni Maria Flick alla Giustizia, chiude le “Alcatraz italiane”. L’ex guardasigilli ha sostenuto più volte come quella scelta fosse dovuta alla legge sulle aree protette, in vigore già nel 1992, che prevedeva l’istituzione dei Parchi naturali sulle due isole e la chiusura dei penitenziari. Ancora nel settembre scorso Flick ha inviato una lettera di replica al Fatto Quotidiano per dire che la vicenda della chiusura delle supercarceri era stata “in realtà già definita nelle due precedenti legislature”, rispetto a quella in cui lui era ministro della Giustizia, “per unanime volontà del Parlamento e delle Regioni interessate” e dal governo Prodi fu “soltanto adempiuta e anzi differita nel tempo”. “I mafiosi sarebbero stati murati vivi nelle isole” - Ardita, però, fa notare come la decisione di confermare la chiusura dei penitenziari s’incrocia con un’altra legge: quella che obbliga i mafiosi a presentarsi in videoconferenza alle udienze dei processi. “Per capire meglio tutto bisogna sapere che anche la previsione del regime 41 bis era a termine. Fino a un certo punto i due strumenti, 41 bis e utilizzo delle isole, vennero prorogati insieme di due anni in due anni. Poi la permanenza dei mafiosi sulle isole venne prorogata per periodi più brevi e in ultimo finì per non essere più prorogata: giusto quando stava per diventare stabile ed effettiva, grazie all’introduzione dei processi in videoconferenza. È chiaro che non può essersi trattato di una coincidenza”. scrive il magistrato. Che poi prosegue: “Tutti sapevano che quella legge avrebbe murato vivi i boss nei penitenziari che si trovavano lontani dalla terraferma, come si può apprendere dai lavori parlamentari del 1996 per la conversione in legge dell’ultimo decreto di proroga dell’utilizzo delle isole. Nel dibattito si diceva che: Totò Riina, in regime di 41 bis, è detenuto nel carcere dell’Asinara: su trecentosessantacinque giorni di un anno è rimasto ospite solo cinquantasette giorni”. Nel suo libro, il magistrato, cita direttamente la vicenda della cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra: secondo la procura di Palermo avrebbe avuto tra i suoi oggetti anche l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi. Il processo d’Appello sulla Trattativa, però, si è concluso nel settembre scorso con le assoluzioni di quasi tutti gli imputati. “Visto che oggi pare vi sia la certezza giuridica del fatto che non è reato negoziare con la mafia su aspetti che incidono negativamente su di essa, sarebbe forse più facile cercare di capire chi assunse l’iniziativa di quella scelta e perché. Al di là dei giudizi, dei processi, delle responsabilità penali e istituzionali, esiste un bisogno di verità”. Libertà e responsabilità di Ezio Mauro La Repubblica, 18 luglio 2022 La verità è che la crisi di governo è una crisi di sistema: e appena un passo più in là c’è la crisi della democrazia. Ma c’è ancora “quella certa idea dell’Italia” di cui parlavamo sempre con Eugenio Scalfari, considerandola il principio ispiratore e insieme il perimetro ideale di un quotidiano come Repubblica? Era una formula antica di Piero Gobetti, attualizzata per definire la comunità culturale che si riconosce nel giornale, formata a ugual titolo da chi lo scrive e chi lo legge: giustizia, libertà, la quota di uguaglianza che è possibile in democrazia, evitando esclusioni, l’Europa come scelta e come obbligo, l’Occidente come orizzonte, la modernizzazione del Paese come impegno, nella coesione sociale e nell’emancipazione dai suoi demoni della sinistra, incalzata a diventare radicale nei suoi principi, liberale nel metodo, riformista nella pratica di governo di un’identità finalmente risolta. Oggi, mentre una lunga fase della vita di Repubblica finisce con la morte del fondatore e quel patto morale e culturale si rinnova, bisogna chiedersi se nella disgregazione del quadro politico che sembra arenarsi estenuato è ancora possibile trovare un principio di riferimento comune che salvi il salvabile, evitando l’esplosione congiunta di tutte le nostre fragilità e debolezze, con esiti imprevedibili ma certamente pericolosi. La verità è che la crisi di governo è una crisi di sistema: e appena un passo più in là c’è la crisi della democrazia. Non va dimenticato, infatti, che il ministero Draghi proprio per la chiamata a palazzo Chigi dell’ex governatore della Bce e per l’impegno di quasi tutti i partiti rappresenta il punto più alto di responsabilità nel governo, e insieme il punto zero nell’autonomia del meccanismo politico e istituzionale. Un governo non eletto ma figlio diretto dell’emergenza, anzi espressione e conseguenza dello stato d’eccezione in cui viviamo negli ultimi anni, assediati dal virus e dalle sue conseguenze sulla vita sociale, economica e di relazione: senza aver ancora smaltito del tutto gli effetti della crisi finanziaria più lunga del secolo, e da febbraio costretti a fronteggiare l’incubo quotidiano di una guerra scoppiata nel cuore dell’Europa, che reinsedia la frattura storica tra l’Est e l’Ovest del continente, minacciando la sicurezza e il futuro dei cittadini. Tutto questo naturalmente non rende intoccabile Draghi, perché qualunque esecutivo vive di vita propria e qualsiasi autorità politica parte con una rendita di posizione che deve poi mettere in gioco ogni mattina, costruendosi quotidianamente il sostegno politico nella coalizione e il consenso popolare nel Paese. Ma rende invece estrema la soglia istituzionale cui è giunto il Paese con questa soluzione di governo. Ricordiamoci che quando il presidente Scalfaro chiamò Carlo Azeglio Ciampi a palazzo Chigi e disse a Gianni Agnelli che in seguito poteva toccare a lui, l’avvocato rispose che “dopo il governatore c’è solo un generale, o un cardinale”. La coscienza di questo limite democratico alla fantasia e alla libertà di sperimentazione del sistema oggi manca. E invece proprio la torsione fuori da sé del mondo politico nel cercare una soluzione all’altezza dell’obbligo di governare le emergenze, dovrebbe farci capire che ci muoviamo sotto la costrizione della crisi, i nostri margini autonomi di manovra sono ristretti e soprattutto condizionati, tanto da mettere in campo l’ultima ipotesi, la carta finale. Se è così, se per la gestione del governo si è dovuti ricorrere coscientemente a una scelta d’eccezione - appunto estrema, come un governo di unità nazionale, che vede insieme destra e sinistra - la consapevolezza politica e istituzionale impone che anche la gestione della crisi tenga conto di questo vincolo d’emergenza, che non è certo sciolto, ma anzi rende particolarmente vulnerabile la nostra democrazia. Questo non significa che i partiti debbano perdere la libertà delle loro decisioni e l’autodeterminazione nella gestione dei loro interessi legittimi e dei loro valori, che sono alla base della rappresentanza. La piena sovranità della politica sulle scelte per il Paese è un elemento della democrazia e va tutelata come garanzia d’indipendenza nel libero gioco dei partiti. Nella libertà c’è però la coscienza della fase, che comporta l’obbligo di leggere il contesto nazionale e internazionale, le condizioni inedite che ne derivano, la proporzione eccezionale che la politica ha costruito per tentare un governo della fase. Gettare via tutto questo è irresponsabile, perché è come ammettere che il Paese non è governabile, nemmeno davanti alle sfide più radicali, neanche con le soluzioni più ardite e impegnative, e può soltanto arrendersi: come conferma la perenne tentazione salviniana del Papeete, con Berlusconi ormai al seguito. La libertà non esclude una gerarchia di soluzioni: e oggi è evidente a tutti - ecco il punto - che nell’animo dei cittadini la crisi di governo è subordinata alla doppia crisi congiunta della guerra e della pandemia. L’unico modo per riconquistare una piena autonomia e una sovranità senza vincoli per la politica è l’affrancamento da questa subordinazione oggi obbligata. Vale a dire il superamento dell’emergenza, che non suggestiona soltanto il gioco democratico ma lo limita, deformandolo. Se questo è vero, ne discendono obblighi evidenti: una sicura capacità di mantenere la collocazione occidentale dell’Italia, per non indebolire lo sforzo congiunto di sostegno all’Ucraina, costruendo le condizioni per un vero cessate il fuoco e un negoziato; e una coerenza negli impegni di riforma necessari per attivare i fondi europei della ricostruzione. Queste due condizioni necessarie portano alla riconferma di Draghi: sta al premier garantire un ambito d’azione politica e di interlocuzione al M5S, alla disperata rincorsa dell’elettore perduto, nell’illusione di cercarlo nel richiamo della foresta populista. E sta a Conte far valere la sua dimensione smarrita di uomo di Stato che ha guidato due governi, rifiutando l’interpretazione mitologica e ideologica della sua caduta, determinata in realtà dall’evidente esaurimento della forza propulsiva grillina. Dentro questo spazio il M5S può esercitare un ruolo di rappresentanza dei temi sociali utile all’intero governo e al Paese, coprendo le faglie che li stanno riducendo letteralmente a pezzi di stelle, e Draghi può andare avanti per il tempo che manca. L’unica alternativa è il voto, l’eterna tentazione da evitare è una soluzione balneare incapace di fare le scelte necessarie. Il Paese è esposto, più di altre democrazie. In questa situazione la responsabilità è la vera libertà della politica, e può diventare l’idea comune di un’Italia che nell’estate del 2022 sa provvedere a se stessa, mandando in ferie generali e cardinali. Un portale dedicato alla salute mentale: le domande (e le risposte) più frequenti di Chiara Daina Corriere della Sera, 18 luglio 2022 Salutementale.net offre una mappa dei servizi, informa su come ottenere assistenza psichica, a chi rivolgersi e come accedere ai servizi in ogni regione e provincia. La sofferenza mentale è invisibile dall’esterno, spesso paralizza le famiglie, che si ritrovano sopraffatte da dubbi e paure e senza orientamento. Come si fa a capire se un familiare ha una malattia psichiatrica? A chi chiedere aiuto? Dove trovo il centro di salute mentale più vicino a casa? Cosa fare se i sintomi riguardano un minore? Cosa non si deve assolutamente fare se si è alle prese con un problema di questo tipo? Qual è la differenza tra un disagio psichico e un disturbo psichico? Il portale Salutementale.net, realizzato dall’Asl Roma 2 in collaborazione con la Fondazione Don Luigi Di Liegro e la Fondazione d’Harcourt, risponde alle domande più frequenti sul disagio mentale e offre una mappa dei servizi presenti sul territorio nazionale divisi per regione e provincia. “È uno strumento totalmente pubblico, che non gode di sovvenzioni private, e nasce dall’esigenza di informare i cittadini sui servizi di diagnosi, cura e assistenza psichiatrica e su tutte le forme di assistenza sociale e lavorativa di cui si ha diritto. In tanti ignorano ancora l’esistenza delle strutture pubbliche di salute mentale sul territorio e si rivolgono al privato - dichiara Massimo Cozza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2 -. Domande e risposte sono state costruite e condivise dagli esperti con le associazioni dei familiari dei pazienti”. In tutto 45 faq (le domande più frequenti con relative risposte), distinte in nove argomenti. Il primo gruppo riguarda il riconoscimento del disturbo, l’atteggiamento da tenere e i centri a cui rivolgersi per un intervento immediato. Il secondo elenco di domande entra in merito alle modalità di accesso ai centri, a cosa fare se la persona non riconosce di stare male, al coinvolgimento e sostegno dei parenti. Attraverso altri 18 quesiti si chiarisce cos’è il dipartimento di salute mentale, cosa succede quando la persona viene ricoverata, cos’è un trattamento sanitario obbligatorio, come funzionano i centri diurni, il day hospital, gli “appartamenti supportati”, i gruppi multifamiliari e di mutuo auto aiuto, quali sono i livelli essenziali di assistenza, e così via. Scorrendo la tendina si arriva al quarto punto, in cui si affronta l’alleanza terapeutica tra medico e paziente, il piano riabilitativo, gli utenti e familiari esperti e i budget di salute per la personalizzazione dell’intervento. A seguire si spiega quando e come rivolgersi alle strutture residenziali, si descrivono le iniziative di socializzazione e inserimento sociale, le opportunità di formazione professionale e di lavoro (dai tirocini professionalizzanti e borse di lavoro ai laboratori protetti, al ruolo della cooperative di tipo b), i supporti economici di cui beneficiare (compreso il “dopo di noi”, il contribuito per il percorso di emancipazione abitativa dopo la scomparsa della famiglia che fino a quel momento si è presa cura del malato), che cosa sono le rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza subentrate dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari) e come risolvere i vari problemi che possono insorgere durante la presa in carico. Salutementale.net non è solo una bussola per i servizi territoriali. Ma include anche un motore di ricerca per rintracciare tutte le norme, linee guida e sentenze sulla salute mentale a livello regionale, nazionale e internazionale. “L’ultima legge in evidenza è quella sul bonus psicologo e la raccolta dei testi viene aggiornata periodicamente” commenta Cozza. Alla voce “biblioteca” l’utente può consultare un catalogo di libri specifico sul tema della psichiatria. Per richiedere in prestito un testo bisogna recarsi fisicamente presso la sede del centro studi e documentazione dell’Asl. Un’altra sezione del sito ospita dei video con testimonianze e interviste sul disagio mentale, lo stigma e il pregiudizio. Poi c’è quella dedicata a tutti gli eventi in agenda, dai festival ai congressi scientifici, che si possono ricercare inserendo la data, la parola chiave o consultando semplicemente l’elenco in ordine cronologico. A curare il portale è una redazione composta da una decina di volontari, tra cui sei utenti provenienti dai servizi territoriali, e coordinata da Claudio Rosini, responsabile del centro studi e documentazione dell’azienda sanitaria romana. Ucraina. L’ombra del tradimento sul procuratore che insegue i criminali di guerra di Giacomo Galeazzi La Stampa, 18 luglio 2022 Ecco perché Zelensky ha licenziato Iryna Venediktova, la voce dell’Ucraina all’Aia. Collaborazionismo o scarsi risultati nella caccia ai criminali di guerra? Volodymyr Zelenskyy non ha precisato nel suo discorso alla nazione le ragioni della rimozione di Iryna Venediktova dalla carica di procuratore generale. Nel video il presidente ucraino segnala che a oggi sono stati avviati 651 “procedimenti criminali” per tradimento e attività di collaborazione: “In particolare, oltre 60 impiegati dell’ufficio del procuratore e del servizio di sicurezza ucraino sono rimasti nel territorio occupato e stanno lavorando contro il nostro Stato”. Dunque Iryna Venediktova, procuratore generale del Paese, è stata sollevata dal suo incarico con un decreto presidenziale nella più grande scossa del governo dall’inizio dell’invasione su larga scala della Russia, quasi cinque mesi fa. Sono centinaia i procedimenti penali contro dipendenti di diversi uffici di alto livello per presunta collaborazione con i russi o per aver lavorato contro gli obiettivi della nazione. “Una tale serie di crimini contro le fondamenta della sicurezza nazionale dello Stato e le connessioni rilevate tra i dipendenti delle forze di sicurezza dell’Ucraina e i servizi speciali della Russia pongono interrogativi molto seri alla leadership competente”, sottolinea Zelensky. E precisa che “tutti i dipendenti che lavorano contro l’Ucraina saranno ritenuti responsabili”. Sono stati sostituiti anche i capi della sicurezza delle regioni di Kharkiv e Kherson. Nel suo discorso il numero uno di Kiev non ha rivelato se Venediktova sia indagata per presunto tradimento o altri reati. In una settimana, puntualizza Zelensky, la Russia ha utilizzato più di 3.000 missili da crociera uccidendo 150 civili ucraini. “È impossibile contare il numero di proiettili di artiglieria e di altro tipo che sono stati utilizzati contro il nostro Paese e il nostro popolo- afferma-. Ma è sicuramente possibile consegnare alla giustizia tutti i criminali di guerra russi”. Mentre l’Ucraina si prepara ad altri attacchi, i licenziamenti al vertice dello Stato hanno evidenziato la sfiducia all’interno dei ranghi di Zelensky. Iryna Venediktova, come procuratore generale dell’Ucraina, aveva parlato quattro giorni fa alla Ukraine Accountability Conference all’Aia. Ex consigliere di Zelensky e responsabile legislativa del suo partito, Venediktova è stata nominata procuratore generale nel 2020. Poco dopo l’inizio dell’invasione su larga scala da parte della Russia, a febbraio, lei e il suo ufficio hanno iniziato a indagare su sospetti crimini di guerra, riferisce il Washington Post. Venediktova, la prima donna procuratore generale della nazione, è stata segnalata da diversi importanti organi di informazione statunitensi per le sue indagini sulle presunte atrocità russe. A fine maggio aveva dichiarato al Washington Post che il suo ufficio aveva più di 13.000 casi di crimini di guerra su atrocità russe, tra cui uccisioni di civili, stupri e torture. La Venediktova ha dovuto affrontare le critiche di alcuni media ucraini che hanno affermato che non ha ottenuto risultati sufficienti in casi di alto profilo contro la corruzione. Venediktova è succeduta all’ex procuratore generale Ruslan Ryaboshapka. Quando Ryaboshapka è stato licenziato, Zelensky ha detto che non aveva prodotto risultati. Nel 2020, Zelensky ha dichiarato che sarebbe stata assunta un’altra persona se anche Venediktova non fosse riuscita a produrre risultati, secondo quanto riportato dal Kyiv Post. Commenta la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova: “La denazificazione in Ucraina è in pieno svolgimento”. Venediktova sarà sostituita da Oleksiy Symonenko, secondo il decreto di Zelensky che annuncia il suo licenziamento. Mentre l’Ucraina continua a valutare le azioni dei suoi funzionari, ha detto Zelensky, le domande sulla sua leadership riceveranno una “risposta adeguata”. Nella Tunisia di Saied l’attesa rassegnata della svolta autoritaria di Leonardo Martinelli La Repubblica, 18 luglio 2022 Alla vigilia del referendum costituzionale voluto dal presidente crescono i timori di un giro di vite: si teme un modello putiniano in salsa populista. La riforma voluta dal leader consegna tutto il potere nelle sue mani. “Resteranno soltanto spazi marginali di libertà”, assicura il politologo Redissi. S’intravede un edificio bianco tra gli alberi. Ma oltre il filo spinato, che dagli scogli di Cartagine s’infila nel mare, non si può passare. “È il castello del presidente”, dice Fatima, mentre regge la canna da pesca in mano. “Perché il nostro presidente è come un re”. Ride. Ma il rischio è che Kais Saied, in carica dal 2019, diventi davvero un sovrano assoluto. 64 anni, ex professore universitario (in realtà è stato solo assistente), illustre sconosciuto fino alla rivoluzione del 2011, iniziò allora ad arringare i giovani nella piazza della Kasbah (oggi i discorsi ufficiali li tiene in arabo classico e non in tunisino, che lo rende forse più autorevole, ma anche enigmatico e incomprensibile ai più, che quella lingua preziosa non la parlano). Il 25 luglio si terrà il referendum su una nuova Costituzione, che lui ha voluto, per diventare un iperpresidente. Saied, solitario, se ne sta rintanato nel suo “castello”. Mentre al tramonto, sulla costa rocciosa accanto, un grappolo di famiglie guarda il mare e l’ultimo traghetto che sfila via per Palermo. Cercando di dimenticare ansie e privazioni di una Tunisia in affanno. La mattina dopo, a pochi km da lì, alla Marsa, altro sobborgo di Tunisi, Hamadi Redissi, politologo (l’ultimo suo libro, La tentazione populista, è sull’ascesa di Saied), ha dato appuntamento agli amici al solito bar. Si discute del referendum: gli occhi fissi al mare, come sempre. Redissi ha analizzato la riforma costituzionale di Saied (“l’ha pensata senza una seria concertazione”, specifica) e non ha dubbi: “Vi è una deriva autoritaria. Concentra tutti i poteri nelle mani del presidente, che nomina il governo e i suoi ministri: sono responsabili solo dinanzi a lui. L’Esecutivo non deve ottenere la fiducia dal Parlamento. Questo, composto di due assemblee, può votare la sfiducia, ma con un voto ai due terzi. Sarà praticamente impossibile”. Si passa dalla Costituzione del 2014, frutto della democrazia, strano ibrido (ingovernabile) di un sistema parlamentare all’italiana con un presidente eletto, a uno presidenziale che va molto oltre il modello francese, verso un presidente senza contropoteri. O una dittatura? “La Tunisia non diventerà mai come la Cina e neanche come l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, perché non ha un esercito come il suo - continua Redissi. Ma può evolvere verso un autoritarismo competitivo, come la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin. La nuova Costituzione offre questa possibilità: tutti i poteri andranno al presidente e si lasceranno marginali spazi di libertà, come in una pentola a pressione, rendendo difficile la vita agli oppositori”. Altro elemento di discussione al bar della Marsa (e non solo): l’incursione dell’Islam nella Costituzione. Saied, malgrado il nugolo dei giovani suoi fan, che ha pompato il fenomeno del proprio guru sui social fin dagli inizi, e nonostante si sia affermato in contrapposizione al partito Ennahda, gli islamisti che hanno governato quasi ininterrottamente la Tunisia democratica fino al suo avvento, resta un conservatore musulmano. Redissi ricorda che “all’articolo 5 della nuova Costituzione si indica che la Tunisia fa parte dell’Umma (la comunità islamica) e che il governo deve realizzarne le finalità. È una nozione pericolosa, che può aprire la strada verso soluzioni radicali”. E per di più, in un Paese dalla tradizione laica e modernista. I tunisini cosa ne pensano di tutto questo? Nel centro della capitale, l’avenue Bourghiba è l’ombelico di un Paese. In un caldo terribile, i gazebo sotto gli alberi dei militanti del presidente sono vuoti. “La popolazione non capisce tutti i dettagli di questa riforma - sottolinea Slaheddine Jourchi, politologo conosciuto. E i partiti dell’opposizione e tante Ong hanno lanciato un appello al boicottaggio. Il referendum passerà, perché chi andrà a votare lo farà per dire di sì. Ma sta diventando un test della popolarità di Saied. Bisognerà vedere in quanti si presenteranno alle urne”. “L’appoggio al presidente resta alto - continua - ma cala, perché la situazione economica si degrada, anche a causa della guerra in Ucraina”. Il Paese è da sempre il principale fornitore di grano tenero. Che significa il pane dei tunisini. In quest’estate rovente, tutti fuggono dal centro verso la periferia, che si allunga sul mare. Bairam Hamouda è un ufficiale della Marina mercantile in pensione. Osserva la spiaggia di Khereddine, il suo quartiere, di un ceto medio sempre più in difficoltà. Bairam dirige il Club nautico della spiaggia, che riceve questa mattina un gruppo di ragazzi delle famiglie più modeste della medina, nel centro. Fanno sport sulla sabbia. Qualcuno prepara i catamarani per uscire a largo: “La vela è uno strumento educativo formidabile - dice Bairam. T’insegna a rispettare le regole”. Lui nel 2011 ci ha creduto alla rivoluzione. “Ma in dieci anni cosa ci ha portato la democrazia? Tutta la sporcizia che vedi in giro. I tunisini l’hanno interpretata come fosse anarchia. La democrazia è tutta la plastica lasciata per strada”. Lui vede i limiti di Saied, ma “i tunisini non hanno il livello culturale per beneficiare della democrazia. Bisogna imporsi di nuovo”. Andrà a votare il 25 luglio al referendum: per il sì, ovviamente. E pure la moglie e i figli. La disoccupazione ormai è al 16%, l’inflazione corre oltre il 7,5%, almeno quattro dei dodici milioni di tunisini sono poveri e 1,9 del ceto medio lo stanno diventando. E gli esperti dicono che Saied di economia non capisce niente. “Ma per attirare gli investimenti stranieri, prima ci vuole la stabilità politica”, aggiunge Bairam. Che guarda il mare, “la nostra unica ricchezza”. Una distesa d’acqua, immobile nella calura. Aspettando la prossima burrasca. Repressione, carcere e torture. La Tunisia non è un paese per gay di Chiara D’Ambros Il Domani, 18 luglio 2022 Ogni volta che Joudah torna a casa la sera, per sua madre è una sorta di miracolo. “Vivo con la paura che un giorno mi dicano che mio figlio è stato accoltellato o spinto sotto un treno o picchiato a sangue o arrestato dalla polizia perché è omosessuale”, racconta in lacrime. Il velo copre il capo di questa donna che non vuole rendere pubblico il suo nome. Siamo in Tunisia, nella periferia di Sousse, una città costiera a 150 chilometri dalla capitale Tunisi. Qualche raggio di sole filtra nel cortile interno tipico di queste case. Qui Joudah ha scoperto la sua identità di genere e ha deciso di portare questa consapevolezza oltre quelle mura. Ha scelto di lottare per i diritti della sua generazione nonostante i rischi, tanti, che comporta la manifestazione pubblica della propria omosessualità in Tunisia. “Per anni quando andavo a dormire pregavo di risvegliarmi donna - racconta - oggi ho deciso di non nascondermi più, perché il mio desiderio di esistere così come sono, è più forte della paura”. Nel Maghreb, nemmeno le primavere arabe, che nel 2011 hanno portato un forte vento di cambiamento in tutta l’area, sono riuscite a smantellare le leggi che risalgono al periodo coloniale e che criminalizzano l’omosessualità. Secondo Abdellah Taia queste leggi non sono una questione sociale. “È la politica che vuole continuare a mantenere in vigore leggi che prima dell’arrivo degli occidentali non esistevano. Non è una questione di tradizioni”. Taia è uno scrittore marocchino gay che ha subìto in prima persona la discriminazione e la violenza nel suo paese prima di emigrare in Francia. “Se non fossi diventato uno scrittore non avrei mai avuto il coraggio di dire che sono omosessuale”, racconta. Oggi Taia è uno dei più importanti esponenti della comunità Lgbtq+ nel mondo arabo e combatte ogni giorno perché tutti possano vivere la propria sessualità liberamente. Sul terreno però c’è ancora tanto da fare. In Tunisia gli attivisti della causa Lgbtq+ temono una nuova deriva autoritaria. Le posizioni del Presidente Kais Saied rispetto all’omosessualità sono chiare: “Chi è che accetta che qualcuno chieda la mano di suo figlio maschio? - ha dichiarato un anno fa - Arriveremo a questo punto in Tunisia? Questo caso riguarda i valori dentro la società, loro sono liberi in altre società, però la cultura e la dimensione universale dei diritti dell’uomo deve prendere in considerazione i valori della società”. Proprio in questi giorni Saied ha presentato il testo di una nuova Costituzione che andrebbe a sostituire quella del 2014 e verrà votata attraverso un referendum il prossimo 25 luglio, ad un anno esatto da quando ha chiuso il parlamento e iniziato il processo di accentramento del potere, che trova coronamento in questa nuova carta costituzionale che di fatto gli assegna pieni poteri. La domanda che oggi tutti si pongono è: prevarrà la sua spinta conservatrice? Già oggi, nonostante sia considerato il paese maghrebino più moderato, anche la Tunisia, come tutti gli altri paesi di quest’aerea, vieta per legge l’omosessualità. Secondo l’articolo 230 del codice penale sono previsti tre anni di reclusione per chi viene identificato come persona Lgbtq+ e viene punito qualsiasi atto che viene percepito come contrario alla moralità e alla decenza. La polizia ti può fermare per strada e arrestare per come cammini o come ti vesti, se sei un uomo e sei truccato o hai un orecchino. Un giudice ti può condannare. Come racconta Fatma un’intervistata dell’associazione Damj, una delle principali associazioni che si battono per i diritti civili in Tunisia, nel 2021 a seguito di alcune manifestazioni di piazza contro l’accentramento di potere dell’attuale presidente Kais Saied, in cui qualcuno ha osato portare una bandiera arcobaleno, i sindacati della polizia hanno lanciato un hashtag: “Tu che porti gli orecchini sei un bastardo, ti stiamo osservando”. Secondo l’associazione Damj, dal 2011 al 2020 sono state 2.699 le incarcerazioni riconducibili all’articolo 230 del codice penale. La condizione nelle carceri tunisine è drammatica per chiunque. Per le persone omosessuali in particolare, può essere atroce. Nel carcere di “Mornaghia”, a Tunisi, c’è una camera per le persone Lgbtq+, la chiamano “camera dei leoni”. Racconta Saif, un altro membro dell’associazione Damj, che le autorità sostengono sia una stanza dedicata, per la loro protezione, invece è un luogo dell’orrore. Bastonate, calci, violenze di ogni tipo anche per mano dei medici del carcere. “Ci hanno arrestati e portati dal medico - racconta Nikita, una trans intervistata a Tunisi - ha messo i guanti e ci ha chiesto di piegarci come se stessimo pregando. Poi ci fa fatto l’ispezione anale mentre i poliziotti guardavano”. L’ispezione anale è un esame privo di fondamento scientifico, che nel 2014 è stata dichiarata “pratica di tortura” dalla commissione internazionale per i diritti dell’uomo. Poi c’è la rasatura dei capelli delle transessuali donne, che entrano in carcere con capelli lunghi fino alla schiena e ne escono rapati a zero. Non che fuori dal carcere le cose vadano meglio. Badr Baabou presidente di Damj, racconta di essere stato picchiato brutalmente da due poliziotti in uniforme in una sera di ottobre del 2021, in una strada non lontana dal corso principale di Tunisi. Gli attacchi alle persone Lgbtq+ possono venire da più fronti. Uno di questi è l’integralismo religioso come è successo a un giovane ragazzo gay che è stato accoltellato da un salafita e per paura che succeda di nuovo è scappato in Francia. In molti tentano di fuggire da questa condizione, in cui sei considerato un criminale semplicemente per come sei, perché esisti ma è difficile ottenere protezione all’estero. Chi non ci riesce a volte tenta la via clandestina del mare, altri si tolgono la vita. Non ci sono statistiche ufficiali dei suicidi dovuti a questo motivo ma alle associazioni arrivano ogni giorno centinaia di richieste di aiuto. “C’è molta resistenza rispetto alle rivendicazioni della comunità Lgbtq+, ovunque - prosegue Taia -. La questione Lgbtq+ non è mai una priorità. Lo diventa solo se la comunità si rende visibile e troppo spesso in questi casi viene attaccata, piuttosto che ascoltata. Succede nel Maghreb e succede ancora oggi, anche in occidente”. Sudan. 20 anni, condannata alla lapidazione per adulterio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 luglio 2022 Maryam Alsyed Tiyrab, 20 anni, è stata condannata a morte mediante lapidazione da un tribunale dello stato sudanese del Nilo bianco. Il reato? Adulterio. È la prima sentenza nota di questo tipo da oltre un decennio, come in passato, si spera che venga annullata in secondo grado. A preoccupare, tuttavia, è il rischio che i piccoli passi avanti nel campo dei diritti umani fatti sotto il governo di transizione che fu istituito dopo la rivoluzione che nel 2019 depose il dittatore Omar al-Bashir, vengano annullati ora che i militari controllano di nuovo il potere in Sudan. Del resto, la Dichiarazione costituzionale del 2019 non ha abolito la pena di morte, come invece richiesto dai gruppi sudanesi per i diritti umani. Secondo la legge islamica, tuttora vigente nel paese, i reati “hudud”, i più gravi perché ritenuti compiuto contro Allah (adulterio, apostasia, furto, rapina a mano armata, diffamazione e consumo di bevande alcooliche, brigantaggio) possono essere puniti con l’amputazione delle mani e dei piedi, con le frustate e, per l’appunto, con la lapidazione. Il Centro africano di studi sulla pace e sulla giustizia ha denunciato l’irregolarità del processo subito da Tiyrab: ad esempio, non è informata che dichiarazioni rese sotto interrogatorio sarebbero state usate contro di lei durante il processo e soprattutto non è stata assistita da un legale.