La toga si è ristretta di Simone Alliva L’Espresso, 17 luglio 2022 Pensionamenti, stop ai concorsi, improcedibilità. Mancano 1.442 magistrati. Tre anni per i nuovi assunti. “Così il penale va al macero”. L’allarme lanciato dal Consiglio superiore della magistratura si dipana sotto silenzio, in tono minore. Scivola nella categoria “notizie smarrite”, quelle che circolano per un momento e poi si estinguono senza che nessuno le raccolga, sopraffatte dall’ondata delle altre. In tutta Italia mancano 1.442 magistrati rispetto quelli previsti in organico. Il tasso di scopertura a livello nazionale si avvicina ormai al 15 per cento. Il dato è rintracciabile dai primi di luglio nel periodico diario sull’attività del Csm pubblicato sul sito del gruppo di Area e fa riferimento in particolare alle corti d’Appello. Per i consiglieri di Area la questione della copertura degli uffici “sta diventando molto delicata, tenuto conto che, se tutto va bene, i prossimi magistrati in tirocinio prenderanno le funzioni solo a partire dalla seconda metà del 2024”. È una storia politica scappata di mano, e bisogna avere la pazienza e l’attenzione di decifrarla. Quando qualcosa accade è perché è già successo. “Da Castelli a Renzi arrivando a Cartabia, non c’è mai un approccio razionale alla giustizia. Ai tempi di Castelli bisognava chiudere i rubinetti della giustizia, non mandare risorse o personale, come se ci fosse un disegno per cui la giustizia non dovesse funzionare. Poi è arrivato il giovanilismo renziano del “mandiamo tutti a casa”. Politiche dissennate sugli organici e sull’età pensionabile. Dalla mattina alla sera è stata svuotata la Corte di Cassazione. Se uno pensa al pensionamento come slogan senza rendersi conto dell’effetto che fa sulla macchina giudiziaria si fanno questi disastri. E infine il tema dell’improcedibilità: il frutto dell’incapacità di questo governo di trovare un punto di equilibrio tra chi non voleva, almeno nominalmente, che si toccasse la prescrizione, cioè i Cinquestelle, e chi voleva intervenire in modo significativo: la Lega è un disastro”, spiega a L’Espresso Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma e Segretario di Area democratica per la giustizia. Una storia vecchia venti anni, dunque. Inizia con il blocco del periodo 2001-2006 dell’era Castelli, in attesa dell’entrata in vigore della “riforma epocale” che non ha bandito í concorsi. Da una situazione di copertura quasi totale dei posti previsti nell’organico della magistratura si è passati alla fine di quella legislatura a una notevole scopertura, difficile da superare data la complessità delle procedure concorsuali. E non sembra essere bastato il tentativo del ministro della Giustizia Andrea Orlando nella XVII legislatura di organizzare il bando di due concorsi all’anno per il reclutamento di nuovi magistrati. La pandemia è entrata in scena e ha messo in fermo il tutto. “La prima cosa da fare è coprire le piante organiche. La situazione è questa: qualche anno fa il ministro Bonafede ha fatto un significativo ampliamento della pianta organica. Un fatto indubbiamente positivo, anche se alcuni uffici sono stati dimezzati e altri no, eppure dal punto di vista astratto il numero dei giudici previsto è senza dubbio aumentato. A questo però non ha fatto seguito l’assunzione di giovani colleghi. I fattori sono vari, pensiamo al fallimento dell’ultimo concorso per i 310 posti di magistrato ordinario, bandito nel 2019 e slittato per due anni a causa del Covid-19: non sono stati coperti tutti. Ora c’è un nuovo concorso a 500 posti, i candidati sono 6524 e a loro è arrivato l’augurio della ministra Cartabia. Ma i tempi per far entrare in servizio i nuovi colleghi sono lunghi, ci vogliono due anni. Non è problema di facile soluzione ma certamente le procedure vanno accelerate perché senza í magistrati presenti i processi non si fanno, a prescindere dalle regole”, riflette Maurizio De Lucia, Procuratore della Repubblica di Messina. Il surreale cortocircuito di questo sistema giudiziario sguarnito dagli addetti ai lavori va a ricercarsi, come spesso accade, in una mancata visione politica a lungo termine, ricorda De Lucia: “Tutto viene sempre fatto senza una programmazione completa. Trovo sia giusto mandare in pensione i settantenni, come ha fatto il governo Renzi. Però questo va fatto tenendo conto delle conseguenze. Aver mandato in pensione in una sola volta molti magistrali ha creato diversi effetti. Uno di questi, ad esempio, è che in realtà molti magistrati non vanno più in pensione a 70 anni ma a 66. Un tempo si entrava in magistratura relativamente giovani e va detto, oggi quelli che si rendono conto di non poter aspirare a incarichi direttivi, rinunciano agli ultimi quattro anni di carriera e se ne vanno in pensione. La scopertura viene quindi anticipata rispetto ai tempi previsti. Molti escono e pochi entrano per riempire il vuoto. Non c’è programmazione. Non siamo in grado di sapere né quanti colleghi se ne vanno e neanche quando verranno sostituiti dai nuovi. Si parla tanto di aziendalismo ma la prima cosa è saper gestire le piante organiche e integrarle. I tempi dei nostri concorsi non sono compatibili con le esigenze che sono quelle di avere presto un giudice in servizio”. Eppure qualcosa si muove, la riforma Cartabia ha ripristinato il concorso di primo grado che concede l’accesso libero a tutti i neolaureati in Giurisprudenza che possono tentare subito l’ingresso in magistratura. Un modo per accorciare tempi biblici che prevedevano, dopo la laurea quinquennale, dei corsi che duravano altri due anni, più i tempi della selezione. Ma, specifica De Lucia: “L’intera carriera andrebbe pensata non in maniera estemporanea a seconda degli umori del governo”. Anche Raffaele Cantone, oggi procuratore capo a Perugia, in passato alla guida dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione vede con favore il ripristino del concorso di primo grado: “Non servono meccanismi di ingresso straordinario. La magistratura ha bisogno sicuramente che questi posti siano coperti ma con qualità. Interventi straordinari rischiano di abbassare il livello qualitativo che è l’ultima cosa che ci possiamo permettere. Sono tanti i giovani che aspirano a fare i magistrati: si possono aumentare i numeri dei posti messi a concorso e credo sia proprio questa la soluzione, sperando che nel giro di due o tre sessioni la situazione migliori”. Sui vuoti delle corti d’Appello pesa l’appetibilità degli incarichi. “Soprattutto nel penale, c’è una parte tutta cartolare, poco attraente dal punto di vista processuale. Bisognerebbe creare meccanismi di incentivazione affinché i magistrati ci vadano”, aggiunge Cantone. Intanto, nei giorni scorsi, è partita la complessa macchina organizzativa che deve portare nuova linfa nelle fila della magistratura italiana, grazie al concorso per 500 nuove assunzioni. Un appuntamento delicato, al quale il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia guarda con speranza per risolvere la questione dei posti vacanti in magistratura: “Abbiamo fatto pressing sulla ministra perché indicesse questi concorsi. Nonostante questi dati siano davvero preoccupanti, aggravati anche dalla questione Covid-19, possiamo essere speranzosi. Certo, i concorsi non hanno tempi rapidissimi”. Non celeri, in effetti. Le prove di concorso che cominceranno questo mese si trascineranno per un anno e mezzo. Un altro anno e mezzo passerà per via del tirocinio. I 500 magistrati, dunque, entreranno in servizio soltanto fra tre anni e sei mesi. Dentro questo tempo un continuum di pensionamenti e posti che si svuotano. “Il combinato disposto degli spaventosi vuoti di organico in magistratura e della disciplina di improcedibilità porterà al macero il settore penale”, è la fosca previsione di Giovanni Zaccaro, presidente della terza commissione del Csm che si occupa dell’accesso in magistratura e anche dei concorsi delle nuove toghe. Zaccaro è stato giudice a Bari, fa parte di Area: “In questo momento a Bologna mancano 13 sostituti ma a Modena ne mancano sette e a Parma 14. I vuoti non li copriremmo automaticamente tutti se adesso facessimo il concorso. Perché accade anche che la gran parte dei magistrati opti per le sedi considerate più appetibili come Roma, Milano, Napoli e Bologna. Per converso, rischierebbe di svuotarsi la Calabria, dove si va solo come prima nomina, al pari di Sardegna, Friuli, Piemonte settentrionale e da dove si va via alla prima opportunità. Bisogna stare attenti quando si fanno queste riforme che sembrano a costo zero. Tutti gli uffici giudiziari sono scoperti, non solo quelli delle capitali: Crotone, Locri, Castrovillari, Enna, Caltanissetta”. Come in un gigantesco domino, ogni variazione delle tessere pregiudica le altre. E così al blocco dei concorsi, al prepensionamento, a due anni di fermo da pandemia, all’aumento delle piante organiche mai riempite, si aggiungono gli effetti dell’improcedibilità. E quello che Zaccaro chiama “combinato disposto”: “Segnaliamo da tempo la disaffezione per i posti di secondo grado, cioè le corti d’Appello. Non ci vuole andare nessuno e non da ora. Adesso saranno sempre più vacanti per colpa di questa nuova riforma che impone la cessazione dei procedimenti in due anni. I giudici sono disincentivati perché hanno questa tagliola che pende. Non è bello dire che un processo è improcedibile se non si riesce a fare in due anni”. La giustizia minorile non funziona: “Ragazzi trattati come fascicoli da sbrigare” di Francesca Sabella Il Riformista, 17 luglio 2022 Il caso di cronaca della ragazzina di dodici anni sfregiata dall’ex fidanzato di sedici ci restituisce una realtà amara, quella di una giustizia minorile che non funziona o che comunque non funziona come dovrebbe. Quando parliamo di un minore che entra in area penale bisogna armarsi di pinza e delicatezza, parliamo di un ragazzo non così grande da finire a Poggioreale “tra gli adulti” ma neanche così piccolo da non essere imputabile. Parliamo di storie che nascondono sempre, o quasi, vissuti difficilissimi, racconti dolorosi, contesti familiari criminogeni e privi di cultura. Quando ci si trova davanti a fatti di cronaca così efferati, una riflessione sulla giustizia minorile, sui percorsi alternativi al carcere ai quali questi ragazzini vengono assegnati, sulle modalità con le quali si compiono certe scelte, è doverosa. Michele (il sedicenne che ha sfregiato la sua ex) era stato già raggiunto da un perdono giudiziario e da un provvedimento di messa alla prova, scelte forse azzardate, sicuramente fallimentari. Oggi Michele è a Nisida accusato di un reato odiosissimo. “Ci sono dati inflessibili nel distretto giudiziario di Napoli. Dati raccolti dal professor Giacomo di Gennaro. Il 74% dei ragazzi raggiunti da messa alla prova reiterano il reato o comunque ricascano nelle maglie della giustizia - spiega Maria Luisa Iavarone, docente universitaria e mamma di Arturo, accoltellato a 17 anni in via Foria nel 2017 - A me piace l’idea di restituire molto presto alla comunità in maniera riparativa un minore che sbaglia, ma questi ragazzi vanno seguiti. Il problema è l’esecuzione del provvedimento di messa alla prova. Uno dei ragazzi che accoltellò mio figlio Arturo era in messa alla prova per una tentata rapina e aveva preso una condanna di tre anni e mezzo tutta da scontare tutta così. In cosa consisteva questa misura? Doveva mettere una firma su un foglio presso un’associazione una volta a settimana. Metteva una firma e finiva lì - sottolinea Iavarone. Così funziona la messa alla prova: il Tribunale destina questi ragazzi a delle “strutture” che non sono strutture dove loro sono tenuti a fare qualcosa ma devono essere semplicemente monitorati”. In poche parole, tutta l’attività deve essere documentata in termini di un paio d’ore alla settimana. Non solo, “il fascicolo viene derubricato dal magistrato che ha eseguito il procedimento alla messa alla prova e poi assegnato a un altro magistrato che acquisisce rispetto alla storia del ragazzo solo una piccola parte - spiega Iavarone. A quel punto diventa solo un procedimento che è puramente di adempimento. Si burocratizza il percorso riabilitativo, di fatto si svolge tutto su dei fogli di carta. Si trattano i ragazzi come fascicoli da sbrigare, perché bisogna alleggerire il carcere e perché seguirli è complicato e costoso. E ci ritroviamo così: con percorsi inesistenti e ragazzi che non riusciamo a recuperare. È come se questi ragazzi non dovessero costare”. E non sono pochi. I minori in area penale sono circa 20.000 in tutta Italia. A Napoli, ogni anno, entrano in area penale 2.000 ragazzi, nelle carceri minorili ce ne sono si e no cento, tutti gli altri dove stanno? Che fanno? Quale percorso rieducativo stanno svolgendo? Sono sparsi ovunque e sono soli. “Il sedicenne che ha sfregiato l’ex fidanzatina aveva già avuto un perdono giudiziale e poi una messa alla prova. Il terzo reato che fa è un danno permanente - afferma Iavarone. La messa alla prova dovrebbe compiersi all’interno di un dispositivo attentamente programmato, verificato e misurabile costantemente. I ragazzi dovrebbero essere costantemente seguiti dall’assistente sociale, dall’educatore, dal mediatore di area penale. Mancano queste figure che si occupano di chi non sta in carcere e non sta in comunità, ma che appunto esegue una messa alla prova”. E ancora: “Sfruttiamole queste grandi tecnologie: così come sui maggiori social network se si scrive un commento con contenuti minatori o offensivi il server provvede a rimuoverlo, facciamo lo stesso per le chat che si scambiano i minorenni attraverso Sim intestate ai genitori - conclude Iavarone. Dobbiamo parlare seriamente di devianza e di digitale. Quando si tratta di reati finanziari e truffe c’è tutta la tecnologia possibile, se si parla di sicurezza sociale e minori c’è il nulla”. L’educazione alla legalità nelle scuole a trent’anni dalle stragi di mafia di Youssef Hassan Holgado e Vanessa Ricciardi Il Domani, 17 luglio 2022 Paolo Borsellino è stato ucciso il 19 luglio di trent’anni fa in via d’Amelio a Palermo. Sua figlia, Fiammetta, ha detto, ormai quasi un mese fa in un’intervista all’Espresso, che non parteciperà ad alcuna cerimonia dello stato: “Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere”. Eppure non smette di andare nelle scuole. “È l’unico posto dove mi trovo a mio agio a raccontare di papà. Solo il contatto con menti pure, disinteressate, senza secondi fini, mi dà serenità”. A trent’anni dal 23 maggio 1992, il giorno in cui il giudice Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia, Palermo si è riempita di lenzuola illustrate, ben 1.400 drappi preparati da 1.070 istituti scolastici, come proposto dal bando della Fondazione Falcone e dal ministero dell’Istruzione. Al progetto, introdotto dall’hashtag #LaMemoriaDiTutti, è seguito l’annuncio dello scorso 22 maggio riguardo lo stanziamento di un milione di euro per progetti sulla legalità. La scuola, dice il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi a Domani, “è per sua natura il luogo della legalità, perché attraverso la conoscenza e la vita di relazione punta a formare cittadini, responsabili e partecipi”. I progetti “legalità” fino ad oggi non sono mancati ma adesso serve l’intenzione “di collegare le discipline alla realtà del proprio territorio”, spiega Luca Redolfi, dell’Unione degli studenti. Quella finora, racconta, non si è mai manifestata. La memoria - L’interesse c’è. Piero Grasso, ex magistrato, giudice a latere del Maxiprocesso contro la mafia, quest’anno ha pubblicato un libro per ragazzi scritto con Alessio Pasquini: Il mio amico Giovanni. Non è la sua prima opera e si accompagna a un lavoro che porta avanti da decenni: “Quello di raccontare e tenere viva la memoria è un impegno che ho preso davanti alle bare dei miei amici e colleghi. Le loro parole sono veramente attuali e capaci di formare una nuova classe dirigente e rivolta allo sviluppo del paese”, dice mentre sta uscendo da un istituto di Taormina. Negli anni ha avuto centinaia di appuntamenti. Anche Borsellino racconta di essere arrivata a tenere tre incontri a settimana. Ma chi ha visto in tv le immagini delle stragi di mafia e ha conosciuto in diretta la notizia ha una percezione diversa rispetto alle nuove generazioni: gli adulti di oggi si ricordano anche cosa facevano quando sono accadute, i ragazzi i video dei telegiornali. Ma dopo tre decenni la storia è diventata un racconto, e le informazioni sui quei fatti arrivano “soprattutto per l’iniziativa dei docenti, spesso di italiano o di storia”, racconta Grasso. Nord e sud - La formazione sulla mafia risulta, nonostante la buona volontà di parte degli insegnanti, a macchia di leopardo. Oggi “ci sono posti dove il nome di Falcone dice poco, sanno che è un eroe: sbagliando. Io cerco di far capire che non era un eroe dei videogame, era una persona eccezionale, ma che si può e si deve imitare”, dice Grasso. Alcuni eventi ormai fanno parte della consapevolezza comune, ma il quadro della formazione sulle mafie risulta più legato alla storia che all’attualità. Un conto è sapere che esistono cosa nostra, la camorra, la ‘ndrangheta. Un’altra è avvertirne il pericolo. Un discorso che vale in modo diverso sia nel caso dello studente del liceo Parini di Milano sia di quello della Napoli della Paranza dei bambini. Nella maggior parte dei casi la criminalità organizzata viene ritenuta un corpo estraneo, soprattutto nelle aree del nord-est come emerge dai risultati dei sondaggi che Libera, l’associazione contro le mafie nata nel 1995, ha sottoposto agli studenti negli ultimi anni. Per come è costruita, spiegano gli studenti, non c’è una narrazione che porta all’interesse sociale: “Della cosiddetta mafia del nord ad esempio si parla molto poco. Tra nord e sud, tra centro e periferia c’è molta differenza su come viene vissuta la criminalità”, dice Redolfi. L’Uds è fiera di aver accolto nel 1994, anno della sua nascita, i gruppi studenteschi contro la mafia e la camorra. Oggi hanno un responsabile legalità e lavorano insieme a Libera: “Con i nostri progetti cerchiamo di eradicare questa dinamica di chi vede ancora solo la mafia con la lupara e invece esiste una mafia differente che gira nel mondo economia e moltissimo al nord”. Il problema “è che molto spesso di queste cose parlano solo le organizzazioni esterne e non la scuola al suo interno”. Colmare le lacune - Libera porta avanti da 14 anni un percorso nazionale chiamato “Abitare i margini” che è diretto a docenti di ogni ordine e grado e che punta a coinvolgerli in prima persona: “Li formiamo su determinate tematiche che vanno oltre alla memoria che rischia di diventare retorica” dice Giuseppe Parente, dello staff nazionale di Libera formazione. Parlano con docenti e studenti delle storie delle vittime di mafia, ma anche dei beni confiscati e delle ecomafie. Occuparsi di mafia per l’associazione non significa solo parlare di criminalità organizzata: “Facciamo lavorare i docenti sul confronto, sulla non violenza e sulla mediazione pacifica dei conflitti. Sono l’impalcatura per avere una cittadinanza attiva antimafiosa”. Un tema su cui torna anche Grasso che spiega cosa intende per “nuova cultura della legalità”: “Non è solo rispetto della legalità in sé, ma dei princìpi di uguaglianza, di libertà, dell’ambiente. Rispetto di chi ha la pelle di un colore diverso. Non è possibile fare breccia in tutti, ma ho riscontri che mi dimostrano che funziona quando incontro i ragazzi ad anni di distanza”. L’educazione civica - È tutto nelle mani dell’iniziativa personale dei docenti e degli istituti, a volte direttamente dei ragazzi. Grasso racconta che lo scorso 30 maggio è stato presente a un evento a Siracusa. Una studentessa aveva deciso di invitarlo per la sua classe. Poi si è fatto avanti tutto l’istituto, e alla fine pure altre scuole ed è stato necessario il teatro greco per contenerli tutti. L’interesse è ancora diffuso e forte, da nord a sud. “Vedo che i ragazzi vogliono conoscere la persona, approfondire la sua umanità. Mi chiedono l’aneddoto con Falcone, l’aneddoto con Borsellino, lo vogliono sentire dalla mia viva voce”, dice il senatore. Per il responsabile di Libera “purtroppo ci sono dei gap pedagogici dovuti probabilmente al fatto che in Italia il processo di reclutamento dei docenti non cura quella componente lì”. E allora che succede? “Che c’è l’insegnante che fa il suo lavoro sulla sua disciplina” e poi ci sono “molti insegnanti che sulla base della loro spinta hanno una maggiore sensibilità e fanno in modo di arricchire la formazione dei ragazzi con i saperi di cittadinanza”. Sono loro i primi a chiedere una preparazione adeguata: “E noi li accompagniamo, anche se non sempre le scuole hanno le risorse per farlo”. La speranza conclude Libera, “è una cura maggiore alla formazione, sperando che non sia sempre e necessariamente delegata all’esterno e al terzo settore che deve supplire alle carenze”. Dal 2019 è stato istituito come insegnamento obbligatorio l’educazione civica, ma il rischio è che diventino 33 ore aggiuntive di teoria. Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale prèsidi conferma che l’iniziativa “è rimessa all’autonomia della scuola, inclusa l’individuazione delle modalità con cui trattare argomenti così importanti per la recente storia italiana”. Poiché tale periodo del nostro recente passato difficilmente viene affrontato come parte del programma di storia, dove non è esplicitamente previsto, le scuole hanno la possibilità di inserire questi argomenti sia nell’ambito delle lezioni di educazione civiche, sia in quelle delle attività extra curricolari connesse alla educazione alla legalità. Ma non sempre accade. Le scuole aperte - Per rendere la scuola realmente trasformativa servono le risorse economiche ma non solo: “Ci deve essere una volontà politica” dicono gli studenti. Questo significa che la scuola deve provare a cambiare il suo ruolo, anche restando fisicamente più aperta per creare una comunità a livello locale dove poter trasmettere non solo nozioni, ma anche cultura e saperi. Gli studenti hanno formulato diverse proposte: “Il miglior modo per combattere le mafie non è raccontare quanto sono cattive, ma riuscire a costruire un’idea di società differente mettendo al centro l’istituzione scolastica”, conclude Redolfi. E lì si innesta una preoccupazione che sembra inquietare solo i più giovani: “Gli studenti non solo non si sentono coinvolti, ma non sono coinvolti nell’attualità. Sono loro che non voglio partecipare o qualcuno non vuole che lo facciano?”. Una domanda a cui si aggiunge la considerazione di Fiammetta Borsellino: “Fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole”. Paolo Borsellino, ucciso 30 anni fa per l’infinito coraggio di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2022 Nel 30° anniversario di via d’Amelio - dove morirono Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi - del grande magistrato si ricorderanno soprattutto l’eccellenza professionale e lo straordinario coraggio. Coraggio dimostrato anche dicendo sempre pane al pane tutte le volte che c’era una verità da difendere. Anche contro corrente. Grande coraggio Borsellino aveva dimostrato dopo la sconcertante decisione del Csm (11.1.88) di nominare a capo dell’ufficio che aveva realizzato il capolavoro del maxi processo non Il campione dell’antimafia, Falcone, ma un magistrato che di mafia sapeva poco o nulla, ma aveva il vantaggio di esser molto più anziano; e tutti sanno che la mafia teme la gerontocrazia più di ogni cosa…. Con due interviste (Repubblica e Unità del 20.7.88) Borsellino lanciò un j’accuse molto pesante: “Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa Nostra passava sulla scrivania (di Falcone) e su quella di altri tre o quattro giudici istruttori (…). Solo così si è potuto creare il maxi-processo, solo così si è potuto capire Cosa Nostra ed entrare nei suoi misteri. Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa (…). Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima (…). Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro”. Accuse così non possono non produrre reazioni. Ma a farne le spese questa volta non sono i responsabili delle storture denunziate da Borsellino. Nel mirino finisce… Borsellino. Contro di lui il Csm apre un impraticabile procedimento para-disciplinare col pretesto che le sue denunzie non hanno seguito le vie istituzionali. Dopo la morte di Falcone, Borsellino sentì il dovere di essere ancora più duro. Commemorando alla Biblioteca comunale di Palermo (25.6.92) l’amico ucciso, disse che Falcone, preso in giro da “qualche Giuda”, aveva “cominciato a morire” proprio nel gennaio 1988 con l’umiliazione inflittagli dal Csm “con motivazioni risibili”; “se non forse l’anno prima, con quell’articolo di Leonardo Sciascia”. Vale a dire l’articolo che attaccava Borsellino per la nomina a procuratore di Marsala e che fu poi strumentalizzato per “affondare” Falcone. È noto poi che dopo la morte di Falcone il governo varò un decreto-legge che introduceva efficacissime norme antimafia (il c.d. “doppio binario”). Contro il decreto si sollevò un’ondata di ostilità (carceri in rivolta e penalisti in agitazione) e il decreto sembrava condannato a non essere convertito in legge. Borsellino reagì (Corriere della Sera 23.6.92) sostenendo che il decreto-legge andava nella direzione giusta: “Il nuovo codice (varato nel 1989, ndr), apprezzabile nelle aule universitarie, non consente di processare i mafiosi. Chiediamo abbondantissimi sconti di pena come riconoscimento della utilità della collaborazione (…). Noi diciamo che la redenzione di un mafioso va dimostrata in un solo modo: collaborando”. Borsellino non sapeva che soltanto dopo la sua morte il decreto sarebbe stato convertito in legge in fretta e furia, invece di essere abbandonato. Come non poteva sapere che trent’anni dopo la stessa ondata di ostilità si sarebbe riprodotta, questa volta con l’innesco nientemeno che della Consulta, sull’ergastolo ostativo. Tornando all’articolo di Sciascia sulla nomina di Borsellino a Marsala, in sostanza lo si accusava di essere un carrierista che usava l’antimafia per sgomitare scavalcando colleghi che non avevano avuto la “fortuna” di occuparsi di mafia. Una “fortuna” che a Marsala significava avere a che fare con un “santuario” delle cosche mafiose, con la presenza inquietante di banche e istituti finanziari più numerosi che ovunque altrove: una situazione che poteva affrontare non il primo venuto, ma solo un esperto disposto ad impegnarsi allo spasimo. Com’era Borsellino, che ironizzando diceva: “Pregherò - sono cattolico - perché la giornata abbia un orario molto più prolungato delle povere ventiquattro ore che siamo abituati ad osservare” (Com. parl. antimafia 11.12.1986 - citato da G. Bianconi nel libro “Un pessimo affare”). Sciascia su Borsellino aveva commesso un marchiano errore, ma paradossalmente - senza saperlo né volerlo - aveva visto giusto. Nel senso che Borsellino è stato capace di restare fino all’ultimo fedele ai suoi doveri e di garantire fino al sacrificio della propria vita il diritto di tutti di vivere in una comunità senza mafia. Mai arretrando, neppure di fronte alla certezza che dopo Falcone identica sorte poteva toccare a lui. Proprio un autentico, nobilissimo “professionista dell’antimafia”! Giustizia per Regeni, pressing su Cartabia: “Si cambi la legge sulle notifiche alla difesa” di Giuliano Foschini La Repubblica, 17 luglio 2022 La norma per salvare il processo potrebbe entrare nei decreti attuativi della riforma. “Quindi?”. Come in ogni nodo cruciale di questi sei anni e mezzo di storia, e questo forse è tra i momenti più delicati di sempre, quello in cui il burrone dell’oblio è lì a un passo, davanti al nostro Paese - governo, magistratura, opinione pubblica - si presenta la faccia corrucciata di Giulio Regeni, disegnata da Mauro Biani, un maglione verde e una camicia rossa, le braccia incrociate: “Quindi?” chiede Giulio. Ecco, che succede ora? Venerdì sera la Cassazione ha di fatto chiuso, prima ancora che cominciasse, il processo che avrebbe dovuto accertare la verità. Ha stabilito che, date queste regole del gioco, non è possibile giudicare i quattro agenti della National Security, il servizio segreto civile egiziano, che secondo la Procura di Roma sono stati i sequestratori e gli assassini di Giulio. Non è possibile perché una norma pensata giustamente per la tutela degli imputati - essere a conoscenza delle accuse per potersi difendere nel processo - è stata utilizzata per difendersi dal processo: gli egiziani non hanno mai comunicato gli indirizzi degli accusati, gli atti non sono stati mai notificati, dunque il processo non si può aprire. Le quattro vie dell’Italia - Ora l’Italia ha davanti a sé quattro strade. La prima è rinunciare e lasciare appunto la storia nei binari dell’oblio: ogni sei mesi il tribunale di Roma chiederà ai carabinieri se sono riusciti a notificare gli atti, riceverà risposta negativa e aggiornerà l’udienza. La seconda è insistere sulla via diplomatica-politica, fin qui fallimentare: l’Italia potrebbe insistere nel chiedere gli indirizzi all’Egitto ma il Cairo ha già detto quello che doveva dire. Il procedimento nei confronti dei quattro agenti è stato aperto, quando sono arrivati gli atti da Roma, ma i magistrati di Al Sisi hanno bollato tutto come spazzatura. Archiviando, immediatamente, il tutto. “Consentire il processo in Italia significherebbe violare il principio del ne bis in idem”, non ci possono essere cioè due processi per uno stesso procedimento. Le notifiche alle ambasciate - La terza strada è, al momento, quella più percorribile. E mette il Governo italiano davanti a una scelta: in questi anni la politica ha sempre delegato le responsabilità alla magistratura. Ora che il binario giudiziario è chiuso, tocca al Parlamento. L’ipotesi è quella di un intervento legislativo. La necessità cioè di normare una situazione - quella appunto di imputati stranieri che scappano dalle notifiche per scappare dal processo - che si ripropone sempre più spesso. L’operazione non è semplicissima, ma percorribile. Ed è da tempo all’attenzione dei tecnici del ministero della Giustizia. L’idea è quella di inserire, per esempio nei decreti attuativi della riforma Cartabia, una norma che disciplini casi come questi, dando per effettuata la notifica, per esempio, agli organi diplomatici. Nella vicenda Regeni potrebbe bastare la notifica all’ambasciata. Ancor più quando, come in questa situazione, gli imputati sono dipendenti dello Stato, essendo poliziotti. Proprio la Cassazione, che a settembre depositerà le motivazioni della decisione che è stata molto sofferta, potrebbe indicare la richiesta di un intervento legislativo. Le proposte dei parlamentari Pd - Il punto è l’interlocutore: la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha seguito personalmente il dossier, cercando un punto di incontro con l’Egitto. Molti parlamentari del Partito democratico, a partire dalla responsabile Esteri, Lia Quartapelle, hanno da tempo avviato un discorso in questo senso. Una sollecitazione al Parlamento è arrivata anche dalla commissione di inchiesta, nella relazione al Parlamento, con il presidente, Erasmo Palazzotto, che ieri ha parlato di una “umiliazione per l’Italia di un regime che si prende gioco di noi utilizzando il nostro Stato di diritto. Per questo serve la politica”. Ma la crisi di governo rende tutto, se mai fosse possibile, ancora più complicato. Se la politica per l’ennesima volta scegliesse di non decidere, un’ulteriore strada potrebbe essere il ricorso alla Cedu, chiedendo alla Corte per i diritti dell’uomo di fare quello che, fino a questo momento, il nostro Paese non è stato in grado: ottenere verità e giustizia per la morte di un suo cittadino. Caso Regeni. Il cinismo egiziano si sovrappone al cinismo italiano di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 17 luglio 2022 Quanto accaduto finora, nonché la decisione della Corte di Cassazione, dovrebbe interrogarci sul fallimento colpevole di una politica italiana che è stata del tutto incapace di costringere le autorità egiziane a fornire una seppur minima cooperazione giudiziaria. Ciò che distingue una democrazia compiuta da un regime totalitario è anche dato dal modello penale e processuale scelto. L’Egitto di Al Sisi, con il cinismo tipico di chi gestisce autoritariamente il potere, si è incuneato nel nostro sistema di garanzie così impedendo ai giudici italiani di procedere nei confronti dei presunti assassini di Giulio Regeni. La scelta dei nostri governi, che si sono succeduti dal 2016 a oggi, di tenere basso il livello della conflittualità con il governo egiziano e di tenere invece alto il livello degli affari economici e degli accordi militari, è stata fatta consapevolmente sacrificando ogni chance di giustizia e ricostruzione della verità. La giustizia, soprattutto quando passa dal rapporto tra Stati, si nutre di scelte politiche. Non è una questione meramente tecnica. La nostra è stata una politica che, a volte esplicitamente altre silenziosamente, ha ritenuto che realismo politico e diritti umani non potessero convergere. C’è una mappa interattiva sul sito dell’Unione Europea che elenca i Paesi sanzionati con misure economiche e finanziarie dalla Ue. Vi compaiono vari paesi africani ma non c’è traccia dell’Egitto. Quindi per i governi europei e per quello italiano l’Egitto non è un problema. Notizie di poco più di un anno fa parlavano di commesse di armi dall’Italia verso l’Egitto fino a quasi un miliardo di euro. Una cifra enorme. Un guadagno immorale altrettanto enorme. Nelle scorse settimane, dopo l’attacco russo all’Ucraina, in Parlamento è stato addirittura avviato il discorso di un aumento della produzione di armi rispetto al Pil, come se ci fosse un collegamento con la guerra in corso. Le armi, si sappia, una volta prodotte vengono vendute in giro per il mondo, anche a regimi, come quello di Al Sisi, che fanno carta straccia dei diritti umani. Dunque, il cinismo egiziano si sovrappone al cinismo italiano. La mancata giustizia per la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni trova una risposta in questo doppio cinismo. Negli anni più volte abbiamo sentito raccontare la solita litania, ossia che per ottenere cooperazione giudiziaria dall’Egitto bisognava esserne buoni amici. Non è stato così. Non ci hanno neanche aiutati a trovare l’indirizzo degli imputati accusati dai bravissimi pubblici ministeri romani, facendo così sberleffi dei nostri giudici e delle nostre garanzie. *Presidente Associazione Antigone Caso Regeni: sei anni di politica debole e pavida, adesso il governo deve intervenire di Riccardo Noury* La Stampa, 17 luglio 2022 La realpolitik nei confronti dell’Egitto ha preso il sopravvento sulle questioni dei diritti umani. E Il Cairo ha trovato nella procedura garantista italiana uno strumento per perpetrare l’impunità. Sei anni fa, quando tantissime persone con le bandiere e gli striscioni gialli scesero in piazza e iniziarono a scrivere sui social network, eravamo un gruppo convinto, con fiducia e con innocenza, che mai e poi mai lo Stato italiano avrebbe trascurato di pretendere dalle autorità egiziane la verità e la giustizia per Giulio Regeni. Ci sono stati una serie di risvegli in questi anni che ci hanno fatto perdere la fiducia e l’innocenza, risvegli che ci hanno fatto capire - e sarebbe stato forse meglio capirlo già nel passato - come la realpolitik, si chiami interesse economico, commerciale, militare o strategico, finisca per prendere il sopravvento sulle questioni dei diritti umani, anche quando queste questioni non sono lontanissime da noi ma ci riguardano in prima persona, riguardano la nostra storia e il nostro Paese. Ci troviamo oggi in questa situazione paradossale per cui, grazie al lavoro della Procura di Roma, alla tenacia dell’avvocata Ballerini, alla forza della famiglia di Giulio, alla pressione del popolo giallo e grazie anche al lavoro dei mezzi d’informazione conosciamo la verità: sappiamo chi ha ucciso Giulio ed è la verità storica che inchioda lo Stato egiziano alle sue responsabilità. Al tempo stesso però quella verità rischia di non avere una sua convalida in sede giudiziaria e il motivo è tragicamente semplice: un regime che mai ha voluto collaborare con le autorità italiane ha trovato infine nella procedura garantista dell’Italia uno strumento per tutelare e perpetrare l’impunità dei suoi funzionari. Ecco quel che dobbiamo leggere dalla decisione della Cassazione. Poi, certo, si può ben dire che la legge è modificabile e che c’è la possibilità di fare in modo che i cosiddetti “finti inconsapevoli” non la facciano franca. Si può dire e si può fare, ma resta il punto: sei anni di politica debole e pavida nei confronti dell’Egitto hanno prodotto il risultato che la legge italiana si è trovato di fronte: dei fintissimi inconsapevoli che erano e sono in realtà molto consapevoli di essere indagati e che però non andranno a processo. E allora forse più ancora che la legge bisogna chiamare in causa i diversi governi che hanno fatto perdere l’innocenza e la fiducia nella giustizia e che ora con i loro massimi rappresentati devono fare il possibile affinché almeno po’ di quella fiducia si recuperi, al netto dell’innocenza ormai perduta. I nostri rappresenti politici devono mettersi in testa che hanno il dovere di assicurare giustizia per Giulio, è l’imperativo morale di un compito che la politica italiana, indipendentemente dall’estate e dalla crisi della maggioranza, deve assumere subito, immediatamente. Comunque, anche se la ricerca della giustizia ha ricevuto un colpo duro e pesante, non è finita l’altra notte. Perché se un certo giorno, sapendo bene quali siano le responsabilità dell’Egitto, dovesse emergere che l’Italia, per mille ragioni, è indisponibile e che i suoi organi di giustizia non possono garantire giustizia, beh, allora ci sono percorsi internazionali da intraprendere, primo tra tutti quello della Corte europea dei diritti umani. Quindi bisogna ripartire con la pretesa che il governo agisca, ma sapendo anche che esistono vie alternative. Non finisce qui. *Portavoce di Amnesty International Italia Stalking per interposta persona. Le molestie all’amica della persona offesa integrano il reato di Dario Ferrara Italia Oggi, 17 luglio 2022 Il pressing crea comunque ansia alla vittima, dice una sentenza della Corte di cassazione. Sì allo stalking per interposta persona. Anche le molestie indirette fanno scattare il reato ex articolo 612 bis Cp: integra comunque il delitto di atti persecutori il pressing insostenibile che l’uomo esercita sulla migliore amica della ragazza che ha messo nel mirino. E ciò perché crea comunque uno stato di ansia o di paura quando la vittima ne viene informata per il rapporto di vicinanza che ha con la destinataria dei messaggi indesiderati. È quanto emerge dalla sentenza 26456/22, pubblicata dalla quinta sezione penale della Cassazione. Il ricorso proposto dalla vittima è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore: il giudizio prosegue in sede civile perché viene annullata l’assoluzione pronunciata sul punto dalla Corte d’appello. L’uomo, infatti, in secondo grado risulta condannato soltanto per gli asfissianti messaggini e vocali WhatsApp all’amica del cuore della parte civile e a un’altra ragazza. Si tratta, peraltro, di un recidivo: è stato già condannato a quattro anni di carcere perché oltre dieci anni orsono puntò la vittima, allora quindicenne la ragazza tentò perfino il suicidio per sottrarsi alle vessazioni. Scontata la pena, il persecutore si fa di nuovo vivo su Facebook: mette like a una foto per farle capire che è tornato e la tiene di nuovo sotto controllo. Ma per la Corte d’appello un episodio non basta a far scattare lo stalking, che è un reato necessariamente abituale e non si può configurare di fronte a un’unica condotta di molestie o di minaccia, per quanto grave. E dunque non basterebbe a integrare il delitto una condotta isolata, che pure sprofonda di nuovo la vittima nel terrore. Sbaglia tuttavia il giudice di secondo grado a ignorare le pressioni dello stalker sull’amica del cuore: su WhatsApp l’uomo fa un incessante riferimento all’oggetto del suo (patologico) desiderio, giurando e spergiurando di non essere lui la causa del tentato suicidio. Risultato: induce di nuovo nella persona offesa “un grave e perdurante stato di paura”, che è uno dei presupposti alternativi richiesti dalla norma incriminatrice per la configurabilità del reato accanto all’alterazione delle abitudini di vita della vittima. E per i quali possono avere rilievo anche comportamenti indirizzati soltanto in modo indiretto contro la persona offesa: il persecutore agisce nella ragionevole convinzione che la vittima ne sia poi informata l’evento perseguito dalla norma incriminatrice, d’altronde, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso. La parola passa al giudice civile competente per valore in grado d’appello. Emilia-Romagna. Carceri sovraffollate: distribuito ai detenuti libro sulle pene alternative di Enea Conti Corriere della Sera, 17 luglio 2022 Un vademecum per aiutare i detenuti nelle carceri da Piacenza a Rimini ad orientarsi nell’accesso alle misure alternative al carcere. A consegnarlo nelle loro mani sono stati consiglieri regionali, assessori, rappresentanti delle camere penali della Regione Emilia Romagna che si sono suddivisi i capoluoghi. A Bologna, ad esempio Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti promotore dell’iniziativa con Federico Alessandro Amico presente a Reggio Emilia, mentre a Rimini a visitare la casa circondariale è stata Emma Petitti, presidente dell’assemblea legislativa regionale che ha sostenuto il progetto. “Codice Ristretto (questo il titolo del vademecum) -spiega il garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale, Roberto Cavalieri- è una guida sui diritti, di facile lettura, per facilitare il detenuto nell’accesso alle cosiddette misure alternative al carcere. Con la distribuzione di questo opuscolo sui diritti, vogliamo tendere la mano ai tanti detenuti che non hanno gli strumenti e i mezzi per informarsi su quelle che sono le misure alternative al carcere, rinunciando conseguentemente a un diritto”. Nel volumetto è inserito un vero e proprio glossario che racchiude tutte le possibilità di cui un detenuto dispone rispetto al carcere: non solo misure alternative ma anche le differenti tipologie di permessi e lavoro esterno. Il progetto ha l’obiettivo di sensibilizzare non solo i detenuti ma anche l’opinione pubblica sul problema del sovraffollamento delle carceri. Sono presenti 3.315 detenuti (su una capienza regolamentare di 3.007 unità) nelle case circondariali da Piacenza a Rimini, tra questi si contano 1.584 stranieri (principalmente marocchini, 362, tunisini, 253, albanesi, 207, nigeriani, 155, e romeni, 118), 139 donne e 61 detenuti in semilibertà. Su 3.315 detenuti 405 sono in attesa di giudizio, 371 non hanno ancora avuto condanne definitive (182 appellanti, 142 ricorrenti e 47 con a carico più fatti); i condannati definitivi sono invece 2.484, mentre gli internati in case lavoro e colonie agricole arrivano a 55. Non risultano, invece, detenute madri con figli al seguito. Sul tema del sovraffollamento è intervenuta la presidente dell’assemblea legislativa Emma Petitti. “Vogliamo che la Regione Emilia-Romagna non sia un attore passivo, ma protagonista in questo processo che guarda alle tutele delle persone ristrette in carcere - ha sottolineato -. Il problema del sovraffollamento delle carceri purtroppo riguarda anche l’Emilia-Romagna. In regione sono presenti 3.315 detenuti su una capienza regolamentare di 3.007 unità. A Rimini, in particolare, sono oggi presenti 139 detenuti su una capienza di 123 unità. La situazione è dunque al momento sotto controllo. Sulla capienza emergono situazioni più complesse a Bologna, con 761 presenze rispetto alle 502 consentite, a Reggio Emilia, 344 su 293, a Ferrara, 337 su 244, a Modena, 400 su 369, a Parma, 690 su 655, a Rimini, 142 su 109, e a Ravenna, 78 su 55, capienza invece rispettata a Forlì, 141 su 146, Piacenza, 345 su 416, e nella casa lavoro di Castelfranco Emilia, nel modenese, 77 su 218. In regione, poi, la detenzione domiciliare riguarda 930 persone, tra cui 77 donne (di cui 30 straniere) e 471 stranieri. Sullo storico (il dato riguarda il totale delle carceri italiane) in trent’anni i detenuti sono passati da 44.424 a 54.841. Lombardia. Troppi suicidi nelle carceri. Forattini: “Servono Case di comunità e più personale” agi.it, 17 luglio 2022 “Il rischio di suicidi è ancora molto elevato nelle carceri lombarde, dove Covid e pesante sovraffollamento hanno aggravato le condizioni di salute psichica di molti detenuti. L’aggiornamento del piano relativo al rischio suicidario negli istituti di detenzione, approvato dalla Giunta di Regione Lombardia pochi giorni fa, è un passo ma non basta. E’ necessario intervenire colmando la carenza di personale e sviluppando progetti sperimentali come quello di creare case di comunità anche all’interno delle carceri, dotate di personale sanitario multidisciplinare in grado di prendere direttamente in carico i pazienti”, queste le parole della presidente della Commissione Speciale Carceri di Regione Lombardia Antonella Forattini, che al prossimo assestamento di bilancio di fine luglio presenterà la proposta di istituire, in via sperimentale, case di comunità in alcune carceri lombarde. “Nella proposta, che mi auguro venga condivisa da tutta la Commissione, ho inserito il carcere di San Vittore a Milano, la Casa Circondariale di Canton Mombello a Brescia, la Casa Circondariale Torre del Gallo a Pavia e la Casa Circondariale di Busto Arsizio. Si tratta di una prima sperimentazione che potrebbe, poi, allargarsi ad altre strutture. Con la presenza delle case di comunità interne, potranno essere messe insieme diverse professionalità, apparecchiature, ma soprattutto competenze”, spiega Forattini. Altro aspetto fondamentale è poi, per Forattini, la necessità di integrare il personale: “La Regione deve trovate le modalità per incentivare il personale sanitario a rispondere alle chiamate che vengono fatte per ricoprire posti all’interno delle carceri. Serve, poi, investire sulla formazione del personale”. Liguria. Giustizia vicina ai cittadini: dieci sportelli di prossimità entro il 2023 di Massimo Clementi genovatoday.it, 17 luglio 2022 Avvicinare i servizi della giustizia ai cittadini con sportelli decentrati sul territorio che possano offrire informazioni e alcuni servizi alla cittadinanza. Un supporto per le fasce più deboli e i territori con maggiori fattori di criticità sociale. Un protocollo d’intesa firmato da Regione Liguria, Ministero della Giustizia e Ordine degli Avvocati di Genova per creare degli uffici decentrati sul territorio regionale che possano fornire ai cittadini, in particolare alle fasce più deboli, i servizi della giustizia senza bisogno di recarsi in Tribunale. Una sperimentazione avviata dal Ministero nel 2019 attraverso la realizzazione di 3 progetti pilota in Liguria, Piemonte e Toscana per rispondere ad un’esigenza nata dopo le recenti riforme della geografia giudiziaria che, da un lato, hanno consentito di razionalizzare i costi del sistema giustizia aggregando tra loro diversi uffici giudiziari e, dall’altro, hanno però inciso sulla presenza di servizi di giustizia territoriali. La stipula di questo protocollo è un ulteriore passo avanti verso l’effettiva apertura di uffici per una ‘giustizia di prossimità’, che sia vicina ai cittadini, specialmente nei territori più distanti dalle sedi degli uffici giudiziari o dove la domanda di tutela è più forte per la presenza di fattori di criticità sociale. Ilaria Cavo, assessore alle politiche sociali della Regione, ha commentato così l’iniziativa: “Non siamo a dire che stanno per aprire gli uffici di prossimità ma che facciamo un passo avanti importante, che ci sono state manifestazioni d’interesse dei Comuni ma soprattutto presentiamo un accordo importante e non scontato con l’Ordine degli Avvocati di Genova, che ci accompagnerà in questo percorso”. Chiavari, Rapallo, Genova Bolzaneto e l’Unione dei Comuni dello Scrivia hanno già approvato il protocollo d’intesa, mostrando la volontà di avere nel proprio territorio questi punti di assistenza per la cittadinanza. Questa iniziativa ha l’obiettivo di modificare la percezione del sistema di giustizia, delocalizzando alcune attività prima disponibili esclusivamente presso gli Uffici giudiziari e prevedendo la creazione di nuovi punti di contatto e accesso sul territorio. L’idea della giustizia come servizio è alla base del progetto, che deve essere di facile e immediato accesso e consentire ai cittadini la fruizione di alcuni servizi. L’assessore Cavo ha poi dichiarato: “Gli avvocati saranno presenti gratuitamente presso gli uffici di comunità per informare l’utenza e portare la giustizia vicino a casa. Essere capillari sul territorio vuol dire andare incontro a molti, principalmente anziani, famiglie con disabili e chi si occupa della tutela dei minori. L’ufficio di prossimità non può svolgere tutte le pratiche legate alla giustizia ma quelle di volontaria giurisdizione e ciò che riguarda la protezione giuridica”. L’obiettivo è rendere operativo il progetto nel corso del 2023, con uffici che possano soddisfare le esigenze dell’utenza attraverso un’offerta integrata di servizi, orientamento e consulenza, con particolare riguardo all’ambito della volontaria giurisdizione, anche ricorrendo a sistemi informativi in grado di trasmettere ricorsi e istanze dagli Uffici di prossimità ai tribunali. Crotone. Dall’1 agosto detenuti a lavoro per la cura del verde pubblico ilcrotonese.it, 17 luglio 2022 A partire dal lunedì 1 agosto, sette detenuti della casa circondariale di Crotone inizieranno a svolgere lavori per il Comune. Si tratta di persone individuate ed autorizzate dall’Autorità giudiziaria che lavoreranno per la manutenzione di alcune aree individuate dall’Ente: villa Comunale, piazza Umberto, Orto Tellini, Parco Endride (via Miscello da Ripe). Lo ha annunciato il Garante comunale dei detenuti, avvocato Federico Ferraro, nel corso della sua relazione annuale al Consiglio comunale. Si concretizza, così, una proposta che era stata inizialmente presentata dal Garante comunale dei detenuti al Comune di Crotone, di concerto con la direzione dell’Istituto, nel lontano 2018. “Prende avvio una pagina nuova ed inedita per l’intera comunità di Crotone” ha detto Ferraro esprimendo “vivo apprezzamento per la conclusione del lungo iter che ha portato alla sottoscrizione della convenzione tra l’Ente comunale e l’Amministrazione penitenziaria”. Si tratta di una procedura inserita nell’ambito dei lavori socialmente utili ex art 20 ter dell’Ordinamento penitenziario che, secondo il programma concordato tra il Comune di Crotone e la Direzione Penitenziaria, vedrà un momento di formazione entro il mese di luglio. Quindi da inizio agosto sette detenuti inizieranno a svolgere le attività per la cura del verde pubblico. Federico Ferraro ha ringraziato “il sindaco Voce, l’assessore al Verde pubblico Pitingolo, il Consiglio comunale, ed in particolare alla III e IV Commissione Consiliare Permanente, per il tramite dei rispettivi Presidenti Passalacqua e Meo, ed a tutti i Consiglieri Comunali, per l’attenzione e sensibilità mostrata verso la detenzione ed il reinserimento socio-lavorativo, e per l’impegno nell’aver contribuito al progetto istituzionale dei lavori di pubblica utilità, garantendone sia la copertura finanziaria parziale dell’ambito assicurativo che il vestiario da lavoro”. Gorgona (Li). Il modello di carcere “aperto” sarà studiato dalla Sant’Anna di Pisa di Virginia Pedani La Repubblica, 17 luglio 2022 La ministra Cartabia ha firmato una convenzione-quadro con la Scuola. “Esperienza detentiva virtuosa”. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questo è il senso dell’isola di Gorgona e del suo carcere: il terzo comma dell’art.27 della Costituzione scritto in grassetto a caratteri cubitali, impossibile da non vedere per chi viene dal mare, che poi, rimane l’unico modo possibile per raggiungere questa piccola perla del mar Tirreno. Gorgona, l’ultimo carcere-isola sul suolo europeo con un passato da colonia penale ai tempi del Granducato di Toscana, conta oggi un numero di detenuti che oscilla fra gli ottanta e i cento e visite turistiche limitatissime, spalmate su tre giorni a settimana (il sabato, domenica e il lunedì), perché qui le parole che regnano sono rispetto, senso di comunità e, sopratutto, qualità della detenzione. La sede distaccata della Casa Circondariale di Livorno aggiunge un altro tassello alla sua storia: la firma di una convenzione-quadro con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, con lo scopo di valutare a livello scientifico e con dati alla mano, come il modello unico di carcere “aperto” possa costituire un punto di riferimento per l’intero sistema penitenziario nazionale, sempre in un’ottica funzionale alla rieducazione del condannato. Il progetto, ancora in itinere, vede la partecipazione di più componenti della Scuola, con ricercatori e docenti di area giuridica, management e agraria che analizzeranno le specificità delle attività produttive isolane (tutte basate sull’autosufficienza) per valutare, eventualmente, anche la riduzione del loro impatto sull’ambiente e per consolidarne la sostenibilità economica. “Da anni la Scuola Sant’Anna investe sul concetto di società inclusiva - dice Anna Vivaldi, docente di diritto costituzionale - Analizzando il caso Gorgona, ci siamo resi conto che questa potesse rappresentare una fucina da questo punto di vista. La prima fase del progetto prevede una mappatura delle attività sociali ed economiche già esistenti e che i detenuti svolgono quotidianamente, mentre la seconda prevedrà un coinvolgimento diretto con attività del terzo settore per aiutare queste persone, una volta fuori di qui, a trovare un futuro stabile”. I detenuti qui condividono il tempo da scontare con la polizia e gli abitanti e provvedono, ad esempio, fra la moltitudine di iniziative e lavori (retribuiti con contratti regolari) a fare il pane per tutta l’isola, ma anche olio e formaggio di pecora e capra. Quanto e come le specificità e le potenzialità della Gorgona possono essere riproposte altrove? Prova a rispondere al difficile interrogativo un’ospite d’onore, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, presente alla cerimonia: “Ci sono esperienze detentive virtuose, proprio come questa, che nascono dal basso e che possono diventare un modello per tutto il sistema carcere. È essenziale dunque studiare questo esperimento con metodo scientifico non soltanto come meta da raggiungere o come esempio di pregio, ma proprio come modello replicabile, evidenziando gli ingredienti come le criticità che gli danno sostanza e lo strutturano”. Milano. Con 41 Bus “Andare in carcere non è mai stato così facile” di Giorgio Paolucci Avvenire, 17 luglio 2022 I colloqui con i familiari sono il momento più atteso per le persone detenute. In molti casi i parenti per incontrarli devono affrontare viaggi lunghi e impegnativi, in cui al costo del biglietto dell’aereo o del treno si aggiungono quelli legati al collegamento con gli istituti di pena, spesso fuori dai centri abitati e raggiungibili solo in taxi o con lunghi pellegrinaggi da fare a piedi, carichi di pacchi e con bambini al seguito. Bruno Palamara, che ha provato sulla sua pelle l’esperienza di vivere “dentro” e ha sperimentato quanto sono preziosi gli affetti per chi vive lontano dai propri cari, si è inventato un servizio di trasporto per i familiari dei carcerati, e gli ha dato un nome evocativo, giocando sul cambio di una vocale che fa la differenza: 41 Bus. Collegandosi al sito omonimo, si dà la possibilità ai familiari di iscriversi al colloquio utilizzando un link che rimanda a quelli dell’amministrazione penitenziaria, di prenotare un treno o un aereo e di utilizzare un servizio navetta a prezzo modico che accompagna fino all’ingresso del carcere. Il servizio è attivo per ora con la casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano, ma sono in corso contatti con altri penitenziari. Con un po’ di leggerezza, Palamara ha coniato lo slogan: “Andare in carcere non è mai stato così facile”. Busto Arsizio. Il cardinale Zuppi: “Più lavoro nelle carceri per costruire il futuro” di Andrea Camurani varesenews.it, 17 luglio 2022 Una mattinata che ha visto il cardinale Matteo Maria Zuppi partecipare ad un incontro organizzato dal cappellano di via per Cassano Magnago don David Maria Riboldi. Sono arrivate quasi le lacrime quando Volodimir, omone grande e grosso nato in Ucraina dove ha lasciato la moglie e i figli in balia della guerra si è alzato in piedi, e con poche parole ha attirato l’attenzione del capo dei Vescovi che gli ha stretto la mano e l’ha ascoltato. “Perché la chiesa è come una madre e una madre dà sempre una possibilità in più ai suoi figli. Sappiate che la chiesa vi sta vicini”. Parola di cardinale: Matteo Maria Zuppi, vescovo di Bologna e guida della Cei, la Conferenza episcopale italiana da neppure due mesi, dagli amici suoi si fa chiamare don e parla con tutti. Uomo di Roma e che la capitale ce l’ha nel sangue e nella voce, racconta e fa sorridere con le storie di Trastevere, vicino al carcere di Regina Coeli e ai tanti personaggi che affollano gli ambienti carcerari. Zuppi è a Busto Arsizio su invito di don David Maria Riboldi, cappellano del carcere, accolto dalla comandante degli agenti della polizia penitenziaria Rossella Panaro. Musica coi tamburi e canti, “lettere aperte” e riflessioni sui temi grandi come la pena, il tempo dell’uomo fra le sbarre, i muri e l’idea che spesso si ha della prigione come luogo comune dove deve stare chi ha sbagliato. “Noi siamo con voi, come ha detto Papa Francesco dobbiamo domandarci perché ciascuno di noi che è fuori non sia dietro le sbarre: può succedere a tutto. Ed è una riflessione estremamente profonda”. Il cardinale ha parlato finanzia ad una platea attenta nella sala conferenze al primo piano della struttura di via per Cassano alla quale hanno partecipato una cinquantina di detenuti, molti anche di fese musulmana. Lettere aperte, si diceva, considerazioni a voce alta: “Grazie per essere venuto nella “periferia”, sappiamo che a lei piace stare in periferia, per cui forse potremmo piacerle anche noi”. Il secondo intervento è stato quello di un personaggio pubblico, stranoto alle cronache giudiziarie come per decenni a quelle politiche, Giochino Caianiello. “Sono Nino, eminenza”. Il tema: amnistia, indulto. “Ci piacerebbe anche sentire la chiesa avere il coraggio di chiedere un gesto di clemenza a chi ha il potere di darlo. Perché non si può più pronunciare oggi la parola “clemenza” nei luoghi del potere?”, ha concluso Caianiello, cui è stata data risposta come a tutte le altre considerazioni lette dai detenuti. Pensieri che spaziano dai due anni di inferno del Covid alla difficoltà a interagire coi parenti, anche solo per una chiamata. Appunti che il cardinale ha condiviso, promettendo di farsi portavoce per l’attivazione di un servizio mail che consenta, come avviene altrove, di poter meglio interagire col “mondo di fuori”. Il grande tema più e più volte ricordato da Zuppi è stato poi quello del lavoro: “Più lavoro nelle carceri è il solo modo per costruire il futuro”. E a Busto Arsizio ne sanno qualcosa: oltre alle miriadi di attività svolte, il capo dei vescovi italiani potrà assaporarne una, dolcissima: i cioccolatini, contenuti in una scatola, in ottimo cacao, che il cardinale ha portato con sé. Busto Arsizio. Sovraffollamento e questione pandemia: il punto sul carcere informazioneonline.it, 17 luglio 2022 La visita del cardinale Zuppi è stata l’occasione per fare il punto della situazione sulla casa circondariale con la comandante della Polizia penitenziaria Rossella Panaro. C’è una condizione di sovraffollamento, ma i numeri sono migliori rispetto al pre-Covid. La visita del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei (leggi qui), è stata l’occasione per fare il punto della situazione sulla casa circondariale di Busto Arsizio con la comandante della Polizia penitenziaria Rossella Panaro. A partire dall’annoso tema del sovraffollamento. “Oggi siamo sui 389 detenuti - spiega la comandante -. La capienza regolamentare si aggira intorno ai 240, quindi siamo già in una condizione di sovraffollamento. Però bisogna dire che la capienza tollerabile è di 399 detenuti. Prima della pandemia siamo arrivati a sfiorare anche la quota di 450”. Panaro ricorda la famosa sentenza Torreggiani del 2013, dopo la quale, però, “Busto Arsizio ha visto iniziare una serie di lavori di adeguamento. È stato ricavato un nuovo piano detentivo e ulteriori lavori sono stati compiuti nelle altre sezioni e soprattutto è stata creata la doccia all’interno del bagno. Pertanto i detenuti hanno la possibilità di fare la doccia in qualsiasi momento, mentre prima avendo i locali in comune c’era una regolamentazione, dovuta anche al fatto che l’impianto idraulico non era sufficiente per supportare una capienza che era oltre quella regolamentare”. Il Covid, inevitabilmente, ha pesato sulla vita carceraria. Durante l’incontro con il cardinale Zuppi, i detenuti hanno parlato di “due anni terribili, perché non abbracciare i propri cari per mesi è stata una tortura. Rivedere i propri bimbi cresciuti di diversi centimetri è stato quasi uno shock”. “I problemi ci sono stati - osserva la comandante Panaro - però la direzione, ancor prima che arrivasse il lockdown, insieme al direttore, a me, al capo area trattamentale, sanitaria e contabile, ha sempre fatto delle riunioni settimanali con i detenuti per illustrare la situazione, quali fossero le difficoltà e le azioni che avrebbe messo in campo in questo periodo drammatico. Questa buona azione di dialogo ci ha aiutato a evitare sommosse o rivolte che invece ci sono state in altri istituti. Abbiamo notato un certo senso di responsabilità dei detenuti, che hanno anche raccolto duemila euro per l’acquisto di tablet donati all’ospedale di Varese. Anche la Polizia penitenziaria ha fatto la sua parte con iniziative benefiche”. Milano. Quasi 30 ore di sport negli istituti penitenziari, il rilancio del progetto carcere csi.milano.it, 17 luglio 2022 “Non avevo la fortuna di stare in un carcere con un campo da calcio, ma come facevamo spesso da ragazzini ci preparavamo una palla di calze, tutti donavano una calza per migliorare la forma e la rotondità del malloppo e giocavamo nello stretto corridoio dove trascorrevamo l’ora d’aria”. Le parole qui riportate sono quelle che Patrick Zacky ha scritto in un articolo per 7, il magazine de “Il Corriere Della Sera”. Il giovane attivista egiziano per i diritti umani fu detenuto nelle carceri del Cairo quasi due anni, in un caso clamoroso di rigida e ingiustificata detenzione a tratti privata di diritti minimi. Eppure, anche nel suo caso lo sport pare aver segnato un tassello determinante per poter guardare oltre, continuare a sperare, portare il corpo e la mente in una dimensione dove potersi riconnettersi alle cose più pure della vita, come il movimento, la condivisione con gli altri, un’umanità ritrovata, lo sport appunto. Questa storia ci ha ricordato come il Progetto Carcere che da ormai decenni portiamo avanti come Comitato di Milano, sia davvero una delle azioni costanti e silenziose che non ci rendiamo nemmeno conto di quanto bene fa ai “destinatari” finali. Lucia Teormino da settembre ha preso in mano il Progetto “Liberi di Giocare” e l’ha rinvigorito con una serie di progettualità che a causa del lockdown si erano arenate e spente. A fronte del fatto che non è stato possibile organizzare nuovamente dei campionati regolari di calcio, come era stato nel periodo pre-Covid, si è deciso di rinforzare tutto ciò che potesse essere attività ordinaria all’interno delle strutture penitenziarie coinvolte, il carcere di San Vittore e il minorile Beccaria a Milano, il carcere San Quirico di Monza e la Comunità Exodus di Don Mazzi al Parco Lambro. In totale al momento contiamo circa 30 ore di sport garantite su tutte le strutture, divise tra allenamenti e partite di calcio, basket, pallavolo e attività individuali che vanno dalla ginnastica dolce al crossfit a cui si aggiunge la partecipazione della squadra dei ragazzi di Exodus inserita nel torneo mensile di calcio Play More. “La cosa davvero bella è il clima che si sta instaurando tra i nostri trainer e i ragazzi detenuti, davvero un bel coinvolgimento che non può che dare senso al percorso ed essere positivo sia per i detenuti che finalmente possono tornare a fare sport, sia per i nostri educatori e trainer sportivi che ne hanno un ritorno professionale di sicuro, ma soprattutto una crescita umana importante” ha commentato Lucia Teormino, che ha poi proseguito: “A San Vittore siamo presenti con 14 ore di sport mentre a Monza solo il mercoledì non siamo attivi, gli altri giorni siamo sempre in struttura. Exodus invece gioca nel torneo Play More e queste uscite per loro sono fondamentali in termini di motivazione”. Il progetto al carcere minorile Beccaria, sino ad ora gestito da Giulia Stefanelli e ora passato a Lucia Teormino, fa storia a sé con gli allenamenti del venerdì costanti e alcune partite amichevoli organizzate nell’istituto insieme a società sportive del CSI o a realtà particolari; ne è esempio il match in programma contro la squadra di calcetto di non vedenti, esperienza che di sicuro andrà oltre lo sport per tutti gli atleti e i giovani coinvolti. Tra i 26 trainer coinvolti, ragazze e ragazzi, spunta anche il nome di Alessandro Raimondi, Consigliere Provinciale del CSI Milano non più ventenne, che porta la sua esperienza di una vita nell’ambito della pallavolo nel carcere di San Vittore. Con il suo coinvolgimento si afferma l’importanza di un progetto che vuole essere rete a maglie strette tra più componenti del comitato di Milano, per sostenere in sinergia i percorsi rieducativi dei detenuti, giovani, minori, e adulti. Borsellino e il “pessimo affare” di Totò Riina di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 17 luglio 2022 Moltissimo è stato scritto in occasione del XXX anniversario della strage di via d’Amelio, dove insieme al grande Paolo Borsellino furono trucidati Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Mi ha colpito il bel libro di Giovanni Bianconi (“Un pessimo affare” - Solferino ed.), che oltre alla preziosa e obiettiva esaltazione dei grandi meriti e dell’eccezionale coraggio di Borsellino contiene una ricostruzione dei fatti che fa riflettere. In particolare, Bianconi ricostruisce nel dettaglio la storia del decreto -legge varato dal Consiglio dei ministri l’8 giugno 1992 dopo la morte di Falcone. Un giro di vite contro la mafia che introduce il cosiddetto “doppio binario” - cioè una normativa pensata con concreto riferimento alla “specificità” della mafia - che in particolare incentiva i pentimenti e introduce un carcere finalmente duro (per porre fine alla vergogna di una detenzione che confermava ogni giorno, anche in galera, la supremazia della mafia sullo stato). Contro questo decreto si scatenò una campagna ostile (contestazioni pesanti di avvocati penalisti e detenuti in rivolta), sicché la conversione in legge del decreto procedeva a rilento. Quando i tempi stavano ormai per scadere, sulla spinta dell’autobomba di via d’Amelio il Parlamento, lavorando a tappe forzate, riuscì a convertire il decreto in legge. Riveleranno poi alcuni “pentiti” che un mantra del “capo dei capi” (Riina) era che si sarebbe giocato anche i denti, volendo dire una cosa preziosa, e cioè che avrebbe fatto di tutto per far annullare la legge sui pentiti ed eliminare l’articolo 41 bis che costringendo all’isolamento i mafiosi poteva determinare nuovi pentimenti. Invece, uccidendo dopo Falcone anche Borsellino (per di più - come pare certo - accelerandone la morte) Riina ha di fatto agevolato l’approvazione di una legge da lui stesso osteggiatissima. Una mossa controproducente, un “pessimo affare”. Oltretutto....recidivo! Perché già dieci anni prima la strage di via Carini, con la morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, si era trasformata in un “pessimo affare” per la mafia. La reazione dello Stato aveva prodotto la Legge Rognoni-LaTorre, con il 416 bis e l’aborrito attacco alle ricchezze illegali: quanto di peggio i mafiosi abbiano mai dovuto registrare. Difficile immaginare - sostiene Bianconi - che Riina non abbia previsto questi effetti nefasti per l’organizzazione criminale. E allora si potrebbe pensare che qualcuno lo abbia mal consigliato o possa averlo condizionato o convinto, prospettandogli chissà che. Qualcuno che magari conosceva bene la psicologia mafiosa. Vale dunque la pena parlare anche di questo profilo. Il mafioso interiorizza Cosa nostra come l’unico mondo nel quale vi sono individui degni di essere riconosciuti come “persone”. Il mondo esterno è invece una realtà “nemica” da depredare, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, “oggetti” che non hanno dignità umana. Una “reificazione” del mondo esterno che sfocia nell’assoluta mancanza di senso di colpa dei Killer e di chi li comanda. La convinzione di appartenenza a una entità speciale crea infatti un totale distacco emotivo che disattiva la sfera dei sentimenti. L’identità psicologica perversamente deviata del mafioso si intreccia poi con una “sacralità atea”: il mafioso ostenta una “fede” che è soltanto superstizione. E questa sua “religione” la interpreta in modo blasfemo, come conferimento di una specie di “missione” che tutto giustifica, anche le peggiori nefandezze. Dopo l’appartenenza, un ulteriore fattore di forza. Se tutto ciò vale per il mafioso “medio”, figuriamoci per il “capo dei capi”. Temuto e ossequiato da tutti (mafiosi e non); forte di protezioni, anche politiche, di alto livello e di una immensa fortuna economica; proiettato verso obiettivi di egemonia totalizzante; trionfatore in guerre di mafia, con migliaia di avversari sterminati o “scappati”; regista di una decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali; capace per decenni di una “comoda” latitanza. E allora, è possibile accostare al “capo dei capi” una sindrome tipo delirio di grandezza? Si può ipotizzare che abbia finito per convincersi di essere un super-uomo irraggiungibile e invulnerabile, quasi un Dio? E che qualcuno di questa sindrome possa aver approfittato? Viene utile, a questo punto, una frase di Falcone scelta da Bianconi come esergo: “Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa nostra - per un’evidente convergenza di interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi”. Come si fa a vivere nella società del rischio ignorando il rischio? di Fabrizio Bianchi Il Domani, 17 luglio 2022 Il concetto di rischio non è mai stato evocato così tanto e al contempo usato così poco per prendere decisioni. Sono tante le scelte oggi che comportano rischi non trascurabili da comunicare adeguatamente, da ghiacciai instabili a ondate di calore, da rigassificatori galleggianti a inceneritori, che se collocati in aree abitate non si può decidere a priori e con approccio paternalistico che siano esenti da rischi o ne producano di accettabili: un approccio che solitamente innalza il senso di oltraggio, la percezione del rischio e la sfiducia verso il proponente. La società del rischio - Viviamo in una società pericolosa e ossessionata dai rischi, sentenzia il sociologo Ulrich Beck nel suo famoso libro Società del rischio, tanto da avere definito un apparato metodologico per la valutazione e la gestione del rischio, conosciuto molto poco al di fuori dalla comunità scientifica specialistica. Non sono solo i soggetti istituzionali a crederci poco ma anche le persone che “sfidano” il rischio: i sentieri sotto un ghiacciaio instabile non vengono inibiti e scalatori bramosi sfidano la probabilità. Nella formulazione tecnica classica il rischio è dato dalla probabilità di un evento di accadere moltiplicato per la gravità del danno, quindi è tanto più grande quanto più è probabile che accada l’incidente e tanto maggiore è l’entità del danno correlato. Ci sono esempi a non finire: aumentando la velocità in auto aumenta il rischio di incidente, aumentando sia la probabilità di accadimento sia il danno; un incidente nucleare ha una probabilità bassa ma comporta un danno elevato, la trasmissione di Omicron5 e lo sviluppo di malattia Covid-19 ha una probabilità elevata ma un danno contenuto (in soggetti non fragili), e via di questo passo. Così come sono tante le situazioni in cui grandi minacce sono percepite a basso rischio e, viceversa, piccole minacce sono percepite come assai rischiose. Ad esempio, il gas radon - che si sprigiona da rocce e pietre di origine vulcanica - è poco conosciuto ed è sotto percepito il rischio di tumore del polmone non trascurabile per chi lo respira, mentre gli odori da impianti di rifiuti, seppure fastidiosi, vengono spesso percepiti come un rischio tossico più alto di quello reale. Manca qualche elemento per capire cosa accade nella realtà: il convitato di pietra è la percezione del rischio, che può essere alterata sia a riguardo della probabilità che del danno. Indignazione e percezione - Un noto esperto americano della comunicazione del rischio, Peter Sandman, ha osservato che le persone tendono a prendere sul serio un rischio o a scrollarselo di dosso soprattutto in risposta a fattori come la familiarità, la possibilità di controllo, la paura, la fiducia e la reattività, elementi etichettati come “fattori di indignazione”. Pertanto aveva aggiunto alla formula del rischio un ingrediente inconsueto da lui definito “outrage”, oltraggio o senso di offesa, che il pubblico prova quando non viene informato adeguatamente di un certo rischio. L’esperienza insegna che il rischio percepito si innalza quando non si danno informazioni, peggio quando si negano. Va ancora peggio quando viene data l’idea di nascondere informazioni per evitare di “allarmare”, perché così facendo si innesca la sindrome della censura, con la conseguenza che il pubblico si allarma di più e diventa più respingente. Così, spesso si chiama in causa la sindrome NIMBY, non nel mio giardino, evidentemente a sproposito. La vulnerabilità e la fragilità - Altri ingredienti dovrebbero essere considerati quando si maneggia il rischio, in particolare la vulnerabilità di chi è esposto alle conseguenze dannose. La vulnerabilità è in stretta relazione con la capacità di un individuo o di una comunità di far fronte in un determinato momento a particolari minacce e può essere associata a elementi specifici come la povertà e l’insicurezza sociale, economica, ambientale. Insulti esterni a persone e comunità più vulnerabili ne innalzano la fragilità. Il fatto che questi tratti costitutivi, individuali e collettivi, siano diversi nel territorio e cambino nel tempo, rende più complicata la comunicazione con il pubblico, ma non per questo evitabile. Questi insegnamenti, teorici e pratici, dovrebbero essere di guida alle amministrazioni pubbliche che si trovano a dover prendere decisioni che comportano rischi, magari elevati per i possibili danni e fortemente soggetti al senso di offesa. Competenze e esperienze ci sarebbero ma perché non vengono usate? perché non si conoscono o perché se ne ha paura? in ambedue i casi, come nel gioco dell’oca, si riparte dal traguardo e in condizioni più svantaggiate. “Con la crisi di governo a rimetterci sono i diritti: che fine fa lo Ius Scholae?” di Sara Scarafia La Repubblica, 17 luglio 2022 La scrittrice e insegnante di liceo Viola Ardone: “Avevo il sogno di tornare in classe a settembre con la legge sulla cittadinanza dei ragazzi già approvata”. Viola Ardone, scrittrice e insegnante di italiano e latino al liceo, aveva un sogno: tornare in classe, a settembre, con lo Ius scholae già legge, la riforma che dà la cittadinanza italiana ai 280mila ragazzi e ragazze che non sono nati in Italia ma hanno studiato nelle scuole del Paese. Adesso che il governo rischia di cadere, è preoccupata: “L’affermazione dei diritti è ancora più importante in tempo di guerra. Ci troviamo di fronte a una crisi inopportuna nei tempi e nei modi”. Si è fatta un’idea di quello che sta succedendo? “Probabilmente M5S stava cercando di portare avanti una minima strategia per recuperare consenso dopo la scissione di Luigi Di Maio, ma non credo con l’intento di scatenare questo terremoto. Solo che la situazione è sfuggita di mano di fronte all’intransigenza di Draghi”. Capisce la posizione del premier? “È abituato a sedere nei consigli di amministrazione e nei cda quando non hai più il sostegno degli azionisti ti dimetti”. E quella di Conte? “Sicuramente il Movimento attraversa una profonda crisi identitaria, una conseguenza di anni di governi di unità nazionale dove tutti stanno con tutti. Ma in un momento come quello che stiamo vivendo, gli strappi vanno evitati. Arrivare alla scadenza naturale, peraltro prevista a breve, sarebbe stata la soluzione più giusta”. Ius scholae. E poi? Quali sono le altre priorità? “Mi soffermo sui diritti perché credo che nel bel mezzo di un conflitto nel cuore dell’Europa, siano ancora più necessari: la gente si sposta, il Paese accoglie. La guerra, poi, impoverisce: tra le priorità ci sono gli aiuti alle famiglie”. La crisi rischia di travolgere pure il Piano nazionale di ripresa e resilienza: lei vive a Napoli, cosa significherebbe per il Sud? “Un disastro. Il Meridione vive enormi difficoltà infrastrutturali, nelle politiche per l’infanzia, nella gestione dei servizi. La buona volontà degli amministratori, penso al sindaco Gaetano Manfredi, non basta: servono progetti e risorse. I fondi del Pnrr servivano anche per realizzare nuovi asili: al Sud più che altrove, le donne devono ancora scegliere tra il lavoro e i figli”. Cosa pensa dell’ironia della Russia sul governo? “Il fronte europeista anti-Putin si indebolisce facendo il gioco di Mosca. Ci voleva più responsabilità”. Cosa accadrà mercoledì in Parlamento? “Non lo so. Registro l’impegno del presidente Mattarella che si sta facendo di nuovo carico di questa complessità, ma nuove combinazioni non mi sembrano possibili: sono già state tentate tutte. Se Conte confermasse la fiducia, resterebbe comunque un precedente che ha indebolito”. La crisi incrina anche l’asse giallorossa. “Il Pd soffre di strabismo politico: cioè che era uno adesso è due. Penso che anche i dem abbiano bisogno di fare chiarezza. Ma, ripeto, la priorità al momento era quella di portare a termine il mandato, completare le riforme in corso. C’è la guerra, c’è la pandemia, la crisi energetica”. Se fosse in classe come spiegherebbe la crisi ai suoi alunni? “Mi dispiace che, dopo il Papeete, stia accadendo di nuovo d’estate. Con gli studenti leggiamo i giornali per difendere il principio che la democrazia è complicata ma che vale sempre la pena di difenderla. In questo caso parlerei con loro di quanto è importante studiare la storia. Tacito diceva sine ire et studio: bisogna osservare, cercare di capire. Il Parlamento dimostri dignità e voti la legge sulla cannabis di Franco Corleone L’Espresso, 17 luglio 2022 Dopo anni di ostruzionismo la Camera dei deputati è costretta ad occuparsi della questione della cannabis; se la Corte Costituzionale nel febbraio scorso non avesse deciso con una motivazione tutta politicista la non ammissibilità del referendum, il 12 giugno il popolo avrebbe eliminato le norme penali più repressive della legge antidroga che dal 1990 sommerge i tribunali e riempie le carceri. Ovviamente il Parlamento avrebbe evitato questa prova. Così non è stato e la destra becera minaccia fuoco e fiamme sul governo se il Parlamento approverà la proposta di Riccardo Magi, che ha superato il vaglio della commissione Giustizia e della discussione generale. Va detto che il testo non è di legalizzazione della cannabis, si limita a rendere legittima la coltivazione domestica di poche piante come anticipato dalla Cassazione e a prevedere un articolo autonomo per i fatti di lieve entità, differenziando tra le sostanze leggere e pesanti. La linea demagogica e propagandistica è scodellata: non si tratta di una priorità! Questa tesi è sostenuta da un coro di moralisti da strapazzo. Per smascherare questa falsità, basta leggere i provvedimenti che hanno la precedenza e rischiano di far rimandare a settembre e magari nel mese del mai la canapa: una mozione sulla carenza di personale nei settori del turismo e dell’agricoltura e una sulla energia nucleare di seconda generazione; una proposta di legge sul volo di diporto e una proposta di legge costituzionale sulla insularità; la sperimentazione del voto telematico e infine un provvedimento sulle celebrazioni dell’ottavo centenario di San Francesco. Scherzi a parte, dal 1990 una legge proibizionista e punitiva ha trasformato una questione sociale in una criminale e dal 2006 al 2014 ha imperato la legge Fini-Giovanardi fondata sull’assioma che “la droga è droga”, senza distinzione tra le sostanze con una pena carceraria da sei a venti anni per detenzione e spaccio. Solo grazie alla sentenza della Corte Costituzionale nel 2014 (relatrice Cartabia), quell’obbrobrio fu cancellato. Nel frattempo, nel mondo la via della war on drugs, è stata abbandonata dall’Uruguay, da molti Stati degli Usa come la California e dal Canada; per l’autunno la Germania si prepara a scegliere la legalizzazione. Purtroppo, in Italia le proposte di questo segno che io presentai nel 1995 e nel 1996, nonostante la sottoscrizione di oltre 150 deputati rimasero allo stadio iniziale. Vale la pena ricordare che la proposta n. 2362 era firmata da personalità autorevoli come Violante, Turco, Di Lello, Finocchiaro ma anche dai leghisti Bertotti, Marano e Maroni. Certo, era la Lega di Bossi e non di quella del mozzorecchi del diritto Salvini, quale si rivela anche in questa occasione. Questa vicenda segnala un arretramento della cultura e della politica, anche a sinistra nonostante la dura replica dei dati della realtà. Il tredicesimo Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Società della Ragione conferma la presenza in carcere del 35 per cento di detenuti per detenzione e piccolo spaccio. Il dato più impressionante rimane quello di un milione e trecento settanta cinquemila giovani segnalati alle prefetture dal 1990 ad oggi per mero consumo: di questi più di un milione per uno spinello. Una persecuzione di massa e una stigmatizzazione sociale pesante. Siamo di fronte ad una urgenza democratica. La delusione subita dai cinquecentomila firmatari del referendum non può essere aggravata dalla ignavia del Parlamento. Ancora una volta la frontiera dei diritti civili può costituire il discrimina per la dignità delle Istituzioni. Anche se la crisi politica precipitasse verso la caduta del governo, ci sarebbe spazio per un voto e per mettere al centro della prossima campagna elettorale un tema che divide tra libertà e autoritarismo. Tuteliamo Assange che diffonde segreti, è una questione di democrazia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 17 luglio 2022 La pretesa del Potere (politico o economico) di poter agire in segreto annulla il diritto alla conoscenza, che è fondamentale nelle società democratiche. Il quotidiano britannico The Guardian ha ricevuto migliaia di documenti e comunicazioni interne dell’impresa americana Uber e li ha trasmessi all’Icij (International consortium of investigative journalists) che ne ha fatto oggetto di esame, per controllarne l’autenticità e ricostruirne il significato. Anche questa volta, come in passato, ad esempio per i Panama Papers che rivelarono la realtà di enormi evasioni fiscali, non pare sia in discussione la genuinità dei documenti. Essi rivelano attività degli amministratori di Uber negli anni tra il 2013 e il 2017. Non importa qui valutarne la compatibilità con le leggi in vigore nei vari Stati in cui si sono svolte. Importa invece che si tratta di documenti, che si voleva rimanessero segreti perché altamente imbarazzanti sia per quella impresa, sia per i lobbisti che agivano nel suo interesse, sia soprattutto per gli interlocutori politici, governativi, parlamentari che venivano raggiunti. The Guardian e Le Monde hanno cominciato a pubblicare parte di quei documenti, inquadrandoli nel contesto in cui vanno inseriti, che ne spiega l’alto interesse per l’opinione pubblica. Così, ad esempio, emerge che Emanuel Macron, allora ministro dell’economia, incontrava i vertici di allora di Uber e assicurava loro appoggio mentre il governo di cui faceva parte ne contrastava l’attività e affrontava la protesta dei taxisti contro la concorrenza della nuova forma di trasporto. Una legge per contenere l’attività di Uber in Francia era stata da poco approvata. Nulla di illecito probabilmente da parte del ministro Macron, ma il problema è quello della segretezza e del divario che essa copre tra la politica ufficiale e l’agire concreto, tra ciò che i cittadini conoscono e ciò che viene loro occultato. Non diverso, anche se molto più drammatico, è il caso della pubblicazione dei documenti americani da parte di WikiLeaks di Julian Assange. Si tratta di comunicazioni interne alla amministrazione americana, alle forze armate in Irak e Afganistan, a diverse ambasciate degli Stati Uniti nelle loro comunicazioni con il governo. Da quanto pubblicato emergono uccisioni di civili, abusi e violenze non fatti oggetto di indagine e punizione. Fatti tutti gravi ed evidentemente contrastanti con l’immagine ufficiale che veniva presentata di quelle guerre. Anche in questo caso la pubblicazione da parte di Assange ha rotto il segreto e ha portato a conoscenza fatti importanti per il dibattito pubblico. Da anni in Inghilterra si combatte una vicenda giudiziaria e politica che potrebbe condurre alla estradizione di Assange (nel frattempo da anni detenuto) verso gli Stati Uniti dove l’attende un gravissimo processo. La vicenda processuale sembra avvicinarsi all’epilogo, anche se è verosimile che vi sarà un ricorso alla Corte europea dei diritti umani, con possibile sospensione della esecuzione del trasferimento di Assange. Conseguenti saranno le polemiche in Inghilterra, che da tempo minaccia di abbandonare la Convenzione europea. Insomma, la vicenda potrebbe avere sviluppi molto gravi anche per il sistema europeo dei diritti umani (che già ha visto l’espulsione della Russia, che ha privato il Consiglio d’Europa dell’ambizione di rappresentare tutta l’Europa nella difesa dei diritti fondamentali). La vicenda di Assange, la sua detenzione e possibile estradizione, ha un effetto grave su uno dei pilastri della libertà e democrazia di cui spesso facciamo vanto in Europa. Si tratta della libertà di informare l’opinione pubblica dei fatti di interesse per il dibattito pubblico. Inutile legare la democrazia alle elezioni di parlamenti e governi, se chi vota non conosce i fatti rilevanti ed è vittima quindi di disinformazione. Non si può negare la necessità del segreto imposto su certe vicende, per il tempo necessario. Ma sia i documenti pubblicati da Assange, che quelli relativi a Uber in via di pubblicazione hanno un alto contenuto di portata politica e la loro segretezza ha comunque esaurito ogni potenziale giustificazione, se non quella del segreto per il segreto. La pretesa del Potere (non solo quello pubblico) di poter agire in segreto annulla il diritto alla conoscenza che è fondamentale nelle società democratiche. Perché il segreto non sia impropriamente utilizzato è indispensabile l’opera del giornalismo di investigazione. Essa lavora per forzare i segreti. La persecuzione di Assange ha già l’effetto di ammonire e impaurire i giornalisti. Certo il giornalista è soggetto a doveri e responsabilità. Ma l’incertezza sulla tenuta del segreto in futuro ha il positivo effetto di trattenere dal commettere nefandezze o comunque azioni onestamente indifendibili. Se, come si usa dire in Occidente, la stampa è il cane da guardia della democrazia, occorre proteggere coloro che, per informare, violano i segreti che riguardano fondamentali aspetti della vita pubblica. Non si protegge la democrazia pubblicando solo ciò che è già noto, ciò che il Potere crede utile comunicare, ciò che è compiacente o irrilevante. L’idea della giustizia penale internazionale contro la guerra in Ucraina di Maurizio Delli Santi MicroMega, 17 luglio 2022 Il 17 luglio ricorre un anniversario diverso per la Corte penale istituzionale, il cui statuto fu approvato nel 1998. Le nuove “banalità del male” della guerra in Ucraina possono essere contrastate riaffermando i principi dello Statuto della Corte penale internazionale, che fu approvato a Roma il 17 luglio 1998. Da allora lo Statuto di Roma, il “Rome Statut” come è ricordato nella comunità internazionale dei giuristi, rappresenta la più importante opera di codificazione sui crimini internazionali. È in forza dei suoi principi che oggi la Corte dell’Aja sta sostenendo le autorità giudiziarie ucraine per assicurare la raccolta delle prove e perseguire oltre 20.000 crimini di guerra e contro l’umanità, commessi soprattutto nei confronti dei civili tutelati dalle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra. Anche l’Italia in questi giorni sta dando un senso compiuto all’anniversario, con il progetto del Codice dei Crimini internazionali. Ma altri passi importanti sono da compiere. Come prima reazione, sul volto di molti si leggerebbe una smorfia di scettico dubbio all’idea di celebrare un anniversario per la “giustizia penale internazionale”. La “Giustizia” in Italia è un ideale che a stento sembra riprendersi dalle derive che l’hanno profondamente calpestata. Nel contesto internazionale poi, lo scenario non è tanto più incoraggiante. Le pronunce conservatrici sull’ “originalism” della Corte suprema statunitense ne sono un esempio. Ma anche l’”ordine internazionale liberale” - inteso storicamente come il sistema delle relazioni fra Stati fondato su regole, istituzioni e diritti - vive da tempo una fase di arretramento e il diritto internazionale appare inefficace di fronte all’ultima guerra di aggressione. In piena Europa - lo si può dire oggi, viste anche le iniziative di adesione all’UE - l’attacco russo all’ Ucraina si protrae con regole terroristiche e in disprezzo dei più elementari principi di umanità affermati dalle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, persino con gli effetti devastanti di una crisi energetica e alimentare che colpirà in maniera inesorabile soprattutto le fasce più fragili della popolazione mondiale. Ci sono tuttavia varie ragioni per non ridurre a questo scenario l’interpretazione del presente, nell’occasione di un anniversario per la giustizia penale internazionale appena celebrato, e in previsione di un altro imminente che ci riguarda più da vicino. Il 1° luglio scorso all’Aja una Conferenza ad Alto livello ha commemorato il 20° anniversario della istituzione della Corte penale internazionale (CPI), con riferimento a quel 1° luglio 2002 in cui furono raggiunte le ratifiche necessarie per l’entrata in vigore internazionale del suo Statuto istitutivo. Quattro anni prima - per questo si parla di un prossimo anniversario - il 17 luglio 1998, al palazzo dalla Fao di Roma si era svolta la storica Conferenza diplomatica dove alle 22.50 un lungo e fragoroso applauso aveva annunciato proprio l’approvazione - con 120 voti a favore su 148 Stati votanti- dello Statuto della Corte penale internazionale, che da allora sarà appunto ricordato come lo Statuto di Roma. I motivi per commemorare questi anniversari con meno scetticismo possono considerarsi innanzitutto nelle ragioni di chi crede in una impostazione crociana della Storia come “storia delle idee e della libertà”, ma anche nella regola gramsciana del primato dell’”ottimismo della volontà” sul “pessimismo della ragione”, oppure nella più prosaica idea socio-economica delle “profezie che si autoavverano”. Più specificamente, nel contesto della comunità dei giuristi si è ben consapevoli che il percorso della giustizia penale internazionale è sofferto e segna un continuo working in progress, ma è ad esso che bisogna guardare con fiducia, anche e nonostante l’aporia dei tempi che sembrano contrastarlo. Lo sa bene ha vissuto chi si è formato ad esempio sugli scritti di Giuliano Vassalli, che dalla cattedra di diritto penale di Genova nella prolusione fatta il 31 gennaio 1946 - negli scenari ancora sconvolti dalla guerra - seppe interpretare come l’idea dei Tribunali internazionali stava esercitando una fortissima suggestione, non solo nella riflessione dei maggiori giuristi dello scorso millennio: si sarebbe diffusa per generazioni anche nel sentire comune dei giovani studenti, che nell’approccio al diritto penale, al diritto internazionale e alla filosofia del diritto sentono forte l’impulso alla ricerca di un archè presocratico, di un indiscusso fondamento giuridico per l’idea e gli strumenti della giustizia internazionale. Ma non va dimenticato anche il significato ideale dell’esperienza tutta intellettuale del Tribunale Russell, quel “Tribunale internazionale contro i crimini di guerra” che era soltanto un tribunale di opinione, senza alcun connotato giurisdizionale, voluto da Bertrand Russel e Jean Paul Sartre nel novembre 1966 per indagare sui crimini commessi nella guerra del Vietnam, poi estesosi in altre sessioni anche sulle violazioni ai diritti umani e gli etnocidi commessi dai regimi dittatoriali in America Latina e in Africa. È necessario dunque partire da questi presupposti ideali per comprendere, fino in fondo, il senso della Corte penale internazionale. La prima riflessione deve perciò essere rivolta innanzitutto a cogliere i punti salienti di ciò che ha significato nel diritto internazionale l’approvazione dello Statuto della Corte. Qui i riferimenti storici e giuridici sarebbero tanti, ma senza dubbio si può affermare che lo Statuto rappresenta ad oggi il più attuale e compiuto sistema di codificazione, dal valore universale, dei crimini internazionali, così come concepiti da un complesso percorso dottrinale e giurisprudenziale: è il frutto delle elaborazioni del diritto dell’Aja e di Ginevra, ovvero delle previsioni del Diritto Internazionale Umanitario e dei Conflitti Armati, ma anche del sistema di tutela dei Diritti Umani, e dei fondamentali principi affermati anche dalla giurisprudenza dei Tribunali di Norimberga e Tokio, troppo superficialmente liquidati come “tribunali dei vincitori”, e più recentemente dai Tribunali per la ex Jugoslavia ed il Ruanda, o anche dai meno conosciuti Tribunali c.d. misti o “internazionalizzati”. Questa opera di codificazione ha richiesto un impegno poderoso, e non bisogna dimenticarne la ratio, perché ha dovuto superare due dogmi: da un lato l’idea del “dominio riservato” degli Stati sulla giurisdizione penale, e dall’altro la separazione di due mondi del diritto che fino ad allora apparivano poco conciliabili, il civil law, il sistema derivato dal diritto romano in cui prevale la funzione normativa della legge, e il common law, di derivazione romano-germanico, affermatosi negli ordinamenti anglosassoni e americani, basato sul precedente giurisprudenziale, il c.d. stare decisis. Poi c’è stata l’altra opzione fondamentale che ha segnato la svolta sui tribunali internazionali ad hoc: si giungeva finalmente a superare l’istituzione di corti costituite secondo le emergenze, la cui riconoscibilità veniva perciò posta in discussione dai giuristi più rigorosamente interpreti del principio nullum crimen, nulla poena sine praevia lege penali. Lo Statuto della Corte si presenta dunque oggi come la base giuridica più compiuta che definisce i crimini di genocidio (art.6), i crimini contro l’umanità (art.7), e i crimini guerra (art. 8). Nel 2010, dopo la Conferenza di revisione di Kampala del 2010, ha anche esteso la competenza sul crimine di aggressione (art. 8-bis), ovvero l’attacco ingiustificato alla sovranità di uno Stato, quando è compiuto in difformità alle previsioni della Carta delle Nazioni Unite o senza che ricorrano le condizioni della self-defence previste dal diritto consuetudinario. Si è data quindi forma e sostanza all’idea di un tribunale penale internazionale dal carattere permanente e dall’efficacia universale, chiamato ad intervenire secondo il principio di complementarietà: la Corte interviene qualora gli Stati “non vogliano o non possano” giudicare i colpevoli, per unwillingness, il “difetto di volontà” (per ritardi ingiustificati, non indipendenza e non imparzialità, ex art.17 comma 2 lett.a), o per inability, l’”incapacità dello Stato” (per “collasso istituzionale”, specie riferito agli organi giudiziari, ex art.17 comma 2 lett.b). Fondamentali sono poi alcuni principi, come l’obbligo degli Stati di dare esecuzione ai provvedimenti della Corte, inclusi i mandati di arresto e le sentenze di condanna, ovunque nei loro territori, e in quelli ove operano le loro forze armate, anche quando i crimini internazionali commessi dagli imputati non siano stati diretti contro di essi e i loro cittadini. Inoltre non sono riconosciute eccezioni alla punibilità ammesse in altri casi: i crimini di competenza della Corte non sono soggetti a prescrizione, non sono riconosciute immunità funzionali o personali, né - in generale - può operare l’esimente dell’ordine superiore. Beninteso, il punto è che non solo le ragioni ideali possono sostenere la validità di un progetto, ma è importante pure una analisi obiettiva in cui si faccia riferimento anche alle questioni critiche o ancora aperte, e sul tema ve ne sono diverse, non v’è dubbio. In ogni caso, quella della verifica sul campo è una scelta sempre obbligata per testare il principio di effettività di un’idea, specie se si vuole rendere più concreta e affatto retorica la commemorazione di un anniversario. Il percorso di questi primi vent’anni di un sistema così radicalmente innovativo della giustizia penale internazionale non poteva dunque presentarsi senza difficoltà di attuazione. Uno dei vulnus principali riguarda la condizione che vede sostanzialmente la Corte non ancora riconosciuta da diversi Stati. Nonostante la maggioranza raggiunta dalle 123 ratifiche delle Nazioni che hanno aderito al sistema della Corte, tra queste non figurano quelle della Russia (che pure aveva sostenuto e approvato lo Statuto) e della Cina, ma soprattutto anche quelle di Paesi democratici come gli Stati Uniti e Israele. Da questi sono venute anzi le più forti opposizioni quando il Prosecutor dell’Aja ha tentato di avviare indagini per alcuni crimini di guerra da accertare nei teatri afghani e palestinesi. Nei confronti della ex procuratrice Bensouda i leader americani e israeliani hanno lanciato accuse di essere una enemy of the State e di antisemitismo, e il presidente Trump era persino giunto ad emettere nei suoi confronti un executive order di congelamento dei beni, provvedimento poi revocato da Biden, che ha ripreso il dialogo con i giudici dell’Aja. Molte voci critiche sull’operato della Corte sono state sollevate anche sul dato numerico poco significativo dei processi e delle condanne, ritenuti da un lato piuttosto orientati nel solo contesto dei conflitti africani e dall’altro non corrispondenti all’elevato budget delle risorse assegnate. Le questioni più discusse hanno poi riguardato le asserite inerzie della Corte sui crimini commessi nella crisi del Darfur e della Siria. In questa prospettiva va dunque compiuta un’analisi obiettiva, che tenga conto dei dati di fatto. Come si legge sullo stesso sito istituzionale i casi portati dinanzi alla Corte in questi venti anni sono 31, di cui la maggior parte con più imputati; risultano emessi 41 mandati di arresto, ma più della metà degli imputati sono latitanti e i processi ultimati hanno portato a 10 condanne e 4 assoluzioni. Non v’è d dubbio dunque che il percorso della Corte proceda con difficoltà, nonostante si tratti di una struttura con uno staff di 900 persone e l’ultimo budget annuale indicato ufficialmente in € 154.855.000. Tuttavia alcune riflessioni vanno fatte. Sostenere l’impegno di una inchiesta penale internazionale, specie nella fase della raccolta delle prove, non è facile, richiede tempo e soprattutto deve reggersi sulla cooperazione degli Stati e delle organizzazioni internazionali e regionali. Il sostegno e la collaborazione degli Stati e di organizzazioni come la NATO, ad esempio, e delle altre coalizioni internazionali assimilabili, sono fondamentali soprattutto per ricercare e catturare i responsabili accusati dalla Corte. Per comprendere gli scenari e la complessità dei giudizi della Corte possono essere utili due riferimenti ai processi più recenti. Nel novembre 2019, Bosco Ntaganda, leader dei miliziani del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo, è stato condannato a 30 anni di reclusione per 18 capi di imputazione di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Repubblica Democratica del Congo, tra il 2002 e il 2003. Il 4 febbraio 2021, la Camera IX di primo grado ha dichiarato colpevole l’ex comandante del gruppo guerrigliero Lord’s Resistance Army Dominic Ongwen, ritenuto responsabile di 61 crimini contro l’umanità e crimini di guerra, commessi tra il 1° luglio 2002 e il 31 dicembre 2005 nel contesto della ribellione armata contro il governo dell’Uganda. Altre riflessioni sono però necessarie per compiere una valutazione più aderente sul ruolo che la Corte penale internazionale sta assumendo nel presente, e potrebbe evolvere anche nel prossimo futuro. La guerra in Ucraina ha radicalmente mutato lo scenario: il sistema delle relazioni internazionali appare in una crisi irreparabile e sono cadute anche quelle poche certezze che ancora residuavano perché si garantissero condizioni minime di legalità e cooperazione nei rapporti fra Stati. E tuttavia è proprio di fronte alla illegittimità della aggressione della Russia, e alle modalità criminali e terroristiche della sua condotta della guerra, che si è tornati a parlare di giustizia penale internazionale. Si sono evocate le condanne dei Tribunali di Norimberga e della ex Jugoslavia, e si è dunque guardato necessariamente con rinnovato interesse a chi ne ha raccolto l’eredità, la Corte penale internazionale. Lungimirante certamente è stata la scelta compiuta a suo tempo dall’Ucraina, che ha accettato la giurisdizione della Corte almeno per i crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio. Non ha ancora riconosciuto la competenza sul crimine di aggressione, ma potrebbe farlo in un prossimo futuro. In proposito, rispetto alle riserve di chi vede irrealizzabile questo proposito perché per l’incriminazione sul punto occorrerebbe una determinazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - in cui Russia e Cina esercitano il potere di veto - c’è chi vede realizzabile anche una possibile riforma dello stesso Statuto della Corte, ove gli Stati parte potrebbero introdurre una norma che consideri valida anche una Risoluzione di condanna dell’Assemblea Generale o legittimi la Corte a procedere autonomamente. Ma anche ragionando sul presente, vi sono altri motivi per considerare l’effettività del ruolo che sta oggi assumendo la Corte penale internazionale. Il Prosecutor dell’Aja ha potuto attivarsi con speditezza, saltando il passaggio della Pre Trial Chamber, procedendo per i crimini compiuti in Ucraina anche sulla base del referral, ex art. 14 dello Statuto. Si tratta della richiesta di attivazione delle indagini presentata per prima da 39 Stati, con in testa la Lituania, l’Italia e tutti gli altri paesi dell’Unione Europea, ma anche da Regno Unito, Australia, Canada, Colombia, Costa Rica, Georgia, Islanda, Lichtenstein, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, e Irlanda. In sostanza, questa scelta di una significativa rappresentanza di Stati ha dato forza e legittimazione al Procuratore della Corte, che si è recato più volte in Ucraina, ha saputo coordinarsi con Eurojust e le autorità giudiziarie ucraine, cui ha posto a disposizione i suoi team investigativi, e ha annunciato anche l’imminente costituzione di un ufficio distaccato della Corte a Kiev. Nell’ultima visita compiuta in Ucraina sui luoghi dei massacri e delle distruzioni il Procuratore Khan è stato netto: “Mi sono recato a Kharkiv, nell’est dell’Ucraina. Ho verificato gli ingenti danni causati a questa città e ascoltato i racconti delle sofferenze subite dai civili. Il mio messaggio a coloro con cui ho parlato è stato chiaro: la legge rimane al loro fianco e in prima linea. Hanno diritti fondamentali che devono essere rivendicati anche in tempo di guerra”. Ed ha aggiunto: “Il mio Ufficio sta agendo con urgenza per dimostrare a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto che hanno responsabilità dirette secondo il diritto internazionale, per le quali non sono ammesse eccezioni: ogni persona che prende una pistola, guida un carro armato o lancia un missile deve sapere che può essere ritenuta responsabile dei crimini commessi”. Un’altra notizia è poi venuta da un comunicato stampa del 30 giugno diffuso dalla Corte: sono stati emessi i primi mandati d’arresto nei confronti di due alti funzionari russi e di un collaborazionista georgiano per crimini di guerra commessi nella aggressione compiuta dalla Russia sulla Georgia nel 2008. Agli imputati sono stati contestati i crimini di guerra riconducibili alle fattispecie dell’articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, fra cui figurano arresti illegali, torture e trattamenti disumani, oltraggi alla dignità personale, prese di ostaggi e trasferimenti illegali di civili: un vero e proprio monito per i militari e i funzionari russi che oggi stanno compiendo gli stessi misfatti nel Donbass. Certo ci sarà il problema della esecuzione dei mandati, ma intanto i destinatari non potranno muoversi dal territorio russo se non vogliono essere catturati, e saranno comunque sub iudice per tutta la loro vita fino a quando non si presenteranno davanti ai giudici dell’Aja, perché i crimini internazionali sono imprescrittibili. Tornando alle vicende attuali in Ucraina, in questa fase la collaborazione della Corte penale internazionale con gli organi di giustizia nazionali è fondamentale per procedere alla raccolta delle prove, ed è questo il valore aggiunto che sarà conferito dai team investigativi internazionali. Gli ultimi resoconti dell’autorità giudiziaria ucraina parlano di oltre 20.000 casi di crimini di guerra accertati, riferiti a gravi distruzioni di edifici civili, presidi sanitari, beni culturali ed altre strutture non costituenti obiettivi militari, a spoliazioni e ruberie sistematiche, ma anche alle drammatiche vicende delle esecuzioni dirette, delle uccisioni indiscriminate di civili e di prigionieri di guerra, alla cattura di ostaggi e al trasferimento illegale di civili e di altre persone protette, nonché a gravissimi riscontri su episodi di stupri, torture ed atti lesivi della dignità umana, tutte gravissime violazioni alle previsioni delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, espressamente richiamate nello Statuto della Corte penale internazionale. Il percorso della giustizia penale internazionale vede dunque un momento di prova che sarà decisivo per affermarne l’effettività, e probabilmente i prossimi mesi potrebbero vedere altri progressi. Rimane senz’altro la validità di una idea, unico baluardo per contrastare le nuove “banalità del male”. Anche in Italia il Ministero della Giustizia ha deciso di dare un’accelerazione alle iniziative per dare definitiva attuazione alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale, avviando all’esame il progetto presentato dalla Commissione di esperti sul nuovo Codice dei Crimini internazionali. Sarà opportuno approfondire ancora diversi aspetti intrepretativi e questioni aperte, come - ad esempio - quelli relativi a più incisive previsioni per perseguire sul piano del dolo i “danni collaterali” che comportano stragi di civili indiscriminate e gravi distruzioni, o il tema delicato del riparto di giurisdizione tra magistrature ordinaria e militare. In ogni caso sarà necessario giungere presto ad un disegno di legge per la definitiva approvazione del Parlamento. Ma probabilmente all’ Italia spetta anche un altro onere. Se vuole dare un senso compiuto a quel momento e a quel luogo fondativo, ricordando il fragore di quegli applausi che il 17 luglio 1998 inondarono a Roma la sala della Fao, sarebbe il caso di rilanciare l’iniziativa di una Conferenza Diplomatica per la “riapertura alla firma” dello Statuto della Corte penale internazionale. Si tratta di un’iniziativa attesa da tempo dalla comunità dei giuristi che hanno a cuore l’idea della giustizia penale internazionale, per cui è fondamentale chiamare almeno tutte le altre democrazie del mondo a riconoscere e ratificare lo Statuto della Corte, magari anche apportando altri correttivi, che ad esempio eliminino i caveat del Consiglio di Sicurezza su alcune procedure e riaffermino un ruolo più incisivo dell’Assemblea Generale, dando ancora maggiore concretezza al principio di effettività della Corte: sarebbe anche questa l’occasione per meglio ricordarlo come lo Statuto di Roma. “Noi, guerrieri da salotto, ci stiamo illudendo di capire il conflitto in Ucraina” di Sabina Minardi L’Espresso, 17 luglio 2022 Frammentato. Superficiale. Il racconto della guerra manca di profondità e di sguardo di insieme. E mentre tutto si svolge sotto i nostri occhi, ne sappiamo sempre meno. Dialogo tra Lucio Caracciolo e Antonio Scurati. Brutale, ma decisiva. Dolorosa, ma rivelatrice: la guerra accompagna la nostra civiltà. Però, mentre la tradizione classica considera il combattimento un momento che avvicina alla verità, noi siamo immersi nella nebbia: la guerra in Ucraina è raccontata in modo deviante, senza visione d’insieme né profondità. Condannati a non capirne granché, assistiamo al contrario alla inesorabile messa in discussione di categorie come spazio e tempo, allo sgretolamento dell’idea di Occidente, alla prova da sforzo dell’Europa. Lucio Caracciolo, direttore della rivista Limes e tra i più puntuali osservatori delle mutazioni geopolitiche contemporanee, e lo scrittore Antonio Scurati, che ha appena riaggiornato il saggio “Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri” (Bompiani), riflettono sulla guerra in corso. Scurati, partendo dall’epica antica, lei analizza archetipi millenari, significati e valori che la guerra esprime. Quali echi classici ritrova in questo conflitto, e cosa invece dell’attualità smentisce ciò che della guerra sapeva? Antonio Scurati: “La costante rispetto a una tradizione millenaria che racconta la guerra è l’illusione che si tratti di un momento di verità. Nella tradizione occidentale io individuo un paradigma, che risale all’epica omerica e all’Iliade: la guerra è “il paradiso dello spettatore”, cioè un accadimento umano governato, nella narrazione, dal criterio della “piena visibilità”. Gli eroi di Omero, prima di scontrarsi in battaglia, devono essere pienamente avvistati, con una tecnica che diventerà una convenzione, la “teicoscopia”, lo sguardo dall’alto delle mura dell’individualità nelle sue caratteristiche distintive. Solo dopo questo momento inizia il racconto del conflitto. Questo perché gli eroi prima di uccidere o di essere uccisi devono potersi offrire allo splendore della gloria: la piena visibilità li fa riconoscere, in modo che possano brillare anche per un solo istante, ed essere eternati attraverso il canto del poeta. Se ciò non accadesse morirebbero in maniera anonima, nell’indistinto della mischia. Questa convenzione narrativa porta con sé un enorme bagaglio etico, estetico e metafisico. Nel senso che svela lo sguardo di una civiltà che non concepiva una vita dopo la vita. Quella civiltà incentra lo sforzo umano perciò verso questo istante luminoso, che sarà ricordato dalla posterità. Da ciò discende una tradizione, che ha evidenze anche nel cinema e persino nella teoria militare, che fa sì che in Occidente continuiamo a pensare alla guerra come momento della verità, in cui i contendenti si mostrano nei loro valori e nelle loro identità. E i conflitti rivelano, danno la possibilità di comprendere la realtà. Questa è l’invariante: credo che anche nel caso di questa guerra ci sia la tendenza a credere che possa essere decisiva e rivelativa. Dall’altro lato, però, dobbiamo constatare che sul piano morale noi occidentali europei riconosciamo che questa guerra non ha giustificazioni, nulla di epico. Ma temo che quell’archetipo omerico, in maniera inconsapevole, continui a influenzarci”. Lucio Caracciolo: “Trovo affascinante l’interpretazione della guerra a partire dal paradigma omerico: la visibilità, la gloria. Siamo però in un ambito poetico e la ricostruzione è successiva agli avvenimenti che si presume siano accaduti sul terreno. La narrazione che noi facciamo oggi è tutto fuorché poetica, ed è una narrazione “in tempo reale”, contemporanea a ciò che ci fanno vedere che accade sul campo di battaglia. Soprattutto, non avendo il privilegio della visione distaccata degli eventi, se leggiamo la guerra così come ci viene raccontata in tv e sui social media abbiamo l’immagine di un quadro puntinista in cui non c’è assolutamente né una visione di insieme né tantomeno una profondità. Siamo nelle due dimensioni, ci sono punti come singoli fatti di cronaca dell’orrore, che non riusciamo a congiungere e che vengono selezionati in base alla capacità di informazione e/o di propaganda delle parti in causa o di chi racconta la guerra. Tutto non al servizio di una rappresentazione dall’alto, e neppure di una rappresentazione dal basso, ma rasoterra, in cui se una persona non ha informazioni precedenti sulle origini, le cause, gli eventi passati delle parti in causa, difficilmente riesce a capire qualcosa. Fondamentale nella narrazione è poi la demonizzazione dell’avversario. Sia l’attuale Stato ucraino che lo Stato russo escono di risulta dalla decomposizione dell’impero zarista prima, e dell’unione sovietica poi. La narrazione ne ignora la complessità, non riconosce i motivi del conflitto, tende piuttosto a demonizzare da una parte dall’altra il nemico, sia l’imperialismo russo che il cosiddetto nazismo ucraino. Mancano tutte le premesse per una narrazione che racconti spiegando, contestualizzando, unendo i puntini. Non possiamo certo pretendere che rinasca Omero, ma il modo in cui stiamo raccontando questa guerra, più di altre, è particolarmente deviante. E ci lascerà basiti anche davanti al suo esito: perché non spiegato, non previsto. Quale sarà? Non lo so. Ma non sarà -per usare un termine di Scurati- “decisivo”, perché è una guerra con troppa profondità per risolversi con una campagna militare”. Antonio Scurati: “Caracciolo usa un termine preso a prestito dalla storia della pittura, “puntinismo”, illuminante. E io non lo trovo in contrasto con ciò che dicevo. Nel senso che, durante tutta la modernità il paradigma omerico della guerra è stato contestato. Penso a Don Chisciotte, romanzo fondativo della modernità europea, che è una parodia dei poemi cavallereschi. O al passo della Certosa di Parma di Stendhal in cui il giovane Fabrizio del Dongo parte alla ricerca di Napoleone, finisce nel mezzo della più grande battaglia di tutti i tempi, Waterloo. Ma in una prospettiva rasoterra, appunto, è talmente frastornato da non capire di trovarsi in battaglia. Cosa accade con la contemporaneità, e in particolare con la prima diretta televisiva da un fronte di guerra? Prima guerra del Golfo, la notte tra il 18 il 19 gennaio 1991, il paradigma omerico viene riabilitato in maniera surrettizia. Seduti sul divano, a migliaia di chilometri di distanza, abbiamo l’illusione di essere lì perché in quel momento ci viene raccontata la guerra, attraverso immagini poverissime di contenuto informativo - i traccianti della contraerea sul cielo di Baghdad e il corrispondente Peter Arnett nella stanza dell’Al Rashid Hotel che dice: io sono qui, ma di quello che sta accadendo so meno dei miei colleghi nella sede di Atlanta -ma quella diretta genera in noi l’illusione della presenza. Caracciolo ha ragione quando dice che questa narrazione della guerra è all’insegna di una frammentazione sempre maggiore, dell’impossibilità di uno sguardo d’insieme che conferisca un senso all’accadimento. Ma ciò non toglie che il puntinismo dia a noi, guerrieri da salotto, l’illusione della presenza, e della comprensione. Bisogna capire anche quanto sia pregiudicante la demonizzazione dell’avversario. Perché la demonizzazione è reciproca. Pensiamo al paradosso per cui i due contendenti militari si accusano reciprocamente di nazismo, come per gettarsi addosso lo stigma del male assoluto. Ripenso a una delle più importanti teorie politiche della guerra, quella di Karl Schmitt, che distingueva tra “nemici giusti”, ai quali si riconosceva la legittimità a muovere guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, e l’inimicus in senso ampio, cui non si riconosceva alcuna legittimità: potevi solo sterminarlo o essere sterminato. Questa narrazione della guerra rispecchia una situazione in cui ci sono solo nemici. Da distruggere”. Ma tutto ciò è inevitabile? O c’è un modo per riequilibrare la narrazione e favorire la comprensione, oltre le demonizzazioni reciproche? Caracciolo: “La demonizzazione non è un’invenzione di adesso, è uno schema che legittimamente appartiene alla propaganda, e la propaganda è parte della guerra. Solo che chi è chiamato a narrare la guerra dovrebbe avere la capacità di mettere da parte le sue antipatie e fare un passo indietro. Altrimenti si va da quello che Scurati chiama la piena visibilità alla piena invisibilità. Noi oggi siamo in piena nebbia della guerra. C’è poi un’altra dimensione da considerare, che non favorisce la comprensione: ed è il diverso senso del tempo e dello spazio. Le guerre russe sono sempre state concepite a partire da una idea del tempo e dello spazio completamente diverso da quello delle potenze occidentali. Per informazioni rivolgersi a Napoleone, il quale dopo aver inseguito l’esercito russo fin dentro le mura del Cremlino aspetta vanamente che Alessandro I gli comunichi i termini della sua resa, e costui non gli comunica alcunché. Segue disastrosa ritirata, semplicemente perché Napoleone aveva una fretta maledetta di concludere la guerra, portando a casa gloria e successo. Sia il popolo russo sia quello ucraino hanno un’idea del tempo e dello spazio molto più dilatati rispetto alla nostra. Questo mi porta a riflettere su una categoria che noi usiamo in maniera un po’ automatica, che è quella di Occidente. Se c’è qualcosa che emerge da questa guerra è che il termine “Occidente” non rappresenta più molto. Se vogliamo confrontare lo spazio canonico che rappresentava l’Occidente durante la guerra fredda, cioè il Nord America e l’Europa, c’è una differenza di approccio già riguardo al tempo. Per dirla banalmente: i nostri governanti firmerebbero qualunque foglio di carta perché la guerra finisse, gli americani hanno una visione diversa, perché per loro questa deve essere una guerra che punisce la Russia e forse la distrugge una volta per tutte. L’Occidente è un corpo plurale di soggetti che stanno perdendo quello che immaginavano li collegasse”. Scurati: “C’è anche un diverso valore attribuito alla vita umana individuale e un diverso rapporto con la violenza. Noi europei d’Occidente avvertiamo Putin, e la Russia di Putin, come il nemico della nostra civiltà. L’ipotesi stessa che si possa invadere militarmente un Paese ce lo fa sentire come nemico della nostra civiltà. Ma anche la disponibilità degli Stati Uniti ad armare gli ucraini, a inserire questo conflitto nella loro strategia geopolitica globale, ci risulta estranea. E quindi questo “noi” non si estende sulle due sponde dell’Atlantico ma è molto più circoscritto, abbraccia le nazioni dell’Europa continentale ma probabilmente non arriva neanche fino alla Gran Bretagna che su questi temi è più affine agli Usa che non a Spagna e Francia, Germania, Italia e Austria. E non sono solo le strategie geopolitiche che non coincidono più, ma anche i valori: il valore che noi attribuiamo alla vita umana fa sì che non siamo più un solo popolo”. E qui si apre la grande questione del futuro dell’Europa, che la guerra sta denudando... Scurati: “Dell’Europa vanno ripensati i confini, e non nel senso di continuare ad allargarli ma di rimettere in discussione gli allargamenti degli ultimi decenni. Non può esserci unità politica europea se non all’interno di una comunità di interessi e di valori condivisi. Non può esserci unità politica europea senza una forza militare autonoma. E questa comunità di interessi, di strategie e politiche, per essere reale e non solo nominale, non può estendersi oltre l’Europa a 17, a 13?… sicuramente non l’Europa a 27”. Caracciolo: “Su dove passino i confini europei si può discutere, io resto dell’idea che dobbiamo affidarci all’acume di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto, i quali avevano stabilito la frontiera romana da qualche parte tra i fiumi Reno ed Elba, cioè il confine che separava le due Germanie durante la guerra fredda. Un’osservazione sul putinismo. L’ideologia di Putin cammina guardando indietro. Cioè lui non sta facendo altro, e questo legittima ogni orrore, che riportare la Russia dove deve stare. Quando ricorda la grande guerra del nord, 1700-1721, condotta dal primo imperatore russo, cioè da Pietro il Grande, non fa solo un riferimento geografico. Dice che questa sarà una guerra lunga, e in continuità con altre guerre in spazi abitati da popolazioni etnicamente e culturalmente russe. Un’altra cosa che caratterizza il putinismo è che un Paese così vasto non può che essere governato da un’autorità unica, centralizzata. E questa è la grande debolezza della Russia, che prima o poi la porterà alla rovina, perché quanto più centralizzi un impero così vasto ed eterogeneo oltre i limiti di sopportabilità, tanto più questa capacità di controllo comincerà a scricchiolare”. La nostalgia applicata alla politica: la convince l’idea del passatismo di Putin? Scurati: “Credo che il passato sia proprio la spiegazione dell’inspiegabile per noi europei d’Occidente. Cosa dovremmo fare noi in una prospettiva storica? Dovremmo rafforzare questo “noi”. Per questo assisto con stupore alle dichiarazioni di chi vorrebbe immediatamente avviare una procedura per l’ingresso dell’Ucraina nell’Europa: sanno quello che stanno facendo? Non dovremmo invece avviare una procedura per estromettere dall’Europa l’Ungheria, la Polonia e quei Paesi che non condividono i principi fondamentali del trattato? Noi europei d’Occidente dovremmo coraggiosamente muovere dei passi verso una più forte unificazione politica dell’Europa, con una forza militare autonoma che poggerebbe paradossalmente su una diffusa cultura di pace, ormai matura”. Caracciolo: “Non credo che la proposta di Scurati possa avere in tempi visibili una sua realizzazione, per il fatto che stiamo parlando della parte di mondo più densamente intrisa di identità di coscienze, di culture nazionali e subnazionali. Quanti sono i confini in Europa? Ed è l’idea stessa di Stato ad essere entrata in crisi. L’Europa è subentrata, in un meccanismo surrogatorio, proprio mentre i vari stati perdevano la loro potenza. Temo che il futuro non vada nei termini integrativi proposti”. Scurati: “Siamo in un momento di crisi profonda. D’altra parte la crisi è caratteristica intrinseca delle democrazie occidentali. Quello che so è che se si vuole che propria idea prevalga bisogna lottare. E oggi la lotta è per la storia. La democrazia rafforza la società aperta invece di rinchiuderla dentro confini reazionari. E la lotta per la democrazia è una partita ancora aperta”. Caracciolo: “Una delle poche cose per me positive di questa guerra è che mi ha ricordato la nostra fortuna: con tutti i limiti, viviamo in un sistema che ci consente una libertà e un godimento dei diritti incommensurabilmente superiore a chi è invece in un regime in cui per comunicare ciò che pensa deve bisbigliare. Dobbiamo ricordarcelo. Non per entrare in una logica di guerra permanente tra democrazia contro il resto del mondo, ma per essere consapevoli del privilegio che abbiamo”. Ucraina. Siversk aspetta insonne sulla collina: “Dove sono i russi?” di Andrea Sceresini Il Manifesto, 17 luglio 2022 Reportage nel cuore della guerra. La cittadina del Donbass obiettivo della più grande offensiva lanciata dalle truppe di Putin. La difficoltà restare umani mentre intorno cadono le bombe. Sul biglietto c’è scritto così: “Natasha mia, mamma e papà stanno bene, non preoccuparti per noi, vivi e sii felice”. Il biglietto ce l’ha consegnato Irina, con la preghiera di fotografarlo e inviarlo via WhatsApp a sua figlia che vive a Kiev. Sono mesi che Irina non può parlare con Natasha, perché Irina abita a Siversk, e a Siversk i telefoni hanno smesso di funzionare. Da settimane, questa sperduta cittadina ai confini nordorientali dell’Oblast’ di Donetsk è al centro della più grande offensiva russa nel cuore del Donbass. A Siversk non c’è linea telefonica, non c’è acqua, non c’è gas e non c’è elettricità. Siversk è una città senza più sonno, perché il continuo martellare delle artiglierie rende impossibile qualsiasi riposo. A Siversk si vive nelle cantine, che in russo si chiamano podval. Ogni podval ospita venti o trenta persone, quasi tutte anziane e malate. Non potendo comunicare col mondo esterno, i civili di Siversk non hanno la benché minima idea di cosa stia accadendo intorno alla città e sopra le loro teste, e così, ogni volta che li incontri, la domanda che ti pongono è sempre la stessa: “Gdié ruskiye?”, Dove sono i russi? Noi, che prima di partire abbiamo letto le ultime notizie su Twitter, proviamo ad aggiornarli nel nostro russo sgangherato. “Ruskiye Severodonetsk? - fanno loro sgranando gli occhi - Ruskiye Lyshichansk? Ruskiye Pryvillja?”, Sono le battaglie di un mese fa, e sono state combattute a meno di quaranta chilometri da qui, ma a Siversk non ne è giunto neanche l’eco. Del resto, i militari ucraini di stanza quaggiù provengono quasi tutti dall’ovest del Paese - il che implica che i rapporti con la popolazione locale, rigorosamente russofona, non siano sempre idilliaci. “Con noi i soldati non parlano mai - ci hanno raccontato alcuni civili -. Ci chiamano “separatisti” e dicono che siamo dalla parte di Putin. Ogni tanto arrivano qui con i loro carri armati, si piazzano tra le case, sparano e se ne vanno. Questo più o meno è tutto ciò che sappiamo”. Che buona parte dei cittadini rimasti a Siversk patteggi per il Cremlino è d’altronde piuttosto palese. Molti lo fanno in modo aperto, anche di fronte a noi cronisti: “Naziukrop”, dicono indicando i soldati. Secondo fonti militari ucraine, circa il 70% di coloro che hanno deciso di restare a vivere nei pressi del fronte non vedrebbe di cattivo occhio l’arrivo dei russi. Quanto ci sia di reale in questa statistica - e quanto invece sia dettato dalla tensione, dalla diffidenza reciproca e dalla paura - noi non lo sappiamo. Certo è che restare umani, a Siversk, è qualcosa di terribilmente difficile. Vagando per le strade abbiamo osservato le stesse facce senza speranza che avevamo visto a Severodonetsk. Mentre le bombe cascavano tutto intorno a noi, un uomo sui sessant’anni, a petto nudo e con un occhio pesto, ci ha inseguito con una bottiglia di plastica offrendoci insistentemente della vodka. Pochi metri più in là, quello che doveva essere suo nipote camminava allo scoperto con in braccio un gattino. Entrambi sorridevano, ma di un sorriso imbambolato e quasi privo di vita. Così ci si riduce, dopo settimane di bombardamenti e di podval. D’altronde, qui come altrove, le truppe di Putin sembrano intenzionate a venire avanti ad ogni costo. Alcuni giorni fa l’agenzia moscovita Tass ha annunciato in pompa magna la “liberazione” di Siversk. Era una palese fake news, ma dietro di essa si celavano neanche troppo reconditamente le reali intenzioni del Cremlino: l’obiettivo è quello di chiudere la partita in tempi rapidi, costi quel che costi. Al momento le avanguardie russe si trovano nel villaggio di Verkhn’okam’yans’ke, sei chilometri a est di Siversk. Da lì le truppe scelte di Mosca hanno già lanciato numerosi attacchi in direzione della città. Ma il centro abitato sorge sul cucuzzolo di una collina, e prenderlo d’assalto con le fanterie non è certo cosa facile. Al contempo i russi si stanno muovendo anche da nord, dove negli scorsi giorni hanno occupato i paesi di Bilohorivka e Hryhorivka, al di qua del fiume Severskij Donec. Ieri pomeriggio abbiamo osservato le artiglierie di Kiev bersagliare con insistenza le alture che sorgono a sud del corso d’acqua - il che farebbe supporre che i reparti avversari si stiano disimpegnando con agilità anche in quel settore. Quanto siano effettivamente vicini, tuttavia, è ben arduo a dirsi. “Il quadro qui attorno è in continua evoluzione - ci hanno spiegato i militari ucraini -. Ci sono attacchi e contrattacchi continui. Si combatte tanto con le artiglierie, è vero, ma si registrano anche molti scontri diretti, e sono tutti parecchio sanguinosi”. L’impressione generale - corroborata da alcune indiscrezioni raccolte sul campo - è che i generali di Kiev puntino essenzialmente a guadagnare tempo. L’obiettivo è duplice: far stancare il nemico e costringerlo a concentrare nella zona di Siversk il maggior numero possibile di truppe. “Quando la pressione russa diventerà insostenibile, i nostri si ritireranno subito su una linea di difesa più arretrata”, ci ha confidato ieri pomeriggio un ufficiale ucraino. Ma d’altro canto l’unica strada che collega Siversk al resto del Donbass è anch’essa da giorni sotto assedio. Percorrerla risulta sempre più difficile e pericoloso, sia nel suo tratto iniziale che in quello terminale. Se i russi dovessero prenderla, per le migliaia di soldati di Zelensky rimasti imbottigliati nei pressi della città sarebbe la fine. Colombia. Giustizia per Mario Paciolla. I genitori denunciano i depistaggi dell’Onu di Francesca De Benedetti Il Domani, 17 luglio 2022 L’agenda di Mario Paciolla è stata trafugata. Perché farla sparire, assieme ai quaderni? Quali fatti e pensieri hanno voluto sottrarre alla nostra attenzione, i funzionari delle Nazioni unite? Si tratta di quella stessa organizzazione che quando il 33enne napoletano, operatore della missione Onu in Colombia, è stato trovato morto, si è affrettata ad appuntare nei suoi registri quella fine come “suicidio”. E perché gettare gli oggetti che portavano tracce di sangue, perché ripulire con ostinazione la scena della morte? Due anni dopo il ritrovamento del cadavere di Mario Paciolla, l’indagine della procura di Roma non si è ancora conclusa, “la procura colombiana collabora ma dell’Onu non si può dire lo stesso”, dice l’avvocato della famiglia Paciolla. Che si muove con una denuncia. La mamma di Mario, Anna Motta, denuncia “il depistaggio” Onu. In termini legali, quella che i genitori di Mario hanno consegnato alle autorità colombiane in occasione del secondo anniversario della morte del figlio è una denuncia di “occultamento, alterazione e distruzione di prove” riferita a quattro poliziotti colombiani e due funzionari Onu. Nel caso di questi ultimi, è contemplata anche la “violazione di domicilio” e “usurpazione di funzioni pubbliche”. Uno dei due funzionari Onu in questione è Christian Leonardo Thompson. All’epoca della morte di Mario era responsabile sicurezza della missione in cui Paciolla operava. Il ragazzo aveva discusso coi capi e aveva in programma di tornare a Napoli, “ma essendoci il lockdown avrebbe preso un volo umanitario, gli serviva la documentazione per il rientro, e quindi era l’Onu, per cui Mario lavorava, l’unica sul posto a sapere del suo viaggio”. Viaggio che Mario non ha fatto in tempo a fare. Tra gli ultimi contatti telefonici c’è proprio Thompson. Quando il corpo di Paciolla viene ritrovato, nell’appartamento che “mio figlio pagava a sue spese, non era in dotazione dell’Onu”, succede che Thompson - dice la denuncia - “tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo”. Lì ci sono oggetti con campioni biologici che Thompson fotografa, ma che non vengono acquisiti nel modo appropriato dai quattro poliziotti sul posto. Poi “materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto”. Oltre alle sparizioni, c’è l’opera di repulisti: Thompson ha candeggiato la casa di Mario. “Eppure secondo i protocolli Onu nulla andava toccato”, dice la mamma di Mario. Un anno dopo la morte di Paciolla, Thompson è stato pure promosso. La denuncia cita lui e il suo collega sul posto, Juan Vásquez García.