Cartabia e la crisi di governo: il destino delle riforme della giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 luglio 2022 In caso di caduta del governo Draghi e addirittura di ritorno alle urne, l’esecutivo potrebbe essere in grado di portare a termine la riforma del processo penale e di quello civile. Rischiano la giustizia tributaria e l’ordinamento giudiziario. Impegno e speranza. Dopo la crisi di governo, la Guardasigilli Marta Cartabia non abbandona il suo tradizionale riserbo, ma da fonti di via Arenula sono queste le due parole d’ordine che trapelano. Impegno, quello della ministra e del suo ufficio legislativo, nel chiudere nel più breve tempo possibile l’elaborazione dei decreti attuativi delle riforme del processo penale e del processo civile, da approvare il primo entro la fine di ottobre, il secondo entro la fine dell’anno. Due pilastri fondamentali previsti nel Pnrr. A questo si lega la speranza della ministra, ex presidente della Corte costituzionale, e cioè che le forze politiche si rendano conto della necessità che il paese ha in questo momento di rispettare gli impegni presi con l’Unione europea, che hanno scadenze ben precise e dai quali dipende l’erogazione dei finanziamenti di Next Generation Eu. Quello della giustizia costituirebbe uno dei fronti più caldi in caso di caduta del governo Draghi e addirittura di ritorno alle urne. Gli impegni presi dal nostro paese con la Commissione europea sono ambiziosissimi: ridurre nei prossimi cinque anni del 40 per cento i tempi del processo civile e del 25 per cento quelli del processo penale, così da restituire dignità al sistema giudiziario italiano, la cui inefficienza è da decenni certificata da tutte le classifiche internazionali. I primi passi di questa svolta epocale sono stati compiuti lo scorso anno, con l’approvazione in Parlamento delle leggi delega del processo penale e di quello civile (oltre al via libera all’assunzione di circa 22mila funzionari, la maggior parte dei quali - 16mila - destinati all’ufficio del processo). Stabilita l’ampia cornice di intervento (in primis accelerazione dei processi e digitalizzazione), ora tocca dipingere il quadro, piuttosto complesso. Basti pensare che la ministra Cartabia ha costituito sei gruppi di lavoro per l’elaborazione dei decreti legislativi nel settore penale e altri sette gruppi per il civile. Rispondendo a un question time alla Camera, lo scorso marzo, la ministra Cartabia ha dichiarato che i decreti legislativi di attuazione delle deleghe arriveranno all’esame del Parlamento “prima dell’estate”. Fonti del ministero confermano l’intenzione della Guardasigilli di presentare gli schemi dei decreti legislativi nelle prossime settimane. Ma cosa accadrebbe in caso di caduta del governo Draghi? Le leggi approvate dal Parlamento prevedono che gli schemi dei decreti legislativi adottati dal governo debbano essere sottoposti alle commissioni parlamentari competenti per ottenere un loro parere non vincolante. Se il parere non viene espresso entro sessanta giorni, i decreti possono essere comunque emanati. Nel caso in cui Draghi confermasse le sue dimissioni, il presidente della Repubblica, inviterebbe l’esecutivo a “curare il disbrigo degli affari correnti”. Secondo diversi costituzionalisti, alla categoria “affari correnti” andrebbe ricondotta anche l’adozione di decreti legislativi, soprattutto nel caso in cui le deleghe siano in scadenza. Il governo, dunque, nonostante gli scossoni politici, potrebbe portare a compimento il lungo lavoro di elaborazione delle riforme del processo penale e di quello civile. Diverso è il discorso della riforma della giustizia tributaria, altra riforma considerata essenziale nell’ambito del Pnrr, in virtù del suo impatto sul sistema giudiziario e anche del suo peso sul piano economico. Il ministero della Giustizia e quello dell’Economia e delle Finanze hanno elaborato un disegno di legge di riforma, già incardinato in Parlamento, da approvare entro la fine dell’anno come previsto dal Pnrr. Un obiettivo che, in caso di crisi di governo, andrebbe a naufragare. Per quanto riguarda, infine, l’emanazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento giudiziario recentemente approvata, la scadenza si colloca a giugno 2023. In questo caso, potrebbe essere un nuovo governo ad adottare (o a non adottare) i decreti legislativi previsti. Giustizia, “la pallida riforma” che non piace a nessuno di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 16 luglio 2022 Si parte dalla citazione di Walt Disney che dà il titolo al convegno - “If you can dream it, you can do it”, se puoi sognarlo puoi farlo - e si arriva al commento, a margine, dell’avvocato Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale “Vittorio Chiusano”, tra gli organizzatori dell’incontro: “La riforma Cartabia è pallida perché è frutto di un compromesso tra forze politiche che hanno idee sulla giustizia molto diverse”. Insomma, una riforma, nuova di zecca, che già non piace a nessuno: avvocati, pubblici ministeri, giudici. Se non ci fosse da piangere - perché di giustizia si parla - ci sarebbe da ridere (eccolo, il buon Disney). Però, vale sempre la pena discuterne e confrontarsi: “Si rafforza la separazione delle funzioni senza prevedere la separazione delle carriere - sottolinea ancora De Sanctis - si arricchisce il fascicolo per la valutazione del magistrato senza introdurre un sistema radicalmente meritocratico, si prevede l’intervento degli avvocati in consiglio giudiziario ma solo se esistono segnalazioni di fatti specifici contro il magistrato, altrimenti gli avvocati devono tacere”. Piuttosto chiaro. Della riforma, ne hanno appunto parlato avvocati e magistrati, nella splendida cornice della palazzina di caccia di Stupinigi (voto, 10), e pazienza per l’obbligatoria camminata sotto il sole delle 14.30 (organizzatori, da arresto immediato). L’interesse si è rispecchiato nel pubblico numeroso, tra cui il presidente dell’ordine degli avvocati, Simona Grabbi, il procuratore aggiunto Cesare Parodi, il professore emerito di Procedura penale Paolo Ferrua. Migliucci: “In questo Paese valgono più le indagini o le sentenze?” - Tra i confronti più interessanti del pomeriggio - organizzato anche dal centro studi “Aldo Marongiu” e dall’Osservatorio ordinamento giudiziario - c’è stato quello tra l’ex presidente dell’Unione Camere penali, Beniamino Migliucci, e l’ex numero uno dell’associazione nazionale magistrati (Anm) Eugenio Albamonte, ora segretario di Area: “L’indipendenza del magistrato dev’essere indipendenza anche da ogni altro magistrato”, attacca Migliucci. Che poi pone in serie domande (legittimamente provocatorie) e osservazioni: “Ci si chiede, ma in questo Paese valgono più le indagini o le sentenze?”. E ancora: “A me sembra che al di là di qualche corrente (della magistratura, ndr) che cerca di recuperare terreno, nella magistratura ci sia la volontà di voltare pagina e dimenticare”. Va da sé, lo scandalo Palamara. “E di non impegnarsi nella presunzione di innocenza e nel giusto processo”. Risponde Albamonte: “A volte c’è una spinta da parte dell’Unione camere penali a schiacciare tutta la magistratura su una posizione, come è successo con Pier Camillo Davigo, quando saltellava da una tv all’altra, quasi a reti unificate. O schiacciare tutta la magistratura sull’attività di un unico ufficio inquirente”. Morale: “Quando si enfatizzano le immagini si propone quel modello, come modello negativo. E ogni settimana si aggiunge un tassello all’immagine sempre più offuscata della magistratura”. Compresi (alcuni) giornali, un grande classico: “Ci sono quelli che enfatizzano e quelli che demonizzano. Ma la magistratura è un corpo molto più corporativo di quanto si pensi e la riforma Cartabia è lungi dal risolvere il problema dell’indipendenza interna della magistratura”. Insomma, altri scontenti: “La riforma crea un meccanismo di forte stratificazione, una magistratura alta e una bassa, taglia la magistratura”. Per un motivo: “Si vuole incidere sulla quantità e non sulla qualità”. Amara conclusione, da pm: “La riforma è incentrata nel tentativo di contenimento dell’esuberanza del pubblico ministero”. Ma, avverte Albamonte, sarà peggio anche per l’avvocatura: “Avvocati e magistrati sono al centro dell’attività culturale del Paese: se perdiamo la centralità dell’avvocatura, che si regge su quella della magistratura, e viceversa, saremo consegnati all’irrilevanza. Noi e voi, insieme ai diritti dei cittadini”. Albamonte (Area): “Si vuole contenere l’esuberanza del pm” - Tocca di nuovo a Migliucci, tra le osservazioni del segretario dell’Unione camere panali, Eriberto Rosso, che coordina il confronto: “Il tema - dice Migliucci - penso che sia quello di una crisi interna”. Si parte da qualche uscita “del dottor Gratteri, o all’epoca di Davigo: ma la critica a questi magistrati quando l’avete fatta? Come tutte le rivoluzioni, deve esserci all’interno”. Pausa: “Io fossi stato magistrato avrei chiesto un’intervista e avrei detto: “Quel che dice Davigo è una sciocchezza”. Applausi: non i fantozziani 92 minuti, ma siamo da quelle parti. “L’Anm deve difendere il giusto processo, e allora certe persone verrebbero messe in disparte”. Risponde Albamonte, con lodevole autoironia, sulla categoria: “A volte qualcuno prende le distanze da sé stesso. Io? Ma come, se fino all’altro giorno...”. C’è il problema delle giovani generazioni, come in tutti i mestieri: la sfida è riuscire “a mettere al centro del dibattito l’associazionismo, contro la chiusura nell’individualità e dell’isolamento”, delle nuove generazioni. “C’è il rischio di un inaridimento culturale”. Traccia cupi orizzonti anche Migliucci: “La crisi dell’associazionismo può coinvolgere tutti, ma penso che le Camere penali abbiano fatto un percorso inverso, ma quel che dice Albamonte ci deve preoccupare”. Per una ragione, fondamentale: “All’avvocatura penale, con la fine dell’interlocuzione con la magistratura, resterebbero problemi devastanti, anche perché c’è una classe politica inconsistente, che si scopre un giorno garantista e l’altro vuole buttare via le chiavi della cella”. Un po’ di luce su via D’Amelio: intervista a Claudio Fava di Enrico Del Mercato La Repubblica, 16 luglio 2022 Dopo 30 anni e quattro processi, il depistaggio sulla strage di Paolo Borsellino e della sua scorta resta un mistero. Su cui la commissione antimafia della Regione Sicilia ha provato a fare un po’ di luce. Quattro anni fa, alla vigilia del 19 luglio, in una delle sale di Palazzo dei Normanni, fastosa sede dell’Assemblea regionale siciliana, si trovano una davanti all’altro Fiammetta Borsellino e Claudio Fava. Lei è la figlia del magistrato ammazzato da Cosa nostra e da qualche tempo ha preso la parola per dire che non si accontenta di verità rivelate e ricostruzioni infiocchettate, che vuole sapere davvero chi, perché e con quali complicità ha ucciso suo padre; lui è giornalista, scrittore, sceneggiatore e ha perso il padre per mano della mafia: si chiamava Giuseppe Fava, faceva il giornalista e dava fastidio. Adesso, Claudio Fava è deputato regionale e presiede la commissione Antimafia del parlamento siciliano. Da quell’incontro di quattro anni fa viene fuori la relazione della Commissione antimafia sul grande depistaggio. Ottanta pagine di ricostruzione minuziosa di quello che resta di uno dei tanti misteri italiani a far luce sul quale non sono bastati quattro, dicasi quattro, processi. Succede che all’indomani del 19 luglio 1992, giorno in cui avviene la strage di via D’Amelio, una squadra di investigatori guidata dall’ex questore di Palermo, Arnaldo La Barbera, scova un balordo di quartiere, Vincenzo Scarantino e gli mette addosso la casacca prima del mafioso e poi del pentito. Facendogli raccontare una verità posticcia ma utile a chiudere nel più breve tempo possibile le indagini sulla morte di Paolo Borsellino e degli agenti che lo proteggevano. Trent’anni dopo resta la domanda principale: chi aveva interesse a costruire una verità di comodo e perché? Claudio Fava, intanto perché decideste di occuparvi del mistero del depistaggio sulla strage di via D’Amelio? “La decisione la prendemmo quattro anni fa quando decidemmo di ascoltare in Commissione antimafia, alla vigilia della commemorazione della strage, Fiammetta Borsellino. Non tutte le domande che ci mise davanti avrebbero potuto trovare cittadinanza in un’aula di giustizia e così abbiamo deciso di avviare l’indagine parlamentare”. In particolare quali dubbi vi sottopose la figlia di Borsellino? “Ci disse: io mi faccio domande che non hanno risposta. Per esempio: perché mio padre è stato tenuto fuori dalla porta della procura di Caltanissetta che indagava sulla strage di Capaci? Che fine hanno fatto le audizioni al Csm dei magistrati di Palermo sentiti dall’organo di autogoverno dopo che venne alla luce il conflitto tra alcuni pm della procura di Palermo e l’allora procuratore capo Pietro Giammanco?”. Ecco, fermiamoci un attimo. Perché venne messo in piedi il piano che portò all’arresto di finti colpevoli per la strage nella quale morirono Borsellino e gli agenti della scorta? C’era solo la volontà di trovare un colpevole a tutti i costi per dare risposte a un Paese sotto attacco o cos’altro? “C’era la volontà di chiudere la vicenda con un movente risibile: che si fosse trattato solo di una vendetta della mafia. Che dietro la mafia non c’era nessun altro. Eppure, bastava riflettere su una cosa: sei mesi dopo la strage di via D’Amelio sarebbero scaduti i termini del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi). Che necessità aveva la mafia di incrudelire il clima? Di provocare una ulteriore e prevedibile reazione dello Stato?”. Resta allora la domanda: a chi giovava il depistaggio? A chi conveniva una verità posticcia sulla morte di Borsellino? “Guardi, l’unica cosa certa è che c’era l’urgenza di liberarsi di Borsellino. Perché sapeva dell’inchiesta mafia-appalti? Perché aveva appreso di rapporti che avrebbero portato a un “armistizio” tra lo Stato e la mafia? Noi nella relazione indichiamo strade. Certo è che il depistaggio ha giovato anche ad altri attori sulla scena. Borsellino non era un pericolo solo per la mafia. Il depistaggio evitò che nella strage venissero considerate presenze diverse da quella della mafia”. Alcuni dei protagonisti, su tutti l’ex questore Arnaldo La Barbera che condusse le indagini e mise in piedi la verità posticcia, sono morti. E nell’ultimo processo sono imputati solo tre poliziotti... “Questo processo è un modo per dire: abbiamo ricostruito una parte di verità, ma non siamo stati in condizione di farci dire la verità. Eppure qualcuno che è vivo, e che sa, c’è ancora. E dunque capisco la rabbia della figlia di Borsellino”. Dal processo, per esempio, sono usciti i magistrati che indagarono e avallarono la verità posticcia costruita intorno al falso pentito Scarantino... “Sì, tra quei magistrati ci sono state omissioni e reticenze che non credo fossero figlie di un coinvolgimento diretto quanto piuttosto della incapacità di bloccare una indagine che era comunque avviata. Alcuni dei magistrati che abbiamo ascoltato durante l’inchiesta parlamentare, e che presero parte alle indagini sulla strage di via D’Amelio, ci dissero: “Sì, ci accorgemmo che Scarantino non era credibile, ma come potevamo fermarci?”. Credo che questi magistrati fossero presi dall’ansia da prestazione, probabilmente anche dalla volontà di carriera. Rispondevano alla necessità di chiudere al più presto l’indagine”. Per la verità, uno dei magistrati che partecipavano all’indagine sulla strage Borsellino, la dottoressa Ilda Boccassini, si tirò fuori sostenendo che stavano sbagliando tutto, che Scarantino non era credibile, che quella verità era costruita ad arte... “Ecco, appunto. Che fine ha fatto la lettera di Ilda Boccassini nella quale la magistrata diceva “fermiamoci, stiamo sbagliando tutto”? Tutti la ignorarono e nessuno sa dove sia andata a finire”. Insomma sulla scena del grande inganno ci sono i colpevoli, gli ipocriti e perfino gli ignavi... “Io credo che il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, e il poliziotto Antonio La Barbera non fossero sulla scena del depistaggio per caso. Così come è accertato che in via D’Amelio ci fossero presenze strane, a cominciare da uomini del Sisde. Possibile che uomini del Sisde partecipino a un incontro sull’andamento delle indagini e che il governo non ne sappia nulla? Altri, come i magistrati, è vero che sono sulla scena del depistaggio però ci hanno detto che loro non potevano opporsi. Guardi che, per esempio, quando Spatuzza comincia a fare le sue rivelazioni uno dei magistrati impegnati nelle indagini lo ritiene non rilevante. E aggiunge: le sue dichiarazioni potrebbero mettere in dubbio la verità accertata”. Resta in piedi l’ipotesi che il depistaggio sia servito a coprire la trattativa tra la mafia e lo Stato... “È un fatto storico che in quel momento era in atto un tentativo di lanciare un ponte verso la mafia stragista. Ripeto: un fatto storico, non giudiziario. Bisognava chiudere quella stagione consentendo che qualcuno, nei rapporti di potere, sopravvivesse. E Paolo Borsellino, su questo piano, era un ostacolo”. Emilia Romagna. “Un vademecum sui diritti dei detenuti” di Claudia Fortini Il Resto del Carlino, 16 luglio 2022 I rappresentanti delle Camere penali e della Regione ne hanno incontrati quindici: “Spesso non conoscono le misure alternative al carcere”. Oltre le sbarre per illustrare ai detenuti i diritti reali, consegnando loro il vademecum del “Codice Ristretto” e per confrontarsi con i vertici della casa circondariale di Ferrara. Ieri mattina, i rappresentanti delle Camere penali Antonio Vesce, Ettore Grenci, Stefania Pettinacci e Filippo Barbagiovanni Gasparo, insieme a Marcella Zappaterra come rappresentante della Regione, hanno incontrato la direttrice Maria Nicoletta Toscani, la comandante della polizia penitenziaria Annalisa Gadaleta e l’educatrice. Da qui poi, l’incontro con 15 detenuti, ai quali hanno spiegato la guida e il suo utilizzo. “Abbiamo illustrato l’intento dello opuscolo - spiega Filippo Barbagiovanni, responsabile dell’osservatorio della Camera penale di Ferrara. Si tratta di una sintesi di facile utilizzo e comprensione degli istituti di diritto penitenziario”. “È una guida ragionata e sintetica - ha aggiunto la Zappaterra - per aiutare i detenuti ad orientarsi nell’ordinamento della disciplina penitenziaria, una guida per comprendere quando e come possono ottenere misure alternative al carcere”. “Purtroppo spesso i detenuti spinti dall’ ansia, o da un compagno di detenzione che crede di saperne più di loro - racconta Barbagiovanni - fanno istanze personali, senza l’avvocato che tra l’altro vedono pochissimo, che dopo essere state valutate da una commissione, vengono dichiarate inammissibili. Questo vademecum, vuole evitare che vengano presentate istanze senza speranze. Abbiamo mostrato e discusso con una 15 di detenuti, che hanno apprezzato la guida”. La direttrice Toscani e la comandante Gadaleta hanno illustrato alla delegazione quali iniziative fa il carcere di Ferrara nell’ambito dell’inserimento sociale dei detenuti. “Con la distribuzione di questo vademecum sui diritti - ha sottolineato Vesce - vogliamo tendere la mano ai tanti detenuti che non hanno gli strumenti e i mezzi per informarsi su quelle che sono le misure alternative al carcere, rinunciando conseguentemente a un diritto. Abbiamo aggiunto un glossario che racchiuda tutte quelle che sono le possibilità che un detenuto ha rispetto al carcere, a partire dalle cosiddette misure alternative, ma anche rispetto alle differenti tipologie di permessi e al lavoro esterno, con una parte dedicata a chi ha problemi collegati alle dipendenze”. Il sovraffollamento anche a Ferrara resta una problematica che hanno sottolineato “Dovrebbe essere affrontato con attenzione”. Sono 337 i detenuti su una capienza di 244. “La difficoltà è anche il reinserimento sociale - ha aggiunto la Zappaterra -, la maggior parte dei detenuti che sconta la pena nel carcere di Ferrara viene da altri territori”. L’iniziativa si è tenuta contemporaneamente in 10 carceri dell’Emilia Romagna. Toscana. Studiare e laurearsi in carcere, rinnovato accordo per Polo universitario penitenziario toscana-notizie.it Nell’ultimo triennio ci sono stati oltre 400 immatricolati, con un record di 151 nell’anno 2020-2021. Studiare e laurearsi in carcere mentre si sta scontando la pena prevista dalla legge: in Toscana è possibile da oltre venti anni. E ora questa opportunità si rinnova e si potenzia: è stato infatti approvato dalla giunta regionale su proposta dell’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli, il nuovo schema di accordo che permetterà di proseguire la collaborazione tra Regione Toscana, le Università toscane (Atenei di Firenze, Pisa, Siena e Università per stranieri di Siena) e il Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). Per il triennio 2022-2024, la Regione investirà 120.000 euro, a sostegno delle attività del Polo Universitario Penitenziario. “Questi percorsi universitari - ha commentato l’assessora Spinelli - affermano il diritto fondamentale allo studio, sancito dalla Costituzione, consentendo a persone detenute o in esecuzione penale esterna il raggiungimento del titolo universitario. In particolare - aggiunge l’assessora - sono preziosi per il loro recupero e reinserimento sociale, aprendo a nuove opportunità e progetti di vita per quando avranno terminato di scontare la pena. Per questo abbiamo ritenuto opportuno rinnovare l’accordo con Università e amministrazione penitenziaria, per dare continuità, rafforzare e implementare le attività del Polo Universitario Penitenziario. Ringrazio quindi tutti i soggetti coinvolti per aver confermato l’impegno e il Garante regionale dei diritti dei detenuti per aver condiviso il lavoro di definizione del nuovo accordo”. La possibilità di seguire i corsi universitari è destinata ai detenuti e ai soggetti in esecuzione penale esterna presenti sul territorio della Regione che siano in possesso dei requisiti previsti. Il trend di partecipazione è in costante crescita: nell’ultimo triennio, nonostante le limitazioni imposte dal periodo di emergenza sanitaria, gli immatricolati sono stati oltre 400, con un record di 151 nell’anno accademico 2020-2021. L’area degli studi di scienze politiche e quella di studi umanistici e della formazione è la più richiesta dagli studenti che negli ultimi anni hanno incrementato la loro presenza anche nelle discipline economiche e nelle scienze naturali, fisiche e matematiche. Complessivamente nell’ultimo triennio gli studenti hanno sostenuto quasi 850 esami (record di 259 nel 2021) mentre 15 sono stati i laureati, 6 a Firenze e Siena e 3 a Pisa. L’esperienza dell’Università per i detenuti partita a Firenze nel 2000, poi nel 2003 si è allargata Pisa e Siena. Nel 2010 le tre Università si sono consorziate, con il supporto della Regione. Infine nell’ottobre 2017 è stato firmato l’Accordo di Collaborazione tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, la Regione Toscana e le Università, accordo che ora verrà rinnovato. Tra le novità del nuovo schema di accordo l’impegno a promuovere la creazione di sale studio e luoghi funzionali ai colloqui con gli studenti negli istituti, e ancora l’impegno a sviluppare un polo bibliotecario universitario che, avvalendosi anche della rete delle biblioteche, valorizzi le esperienze già in essere con l’obiettivo di promuovere la lettura in carcere e di valorizzare le competenze di ricerca informativa. Infine il nuovo schema di accordo promuove l’organizzazione di attività di comunicazione del progetto formativo, incluso un evento annuale di restituzione delle attività svolte con il coinvolgimento dei direttori degli istituti, degli operatori e degli studenti. Ogni singola Università organizza e gestisce in autonomia i propri percorsi formativi. Una segreteria regionale, che ha sede presso l’Università di Firenze, svolge un ruolo di coordinamento e supporto. Le Università garantiscono la didattica per tutti i corsi di studio attivati, compatibilmente con le risorse logistiche offerte dai singoli istituti penitenziari, impegnando personale docente e amministrativo secondo le necessita e adottando metodiche formative flessibili. Si tratta di un incontro particolare, quello tra Università e carcere, dove la prima istituzione è costretta a rivedere completamene la gestione degli spazi e dei tempi. Qui non è l’allievo che si presenta nel luogo e nei tempi definiti dall’istituzione universitaria, bensì è l’Università che si rende disponibile a entrare in contatto con lo studente nei tempi e luoghi stabiliti dall’amministrazione penitenziaria. Milano. Detenuta a San Vittore ha le doglie: il bambino nasce morto di Manuela Messina La Repubblica, 16 luglio 2022 Interrogazione Pd a Cartabia: “Tutelare la gravidanza”. La donna, al nono mese di gravidanza, era a San Vittore perché all’Icam non c’è servizio sanitario. Trasportata al Niguarda ma il bambino è nato morto. La denuncia di Antigone. La morte in ospedale di un bambino appena nato da una detenuta nel carcere milanese di San Vittore diventa oggetto di una interrogazione alla ministra della Giustizia Marta Cartabia fatta dai deputati Pd in commissione Affari sociali alla Camera. E riapre la questione della carcerazione delle donne incinte e delle madri di bambini piccoli dietro le sbarre. “Il neonato - sono le parole dei parlamentari Paolo Siani, Paolo Lattanzio, Rosa Maria Di Giorgi e Walter Verini - è morto nell’ospedale in cui era stata trasportata la madre in seguito al malessere avvenuto all’interno dell’istituto penitenziario. Il 30 maggio è entrata in vigore un’ordinanza della Procura di Milano che rende obbligatorio l’ingresso negli istituti di pena delle donne incinte o con bimbi di un anno di età in presenza dell’ordine di esecuzione di un arresto. Una svolta che ha provocato le proteste della Camera Penale, in quanto la Procura ha revocato una precedente circolare del 2016 nella quale si raccomandava al contrario di non eseguire questi ordini di arresto. La detenzione, seppur per poche ore, viola infatti i diritti dell’infanzia”. I parlamentari hanno chiesto alla ministra “quali misure intende adottare affinché tali accadimenti non si verifichino più”. La vicenda, di cui ha dato per prima notizia l’Agi, riguarda una detenuta 34enne di origine rom incinta portata a San Vittore per furto e per la quale era stata ordinata la custodia cautelare ai sensi del 285 bis, ovvero dell’articolo di codice di procedura penale che regola la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri. Da quanto trapela, era stata assegnata quindi all’Icam - l’istituto a custodia attenuata per le madri detenute di Milano - il 17 aprile ma, d’accordo con l’autorità giudiziaria, è stata invece trattenuta in carcere per un “miglior monitoraggio” clinico, dal momento che in Icam non c’è un servizio sanitario. La donna, che avrebbe rifiutato l’invio in pronto soccorso per controlli, il 29 maggio aveva iniziato a stare male per le doglie, e per questo era stata mandata al Niguarda. Arrivata all’ospedale, però, il bambino era già morto. Indaga adesso sul caso la procura di Milano, per stabilire le cause della morte del bambino: uno degli aspetti da chiarire è se i dolori erano effettivamente doglie, come certificato dal medico che ha disposto l’invio in pronto soccorso, oppure dolori connessi alla morte del feto. “A inizio giugno, durante la visita nel carcere di milanese di San Vittore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, abbiamo incontrato 8 donne in stato di gravidanza. Un numero altissimo, che non ha pari nel resto del Paese. Oltretutto in un carcere dove manca un servizio ginecologico e medici specialisti. Ci avevano raccontato anche di una nona ragazza, all’ottavo mese di gravidanza, portata d’urgenza in ospedale qualche settimana prima. Oggi apprendiamo che proprio lei, all’arrivo in ospedale il 30 maggio scorso, ha perso il suo bambino”. E’ la denuncia dell’associazione Antigone. “Quella giovane donne sapeva che la sua gravidanza aveva delle complicanze e che il suo bambino sarebbe probabilmente nato prima del nono mese. I medici le avevano raccomandato di recarsi immediatamente in ospedale in casi di dolori. Nel frattempo è stata arrestata. La legge italiana - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - permette che la donna in caso di gravidanza possa non entrare in carcere ed essere sottoposta a diversa misura. Si tratta di una scelta di civiltà, che tutela la salute della donna e del bambino”. “Sul caso specifico - dichiara ancora Gonnella - chiediamo si faccia piena luce, accertando le responsabilità e chiarendo cosa è davvero successo quel 30 maggio nel carcere di San Vittore e quanto tempo è trascorso da quando la donna ha iniziato a lamentare dolori al suo ricovero in ospedale. Vanno chiarite le modalità di trasporto della donna in ospedale: se sia stato fatto sotto controllo medico e in ambulanza oppure se la donna sia stata ammanettata e accompagnata in ospedale scortata solo dalla polizia penitenziaria. Serve inoltre che si riservi maggiore attenzione alla tutela della gravidanza”. Viterbo. Ucciso dal compagno di cella, chiesti un’assoluzione e un rinvio a giudizio di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 16 luglio 2022 Detenuto ucciso in carcere dal compagno di cella, chiesti un’assoluzione e un rinvio a giudizio. L’assoluzione per il penitenziario che ha chiesto l’abbreviato. Ieri il pubblico ministero Michele Adragna ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo per il vicecomandante della penitenziaria difeso dall’avvocato Marco Russo che ha scelto di essere giudicato davanti al gup Savina Poli con il rito abbreviato. Il poliziotto, che ha chiesto di essere interrogato, è stato sentito dal magistrato un paio di settimane fa, prima della discussione di ieri, nel corso della quale, per l’appunto, è stata la stessa procura, per prima, a chiedere il proscioglimento dell’imputato dall’accusa di omicidio colposo. E’ stato invece chiesto il rinvio per il collega, difeso dall’avvocato Giuliano Migliorati, che ha scelto il rito ordinario. Secondo l’accusa, i poliziotti non potevano non sapere che a causa della sua pericolosità, nota a tutti e abbondantemente documentata, l’assassino doveva stare in cella da solo. Così come non potevano non sapere che c’erano due celle “singole” disponibili quando è stato trasferito nella stanza della vittima. Al termine dell’udienza il giudice Poli ha rinviato al prossimo 28 settembre per le repliche e la sentenza. Grande assente la parte civile, che così facendo ha implicitamente rinunciato alla costituzione. Al centro della vicenda la tragica morte di Giovanni Delfino, il 61enne viterbese recluso a Mammagialla per un cumulo di pene per reati minori che nella primavera di tre anni fa è stato ammazzato a sgabellate dal compagno di cella che, per i suoi disturbi mentali, avrebbe dovuto trovarsi in una stanza singola. Era la sera del 29 marzo 2019 quando il 37enne indiano Khajan Singh, seminfermo di mente, ha massacrato con una decina di colpi di sgabello la vittima. Il 20 aprile 2021 l’assassino è stato condannato in secondo grado a 12 anni contro i 14 anni del primo grado. “L’ho ucciso perché non mi faceva vedere Rai Uno e non mi dava l’accendino”, ha detto l’omicida agli agenti penitenziari, chiedendo di fumare subito dopo il delitto. Secondo la perizia psichiatrica del professor Giovanni Battista Traverso alla base ci sono “problematiche a sfondo sessuale”. Sarebbe convinto che il suo pene si sia rimpicciolito e avrebbe problemi di disfunzione erettile. Fatto sta che in un mese e mezzo ha aggredito quattro persone. Noti a tutti i precedenti di Singh. Il 14 febbraio 2019 è stato arrestato a Cerveteri per il tentato omicidio del convivente omosessuale. Due giorni dopo, nel carcere di Civitavecchia, ha tentato di uccidere il compagno di cella, salvato da un agente prontamente intervenuto che a sua volta è stato preso per il collo. Motivo per cui è stato sottoposto a Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Pochi giorni prima di uccidere Delfino, mentre era già stato trasferito a Mammagialla, il 36enne aveva fracassato uno sgabello perché l’addetto alle pulizie non aveva risposto a una sua chiamata. Castrovillari (Cs). 21 detenuti formati nel settore edile di Marco Belli gnewsonline.it, 16 luglio 2022 Negli ultimi due mesi hanno ricevuto 240 ore di formazione serrata, con moduli di 4 ore giornaliere, sui temi dell’auto-imprenditorialità, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, diritti e i doveri dei lavoratori e, nello specifico, sulla realizzazione di opere di muratura, dalla scelta dei materiali alla messa in posa dei pavimenti. Ieri, a conclusione del percorso svolto, 21 detenuti della casa circondariale di Castrovillari (Cs) hanno ricevuto un attestato di formazione professionalizzante, che verrà inserito nella banca dati dell’ente formatore e dell’agenzia per il lavoro. Attestazione che consentirà una opportunità lavorativa nel settore edile sia all’interno che all’esterno del carcere. E che alcuni di loro vedranno realizzarsi immediatamente, poiché a settembre partiranno le prime assunzioni da parte di una delle aziende edili del territorio. Nello stesso periodo sarà avviata la seconda edizione del corso che, in futuro, verrà esteso anche ad altri profili di maestranze. Si è così concluso con successo un progetto che ha puntato all’inclusione e al reinserimento sociale, offrendo una concreta opportunità di riscatto a chi deve riconciliarsi con la società per gli errori commessi in passato. Lo ha spiegato bene Giovanni, uno dei 21 corsisti, in uno scritto, letto in apertura, in cui ha ringraziato tutti: “Questo non è il posto che avevamo voluto, non è il posto che avevamo cercato… Ma anche nel buio più assoluto, a volte, un raggio di luce trova il modo di arrivare in forma di corso…. E poi si forma un gruppo… Sudando insieme, sorridendo insieme, lavorando insieme”. Alla cerimonia - che si è aperta con il saluto del prefetto di Cosenza, Vittoria Ciaramella, e si è svolta alla presenza di autorità del Governo regionale e locale, del presidente del tribunale di Castrovillari e di rappresentanti della magistratura di sorveglianza - sono intervenuti per l’Amministrazione Penitenziaria il direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu, il provveditore regionale per la Calabria, Liberato Guerriero, e il Direttore dell’istituto di Castrovillari Giuseppe Carrà. Con loro hanno preso la parola i rappresentanti dei soggetti partner del progetto: il presidente nazionale di FeNaILP Costruttori Vincenzo Zaccaro, il general manager di Form Retail Bruno Laudati, il governatore dei Lions Castrovillari Saverio Spina. Presenti anche i familiari di alcuni dei reclusi coinvolti. La cerimonia di consegna degli attestati si è svolta nel Salone polivalente dell’istituto penitenziario, appositamente rinnovato e rifinito proprio dai detenuti del laboratorio di pratica edile, che hanno abbattuto pareti, realizzato un piccolo palco, creato le nuove canaline per gli impianti e tinteggiato tutto l’ambiente. La sala è stata inoltre impreziosita dal lavoro delle detenute del laboratorio sartoriale femminile che, per l’occasione, hanno voluto contribuire all’evento realizzando i nuovi tendaggi. “La Direzione generale dei detenuti e del trattamento - ha sottolineato De Gesu nel suo intervento - ha seguito con molta attenzione questo progetto, ideato in periodo di pandemia e realizzato appena è stato possibile. Un modello vincente e innovativo che potrà essere replicato anche in altre realtà”. Gli ha fatto eco il Provveditore Guerriero: “Percorsi di formazione come questo aiutano anche il clima e la vita all’interno dell’istituto, a maggior ragione quando, come in questo caso, è coinvolta una parte così ampia della società e del territorio”. Entusiasta il direttore Carrà: “È una iniziativa senza precedenti in Calabria e probabilmente unica anche nel meridione d’Italia, come ci dicono i rappresentanti nazionali delle associazioni con cui abbiamo lavorato. Abbiamo avuto un grandissimo riscontro sul territorio, nell’ottica di quell’integrazione sociale che l’istituto ha fin qui perseguito con percorsi di carattere teatrale, culturale e, ora, anche di avviamento al lavoro”. L’iniziativa è nata dal protocollo d’intesa sottoscritto il 28 aprile scorso [link a https://www.gnewsonline.it/castrovillari-formazione-e-avviamento-al-lavoro-per-20-detenuti/] dall’istituto penitenziario con l’Associazione Lions club Castrovillari, l’Associazione Nazionale Fenailp costruttori edili e l’agenzia di promozione professionale Form Retail. La proposta progettuale parte dall’Agenzia Interinale Adecco s.p.a., agenzia dispensatrice di servizi, ha accolto, tra i tanti progetti di alto spessore proposti da Form Retail, ente di formazione attivo sul territorio nazionale, il percorso di rinserimento dei detenuti della Casa Circondariale di Castrovillari. Roma. La SIMSPe presenta progetto di ricerca e intervento per i detenuti sex offenders dire.it, 16 luglio 2022 Mondo scientifico e accademico al lavoro per costruire un nuovo modello di trattamento dei detenuti sex offender e di formazione degli operatori sanitari. È il progetto di ricerca-intervento sui detenuti per reato a sfondo sessuale PR.O.T.E.C.T. Presentato il progetto europeo PROTECT per valutare i reati a sfondo sessuale dei detenuti in carcere e per formare gli operatori sanitari. Mondo scientifico e accademico al lavoro per costruire un nuovo modello di trattamento dei detenuti sex offender e di formazione degli operatori sanitari. È il progetto di ricerca-intervento sui detenuti per reato a sfondo sessuale PR.O.T.E.C.T. - PreventiOn, assessment and Treatment of sex offenders, finanziato dall’Unione Europea nell’ambito dei progetti tematici sulla Giustizia. Il progetto è stato proposto dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria SIMSPe Onlus, attiva da oltre un ventennio negli Istituti Penitenziari italiani, in partnership con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - DAP, l’Università Sapienza di Roma, l’Università di Braga (Portogallo) e l’Associazione non Governativa croata Healthy City. Le fasi attuative hanno previsto la mappatura e lo scambio delle buone prassi a livello europeo per la valutazione e il trattamento degli autori di reato a sfondo sessuale, per poi mettere a punto con i partner un protocollo per la valutazione di questi detenuti basato sugli esiti delle fasi precedenti. Questo protocollo è stato valutato su 96 autori di reato a sfondo sessuale (64 italiani e 32 portoghesi) presso gli istituti penitenziari di Arghillà (Reggio Calabria), Carinola (Caserta), Terni, Velletri (Roma) e Viterbo. “I risultati del protocollo di valutazione dei detenuti per reati a sfondo sessuale hanno mostrato che circa il 14% degli autori di reati sessuali ha riportato un livello di devianza moderato/grave di convinzioni distorte relative ai bambini - evidenzia Luciano Lucanìa, Presidente SIMSPe - Il 28% del campione totale (ma il 53% degli italiani) ha segnalato un livello di devianza moderato/grave legato a distorsioni cognitive sull’agito sessuale. I risultati hanno anche mostrato come gli autori di reati sessuali che hanno subito abusi emotivi durante la loro vita riportano livelli più elevati di empatia emotiva, depressione, ansia, ideazione paranoica e psicotismo rispetto a coloro che non ne hanno subito”. Tra gli obiettivi del progetto vi è anche una formazione adeguata delle diverse figure professionali in diretto contatto con gli autori di reato a sfondo sessuale (personale del comparto ministeri, polizia penitenziaria e personale sanitario), per un numero complessivo di 120 operatori. Anche per questo scopo è stato messo a punto un protocollo che possa superare il pregiudizio e lo stigma. “L’intero percorso formativo, durato l’intero mese di marzo 2021 per un totale di 40 ore, è stato strutturato in 2 corsi distinti di 20 ore ciascuno: Corso di formazione sul Protocollo PR.O.T.E.C.T. e Corso di formazione sullo Stigma nei confronti dei sex offender - spiega la Prof.ssa Irene Petruccelli, Professore associato di Psicologia Sociale, Universitas Mercatorum - Il primo corso è stato finalizzato alla presentazione dei risultati del protocollo sperimentale PR.O.T.E.C.T., e in particolare ha riguardato la mappatura dello stato dell’arte a livello europeo sui sex offender; lo scambio di buone pratiche europee e nazionali; la formazione per lo sviluppo e l’implementazione di un protocollo di assessment diagnostico-terapeutico per un’approfondita conoscenza della personalità del reo e successiva possibile pianificazione personalizzata dell’intervento; la valutazione del rischio di recidiva. Il secondo corso, focalizzato sui processi di etichettamento, marginalizzazione e gli stereotipi nei confronti dei sex offender, ha avuto come obiettivo quello di sviluppare la capacità di gestire i sentimenti di riprovazione e pregiudizio, al fine di ridurre lo stigma che si può generare nei confronti dei sex offender”. Il percorso formativo è stato proposto in primis agli Istituti nei quali è stata svolta la fase di ricerca (Viterbo, Velletri, Terni, Carinola, Reggio Calabria plesso “Arghillà”) e poi allargato anche agli operatori in servizio presso gli Istituti di Napoli Poggioreale, Benevento, Chieti, Palermo Pagliarelli, Palermo Ucciardone, Augusta, Sassari, Matera e Altamura. Gli esiti del progetto PR.O.T.E.C.T. vengono presentati il 18 luglio presso l’Università Mercatorum di Roma. Introducono i temi la Prof.ssa Maria Antonella Ferri, Preside dell’Ateneo; Carlo Renoldi, Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria; Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria; Prof. Marino Bonaiuto, Professore ordinario di Psicologia Sociale - Sapienza Università di Roma. Discutono del progetto e dei suoi risultati la Prof.ssa Silvia Cataldi, Professore associato di Sociologia Generale - Sapienza Università di Roma; Prof. Giulio Di Mizio, Professore associato di Medicina Legale - Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro; Chiara Frontini, Project Manager SIMSPe e da pochi giorni anche sindaco di Viterbo; Prof.ssa Uberta Ganucci Cancellieri, Professore associato di Psicologia Sociale - Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria; Maria Donata Iannantuono, Direttore del Carcere di Velletri, presso il quale la progettualità è stata proposta ed attuata; Prof.ssa Irene Petruccelli, Professore associato di Psicologia Sociale - Universitas Mercatorum. Conclude Lina Di Domenico, già Vice Capo del DAP ed oggi magistrato consulente la Commissione Antimafia del Parlamento. La moderazione sarà di Carla Ciavarella, Ufficio del Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Direttore dell’Ufficio V - Coordinamento dei Rapporti di Cooperazione Istituzionale. Con questo progetto - significativo per le sinergie concettuali ed operative nel concreto sviluppate - è stata aperta una pagina nuova sia nel trattamento penitenziario di questa particolare tipologia di reclusi, che nella collaborazione istituzionale fra lo stesso DAP, gli Atenei e le Società Scientifiche. Reggio Calabria. Garante detenuti: “in arrivo 3 medici per il carcere di Arghillà” di Rocco Fabio Musolino strettoweb.com, 16 luglio 2022 Confronto coi rappresentati sanitari del territorio comunale e delle istituzioni carcerarie: lo scopo è “garantire e tutelare il diritto alla salute delle persone detenute”. “Un confronto chiaro, nel rispetto delle diverse posizioni, abbiamo analizzato le criticità e deciso di procedere con spirito di leale condivisione al fine di raggiungere il risultato: garantire e tutelare il diritto alla salute delle persone detenute”. Lo ha affermato la garante dei diritti delle persone prive di libertà di Reggio Calabria, Giovanna Russo, al termine di una riunione coi rappresentati sanitari del territorio comunale e i rappresentanti delle istituzioni carcerarie, convocati per un approfondimento relativo alle misure risolutive per superare i problemi che investono la sanità penitenziaria. “Sino ad aprile scorso - evidenzia Russo - le emergenze erano preoccupanti, ma il confronto serrato, continuo e condiviso ha determinato oggi che l’allarmante carenza dei medici su Arghillà e non solo, viene scongiurata dalla recente accettazione dell’incarico da parte di ben tre medici”. “Persone di straordinaria competenza e sensibilità - conclude - che hanno risposto si alla chiamata per la loro vocazione di essere professionisti del settore”. Alla riunione hanno preso parte, oltre alla garante, per il Tribunale di sorveglianza la presidente Daniela Tortorella, la commissaria Asp Reggio Calabria Lucia di Furia, il commissario GOM di Reggio Calabria Gianluigi Scaffidi, la comandante dell’Istituto penitenziario di Reggio Calabria Plesso Arghillà Maria Luisa Alessi in rappresentanza anche della direzione, l’ispettrice Daniela Iiriti in rappresentanza del comandante di Reggio Calabria, i rappresentanti le organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria Maurizio Policaro (Osapp), Erminio Battista (Sappe), Massimo Musarella (Uspp) e l’infermiere Filippo Errante per le professioni sanitarie rappresentante sindacato NurSind. Crotone. Presentata la relazione annuale del Garante dei detenuti lanuovacalabria.it, 16 luglio 2022 Nella seduta del Consiglio comunale del 14 luglio, è stata presentata alla Città la Relazione annuale 2022 del Garante dei detenuti Federico Ferraro. Il Garante ha espresso vivo apprezzamento per la conclusione del lungo iter che ha portato alla sottoscrizione della convenzione tra l’Ente comunale e l’Amministrazione penitenziaria circa i lavori socialmente utili ex art 20 ter dell’Ordinamento penitenziario, che secondo il programma concordato tra il Comune di Crotone e la Direzione Penitenziaria, vedrà un momento importante di formazione entro il mese di luglio, mentre, a partire dal 1 agosto, 7 detenuti individuati ed autorizzati dalla competente Autorità giudiziaria prenderanno avvio al lavoro nelle aree individuate dall’Ente: Villa Comunale, P.zza Umberto Orto Tellini Parco Endride (via Miscello da Ripe). Si tratta di una proposta che era stata inizialmente presentata dal Garante comunale dei detenuti al Comune di Crotone, di concerto con la direzione dell’Istituto, nel lontano 2018, e che oggi prende avvio come pagina nuova ed inedita per l’intera comunità di Crotone. Si esprime un plauso all’Ente comunale, al Sindaco Voce, all’Assessore al Verde pubblico Pitingolo, al Consiglio comunale, ed in particolare alla III e IV Commissione Consiliare Permanente, per il tramite dei rispettivi Presidenti Passalacqua e Meo, ed a tutti i Consiglieri Comunali, per l’attenzione e sensibilità mostrata verso la detenzione ed il reinserimento socio-lavorativo, e per l’impegno nell’aver contribuito al progetto istituzionale dei lavori di pubblica utilità, garantendone sia la copertura finanziaria parziale dell’ambito assicurativo che il vestiario da lavoro. In riferimento ai dati del 2022, dalle ispezioni e dalle comunicazioni formali dell’Amministrazione penitenziaria, abbiamo riscontro della presenza totale al 27 giugno 2022 di 124 persone recluse: 85 di nazionalità italiana e 39 stranieri. I reati perpetrati dalla popolazione detenuta riguardano principalmente delitti contro il patrimonio, violazione della legge sull’immigrazione- Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, violazioni ex art. 73 DPR 309 del 1990 - Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti. Vi sono 6 persone detenute ammesse all’art. 21 Ord. Penitenziario. Proseguono i colloqui nella sala avvocati e magistrati con idonee misure anti contagio da Covid e pannelli in plexiglass. Circa l’andamento dello stato pandemico, riscontrato nel mese di maggio, che ha necessitato l’adozione di un protocollo sanitario, emanato dal Dipartimento di Prevenzione dell’ASP di Crotone- monitorato costantemente dal Garante comunale, la situazione è ritornata alla normalità. In riferimento alle criticità, occorre evidenziare con rammarico il permanere dell’atavico problema del sovraffollamento carcerario e la incompatibilità con le necessità di distanziamento sociale: negli anni della pandemia in molte carceri italiane si sono dovuti inventare spazi fruibili per consentire le quarantene, i distanziamenti a fini preventivi; sono state create in itinere alcune sezioni di isolamento sanitario e tuttavia si sono sviluppati inevitabilmente focolai di infezione. E’ emerso come dato innegabile che, per poter disporre di spazi ai fini del distanziamento da Covid-19, si deve arrivare massimo all’80 % dei posti occupati disponibili sul totale delle postazioni di detenzione in ogni Istituto di pena. Ricca di spunti è stata l’attività istituzionale e i momenti di valorizzazione e sensibilizzazione sui diritti umani e libertà: si sono svolte diverse ispezioni, in carcere e presso le camere di ricovero dell’Ospedale, attività svoltesi congiuntamente al personale di Polizia penitenziaria in servizio. Presso l’Ospedale civile San Giovanni di Dio è stato necessario, segnalare una rilevante preoccupazione per le condizioni igienico-sanitarie dei locali visitati, risultanti carenti sia per quanto concerne la situazione impiantistica elettrica, la presenza di umidità e la pavimentazione; successivamente si sono svolti interventi di adeguamento parziale alle raccomandazioni espresse da questa Autorità, si attendono ad oggi ulteriori aggiornamenti. Come è noto, l’ambiente penitenziario e dei luoghi di restrizione alla libertà personale è un ambiente faticoso, anche nell’immaginario collettivo ed il personale che vi lavora ha vissuto molte sfide in questi ultimi anni, così come le hanno vissute i detenuti; tuttavia è necessario che anche chi lavora in carcere riceva una adeguata gratificazione ad investire e scegliere quel posto di lavoro. In questi mesi, risposte significative agli appelli espressi dal Garante comunale per l’emergenza Covid, sono pervenute al carcere da diverse realtà e vivo apprezzamento è stato espresso per le recenti donazioni effettuate dalla Croce Rossa di Crotone, dalla Confcommercio e da privati cittadini. Nell’anno in corso c’è stato anche l’accoglimento di un’istanza di trasferimento per motivi di ricongiungimento familiare, grazie al sollecito di questo Ufficio di garanzia ed il detenuto è ritornato nella propria regione di provenienza. Alla luce dei dati evidenziati occorre, quindi, intervenire sulle criticità più urgenti e di seguito riportate: 1-intervenire per ridurre le presenze di detenuti, sempre numericamente superiori rispetto allacapacità regolamentare dell’Istituto detentivo, ed alla capienza tollerabile; 2-occorre, altresì, ampliare l’organico addetto al servizio di mediazione linguistico e culturale per l’intero Istituto, in considerazione del numero di stranieri che sono reclusi attualmente, stante l’insufficienza di un solo addetto per l’intera percentuale di detenuti stranieri; 3- occorre intervenire al più presto sull’impianto idrico della struttura penitenziaria, attraverso una totale sostituzione del medesimo con uno nuovo. 4- In considerazione delle percentuali di sovraffollamento e dell’appena conclusa emergenza pandemica, occorre da parte delle autorità sanitarie predisporre un incremento della copertura del servizio sanitario penitenziario, con un passaggio dall’ H 12 almeno all’ H14, e quindi oltre il consueto orario di copertura dalle 08.00 alle 20.00. 5-In riferimento alle attività motorie da espletare in palestra, attualmente sospese, occorre attivarsi per l’istallazione di un idoneo impianto di refrigerazione per consentire alla popolazione detenuta, l’attività motoria anche durante il periodo estivo, soprattutto alla luce dei cambiamenti climatici e delle alte temperature di questi periodi. 6- Occorre individuare, per le camere di pernottamento presso l’ospedale civile, nuovi locali, come è già in progetto da parte della Dirigenza ASP; 7-Occorre affrontare e risolvere la problematica sulle camere di sicurezza presso i presidi di Polizia. Un’opportunità fondamentale per la soluzione delle carenze strutturali è rappresentata infine dal Fondo complementare del Pnrr, alla lettera “g”, prevede lo stanziamento di ben 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori. Come noto il soggetto attuatore dei progetti sarà il Mit”. Invito quindi le istituzioni, tutte, ad attivarsi pe poter usufruire con apposita ed adeguata progettualità, delle opportunità anche per l’adeguamento delle camere di sicurezza e per le altre carenze strutturali sollevate dall’Autorità di garanzia Livorno. Carceri, accordo Sant’Anna-Ministero per far diventare Gorgona un modello di Stefano Taglione Il Tirreno, 16 luglio 2022 La firma alla presenza della ministra della Giustizia, Marta Cartabia: “Un esempio da replica altrove, lo sosterremo”. “Sono venuta a Gorgona perché le realtà bisogna vederle con i nostri occhi e questa è virtuosa. L’accordo che firmiamo con la Scuola superiore Sant’Anna vuole studiare l’isola con metodo scientifico per trarne gli elementi di forza e criticità che le permettono di diventare un modello non soltanto virtuoso, ma replicabile, vedendo quali sono gli ingredienti che ne danno la sostanza”. Con queste parole la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il 15 luglio ha firmato l’intesa fra l’amministrazione penitenziaria e l’università pisana: l’obiettivo è capire l’efficacia del modello rieducativo di Gorgona. Come? Analizzando il tasso di recidiva dei detenuti che a fine pena lasciano l’ex colonia penale agricola. Se una volta in libertà non commettono più reati vuol dire che il progetto funziona e quindi - stando alle parole della ministra - potrà diventare un punto di riferimento. “Da parte nostra - ha specificato - c’è la volontà di andare avanti con questo progetto anche per i prossimi anni. Gorgona permette ai detenuti una maggior libertà di movimento dovuta ai suoi spazi. Il carcere lo vedo come una speranza. Voglio ripetere le parole del marchese Frescobaldi, che durante il pranzo (a cucinare Antonio Colasanto, secondo classificato di Masterchef 10 ndr) mi ha detto: “Lo sente il sapore di questo vino? È il sapore della speranza”“. Il progetto partirà subito e dovrà analizzare il comportamento dei detenuti una volta lasciata Gorgona. “Secondo alcuni studi - spiega il garante livornese dei Marco Solimano - dove non ci sono progetti di reinserimento sociale il tasso di recidiva per gli stessi reati è del 75-80%, mentre dove questi percorsi esistono scende al 30%. A Gorgona non c’è mai stato uno studio del genere, siamo noi che lo abbiamo sempre sostenuto e sono sicuro che i numeri ci daranno ragione”. La rieducazione - secondo il garante - non è solo un dovere morale e sociale, ma rappresenta anche un investimento economico: “In media un detenuto costa alla collettività 160 euro al giorno”, conclude. “Spesso in Italia non sappiamo valorizzare ciò che funziona - aggiunge la rettrice della Scuola superiore Sant’Anna, Sabina Nuti - e il nostro studio valuterà i punti di forza e di debolezza in modo rigoroso”. “Inizialmente analizzeremo la situazione esistente - conferma una delle responsabili scientifiche del progetto, la professoressa Elena Vivaldi, che condivide questa responsabilità con il collega Alberto Di Martino - capendo chi sono i detenuti e che caratteristiche hanno. L’obiettivo è capire quali altre iniziative possiamo lanciare sia qui, che altrove, affinché il reinserimento nella società funzioni”. Cartabia ha poi visitato le strutture del marchese Lamberto Frescobaldi, che sull’isola produce un vino “che ha fatto il giro d’Europa - ha sottolineato la ministra - visto che lo abbiamo donato ai ministri della Giustizia venuti a Venezia lo scorso dicembre per la ministeriale dedicata alla giustizia riparativa”. Subito prima, al porto, accompagnata dall’ex direttore del carcere Carlo Mazzerbo aveva invece visitato la mostra del fotografo e agente della polizia penitenziaria Pierangelo Campolattano. Il tutto in un clima molto informale, con l’esponente del Governo Draghi che non si è sottratta alle foto, intrattenendosi a lungo a parlare con le moltissime presenti. Poi, nel tardo pomeriggio, è ripartita in elicottero per Roma. Lecce. “Parole incatenate”, storie, canzoni e poesie nate in carcere e messe in scena lecceprima.it, 16 luglio 2022 Uno spettacolo di rimembranze e suggestioni approda al Centro Multiculturale di Crocevia nell’ambito del Progetto Crescere Informando, finanziato dalla Regione Puglia con l’Avviso pubblico “Bellezza e legalità per una Puglia libera dalle mafie”. Questa speciale esperienza teatrale è stata immortalata nel celebre film, del 2012, “Cesare deve morire”, dei fratelli Taviani, vincitori dell’Orso d’oro di Berlino. L’opera scritta e diretta da Antonio Turco - responsabile delle attività culturali presso la Casa di reclusione di Rebibbia - andrà in scena il 16 luglio prossimo. “Parole incatenate” della Compagnia “Stabile assai” muove da canzoni per amori lacerati, poesie dedicate alle proprie donne, canti della grande tradizione napoletana intonati nelle celle e da omaggi di grandi autori del passato, come Pierpaolo Pasolini, Raffaele Viviani, Ignazio Buttitta, Rosa Balestreri, Salvatore Di Giacomo, cantori della emarginazione popolare. L’evento è presentato grazie alla sinergia tra l’APS Camera a sud (capofila), AICS Comitato provinciale di Lecce, AICS Direzione Nazionale e Compagnia “Stabile assai”, nel percorso pubblico del Progetto Crescere informando. Introdurrà l’evento il giornalista Massimo Melillo. La Compagnia Teatro Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma è un gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano, fondata nel 1982 da Antonio Turco,si serve dell’attività teatrale come strumento di socializzazione e riadattamento. Formano la compagnia, detenuti e da detenuti semi-liberi, che fruiscono di misure premiali, oltre che da operatori carcerari e da musicisti professionisti. I testi degli spettacoli sono inediti, scritti con la collaborazione di tutti i detenuti.Al momento, compongo la compagnia: Cosimo Rega, Paolo Mastrorosato, Massimiliano Taddeini, Massimo Tata, Angelo Calabria, Rocco Duca, Patrizia Spagnoli, Patrizia Patrizi, Flaminia Lera, Iris Basilicata, Laura Liberto, Linda Cocciolo, Luca Mariani. Questo particolare gruppo di teatranti ha collezionato, negli anni, diversi riconoscimenti, tra gli altri il “Premio Massimo Troisi”. Altrettanto significativo è il documentario girato su questo esempio di inclusione sociale: “Offstage”, del regista Francesco Cinquenni. Lo spettacolo si terrà presso il Centro Multiculturale Crocevia, via Guido Dorso 1 a Lecce, il 16 luglio 2022, dalle ore 21.00. Lo spettacolo sarà ripresentato il giorno seguente, alla stessa ora, al Palazzo Marchesale di Melpignano, con la collaborazione della stessa amministrazione Comunale. Messina. Il teatro luogo di libertà di Elisabetta Reale Gazzetta del Sud, 16 luglio 2022 Per la prima volta i detenuti-attori di Gazzi si esibiranno fuori dal carcere. Uno spazio prezioso e fecondo di libertà, in cui raccontare e raccontarsi, condividere storie ed emozioni attraverso le parole del teatro che si fondono alla musica e alla danza. Arriva un altro importante tassello per il progetto di formazione teatrale che l’associazione D’arRteventi, diretta da Daniela Ursino, porta avanti ormai da diversi anni all’interno della Casa Circondariale di Gazzi, grazie al supporto e al sostegno di enti ed istituzioni attente e sensibili al valore dell’arte come spazio di rieducazione e formazione. Mercoledì 20 luglio, con inizio alle 20.30, nella suggestiva cornice del Teatro Greco, all’interno del Parco Archeologico di Tindari, nell’ambito della stagione del Tindari Festival, sotto la direzione artistica dell’attore, autore e regista Tindaro Granata, organizzato dal Comune di Patti, andrà in scena “Storie da Liolà” di e con Mario Incudine (anche regista e autore delle musiche originali). Lo spettacolo, nell’ambito del progetto “Tindari a cielo aperto-uno spazio di Libertà”, ideato da Daniela Ursino e Tindaro Granata, è stato pensato come occasione per esaltare il lavoro di formazione teatrale all’interno della Casa Circondariale di Messina, e per la prima volta vedrà la compagnia di detenuti-attori della Libera Compagnia del Teatro per Sognare incontrare, fuori dagli spazi del carcere, il pubblico ed esibirsi anche davanti ai familiari. In questo viaggio d’arte e di emozioni, i detenuti-attori sono stati seguiti per la progettualità dai coach Giampiero Cicciò e Antonio Previti. Un mosaico di voci e storie animeranno la scena: detenuti e detenute insieme ad artisti e artiste del teatro italiano (attrici, attori, danzatrici, danzatori, musicisti) studentesse universitarie della facoltà Scienze politiche e Giurisprudenza di Messina e dieci donne pattesi che per la prima volta abiteranno il Teatro Greco della propria città in veste di attrici. Lo spettacolo è stato reso possibile grazie alla consolidata collaborazione con la direttrice della Casa circondariale di Messina Angela Sciavicco, la Polizia penitenziaria con la comandante Caterina Pacileo, gli educatori con la capo-area Letizia Vezzosi, il Tribunale di Sorveglianza con la presidente Francesca Arrigo, per tutte le autorizzazioni e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. In apertura la firma del Protocollo d’intesa per il progetto triennale, tra la città di Patti con il Tindari Festival, l’associazione D’aRteventi e la Caritas Diocesana di Messina che sostiene il progetto attraverso l’impegno dell’arcivescovo Giovanni Accolla e del direttore Nino Basile, la Casa circondariale di Messina e l’Università. In scena gli attori detenuti della Libera Compagnia del Teatro per Sognare della Casa Circondariale di Messina: Alessio P. Salvatore B, Gaetano B, Angelo B, Emanuele C, Giovanni F, Giovanni P, Gaetano R, Francesco T, Domenico P, Lorenzo S., Ciccio R., le voci fuori campo sono invece delle attrici detenute della Casa Circondariale di Messina: Rita C, Assunta C, Sonia C, Vanessa M, Erminia T., in scena gli attori e le attrici Mario Incudine, Giampiero Cicciò, Rita Abela, Federica De Cola, Aurora Miriam Scala. Musici Antonio Vasta, Pino Ricosta, Michele Piccione, Manfredi Tumminello, le studentesse “curtigghiare” sono Alice Buggè, Dorina Damani, Giulia Lanfranchi, Cristina Maiorana, Adriana Malignaggi, Alessia Mazzù, Ilenia Mobilia, Angela Triolo, Gaia Vizzini. Le ballerine e ballerino sono Chiara Costa, Maria Luisa Cucinotta, Giulia Nunnari, Chiara Paladino, Rebecca Pianese, Chiara Rizzo, Daniele Sciarrone che danzeranno le coreografie di Mariangela Bonanno e Alice Rella. Le signore “curtigghiare” di Tindari sono Mary Alessandro, Aurora Casella, Maria Costanzo, Serena De Luca, Lorella Finocchiaro, Francesca Gulino, Antonella Lembo, Carmelina Lipari, Tindara Sciammetta, Titti Spinella. Aiuto regia Antonio Previti, assistente alla regia Moreno Pio Mondì, il direttore di scena è Nunzio Laganà, coordinatore della logistica dei detenuti-attori William Caruso. Il progetto vuole raccontare alla società esterna il carcere attraverso il lavoro di formazione teatrale, svolto da D’aRteventi, all’interno della Casa. Firenze. Conferenza di anteprima del festival “Spiragli - Teatri dietro le quinte” toscanalibri.it, 16 luglio 2022 Parole, fotografie e musica per raccontare il progetto che unisce carcere e città. Si terrà sabato 16 luglio alle ore 17.30 alla Biblioteca delle Oblate di Firenze l’evento organizzato dalla compagnia teatrale Interazioni Elementari, dedicato al rapporto tra carcere e città. In apertura, la conferenza di anteprima del festival “Spiragli - Teatri dietro le quinte”, in cui sarà svelata la quarta edizione della rassegna d’arte itinerante, pensata per gettare un ponte tra il carcere e la città, che si svolgerà fino a settembre. A seguire, sabato, l’inaugurazione della mostra fotografica sui primi cinque anni di attività della compagnia, che rimarrà esposta fino a sabato 30 luglio, e che incornicia attraverso fotogrammi e ritratti quelli che sono stati i momenti topici del progetto artistico fiorentino. A chiusura, un aperitivo e il concerto della Draba Orkestar, quartetto di musica gitana, aperto al pubblico. Organizzato dalla Compagnia Interazioni Elementari, con la direzione artistica di Claudio Suzzi, il festival “Spiragli - Teatri dietro le quinte” proporrà un articolato programma di eventi realizzati sia dentro che fuori dal carcere minorile di Firenze. Si partirà dalla fine di luglio con due laboratori ispirati alla storia del burattino Pinocchio, uno di teatro fisico e circense curato da Lapo Botteri e Alessio Targioni e l’altro di costruzione di maschere curato dagli scenografi Olimpia Bogazzi e Khalilurraham. Ad agosto sarà il momento dedicato alla scrittura creativa, con un laboratorio sul racconto La Metamorfosi di Kafka, a cura dello scrittore Alessandro Raveggi. Settembre sarà il momento delle nuove produzioni di spettacoli, che vedranno in scena - ad esempio - la Compagnia Interazioni Elementari il 10 settembre, in carcere, con un primo studio sulle avventure di Pinocchio, interpretato dai giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze. Il programma del festival si arricchisce di mostre d’arte e tavole rotonde che si svolgeranno in numerosi luoghi cittadini, coinvolgendo tutti e cinque i Quartieri del Comune di Firenze (Q1, Q2, Q3 Q4 e Q5), in un percorso di conoscenza e cultura sulle marginalità sociali che si renderanno visibili grazie agli spettacoli e agli eventi in cartellone. Spiragli si chiuderà il 29 settembre all’Ultravox, con il concerto della band romana dei Veeblefetzer e con il dj set del loro front man, “Mondo Cane”. Dice il direttore artistico Claudio Suzzi: “La nostra missione è offrire tante occasioni ed eventi sia “dentro” che “fuori” dal carcere, a testimoniare la volontà sempre più marcata della Compagnia Interazioni Elementari di voler costruire un pubblico trasversale e flessibile, che segua l’arte ovunque, senza barriere, confini o cancelli immaginari e reali da dover oltrepassare. Così come per gli artisti e performer, che recitano e si esibiscono ognuno con il proprio bagaglio, siano essi giovani detenuti, artisti professionisti o persone appartenenti a categorie marginalizzate della società. Perché nel grande universo di Interazioni Elementari, dove l’arte crea spazi d’incontro e di dialogo, non vi è differenza che non possa essere valorizzata”. Il manifesto del festival è dell’illustratrice Vincenza Peschechera, artista romana che ha ben interpretato il nostro progetto di teatro e concept dell’evento che, tra varie difficoltà, riesce anche quest’anno ad aprire spiragli di conoscenza e consapevolezza, in un rapporto costante tra arte e società. Tutto questo è possibile grazie alle Istituzioni della Città di Firenze che stanno seguendo e valorizzando il nostro lavoro, ma soprattutto grazie all’impegno e alla sensibilità della Direzione dell’I.P.M. “Meucci” di Firenze, agli educatori dell’Area Pedagogica e a tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria”, conclude Suzzi. Pesaro. “Occhialini” in carcere di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 16 luglio 2022 “Non voglio farvi perdere altro tempo ragazzi, so che altri impegni urgono”. La frase non è pronunciata dall’insegnante di un corso di marketing ma dal responsabile del Sistema Bibliotecario Carcerario Marchigiano a Pesaro. Un carcere modello? No, con tanti problemi come gli altri, ma alcuni metodi di lavoro che possono diventare dei modelli e fanno sì che, a volte, il tempo sia impiegato in maniera soddisfacente come nella vita dei non ristretti. La presentazione del libro “Occhialini”, edito da Affinità Elettive di Ancona nel 2020, è stata il punto d’arrivo di un percorso di lettura critica in una Casa Circondariale dove si tengono, in collaborazione fra DAP, Regione Marche e Ambito Territoriale Sociale anche corsi di scrittura creativa, il progetto dell’Associazione Italiana Bibliotecari “Nati per leggere” e molte altre attività. Occhialini narra in 130 pagine le avventure di un impiegato che ha perso la fiducia nelle sue capacità ed approda ad un reparto estremamente tecnico e burocratico di cui non riesce a comprendere nulla se non ricorrendo alla sua immaginazione, che va al di là della materia. Sarà così che si farà amici i suoi colleghi e con gli stessi attraverserà la realtà e difenderà la sua città dagli sciacalli del post terremoto del 2016. Cerchiamo di concentrarci sulla conversazione sviluppatasi il 9 luglio 2022, nello spazio di un’ora e mezza, fra lo scrittore Marcello Pesarini, la editor e moglie Nicoletta Badiali, il responsabile bibliotecario Lorenzo Sabbatini e i detenuti che avevano analizzato l’opera. I ragazzi, chiamiamoli così, anche se l’età non era omogenea, hanno sviluppato un’analisi articolata dell’opera, definendola come racconto di denuncia delle disfunzioni del lavoro nella pubblica amministrazione e tentativo di vendetta da parte dell’autore, che è coprotagonista assieme agli “Occhialini” che filtrano la realtà. Il racconto è una parodia della realtà come è nello stile dell’autore e appaiono oggetti o lavorazioni delle pratiche figurate, come carrelli che portano i faldoni e “segretarie fenicottero” che controllano gli impiegati grazie alla lunghezza delle loro gambe. Saranno le trasfigurazioni dei colleghi a dare ali al suo desiderio di non perdere la partita. Qui, nella sala della biblioteca del carcere di Pesaro, i ragazzi diventano protagonisti chiedendo il significato delle ombre che appaiono al quarto capitolo e della trasformazione dei personaggi in utensili, immaginando che noi umani in realtà non siamo altro che macchine all’interno del sistema. La storia di “Occhialini” è una satira che mette in evidenza la difficoltà di inserirsi in un sistema di lavoro burocratico che l’autore stesso definisce “Ufficio Complicazione Affari Semplici”. Gerarchie e burocrazia fanno parte della realtà e lui stesso, come interprete della storia, ne era entrato a far parte perchè demotivato da precedenti esperienze. Da lodare il fatto che persone ristrette per avere commesso reati si preoccupino del funzionamento della cosa pubblica di quanto non facciano tanti altri fuori dalle sbarre. Le domande sulla necessità di denunciare pubblicamente il malfunzionamento degli uffici troveranno perciò la risposta nel perseguire il corretto funzionamento di qualsiasi istituzione. L’autore ricorda che, nelle sue precedenti esperienze di volontario negli istituti marchigiani, aveva ricevuto suggerimenti sulle buone pratiche che ora stanno diventando proposte di commissioni governative. Non ci saranno mai risposte assolute perché lo scrittore troverà il racconto rivitalizzato e letto sotto un’altra luce che non aveva considerato. Importante è stata la rivalutazione della scrittura come terapia e dell’utilizzo della corrispondenza fra parenti, amici, in contrapposizione alla comunicazione finalizzata a notizie senza motivazione come in tutti i social. Altra osservazione a questo proposito è stata fatta dai ragazzi: una frase scritta non si cancella. Ha vita propria, autonoma e può essere corretta, integrata, mai più cancellata. Questo porta alla responsabilità, alla coscienza di se stessi, anche questa volta più forti perché ci avvaloriamo da soli e diamo valore agli altri. E’ vezzo o necessità l’utilizzo, anche nel precedente Con gli occhi di Bjork di nomi dei personaggi che sono nomignoli, soprannomi, frasi? In parte questo gioco è sempre piaciuto fin da bambino all’autore, per identificare le persone; dall’altra il dileggio è usato come scherno nei confronti dei potenti e per un senso di superiorità rispetto a gran parte del mondo, quella costituita dagli indifferenti odiati da Gramsci. Il lavoro del gruppo di studio qualifica i suoi protagonisti come soggetti autonomi; ricordiamo che in altre occasioni alcuni di loro sono stati concorrenti e più tardi membri della Giuria di secondo livello di un concorso di scrittura che si svolge in strutture pubbliche, fra le quali quelle del carcere, attraverso il Sistema Bibliotecario Carcerario Regionale. Le loro acute osservazioni rivalutano il lavoro stesso dell’autore fornendogli ulteriori spunti per i lavori a venire, sul cui soggetto i ragazzi hanno indagato, chiedendo che non si spenga la vis polemica. Pesarini ha apprezzato il bisogno di questi lettori di non chiudersi in un orgoglioso isolamento e sentire di essere cittadini partecipi anche durante questo duro periodo. Sono state unite al dibattito poesie veramente degne di nota lette in pubblico ed altre consegnate allo scrittore assieme a domande non esplicitate per motivi di tempo. La seduta è tolta, ma si riconvocherà quanto prima. Quel “dito” di Sciascia che anticipò l’isolamento di Falcone e Borsellino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2022 Vincenzo Ceruso, allievo di don Pino Puglisi, nel libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” ha ricostruito sia la nascita della mafia corleonese sia la via crucis che hanno dovuto affrontare i due magistrati. Non manca la letteratura sul fenomeno mafioso, così come non mancano i libri su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, puntualmente, escono nelle librerie a ridosso di ogni anniversario delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Negli ultimi anni, però, è sempre più difficile trovare libri sul tema che si distinguano in qualche modo dai romanzi fantasy, senza una vera ricerca delle fonti, lettura degli atti processuali, verbali, testimonianze credibili e che restituiscano il vero pensiero dei due giudici. Ciò sta creando un analfabetismo culturale di ritorno. La mafia scompare come attore principale, e a lei si sostituiscono non meglio precisate entità. Manca un punto di riferimento sia per i giovani che cominciano ad approcciarsi alla storia terribile di Cosa nostra, sia per quelli che hanno una conoscenza maggiore ma rischiano di perdersi. Un libro utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi - Da qualche tempo, però, nelle librerie è uscito il libro edito da Newton Compton Editori, dal titolo “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia”. L’autore è Vincenzo Ceruso e gli va riconosciuto il merito di aver ricostruito in maniera scrupolosa sia la nascita della mafia corleonese che la via crucis che dovettero affrontare Falcone e Borsellino. Un libro che è utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi. Vincenzo Ceruso è un palermitano, allievo di padre Pino Puglisi, si è occupato di devianza con la comunità di Sant’Egidio e ha già scritto numerosi libri sulla mafia. Balza subito all’occhio che l’autore per scrivere questo libro ha svolto una scrupolosa ricerca, non tralasciando nulla e arricchendo di particolari, anche inediti, la genesi delle stragi. Chi si aspetta la solita storia di entità che eterodirigono la mafia, rimarrà deluso. Così come, d’altronde, rimasero delusi coloro che da Falcone attendevano una narrazione alla James Bond e di una Spectre che governava gli eventi. La questione è più semplice e complessa nel contempo. Il sistema binario, in questo libro non è contemplato. Si intravvedono sfumature, dubbi, ma anche fatti certi e inoppugnabili che aiutano lo spirito critico. Tale esercizio va fatto costantemente, ma solo se si ha la conoscenza dei fatti. Questo libro è indispensabile per chi vuole intraprendere tale percorso. Un capitolo del libro fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia” - “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” però narra anche la lotta, sofferenza e isolamento dei due giudici. I primi a colpirli, soprattutto Falcone, sono stati i loro colleghi. C’è un capitolo del libro dove si fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”. L’autore cita una riflessione dello scrittore di Racalmuto relativa all’assassinio del procuratore Gaetano Costa. Lo fa dopo alcune settimane dal delitto eccellente di Cosa nostra, in una intervista rilasciata a Felice Cavallaro. Alla domanda su cosa ne pensava della riunione nel corso della quale Costa, in contrasto con alcuni magistrati, decise di firmare i mandati di cattura contro i bossi del traffico di droga, Sciascia ha risposto così: “Uno scrittore americano, Damon Runyon, un umorista, usa un termine mutuato dal gergo della malavita, il dito. Chiama così colui che indica le persone da uccidere, da sequestrare, da rapinare. Credo che in Italia, in ogni ambiente ed in ogni categoria, ci sia un dito, e questo vale anche per certi omicidi del terrorismo. Il dito può funzionare per volontà, consapevolmente, e può funzionare incidentalmente; per esempio, lasciando solo la persona che vuol fare qualcosa”. Falcone fa riferimento a Sciascia in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso - Vincenzo Ceruso rivela che questa intervista è stata molto apprezzata da Falcone, il quale la cita durante un convegno. Ma soprattutto, il riferimento a Sciascia è nitido in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso. L’autore del libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” l’ha scovata e si tratta di un passaggio fondamentale relativo all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e l’agente di scorta. Anche in questo caso vale la pena riportarlo: “Un noto scrittore siciliano, a proposito degli omicidi di pubblici funzionari, ha elaborato una interessante teoria secondo cui la mafia attacca e uccide quando la vittima, particolarmente distintasi per l’impegno profuso nella repressione del fenomeno mafioso, non appare assistita e circondata dall’appoggio e dal consenso delle istituzioni, per cui appare all’esterno come una monade isolata, impegnata in una sorta di crociata personale”. “Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino - Inutile dire che, leggendo questo passaggio, inevitabilmente la pelle è attraversata da un brivido. È esattamente quello che poi accadrà a lui stesso: il ditino contro Falcone che proviene dai suoi stessi ambienti lavorativi. Cosa che poi dovrà affrontare anche Borsellino. Quel dito che in qualche modo sembra rievocarlo quando, proprio il giorno prima dell’attentato a Via D’Amelio, il giudice disse alla moglie Agnese che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. “Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino. Un dito che però, di fatto, viene ricercato altrove. Lo stesso Ceruso, in un capitolo del libro fa riferimento a una audizione di un magistrato che sembra mutuare le parole di Borsellino. Ceruso ricorda che Falcone e Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra - Scompaiono i colleghi e appaiono i servizi segreti deviati. Le “entità”, definizione che va di moda. Ma quel dito, nel caso delle stragi, soprattutto quella di Via D’Amelio crea l’humus per poter neutralizzare i giudici, sia per vendetta che per cautela preventiva. Soprattutto quest’ultima che va ad inserirsi nell’interessamento dell’indagine su mafia appalti. L’autore, e per la prima volta lo troviamo in maniera dettagliata in un libro, spiega bene ogni minimo particolare. Solo leggendolo, con tanto di riferimenti documentali, un lettore desideroso di conoscenza può comprenderne l’importanza. Ceruso ci tiene a ricordare che sia Falcone che Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra fin da subito. Comincia con l’ascesa di Totò Riina - qui l’autore spiega molto bene la sua figura che è l’incarnazione vivente dell’anti-trattativa -, il quale non scende a patti con nessun potere, distrugge la vecchia mafia e ne crea una nuova. Soprattutto desiderosa di eterodirigere l’amministrazione pubblica fino ad essere quotata in Borsa. L’omicidio del capitano Basile stravolse la vita di Borsellino - Ceruso ricorda le indagini di Borsellino che colpirono a segno la mafia e l’episodio che gli stravolse la vita. Primo tra tutti, l’omicidio del capitano Emanuele Basile. La mafia proverà ad avvicinarlo attraverso dei segnali, ma rifiutò e andò avanti con l’indagine entrando nel cuore del mandamento di San Giuseppe Jato. Siamo nel 1980 e Totò Riina voleva ucciderlo, e con lui ha individuato Basile che era riuscito a fare una indagine capillare. Quest’ultimo sarà ucciso alle spalle dai sicari mentre, assieme alla moglie e figlia piccola, mentre partecipava a una processione del santissimo crocifisso di Monreale. Dirà il giornalista Attilio Bolzoni: “Quella sera cambiò per sempre la vita di Paolo Borsellino”. Il libro va letto tutto, perché ci sono dettagli che nel tempo sono sfuggiti, oppure evaporati tra tesi giudiziarie inconcludenti, seppur affascinanti. La vicenda di Cosa nostra e le stragi, non sono un romanzo. Non si può fantasticare su fatti tragici. Basta Cosa nostra stessa che, durante l’epoca corleonese, usava una tecnica - così ricorda l’autore nel libro - che evoca la strategia terrorista sudamericana: attuava omicidi e stragi depistandoli attraverso sigle come quella della “falange armata”. Ai tempi dell’impoverimento culturale, dove purtroppo mancano intellettuali e storici di riferimento, il libro di Ceruso è una boccata d’ossigeno. Da leggere per chi vuole riconciliarsi con la verità storica e giudiziaria. E magari riprendere il percorso tracciato da Falcone stesso. Borsellino, ritratto di famiglia dall’interno di Piero Melati La Repubblica, 16 luglio 2022 “Paolo Borsellino, per amore della verità”, di Piero Melati, è stato tessuto da due donne, Lucia e Fiammetta Borsellino. L’autore ha fatto semplicemente da telaio. Con Fiammetta, la figlia minore del giudice, avevamo una consuetudine. Prima della pandemia, ci incontravamo al mattino in un paio di bar del quartiere palermitano della Kalsa, mentre le sue figlie Felicita e Futura erano a scuola. Fiammetta mi aveva così raccontato in anticipo la sua intenzione di incontrare in carcere i fratelli Graviano, boss di Brancaccio, condannati quali autori della strage di via D’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 un’autobomba aveva ucciso il magistrato e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, 57 giorni dopo la strage di Capaci. Fiammetta non si aspettava particolari rivelazioni, non voleva investirli di rabbia e odio, e neppure voleva perdonare. Piuttosto, tentava un percorso dentro il suo dolore, simile a quello delle vittime del terrorismo che hanno incontrato i loro carnefici. Non a caso, prima del faccia a faccia con i Graviano, ne aveva parlato con la figlia di Aldo Moro, Agnese. Le istituzioni preposte non hanno mai compreso il gesto di Fiammetta, senza precedenti nella storia della mafia, e hanno cercato di ostacolarlo. Alla fine, però, lei è riuscita nell’intento, contro il parere di tutti. Per trarne che cosa? Per quanto mi riguarda, grazie a Fiammetta, avevo iniziato un analogo percorso di ricapitolazione delle vicende siciliane - culminate nelle stragi del ‘92 - che, alla fine, dopo la pandemia, mi ha portato a rivederla altre volte per scrivere questo libro. Grazie a lei avevo conosciuto anche la sorella Lucia, la figlia maggiore del giudice, e il marito Fabio Trizzino, che rappresenta la famiglia nei processi. Ho raccolto anche altre testimonianze, ma sempre guidato dal tentativo di lasciare immacolata l’impronta che le figlie di Borsellino hanno dato alla loro incredibile storia. Sono stati scritti più di ottanta libri su via D’Amelio. Ma non era mai stato raccontato quello che è accaduto ai figli e alla famiglia nei trent’anni successivi alla strage. Ricostruirlo è stato come imbarcarsi in un viaggio kafkiano, al termine del quale ci si accorge che la vera storia rischia di essere cancellata per sempre, come nei romanzi di Orwell. Ho subito compreso che non si trattava di ristampare il già noto, ma piuttosto di far parlare i figli per illuminare così anche i frammenti più significativi della storia del padre. Comprese nuove ipotesi sulla stagione delle stragi. Oggi sappiamo che l’inchiesta su via D’Amelio è stata distorta dal più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, per il quale era stato inventato un finto pentito e condannati all’ergastolo degli innocenti. Una sentenza della Cassazione, relativa al cosiddetto processo Borsellino Quater, ha sancito questa verità in via definitiva. Ma cosa era accaduto nel frattempo alla famiglia, in trent’anni di depistaggi? Minacce, manipolazioni, attacchi anche da parte della cosiddetta “antimafia”, bugie, tradimenti, isolamento. Nessun parente di vittima di mafia è stato mai trattato come loro. Un’autentica odissea, al termine della quale nessuna autorità dello Stato ha chiesto formalmente scusa alla memoria del giudice e ai suoi figli per lo scandaloso insabbiamento. Loro, invece, hanno dovuto versare nuovi, elevatissimi tributi. Lucia, figlia di un “eroe” siciliano, ha dovuto abbandonare la Sicilia, dopo la breve esperienza da assessore regionale alla sanità e le minacce che ha subìto per avere combattuto il malaffare. Oggi, nella sua nuova casa romana, vive circondata dalle foto più significative della storia del padre. Ognuna racconta qualcosa. Quella più famosa, scattata da Tony Gentile, che vede Falcone e Borsellino vicini a sorridere e confabulare, è diventata un francobollo commemorativo e una moneta celebrativa. Eppure, il giorno in cui venne scattata, a Palermo, in un convegno nel quartiere della Kalsa, nel 1992, l’anno delle stragi, i partecipanti - come racconta Lucia - non lesinarono frecciate velenose ai magistrati. Questa storia si chiude per me con un paradosso. È noto che Leonardo Sciascia, da posizioni “garantiste”, polemizzò in vita con i giudici antimafia, e direttamente con Paolo Borsellino, che se ne dispiacque molto. Il giudice era cresciuto con i suoi libri. A casa di Lucia ci sono anche le foto del loro successivo incontro. Eppure, ecco il paradosso, non ci sono mai state due figure quanto quelle di Borsellino e Sciascia che di più condivisero una idea “utopistica” e umana di giustizia. La stessa che Fiammetta ha cercato in quegli incontri in carcere con i suoi carnefici. Qualcosa che possa andare oltre la pena, la vendetta e il perdono. La povertà si combatte cambiando il welfare di Carlo Trigilia Il Domani, 16 luglio 2022 È noto che l’Italia è un paese con forti disuguaglianze sociali. Il Rapporto annuale dell’Istat ha attirato l’attenzione sull’aggravamento di questo fenomeno per effetto della pandemia. Purtroppo, la situazione sembra destinata a peggiorare ulteriormente a causa dell’invasione dell’Ucraina. L’Istat ha messo in luce in particolare la crescita della povertà assoluta. Essa è raddoppiata dal 2005 arrivando a includere quasi due milioni di famiglie (il 7,5 per cento del totale). Le persone in povertà assoluta sono triplicate dal 2005 e sono cresciute nel solo 2020 di un milione raggiungendo i 5,6 milioni (il 9,4 per cento del totale). Particolarmente colpiti, i minori, i giovani e il Mezzogiorno. Come si spiega la gravità di questo fenomeno? Occorre anzitutto tenere presente che esso si inserisce nel più ampio quadro delle disuguaglianze di reddito, complessivamente aggravatesi in seguito alla pandemia. Da questo punto di vista si manifesta un curioso paradosso: l’Italia ha un grado di disuguaglianza vicino a quello degli Stati Uniti e del Regno Unito - paesi con una spesa pubblica sociale più ridotta - ma con livelli di spesa e di tassazione che sono invece più simili a quelli scandinavi o tedeschi, dove le disuguaglianze sono nettamente più basse. In effetti, la capacità dei nostri meccanismi redistributivi di ridurre le disuguaglianze create dal mercato, a parità di spesa e di prelievo, attraverso tasse e trasferimenti, è più ridotta di quella della Germania o dei paesi nordici. Ciò è dovuto al fatto che il nostro sistema di welfare resta centrato sulle politiche passive: in particolare sulla spesa pensionistica (in assoluto la voce più elevata della spesa sociale) e sul sostegno del reddito di chi perde il lavoro. Prima della recente introduzione del reddito di cittadinanza e di quello di emergenza non c’erano misure significative per il sostegno a condizioni di disagio e di povertà (l’Istat ha stimato che pur con tutti i difetti questi strumenti hanno ridotto in misura significativa il rischio di cadere in condizioni di povertà). Da notare che invece la spesa per politiche attive, volte a favorire l’inserimento al lavoro di donne e giovani, e a sostenere la formazione, la riqualificazione e l’innovazione, è la più bassa nel contesto europeo. Dunque la forte presenza della povertà assoluta e della disuguaglianza dei redditi, aggravate dalla pandemia, chiamano in causa con ancor più urgenza la necessità di intervenire in modo coerente sul sistema di welfare e su quello fiscale. Non si tratta di spendere di più ma di spendere meglio e di finanziare la spesa in modo più equo ed efficace. Certo un intervento politicamente difficile e costoso ma che potrebbe fare del welfare uno strumento più efficace per contrastare le disuguaglianze e insieme una leva di sviluppo per accompagnare e indirizzare le imprese verso la via alta dell’innovazione. Migranti. Sospeso il servizio di mediazione culturale di Cies onlus e Oim di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 luglio 2022 I lavoratori al Viminale: “Ripristinarlo subito”. Un gruppo di lavoratori, tra i 300/350 che dal primo luglio sono senza contratto, scrive alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Per ristabilire la convenzione manca l’ok della Corte dei conti. “Dopo anni di servizio e di impegno siamo rimasti da un giorno all’altro senza lavoro e senza alcuna informazione sul nostro futuro. Da anni supportiamo gli uffici immigrazione spesso in condizioni di precarietà e instabilità contrattuale. Meritiamo chiarezza e rispetto”. Alcuni dei 300/350 mediatori culturali che dal primo luglio scorso sono rimasti senza contratto hanno deciso di organizzarsi e scrivere una lettera alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per prendere parola pubblicamente, con il sostegno delle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap). Il 30 giugno scorso alle 18, infatti, il Viminale ha comunicato che dal giorno seguente il servizio di mediazione linguistico culturale di Cies onlus e Oim era sospeso in tutta Italia. Motivo: la scadenza delle convenzioni. Quella con Oim è in fase di rinnovo mentre quella con Cies è stata stipulata ma manca l’approvazione della Corte dei conti. Dal Viminale fanno sapere che sperano di risolvere la situazione in tempi brevi, ma intanto crescono i malumori. Anche perché si rischiano delle riduzioni di organico per motivi economici. “Ci preoccupa soprattutto che si perda la professionalità acquisita in questi anni, necessaria a operare in uffici delicati - dice il mediatore Ismaelali Mouktar - A noi stanno già arrivando offerte di lavoro, non si può aspettare per settimane senza stipendio e senza sapere cosa accadrà. Ma i disagi principali sarebbero per i migranti e gli operatori di polizia”. Due sindacati degli agenti, Siulp e Sap, hanno scritto a loro volta a Lamorgese il 4 e 5 luglio scorsi chiedendo “interventi urgenti” per risolvere la situazione e ripristinare i servizi. I mediatori sono presenti negli uffici immigrazione delle questure, nelle sezioni che si occupano di permessi di soggiorno e protezione internazionale, e poi in hotspot, centri di permanenza per il rimpatrio, uffici di frontiera della polizia. In media lavorano 40 ore a settimana, con stipendi che si aggirano intorno ai 1.200/1.500 euro sebbene le differenze interne siano rilevanti. Anche i contratti hanno durate diverse: nove, sei, quattro mesi. Per tutti sono precari. Il loro impiego è finanziato attraverso il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami), con cui l’Unione europea sostiene gli stati membri. “Chiediamo l’immediato e rapido ripristino del servizio di mediazione in tutte le sedi - si legge nella lettera firmata “Coordinamento dei mediatori interculturali d’Italia” - Chiediamo la salvaguardia dei livelli occupazionali precedenti. Riteniamo necessario che si apra nuovamente un tavolo di discussione sul riconoscimento della figura del mediatore interculturale, in modo da accedere alla contrattazione collettiva sul lavoro”. Omicidio Regeni, la Cassazione respinge il ricorso: il processo non si può fare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 luglio 2022 Vince l’ostruzionismo, manca la “prova certa” che gli imputati sapessero del dibattimento. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Niente da fare, l’ostruzionismo dell’Egitto ha vinto: il processo ai presunti responsabili del sequestro (uno anche delle torture e dell’omicidio) di Giulio Regeni non si può fare, manca la “prova certa” che gli imputati hanno saputo del dibattimento a loro carico. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso della Procura di Roma, della Procura generale e dei familiari di Giulio i quali hanno sostenuto - e almeno parzialmente dimostrato - che in realtà i quattro funzionai della National security erano dei “finti inconsapevoli”, e che con la complicità delle autorità del Cairo hanno utilizzato la tecnica delle mancate risposte per boicottare e bloccare il giudizio. “Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi ci saremo sempre, ma quella che viene presa oggi è una decisione che riguarda la dignità dell’Italia”, aveva detto in mattinata l’avvocata Alessandra Ballerini, in rappresentanza dei genitori di Regeni, chiedendo che la Cassazione annullasse l’ordinanza di sospensione del processo del giudice, dopo che la Corte d’assise aveva rispedito indietro il fascicolo proprio per via delle mancate notifiche. Ma al di là della costante testimonianza della famiglia e di chi l’ha sempre sostenuta (come il presidente della Federazione della stampa Giuseppe Giulietti), della tenacia con cui il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha provato a dimostrare che gli egiziani sapevano fingendo di non sapere, affiancato nell’ultimo tratto anche dalla procura generale della Cassazione, ha vinto il “diritto tiranno” dell’imputato, come l’hanno definito i pubblici ministeri. Ha prevalso la regola di diritto che dev’esserci la “prova certa” che l’accusato sia informato del procedimento a suo carico, anche se in questo modo diventa una sorta di “prova diabolica”, perché “per affermare che l’imputato si è sottratto alla conoscenza degli atti si deve provare che ne abbia avuto conoscenza”. Così aveva scritto il pm Colaiocco nel suo ricorso, definendo “abnorme” la sospensione sine die; la Procura generale aveva anche suggerito di rivolgersi alla Corte costituzionale per l’rragionevolezza della norma. Tutto “inammissibile” per i giudici “di legittimità”, che sorvegliano sul rispetto delle regole e hanno ritenuto quella “prova certa” un ostacolo insuperabile. Poco conta, evidentemente, che l’Egitto abbia depistato e nascosto prove con l’obiettivo di intralciare le indagini e poi il processo. Fino alle mancate risposte alle reiterate rogatorie in cui si chiedevano i recapiti dei quattro imputati, negate proprio per “impedire le notifiche agli imputati”. A questo punto il giudizio a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e del maggiore Magdi Ibrahim Sharif cade in un limbo dal quale sarà pressoché impossibile recuperarlo. La sospensione diventa una sorta di tomba del processo. Il ricorso in Cassazione chiedeva di andare avanti anche col banco degli imputati vuoto, ed era l’ultima carta per poter arrivare a una sentenza; la sua bocciatura ha bruciato questa possibilità. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’avvocata Ballerini l’ha fatto capire nella sua memoria: con questa visione burocratica delle regole, torture e trattamenti inumani non sono perseguibili, la Corte di Strasburgo deve intervenire. Ma per adesso ha vinto l’impunità. Nessuna giustizia per Regeni, la Cassazione conferma lo stop al processo per gli 007 egiziani di Fabio Calcagni Il Riformista, 16 luglio 2022 Le possibilità di processare in Italia i quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni nel febbraio del 2016 sono ormai ridotte al lumicino. Nella serata di venerdì 15 luglio i giudici della Corte di Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del gup che l’11 aprile scorso ha disposto, così come già fatto dalla Corte d’Assise nell’ottobre scorso, la sospensione del procedimento disponendo nuove ricerche degli imputati a cui notificare gli atti. Una notizia ovviamente accolta con dolore dalla famiglia di Giulio, che da anni chiede giustizia per il figlio. “Attendiamo di leggere le motivazioni ma riteniamo questa decisione una ferita di giustizia per tutti gli italiani. “Abnorme” è certamente tutto il male che è stato inferto e che stanno continuando a infliggere a Giulio. Come cittadini non possiamo accettare né consentire l’impunità per chi tortura e uccide”, commentano i genitori di Regeni, Paola e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini. Gli ermellini nel dichiarare inammissibile il ricorso della Procura sottolineano che i provvedimenti di Assise e Gup non possono essere impugnati con il ricorso per Cassazione “in quanto non abnormi”. Sergio Colaiocco, procuratore aggiunto di Roma, aveva chiesto nel ricorso in Cassazione un intervento di “chiarezza” agli ermellini per superare quanto disposto dal gup, il giudice per le udienze preliminari, che rifacendosi a quanto deciso dalla III Corte d’Assise nell’ottobre scorso aveva sancito che il processo contro i quattro 007 egiziani non poteva andare avanti in quanto mancavano le notifiche agli imputati. In particolare i magistrati di piazzale Clodio chiedevano alla Cassazione di chiarire se risulta sufficiente, per la celebrazione del processo, il fatto che “vi è una ragionevole certezza - come scrive la corte d’Assise nel provvedimento con cui ha rinviato il procedimento all’attenzione del gup - che i quattro imputati egiziani hanno conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a loro carico avente ad oggetto gravi reati commessi in danno a Regeni”. In mattinata si era anche svolto un sit-in davanti alla Suprema Corte a cui hanno partecipato anche i genitori di Giulio, Claudio e Paola. Nei mesi scorsi padre e madre del ricercatore universitario friulano avevano lanciato un appello via social per chiedere una mobilitazione al fine di individuare gli indirizzi dei quattro agenti egiziani, pubblicato in tre lingue (italiano, inglese ed arabo) con tanto di foto di tre dei quattro imputati individuati dal Ros. Regeni, ingiustizia di Stato di Luigi Manconi La Repubblica, 16 luglio 2022 La sentenza della Corte di Cassazione brucia, probabilmente, ogni residua speranza e conclude con un atto che si teme definitivo il percorso della giustizia italiana nella caparbia ricerca della verità a proposito del barbaro assassinio del nostro connazionale Giulio Regeni. La pronuncia della Suprema corte può essere legittimamente discussa, come ogni decisione di giustizia, in un sistema di democrazia matura: ed è giusto, in questo momento, ricordare le parole della procuratrice generale Marcella de Masellis che aveva definito l’eventuale sospensione del processo un “atto abnorme”. E ciò perché “la condotta elusiva” degli agenti del servizio segreto egiziano “pienamente consapevoli del processo a loro carico, nonché della data, del luogo della prima udienza” e “l’incapacità del nostro ordinamento di raggiungere gli imputati per motivi oggettivi e incontrovertibili” mettono nei fatti “il processo in una stasi non rimediabile”. Ovvero “in una condizione lesiva dell’efficienza del sistema: e, dunque, “nell’impossibilità di perseguire i gravissimi reati commessi contro Giulio Regeni”. La Cassazione non ha accolto queste ragionevolissime argomentazioni e ha deciso in senso opposto, bloccando di conseguenza ogni ulteriore possibilità di un dibattimento, in un tribunale italiano, che consentisse di valutare l’ampio materiale probatorio raccolto dalla procura di Roma. Grazie, in particolare, al lavoro del Pm Sergio Colaiocco e all’attività investigativa di carabinieri e polizia di stato. Ora non si vede proprio come la vicenda di un ricercatore italiano di ventotto anni, un intellettuale appassionato e curioso, trucidato da un regime dispotico, possa essere sottratto all’oblio del tempo che trascorre e della memoria che scolora fatti, date e volti; e a quali altre vie e a quali altri strumenti si possa ancora ricorrere perché su questa vicenda non cali il silenzio dei fascicoli archiviati e delle burocrazie che tutto omologano. A contrastare questa tentazione di smemoratezza resteranno, ne sono certo, le parole e i gesti di Paola e Claudio Regeni e di quei milioni di cittadini che hanno creduto in loro. Si tratta, in ogni caso, di una sconfitta cocente perché l’assassinio di Regeni - contrariamente a quanto ha ritenuto pressocché tutta la classe politica nazionale - non è stato esclusivamente una “tragedia umanitaria” o un caso atroce di violazione dei diritti umani o, ancora, un atto di crudele oltraggio nei confronti di quei “ragazzi dell’Europa” che, come Regeni, hanno creduto di poter vivere in un mondo dove si potessero superare d’un balzo solo le frontiere e i tribalismi, i pregiudizi e gli egoismi etnici. Lo strazio del corpo di Regeni è stato tutto questo, ma è stato anche un colpo micidiale inferto alla sovranità dello Stato italiano e alla nostra indipendenza nazionale. Di fronte a ciò, l’Italia è stata inerte e remissiva. Questo è stato l’atteggiamento prevalente dei cinque governi che si sono succeduti da quel 25 gennaio del 2016 (e va detto che solo l’attuale esecutivo ha dato prova di una qualche vitalità). A chi scrive è accaduto, per una serie di circostanze, di seguire questa vicenda da vicino, da molto vicino e di esser stato, talvolta, testimone oculare di alcuni suoi passaggi. Dunque, posso dire, in piena coscienza, che il nostro paese ha mostrato in questi sei lunghissimi anni una postura di subalternità psicologica e di sudditanza ideologica nei confronti di un regime brutale, in nome di una malintesa realpolitik. Un realismo politico straccione che ha impedito qualsiasi seria iniziativa di pressione e condizionamento, qualsiasi azione coordinata e condivisa al livello sovranazionale ed europeo, qualsiasi forma di internalizzazione della crisi tra Italia ed Egitto al fine di trasformarla in una grande questione di tutela dei diritti umani in quella cruciale regione del mondo. Una disfatta morale, oltre che, politica. Stati Uniti. Quei guardiani della vita e paladini della pena di morte di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 16 luglio 2022 Vita! Ineffabile mistero legato al respiro, dal primo vagito all’ultimo sospiro. E quanti i guardiani di questo fluire, dentro e fuori i polmoni, dell’aria, a volte ferma a volte burrascosa. Tra questi i giudici della Corte Suprema americana che hanno deciso in sei contro tre di mettere fine alle garanzie costituzionali per l’aborto. Lo hanno fatto dopo mezzo secolo dalla loro introduzione. “Ha vinto la vita!” ha commentato qualcuno. Per Donald Trump siamo addirittura all’espressione della “volontà di Dio”. Strumenti della manifestazione di questa “volontà divina” sono certamente i tre giudici che lui stesso ha designato: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett i quali hanno costituito la super maggioranza conservatrice della Corte Suprema, unendosi all’afroamericano Clarence Thomas scelto da Bush padre e a John Roberts e Samuel Alito voluti da Bush figlio. Conservare, cum-servare, tenere con sé. Sono d’accordissimo. La vita stessa è mantenimento di un equilibrato insieme di elementi diversi quali parti di un tutto. Ordine armonico e per questo vitale in un disordine altrimenti distruttivo. Marco Pannella, sull’aborto, diceva che ciò che bisogna assicurare è il diritto a procreare con amore, con consapevolezza, anziché il riprodursi come bestie. Questo attiene alla vita, in una dimensione nonviolenta e civile. Mentre, invece, trovo una matrice violenta, primordiale, disordinata, in fin dei conti mortifera nell’imposizione della vita a tutti i costi come inteso dai guardiani americani della Corte Suprema. Non è un caso che i tre giudici di nomina trumpiana si siano distinti per un morboso attaccamento da un lato alla vita di un feto e contemporaneamente alla pena di morte. Ricordo ancora la motivazione scritta dal giudice Gorsuch nel rigetto del ricorso di un condannato a morte del Missouri, Russell Bucklew, che spiegava come fosse affetto da una malattia rara che gli avrebbe causato atroci dolori se giustiziato con l’iniezione letale e che pertanto chiedeva un metodo alternativo. Si era appellato all’ottavo emendamento che vieta trattamenti crudeli e inusuali. Per Gorsuch “l’ottavo emendamento vieta metodi ‘crudeli e inusuali’ ma non garantisce una morte indolore”. Non so cosa possa esserci di più cinico e violento. D’altro canto lo stesso Trump ha danzato con la morte per consegnare la sua presidenza alla storia. Nel 2020, fece giustiziare dieci persone - un numero maggiore rispetto a quello delle esecuzioni nei cinquanta Stati dell’intero continente - ripristinando le esecuzioni federali sospese dal 2003. Trump ha inteso passare alla storia con il bottino del maggior numero di esecuzioni federali dal 1896 e uscire di scena con la messa a morte, senza alcuna pietà, di una persona torturata e abusata per una vita: Lisa Montgomery, la prima donna giustiziata in settant’anni negli USA. Ecco, un pensiero conservatore servirebbe per manifestare, anche politicamente, il senso di una vita concepita con amore e capace di contenere - di tenere con sé - anche chi nella sua vita ha conosciuto tempeste, scommettendo sull’inesorabile schiarita. Contenimento e conservazione possibile se fondata sulla fiducia, oserei dire sull’amore, per la persona umana: la donna che decide di abortire o il condannato che decide di cambiare. Ucraina. Osce: a Bucha crimini contro l’umanità di Daniele Raineri La Repubblica, 16 luglio 2022 Il nuovo rapporto dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa dice che i russi hanno attaccato la popolazione ucraina in modo sistematico e diffuso, con azioni frequenti che includono “uccisioni, sequestri, stupri e la deportazione su larga scala”. Ieri l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha pubblicato un secondo rapporto sull’Ucraina che riguarda i crimini di guerra commessi dai soldati russi nei territori occupati. Questo tipo di rapporti cerca di stabilire quello che è successo davvero con indagini a freddo, quando ormai l’ondata delle notizie e dei reportage - che non possono essere così completi perché sono prodotti in molto meno tempo - è passata. Il rapporto Osce dice che i russi hanno attaccato la popolazione ucraina in modo sistematico e diffuso, con azioni frequenti che includono “uccisioni, sequestri, stupri e la deportazione su larga scala”. Per questo le atrocità commesse dai soldati russi possono essere definite anche dal punto di vista legale “crimini contro l’umanità”, e questo è un fatto importante perché dove ci sono crimini contro l’umanità prima o poi è possibile aprire un processo. La missione Osce scrive nel rapporto che gli invasori hanno deportato un milione e trecentomila civili ucraini in Russia contro la loro volontà e che decine di migliaia di persone sono passate nei centri di cosiddetto filtraggio, dove i russi fanno interrogatori e indagini personali sui deportati prima di trasportarli verso est. Il numero dei deportati ucraini in Russia non è mai stato stabilito con certezza, il governo ucraino sostiene che siano due milioni, ora l’Osce dice che sono un milione e trecentomila. Di fatto, è un numero altissimo. Il rapporto avverte che duemila bambini ucraini che erano in orfanotrofi e ospedali sono stati portati in Russia, anche se hanno parenti in Ucraina e anche se in alcuni casi erano temporaneamente separati dalle famiglie soltanto per ragioni mediche. Gli esperti scrivono che le forze russe sono responsabili per l’uccisione organizzata e pianificata di civili a Bucha, trovati con le mani legate dietro la schiena. In un campo estivo a Bucha ci sono “camere di tortura separate da pareti in cemento, inclusa una stanza che sembra essere stata usata per le esecuzioni con fori di proiettili sulle pareti”. In un’altra stanza dove gli esperti hanno trovato prove di torture e di waterboarding c’erano cinque cadaveri, con ustioni, lividi e tagli - dice il rapporto. In un villaggio di Bucha i corpi di diciotto tra uomini, donne e bambini erano in una cantina. Ad alcuni, nota il rapporto, “avevano tagliato le orecchie e ad altri avevano cavato i denti”. L’indagine dell’Osce nota che i rapporti che denunciano stupri contro donne e ragazze sono diventati “abbondanti”, soprattutto nei territori occupati di recente, e ci sono casi di violenze di gruppo. I soldati russi hanno anche usato i civili ucraini come scudi umani. “A marzo hanno obbligato trecento persone a vivere chiuse dentro il piano interrato di una scuola per venticinque giorni a Yahidne (nella regione di Chernihiv) per proteggere una base militare russa lì vicino”. Il rapporto affronta anche il tema del servizio militare forzato: i russi obbligano all’arruolamento tutti i maschi fra i 18 e i 65 anni di età nelle aree sotto il loro controllo del Donbass e nelle regioni di Kharkiv, di Kherson e Sumy. E quindi, di fatto, a combattere la guerra ordinata dal Cremlino. Ucraina. Prigioniero britannico morto in cella, Londra furiosa: “La responsabilità è di Mosca” di Marco Boccitto Il Manifesto, 16 luglio 2022 Il limite ignoto. I russi “rivendicano” il raid su Vinnytsia. Missili anche su Kharkiv, “colpite due scuole”. Ora si attende almeno l’intesa sul grano. Barlumi di pace Usa-Russia solo nello spazio. Nella città di Vinnytsia, finita dentro una guerra che sembrava distante, si scava in cerca dei dispersi: una ventina, come le vittime accertate del raid missilistico russo di giovedì. Catalogato da Kiev come “terrorismo contro i civili” e rivendicato ieri dal ministero della Difesa russo come attacco, peraltro riuscito, a “un meeting in corso tra i vertici militari ucraini e fornitori di armi stranieri”. Altre inconciliabili visioni dei fatti spiegheranno l’ennesima notte di allarmi, bombe e missili che non hanno risparmiato scuole e abitazioni in diversi distretti della regione di Dnipropetrovsk, come nella città di Kharkiv e nei suoi dintorni. Tesi ben distinte si scontrano anche sulla morte del cittadino britannico Paul Urey, che da ieri è fonte di nuove scintille tra Londra e Mosca. Operatore umanitario secondo la famiglia, le autorità inglesi e ucraine, la Legione internazionale per la difesa dell’Ucraina che nega fosse tra i suoi combattenti; mercenario che reclutava, addestrava e dirigeva operazioni militari secondo le forze armate della regione separatista di Donetsk. Che lo avevano “in custodia” e ne hanno annunciato ieri il decesso, avvenuto il 10 luglio. Paul Urey soffriva di diabete e altre patologie importanti, ha ricordato Daria Morozova, responsabile diritti nell’entità di cui la Russia ha riconosciuto l’indipendenza alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina. “Malgrado i suoi crimini - ha aggiunto Morozova - godeva di tutta l’assistenza medica necessaria”. Non è bastata. Che avesse bisogno di cure lo aveva sottolineato la famiglia fin dall’annuncio il 29 aprile scorso della ong britannica Presidium Network, che Urey era stato catturato dalle forze russe nel sud dell’Ucraina insieme al connazionale Dylan Healy - poi uscito dai radar. Per la Legione internazionale per la difesa dell’Ucraina, che ha espresso “tristezza” per la sua sorte, Urey “era un cooperante e non un combattente”. Londra in giornata ha convocato l’ambasciatore russo e la ministra degli esteri Liz Truss non ha usato mezze parole nel “ritenere la Russia totalmente responsabile”. La guerra di sanzioni e contro-sanzioni intanto vede la Commissione europea orientata al blocco delle importazioni di oro dalla Russia, che incalza ormai la Cina come primo produttore mondiale. Mosca invece blocca le cessioni a catena delle sussidiarie delle banche occidentali - come l’italiana Unicredit - che speravano di togliersi velocemente dagli impacci. E il ministro del Commercio e dell’industria, Denis Manturov alla Duma dice che non vi è interesse a nazionalizzare le aziende straniere, ma che bene hanno fatto i deputati russi a promuovere lo scorso maggio una legge che consente allo stato di subentrare in caso di improvvisi abbandoni. L’unico barlume di speranza in questo scenario, la possibile firma a breve di un’intesa tra Ucraina, Russia, Turchia e Nazioni unite per l’esportazione sicura del grano di Kiev fermo nei porti sul Mar Nero. A sentire il ministero della Difesa russo è cosa quasi fatta. Ma quanto ci si avvia a firmare a Istanbul non è da intendersi come l’inizio di un negoziato di pace, precisano da Mosca. La pace o qualcosa di simile torna solo sulla Stazione spaziale internazionale, dove per concessione Usa riprende il lavoro congiunto degli astronatuti Nasa con i loro colleghi russi. Il conflitto semmai è tutto interno al Cremlino. Con il cambio al vertice dell’agenzia spaziale nazionale deciso da Putin a rimetterci le penne è il “falco” Dmitry Rogozin, quello che in caso di guerra nucleare i paesi Nato sarebbero stati distrutti “in mezzora”. Al suo posto è stato nominato il vice-premier Yuri Borisov. Grecia. Giannis Michailidis, l’anarchico in sciopero della fame che infiamma le piazze di Natasha Caragnano La Repubblica, 16 luglio 2022 L’appello dell’avvocato e i famigliari, “condizioni critiche”. È in sciopero della fame da 53 giorni. L’ultimo detenuto a morire di sciopero della fame in Europa fu l’irlandese Bobby Sands, nel 1980, resistette 66 giorni. Sono passati 53 giorni da quando Giannis Michailidis, anarchico greco di 34 anni in carcere dal 2013, ha iniziato uno sciopero della fame. “Una scelta che ha come motivazione la tanto desiderata libertà”, scrive il 23 maggio in una lettera dalla prigione di Malandrino, nella Grecia centrale, in cui ha chiesto la libertà vigilata dopo aver scontato una parte della sua pena di 20 anni. “Le sue condizioni sono critiche. Non possiamo lasciare morire qualcuno che chiede solo che vengano rispettati i suoi diritti”, racconta ora a Repubblica il suo avvocato, Giorgos Kakarnias. Il suo caso sta scatenando diverse proteste in Grecia, mentre cresce la preoccupazione per le sue condizioni. I reati per cui Michalidis è stato condannato non sono minori: rapina a mano armata e tentato omicidio di un poliziotto nel 2011. Per questi, nel 2013, ha ricevuto il massimo della pena, 20 anni. Tra le prove che rimangono impresse nella memoria collettiva, ci sono le foto che lo ritraggono con l’arco e la maschera antigas durante una protesta a Syntagma, ad Atene, nel 2011 e che lo hanno reso famoso come “l’arciere di Syntagma”. Nel 2021 ha completato il periodo previsto dalla legge per chiedere la libertà vigilata, ma la sua richiesta è stata respinta già due volte. Dopo il secondo rifiuto, a maggio, ha deciso di iniziare lo sciopero della fame. Lo stesso giorno le autorità hanno accettato la sospensione della pena per il poliziotto che nel 2008 ha ucciso Alexandros Andréas Grigoropoulos, uno studente di 15 anni, durante un pattugliamento notturno nel quartiere anarchico di Atene, Exarchia. Un evento che ha innescato settimane di violente manifestazioni e disordini in tutto il Paese e che ha contribuito a fare di Michalidis il volto simbolo della protesta. “Ha perso più del 20% del suo peso totale. Secondo i dottori, il suo corpo mostra già i segni di danni permanenti”, continua Kakarnias. Quello che più preoccupa l’avvocato però è che il 34enne dovrà resistere ancora altri 11 giorni, fino alla data del nuovo appello previsto per il 25 luglio. Quarantuno anni fa, il leader dei ribelli irlandesi Bobby Sands ha resistito 66 giorni senza cibo in segno di protesta per rivendicare lo status di prigionieri politici per i detenuti per il separatismo nordirlandese, affinché non venissero considerati criminali comuni. Bobby Sands è stata l’ultima persona a morire in un carcere europeo a causa dello sciopero della fame. “Se rigettano ancora la richiesta di scarcerazione allora saranno 65 giorni senza cibo per Giannis, e di sicuro non si fermerà”, spiega l’avvocato. Per la libertà di Michailidis centinaia di persone si sono radunate ieri tra le strade di Atene, capitale della Greca, e hanno marciato tra canzoni e grandi manifesti. Un appello a cui hanno partecipato membri della società civile e organizzazioni di sinistra, come i rappresentati del partito di ispirazione socialista democratica MeRA25. “È la prova della vendetta del marcio potere borghese che il governo rappresenta. Lascia che Giannis Michailidis muoia lentamente per ragioni vendicative, dividendo chiaramente i cittadini in prima e seconda categoria”, si legge nell’appello alla mobilitazione. Il riferimento è a Dimitris Lignadis, attore greco arrestato lo scorso anno per lo stupro di due minori, la cui pena di 12 anni è stata sospesa e da ieri è fuori dal carcere. Per molti giovani anarchici greci, l’omicidio di Alexis Grigoropoulos è stato un momento di svolta, un catalizzatore, in un periodo di crisi economica in cui sentivano il bisogno di rovesciare un sistema politico che serviva solo “gli interessi dei più ricchi”. Tra questi giovani, c’erano Giannis Michailidis e Nikos Romanos, uno degli amici del 15enne presente la notte in cui venne ucciso. Le loro strade si incroceranno fino ad arrivare all’arresto nel 2013 per la rapina in una banca di Valventos, nella Macedonia occidentale. “Si è trattato di un grande caso in Grecia perché, dopo l’arresto, lui e i suoi complici sono stati picchiati dalla polizia. Ma gli agenti hanno modificato le loro foto segnaletiche per nascondere i lividi”, ricorda Kakarnias. Michailidis, Romanos e gli altri due complici sono subito diventati degli eroi agli occhi dei gruppi anarchici, il simbolo della violenza delle autorità. Nei primi mesi in carcere Romanos, condannato a 16 anni, ha portato avanti uno sciopero della fame per ottenere il congedo per continuare gli studi all’Università. Proteste di solidarietà hanno seguito la vicenda fino a quando, dopo un mese, il governo ha acconsentito alle sue richieste. Dopo sei anni di carcere, a Nikos Ramos è stata concessa la libertà vigilata nel 2019. Ma per il suo complice, secondo la corte, non ci sono prove a sufficienza che possano garantire che non sia più un pericolo per la società. Anzi, la sua fuga dal carcere due anni fa e i reati commessi da latitante, due rapine in banca, dimostrerebbero l’esatto apposto. “Scuse e manovre basate su falsi giudizi” per tenerlo in detenzione preventiva, scrive l’anarchico greco nelle sue lettere, approfittando di qualsiasi aspetto legale per negargli la libertà vigilata. Ma questa volta è diversa, Giannis Michailidis ha fatto sapere che non ha intenzione di tornare in cella: uscirà dall’ospedale da uomo libero o morto.