Detenuti, non vite di scarto. È allarme sovraffollamento di Luca Cereda Avvenire, 15 luglio 2022 A ben guardare sembra che per l’Italia le vite dei detenuti ti siano “vite di scarto”, in contrapposizione a quelle più degne di chi sta fuori dal carcere. È una sensazione che restituiscono anche i numeri, di solito freddi, ma che quando si parla di carcere dicono molto più del semplice dato: le carceri italiane sono tornate ad essere sovraffollate. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, nella sua relazione al Parlamento ha parlato di 53.793 detenuti in cella, a fronte di meno di 47mila posti disponibili: “I numeri dicono tanto, ma non tutto. Il sovraffollamento avviene in carceri costruite nel ‘900, questo rende impossibile la “sorveglianza dinamica”, modello che tiene i detenuti sempre fuori dalla cella per svolgere le attività rieducative o per lavorare”, spiega Ornella Favero, fondatrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Questa “ricetta” funziona eccome: nel carcere milanese di Bollate, la recidiva è abbattuta al 18% contro la media nazionale che è oltre al 70. Questo rende la pena, di fatto, incostituzionale perché non punta alla rieducazione del condannato. “Molte carceri dalle 15 sono deserte - aggiunge Favero. Questo crea una situazione che ha del paradossale: le poche attività educative o lavorative presenti, si “contendono” i detenuti poiché vengono proposte nella stessa fascia oraria”. Inoltre oggi sono addirittura 1.319 i detenuti ancora in carcere a meno di un anno dalla fine della pena, e altri 2.473 con condanna a cui mancano poco più di 12 mesi: “Quando una persona esce dal carcere alla fine pena a perdere è il sistema penitenziario, la società e il detenuto stesso”, che ha avuto pochissime occasioni di ricevere una formazione professionale, ma anche di restare in contatto con la famiglia. Con la pandemia e la sospensione dei colloqui però sono entrati in carcere i cellulari per le video-chiamate: “Ci sono persone che sono rinate con questi dispositivi, perché hanno rivisto in videochiamata i luoghi di casa dopo 10 o 15 armi. Qualcuno non guardava negli occhi la madre da anni e ha avuto la possibilità di sentirla vicina. Questi strumenti permettono ai detenuti di coltivare le relazioni personali e di non uscire dal carcere “analfabeti digitali”, di imparare a maneggiare i nuovi dispositivi tecnologici”, racconta la direttrice di Ristretti Orizzonti. La speranza è che non si torni ai 10 minuti di telefonata a settimana e a una visita al mese. Favero ritiene che non avere rapporti costanti e di qualità con gli affetti fuori dal carcere, accresca il rischio di suicidi. Sul tema è il Garante Palma ad aver richiamato l’attenzione: nel solo 2022 sono 29 i casi di suicidio a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare. Erano stati 60 nel 2020, 57 nel 2021 con un rapporto paria 10,6 suicidi ogni diecimila detenuti. Rapporto che fuori scende a 0,6 casi. L’ultimo ha riguardato Giacomo Trimarco, 21 anni, che si è tolto la vita a San Vittore a Milano il 7 giugno. In carcere non doveva nemmeno starci, perché soffriva di un “disturbo bordeline di personalità a basso funzionamento”. Una condizione psichica ritenuta incompatibile con il penitenziario. Già 15 giorni prima aveva tentato il suicidio e da otto mesi era stato destinato a una Rems, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, struttura che dal 2014 ha progressivamente sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. “Il problema è che le Rems sono solo 36, non bastano e lui come tanti altri, vengono messi in carcere. Succede così anche per chi è finito in carcere per reati minori ma soffre di dipendenza dalle droghe. Non devono stare in carcere queste persone”, sentenza Favero. Secondo il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in tutta Italia i detenuti in attesa di entrare in una Rems sono 750, persone che aspettano mediamente un anno per entrare in struttura, con regioni come Puglia, Campania, Calabria, Lazio e Sicilia dove si arriva anche a 458 giorni. Queste situazioni alimentano il sospetto che quelle dei detenuti siano considerate vite minori, vite di scarto. Renoldi smonta le accuse sul 41 bis: “Visite dei Radicali legittime, chi più di loro?” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2022 La replica del capo del Dap nelle audizioni alle Camere: “Il Regolamento autorizza anche soggetti non istituzionali”. Dieci precedenti, uno con Tartaglia. Il capo del Dap Carlo Renoldi ha superato a pienissimi voti il suo primo esame, non facile, dinanzi alle commissioni Giustizia di Senato e Camera. Chiamato ad illustrare le iniziative intraprese e da intraprendere dalla sua amministrazione per migliorare le condizioni di lavoro e vivibilità all’interno del carcere, il vero banco di prova è stato però quello relativo alle visite concesse da lui “personalmente” all’associazione Nessuno tocchi Caino nei reparti 41 bis di due istituti di pena sardi. Per giorni è stato sotto il fuoco incrociato di Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia, e prima ancora del “Fatto quotidiano”, ma ieri Renoldi ha chiarito tutto, con garbo ovviamente ma anche con fermezza. Dinanzi all’insistenza di alcune domande, soprattutto di Varchi (FdI) e Grillo (M5S) a cui non sono evidentemente bastate le sue spiegazioni nella relazione iniziale, che hanno tentato anche di smentire i contenuti della risposta, il capo del Dap ha replicato: “Vi sto fornendo una base fattuale e una normativa rispetto a quanto accaduto. Non sprecherei altre energie su questo”. Le regole rispettate - Ma quali sono queste basi a cui fa riferimento Renoldi? In merito alle visite, “sono mirate secondo l’articolo 117 del regolamento di esecuzione a una sorta di attività para-ispettiva volta a verificare quelle che sono le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari. Queste verifiche possono essere effettuate sia da figure istituzionali sia da parte di soggetti che non rivestono posizioni istituzionali. Verifiche che già dal 2013, secondo la circolare del presidente Tamburino, pacificamente possono essere effettuate nei reparti del 41 bis, e altrettanto pacificamente possono non constare unicamente in una sorta di ispezione dei luoghi ma anche in brevi interlocuzioni con i ristretti sulle loro condizioni detentive”. Ha così spiegato che i Radicali potevano entrare nei reparti di 41 bis e anche parlare con i detenuti. Ha proseguito poi: “Che questa interlocuzione possa esservi emerge chiaramente dal testo della norma. E questo genere di attività sono state autorizzate negli anni: le occasioni in cui associazioni esterne o soggetti non istituzionali sono entrati al 41 bis e hanno avuto modo di interloquire con i detenuti sono molto più numerose di quelle che pure sono state riferite nel question time dal sottosegretario Sisto. Il Partito radicale è entrato nel reparto 41 bis di Tolmezzo nel 2014 e nel 2017, a Parma nel 2015, a Cuneo nel 2015, a L’Aquila nel 2016, a Novara nel 2016, a Viterbo nel 2019. A Rebibbia-Nuovo complesso è entrata una rappresentanza delle Camere penali, precisamente la Commissione carcere”. Quindi, ha sottolineato Renoldi, “anche l’affermazione ricorrente in queste settimane secondo cui non era mai successo che associazioni e organizzazioni non istituzionali fossero state autorizzate è smentita dai fatti”. Un tono fermo, chiaro, puntuale, che non lascia spazio a controdeduzioni: “Io qui conto circa dieci ingressi che vi sono stati dal 2014 al 2019, ne abbiamo avuti anche di rappresentanze straniere, che formalmente non rientrano nell’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario: si tratta di due rappresentanze olandesi, i provvedimenti sono a firma di Petralia e Tartaglia, autorizzate all’ingresso e alla interlocuzione nei reparti di 41 bis di Roma Rebibbia. Pertanto le associazioni entrano, ovviamente non in maniera indiscriminata ma con la nostra massima attenzione”. Osservazioni tutt’altro che irrilevanti che smontano del tutto gli attacchi dei giorni scorsi. “Chi più dei Radicali?” - Venendo alle circostanze che hanno infiammato le polemiche, Renoldi ha poi raccontato: “In occasione degli ingressi nel maggio scorso di Nessuno tocchi Caino e Partito radicale vi è stato un apprezzamento di merito: si è considerato che si tratta di associazioni da sempre impegnate sul versante della tutela dei diritti dei detenuti e della verifica delle condizioni detentive. La presidente Rita Bernardini è stata elogiata nel 2015 dal presidente Napolitano con una lettera quale esempio di persona che si impegna su quel versante. Abbiamo fatto una valutazione specificamente mirata a quel particolare contesto detentivo: la casa circondariale di Sassari dove venivano segnalate gravi criticità sul piano sanitario che, peraltro, l’interlocuzione con gli operatori e con i detenuti ha confermato. La presidente Bernardini mi ha immediatamente fatto pervenire un report con ciò che aveva riscontrato in occasione della visita a riprova poi che la visita stessa si è mossa in un circuito istituzionale”. “Altre volte abbiamo detto no” - Che da parte della nostra amministrazione ci sia una attenzione ferma e non ci sia alcun arretramento sul 41 bis”, ha spiegato ancora il capo del Dap, “è dimostrato dal fatto che, un paio di settimane dopo, l’associazione Radicali italiani ha chiesto di entrare a Roma Rebibbia nel circuito del 41 bis accompagnata da una delegazione libanese. In quella occasione abbiamo detto no perché vi era, al 41 bis, un detenuto libanese, e abbiamo ritenuto che esigenze di sicurezza imponessero un atteggiamento di cautela”. Renoldi ha dovuto poi ovviamente tranquillizzare gli interlocutori: “In conclusione, nessun allentamento né arretramento del 41bis, che resta un presidio essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata. La ministra Cartabia ha firmato ben 520 decreti tra proroghe e applicazioni del 41 bis nell’arco di poco più di un anno”. Sia al Senato (da Ostellari) che alla Camera (da Grillo e Varchi) è stato chiesto a Renoldi di riferire i contenuti dei colloqui, e se è vero che c’erano anche due avvocati del posto durante le visite. Risposta: “Le visite, come riferito dal reparto d’elite del Gom, sono state effettuate in assenza di qualsivoglia anomalia, non è stato trattato il tema dell’ergastolo ostativo né sono state chieste iscrizioni a Nessuno tocchi Caino. So che dell’ostativo si è parlato in un successivo momento relativo all’incontro che la delegazione ha avuto coi detenuti dell’alta sicurezza, ma non con i 41 bis. E sempre in quella occasione, da quanto ho letto nei rapporti, c’è stato l’invito a iscriversi a Nessuno tocchi Caino, ma non al 41bis”. Dove invece i temi affrontati sono stati due: “Le condizioni di salute dei detenuti e il vitto”. Il minimo dei diritti da garantire a qualunque essere umano detenuto. I Radicali: “Punto di tenuta delle istituzioni” - Oltre alle repliche dei parlamentari, non si è fatto attendere il commento di Nessuno tocchi Caino, e in particolare dei dirigenti coinvolti nelle visite: la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia e la tesoriera Elisabetta Zamparutti: “L’audizione del capo del Dap Carlo Renoldi rappresenta un punto di tenuta delle istituzioni democratiche in un momento particolarmente difficile del nostro Paese”, hanno dichiarato. “È stata ribadita la correttezza dell’operato di Nessuno tocchi Caino e sono state respinte le illazioni del Fatto quotidiano e dei parlamentari che gli hanno fatto eco. Se un ruolo Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem può rivendicare di svolgere nelle carceri, è quello di aver gettato un fascio di luce sulla misconosciuta realtà penitenziaria, vigilando sul rispetto dei diritti umani fondamentali come sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea. Alle istituzioni abbiamo offerto e continuiamo a offrire la collaborazione volta alla riduzione del danno che una carcerazione, in violazione dei diritti umani, arreca tanto ai detenuti quanto agli operatori penitenziari. Con i detenuti abbiamo praticato e diffuso il metodo della nonviolenza e dato corpo alla speranza”. Renoldi: “Il 41bis resta uno strumento efficace per il contrasto alle mafie” di Liana Milella La Repubblica, 15 luglio 2022 Prima audizione al Senato e alla Camera del direttore scelto dalla ministra Cartabia. Nessuna anomalia nella visita dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” a Sassari e Nuoro. “Il carcere è una parte della nostra Repubblica, che non si ferma davanti agli alti muri di cinta dei penitenziari”. Parte da qui Carlo Renoldi, il capo delle carceri nominato dalla Guardasigilli Marta Cartabia, alla sua prima audizione davanti alle commissioni Giustizia di Senato e Camera, e cita una definizione ripetuta tante volte proprio dalla ministra della Giustizia. Renoldi sintetizza subito, con queste parole, il suo lavoro: “La nostra idea di carcere, fedele alla finalità rieducativa della pena sancita dalla Costituzione, è quella che tiene insieme la richiesta della collettività per pene effettive, capaci di sanare le ferite aperte dal reato; le legittime istanze del personale penitenziario a lavorare in sicurezza e i diritti dei detenuti a un trattamento umano e non degradante. Noi lavoriamo per porre le condizioni affinché chi ha sbagliato non ripeta nuove condotte di rilevanza penale”. I suicidi: “La più drammatica sconfitta” - E fornisce subito il dato dei suicidi in cella, ben 36 casi dall’inizio dell’anno al 12 luglio, che definisce “la più drammatica sconfitta” per l’amministrazione penitenziaria chiamata di conseguenza a “impiegare tutte le idee, le energie e le risorse disponibili per contrastare quanto più possibile tali eventi”. “Nessun allentamento del carcere duro” - Poi eccolo affrontare la questione dei detenuti al 41bis, il carcere duro per mafiosi e terroristi, per documentare che non c’è stato alcun ammorbidimento, né tantomeno concessioni anomale. Distinguendo tra “visite” e “colloqui”, Renoldi spiega che nelle visite dell’associazione Nessuno tocchi Caino nelle carceri di Sassari e Nuoro - da lui stesso autorizzate - del 7 e 10 maggio non vi è stata alcuna anomalia, come invece ha sostenuto M5S, a cui sono seguite anche le richieste di chiarimento della Lega, e la stessa convocazione di Renoldi in audizione. Ma la ricostruzione del direttore delle carceri, anche sulla base dei precedenti - dal 2014 una dozzina di autorizzazioni alle visite del Partito Radicale e anche di delegazioni straniere - dimostra che non si è verificata alcuna concessione tanto da poter affermare, come ha ipotizzato M5S, che saremmo in presenza di un allentamento del regime del carcere duro per chi ha commesso reati gravissimi. Tant’è che Renoldi cita le 520 autorizzazioni per il 41bis firmate dalla ministra Cartabia. E ricorda che a oggi sono 732 i detenuti sottoposti a questo regime speciale. Renoldi ha ricordato che l’associazione Nessuno tocchi Caino ha più volte visitato le carceri. E comunque - ha detto il capo del Dap a senatori prima e deputati poi - “la visita è avvenuta sotto la costante e attenta vigilanza della direzione e del personale del Reparto operativo mobile, uno dei reparti d’élite della polizia penitenziaria, che ha registrato i movimenti e le interlocuzioni dei visitatori all’interno dell’istituto. Come da prassi, ha poi effettuato un puntuale rapporto e nessuna anomalia di alcun genere è stata riferita”. Il 41bis e il contrasto alle mafie - Renoldi ha aggiunto due considerazioni sulle visite: “Voglio sottolineare che tutte le autorizzazioni d’ingresso nei reparti del 41bis, sia per quelle del passato che per l’ultima, non possono in nessun modo essere interpretate come un cambio di regolamentazione nel ricorso al cosiddetto carcere duro”. E ha ribadito che “quando sussistono i presupposti di legge, il 41bis resta uno strumento efficace per il contrasto alle mafie, proprio perché assicura l’allontanamento radicale del detenuto affiliato dal suo sodalizio di appartenenza”. Sul 41bis ha concluso così: “Si tratta di una componente insostituibile della nostra legislazione antimafia, consolidata nel tempo, soprattutto dopo la drammatica stagione delle stragi del ‘92. E 30 anni dopo, possiamo con orgoglio rivendicare che la nostra legislazione antimafia è diventata un modello di riferimento rispettato e replicato anche nel mondo. Come da ultimo provato dalla visita del ministro olandese anche nelle sezioni del 41bis”. Tant’è che dal primo gennaio 2021 ci sono stati 25 decreti di prima applicazione del regime speciale, 11 decreti di riapplicazione e 542 decreti di proroga. La situazione delle carceri oggi - Nell’audizione il capo del Dap ha fornito anche i numeri sulla situazione delle carceri oggi. A partire dai 732 detenuti in regime di 41 bis, rispetto ai 790 posti disponibili in dodici istituti penitenziari. Di questi posti 742 si trovano nelle sezioni “ordinarie” e 48 in quelle “riservate”. Sono disponibili inoltre 20 posti nell’unica sezione femminile e 5 nella casa lavoro di Tolmezzo. Dal 5 luglio anche a Modena ci sono 8 posti riservati per il 41bis. Infine 2 posti presso il centro clinico del carcere di Marassi a Genova e 2 a Torino. In regime di Alta sicurezza, sono reclusi 9.455 detenuti distribuiti in 63 penitenziari, suddivisi in tre fasce, 260 in “As1” (in uscita dal 41bis), 65 in “As2” (reati di terrorismo, eversione e violenza), 9.130 in “As3” (capimafia). I detenuti pericolosi - Sulla gestione dei detenuti pericolosi Renoldi ha insistito sui criteri “nella ripartizione della popolazione detenuta che tenga distinti non solo i detenuti comuni da quelli appartenenti alla Alta sicurezza ma, tra quest’ultimi, anche i soggetti più pericolosi ovvero al vertice delle organizzazioni dai loro affiliati”. “Gli esponenti di vertice e i sodali mafiosi - dice Renoldi - vengono allontanati dall’area geo-criminale nella quale hanno operato evitando concentrazioni di soggetti della medesima associazione, soprattutto se in posizione verticistica, per non creare situazioni di leadership nelle sezioni detentive ad opera di un clan dominante e ottenere in tal modo una distribuzione omogenea della popolazione carceraria”. Costante infine il collegamento tra il Dap e la magistratura antimafia. Contro la furia dei Torquemada grillini, lezione di diritto dal capo del Dap di Angela Stella Il Riformista, 15 luglio 2022 In Commissione giustizia di Camera e Senato, il numero uno del Dap ha dissolto i dubbi sul suo operato e su quello di Nessuno Tocchi Caino: “Rendono più umana la condizione delle carceri”. “Nessuno Tocchi Caino non è una associazione sospetta, anzi rende più umana la condizione carceraria. La presenza, in particolare di Rita Bernardini, migliora e non peggiora la vivibilità carceraria”: potremmo prendere in prestito questa frase dell’onorevole dem Walter Verini detta ieri in Commissione giustizia per domandarci come sia possibile che tre forze politiche - M5S, Lega, Fdi- da giorni stiano mettendo in dubbio l’integrità dell’associazione radicale per screditare contemporaneamente il capo del Dap Carlo Renoldi che ha autorizzato “personalmente”, come riferito ieri in audizione, le visite nei reparti di 41bis di due carceri sarde. Sta di fatto che ieri Renoldi, ascoltato sia nella commissione Giustizia del Senato che in quella della Camera, ha fornito tutte le spiegazioni, rispedendo ai mittenti sospettosi e talvolta aggressivi o indisponenti nell’eloquio, come Sarti e Ferraresi del M5S, tutti i dubbi sul suo operato e su quello dei radicali. Lo ha fatto “sul piano fattuale e normativo”. Intanto ha chiarito che le visite, anche da parte di soggetti non istituzionali, “già dal 2013, secondo la circolare del Presidente Tamburino, pacificamente possono essere effettuate nei reparti del 41bis e altrettanto pacificamente possono non constare unicamente in una sorta di ispezione dei luoghi ma anche in brevi interlocuzioni con i ristretti sulle loro condizioni detentive. Questo genere di attività sono state autorizzate negli anni: le occasioni in cui associazioni esterne o soggetti non istituzionali sono entrati al 41bis e hanno avuto modo di interloquire con i detenuti sono circa una decina. Il Partito radicale è entrato nel reparto di 41bis di Tolmezzo nel 2014 e nel 2017, a Parma nel 2015, a Cuneo nel 2015, a L’Aquila nel 2016, a Novara nel 2016, a Viterbo nel 2019, a Rebibbia Nuovo Complesso è entrata una rappresentanza delle Camere Penali, precisamente la Commissione carcere”. Quindi, ha sottolineato Renoldi “anche l’affermazione ricorrente in queste settimane secondo cui non era mai successo che associazioni e organizzazioni non istituzionali fossero entrate è smentita dai fatti”. In merito alle visite che hanno scatenato la bufera politica e mediatica: “Si è considerato che si tratta di associazioni che da sempre sono impegnate sul versante della tutela dei diritti dei detenuti e della verifica delle condizioni detentive. La presidente Rita Bernardini è stata elogiata nel 2015 dal Presidente Napolitano con una lettera quale esempio di persona che si impegna su quel versante”. Renoldi ha poi sottolineato, ma non poteva essere diversamente, che “da parte della sua amministrazione non c’è nessun allentamento né arretramento del regime del 41bis che resta un presidio essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata. La Ministra Cartabia ha firmato ben 520 decreti tra proroghe e applicazioni del 41bis nell’arco di poco più di un anno”. Sia al Senato che alla Camera è stato chiesto a Renoldi di riferire i contenuti delle interlocuzioni e se è vero che c’erano anche due avvocati del posto durante le visite. Ipotesi fortemente stigmatizzata dalla Sarti perché sarebbero gli stessi avvocati che hanno gli assistiti al 41bis. Renoldi ha spiegato che “le visite, come riferito dal reparto d’élite del Gom, sono state effettuate in assenza di qualsivoglia anomalia. Da quanto emerge dalla loro relazione al 41bis non è stato trattato il tema dell’ergastolo ostativo né sono state chieste le iscrizioni a Nessuno Tocchi Caino. So che dell’ergastolo ostativo si è parlato in occasione di un successivo momento relativo all’incontro che la delegazione ha avuto con i detenuti dell’alta sicurezza, quindi non con i 41bis. E sempre in quella occasione, da quanto ho letto nei rapporti, c’è stato l’invito ad iscriversi a Nessuno Tocchi Caino, ma non a quelli del 41bis”. I temi affrontati con i reclusi al regime di carcere duro sono stati “le condizioni di salute dei detenuti e le condizioni relative al vitto somministrato”. Ha confermato la presenza degli avvocati, ricordando però a chi lo avesse dimenticato che l’avvocato può tenere colloqui segreti quando vuole, non ha bisogno di questo tipo di visite per parlare con i propri clienti. Tanto è vero che sempre dalla relazione del Gom è emerso che hanno fatto domande solo sulle condizioni di vita nel carcere, chiedendo ad esempio se vedessero gli educatori. Tutto questo non è bastato perché le solite tre forze politiche hanno chiesto di poter visionare la relazione del Gom nel prosieguo dell’audizione che si terrà nelle prossime settimane. A questo punto ci si deve chiedere: chi sono quelle talpe che hanno passato false informazioni ai giornali? Qual era lo scopo di creare questo caos? O si tratta di persone impreparate sul piano normativo o di persone che pur conoscendo le regole hanno strumentalizzato i radicali per colpire Renoldi e indirettamente la Cartabia. Ma da quanto ascoltato ieri hanno fallito, perché Renoldi ha chiarito tutto senza alcuna difficoltà. La responsabilità penale e il terreno dove il Diritto si fa incerto di Guido Alpa Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2022 Il dibattito che si è aperto sul caso dell’ing. Mauro Moretti suscita osservazioni elementari ma non inutili, se vogliamo riflettere sul modo nel quale persone competenti e capaci possano accollarsi ruoli gestionali senza dover essere esposte a rischi imprevedibili e inaccettabili. Sul piano del diritto civile non è necessario operare distinzioni con riguardo allo scopo sociale, al tipo e metodo di produzione di beni e servizi, alle modalità di organizzazione dell’impresa per poter affermare la responsabilità oggettiva (cioè senza colpa) dell’impresa che ha cagionato il danno, essendo del tutto indifferenti lo scopo, l’organizzazione, le tipologie di prodotti e servizi, e finanche la colpa dei singoli che operano come amministratori per assicurare il risarcimento del danno risentito dalle vittime. Nel diritto penale la situazione è assai diversa. La responsabilità oggettiva non è consentita nel diritto penale: la responsabilità penale personale è una conquista della civiltà dei Lumi, è il vanto della cultura italiana che ha rivendicato, con le pagine di Beccaria, le libertà personali soffocate dal dispotismo e dall’oscurantismo. La responsabilità penale personale è un principio sancito dalla nostra Costituzione (art. 27). A parte la responsabilità delle società prevista dalla legge n. 231 del 2001, che si suole denominare responsabilità “amministrativa”, perché per tradizione societas delinquere non potest, e che ancor oggi pone molte incertezze ad operatori, avvocati e giudici, gli amministratori rispondono personalmente per reati collegati alle crisi d’impresa, per reati tributari, per reati ambientali, per reati finanziari, e così via. Ma quando si tratta di prodotti e servizi, fino a che punto rispondono personalmente gli amministratori dell’impresa? Qui il terreno del diritto si fa incerto. Non vi sono regole specifiche che prefigurino reati precisi: se una bottiglietta di aranciata esce dal processo produttivo con i resti di una chiocciola, se un pacchetto di biscotti risulta avariato perché inscatolato in modo non igienico, se un segnale ferroviario non scatta al momento opportuno, a chi può essere imputato l’errore? Al di là degli aspetti civilistici che non sono collegati con la colpa, e consentono di risarcire le vittime da parte dell’impresa impersonalmente considerata, come si possono affrontare gli aspetti penali? Come risalire dal sinistro direttamente alla colpa degli amministratori? Vi sono casi in cui il percorso è più lineare: se crolla un ponte è possibile che il cda della società che ne curava l’uso si fosse posto il problema della manutenzione e della conservazione; se non l’avesse fatto, per incuria, ignoranza, indifferenza, o per calcolo economico, è forse meno problematico arrivare alla conclusione. Ma se la carrozza di un treno deraglia perché vi erano sassi sulle rotaie, o perché la leva del cambio in una stazione non ha funzionato, o perché il controllo della integrità del carrello, ordinato dal cda ad una società specializzata, non è stato accurato, lo si può imputare al cda, o anche solo al suo ad? O si deve arrestare la catena al livello in cui si è accertata la colpa? Tra questo livello e il punto di arrivo non si finisce per imboccare una strada che porta direttamente alla responsabilità oggettiva, non ammessa penalmente? Qui non vengono in gioco il dolore e la tragedia delle vittime e delle loro famiglie, perché è giusto cercare i colpevoli e sanzionarli; ma fino a che punto si deve spingere la ricerca dei colpevoli? Si può trasformare questa ricerca nella individuazione del capro espiatorio attraverso la costruzione mediatica di una condanna che giunge prima ancora che inizi il processo? Si è oggi teorizzata l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto soggettivo della personalità specifico (Sammarco, La presunzione di innocenza, Giuffré). Non mi pare di aver trovato nelle sentenze che si sono succedute in questa vicenda argomenti giuridici svolti in modo approfondito. Mi si potrebbe obiettare che chi pratica il diritto civile è più abituato ai richiami normativi e alle sottigliezze della interpretazione dottrinale. E si potrebbe controbattere che la motivazione della sentenza è una garanzia processuale insopprimibile. A queste esigenze sopperirà la Corte di Cassazione, che deve controllare la correttezza della interpretazione e la uniformità della applicazione della legge. Giustizia significa applicazione della Costituzione e quindi non solo ricerca dei colpevoli e soddisfazione delle vittime e dei loro congiunti, ma accertamento corretto delle responsabilità e ripudio della responsabilità penale oggettiva. Queste considerazioni elementari dovrebbero sorreggere coloro che intendono decifrare in termini giuridici gli accadimenti della vita reale. Le incertezze della dottrina e i contrasti della giurisprudenza dovrebbero mettere in guardia dal ricorso a generalizzazioni affrettate. Ogni caso fa capo a sé, ogni vicenda ha la sua storia e il suo epilogo. E non dobbiamo dimenticare che la civiltà di un Paese si commisura dalla frequenza degli errori giudiziari che si registrano nel corso del tempo. Caro Renzi, venga in Calabria a scoprire casi di malagiustizia più gravi del suo di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 15 luglio 2022 Certo, nella vicenda dell’ex premier le garanzie costituzionali vacillano. Ma è nulla se si pensa ai tanti innocenti finiti in manette e poi assolti di una terra a diritti zero. “Ci sono dati che di fatto vi faranno pensare. Hanno arrestato i miei genitori con un provvedimento subito annullato, hanno sequestrato i telefoni dei miei amici non indagati, hanno cambiato nomi nei documenti ufficiali per indagare sulle persone a me vicine, hanno scritto il falso in centinaia di articoli, hanno pubblicato lettere privatissime tra me e mio padre, mi hanno fotografato negli autogrill e mentre uscivo dal bagno di un aereo, hanno controllato e pubblicato tutte le voci del mio estratto conto, hanno violato la Costituzione per controllare i miei messaggi di Whatsapp …” e per far tutto ciò “hanno coinvolto strutture dei servizi di intelligence non solo italiani”. A scrivere le cose che avete appena letto è stato Matteo Renzi ex presidente del Consiglio dei ministri ed attuale senatore e a commettere una lunga serie di reati nei suoi confronti sarebbero stati magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, pubblici funzionari. Sullo sfondo si intravedono alcuni politici ma giocano la partita solo di rimessa dal momento che il pallone è sempre in possesso di forze oscure (ma non tanto) che operano all’interno dello Stato. Non sono mai, (ma proprio mai), stato “renziano” ma mano che la matassa si dipana mi pare evidente che le accuse mosse contro il senatore fiorentino saranno difficilmente sostenibili in un giusto processo. Sarà il tempo a farci capire meglio le cose ma è certo che nel suo libro Renzi, fa intravedere con chiarezza la febbrile attività di un sistema inquirente che opera nel “cuore” dello Stato e conta sul sostegno attivo di parte importante degli organi di informazione di massa. Nel libro si delinea un tentativo di “linciaggio” mediatico contro un uomo che ha ricoperto e ricopre incarichi di primissimo piano, dei suoi familiari e dei suoi amici personali e politici. Una trama che ha come colonna sonora il lugubre rumore di manette e un continuo agitar del “cappio”. Gli “associati” pur avendo giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione, non avrebbero esitato un attimo a violare le leggi di cui avrebbero dovuto essere custodi mettendo così in pericolo la libertà e la sicurezza dei cittadini e la legittimità dello Stato. Ci troviamo in presenza di un libro inquietante perché, dopo la lettura, è impossibile non domandarsi cosa potrebbe succedere (anzi, cosa succede) a un normale cittadino che dovesse capitare nel mirino di coloro che detengono il potere reale in Italia viste le cose successe ad un ex capo del governo della Repubblica che dispone intanto dell’immunità parlamentare e quindi di amicizie, denaro e che forse potrebbe contare su un circuito di potere alternativo rispetto a quello che ha tentato di fargli scacco matto. In qualche modo, penso di sapere quello che succede alle tantissime persone che capitano dentro il tritacarne kafkiano che è la “giustizia” in Italia e per come riesco da oltre quarant’anni cerco di raccontare le loro storie, in particolare di coloro che abitano in una terra a zero democrazia come la Calabria. Parlo dei superstiti delle tante tempeste giudiziarie che hanno sconvolto molte vite di innocenti segnandoli per sempre. Se potessi vorrei invitare il senatore Renzi in Calabria. Potrei fargli conoscere “casi” rispetto ai quali quanto successo a Lui è acqua fresca. Avrei una sola difficoltà: non potrei farlo parlare con i morti di crepacuore per non aver avuto giustizia. Morti che si aggiungono ad altri morti per mano mafiosa. In mezzo un popolo che deve abbassare la testa agli uni e agli altri e ci vuole molto coraggio ad alzare la testa. Nel libro di Renzi non mi sembra che costoro abbiano avuto spazio. Comprendo perfettamente che l’autore non avrebbe potuto conoscere i singoli casi ma il segretario nazionale del Partito democratico, anche bendandosi gli occhi, avrebbe potuto e dovuto conoscere la particolare situazione della Calabria: le somme spese dallo Stato per ingiusta detenzione, la pesca con le reti a strascico in cui restano impigliati soprattutto gli innocenti, le sfilate in manette di persone successivamente assolte, le intercettazioni telefoniche di massa, la “vendetta” praticata con gli strumenti della giustizia, la paura che terrorizza la gente obbligandoli al silenzio sia rispetto ad una certa antimafia che alla mafia. Evidentemente gli è sfuggita o i suoi amici calabresi non hanno avuto interesse a fargliela conoscere e questo lo porta a commettere altri errori. Per esempio Egli spara ad alzo zero e con molta precisione sui magistrati che hanno indagato Lui, i suoi genitori e i suoi amici ma il problema non è il nome del giudice. Si chiami Creazzo, Gratteri, Davigo o Di Matteo. I nomi sono passati e passano ma le storture restano, quindi Il problema vero è che la classe politica complice una legge elettorale truffa e una dirigenza golpista - non è davvero legittimata dal consenso, per cui alcuni magistrati si sono sentiti autorizzati a operare fuori e contro le leggi e la Costituzione. Costoro sono intoccabili, non pagano per i loro errori, impongono il silenzio stampa sulle loro stesse vittime, trovano complicità e protezione negli altri poteri dello Stato. A questo punto Renzi deve scegliere se comportarsi da Nume offeso che cova una sua personale vendetta per “l’onta ricevuta”, oppure vuole essere un leader che, capace di autocritica rispetto alla sua stessa esperienza politica e governativa, intende battersi per il rispetto della Costituzione. In quest’ultimo caso gli rinnovo l’invito: “scenda” in Calabria ma non cerchi sempre le stesse persone e solo così potrà scoprire di ‘ che lacrime gronda e di che sangue’ lo scettro dei detentori del potere. Palamara show in aula. “Disegno unico dietro le fughe di notizie” di Simona Musco Il Dubbio, 15 luglio 2022 Un lungo conciliabolo tra il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, l’aggiunto romano Paolo Ielo e Luca Palamara. È questo il siparietto che ha preceduto l’udienza di ieri nel processo a carico dell’ex consigliere del Csm, imputato davanti al tribunale del capoluogo umbro in due diversi processi, uno per corruzione, l’altro per rivelazione di segreto d’ufficio. Udienze dove a tenere banco, più che le accuse mosse a Palamara, sono state le fughe di notizie che hanno caratterizzato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Fughe mirate, dal momento che a finire sui giornali, proprio come due anni fa, è stato solo il materiale relativo ell’ex pm romano. Ed è stato questo, ieri, l’argomento di conversazione tra i tre magistrati. La procura di Perugia, da un lato, è sicura di aver individuato la propria talpa: un dipendente amministrativo che avrebbe scaricato abusivamente la richiesta di archiviazione, che oggi si trova in mano a diversi giornalisti ma non allo stesso Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e uomo chiave di quell’inchiesta. E se fino ad oggi nulla si è mosso in merito alla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni del Palamaragate, questa volta sembra respirarsi un’aria diversa. Le indagini condotte da Perugia e da Firenze, procura alla quale l’ex presidente dell’Anm si è rivolto per scoprire quale manina consegni sistematicamente gli atti che lo riguardano a Corriere e Repubblica, questa volta potrebbero infatti portare a tracciare una linea tra quanto successo il 29 maggio 2019 - giorno della cena all’Hotel Champagne - e l’ultima discovery. L’idea della procura di Perugia sembra coincidere con quella di Palamara: dietro quel funzionario impiccione potrebbe esserci qualcuno. E le fughe di notizie, dunque, potrebbero non essere una casualità. “Questa fuga di notizie conferma che si è giocata un’altra partita, oltre a quella dell’indagine penale - commenta a fine udienza l’ex zar delle nomine. È chiaro che se di mezzo ci sono sempre le stesse persone, le stesse situazioni, e se a finire ai giornali sono solo le pagine che mi riguardano vuol dire che qualcuno voleva qualcosa. E per capire come sono andate le cose faremo tutto il possibile, con tutte le forze”. L’idea è che qualcuno abbia utilizzato le vicende dell’Hotel Champagne per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, magari non con lo scopo di arrivare ad un processo, ma per far vedere come “funzionava” il Csm. Una sorta di golpe giudiziario, insomma, per mandare via quelli che erano stati legittimamente eletti e sovvertire il gioco di forze fino a quel momento in atto. Palamara ha espresso il suo punto di vista con chiarezza ieri in aula, quando il magistrato spogliato della sua toga ha preso la parola per fare dichiarazioni spontanee. “Se deve essere un processo deve esserlo nelle aule di giustizia - ha dichiarato. Sono anni che leggo quello che mi riguarda sui giornali”, comprese le intercettazioni fatte il 29 maggio del 2019, servite per “consentire ad un gruppo della magistratura di prendere il posto e governare per quattro anni il Csm. A quello servì la vicenda dell’Hotel Champagne”. L’ex pm è tornato sul trojan a intermittenza, spento alle 16.02 del 9 maggio, dopo aver annunciato ad Adele Attisani - coimputata nel processo per corruzione che avrebbe incontrato a cena l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino per festeggiare il pensionamento del primo. “Se gli altri fanno errori nella foga di dovermi legare le mani poi non ci si deve lamentare che la gente voglia capire quello che c’è dietro”, quindi commentato. Palamara ha parlato di “scandalo” e “veline” passate ai giornalisti con scopi diversi dalla necessità di informare. Ma il racconto che ne è venuto fuori, ha sottolineato, “è una buffonata”, “una presa in giro fatta a migliaia di magistrati in Italia”, motivo per cui ha deciso di raccontare tutto nei suoi libri. Compreso lo scopo dietro il trojan all’Hotel Champagne: “La mia iscrizione nel registro degli indagati è stata fatta per far saltare la nomina di Viola alla Procura di Roma”, ha dichiarato. Palamara ha anche parlato della sua frequentazione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato una condanna a un anno e sei mesi e che secondo la procura avrebbe pagato cene e viaggi all’ex pm per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. “Il problema delle frequentazioni riguarda non solo il sottoscritto, ma anche Pignatone, gli esponenti del Pd, il mondo della finanza”, ha dichiarato. Dopo una cena nel 2016 con il lobbista a Villa Paganini, ristorante nei pressi di corso Trieste a Roma, offerta dallo stesso Pignatone, “il mio procuratore capo mi disse che non poteva più frequentarlo e mi aveva messo in guardia, “evita”, mi disse. La nostra frequentazione, invece, è andata avanti perchè per me era un amico di famiglia: continuai a frequentarlo anche nel 2017”. E fino a maggio di quell’anno, data dell’iscrizione del lobbista al registro degli indagati, “io frequento un incensurato, carte alla mano”. I due processi riprenderanno ora dopo l’estate: quello per corruzione tornerà in aula il 19 settembre, quando dovrebbe essere definita la costituzione delle parti civili, quello per violazione di segreto d’ufficio, nel quale è imputato insieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava (quest’ultimo accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e abuso di ufficio) il 26 settembre. In aula, ieri, anche la richiesta, poi rigettata dal Tribunale, dei legali di Palamara di depositare, nell’ambito del processo per corruzione, le due denunce per fuga di notizie presentate alla procura di Firenze, una nel novembre 2020, l’altra l’11 luglio scorso. Ad opporsi il procuratore Cantone insieme ai sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani. Napoli. Poggioreale è disumano, ma dalla politica solo passerelle e chiacchiere di Andrea Aversa Il Riformista, 15 luglio 2022 “Lo ripetono in continuazione, i lavori inizieranno presto ma poi non succede mai”, a dirlo a Il Riformista è stato Pietro Ioia, Garante per i diritti dei detenuti per la città metropolitana di Napoli. A lui e al Segretario regionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria (Uspp) Ciro Auricchio, abbiamo chiesto di commentare il rapporto sul carcere di Poggioreale pubblicato dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale. Nel report è stato evidenziato lo stato di degrado e abbandono in cui versa la struttura carceraria e soprattutto la disumanità alla quale detenuti e agenti penitenziari sono condannati. Inoltre c’è un’altra e importante questione: quella dei lavori di messa in sicurezza di parte del penitenziario. Un’operazione di ristrutturazione anti sismica che dovrebbe precedere quella di rinnovamento di alcuni padiglioni. Opere per i quali sono stati stanziati fondi e progetti ma per i soliti cavilli burocratici la gara d’appalto non è mai partita. E Poggioreale con i suoi abitanti resta in eterna attesa che qualcuno faccia qualcosa. “Degli interventi sono stati fatti - ha spiegato Auricchio - ma non sono stati sufficienti in quanto è proprio l’edificio ad essere vetusto, fatiscente e non adeguato alle necessità di chi ci vive e lavora”. Il Garante e il Segretario sono d’accordo su due punti. Il primo è relativo al tema del sovraffollamento, la piaga delle piaghe che sevizia quotidianamente reclusi e agenti. “A Poggioreale è come se ci fossero due carceri in uno - ha dichiarato Ioia - Il sovraffollamento blocca tutto. Se per fare dei lavori in alcuni padiglioni devi trasferirne i detenuti, dove li porti se l’intera struttura insieme a quelle regionali e nazionali esplodono di reclusi?”. “A causa del sovraffollamento detenuti con differenti profili sono costretti a convivere - ha affermato Auricchio - Circa il 20% di essi hanno problemi psichici. Invece di stare nelle Rems stanno in carcere. Le Rems non funzionano perché hanno pochi posti disponibili e una lunga lista di attesa. Questo crea enormi disagi al personale della Polizia penitenziaria che oltre a dover svolgere compiti straordinari, deve affrontare molti casi di aggressione”. Il secondo punto di convergenza è legato all’indifferenza politica. “C’è la volontà ma alla fine restano le chiacchiere - ha detto Ioia - Alla politica non interessa nulla delle carceri e dei detenuti. È un argomento impopolare che i partiti non vogliono affrontare in modo concreto”. Auricchio ha rincarato la dose: “Tolta la passerella a Santa Maria Capua Vetere, fatta per i recenti episodi di cronaca, del premier Draghi e del ministro Cartabia che hanno mostrato un po’ di sensibilità sull’argomento, il governo non ha fatto niente. Non ha riformato in modo strutturale, né la giustizia, né il sistema penitenziario”. Ed è difficile dare torto ad entrambi. Numeri e fatti danno loro ragione. Se per cercare di risolvere in minima parte il problema del sovraffollamento si potrebbero far uscire di prigione specifici detenuti, andrebbero rinforzati e muniti di risorse adeguate i tribunali di sorveglianza. Andrebbero potenziate le pene alternative e gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) per la messa alla prova. Se una delle soluzioni potrebbe essere quella di costruire penitenziari nuovi e umani, qualcuno dovrebbe spiegare perché è sparito il progetto di quello che andava fabbricato a Nola. Se mancano sanitari ed educatori affinché ai detenuti siano garantiti, oltre al diritto alla salute, le attività sociali, ricreative, lavorative e rieducative, qualcuno spieghi il perché queste risorse non vengono messe a disposizione dell’amministrazione carceraria (lasciando spesso e volentieri che queste attività siano svolte dagli agenti della penitenziaria). Qualcuno spieghi il perché a Poggioreale mancano ancora 150 - 180 agenti della polizia penitenziaria, circa 600 in tutta la regione Campania. Tale scenario è simile per le altre strutture detentive, cittadine e regionali. Proprio nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere solo in questi giorni è stato risolto il problema della mancanza d’acqua (esatto, nel 2022 in un carcere di un paese occidentale mancava l’acqua!). “Il carcere non può essere una discarica sociale”, ha concluso Auricchio. “Poggioreale è una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro”, ha invece ribadito Ioia. Lo Stato dovrebbe evitare che questo accada. Milano. Detenuta incinta si sente male in carcere e perde il bambino di Manuela D’Alessandro agi.it, 15 luglio 2022 La vicenda dopo le polemiche suscitate dalla decisione della Procura di Milano di rendere obbligatorio l’ingresso negli Istituti di pena di madri e bimbi piccoli arrestati, anche se è solo un passaggio temporaneo perché non ci possono stare Una donna incinta ha perso il bambino dopo essersi sentita male nel carcere di San Vittore, dove era arrivata in esecuzione di un ordine di arresto. Il neonato è morto nell’ospedale in cui è stata trasportata in seguito al malessere. La notizia viene riferita all’AGI da fonti qualificate. Il fatto è accaduto nei giorni scorsi dopo che il 30 maggio è entrata in vigore un’ordinanza della Procura di Milano in base alla quale è diventato obbligatorio l’ingresso negli istituti di pena delle donne incinte o con bimbi di un anno di età in presenza dell’ordine di esecuzione di un arresto. Una svolta che ha provocato le proteste della Camera Penale perché la Procura ha revocato una precedente circolare del 2016 nella quale si raccomandava al contrario di non eseguire questi ordini di arresto. Un soggiorno ‘breve’, di solito non più di 24 ore, in attesa che il Tribunale di Sorveglianza prenda atto delle condizioni che impediscono la permanenza di madre e bambini, come previsto dal codice penale. Un passaggio che però, secondo gli avvocati e anche il Garante dei diritti delle persone detenute, andrebbe evitato perché, nel momento in cui le donne coi bimbi entrano in carcere, si ha il dovere di custodirli ma in carcere non c’è un servizio ginecologico. Inoltre, è stato fatto notare alla Procura in una lettera all’aggiunto Maurizio Romanelli, la detenzione per poche ore comporta i costi dell’immatricolazione e “viola i diritti dell’infanzia”. Sulla vicenda del bimbo deceduto sono in corso indagini della magistratura. San Gimignano (Si). Torture a Ranza, veleni e tensioni. “Ecco perché facemmo l’ispezione” di Laura Valdesi La Nazione, 15 luglio 2022 Testimonia nel processo ai cinque agenti anche Massimo Parisi, direttore generale del personale del Dap. Braccio di ferro fra procura e difesa sull’estrapolazione del video che accusa gli uomini della penitenziaria. “Feci una visita ispettiva nel carcere di Ranza, era il febbraio 2019. L’oggetto? Riguardava la gestione della direzione essendo state segnalate forti criticità”, racconta Massimo Parisi, direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Che testimonia nel processo per le presunte torture in carcere ai danni di un detenuto di 33 anni, dopo le parole di Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha che ricevette l’esposto di 5 carcerati di Ranza. “Chiedevano di dare loro sostegno - spiega - e di far emergere quanto accaduto. Inviammo la notizia al ministero della Giustizia, al presidente della Camera, al Garante nazionale per i detenuti”. Ma è la ricostruzione di Parisi a scattare una fotografia della situazione ‘bollente’ nel penitenziario, dove rilevò “forti lamentele da parte dei detenuti” ma anche “lacune gestionali”. Che declina: “Dicevano che la direttrice dell’epoca non consentiva il trasporto dei detenuti anche se il medico attestava la patologia, in un’occasione avrebbe anche bloccato il ricovero nonostante la classificazione in codice giallo. La direttrice chiedeva il motivo della spesa dei fondi”. Insomma, “c’era un fermento importante dei detenuti”, oltre a registrare “una conflittualità fra area educativa e della sicurezza”. Parisi conferma di aver parlato durante la visita con uno degli ispettori imputati: “Credo che fosse in linea con la gestione della direzione. Se facevamo osservazioni, per esempio, rispetto alle telefonate ridotte, pensava che fosse un modo per riportare la regola”. Il direttore del personale svela poi “che più di recente, 6-7 mesi fa, è stata svolta una nuova ispezione ma rispetto a criticità diverse”. Particolarmente lunga la testimonianza davanti al collegio Spina del medico che nel 2018 seguiva i carcerati di Ranza. Il pm Valentina Magnini le rilegge quanto dichiarato quando fu sentita rispetto a come vide, due giorni dopo, l’uomo che sarebbe stato torturato: “La cella era buia, si trattenne a distanza di circa tre metri”. Ma ci sono anche dichiarazioni che l’avvocato Manfredi Biotti, difensore di 4 dei 5 imputati, le rammenta: “Non notò sul volto del carcerato segni”. E la dottoressa: “Se l’ho detto, vuol dire che è così”. Dopo aver ascoltato un’infermiera, ecco un piccolo colpo di scena quando parla uno degli agenti che contribuì ad estrapolare il famoso video del trasferimento di cella, prova chiave della procura. Quando fu preso, circa un’ora e mezzo la durata delle immagini, non c’era ancora la delega al Nir, tantomeno un’inchiesta aperta. “Strano che non mi abbiano chiamato per l’operazione”, dice il referente informatico di Ranza che non era presente all’estrapolazione del video. Questione su cui da tempo c’è braccio di ferro fra accusa e difesa. Nuovo round il 21 luglio: saranno ascoltati gli agenti di turno nella fascia oraria successiva al presunto pestaggio, più altri due coinvolti nel procedimento ora in appello. Chieti. Lavori sociali per i detenuti, via al progetto citypescara.com, 15 luglio 2022 Accordo tra il Comune e il carcere: “Così aiutiamo i fragili ed evitiamo che commettano ancora reati”. Una nuova rete per l’inclusione sociale dei detenuti. C’è l’intesa tra il Comune e il carcere e ieri una parte dei progetti è stata svelata in conferenza stampa. Con questa nuova intesa, si punta a creare un circolo virtuoso di contrasto alla criminalità “Saranno attivati nuovi servizi per le politiche sociali degli adulti”, ha fatto sapere l’assessore Mara Maretti, “come il pronto intervento sociale, l’housing first, il centro servizi per l’inclusione, l’sos sociale 24 ore su 24. La rete è aperta e la disponibilità ad allargare le maglie di questo accordo è piena, accogliendo anche altri enti che oggi non sono coinvolti, per poter intervenire nel modo più ampio e capillare possibile”. La volontà è quella di reintegrare socialmente i detenuti e non solo, attraverso una stretta collaborazione delle istituzioni e delle organizzazioni attive sul territorio. “La nostra amministrazione ha da subito preso in carico la situazione di persone che avevano una vulnerabilità”, spiega il sindaco Diego Ferrara, “e il Comune aderisce all’accordo di collaborazione per questa rete per l’inclusione sociale anche per dare l’ennesima riprova di quanto ci eravamo detti prima di salire al governo della città, cioè che le politiche sociali sarebbero state di riferimento per la nostra azione amministrativa”. “Sono a Chieti da circa 4 anni e da subito ho lavorato per prendere contatti con il territorio perché il nostro lavoro è rieducare le persone e reintegrarle nel tessuto sociale locale”, aggiunge il direttore della casa circondariale di Chieti, Franco Pettinelli, “l’accordo si riferisce ai detenuti, ma si potrebbe espandere a tutte le persone fragili del territorio, perché si pone un obiettivo importante anche sul fronte della sicurezza: queste persone, se recuperate, abbasseranno la probabilità che commettano altri reati. Il vantaggio, dunque, è per tutti”. Al vertice di ieri era presente anche il garante regionale per i detenuti Giammarco Cifaldi, Elena Paradiso dell’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna, Luciano Longobardi (centro per l’impiego di Chieti), Marialaura Di Loreto (cooperativa Alpha), don Luca Corazzari per la Caritas, Luca Fortunato della comunità Papa Giovanni XXIII, Casto di Bonaventura per il Csv, Lino Farao dell’Arcat, Anna Maria Bruno dell’associazione Solineando e suor Vera D’Agostino della fondazione “Figlie dell’amore di Gesù e Maria” onlus. Torino. Lavoro per i detenuti laureati, firmato il protocollo “Alberto Musy” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 15 luglio 2022 Nuove opportunità di riscatto per gli studenti detenuti presso i Poli Universitari di Torino e Saluzzo. Martedì 12 luglio presso la Sala colonne del Comune di Torino è stato firmato il nuovo “Protocollo Alberto Musy per il triennio 2022-2024”, a 10 anni dall’assassinio dell’avvocato, docente universitario e consigliere comunale. All’iniziativa, promossa dal Fondo Alberto e Angelica Musy e dalla Fondazione Ufficio Pio che sostiene le attività del Polo universitario torinese - il primo in Italia istituito negli anni 80 - aderiscono undici enti per potenziare le opportunità di reinserimento lavorativo degli studenti ristretti che abbiano conseguito la laurea durante il periodo di reclusione con priorità ai laureati vicini al fine pena. Il nuovo Protocollo, giunto al terzo rinnovo che viene ampliato anche al carcere di Saluzzo - dopo l’apertura il 30 giugno scorso di una sezione del Polo per detenuti iscritti nell’Ateneo torinese - prevede che le borse lavoro siano destinate ai reclusi che si sono laureati durante la carcerazione, “per supportare efficacemente il delicato passaggio della scarcerazione e minimizzare il rischio di recidiva, facilitando il percorso di reinserimento sociale e lavorativo”, come si legge nel documento. Alla firma del Protocollo erano presenti tra gli altri Angelica Musy, Giovanna Pentenero, assessore comunale con delega ai Rapporti con il sistema carcerario, il vicesindaco Michela Favaro, i garanti dei detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo e Regione Bruno Mellano, Marco Sisti, presidente dell’Ufficio Pio e Paolo Romano, presidente di Smat azienda che favorirà l’inserimento lavorativo dei laureati dietro le sbarre. “Per le persone che stanno scontando una pena lo studio oltre all’esercizio di un diritto, rappresenta una grande opportunità di dare un senso al tempo altrimenti spesso vuoto”, ha sottolineato Franco Prina, delegato del Rettore dell’Università di Torino e presidente della Conferenza nazionale Universitaria dei Poli penitenziari (40 nella penisola con 1250 iscritti su 54 mila detenuti), “mantenere una finestra sul mondo, acquisire strumenti culturali, parte essenziale del capitale sociale di una persona, riacquistare dignità, garantirsi possibilità di riscatto per il futuro. La nostra Università è fortemente impegnata in questo senso con 67 detenuti a Torino e a Saluzzo, iscritti a diversi corsi di laurea. Le borse del Fondo Musy rappresentano una opportunità importantissima per chi si appresta, avendo acquisito una laurea, a ricostruire il proprio futuro fuori dal carcere”. Torino. La nuova vita di Sofia, dai negozi svaligiati ai compiti in classe di Irene Famà La Stampa, 15 luglio 2022 Il tribunale ha condannato i parenti che la costringevano a rubare. Regole. Ecco il prima e il dopo della vita di Sofia. Prima rubava, su ordine della famiglia, ora studia e vuole diventare estetista. Cosa è giusto e cosa è sbagliato l’ha capito da sé. A casa ha provato a spiegarlo: “I furti non vanno bene”. Ha preso bastonate e insulti. Così, quattordicenne rom, si è rivolta ai carabinieri, ha messo di mezzo gli avvocati. E ieri suo padre, sua nonna, suo zio e sua zia hanno dovuto ascoltarla per forza. Per voce di un giudice del tribunale che li ha condannati a due anni e cinque mesi di reclusione per maltrattamenti. “Rubare è sbagliato, io non voglio farlo”, aveva provato a dire quando adolescente con i suoi cugini veniva mandata a svaligiare negozi e supermercati. Oggi, che di anni ne ha quasi diciotto, lo ribadisce. A chi abita con lei in comunità, ai compagni di scuola, agli educatori. Al di là della questione giudiziaria, quella consapevolezza è tra le sue vittorie. Sofia vorrebbe diventare estetista. Lo ha confidato al legale, l’avvocato di parte civile Roberto Saraniti. Aprire un centro estetico, lavorare onestamente. Per progettare il suo futuro, ha tempo. Adesso la sua preoccupazione è prendere buoni voti, soprattutto in matematica, materia in cui, è stato spiegato in aula, incontra più difficoltà. E trovare il suo posto nel mondo. “La ragazza in questo momento è in un luogo sicuro, accompagnata con la massima cura nel suo percorso di formazione e di crescita”, fanno sapere dai servizi sociali. Che ribadiscono: “È tutelata”. Perché Sofia, giovane donna, una famiglia a supportarla non ce l’ha più. E forse non l’ha mai avuta. Non sapeva rubare, non voleva farlo e così veniva emarginata, criticata, picchiati. I difensori degli imputati, gli avvocati Vittorio e Francesco Pesavento, annunciano ricorso. Non nascondono i loro dubbi sulla versione di Sofia. Che sia una ragazza complessa non è difficile crederlo. Come potrebbe essere altrimenti? A casa sua, due stanze per una decina di persone, non veniva sgridata se non andava a scuola, ma se si sedeva sui banchi invece di andare a rubare. E veniva picchiata se si faceva scoprire. Ora Sofia fa i compiti, si prepara per le interrogazioni. Mostra orgogliosa un esercizio di matematica: “Sono riuscita a risolverlo”. Le hanno sempre detto che “era la vergogna della famiglia”. Le hanno mostrato un mondo al rovescio. E lei sta cercando di raddrizzarlo. Busto Arsizio. “Così, attraverso il lavoro abbiamo azzerato la recidiva” di Luca Cereda Avvenire, 15 luglio 2022 Parla il cappellano del carcere, dove domani andrà il cardinale Zuppi. La fede in carcere, dove la si può trovare? “Per me sta nel cogliere la presenza di Dio che è dentro ogni persona. È molto importante che il prete, ma ci metto anche i volontari delle associazioni che operano in carcere, abbiano questo occhio verso il bene che è nel cuore di ogni persona detenuta. C’è una presenza di Dio che sta dialogando in tutti. Il compito è quello di farla emerge, a volte, nonostante il sistema-carcere e le sue regole”. Risponde così don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio che entra tutti i giorni nella casa circondariale del varesotto, dove domani mattina sarà in visita il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Matteo Zuppi. “Per via degli spazi del penitenziario, delle fatiche burocratiche e della mancanza di idee, ci sono pochissime attività rieducative. I detenuti stanno in cella tutto il giorno, sono portati a bivaccare sulla branda. La regola è rendersi invisibili. Non fare nulla. Ma questo “conferma” il loro stile di vita”, aggiunge don David. L’aria è ferma nel carcere di Busto come in tanti altri istituti di pena, ma lì nessuno esce perché ad oggi, racconta preoccupato il cappellano, non sono ancora ripartiti gli articoli 21 dei detenuti, norma che consente loro di lavorare fuori. Questa è un’occasione per cambiare la normalità del carcere, i detenuti lavorando instaurano anche nuove relazioni: “Una persona uscita dal carcere da un po’ di tempo si è trovata invischiata nei “vecchi giri” criminali. Siamo andati insieme dai Carabinieri. Questo gesto non sarebbe mai avvenuto se non avesse avuto la possibilità di fidarsi di me, di lavorare in una cooperativa sociale che abbiamo creato vicino al carcere, durante la sua detenzione”. Ma a cambiare dev’essere anche il sistema: se un ex detenuto per un tirocinio in una cooperativa prende 500 euro al mese, potendo avere accesso al reddito di cittadinanza, sceglie quello. Siccome “il sistema si cambia dall’interno”, don Riboldi ha creato nel 2020 a Fagnano Olona, a qualche chilometro da Busto, La valle di Ezechiele, una cooperativa sociale che dà lavoro ai detenuti e agli ex detenuti: “Noi siamo in affitto in un’ex vellutificio. Mi piacerebbe che una Chiesa che oggi si trova con tanti spazi vuoti e inutilizzati, li mettesse a disposizioni anche di progetti per il recupero sociale dei detenuti”. A La valle di Ezechiele si stampano le magliette per i ragazzi dell’oratorio nella Diocesi di Milano e “grazie a lavori come questo, abbiamo una recidiva dello zero per cento degli ex detenuti che hanno lavorato qui”, conclude don David. Il lavoro, insomma, ripaga. Le mafie vogliono essere la parte efficiente del Paese: questo giova ai loro affari di Roberto Saviano Corriere della Sera, 15 luglio 2022 Giovanni Bianconi ha una rara capacità, quella di dare vita carne sangue sudore e slancio alla cronaca. Bianconi ha il passo del cronista: la cronaca è la vita sua. Sa scovare notizie e scriverle velocemente. Le annusa, non ha bisogno di assaggiarle: dall’odore sente se si tratta di fake, veleno o storia nutriente e vera. In “Un pessimo affare. Il delitto Borsellino e le stragi di mafia tra misteri e depistaggi” non si smentisce. Il racconto della morte di Borsellino procede attraverso un carotaggio di tutti i momenti più assurdi e paradossali. Si vedrà come nulla è più impreparato dello Stato italiano, che ama raccontarsi come moderno ed efficiente, ma in realtà, in molti suoi aspetti, è più vicino al Nordafrica che al Nord Europa. Rocco Chinnici viene ucciso con un’autobomba fuori casa, a Palermo; la burocrazia non era riuscita a garantire il minimo: il divieto di sosta in quei pochi metri di via Giuseppe Pipitone Federico. Stessa cosa accadrà in via D’Amelio: la burocrazia non riuscirà nemmeno a ottenere il divieto di parcheggio davanti casa della mamma del giudice Paolo Borsellino. In Commissione parlamentare antimafia, Borsellino dichiarò: “Poiché non lavoriamo solo la mattina, buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata che, evidentemente, non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, utilizzando la mia automobile, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera”. Questo veniva detto l’8 maggio dell’84. Da lì, sino alla sua morte, l’incapacità statale è sempre stata la migliore alleata delle organizzazioni criminali. Queste sì, organizzate, di fronte a una struttura statale completamente disorganizzata e quindi facile da infiltrare. Le mafie non sono l’Antistato, le mafie sono parte dello Stato, e usano la parte disorganizzata dello Stato per ottenere - questo nel libro di Bianconi si evince chiaramente - potere, consenso, profitto. Le mafie vogliono essere questo: la parte efficiente del Paese... quanto giova, invece, ai loro affari continuare a descriverli come rurali e trogloditi attaccabrighe? Sempre Borsellino racconta: “Mi ricordo che una volta Buscetta aveva detto che gli era stato presentato un capomafia di Bagheria mentre egli passeggiava in via Ruggiero Settimo. Nel mio scrupolo gli avevo confessato: ma come, passeggiava in via Ruggiero Settimo se lei era latitante? Signor Giudice, nel nostro ambiente si sapeva che dalle 2 alle 4 c’è la smonta, volanti non ne circolano, conseguentemente noi latitanti scendiamo a fare la passeggiata”. Protagonista del libro è certamente Paolo Borsellino - ritratto nella foto che ho scelto questa settimana - ma in realtà la voce di sua figlia Fiammetta è importantissima. Dirà: “Mio padre era notoriamente uno che faceva battute, teneva banco con gli amici in situazioni varie, anche il suo affrontare in modo scherzoso il tema della morte era un modo per instillare dentro di noi questa possibilità e, per altro verso, di esorcizzare un dramma. All’epoca non c’erano i cellulari, quindi proprio quell’estate in cui io premevo per andare in luoghi un po’ sperduti, mi disse: Ma insomma dove vai? Se mi uccidono come ti raggiungo? Come ti chiamo?”. E continua: “Mio padre scherzava sempre su questa quasi totale assenza di misure di protezione adeguate, era così drammatica questa inefficienza, che lui ci scherzava quando ci raccontava che cambiava le gomme in autostrada perché le macchine di scorta che avevano in dotazione si rompevano ogni due o tre. Una volta tornò dalla Germania sconvolto perché disse: Se lo stesso spiegamento di forze che mi hanno riservato lì lo avessi qui a Palermo sarebbe tutto più facile”. Si esce dal libro di Giovanni Bianconi consapevoli che il sabotaggio dei colleghi e l’inefficienza della macchina statale sono stati complici del potere mafioso; che l’invidia verso Falcone e Borsellino è stato l’elemento cardine che ha indebolito la loro sicurezza. Questo Stato, che noi consideriamo democratico, conserva in sé un’anima tirannica e autoritaria, quella dell’economia criminale. Ed è, questa, un’efficienza talmente endemica, che senza l’olio del crimine interi comparti economici sarebbero ancora più sclerotizzati. Ma ormai quelle che andiamo raccontando sembrano storie antiche, passate, ecco perché il libro di Bianconi è necessario, perché dà ossigeno alla possibilità di comprendere. Il vero benessere? Esiste solamente se viene condiviso di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai Corriere della Sera, 15 luglio 2022 La pandemia ha modificato i sistemi di relazione. Anche il mutualismo si rinnova e ripensa il senso dello “scambio”. I risvolti in tema di impatto di questa nuova economia sociale. Si intitola “Neomutualismo. Ridisegnare dal basso competitività e welfare” (Egea edizioni) il libro scritto a quattro mani da Paolo Venturi e Flaviano Zandonai. Abbiamo chiesto loro di costruire una reciproca intervista per spiegare senso e finalità del loro messaggio: trovate qui di seguito la loro conversazione. Paolo, proviamo ad autosabotare lo schema classico dell’intervista impostando questo confronto come una conversazione, sia per omaggiare quella capacità di dialogo che sottostà allo scambio mutualistico, sia per evitare il rischio dell’autoreferenzialità. Inoltre per capire cosa ci sta a fare il prefisso neo davanti a mutualismo proviamo a fare tutto questo con un file condiviso nel “metaverso” digitale. In generale come ti trovi in questo contesto? Quali sono gli elementi di rilevanza del digitale e cosa invece ti manca nello sviluppare quel sostrato relazionale che consente di fare mutualismo? Venturi - Il digitale non è la mia comfort zone ma non faccio resistenza a una visione della realtà che, come dice Floridi, è sempre più simile all’acqua dove prosperano le mangrovie: un ambiente che ricombina in maniera indistinta acqua salata e dolce. Un ambiente sempre più ibrido dove lo sforzo non sta nel “dissalare l’acqua” ma nello sviluppare maggior adattabilità e capacità di trarre benefici da un contesto diverso. Il mutualismo da questo punto di vista non vuole funzionare come strumento per separare ma per alimentare processi di reciprocità e mutuo interesse fra diversi. Più che un “paradigma” (parola spesso non catturabile) è un “software” capace di valorizzare (e non sprecare) le interdipendenze e i nuovi scambi che lo squarcio pandemico ha fatto emergere. Insomma dopo aver parlato di oggetti (imprese ibride) e contesti (luoghi) credo sia venuto il tempo di parlare dei “sistemi di relazione”. Zandonai - Giusto, infatti quando ci chiedono una definizione smart di neomutualismo rispondiamo che è un “gestionale delle interdipendenze” che ambisce a spezzare il duopolio del proceduralismo burocratico e degli scambi anonimi di mercato con l’obiettivo di catturare il valore di un sistema di interdipendenze sempre più vasto e articolato nel quale siamo immersi e dal quale è difficile (e forse poco conveniente) disconnettersi. Mi chiedevo, da questo punto di vista: fino a che punto è doveroso spingersi nel ricavare valore dai legami? E non parlo naturalmente solo di limiti tecnologici. V. - Temi di questa portata diventano difficilmente affrontabili se non si dice con chiarezza che la governance dei modelli di creazione del valore non è neutra. Detto in altri termini la vera domanda è come si ridistribuisce il valore nel momento in cui viene prodotto (non dopo), quali motivazioni e significati catalizza, come ridisegna il suo rapporto con il lavoro e il territorio. Insomma la vera domanda non è quanto valore si genera ma se viene mutualizzato oppure no. A mio avviso oggi il tema centrale è questo. In un’era di “grandi transizioni” come quella che stiamo vivendo i dilemmi sono sempre più di natura cooperativa. Z - Però già il mutualismo storico e penso ancor più quello contemporaneo ha provato e prova tuttora a contaminare positivamente anche gli altri meccanismi tipici delle nostre società cioè il mercato e il pubblico. Come vedi tu i “lavori in corso” su questi fronti? Che cosa sostanzia il mutualismo contemporaneo affinché possa agire un ruolo di change maker di sistema che non si accontenta di tutelare la sua nicchia? V. - L’urgenza di rilanciare il mutualismo, anche nelle sue forme meno convenzionali, è per offrire soluzioni economiche e sociali trasformative attraverso logiche inclusive e partecipative basate sul mutuo riconoscimento, sul mutuo supporto e sul mutuo beneficio. Diversamente dal passato, il mutualismo oggi poggia molto su legami deboli, sulla diversità dei bisogni e su contesti “altri” rispetto a quelli locali. Traiettorie che ri-articolano imprese, alleanze, piattaforme dove la dimensione di senso è legata a bisogni primari e dove l’interesse personale è intenzionalmente perseguito secondo logiche collettive spesso non formalizzate. È una prospettiva che ha le radici profonde ma ancora non si intravedono i tratti definiti. Di una cosa però sono certo: abbiamo bisogno di un ancoraggio forte e terzo per fondare e rilanciare la biodiversità dell’economia e il senso politico dell’innovazione sociale. Z. - Il mutualismo contribuisce a porre questioni di fondo piuttosto scomode, direi almeno due. La prima: si può definire un nuovo profilo antropologico in grado di far proprio ed esercitare il mutualismo? La seconda: non è che grazie a qualità sociali potenziate dalle tecnologie digitali possiamo pensare di fare a meno delle istituzioni formali? Insomma che la vita possa istituirsi anche in contesti di relazionalità che non richiedono di costruire soggetti terzi rispetto a forme aggregative più spontanee e informali? V. - In effetti dietro al mutualismo c’è una visione antropologica diversa ossia la persona come struttura di desiderio e non solo portatrice di bisogni. Un’espressività che si manifesta nella libertà e nel creare un valore che possa andare a beneficio di molti e soprattutto delle generazioni future. Il mutualismo allunga l’orizzonte temporale, è un antidoto al corto-termismo. Oltre a ciò pone la questione antropologica nelle grandi transizioni come quella ambientale e digitale e del lavoro: siamo proprio sicuri che basti raggiungere dei Kpi prestazionali per motivarci a lavorare? Sul fronte organizzativo direi invece che il neomutualismo è potente vettore di riorientamento strategico e di change management. Ecco quindi la necessità di ripensare contenuti e rituali dello scambio mutualistico dell’economia sociale istituzionale e al tempo stesso cercare di fare “scaling” di pratiche sporadiche ma promettenti che si situano nella sfera pubblica e in quei segmenti del mercato che prendono sul serio la produzione di valore condiviso. In questo consiste l’”action plan” per un’economia sociale più estesa nella composizione e più consistente in termini d’impatto sociale. Regolamentare gli stranieri presenti in Italia: subito una legge di Emma Bonino Il Riformista, 15 luglio 2022 Dopo tanti anni non mi capacito che ci sia un meccanismo così contorto che sembra fatto apposta per ostacolare le persone che vogliono vivere e lavorare nella legalità. Sono sicura che le 90mila firme raccolte in sei mesi diano una spinta. Ci siamo ritrovati ieri, in Senato, con le organizzazioni della campagna Ero straniero a parlare di immigrazione, lavoro, diritti e della necessità di una riforma a vent’anni dalla legge Bossi-Fini insieme ad alcuni ospiti, nonostante la crisi politica in corso. Nella stessa sala Zuccari, più di cinque anni fa, si è tenuta la prima iniziativa pubblica che ha portato alla creazione della campagna. Il titolo di quel convegno non era molto diverso da quello di ieri, “Come vincere la sfida dell’immigrazione? Accoglienza, inclusione, lavoro: le riforme necessarie a partire dai Comuni e dal superamento della Bossi-Fini”. I nodi da sciogliere, evidentemente, rimangono gli stessi, nonostante nel frattempo siano successe molte cose: alcune positive, in particolare sul fronte dell’accoglienza in Italia e sul ruolo dei Comuni; molte altre decisamente negative, e penso ai decreti sicurezza e quanto continua ad accadere sul fronte del Mediterraneo centrale. Ciò che sicuramente non è cambiata, nel nostro Paese, è la normativa che regola l’ingresso per lavoro dei cittadini stranieri e il loro soggiorno. A confermarlo, i dati della Fondazione Moressa, le testimonianze del mondo produttivo - dell’artigianato di Cna e dei lavoratori e delle lavoratrici dell’agro pontino seguiti dalla Flai Cgil - e le riflessioni degli esperti che ieri sono intervenuti, portando nuovi elementi a riprova di quanto ormai quel sistema introdotto vent’anni fa sia superato e decisamente inefficace. Anche io ho voluto condividere un’esperienza personale, ma significativa e, ahimè, comune a molti. Qualche tempo fa, dopo una caduta, sono dovuta rimanere a casa, a riposo, senza potermi muovere troppo. Avevo bisogno di essere aiutata e, tramite mie conoscenze, è venuta a trovarmi una giovane donna peruviana che avrebbe fatto al caso mio. Durante il nostro primo incontro, è venuto fuori che non aveva i documenti: era arrivata in Italia alcuni mesi prima con un visto turistico per raggiungere il suo fidanzato che vive qui. Il visto era scaduto ma lei era rimasta, lavorando presso alcune famiglie in nero. Ho dovuto fare a meno di lei. Mi sono dunque ritrovata nella situazione classica che tante volte ho descritto per spiegare l’insensatezza delle leggi che abbiamo sull’immigrazione in Italia. Io che ho bisogno di assumere una persona, garantendole un contratto e un reddito; lei che ha bisogno di lavorare, anche per potersi sistemare con i documenti. Ma non si può fare. Ancora, dopo tanti anni, non mi capacito che ci sia un meccanismo così contorto, che sembra fatto apposta per ostacolare le persone straniere che vogliono vivere e lavorare nella legalità e far parte della nostra società, portando il loro contributo, prezioso e, ormai, indispensabile. Spero, quindi, che il lavoro fatto da decine di organizzazioni in questi cinque anni con la campagna Ero straniero riesca, finalmente, a rompere questo schema. Sono sicura che le 90.000 firme raccolte in sei mesi, le tante iniziative pubbliche, le indagini, i report, e tutto quanto insieme abbiamo fatto, ci permetta di ottenere se non tutte le riforme che la legge d’iniziativa popolare prevede, almeno una di queste, quella più di buon senso, di cui tutti capiscono la necessità: la possibilità di regolarizzare le persone già presenti in Italia a fronte di un contratto di lavoro. A questo obiettivo, dopo l’appuntamento di ieri in Senato, continueremo a lavorare nei prossimi mesi - se la legislatura proseguirà - e oltre, cercando di trovare in Parlamento un buon numero di deputati e senatori finalmente pronti, su questi temi, a condividere un approccio concreto e più vicino alla realtà del nostro Paese. Centro per il rimpatrio, il lager del tempo sospeso di Stefano Galieni Left, 15 luglio 2022 “La gestione privata dei Centri non garantisce la tutela dei diritti fondamentali delle persone”. Nel Centro per il rimpatrio di Gradisca di Isonzo le persone, “colpevoli” di non avere documenti in regola, vivono in sei in una cella con le finestre sigillate e niente ora d’aria. La denuncia delle parlamentari Paola Nugnes e Doriana Sarli che sono riuscite a visitarlo. I Cpr sono lager, luoghi disumani in cui esseri umani tengono segregati, in modo indegno, altri propri simili, senza colpa. Spesso sono giovani di vent’anni, in salute, venuti fin qui con la speranza di una vita migliore, di trovare un Paese capace di dar loro un futuro, perché la loro terra è distrutta dallo sfruttamento, dalla guerra, dalla siccità. Qui trovano invece confusione, segregazione, violenza psicologica, se non fisica, e si ammalano, si disperano fino a cercare la morte. E a volte muoiono”. Paola Nugnes, senatrice di ManifestA, è entrata per la prima volta in un Centro fermamente per i rimpatri, insieme alla collega deputata Doriana Sarli, della stessa componente parlamentare. In lunghi come questo vengono costrette in stato di reclusione persone extracomunitarie considerate da espellere dall’Italia, in quanto trovate prive di regolari documenti di soggiorno. Paola Nugnes non nasconde l’indignazione, anche quasi dopo un mese dall’esperienza vissuta nel Cpr. Il 17 giugno, senza clamore, le due parlamentari hanno raggiunto il Cpr di Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, per una lunga, attenta e doverosa ispezione, accompagnate da un legale, Martina Stefanile, e un mediatore culturale, Nagi Cheikh Ahmed, Anche Doriana Sarli è provata da quanto ha visto: “Un luogo senza tempo - racconta - dove lo Stato di diritto scompare. Alcuni lo definiscono “luogo dal tempo sospeso”, perché privo di tempi certi, ma soprattutto perché non si sa dove conduca. I trattenuti sono lì per un reato amministrativo che nel nostro ordinamento giuridico non potrebbe essere punito con il “carcere”. Ecco perché siamo fuori dallo Stato di diritto e la gestione privata dei centri non garantisce la tutela dei diritti fondamentali delle persone”. Il Cpr sorge in una ex caserma, la Ugo Polonio, quasi al confine con la Slovenia, in mezzo al nulla. Un edificio brutto dentro e fuori, inaugurato nel 2006 e più volte al centro di polemiche, di denunce e di manifestazioni, più volte chiuso e riaperto, teatro di tentativi di suicidio in alcuni casi purtroppo attuati. Paola Nugnes si sofferma su quell’atmosfera, dice, di “cattiveria” che ha respirato visitando le diverse aree del centro, contrassegnate da colori diversi. Più che i colori, sono le persone ad esserle rimaste impresse. “I luoghi dove siamo costretti a vivere - dice - ci cambiano, ci condizionano. Se sono luoghi brutti, strutturalmente disumani, fatti di mura in cemento, sbarre, celle, abbrutiscono chiunque li vive. Mi dicono che a Gradisca chi è stato assunto, dopo il colloquio, pensava di andare a lavorare in uno Sprar (oggi Sai, Sistema accoglienza integrazione, ndr) e si è ritrovato invece a fare il carceriere in un Cpr, con gente privata dei diritti elementari, che si lamenta, protesta. È facile incattivirsi. Non c’è corrispondenza - ed è davvero grave - tra quanto previsto nella gara d’appalto vinta dal gestore e anche da un regolamento, e quanto accade realmente. Tutto è fatto a mio avviso per trarre il massimo profitto da parte dell’ente gestore che agisce con fondi pubblici. Si riducono le spese che dovrebbero garantire diritti ai trattenuti e questo sotto gli occhi dello Stato: del Prefetto, del Questore, della polizia di Stato. Un abominio”. Doriana Sarli compara quanto ha visto nel Cpr con le condizioni degli istituti penitenziari: “Le carceri italiane, i cui limiti e carenze sia sul piano di rispetto dei diritti dei detenuti penso siano ben noti ai lettori di LO, sono luoghi ambiti da alcuni “trattenuti-detenuti” nei Cpr. A Gradisca non è mai previsto lasciare la “gabbia” per un’ora d’aria, le persone rimangono lì per mangiare e dormire, per tutte le sacrosante 24 ore della giornata. Privare le persone della libertà dovrebbe essere riservato a chi ha compiuto crimini gravi. E comunque sempre nel rispetto dei diritti fondamentali. Quali sono gli effetti su qualsiasi essere umano di una detenzione così totale e violenta? Paura, rabbia, depressione, ansia, fobie... voglia di farla finita”. Quella zona d’ombra nello Stato di diritto di Stefano Galieni Left, 15 luglio 2022 I Centri di permanenza per i rimpatri di cittadini extracomunitari sono luoghi impenetrabili dove le persone trattenute, senza aver commesso un reato, vivono in condizioni lesive della dignità umana. Ecco come funzionano i regolamenti del Viminale che li disciplinano. Leggere i regolamenti interni dei Centri di permanenza per i rimpatri ci fa comprendere ancora meglio la natura di questi luoghi dove si trovano trattenuti cittadini extracomunitari che, trovati senza permesso di soggiorno, sono soggetti a provvedimenti di espulsione. Risale al 20 ottobre 2014 il Regolamento “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di identificazione ed espulsione (Cie)”. Nel 2017 i Cie diventano Centri permanenti per rimpatri (Cpr). Le modalità di gestione sono simili a quelle stabilite nel 1998 per i Cpt (Centri di permanenza temporanea). Nel 2018, con i decreti Salvini, si assiste ad un peggioramento delle condizioni di vita delle persone trattenute in questi spazi, costituiti per lo più da gabbie, circondate da alte mura, in una decina di città italiane. La “riforma Lamorgese” dei decreti Salvini non ha attenuato la loro funzione, se non diminuendo i tempi di trattenimento. La pandemia, poi, li ha resi ancora più impenetrabili. Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private di libertà personale più volte si è espresso sulla necessità di veder rispettati nei Cpr i diritti essenziali alla cura, alla difesa, ad un trattenimento dignitoso”. Nel novembre scorso, tentando di attuare un’ispezione in un Cpr, chi scrive ebbe modo di vedere copia di un nuovo regolamento, rispetto a quello in vigore dal 2014, che vietava l’accesso, senza l’autorizzazione della prefettura, a figure che non possedessero determinati requisiti. Gli accompagnatori di parlamentari dovevano risultare contrattualizzati dagli stessi, non erano ammessi altri consulenti e/o esperti in materia. Ma questo nuovo testo non esisteva sul sito del ministero dell’Interno. Nell’ispezione effettuata dalle parlamentari Nugnes e Sarli (v. pag 14) al Cpr di Gradisca d’Isonzo, questo ultimo regolamento, senza data di protocollo, è riaffiorato e veniva dichiarato in vigore dal 19 maggio 2022 col titolo “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri”. Da una verifica nel sito del Viminale risultano due documenti: una direttiva che specifica il nuovo regolamento dei Cpr e una circolare, inviata ai prefetti interessati. Vediamo quindi le novità. All’articolo 1, scompare la frase “fermo restando il divieto dello straniero di allontanarsi dal centro”. All’articolo 2 (informazioni allo straniero) aumenta il numero delle lingue (in più russa e cinese). in cui deve essere tradotto il materiale informativo. L’articolo 3 contiene l’ammissione di una realtà: in passato nei centri si incontravano sovente richiedenti asilo, che, in teoria, non dovevano essere trattenuti. Ebbene, in questa direttiva, citando un decreto legislativo (il n.142 del 18 agosto 2015), si afferma che “per i richiedenti asilo trattenuti occorre considerare la presenza di condizioni di vulnerabilità”. Si conferma insomma quanto, per anni, è stato denunciato dalle associazioni per i diritti umani. All’art 4 (Servizi all’interno del centro) si nota particolare attenzione nella richiesta di annotare “eventi critici” e si raccomanda di assicurare “il costante controllo dei locali alloggiativi durante le ore notturne”, segno che comincia a pesare il numero degli episodi di autolesionismo e di casi estremi come i suicidi. L’articolo 5 disciplina la corrispondenza telefonica. Qui il controllo è massimo. Laddove non si utilizzano telefoni fissi, l’uso di un cellulare è possibile sotto sorveglianza, su numeri già in rubrica, in uno spazio dedicato (che spesso nei centri manca) e l’apparecchio deve essere privo di telecamera. Nel vecchio testo l’articolo 5 definiva le possibilità di accesso al centro distinguendo chi poteva entrare in ogni momento da chi doveva preavvisare la Prefettura competente. Un parlamentare, per esempio, poteva entrare senza preavviso, accompagnato da un “assistente”. Nel nuovo regolamento, lo stesso potrà avvalersi di “accompagnatori per ragioni del proprio ufficio”. Queste aperture lasciano però ampi margini di discrezionalità alla Prefettura. Preavvisando con tempo “congruo” e sempre previa autorizzazione prefettizia, giornalisti e cineoperatori, col vecchio regolamento, potevano avere accesso ai Cpr. Nella nuova direttiva, gli accessi a tali soggetti (articolo 7 comma 7) sono consentiti previo lo stesso iter ma (comma 9) “non sono consentite, salvo espressa autorizzazione, riprese videofotografiche o registrazioni audio che abbiano per oggetto la struttura, gli stranieri, il personale delle forze di Polizia e delle Forze armate, quello dell’ente gestore ovvero ogni soggetto che presti servizio, a qualsiasi titolo, nel centro”. E comunque, nella circolare inviata alle prefetture non compare alcun riferimento ai giornalisti. Rispetto a quando, nel luglio 2011, il ministro dell’Interno Maroni bloccò con una circolare l’accesso a chi opera nell’informazione, oggi i meccanismi si sono, per così dire, raffinati. La struttura del Cpr diventa “secretata” su disposizione prefettizia ma con una ambiguità tra quanto si prevede nella direttiva e quanto prescrive la circolare. A luglio 2011, ricordiamo, nacque la campagna “LasciateClEntrare” e pochi mesi dopo la circolare di Maroni venne sospesa. Analizziamo ancora le novità del regolamento dei Cpr. Nell’articolo 9 (monitoraggio e controllo) c’è una variazione. Nel vecchio regolamento, lo “straniero” che segnalava una irregolarità aveva garantito l’anonimato. Nel nuovo si deve far richiesta di un modulo “da inserire in apposito contenitore, a cui può avere accesso unicamente la Prefettura”. In sostanza, si segnala una criticità a chi forse è responsabile di averla causata e, in tale maniera, ci si espone. Ogni istanza o reclamo potrà però essere consegnato in busta chiusa dal trattenuto al Garante dei detenuti. Gli articoli successivi variano poco e riguardano la vigilanza esterna (per impedire allontanamenti indebiti), interna (per far sì che nel centro non sorgano problemi di sicurezza), il controllo di pacchi ricevuti dai trattenuti, i compiti dell’ufficio immigrazione. Cambia poi la “Carta dei diritti e dei doveri dello straniero”: 16 sono i “diritti” sanciti nel vecchio regolamento, 23 nel nuovo. Qui al punto “f” si afferma che lo straniero ha diritto, se richiedente asilo, a ricevere l’opuscolo informativo previsto (si confermano quindi gli asilanti da trattenere). Aumentano i servizi, la possibilità di conferire telefonicamente o de visu con familiari, a veder tutelati i propri diritti sanitari. Ma questi miglioramenti rimangono sulla carta, rispetto a quanto risulta dalle ispezioni effettuate fino ad oggi. Fra i “doveri” sparisce quello di “risarcire eventuali danni arrecati a persone o cose”, ma questo dipende dalla riforma Lamorgese che prevede di perseguire penalmente, anche non in flagranza di reato, chi è accusato di tali reati. I successivi articoli definiscono, come in passato, i protocolli di intesa che le Prefetture debbono stabilire con Asl e aziende ospedaliere, specificando la necessità dei servizi da garantire. Da notare come, a pandemia ancora in corso, non si sia provveduto a garantire per iscritto le norme di salvaguardia per trattenuti, operatori e personale di vigilanza. Dipende tutto dalle Asl. I testi analizzati, la direttiva e la circolare, cozzano con la realtà. I Cpr sono irriformabili, nonostante miglioramenti annunciati ma che risultano inesistenti. Servirebbe una Commissione di inchiesta per prospettare il loro superamento e andrebbe intanto garantita una libertà di informazione su quanto vi accade. Cannabis, il dibattito resta sempre rasoterra di Achille Saletti* Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2022 Passano i decenni, ma il livello del dibattito sulla cannabis rimane sempre rasoterra. A spingerlo verso il basso il giovane Mattia Santori, il quale a titolo di testimonianza ci tiene ad affermare che le canne se le fa e se le coltiva. Simile affermazione a cui potrebbe essere dedicata la rubrica di Settimana Enigmistica, “La sai l’Ultima”, diventa notizia da pagine di quotidiani nazionali e degna di una severa reprimenda del Pd bolognese. A dirla tutta anche la reprimenda esprime la tipica cautela di chi, sul fenomeno della legalizzazione della cannabis, ci ha capito poco o nulla, o più semplicemente non si vuole confrontare. Perché, a ben pensarci, se volessimo realmente affrontare questo fenomeno seguendo quale politica sociale quella della legalizzazione, non potremmo non interrogarci su come e cosa fare con l’universo minorile. Universo, non ci si scandalizzi, che di cannabis ne consuma in discrete quantità e con risultati non sempre così brillanti come sembra voglia affermare Santori indicandosi come esempio di consumatore abituale. Personalmente io sono per la legalizzazione della cannabis, ma non nascondo la costante preoccupazione di una dimensione dell’adolescenza, oggi più che mai in sofferenza, il cui mondo valoriale è messo a dura prova da ciò che gli abbiamo confezionato. Che sarà anche di abbondanza materiale, ma difetta di povertà relazionale ed educativa. Un mondo in cui i luoghi di aggregazione a valenza educativa (si pensi agli oratori) stanno scomparendo, dove la scuola perde di centralità (ricordiamo sempre i dati della nostra impressionante dispersione scolastica) e - non ultimo - in cui la famiglia ha subito una radicale trasformazione. Dove i servizi che si occupano di disagio, prima ancora che di malattia, sono abbandonati a loro stessi, privati di risorse umane ed economiche. Lo stesso associazionismo sportivo pare essere, per i meno abbienti, poco accessibile, posto che è a pagamento. In questa situazione, ogni discorso sulla legalizzazione che non affronti anche la questione educativa, ridisegnando i confini di politiche sociali che si intersecano con le politiche giovanili che siano meno desolanti e più rispondenti alle loro necessità, è discorso che di politico ha solo l’amaro sapore dell’accondiscendenza verso una tifoseria piuttosto che un’altra. Quindi, per quel che mi riguarda, la cosa più lontana dalla politica - se per politica intendiamo un serio tentativo di contemperare interessi, tra loro, talvolta contrapposti. Non c’è progressismo nel coltivare una posizione politica partendo da tali presupposti: al contrario vi ritrovo un appiattimento che tradisce, a sinistra, la mai sopita voglia di trasformare l’esistente. Oggi tale trasformazione si innerva in nuovi modelli sociali che diano spazi, luoghi e risorse capaci di determinare quel bisogno educativo da cui, in buon ordine, società, famiglia, scuola stanno abdicando. Al contrario le politiche perseguono quei bisogni securitari che fanno sì che si parli di minori solo quando disturbano la notte, rubano o si picchiano tra loro, con buona pace delle ragioni che determinano tali comportamenti. Questa è la sfida su cui innestare il cambiamento legato alla legalizzazione. Proteggere i nostri figli è prioritario e, se non si individuano le priorità cercando di incidere sui processi sociali che hanno relegato l’adolescenza a mera questione di ordine pubblico, ogni cambiamento rischia di peggiorare l’esistente. Quindi Santori aggiunga alla sua testimonianza anche una riflessione sui soggetti che dalla legalizzazione trarrebbero i minori benefici. E non certo per inficiare la bontà di una riforma che andrà fatta, ma per contribuire - politicamente e non a mero titolo di boutade - a ridisegnare il presente. *Criminologo, dirigente Impresa Sociale Anteo “Non fermate il processo agli assassini di Regeni”. Ultima chance per la verità di Giuliano Foschini La Repubblica, 15 luglio 2022 “Non fermate il processo agli assassini di Regeni”. Ultima chance per la verità. Le motivazioni della sostituta pg alla vigilia dell’udienza sul futuro del procedimento ai presunti killer del ricercatore La decisione di sospendere il processo per il sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni, fino alla notifica degli atti ai quattro imputati, è un “atto abnorme”. Perché “la condotta elusiva” degli agenti del servizio segreto civile egiziano alla sbarra, “pienamente consapevoli del processo a loro carico, nonché della data, del luogo della prima udienza” e “l’incapacità del nostro ordinamento di raggiungere gli imputati per motivi oggettivi e incontrovertibili”, cioè la non comunicazione da parte dell’autorità egiziana degli indirizzi, mette nei fatti “il processo in una stasi non rimediabile”, in una condizione “lesiva dell’efficienza del sistema”, e “determina l’impossibilità di perseguire i gravissimi reati commessi contro Giulio Regeni”. A scriverlo è la sostituta procuratrice generale Marcella de Masellis, nella memoria depositata in Cassazione alla vigilia dell’udienza che deciderà se potrà esserci o no un processo ai presunti assassini di Giulio Regeni. Se, cioè, l’Italia avrà ancora intenzione di cercare la verità e ottenere giustizia per l’assassinio del ricercatore italiano o se, invece, rinuncerà. La storia è nota: la Corte di Assise di Roma ha stabilito, all’apertura del processo, a differenza di quanto aveva deciso il tribunale nell’udienza preliminare, che senza la prova della notifica degli atti agli imputati, il processo ai quattro poliziotti egiziani non si possa tenere. Il punto - aveva fatto notare la procura in più occasioni - è che la notifica mai potrà avvenire. E non per cattive intenzioni. Ma perché - nonostante gli sforzi dell’autorità giudiziaria, dei carabinieri del Ros e ora anche del Governo, con la ministra della giustizia Marta Cartabia, che ha sollecitato inutilmente la collaborazione dei colleghi del Cairo - l’Egitto sta “consentendo agli imputati di rimanere estranei al processo” in modo da “garantire loro l’impunità”. Secondo la procura generale, infatti, come già aveva sostenuto il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, gli imputati egiziani sono “finti inconsapevoli”. E i loro sono “comportamenti strumentali finalizzati a impedire la celebrazione del processo”. E questo nonostante la procura generale è convinta che l’omicidio di Giulio impegni l’Egitto alla massima collaborazione. Perché così prevede la convenzione di New York del 1984 contro “la tortura”. Quelle che Regeni ha subito. “ E invece”, scrive la sostituta pg, “dalla memoria del pm si evincono i molteplici comportamenti posti in essere dall’Egitto tesi a ostacolare e depistare le indagini e a impedire le notifiche agli imputati”. L’elenco è lunghissimo: depistaggi, l’omicidio di cinque innocenti fatti passare come gli assassini di Giulio fino all’interruzione di ogni collaborazione giudiziaria dopo l’iscrizione nel registro degli indagati degli agenti della National Security. “Impedire il processo, rendere impossibile di procedere ulteriormente per accertare i fatti e assicurare i responsabili alla giustizia lede il diritto delle vittime, il nostro diritto, ad avere un processo” scrive l’avvocata Alessandra Ballerini, la legale di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, nella sua memoria. La decisione della Cassazione dovrebbe arrivare già oggi: se accolto il ricorso, il processo potrebbe tornare in aula e riprendere. In alternativa la Procura generale ha posto un problema di costituzionalità della norma o, ancora, chiesto l’intervento delle Sezioni unite. Congo. Caso Attanasio, neanche i Ros ne vengono a capo di Matteo Giusti Il Manifesto, 15 luglio 2022 Di ritorno da Kinshasa. Chiusa la missione per acquisire prove sull’uccisione dell’ambasciatore italiano nel 2021. Ma troppi misteri restano insoluti. Dopo una serie infinita di rinvii e rallentamenti il Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri è riuscito a tornare nella Repubblica democratica del Congo (Rdc), per indagare sull’attentato all’ambasciatore italiano del 22 febbraio 2021. Forse l’arrivo di Alberto Petrangeli in qualità di nuovo ambasciatore a Kinshasa è stato la chiave di volta per sbloccare la situazione e adesso i militari italiani sono rientrati in patria dopo una serie di interrogatori ed acquisizione di prove. Per i carabinieri è stato però impossibile raggiungere il Nord Kivu, dove ancora si combatte contro il gruppo ribelle M23 e la zona è in stato di guerra. Nella capitale congolese i militari hanno incontrato gli investigatori locali, acquisito una quarantina di video sulle indagini effettuate e interrogato gli uomini arrestati circa un anno fa. I cinque avrebbero dichiarato che non sapevano che con il convoglio viaggiava l’ambasciatore italiano e che il loro scopo era solo quello di un rapimento, uno dei tanti che riempiono quotidianamente le cronache della Rdc. Le immagini dell’arresto dei presunti assalitori scalzi e buttati per terra aveva fatto il giro del mondo, ma non c’era mai stata una netta presa di posizione da parte del governo centrale di Kinshasa, con solo le autorità locali a sbandierare questo successo. I dubbi che questa banda, il cui capo resta latitante, fosse stata in grado di organizzare da sola l’attacco al convoglio delle Nazioni unite erano subito stati molti. Oggi le notizie che arrivano attraverso il nucleo dei Ros parlano di uno schema ben preciso, con due elementi che avrebbero seguito le vittime e gli altri insieme al capo che avrebbero preso d’assalto il convoglio portando via i nostri connazionali. Ma la dinamica dell’agguato appare poco credibile per non riuscire a capire chi fossero davvero gli occupanti delle due auto, anche se i diplomatici si muovono abitualmente scortati dai militari della Monusco. Perché sarebbero stati portati via solo Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, quando nella seconda auto, anch’essa circondata secondo le deposizioni, si trovava Rocco Leone, vice-direttore del Programma alimentare (Pam) mondiale in Congo, contro il cui fuoristrada non è stato sparato un solo colpo? Leone racconta di essere caduto e per questo è stato “dimenticato” dai rapitori. Del riscatto nei primi interrogatori ha parlato soltanto Mansour Rwagaza, il responsabile della sicurezza del Pam, che cita esattamente la cifra di 50 mila dollari, come nelle parole degli assalitori. Una cifra impossibile da avere con sé per l’ambasciatore italiano che non avrebbe mai potuto riscattare la sua libertà con questo fantomatico denaro. Poco credibile quindi l’ipotesi del rapimento lampo e addirittura inverosimile quello di un rapimento organizzato. Nella Repubblica democratica del Congo i sequestri saranno anche frequenti, ma manca tutta la logistica per la gestione di un ostaggio, soprattutto un “bianco” e di un peso internazionale del genere. Un caso che le autorità congolesi hanno sempre cercato di chiudere il prima possibile, prima incolpando i miliziani hutu del Fronte democratico di liberazione del Ruanda e poi “gettando in pasto” alla stampa un gruppo di presunti ladri e assassini, fra i quali c’erano, a dire del capo della polizia del Nord Kivu, anche gli assalitori dei nostri connazionali. Starà ora alla magistratura italiana venire a capo di questa intricata matassa, ma anche il tanto sofferto e agognato ritorno dei Ros in Congo non sembra essere stato determinante per scoprire la verità sulla morte di Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo. Colombia. Due anni dopo, ancora rabbia e sete di verità per Mario Paciolla di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 15 luglio 2022 Il 15 luglio 2020 veniva ritrovato il corpo del funzionario Onu impegnato nel controllo dell’applicazione degli accordi con le Farc. Ferma l’inchiesta, vane le denunce giornalistiche. Ma i genitori insistono: “Chi sa parli”. Due anni fa, il 15 luglio 2020, il funzionario italiano delle Nazioni unite Mario Paciolla veniva trovato senza vita a San Vicente del Caguán, Colombia. Cinque giorni prima della sua morte aveva avuto un litigio con alcuni colleghi della Missione Onu di cui faceva parte. Era l’ultima di molte tensioni. In seguito a quella riunione, aveva deciso di tornare in Italia prima della scadenza del contratto. Il 15 luglio aveva in programma di recarsi a Bogotá. Da lì, pochi giorni dopo, avrebbe preso il volo per l’Italia. Tuttavia, i colleghi della Missione incaricati di portarlo a Bogotà lo hanno trovato impiccato nella sua stanza, con ferite ai polsi e al collo. L’Onu ha classificato fin da subito l’episodio come un caso di “morte autoinflitta”. Per la famiglia e gli amici di Mario questa ricostruzione non è credibile. Sono diverse le contraddizioni che farebbero pensare a una messa in scena e a un tentativo di depistaggio. Al centro delle perplessità c’è l’operato delle stesse Nazioni unite, in particolare di Christian Thompson, all’epoca capo della sicurezza della Missione a San Vicente. É stato proprio Thompson il primo ad accorrere sul luogo del ritrovamento del cadavere per poi, invece di seguire le procedure standard delle Nazioni unite, ripulire la stanza con la candeggina e buttare in una discarica alcuni oggetti con tracce di sangue rinvenuti nella stanza di Mario. La polizia colombiana è finita sotto indagine per aver permesso a Thompson di manomettere la scena del ritrovamento ed eventuali prove. La famiglia Paciolla ha denunciato anche le irregolarità commesse durante l’autopsia eseguita dalle autorità colombiane, che ha dato come verdetto una compatibilità con l’ipotesi del suicidio. A presenziare all’esame medico fu un funzionario Onu, invece che un medico legale: dettaglio importante, considerando che il corpo di Mario Paciolla è stato rimpatriato in pessime condizioni che hanno reso difficile lo svolgimento di ulteriori esami. Le azioni di Thompson ex sottufficiale dell’esercito colombiano, non sono mai state messe in discussione dagli alti ranghi della Missione. Al contrario, nei mesi successivi agli eventi, Thompson è stato promosso a capo del National Security Center della Missione Onu in Colombia. Al di là del modus operandi del capo della sicurezza, la morte di Mario Paciolla ha posto in evidenza una serie di problematiche nella gestione della Missione da parte del suo capo in carica: il diplomatico messicano Carlos Ruiz Massieu. Secondo le informazioni recuperate dalla giornalista colombiana Claudia Duque, nei quattro giorni successivi alla morte di Paciolla, tutti i membri della missione hanno ricevuto tre email che imponevano “l’obbligo di riservatezza e il divieto di concedere interviste e dichiarazioni ai media” sull’episodio. Allo stesso modo, sul profilo Twitter ufficiale del capo della missione non è stato fatto alcun riferimento alla morte del funzionario. Secondo il giornalista tedesco Stephan Kroener, esperto di politica colombiana, “l’Onu aveva il dovere di accompagnare il corpo di Mario e consegnarlo ai suoi genitori, parlare con loro e spiegare cosa pensavano fosse successo. Il silenzio è complice e in questo caso il silenzio mostrato dall’Onu davanti alla famiglia e agli amici di Mario è una vergogna per l’intera organizzazione”. La figura di Ruiz Massieu era già stata al centro di uno scandalo internazionale nel 2016, quando la rivista Proceso pubblicó le mail raccolte da MexicoLeaks, in cui la zia del capo della Missione, Claudia Ruiz Massieu Salinas, utilizzava la sua influenza politica, in quanto ministra degli Esteri in Messico, per promuovere la rielezione di Carlos come membro della Commissione consultiva degli Affari amministrativi e bilancio dell’Onu. Una raccomandazione non banale, in quanto la famiglia Ruiz Massieu rappresenta uno storico gruppo di potere in Messico, con una radicata influenza sul partito di stato, il Partido Revolucionario de los Trabajadores (Pri), il quale ha governato negli ultimi decenni il Paese finendo sotto inchiesta per crimini di corruzione, narcotraffico e sparizioni di civili. La giornalista Claudia Duque ha raccolto diverse fonti interne all’Onu che sottolineano l’apparente vicinanza di Carlos Ruiz Massieu alla sfera politica dell’uribismo, il gruppo di potere colombiano di cui fa parte il presidente uscente Ivan Duque. Esistevano, secondo la giornalista, delle tensioni interne alla Missione legate alla gestione “politica” del lavoro di verifica degli Accordi di Pace. Lo stesso Paciolla aveva espresso il suo disaccordo verso le modalità di comunicazione della Missione e verso una gestione verticale e “gerarchica” che trascurava i bisogni dei suoi funzionari meno influenti. Di sicuro, a distanza di due anni, non ci sono risposte definitive su quanto accaduto tra la notte del 14 luglio, quando Mario è stato visto mentre discuteva al telefono fuori casa, e la mattina dopo, quando il suo corpo fu trovato senza vita dai suoi colleghi. Non sono ancora stati pubblicati i risultati dell’autopsia svolta a Roma e l’attività della Procura italiana sembra essere giunta in un vicolo cieco. Le inchieste televisive prodotte in Italia sul caso non sono riuscite a dare l’impulso sperato alle indagini. Resta invece accesa la rabbia e la sete di giustizia dei familiari e amici di Mario che hanno dato vita all’associazione “Giustizia per Mario Paciolla” con cui cercano di mantenere viva la memoria del funzionario e attivare la società civile per mettere pressione alle autorità coinvolte nel caso. L’appello dei genitori, Anna Motta e Pino Paciolla, è sempre lo stesso da due anni a questa parte: “Chi sa parli”. Lo squadrone della morte, da Londra all’Afghanistan di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 luglio 2022 Asia. Inchiesta della Bbc: in sei mesi, tra fine 2010 e inizio 2011 l’unità speciale britannica Sas uccise 54 detenuti, sospetti disarmati, inventando prove e raccontando sempre la stessa dinamica. “Gara” interna a chi ne ammazzava di più. I vertici militari sapevano. In sei mesi 54 afghani uccisi. Sono i risultati di una lunga inchiesta condotta dalla Bbc su una delle unità militari speciali inglesi (Sas) impiegate in Afghanistan, nella provincia meridionale dell’Helmand, tra le più conflittuali del Paese. Tra le centinaia di pagine e di materiali analizzati dal team del programma Bbc Panorama, corroborati dal lavoro sul campo in Afghanistan, da testimonianze anonime e dalle valutazioni di esperti in balistica, spiccano diversi raid condotti da uno squadrone delle Sas tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Chiamati in gergo “kill or capture”, uccidi o cattura, avevano l’obiettivo ufficiale di catturare comandanti talebani e smantellare le reti di produzione di bombe artigianali. Effetti concreti, secondo le ipotesi della Bbc, erano invece delle vere e proprie esecuzioni. Con una sorta di canovaccio: gli uomini dell’intelligence passavano una lista di presunti talebani allo squadrone delle Sas i cui uomini, senza verifiche particolari, facevano il lavoro sporco: kill or capture. Alcuni testimoni ed ex soldati hanno confermato alla Bbc l’uccisione di persone non armate nel corso dei raid dello squadrone. Responsabile anche della pratica del “drop weapons”: far trovare armi nelle case dei sospettati, così da giustificarne l’omicidio illegale. Conferme da diversi soldati anche sulla “gara” tra gli squadroni che si avvicendavano nel Paese per rivendicare il maggior numero di afghani uccisi. Grazie ai rapporti operativi ottenuti dall’emittente - che già nel 2019, insieme al Sunday Times, aveva condotto un’inchiesta su un raid delle Sas grazie a cui è stato poi aperto un caso giudiziario - emerge una tendenza: “Abbiamo trovato una serie di rapporti incredibilmente simili di uomini afghani a cui viene sparato perché, dopo essere stati detenuti, hanno tirato fuori dalle tende o da altri arredi domestici fucili AK-47 o granate a mano”. Il 29 novembre 2010 lo squadrone uccide un uomo detenuto e poi riportato dentro un edificio, dove “prova ad affrontare le nostre forze con una granata”, secondo il resoconto militare. Il 15 gennaio 2011 viene ucciso un uomo detenuto e ricondotto in un edificio, dove “tira fuori da un materasso una granata a mano, e prova a lanciarla”. E così proseguendo: il 7 febbraio, due giorni dopo, poi ancora il 13 febbraio e il 16, quando le presunte armi diventano fucili o AK-47. Significativo che, “durante tutti i raid analizzati dalla Bbc, non venga registrato nessun ferimento per gli operativi delle Sas”. Secondo un ufficiale di alto livello, la tendenza aveva destato preoccupazione negli uffici centrali dell’esercito: il fatto che i detenuti finissero così di frequente uccisi “aveva causato un allarme. Era chiaro che c’era qualcosa di sbagliato”. Conferme provengono anche dalle email interne, in cui si parla “dell’ultimo massacro”. In un memo segreto, c’è chi allude alla possibilità che si tratti di “una politica deliberata” di uccisioni illegali. La preoccupazione cresce, tanto da portare a una “rara revisione formale” delle tattiche dello squadrone. Ma l’investigatore inviato in Afghanistan non visita le scene dei raid, non intervista i testimoni, solo i soldati. La firma finale sul documento è quella dell’ufficiale che comanda la stessa unità Sas responsabile dei sospetti omicidi. Secondo la Bbc, anche il generale Mark Carleton-Smith, a capo delle forze speciali inglesi dal 2012, viene informato dei presunti omicidi illegali, ma dà comunque il via libera a una nuova missione di sei mesi dello squadrone. Nel 2013, quando parte un’indagine della polizia militare reale, tace le informazioni in suo possesso. Non menziona neanche l’esistenza della revisione formale già condotta. Da parte del generale Carleton-Smith, che dal 2018 e fino a poche settimane fa è stato capo di Stato maggiore dell’esercito, nessun commento finora. Secondo il Ministero della Difesa del Regno unito, i soldati inglesi avrebbero “servito con coraggio e professionalità in Afghanistan”. Per Zaman Sultani, ricercatore di Amnesty International sull’Asia meridionale, “le conclusioni dell’inchiesta della Bbc sono terribili e descrivono un allarmante livello di impunità delle truppe britanniche che operavano in Afghanistan, con probabili insabbiamenti per impedire l’emergere della verità”. Amnesty chiede “un’indagine efficace e trasparente che assicuri verità e giustizia alle vittime e chiami i responsabili a rispondere delle loro azioni”.