Il capo del Dap in Parlamento risponde alle interrogazioni di Cinque Stelle e Fratelli d’Italia di Angela Stella Il Riformista, 14 luglio 2022 Dopo gli attacchi del Fatto quotidiano, dei Cinque stelle e di Fratelli d’Italia oggi il numero uno dell’amministrazione penitenziaria, Renoldi, difenderà il suo operato e quello di Cartabia. Doppia audizione stamattina per il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, davanti alle commissioni Giustizia di Senato e Camera. A Palazzo Madama l’audizione è convocata alle 8.30, poi intorno alle 10.30 Renoldi sarà ascoltato a Montecitorio. Le audizioni si inseriscono sia nell’indagine conoscitiva sul trattamento dei soggetti sottoposti a regime carcerario italiano, incardinata al Senato, sia nella polemica per l’autorizzazione concessa nelle scorse settimane dal capo del Dap a esponenti dell’associazione radicale “Nessuno tocchi Caino” per visitare anche i reparti che ospitano detenuti al 41 bis in alcune carceri della Sardegna e per interloquire con i reclusi speciali per sincerarsi delle loro condizioni di detenzione. Non troverà una platea amichevole Renoldi in Parlamento, anzi sarà davanti a un vero plotone di esecuzione che da mesi lo ha messo nel mirino. La sua nomina a responsabile di Largo Luigi Daga è stata infatti sempre osteggiata dal Movimento Cinque Stelle, dalla Lega, da Fratelli d’Italia, tutti fomentati dal Fatto Quotidiano e da alcune sigle dei sindacati di polizia penitenziaria. Addirittura in un editoriale apparso qualche giorno fa su poliziapenitenziaria.it si è arrivati a scrivere: “da quello che abbiamo capito, sembra che qualsiasi Capo del Dap venga nominato, dopo il suo insediamento, diventi subito ostaggio di quella frangia politica e di quelle associazioni che in Italia contano più del dolore arrecato da questi criminali detenuti al 41 bis”. Il riferimento è ad associazioni come Antigone, al Partito Radicale, a Nessuno Tocchi Caino. E pure al Csm in merito alla delibera che pose fuori-ruolo Renoldi si astennero Nino di Matteo e Sebastiano Ardita. Il suo peccato? Sarebbe un teorico del carcere a immagine e somiglianza della Costituzione persino se si tratta di detenuti condannati per mafia. Renoldi è al vertice del Dap da quattro mesi: così pochi ma così ‘travagliati’ nel senso letterale e figurato. Appena saltò fuori il suo nome come sostituto di Dino Petralia, cominciarono ad uscire ritratti e dichiarazioni che dipingevano Renoldi come magistrato non solo contro il 41bis, ma anche contro i sindacati della polizia penitenziaria, nonché contro i settori militanti dell’Antimafia. Il povero Renoldi dovette addirittura inviare una lettera alla Ministra Cartabia (probabilmente fu proprio lei a chiedergli di scriverla) in cui chiarì che “non ho mai messo in dubbio la necessità del 41bis contro la mafia”. Nella stessa missiva il magistrato ribadì comunque “che questa gravissima piaga (quella della mafia, ndr.) non ci possa far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato Sergio Mattarella”. Ma gli attacchi non si fermarono e proprio qualche giorno prima che il Consiglio dei Ministri desse l’ok alla nomina una insolitamente stizzita Ministra Cartabia arrivò a dire: “Sul nuovo capo del Dap, non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare e dopo ne riparliamo. Vediamo se è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche o se ha le qualità per cui io mi sono sentita di proporlo”. Ma quali sono queste qualità? Le aveva ricordate proprio la Guardasigilli rispondendo ad una interrogazione di Fd’I: lunga esperienza (10 anni) come magistrato di sorveglianza, servizio prestato al ministero per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario all’epoca della condanna dell’Italia da parte della Cedu nel caso Torreggiani (2013), funzioni ricoperte negli ultimi 6 anni nella prima sezione penale della Cassazione che si occupa anche di esecuzione della pena, anche per reati gravissimi inclusa la criminalità organizzata. Oggi Renoldi in Parlamento non andrà dunque a difendere solo il suo operato ma quello stesso della Ministra Cartabia, il cui primo e forse unico atto concreto sul tema delle carceri è stato proprio quello di nominare lui a capo del Dap. Infatti non abbiamo ancora notizie sulla concretizzazione delle proposte della Commissione Ruotolo che ha terminato ormai lavori da oltre 6 mesi. Né mai è stata posta sul tavolo una decretazione di urgenza per svuotare le carceri che in questi giorni sono in emergenza, tra temperature elevate e carenza d’acqua. Capo Dap Renoldi: nessun arretramento sul 41 bis ansa.it, 14 luglio 2022 Cartabia ha firmato ben 520 decreti di proroga e applicazione nell’arco di poco più di un anno. “Non c’è nessun arretramento del regime del 41 bis che resta un presidio essenziale nel contrasto della criminalità organizzata. Mi sento di rassicurare tutti che non c’è nessun allentamento o peggio arretramento rispetto al contrasto alla grande criminalità organizzata, in particolare di quella mafiosa che resta un grande pericolo per la nostra democrazia”. Lo ha detto il capo del Dap Carlo Renoldi alla Commissione Giustizia del Senato a proposito delle polemiche seguite alla visita di Nessuno tocchi Caino ai detenuti al 41 bis. “Queste visite in passato ci sono sempre state. L’affermazione che non fosse mai successo prima è smentita: ci sono stati circa 10 ingressi dal 2014 al 2019, anche di rappresentanze straniere”. Lo ha detto il capo del Dap Carlo Renoldi alla Commissione Giustizia del Senato, a proposito della visita degli attivisti di Nessuno tocchi Caino ai detenuti al 41 bis di due carceri della Sardegna. Giustizia, l’Italia resta una “osservata speciale” di Claudio Tito La Repubblica, 14 luglio 2022 A Lussemburgo presentata la relazione Ue sullo Stato di diritto con le raccomandazioni sulla Giustizia. Sui tempi dei processi, sulla recente riforma del processo penale che per l’Ue va monitorata per i suoi effetti sui procedimenti contro la corruzione e per possibili conseguenze negative determinata dalla nuova disciplina della prescrizione. Con la riforma Cartabia e gli impegni assunti dal governo con il Pnrr in particolare sulla digitalizzazione, l’Italia ha compiuto dei passi avanti. Ma il lavoro da fare è ancora tanto. Sempre sulla digitalizzazione, contro la corruzione, sul conflitto di interessi, sul finanziamento dei partiti e a protezione dei giornalisti. Ecco le raccomandazioni approvate oggi dalla Commissione Ue in materia di giustizia. E per la prima volta oltre al rapporto sullo Stato di diritto l’esecutivo europeo emana i suoi consigli per migliora il sistema nel suo complesso. L’Italia resta una “osservata speciale”. Sui tempi dei processi, sulla recente riforma del processo penale che per l’Ue va monitorata per i suoi effetti sui procedimenti contro la corruzione e per possibili conseguenze negative determinata dalla nuova disciplina della prescrizione. Ecco allora le osservazioni di Bruxelles punto per punto. Indipendenza dei magistrati - Il livello di indipendenza giudiziaria percepita in Italia continua ad essere basso tra il grande pubblico, mentre è nella media tra le aziende. Nel complesso, il 37 per cento della popolazione generale e il 40 delle imprese ritengono che il livello di indipendenza dei tribunali e dei giudici sia “equo o molto buono” nel 2022. La nuova legge adottata per la riforma del Consiglio superiore della magistratura (CSM) mira ad affrontare le sfide relative alla rappresentatività dei suoi membri. Norme più severe sulle “porte girevoli” per la magistratura e altre disposizioni positive sono incluse anche nella legge appena adottata. La nuova legislazione affronta anche il tema della partecipazione diretta dei magistrati alla vita politica, che è stato sollevato come una preoccupazione. La legge introduce disposizioni più severe, tra cui l’ineleggibilità alle posizioni elettive dei magistrati che sono stati in servizio con uffici giudiziari situati nella circoscrizione nei tre anni precedenti le elezioni e un periodo di riflessione di 3 anni se non eletti. Includono anche il divieto di esercitare contemporaneamente funzioni giudiziarie e di quelle elette / governative e il divieto per i magistrati che hanno ricoperto cariche elettive di tornare in panchina alla fine del loro mandato. Ulteriori aspetti positivi della legge includono un accesso più rapido al concorso per accedere alla magistratura e nuovi corsi di formazione, anche su dati statistici. Il CSM e altre parti interessate hanno espresso preoccupazione per il fatto che alcune disposizioni del progetto di legge sulla riforma del CSM e del sistema giudiziario potrebbero comportare un’influenza indebita sui giudici. La legge, approvata dal Parlamento il 16 giugno, prevede la riforma del sistema giudiziario e include disposizioni sull’istituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. La sua legislazione in materia di attuazione è prevista entro un anno. Il Ministero della Giustizia ha osservato che le nuove misure organizzative non incideranno sull’autonomia decisionale e sull’indipendenza dei magistrati. L’effetto combinato delle nuove disposizioni può portare a dipendenze che possono comportare un’influenza indebita sull’indipendenza del giudice. Tuttavia, la legislazione di attuazione offrirà l’opportunità di disposizioni più dettagliate sulle modalità di garanzia dell’indipendenza della magistratura. Secondo gli standard europei, la ricerca di una maggiore efficienza non dovrebbe compromettere l’indipendenza della magistratura. Qualità - Sono in corso assunzioni significative sia per il personale giudiziario che per quello amministrativo, mentre sono previste misure specifiche a sostegno del lavoro dei giudici. Queste misure mirano anche a ridurre gli arretrati di casi e migliorare l’efficienza e includono la formazione del personale per affrontare le sfide della transizione digitale nel sistema giudiziario. Contribuiscono ad affrontare una raccomandazione di lunga data specifica per paese emessa nel contesto del semestre europeo sull’efficienza del sistema giudiziario. La digitalizzazione del sistema giudiziario sta progredendo nei tribunali civili e amministrativi, mentre le sfide rimangono nei tribunali penali e negli uffici giudiziari. Sebbene già completata in primo e secondo grado dei tribunali civili, la digitalizzazione dei procedimenti è ancora in corso presso le sezioni civili della Corte di cassazione. Tuttavia, nei tribunali penali, la digitalizzazione dei processi è ancora all’inizio e dovrebbe essere completata solo per il primo grado entro la fine del 2023. Attenzione all’ultima riforma del processo penale - La riforma per l’efficienza della giustizia penale comprende anche alcune disposizioni applicabili ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, fissando termini massimi per concludere i processi presso la Corte d’appello e l’Alta Corte di cassazione, altrimenti il caso sarà precluso. A causa di problemi di efficienza, soprattutto a livello di appello, le nuove misure rischiano di avere un impatto negativo sui processi penali, in particolare quelli in corso, in quanto potrebbero essere automaticamente interrotti. Sebbene siano state introdotte eccezioni e siano in vigore norme temporanee, l’efficacia del sistema di giustizia penale richiede un attento monitoraggio a livello nazionale per garantire un giusto equilibrio tra l’introduzione delle nuove disposizioni e i diritti della difesa, i diritti delle vittime e l’interesse del pubblico a procedimenti penali efficienti. Durata dei processi - La durata del procedimento è ancora una seria sfida. Nel 2020, i tempi hanno mostrato un aumento in tutti i casi sia per le cause civili e commerciali che per le cause penali. Il temporaneo rallentamento dell’attività giudiziaria dovuto alle severe misure restrittive adottate per affrontare la pandemia di Covid-19 nel 2020 ha avuto un impatto sia sui casi in arrivo che su quelli risolti, con una forte influenza sui tempi di disposizione. L’Italia rimane sotto la supervisione rafforzata del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per quanto riguarda la durata dei procedimenti nelle cause amministrative e la durata dei procedimenti nelle cause penali. Il Pnrr e la sfida dei tempi - Nel contesto del Pnrr, l’Italia si è impegnata a ridurre del 40 per cento il tempo di disposizione a tre istanze di giustizia civile entro la fine del 2026. Si è impegnata anche a ridurre del 25 per cento il tempo di disposizione in tre casi di giustizia penale entro la fine del 2026. Anticorruzione - La percezione tra esperti e dirigenti aziendali è che il livello di corruzione nel settore pubblico rimanga relativamente alto. Nel Corruption Perceptions Index 2021 di Transparency International, l’Italia ha ottenuto un punteggio di 56/100 e si colloca al 13° posto nell’Unione Europea e al 42° posto a livello globale. La percezione è aumentata significativamente negli ultimi cinque anni. Lo speciale Eurobarometro sulla corruzione del 2022 mostra che l’89 per cento degli intervistati considera la corruzione diffusa nel proprio paese (media UE 68 per cento) e il 32 per cento degli intervistati si sente personalmente colpito dalla corruzione nella propria vita quotidiana (media UE 24). Per quanto riguarda le imprese, il 91 per cento delle imprese ritiene che la corruzione sia diffusa (media UE 63) e il 41 ritiene che la corruzione sia un problema quando si fa affari (media UE 34). Inoltre, il 39 % degli intervistati ritiene che vi siano procedimenti giudiziari di successo sufficienti a dissuadere le persone da pratiche di corruzione (media UE 34 %), mentre il 29% delle imprese ritiene che le persone e le imprese catturate per aver corrotto un alto funzionario siano adeguatamente punite (media UE 29 %). Il nuovo piano nazionale anticorruzione (2022-2024) dovrebbe essere in vigore entro la fine dell’estate e rappresenta la strategia generale dell’Italia per la prevenzione della corruzione. Il tema centrale del nuovo Piano è l’utilizzo dei fondi relativi al RRP con particolare attenzione agli appalti pubblici e alle misure anticorruzione. Riforma penale sotto osservazione - La riforma della giustizia penale è stata adottata nel settembre 2021e Mira a ridurre i tempi di disposizione eccessivi che si sono rivelati ostacolare, tra gli altri, gli sforzi dell’Italia per perseguire e giudicare efficacemente i casi di corruzione, mettendo a repentaglio il diritto a un processo rapido e a una buona amministrazione. La coalizione di governo ha trovato un compromesso sospendendo i termini di prescrizione per il processo di primo grado, anche per i procedimenti riguardanti la corruzione, e fissando invece limiti di tempo per i successivi appelli. L’efficacia della riforma richiederà quindi un attento monitoraggio per quanto riguarda la lotta alla corruzione, in particolare a livello di appello che l’Italia si è impegnata a intraprendere fin dall’entrata in vigore della legge. La cooperazione tra le entità pertinenti che combattono la corruzione continua a funzionare bene, tuttavia permangono sfide per quanto riguarda le vulnerabilità della corruzione nei fondi pubblici e la capacità di perseguire efficacemente la corruzione straniera. Nel complesso, il coordinamento e la cooperazione tra le procure, la guardia di finanza, l’unità di informazione finanziaria, la Procura presso la Corte dei conti, la Direzione nazionale antimafia e l’Autorità anticorruzione rimangono efficaci, anche per i casi di corruzione ad alto livello. Le aree in cui si verificano la maggior parte dei casi di corruzione rimangono la pubblica amministrazione e gli appalti pubblici, con crescenti vulnerabilità nei settori delle energie rinnovabili e delle costruzioni. Nonostante gli importanti sviluppi legislativi, la mancanza di risorse, l’esperienza limitata e l’insufficiente competenza giuridica continuano a compromettere la capacità delle autorità di contrasto di perseguire e perseguire efficacemente la corruzione straniera. Conflitto di interessi - Sussistono preoccupazioni in merito alla proposta legislativa sui conflitti di interesse per i titolari di cariche politiche, compresi i parlamentari, che rimane in sospeso in Parlamento da diversi anni. La proposta comprende una definizione dei conflitti di interesse e l’introduzione di misure di integrità più rigorose per i membri degli uffici governativi nazionali, regionali e locali. Fino all’adozione e all’entrata in vigore della nuova legge, la legislazione sui conflitti di interesse rimane frammentata. Non è stato adottato un Codice di Condotta per l’Etica. Allo stesso modo, non si sono verificati ulteriori sviluppi per quanto riguarda la pubblicazione obbligatoria delle dichiarazioni patrimoniali per i membri della Camera dei deputati e del Senato, che rimane frammentata e non trasparente. Allarme per la nuova legge sul lobbing passata alla Camera. Sono state sollevate preoccupazioni in merito all’ambito di applicazione limitato proposto, che esenta le associazioni imprenditoriali, i sindacati e le entità religiose dall’obbligo di registrazione, nonostante la loro rilevanza nel rappresentare gli interessi nel processo decisionale. Inoltre, il periodo di riflessione di un anno per gli ex membri dei governi nazionali e regionali a seguito della cessazione delle loro attività per impedire le “porte girevoli” non si estende agli ex membri del Parlamento. Il finanziamento dei partiti - Il 2022 ha visto diversi casi di corruzione sotto inchiesta, procedimento giudiziario e giudizio per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti politici, comprese figure politiche di alto rango. In questo contesto, la pratica di canalizzare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche prima che vengano trasferite ai partiti politici rappresenta un ostacolo alla responsabilità pubblica, in quanto tali transazioni sono difficili da rintracciare e monitorare. L’Italia vieta il finanziamento pubblico diretto ai partiti politici, anche per le campagne politiche. I partiti politici sono quindi tenuti a finanziarsi quasi esclusivamente attraverso donazioni private da parte di singoli donatori o persone giuridiche. Sussistono anche preoccupazioni per quanto riguarda le capacità e le risorse degli organi di vigilanza e vigilanza. Libertà di stampa. La Rai - La RAI è finanziata mediante un canone annuale, stabilito e adeguato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, riscosso sugli abbonati al servizio, nonché mediante introiti pubblicitari. L’Agcom, regolatore dei media, vigila sul rispetto da parte della RAI delle norme sui contenuti audiovisivi sotto il controllo dell’Agcom. Questa rimane un’area ad alto rischio dato che le riforme nel corso degli anni non sono riuscite a proteggere sostanzialmente il consiglio di amministrazione del servizio pubblico dall’influenza politica e che l’importo delle entrate devolute ai media del servizio pubblico è determinato su base annuale dal governo attraverso la legge di bilancio. I giornalisti - Le leggi sulla diffamazione non sono state modificate e rimangono un’area chiave di preoccupazione per i giornalisti e le organizzazioni che li rappresentano. Diversi casi di diffamazione, che spesso comportano lunghi procedimenti, hanno un effetto simile alle cause temerarie per intimorire. E quindi un effetto dissuasivo sull’attività giornalistica”. Un rapporto di Media Freedom Rapid Response (Mfrr) pubblicato a seguito della recente missione in Italia evidenzia la misura in cui vari tipi di minacce legali stanno avendo un effetto negativo tangibile sul giornalismo investigativo e indipendente nel paese. E questo riguarda anche i casi di attacchi fisici, minacce di morte e altre forme di intimidazione contro i giornalisti. Resta da istituire un’istituzione nazionale per i diritti umani. La creazione di un’istituzione nazionale per i diritti umani (Nhri) rimane una preoccupazione in quanto continua ad essere oggetto di dibattiti e non sono stati realizzati progressi rilevanti. Lo spazio civico rimane ristretto, in particolare per le organizzazioni della società civile che si occupano di migranti. Nonostante alcuni miglioramenti rilevati nella relazione sullo stato di diritto del 2021, lo spazio civico continua a essere valutato come ristretto. Nel corso del 2021, i tribunali italiani hanno congedato le ONG che hanno effettuato operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Queste ONG erano state accusate dalle autorità di facilitare le migrazioni irregolari e l’attraversamento irregolare delle frontiere. Le parti interessate hanno riferito che persistono forme di intimidazione contro le organizzazioni della società civile (OSC) che si occupano dei diritti dei migranti. NOn sono stati segnalati sviluppi per quanto riguarda la complessità del processo di registrazione per le ONG e i ritardi nell’attuazione della legge che armonizza le norme sul settore non profit. Giustizia, l’Ue stronca la riforma Cartabia: “In pericolo i giudici e l’anti-corruzione” di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2022 La riforma del processo penale di Marta Cartabia può mettere a rischio “l’effettività del sistema giudiziario” e sarà necessario “uno stretto monitoraggio per assicurare che i processi per corruzione non si interrompano automaticamente in grado d’appello”. Mentre quella dell’ordinamento giudiziario “rischia di comportare indebite influenze sull’indipendenza dei giudici”. Sono le durissime considerazioni che la Commissione europea ha inserito nel capitolo dedicato all’Italia della Relazione sullo Stato di diritto 2022, il documento annuale che analizza - tra le altre cose - gli sviluppi dei sistemi giudiziari degli Stati membri, formulando da quest’anno anche raccomandazioni specifiche. Bruxelles boccia gli aspetti più contestati delle due riforme firmate dalla Guardasigilli del governo Draghi, su cui in Italia avevano lanciato l’allarme - inascoltati - sia il Movimento 5 stelle che l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio superiore della magistratura. La riforma del processo penale, ricorda peraltro la Relazione, è una di quelle “adottate in base agli impegni presi dall’Italia nell’ambito del Piano di ripresa e resilienza, mirata a migliorare la qualità e l’efficienza del sistema giudiziario”. Che invece rischia di far perdere punti al nostro Paese sul piano dell’efficacia della repressione dei reati e del rispetto della separazione dei poteri. Vediamo perché. La nuova legge, approvata a settembre 2021, introduce il contestato meccanismo dell’improcedibilità che fa estinguere i processi penali dopo due anni in grado d’Appello e un anno in Cassazione (con eccezioni per reati particolarmente gravi e un periodo transitorio di quattro anni in cui i termini sono allungati). Secondo la Relazione, “le nuove norme richiedono uno stretto monitoraggio per assicurare che l’effettività del sistema giudiziario sia mantenuta. La riforma - ricorda Bruxelles - include previsioni, applicabili ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, che introducono limiti temporali massimi per concludere i processi in Corte d’Appello e Corte di Cassazione, altrimenti il caso verrà archiviato”. E “i processi per corruzione sono tra quelli che in appello si estingueranno automaticamente dopo due anni, a meno che il giudice non richieda un’estensione. L’entrata in vigore della riforma richiederà quindi una stretta sorveglianza in relazione alla lotta alla corruzione, in particolare nel grado d’appello”, si avverte nelle raccomandazioni finali. Le nuove misure, infatti, “rischiano di avere un impatto negativo sui processi penali, soprattutto quelli in corso, che potrebbero essere interrotti in modo automatico”. Per questo, “anche se sono state introdotte delle eccezioni e delle misure transitorie, l’effettività del sistema giudiziario richiede uno stretto monitoraggio a livello nazionale per assicurare un giusto bilanciamento tra le nuove norme e il diritto alla difesa, i diritti delle vittime e l’interesse del pubblico a un sistema penale efficiente”. La Commissione ha parole dure anche sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, diventata legge a giugno dopo una gestazione durata quasi un anno. “Il Csm e gli altri soggetti interessati - ricorda il documento - hanno espresso preoccupazioni sul fatto che alcune norme possano comportare un’indebita influenza sui giudici. In particolare, la legge introduce una valutazione professionale dei magistrati che, tra le altre cose, terrà in considerazione il raggiungimento dei risultati attesi dai dirigenti dei Tribunali, nonché la possibilità di iniziare l’azione disciplinare in caso di mancato adeguamento alle indicazioni dei dirigenti sul modo in cui raggiungerli. Inoltre, la valutazione professionale terrà in conto la conferma delle sentenze nei gradi successivi. Queste previsioni mirano ad aumentare l’efficienza, ma sono state criticate dal Csm e dall’Anm per la tendenza alla gerarchizzazione degli uffici giudiziari e un potenziale uso dei procedimenti disciplinari come strumento per tenere sotto controllo i magistrati”. Preoccupazioni che la Commissione condivide: “Il combinato disposto delle nuove norme potrebbe portare a dipendenze che rischiano di comportare indebite influenze sull’indipendenza dei giudici”, avverte. Ricordando che “in base agli standard europei, la ricerca di una maggiore efficienza non dovrebbe compromettere l’indipendenza del potere giudiziario”. Nell’abstract la relazione ricorda anche che nel nostro Paese “diverse proposte di legge volte a rafforzare la prevenzione della corruzione sono ancora sospese”, citando la legge sulle lobby ferma al Senato dopo l’approvazione alla Camera, il progetto di legge sul conflitto di interessi e il mancato recepimento della direttiva europea sul whistleblowing. “Ancora una volta Bruxelles ha ammonito l’Italia che tarda ad approvare due leggi fondamentali nel promuovere l’integrità pubblica e nel rafforzare gli anticorpi della democrazia nel nostro Paese. La legge sul conflitto di interessi è purtroppo ferma da molti mesi alla Camera e solo la volontà di tutti i gruppi parlamentari può farla ripartire. Quella sul lobbying, approvata dalla Camera lo scorso gennaio, è ora al vaglio del Senato, tra continui rinvii e il rischio che venga partorito un provvedimento largamente insufficiente. Per una volta, ascoltiamo l’Europa: approviamo subito la legge sul lobbying e riprendiamo l’iter sul conflitto di interessi”, afferma Federico Anghelé, presidente della ong The Good Lobby. Riecco Bonafede: prima non voleva onorevoli nel Csm e ora si candida di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 luglio 2022 Alfonso Bonafede, ex ministro grillino della Giustizia nei due governi Conte, pare essere in pista per uno dei dieci posti destinati ai “laici” nel prossimo Consiglio superiore della magistratura. La notizia è stata data ieri dal Fatto Quotidiano, giornale notoriamente molto ben informato sulle dinamiche pentastellate. La candidatura di Bonafede, in caso fosse confermata (al momento, comunque, il diretto interessato non ha smentito, ndr), è già destinata a far discutere. Sarebbe la prima volta, infatti, da quando esiste il Csm, che un ex ministro della Giustizia viene chiamato a far parte dell’organo di autogoverno delle toghe. Ma a parte questo “cortocircuito”, la circostanza più sorprendente è che Bonafede, quando era a via Arenula, fu l’autore di una proposta di legge, poi non approvata, che prevedeva il divieto tassativo per i parlamentari e per i membri del governo di diventare componenti del Csm. La proposta era stata avanzata da Bonafede dopo lo scoppio del Palamaragate, a maggio del 2019, con lo scopo di dare un taglio netto alle pratiche spartitorie che erano state disvelate dall’indagine nei confronti di Luca Palamara, anche se avevano visto come protagonisti solo i componenti togati. In molti pensarono allora che l’iniziativa di Bonafede fosse finalizzata a prendere le distanze dal Pd che aveva espresso gli ultimi due vice presidenti del Csm, Giovanni Legnini e David Ermini, il primo sottosegretario nel governo Letta, il secondo responsabile giustizia dei dem a Montecitorio. La riforma di Bonafede, per la cronaca, ebbe la forte contrarietà di tutti i partiti, ad iniziare proprio dal Pd, Italia Viva e Leu. Sul fronte dei requisiti per Bonafede non ci sarebbero problemi: per poter essere eletti al Csm bisogna essere avvocati con almeno quindici anni di iscrizione all’Albo (Bonafede ha un anno di iscrizione in più) o professori ordinari di materie giuridiche. La candidatura dell’ex Guardasigilli, sempre se confermata, è anche una rottura con i tradizionali modi di selezione da parte dei pentastellati della propria classe dirigente. Fino ad oggi i componenti laici del Csm in quota M5s sono stati scelti tramite il voto su Rousseau. Il primo, nel 2014, fu Alessio Zaccaria che arrivò a piazza Indipendenza quasi per ‘scommessa’ dal momento che furono i suoi studenti a proporlo, depositando il suo curriculum sulla piattaforma. Tale meccanismo di scelta è stato replicato nel 2018 con gli attuali tre laici: i professori Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti. Le votazioni per l’elezione dei dieci laici da parte del Parlamento in seduta comune sono in programma per il prossimo 21 settembre. Mancano poco più di due mesi ma, con le ferie di agosto di mezzo, i partiti hanno intenzione di imprimere una accelerazione e presentare i propri candidati. La scissione di Di Maio potrebbe allora creare problemi a Bonafede. Non è escluso che i fedelissimi del ministro degli Esteri, in ossequio al “Campo Largo” di Enrico Letta, in mancanza di propri candidati spendibili possano dirottare i loro voti sui candidati del Pd. Dalle parti del Nazareno c’è già un affollamento di candidati. Un problema, va detto, comune a tutti gli altri schieramenti. Il motivo è molto semplice: con il taglio dei parlamentari, conquistare un posto sicuro per le elezioni politiche del prossimo anno sarà difficile per chiunque. Andare a far parte del Csm potrebbe essere, dunque, un’ottima soluzione, trattandosi di un incarico di prestigio e di grande potere. Resta da vedere cosa dirà il capo dello Stato Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente, ai vari parlamentari che intendono lasciare prima del tempo la legislatura per trasferirsi a Palazzo dei Marescialli. Non è da escludersi una moral suasion finalizzata ad un “ripensamento”. Discriminazioni e stereotipi nel linguaggio della giustizia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 luglio 2022 Nella seconda giornata del convegno “Le parole e i diritti”, organizzato dalla Rete dei Comitati Pari opportunità, dal Consiglio nazionale forense e dalla Scuola superiore dell’avvocatura, è stato dedicato ampio spazio al linguaggio del processo nella declinazione di genere. Un tema cardine, considerato che per ogni giurista la parola è un fondamentale strumento di lavoro. Filo conduttore il recente orientamento della Cedu, richiamato dall’avvocata Giovanna Ollà (vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura) che ha moderato la sessione di ieri. “L’intervento della Cedu - ha evidenziato l’avvocata Ollà -, con la sentenza del 27 maggio 2021, nel caso J. L. contro Italia, relativo al ricorso n. 5671/ 16, sul linguaggio sessista di genere nell’ambito delle decisioni giudiziarie, ha un carattere dirompente. La decisione giudiziaria, intesa come culmine del processo e dell’accertamento della verità, deve essere considerata come un ambiente protetto, pur nel rispetto delle garanzie processuali della difesa. Un cambio di passo culturale è sicuramente un bene, ma è chiaro che tutto questo deve avvenire con il necessario bilanciamento tra il rispetto della vittima e le garanzie di tutte le parti del processo”. Sullo stereotipo di genere si sono soffermate Valentina Ricchezza (giudice del Lavoro del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere) e Iacopo Benevieri (penalista del Foro di Roma). Entrambi hanno fatto riferimento alla loro esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie. “Il problema dello stereotipo - ha detto Ricchezza - l’ho riscontrato anche in sentenze recenti sul tema delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, in cui ancora vige un modello comunemente accettato anche dalle donne lavoratrici. Fatti di molestie sessuali vengono valutati dalla giurisprudenza non solo con un linguaggio riproduttivo di uno stereotipo di genere, ma anche con il rischio di sconfinare nella vittimizzazione secondaria”. Secondo l’avvocato Benevieri, “il pregiudizio e lo stereotipo non possono appartenere al vocabolario di avvocate, avvocati, magistrate e magistrati”. “Il pregiudizio e lo stereotipo - ha aggiunto - non appartengono alla grammatica del diritto e del processo, che sono strumenti di inclusione e di risoluzione dei conflitti. Lo stereotipo parla un linguaggio polarizzante, che esclude e che, quindi, divide la società. Il processo è una civiltà di parola, una rivoluzione epocale che delega alla parola stessa la risoluzione dei conflitti all’interno della società”. Sull’importanza delle parole e sul coinvolgimento dei giovani ha riflettuto l’avvocata Daniela Giraudo, consigliera Cnf e coordinatrice della Commissione Educazione alla legalità. “Le scelte e le condotte di vita delle persone - ha affermato l’avvocata Giraudo - non dovrebbero diventare una scriminante rispetto a fatti e accadimenti gravissimi. Oggi parliamo di valenza delle parole, di importanza dei comportamenti. Ma la sfida per tutti noi è di ripartire dai più giovani e di creare una società che davvero dimentichi retaggi culturali che provengono dai secoli passati. Con la Commissione del Cnf stiamo lavorando in questo senso, per insegnare a giovani e giovanissimi ad usare il linguaggio più corretto possibile pur mantenendo posizioni diverse”. Ileana Fedele, magistrata e presidente della Commissione pari opportunità della Corte di Cassazione, ha dedicato il suo intervento alla coerenza del linguaggio nel contesto giuridico. “Bisogna arrivare a un linguaggio inclusivo - ha commentato - che sia però condiviso, ma, soprattutto, che si adatti alle esigenze e alla peculiarità del linguaggio giuridico, confacente alla Corte di Cassazione. La Suprema Corte ha avviato già un percorso di riflessione culturale con linguisti e università per l’elaborazione di linee comuni, cogliendo il suggerimento delle raccomandazioni del Parlamento europeo sul linguaggio neutrale: non è necessario avere immediatamente una formula linguistica standard, ma è importante giungere a una soluzione comune. L’interesse della Corte è di approdare a un risultato chiaro, efficace e condiviso che possa gettare le basi di un cambiamento culturale con un approccio duraturo”. Una attenta disamina sulla sentenza della Cedu del 2021 è stata fatta da Paola Di Nicola Travaglini, giudice penale della Corte di Cassazione, che ha anche usato parole di encomio verso l’avvocatura. A detta della magistrata, “avere una avvocatura che ha il coraggio di interrogarsi sul linguaggio e sugli stereotipi e i pregiudizi di genere in ambito giudiziario dimostra che essa esercita un ruolo sociale e culturale”. “La sentenza della Cedu del 2021 - ha proseguito - indica che siamo l’unico Paese ad essere condannato per sessismo giudiziario, ossia la dimostrazione dell’assenza di imparzialità. La sfida è costruire enunciati universali in nome dello Stato. La sentenza è il portato del contesto sociale e culturale dell’aula di giustizia prima che giuridico. La sfida della magistratura e dell’avvocatura è costruire un mondo che abbia il diritto umano delle donne di esistere con il loro femminile, del diritto di non corrispondere a modelli prestabiliti. È un problema etico, prima che culturale, e giuridico perché è il diritto delle donne di pretendere che non ci sia più svalutazione, omissione e ridimensionamento. Stiamo portando avanti una battaglia di civiltà”. Infine, l’avvocato Antonio Voltaggio, nel suo intervento sul linguaggio usato nei procedimenti di diritto di famiglia, ha fatto riferimento ad un “non- linguaggio” adoperato dai consulenti tecnici e fatto proprio dai giudici nel contesto delle liti familiari. Ha evidenziato altresì che, spesso, prendono corpo alcuni “pregiudizi contrari all’interesse superiore del minore”. Il convegno di ieri ha creato un dibattito molto utile e costruttivo. Violenza sulle donne: aumentano le vittime accolte nei Centri di Viola Giannoli La Repubblica, 14 luglio 2022 Troppo pochi i consultori: il 60% in meno di quanti ne servirebbero. I dati dell’associazione nazionale D.i.Re: solo il 28% poi denuncia. E l’istituto nazionale di Sanità avvisa: solo 1800 i consultori in Italia. Speranza: “Più risorse per rafforzarli”. Aumentano le donne accolte nei centri antiviolenza della Rete nazionale D.i.Re. Nell’anno 2021 sono state accolte complessivamente 20.711 donne, con un incremento - rispetto al 2020 - del 3,5%. Di queste 14.565 sono donne “nuove”, cioè persone che prima di allora non si erano rivolte ai centri, oltre mille in più rispetto all’anno prima, con un incremento di contatti nuovi pari all’8,8%. “Dietro ogni numero che leggete c’è una storia, la storia di ogni singola donna, che crede nella possibilità di uscire dalla violenza, dà fiducia ai nostri centri: l’aumento di donne che a noi si rivolgono lo leggiamo in questa luce”, dice Antonella Veltri, presidente D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza. “Non basta approvare un Piano antiviolenza se mancano le linee guida attuative: siamo in attesa di questo, dell’impegno concreto del governo sul tema della violenza maschile alle donne, per il 2021-2023” continua Veltri. Chi sono le donne accolte - Ma chi sono le donne che si rivolgono a un centro antiviolenza D.i.Re? Per quanto riguarda l’età, anche nel 2021 quasi la metà (46%) sta tra i 30 e i 49 anni. Pochissime le donne sotto la maggiore età: le percentuali sono costantemente sotto l’1%. Mentre è in lieve aumento, negli ultimi due anni, la percentuale di donne oltre i 60 anni: nel 2021 e nel 2020 sono state l’8% circa contro il 6,6% nel 2019. I centri della Rete accolgono prevalentemente donne italiane (solo il 26% hanno una diversa provenienza). Anche gli autori delle violenze sono prevalentemente italiani (il 27% ha provenienza straniera): un dato che, secondo D.i.Re, “mette in discussione lo stereotipo diffuso che vede il fenomeno della violenza maschile sulle donne ridotto a retaggio di universi culturali situati nell’ ‘altrove’ dei paesi extraeuropei”. Una donna su tre (31,9% tra disoccupate, casalinghe e studentesse), tra quelle accolte, è a reddito zero e solo il 37% (tra occupate e pensionate) può contare su un reddito sicuro. A livello regionale, si rilevano percentuali lievemente più alte in Abruzzo, Puglia, Veneto, Toscana, Valle d’Aosta e Sicilia. Chi decide di denunciare - Soltanto il 28% delle donne accolte decide di denunciare, percentuale che rimane sostanzialmente costante negli anni. “Questo dato - dice la Rete - non stupisce: la vittimizzazione secondaria da parte delle Istituzioni che entrano in contatto con le donne (servizi sociali, forze dell’ordine, tribunali) continua a frenare l’avvio di un rapporto di fiducia con le donne che intendono rivolgersi alla giustizia”. I centri antiviolenza - I Centri della Rete sono presenti in tutte le regioni italiane, tranne che nella Regione Molise, ma sono distribuiti non omogeneamente: nell’area del nord si trovano oltre la metà dei centri (58 pari al 55%) divisi non equamente tra Nord-Est e Nord-Ovest; in quella del centro 24 centri (pari al 23%) e tra sud (16) e isole (8) si arriva a 24 centri (pari al 23%). Insieme al numero delle donne accolte, è aumentata anche la risposta che i Centri antiviolenza danno sul territorio: Le organizzazioni della Rete che hanno partecipato all’indagine (81 su 82), attraverso i loro 106 Centri antiviolenza, gestiscono 182 Sportelli antiviolenza con un incremento del 25% rispetto al 2020. Oltre la metà dei Centri (58,5% dei casi) può contare su almeno una struttura di ospitalità (62 in totale), con un’offerta di 185 appartamenti e 1023 posti letto. Ma cosa si fa nei centri? Le attività sono varie: accoglienza e possibilità di consulenza legale nella quasi totalità dei casi, consulenza psicologica e percorsi di orientamento al lavoro in circa il 90% dei casi. Nella comparazione con il 2020 emerge un incremento per il servizio di orientamento al lavoro, che passa dall’88% al 94% dei centri. Un dato particolarmente significativo se si ripensa ai numeri di coloro che non hanno reddito, come scritto sopra. L’attività dei centri si sostiene per gran parte sul lavoro volontario delle attiviste, di cui solo il 33, 3% è retribuito, anche a causa della scarsità e non strutturalità dei fondi. I consultori in calo: 60% meno del fabbisogno - Nel frattempo quel che continua a diminuire sono i consultori, altra porta d’accesso fondamentale in caso di maltrattamenti e abusi, ma anche presidio necessario per la salute fisica e psicologica della donna o delle famiglie. In Italia sono 1.800 quelli attivi, uno ogni 32.325 residenti, un numero ben al di sotto di quanto stabilito dalla Legge 34/1996, che ne prevede uno ogni 20.000 abitanti. In pratica, in Italia i consultori sono il 60% in meno di quanti ne servirebbero. E sono diminuiti nel tempo: ce n’era uno ogni 20 mila residenti nel ‘93, uno ogni 28 mila nel 2008. È quanto emerge dall’Indagine nazionale sui consultori familiari 2018-2019 pubblicata dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Dall’indagine emerge che solo 2 Regioni e 1 Provincia autonoma ha un consultorio per un numero medio di residenti compreso entro i 20.000 (Bolzano, Valle d’Aosta e Basilicata), mentre in altre 5 Regioni e una Pa il numero medio è superiore a 40.000 residenti per consiglio familiare, in pratica un bacino di utenza per sede consultoriale doppio rispetto a quanto previsto dal legislatore. Ma c’è anche un allarme sugli organici: si evidenzia, dice l’indagine, “un generale sottodimensionamento del personale”. Più basso di quanto previsto è anche il numero di ore di presenza delle principali figure professionali previste per rispondere al mandato istituzionale dei consultori. In particolare, rispetto allo standard di riferimento, il valore medio delle ore di lavoro settimanali rilevato dall’indagine è inferiore di 6 ore per la figura del ginecologo, di 11 ore per l’ostetrica, di un’ora per lo psicologo e di 25 ore per l’assistente sociale, con una grande variabilità regionale: si va, per il ginecologo, dalle 5,4 ore settimanali per 20mila residenti nella Pa di Bolzano alle 22,4 ore in Emilia-Romagna, per l’ostetrica la variazione va da 12,4 ore in Liguria a 80 ore nella Pa Trento. Anche la disponibilità di psicologi e assistenti sociali “appare generalmente sottodimensionata e molto variabile”. Dal rapporto emerge tutta l’importanza dei consultori ma ache la necessità di rafforzarne la presenza sul territorio - dice il ministro della Salute Roberto Speranza - Per questo abbiamo individuato i consultori come asse strategico di investimento del Programma nazionale equità nella salute. Un primo passo che porterà nuove risorse soprattutto nelle aree più deboli”. Il rapporto Dire: la violenza maschile sulle donne ha le chiavi di casa di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 luglio 2022 Lo studio. Nel 90,2% dei casi rilevati nel 2021 il maltrattante è partner, ex partner o parente della vittima. Quasi mai gli uomini che esercitano violenza sulle donne sono degli estranei. Molto raramente si tratta di conoscenti, amici o colleghi. Nove volte su dieci, infatti, il maltrattante ha una relazione affettiva con la vittima: nel 56,7% dei casi è il partner; nel 23,1% l’ex partner, nell’11,1% un familiare. In totale fanno nove casi su dieci, con un leggero calo dell’1,5% rispetto all’anno precedente. Sono i numeri che vengono fuori dal rapporto annuale dei centri D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) per il 2021. “Si tratta di violenze agite prevalentemente da persone in forte relazione con la donna, dirette a esercitare e a mantenere una relazione improntata al controllo e alla sopraffazione sulla partner”, sostiene lo studio. I dati contenuti al suo interno non costituiscono un campione probabilistico, ma fanno riferimento alle 20.711 donne che lo scorso anno si sono rivolte a uno dei 106 centri antiviolenza che hanno partecipato alla raccolta dati. Complessivamente quelli che aderiscono alla rete sono 108. La violenza maschile ha molte facce ed espressioni: il 77,9% è di natura psicologica; il 57,6% fisica; il 31,6% economica; il 16,1% sessuale; il 15,6% è stalking. Poco meno della metà delle donne che hanno chiesto aiuto hanno tra 30 e 49 anni. Due terzi sono disoccupate o precarie. Il maltrattante, invece, ha un’età compresa tra 30 e 59 anni nel 40% dei casi e quasi tre volte su quattro (73%) è italiano. Solo il 28% delle donne accolte nei centri decide di denunciare, sintomo della persistente “vittimizzazione secondaria” da parte delle istituzioni verso chi subisce violenza. “Dietro ogni numero che leggete c’è una storia, la storia di ogni singola donna che crede nella possibilità di uscire dalla violenza - commenta Antonella Veltri, presidente D.i.Re - Questi numeri danno la misura del lavoro che le 2.793 attiviste, di cui solo poco più del 30% retribuite, svolgono per dare forza alle donne. Non basta approvare un Piano anti-violenza se mancano le linee guida attuative: siamo in attesa di questo, dell’impegno concreto del governo sul tema della violenza maschile contro le donne per il 2021-2023”. Quattro quinti dei centri che compongono la rete sono stati finanziati dalle regioni, la metà dai comuni e un terzo dal dipartimento per le pari opportunità. Il problema è che i fondi fluttuano nel tempo: la mancanza di stabilità rende più complicato per le diverse strutture riuscire a fare una programmazione di lungo periodo delle proprie attività. Indebolendo la presenza sul territorio di questi fondamentali presidi anti-violenza. Gli errori dei pm (da Boccassini a Di Matteo) sul depistaggio Borsellino di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 luglio 2022 Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana rimane senza colpevoli, almeno sul piano processuale. Martedì sera, il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse nei confronti dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di aver depistato le indagini sulla strage di via d’Amelia del 17 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Il terzo imputato. Michele Ribaudo, è stato assolto. I tre poliziotti (che facevano parte del “Gruppo Falcone-Borsellino”, guidato da Arnaldo La Barbera) erano accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra e, in particolare, di aver contribuito a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni portarono alla condanna all’ergastolo (poi annullata) di sette persone innocenti, che non avevano avuto alcun ruolo nella strage. In precedenza, nel febbraio 2021, a Messina era stata archiviata, su richiesta della stessa procura, l’inchiesta nei confronti dei due pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma, all’epoca dei fatti in servizio a Caltanissetta, che con i poliziotti si occuparono più da vicino della gestione di Scarantino, il piccolo picciotto semianalfabeta del rione Guadagna che riuscì a convincere i magistrati di essere stato l’uomo incaricato da Totò Riina di commettere una delle stragi più importanti della storia d’Italia. I verdetti giudiziari non impediscono affatto di valutare la vicenda da un punto di vista non processuale e di concentrarsi sui tanti errori, acclarati, commessi negli ultimi trent’anni da molti pubblici ministeri, alcuni dei quali piuttosto noti. Su Petralia e Palma, all’epoca dei fatti pm a Caltanissetta, è stata la stessa gip di Messina a sottolineare che, pur in mancanza di condotte penalmente rilevanti, “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”. Basterebbe citare il mancato deposito dei verbali di confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Canremi, Di Matteo e La Barbera del gennaio 1995, da cui emergeva tutta l’inattendibilità dello stesso Scarantino. La prima a occuparsi della gestione di Scarantino dal 1993, in stretta collaborazione con il procuratore capo Giovanni Tinebra (morto nel 2017), fu però Ilda Boccassini, che per due anni esercitò le funzioni in Sicilia prima di fare ritorno a Milano. Fu Boccassini ad autorizzare nel 1994 ben dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati. In seguito, prima di tornare a Milano, Boccassini lasciò due relazioni al procuratore Tinebra in cui mise in discussione l’attendibilità di Scarantino, relazioni che vennero di fatto ignorate da Tinebra e dai colleghi. Negli anni successivi, Boccassini non intraprese comunque alcun’altra iniziativa per segnalare l’errore che, a suo dire, i pm stavano commettendo dando retta a Scarantino. Ci sarebbe poi da ricordare Gian Carlo Caselli, allora procuratore capo a Palermo. Nel luglio 1995, quando la moglie di Scarantino accusò La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D’Amelio, Caselli intervenne in difesa del superpoliziotto, convocando i giornalisti e parlando di notizie “inquinate e inquinanti” e di “una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia”. Di nuovo, nessuno osò mettere in dubbio le rivelazioni del “pentito”. Anche Nino Di Matteo, il pm simbolo del processo sulla “trattativa stato-mafia”, ritenne attendibili le rivelazioni di Scarantino, persino quando quest’ultimo nel 1998 decise di ritrattare denunciando le pressioni dei poliziotti. In una requisitoria, il pur antimafia affermò infatti che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”, sostenendo che il passo indietro del falso pentito fosse dovuto alla mafia. Il depistaggio Borsellino probabilmente non avrà mai colpevoli, ma gli errori dei pur sono evidenti. Giustizia negata persino a Borsellino di Claudio Brachino Il Giornale, 14 luglio 2022 Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l’ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino. Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l’ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino. La sentenza del tribunale di Caltanissetta smentisce la tesi dell’omonima procura, da un depistaggio gigantesco e inaudito siamo passati a tre ex poliziotti a cui non viene riconosciuta l’aggravante mafiosa, uno assolto e per due calunnia in prescrizione. Erano imputati di aver spinto il controverso pentito Scarantino a formalizzare le bugie che hanno mandato in carcere degli innocenti e ci hanno allontanato per anni dalla verità. E proprio la verità sembra la grande assente di questo anniversario importante, trent’anni dalla strage di Capaci, un anniversario in cui chi sa dovrebbe dire qualcosa, in cui si dovrebbe fare un passo in avanti rispetto alle ombre che hanno accompagnato errori nelle indagini e inchieste sbagliate. Non voglio tirar dentro questa polemica i familiari delle vittime, il cui bisogno di verità rimane ineccepibile al di là delle tifoserie ideologiche. Il depistaggio, che ha animato con veemenza per anni il circuito giustizialista nostrano, non ha trovato una dimostrazione formale giudiziaria. Gli addetti ai lavori in realtà non si attendevano nulla dal processo di Caltanissetta, con agli attori di primo rilievo già passati a miglior vita, dal questore la Barbera, al procuratore Tinebra, all’ex capo della polizia Parisi. Ripeto, dire che non ci sono state cose inquietanti in questa storia non si può. Il divieto di parcheggio non scattato sotto la casa della madre di Borsellino dove fu invece lasciata la 126 imbottita di tritolo, l’agenda rossa sparita, i troppi personaggi strani presenti sulla scena del crimine e arrivati troppo presto. Soprattutto l’aver creduto per anni più che a una versione a uno schema, che quello fosse un delitto di mafia semplice, per di più compiuto da cosiddetti pesci piccoli e poco strutturati. Come per Falcone la mafia fu committente e manovalanza, ma ancor più che in Falcone rimane uno iato, uno spazio tra la cronaca e la verità riempito dal mistero e dal buio. L’unica cosa formalizzata in sede giudiziaria è “l’ipotesi che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”. Sono parole che purtroppo vanno bene anche per altre tragedie italiane. Le ricostruzioni storiche sono una cosa, e ognuno in quello spazio nero indistinto può mettere servizi segreti, pezzi di Stato e di politica corrotti, massoneria, poteri forti internazionali. Poi però c’è la giustizia, che ha i suoi linguaggi, le sue necessità dimostrative, le sue verifiche, direbbe forse il grande investigatore Borsellino. Rileggendo la sua storia straordinaria di uomo e magistrato colpisce non tanto il livore dei suoi nemici, ma il non amore dei suoi colleghi, fino ad ostacolarne il lavoro e la serenità interiore, fino all’isolamento, come con Falcone. E un giudice che rimane solo, forse tradito come avrebbe confessato Paolo alla moglie prima della fine, è già con un piede nella morte, morale, prima dell’omicidio materiale. Giustizia non è stata fatta, mai, per Borsellino. Lombardia. Perché il piano della Regione non basta a prevenire i suicidi nelle carceri di Ilaria Quattrone fanpage.it, 14 luglio 2022 Il suicidio di Davide Paitoni è avvenuto il giorno dopo l’approvazione di una delibera sul piano prevenzione rischio suicidario nelle carceri lombarde: un piano che da solo non basta considerate le gravi carenze che gli istituti penitenziari devono affrontare. Il suicidio di Davide Paitoni, l’uomo arrestato con l’accusa di aver ucciso il figlio di sette anni la notte di Capodanno, dimostra come il rischio di morte volontaria all’interno degli istituti penitenziari sia ancora elevato. L’atto estremo commesso dal quarantenne arriva a distanza di un mese dagli ultimi suicidi: a inizio giugno, sempre a San Vittore, storico carcere milanese, altri due ragazzi si sono tolti la vita. La situazione delle carceri, come ha spiegato a Fanpage.it il garante dei detenuti del Comune di Milano, Francesco Maisto, è disastrosa: non è quindi un caso che Regione Lombardia abbia provato a correre ai ripari deliberando, proprio due giorni fa, un aggiornamento del piano di prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari per adulti. La carenza di personale penitenziario e sanitario - Un aggiornamento che sulla carta è impeccabile, ma che deve fare i conti con alcune carenze. Prima fra tutte quella di personale penitenziario e sanitario aggravata ancora di più dal sovraffollamento: “La relazione che hanno messo in campo è fatta molto bene, ma si scontra - spiega a Fanpage.it la presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria di Regione Lombardia, Antonella Forattini - con una carenza fisiologica degli operatori sanitari e del personale penitenziario: dovranno essere trovate le modalità per incentivare il personale sanitario a rispondere alle chiamate che vengono fatte per ricoprire posti all’interno delle carceri”. La creazione di staff multidisciplinari - Come è possibile leggere nella delibera, il piano identifica aree e ruoli specifici assegnati a chiunque entri in relazione con un soggetto a rischio. I direttori degli Istituti insieme ai dirigenti sanitari dovranno creare degli staff multidisciplinari formati da agenti di polizia penitenziaria, funzionari giuridici pedagogici, psicologi, volontari, medici e infermieri: “Sono equipe simili a quelle che siamo soliti vedere negli ospedali come per esempio nei reparti che gestiscono i disturbi alimentari”, spiega ancora a Fanpage.it Forattini. Già dalle procedure di accoglienza, immatricolazione e prima allocazione lo staff dovrà esaminare il caso. Una volta individuato il rischio (basso, medio, elevato) dovrà predisporre un programma individuale che, oltre a elencare i vari interventi, dovrà prevedere l’evoluzione terapeutica del soggetto: “È stata messa in piedi - spiega ancora la consigliera regionale del Partito democratico - un’organizzazione che consente di fornire gli strumenti anche alla polizia penitenziaria per fare la prima indagine, ma è certo che nell’immediato è un progetto irrealizzabile”. Le case comunità nelle carceri: la proposta - Per la presidente la delibera - che ritiene comunque necessaria - potrebbe mettere a dura prova il sistema considerate le carenze che è costretto ad affrontare. Per consentirne una piena realizzazione, è necessario quindi mettere in campo altri strumenti: “Nell’assestamento di bilancio che andremo ad approvare, non più tardi di fine luglio, proverò a chiedere, sulla scorta di quanto accaduto nella gestione Covid, che si pensi all’istituzione di case comunità interna a un carcere milanese. In questo modo, potranno essere messe insieme diverse professionalità, apparecchiature, ma soprattutto competenze”. Il ruolo degli altri detenuti - Un ruolo fondamentale è poi riconosciuto agli altri detenuti, ai magistrati, agli avvocati e fino ai famigliari che, pur non avendo competenze cliniche, potrebbero essere necessari nel segnalare situazioni di disagio. Il piano prevede di seguire passo passo il detenuto in tutta la sua vita detentiva (dall’ingresso, alle attività e fino ai colloqui con famigliari e avvocati) così da poter, in caso di malessere o instabilità, poter intervenire in maniera repentina. La formazione del personale - Per soppiantare a un’altra carenza, quella della formazione del personale, gli operatori dovranno seguire dei seminari e corsi (con una cadenza almeno annuale e anche a distanza) che consentiranno loro di avere una visione più ampia e analizzare le varie reazioni emotive. Corsi che la stessa Forattini ritiene fondamentali: “Il problema della formazione del personale, non va sottovalutato. Anche perché nella stessa delibera vengono chieste professionalità per le quali occorre avere degli strumenti mirati. Per questo, i corsi di formazione del personale devono essere più frequenti”. Napoli. Il Garante nazionale dei detenuti: a Poggioreale è sempre un inferno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2022 A distanza di 5 anni le criticità non sono migliorate: si conferma il carcere con il maggior numero di detenuti in Italia e con un pesante sovraffollamento: su una capienza effettiva di 1.501 ospita 2.223 detenuti. “Un intervento coordinato e urgente nell’Istituto di Poggioreale è una delle priorità che l’Amministrazione penitenziaria deve darsi”, questo è l’allarme lanciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà che ha pubblicato il rapporto riguardante le criticità dell’istituto penitenziario campano. Sono passati cinque anni dalla segnalazione di gravi problemi che riguardano il carcere campano di Poggioreale da parte del garante nazionale delle persone private della libertà. Ma sono tutto irrisolti come ha potuto constatare l’11 aprile scorso la delegazione composta dal Presidente Mauro Palma e da Daniela de Robert del Collegio del Garante. Inaccettabili condizioni logistiche per gli operatori di polizia penitenziaria - “Sono molte le criticità che da troppo tempo caratterizzano quest’Istituto, a cominciare dalla presenza di un numero elevato di persone con sentenza definitiva che non dovrebbero essere ristrette in un circondariale, fino alle inaccettabili condizioni logistiche in cui devono lavorare gli operatori di polizia penitenziaria”, osserva il Garante. Segnala, inoltre, che i lavori di ristrutturazione le cui gare sono concluse non sono iniziati e restano fermi quelli interrotti da dieci anni nel reparto Genova. Il Garante nazionale ha preso atto con sconcerto di nuove indicazioni da parte del Provveditorato alle opere pubbliche, formulate dopo un anno di silenzio, che rischiano di determinare ulteriore rinvio dei lavori. Il Garante nazionale, ovviamente, non interviene sui rilievi tecnici evidenziati, ma chiede fermamente che tutte le Amministrazioni coinvolte trovino la modalità per far sì che alle persone che in quell’Istituto sono ospitate o operano siano garantite quelle condizioni minime di lavoro o di detenzione riconosciute dagli standard internazionali. Su una capienza di 1571 posti, effettiva di 1501, ospita 2223 detenuti - Si apprende nel rapporto appena pubblicato dal Garante che l’istituto di Poggioreale si conferma il carcere con il maggior numero di detenuti presenti in Italia e con un pesante sovraffollamento. Nel giorno della visita, l’Istituto - a fronte di una capienza regolamentare di 1571 posti e di una capienza effettiva di 1501 - ospitava 2223 detenuti. Le persone ristrette con una posizione giuridica non definitiva erano in tutto 917, di cui 533 in attesa di primo giudizio; le restanti 1215 erano con sentenza definitiva. Una situazione, questa, che il Garante aveva già rilevato nei precedenti Rapporti come estremamente critica: pur trattandosi di una Casa circondariale destinata, quindi, alle persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni), più della metà delle persone ristrette sono definitive. Ciò a fronte di un unico reparto di reclusione con 72 posti e 87 persone ivi detenute. Soggetti appartenenti a criminalità di maggiore spessore sono un rischio - Nei suoi Rapporti, il Garante nazionale aveva anche rilevato il rischio che “la presenza nello stesso Istituto di soggetti appartenenti a criminalità di maggiore spessore riferibile agli stessi territori espone non soltanto le persone più deboli al rischio di continua reiterazione di reati, ma anche a forme di soggezione durante il periodo di detenzione. Il rischio di acquiescenza in tale contesto di taluni operatori deve essere tenuto sotto costante monitoraggio, con un’attenzione ben superiore a quella riscontrata da parte dei responsabili dell’Istituto”. Per tale motivo il Garante ha raccomandato che l’Istituto torni, gradualmente ma sistematicamente, alla sua vocazione originaria di Casa circondariale, riducendo la presenza di persone in esecuzione di pena o con posizione giuridica mista con definitivo, con una particolare urgenza per quanto riguarda coloro che sono in esecuzione di lunghe pene. L’Amministrazione, nella sua risposta, si era limitata a confermare l’esistenza del problema e le difficoltà a pervenire a una sua soluzione. A distanza ormai di cinque dalla segnalazione e dalla Raccomandazione dell’Autorità di garanzia, il Garante nazionale stigmatizza il perdurare della criticità e la mancata individuazione di una strategia di uscita dal problema da parte dell’Amministrazione penitenziaria centrale e periferica. L’ufficio matricola doveva essere spostato dal seminterrato già nel 2018 - Nel rapporto, il Garante osserva che questo elemento, unito alla presenza di una molteplicità di circuiti e alla carenza di spazi per le attività comuni fa del carcere di Poggioreale un Istituto in cui la gestione della vita quotidiana in una prospettiva costituzionalmente orientata appare molto difficile. Inoltre, il Garante nazionale evidenzia altre situazioni di criticità importanti rilevate nei Rapporti precedenti che persistono tuttora, aggravate dall’usura e dal tempo trascorso senza che nulla sia stato fatto per risolverle. Nella visita del 2016-17, il Garante nazionale aveva evidenziato le disagevoli condizioni di lavoro in particolare di chi opera nell’Ufficio della matricola, che veniva così descritto: “L’Ufficio appare in condizioni fatiscenti, privo di qualsiasi misura di sicurezza, posto a un piano interrato e dotato solo di luce artificiale. I muri, in passato presumibilmente tinteggiati di bianco, sono attaccati dalla muffa e in alcuni angoli e pareti è addirittura presente del muschio. Il Garante nazionale esprime la propria ferma perplessità per le condizioni di lavoro di coloro che operano in tali condizioni. Il personale di Polizia penitenziaria, infatti, opera da anni in queste condizioni, in un ambiente umido, freddo e insalubre, spesso visitato da ratti. Durante la visita, la delegazione ha avuto modo di parlare con un agente che addirittura da undici anni respirava la polvere del toner che fuoriuscendo dalla stampante, si depositava sulla sua scrivania e nei cassetti”. Nel corso della visita, il direttore della Casa circondariale aveva rassicurato la delegazione sul fatto che tutti gli uffici che si trovano al seminterrato sarebbero stati trasferiti in un’altra ala dell’Istituto nella quale erano in via di ultimazione lavori di ristrutturazione. Nella risposta al Rapporto del Garante, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il 4 luglio 2018 scriveva: “l’indispensabile spostamento dell’ufficio matricola è curato dall’ufficio tecnico del Provveditorato che sta predisponendo quanto necessario per un rapido completamento della procedura”. Tuttavia, nel corso della visita effettuata dal Garante a maggio 2019, l’Ufficio della matricola si trovava ancora nel semi-interrato “con luce insufficiente e forte umidità”. Ma a distanza di ulteriori tre anni (aprile 2022), il Garante nazionale constata che ancora gli Uffici della matricola si trovano nello stesso semi-interrato e nelle medesime condizioni di insalubrità dei lavoratori. Quindi anche gli operatori penitenziari del carcere di Poggioreale sono costretti a vivere n condizioni lavorative inaccettabili. Così come ha potuto osservare che le condizioni del padiglione “Roma” è rimasto in condizioni decadenti. Un degrado che permane ancora nonostante le segnalazioni inoltrate cinque anni fa. Napoli. Cardarelli, stop ai ricoveri dei detenuti: “Rimedio peggiore, decisione da rivedere” di Francesca Sabella Il Riformista, 14 luglio 2022 Il reparto “Palermo” dell’ospedale Cardarelli di Napoli ha fatto sapere che, a seguito di una circolare divulgata dal Responsabile Unico del Procedimento Covid, non potrà più procedere al ricovero dei detenuti. È una decisione che ancora una volta pone l’accento su un tema che è sotto gli occhi di tutti tanto quanto ignorato da tutti: il diritto alla salute dei carcerati. “Sono assolutamente consapevole che l’ospedale Cardarelli, il più grande del Sud Italia, è da tempo sotto pressione per il numero spropositato di utenti che vi ricorrono. Non mi sfuggono certamente gli sforzi che l’azienda ospedaliera e tutto il personale sanitario realizza attraverso diverse misure, nel tentativo di affrontare e di alleviare la situazione, ma mi corre l’obbligo di contestare duramente tale decisione”. Si apre con queste parole la lettera che il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha inviato al direttore generale dell’azienda ospedaliera Cardarelli, Giuseppe Longo, e al responsabile unico del procedimento Covid, Ciro Coppola. Nell’ospedale Cardarelli, il reparto Palermo, in parte riservato ai detenuti delle case circondariali di Secondigliano e Poggioreale, ha 12 posti disponibili. Negli ospedali campani, invece, sono solo 35 i posti destinati alle persone in custodia carceraria. “Impedire ad una platea di circa 3600 detenuti di accedere alle cure sanitarie e alle emergenze che non possono essere trattate nei centri clinici di Poggioreale e di Secondigliano, a me pare, sinceramente, un rimedio peggiore del male introdotto dall’emergenza Covid - conclude Ciambriello - Nei due Istituti di pena vi sono ristretti bisognevoli di ricovero e già programmati nel tempo, che non potranno essere trasferiti al Cardarelli. La circolare va modificata”. Torino. Visita all’Ipm: “Dalla pena deve sorgere una nuova opportunità” di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 14 luglio 2022 Le Commissioni Legalità e Istruzione hanno oggi visitato l’IPm Ferrante Aporti, che attualmente ospita 44 giovani detenuti - su una capienza totale di 46 - circa la metà dei quali sono minorenni, diversi tra i quali stranieri e non accompagnati, ossia senza familiari in Italia. Con i responsabili della struttura, consiglieri e consigliere hanno effettuato un sopralluogo conoscitivo, tra spazi comuni, aule di formazione professionale, campi sportivi (dove la delegazione consiliare si è brevemente intrattenuta con un gruppo di giovani detenuti) una biblioteca comunale e un salone che verrà adibito a teatro e luogo di incontro, aprendosi anche al quartiere. Oggi solo il 10% dei minori che commettono reati finiscono in strutture di detenzione, essendo le privilegiate pene alternative. Quando si aprono le porte di un carcere minorile, è stato sottolineato nel corso dell’incontro, l’obiettivo fondamentale è quello di garantire a chi ci è entrato delle opportunità di istruzione e formazione professionale che possano facilitare un rientro effettivo nella società. Al Ferrante Aporti si cerca di garantire ai ragazzi, che in media vi restano circa tre mesi e mezzo, anche se non mancano i casi di detenzione decisamente più lunga, un ambiente per quanto possibile sereno. Gli agenti di custodia, ad esempio, non portano l’uniforme e sono quasi tutti molto giovani, si mangia nei refettori (quello per i minori e quello per i giovani adulti) e non in cella. Ci sono educatori, psicologi, controllo medico (tutti i reclusi sono stati vaccinati contro il Covid) e per chi lo desidera, anche il conforto religioso di un cappellano o la possibilità di pregare con un imam. Poi, i problemi non mancano, ci sono giovani detenuti problematici, anche violenti, e la vigilanza sul bullismo da parte del personale è costante. Nei prossimi mesi, ha annunciato il presidente della Commissione Legalità Luca Pidello, i consiglieri e consigliere visiteranno il carcere Lorusso e Cutugno, nonché il Centro per il rimpatrio (Cpr) del quale la Sala Rossa ha da tempo chiesto formalmente la chiusura. Torino. La storia di Andrea: dopo 11 anni di carcere, ora il lavoro è un miraggio di Federica Cravero La Repubblica, 14 luglio 2022 Ha passato gli ultimi undici anni in carcere e ora è pronto per ricominciare ma gli ostacoli sono tanti e burocratici. “Potrei trovare un lavoro domani, non avrei difficoltà a farmi assumere come autotrasportatore, ho già ricevuto tre offerte. Sarebbe la mia occasione per rimettermi in carreggiata. Invece...”. Invece ad Andrea Ferraioli il carcere ha portato via la patente, e per riprendere le licenze che aveva (A, B, C, D ed E) ci vogliono tempo e denaro, che lui non ha. “Ho calcolato che impiegherei almeno un anno e mezzo e diecimila euro – racconta. E non è immaginabile”. È questo il paradosso in cui Ferraioli ora si trova, dopo aver passato in cella gli ultimi 11 anni, 6 mesi e 21 giorni della sua vita per traffico di stupefacenti. Quando era stato condannato, il prefetto gli aveva tolto la possibilità di guidare perché non in possesso dei “requisiti morali”. Una volta espiata la pena ha fatto richiesta di poter tornare al volante. Dalla prefettura è arrivata sì una disponibilità, “ma che suona come una presa in giro - dice - Non mi sono state ridate le patenti, come mi sarei aspettato, ma ho ricevuto solo il nulla osta che mi permette di iscrivermi nuovamente a scuola guida, come se avessi disimparato. Tra l’altro io non ho mai usato il camion per spostare droga e non ho nemmeno mai fatto incidenti né mi è mai stato tolto un punto dalla patente. Quindi è una punizione irragionevole”. Peraltro il lavoro dopo la scarcerazione è uno dei principali obiettivi che il sistema carcerario sta perseguendo per abbattere la recidiva. In questa direzione va infatti il nuovo protocollo firmato ieri rivolto ai detenuti che si sono laureati nelle carceri di Torino e Saluzzo. Il documento per il triennio 2022-2024 è stato sottoscritto dal Fondo Alberto e Angelica Musy e dall’ufficio Pio della Compagnia di San Paolo e vede l’adesione di 11 enti, tra cui l’Università di Torino, i garanti dei detenuti di Piemonte, Torino e Saluzzo, e la Smat, che ospiterà i tirocini finalizzati all’assunzione dei laureati in carcere. “Sappiamo - osserva Angelica Musy - che un inserimento graduale ma solido, nel mondo del lavoro è il principale antidoto al rischio di recidiva. Le persone con un passato di detenzione incontrano però grandissimi ostacoli”. E la vicenda di Andrea Ferraioli è emblematica. Quello della patente, tra l’altro, non è l’unico problema che l’ex detenuto si è trovato di fronte a fine pena. Quando è tornato a casa, infatti, si è trovato pignorata la sua quota delle due case di famiglia, quella dell’anziana madre a Torino e quella in Puglia, poiché lo Stato gli aveva presentato il conto della sua detenzione: 100 mila euro per vitto e alloggio in carcere, spese processuali e la multa che gli era stata comminata quando era stato trovato in possesso di svariati chili di droga. Andrea Ferraioli aveva lavorato per 20 anni come camionista prima di finire nei guai. Aveva un buon tenore di vita, che si è incrinato quando il mutuo si è fatto più pesante sul bilancio familiare e la ludopatia lo ha fatto affondare. Il fatto che fosse un insospettabile incensurato ha attirato su di lui le proposte di conoscenti che vedevano in lui il narcotrafficante ideale. “Nessuno mi ha puntato la pistola alla tempia, è stata una mia scelta che ho pagato a caro prezzo”, ammette. Libero da sei mesi, Ferraioli non è ancora riuscito a trovare un lavoro. “Non voglio commettere altri errori - ribadisce, assistito dall’avvocato Alessandro Lamacchia - Mentre ero in carcere sono riuscito a far studiare i miei figli, che si sono costruiti la loro vita. E io voglio riprendere in mano la mia”. Ma è tutt’altro che facile. “Ho 56 anni, è già difficile che qualcuno assuma persone della mia età – dice. E quando vedono che sei un ex detenuto le cose sono ancora più difficili. Ho fatto un colloquio per un posto nella logistica, quando hanno saputo che ero stato dentro mi hanno detto di no. Però come camionista avrei delle occasioni, ci sono persone che conoscevo quando lavoravo che mi assumerebbero. Ma senza patente come faccio?”. Catania. La protesta dei familiari dei detenuti: “Questa è rieducazione?” grandangoloagrigento.it, 14 luglio 2022 La richiesta è quella di intervenire sul sovraffollamento delle carceri e sulle condizioni che si vivono all’interno. Come in altre città d’Italia, anche sotto la casa circondariale di piazza Lanza, si sono ritrovati i familiari dei detenuti per manifestare sulle condizioni della detenzione. Con le temperature sempre più alte di questa estate ci si domanda: “Come si può vivere in otto persone in una stanza?”. “È questa rieducazione?” chiedono. La richiesta è quella di intervenire sul sovraffollamento delle carceri e sulle condizioni che si vivono all’interno. Nello specifico a muovere la protesta è stata l’assenza di ventilatori all’interno della cada circondariale. Una misura adottata ormai in quasi tutte le carceri d’Italia e che ancora non attuata a Catania. I familiari hanno protestato, con cori e interventi al megafono girando intorno alle mura del carcere, riscuotendo applausi e approvazione dalle celle. A conclusione della protesta, la direzione dell’Istituto ha fatto sapere di star provvedendo alla risoluzione del problema. “Torneremo in molti di più se non cambierà nulla, perché l’intervento deve essere tempestivo, e non a fine estate”, concludono. Napoli. “La scuola per evitare che i ragazzi si rifugino tra le braccia della camorra” di Emanuele Imperiali Corriere del Mezzogiorno, 14 luglio 2022 Intervista all’Arcivescovo Domenico Battaglia. “Napoli non ha bisogno di formule magiche ma di una rivoluzione culturale e sociale perché il cambiamento sia duraturo”. Arcivescovo, c’è un preoccupante rigurgito di violenza a Napoli. Episodi come quelli delle due ragazze contro cui in pieno centro è stato lanciato l’acido, o della dodicenne sfregiata dall’ex fidanzatino, sono sintomi non solo di una escalation criminale ma anche di scarsa o nulla considerazione per la vita umana. Come deve reagire la società? “Dinanzi al male c’è solo un modo per rispondere: con il bene. Custodendo con decisione il bene che c’è già (e a Napoli è tantissimo, anche se non fa rumore!), incrementandolo dove manca, diffondendolo in tutti i modi possibili. Ma attenzione: il bene, soprattutto il bene sociale e comunitario, è solido quando è frutto di un noi e non di tanti io isolati. Per questo non basta fare il bene ma occorre farlo bene e farlo insieme. Oggi, nel nostro contesto napoletano, fare il bene, abitare il bene significa mettere al centro l’uomo/la donna, la sua vita e le sue ferite, colui o colei che è fragile, marginale. I piccoli. Gli ultimi. È per loro anzitutto che deve nascere e sempre più fortificarsi uno spirito di comunità, un noi capace di fare rete, di creare un sistema di vita e speranza e di arginare il male e la disumanità”. Don Mimmo, bullismo, discriminazioni, razzismo aggrediscono nel profondo una città già martoriata da mille problemi. Bisogna prevenire, certo, ma lei non pensa serva anche una più dura azione repressiva? “Non mi piace il termine repressione. Mi rimanda a una cultura di dominio, che poco ha a che fare con la cultura democratica che ricorre alla forza solo quando non ci sono altre possibilità. Preferisco parlare della necessità di una maggiore vigilanza e di un più incisivo contenimento. E dico questo non per un superficiale buonismo, ma perché se intendiamo la repressione come una mano ferma e dura capace di schiacciare il male e di estirparlo ci stiamo semplicemente illudendo. Sicuramente occorre presidiare con chiarezza le zone più difficili della città, i luoghi più rischiosi e per fare questo occorrono presenza e vigilanza. Ma tutto questo non basterà mai senza dei processi trasformativi capaci di incidere a lungo raggio, accompagnando il bene, arginando il male, educando le menti e i cuori. Napoli ha bisogno di processi, non di formule magiche. Certamente nell’attesa del compiersi di un processo, come ad esempio quello educativo e culturale, occorre arginare in tutti i modi possibili la criminalità, il razzismo, la violenza, il bullismo. Ma puntando su un cambiamento a lungo termine, su una trasformazione duratura e solida”. Finito il lockdown i reati sono aumentati notevolmente, in alcune giornate si scatena un vero e proprio far west. Lei ha proposto un Patto educativo sul quale ha trovato il consenso delle Istituzioni e dei gruppi dirigenti, ma come si fa concretamente a calarlo nelle vene e arterie della comunità civile? “Ecco, questa sua domanda mi permette di fare chiarezza. Il Patto Educativo non è un evento, una formula pedagogica o un protocollo firmato. Tutte queste cose possono rappresentare dei momenti, delle tappe, ma non costituiscono l’essenza del Patto, almeno per come l’ho inteso io, dopo essermi messo in ascolto di tante persone impegnate nel mondo dell’educazione, del volontariato, della scuola. Il Patto vuole e deve essere un processo culturale capace di ridestare il noi in chi si occupa di educazione, di vincere gli individualismi presenti anche nel mondo del sociale, per poi dare vita a una rete educativa solida. Concretamente ciò si traduce nel lavoro sui territori, attraverso la creazione di tavoli educativi a cui tutti siedono per confrontarsi e supportarsi, per superare stili competitivi e imparare a cooperare. I referenti territoriali che ho nominato un prete, una religiosa e un laico - stanno già lavorando a questo, per iniziare una prima sperimentazione dei tavoli in tre zone diverse della città: ovest, est, centro. È dal sedersi insieme, dalla volontà di essere non solo l’uno accanto all’altro/a ma l’uno per l’altro/ a, in modo che le maglie della rete educativa si stringano ulteriormente, che si può far sì che nessun ragazzo corra a rifugiarsi tra le braccia della camorra o della malavita. Però attenzione: tutto questo è un cammino che richiede tempo, è un processo che va vissuto passo dopo passo. Non è roba da tutto e subito. In educazione i tempi sono sempre tempi lunghi, e l’urgenza non deve farcelo dimenticare. Proprio per questo non possiamo più aspettare, è importante iniziare al più presto. Senza smettere, però, di adoperarsi in tutti i modi possibili nel presente!”. Un parroco ha invitato i giovani a restare a casa la sera. Ma, don Battaglia, non è con la fuga che si risolvono problemi così gravi. Che ne pensa? “L’invito del parroco non era a disertare e a fuggire ma ad evitare di lasciare i ragazzi e i bambini in strada e senza vigilanza, spronandoli a vivere luoghi educativi sani, come ad esempio l’oratorio. Nessun prete desidera fuggire o invitare alla fuga, anzi. Il nostro obiettivo, come Chiesa, è quello di creare sempre più luoghi educativi, in cui si possa crescere in sicurezza e divertirsi senza violenza. Anzi, in questo tempo estivo mi permetta di ringraziare pubblicamente i parroci, gli educatori, le comunità, gli istituti religiosi e tutti coloro che si adoperano nelle parrocchie e negli oratori per donare, anche nel tempo estivo, esperienze educative, di divertimento e di prossimità ai ragazzi della nostra arcidiocesi, soprattutto a coloro che, a causa del disagio familiare, economico e sociale, avrebbero maggiormente risentito di un tempo senza scuola. A questa schiera di educatori che si sporca le mani ogni giorno, che decide di non stare alla finestra a guardare ma che piuttosto tocca quotidianamente le ferite dei più piccoli, a loro vanno la mia ammirazione e la mia gratitudine perché rappresentano davvero l’avamposto di una Chiesa in uscita, una Chiesa che annuncia la vita e la speranza tra le strade degli uomini e delle donne!”. La convince da uomo di Chiesa la proposta del comitato per l’ordine e la sicurezza di rafforzare i controlli sulle strade della movida e davanti le scuole? “Come dicevo prima, tutto ciò che aumenta la vigilanza, la presenza, la custodia e il contenimento è assolutamente necessario. E riguarda il presente, l’immediato, l’urgenza. Ma non basta. Contemporaneamente, occorre lavorare ai processi culturali, educativi. Tra cui il Patto. Perché solo così si costruisce il futuro. Ben vengano le decisioni del Comitato, mi sembrano sagge e necessarie. Ma non illudiamoci: Napoli ha bisogno di una rivoluzione culturale e sociale, una rivoluzione di vita e di speranza, di giustizia e di pace”. Come leggere la scelta di una donna ai vertici della Caritas napoletana? “Ecco, non voglio correggerla ma inizierei a parlare più che di “vertice” di “base”. Questo è il compito di chi serve: diventare una base sicura per coloro che gli sono affidati, servendo i collaboratori e, insieme ad essi, i poveri. Suor Marisa viene propri oda questa’ esperienza: è una donna che si è sporcata le mani con i poveri e negli ultimi tempi ha servito gli ammalati di Aids, i ragazzi del carcere, e tante altre realtà di fragilità. Sono sicuro che la sua presenza donerà alla Caritas partenopea un imprinting ancor più materno, orientato alla cura, all’accoglienza, allo stare accanto e alla nascita di progettualità che mirano ad uscire dall’ assistenzialismo e alla costruzione di un’autonomia personale che valorizzi la dignità e la preziosità di ogni uomo e donna, in qualunque condizione si trovi a vivere”. Andria (Bat). Corsi di alfabetizzazione per i detenuti, una speranza per un futuro migliore videoandria.com, 14 luglio 2022 Si sono concluse le lezioni dell’a.s. 2021/22, è tempo di bilanci al Cpia Bat “Gino Strada” e quello che riguarda i corsi di alfabetizzazione tenutisi nella casa circondariale di Trani è sicuramente positivo. Tra le attività proposte, tutte con visibile soddisfazione e palpabile gratitudine dei detenuti e delle detenute, merita una menzione speciale il corso di alfabetizzazione emotiva tenuto dalla docente Amelia Mauriello.nIl corso si intitolava “Chiamale se vuoi… emozioni” e aveva il dichiarato obiettivo di condurre gli studenti ad un viaggio nel proprio mondo interiore, ma anche ad una maggiore coscienza dei comportamenti che regolano le relazioni sociali. La prof.ssa Mauriello spiega: “Imparare a riconoscere le proprie emozioni significa imparare a gestirle attraverso la consapevolezza di sé, l’autocontrollo, la motivazione, l’empatia, le abilità sociali. Per questo abbiamo voluto approfondire in particolare argomenti quali: il meccanismo dell’empatia e i neuroni specchio; la differenza tra intelligenza positiva e intelligenza negativa; le competenze sociali, le regole per la vita. Sbocco naturale di questo percorso è stato anche uno studio motivato della Costituzione Italiana”. “Sono grato alla docente Mauriello - commenta il dirigente Paolo Farina - e a tutti i docenti del Cpia Bat “Gino Strada” che, lavorando con passione e professionalità, ci hanno fatto vivere uno straordinario anno scolastico. Offro un solo dato che credo si commenti da solo e spieghi quanti ci sia bisogno di scuola degli adulti - statale, libera e gratuita - nella nostra provincia: nell’a.s. 2021/22, le iscrizioni del Cpia Bat sono cresciute del 58% sfiorando quota 1200. Avanti così: continuiamo a seminare”. Un breve video sul canale YouTube del “Gino Strada” mostra i prodotti finali del laboratorio “Chiamale se vuoi… emozioni”: Piacenza. Lo scrittore Giuseppe Lupo incontra i detenuti delle Novate piacenzasera.it, 14 luglio 2022 “I detenuti domandano perché” torna a Piacenza. L’iniziativa sostenuta da Mediobanca e ideata da L’arte di vivere con Lentezza Onlus insieme alla Kasa dei Libri con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale negli istituti detentivi attraverso la lettura vedrà infatti un nuovo appuntamento, mercoledì 13 luglio, presso la casa circondariale di Piacenza “Le Novate”. A varcare la soglia del carcere piacentino insieme a 13 dipendenti del Gruppo Mediobanca sarà questa volta Giuseppe Lupo, celebre scrittore e saggista, che guiderà il dialogo con un gruppo di detenuti con l’obiettivo di analizzare e approfondire tematiche etiche e psicologiche. Il dialogo partirà da alcuni estratti letterari che stimoleranno la riflessione, lo spirito critico e la ricerca sull’origine dei “perché” dei detenuti. “Siamo felici di riprendere i nostri incontri in presenza presso le case circondariali dopo lo stop forzato dovuto al Covid e di riscontrare il crescente interesse verso il progetto da parte sia dei detenuti sia nostri dipendenti volontari - commenta Giovanna Giusti del Giardino Head of Group Sustainability di Mediobanca. L’iniziativa conferma l’impegno del Gruppo per la promozione dell’inclusione sociale e lo sviluppo di una crescita socialmente sostenibile”. Muna Dell’Acqua Guarino Responsabile dei Progetti Educativi in carcere, in India e sul territorio di L’Arte del Vivere con Lentezza ha così commentato “sono stati anni in cui nonostante tutto abbiamo continuato a operare in carcere. Uno scrittore che si confronta con i detenuti sui temi più profondi della vita, in una situazione in cui alla sofferenza di tutti noi si è aggiunta quella di essere rinchiusi è un gesto che dimostra che la cultura è una leva di una grande potenza liberatoria e ispiratrice per il domani”. L’era del precariato: quando lavorare diventa supplicare di Stefano Massini La Repubblica, 14 luglio 2022 L’era del precariato: quando lavorare diventa supplicare. L’origine della parola è illuminante: precariato discende dal latino prex, ovvero la preghiera. Sarebbe a dire che il precario è, né più né meno, colui che si trova costretto a pregare, a supplicare, a chiedere in ginocchio qualcosa che gli venga concesso come una grazia. Lavorare, per esempio. Ho sempre avuto l’impressione che in questa immagine della preghiera sia concentrato il senso psicologico di chi vive appeso, fragile, del tutto esposto all’arbitrio di un’entità superiore a cui rivolgersi senza la minima garanzia di parità, ma sempre con deferenza. Appunto: pregando. E se ottieni qualcosa, ringraziando. Fine della storia, qui il cerchio si chiude, sigillandosi nel binomio supplica-gratitudine da cui è necessariamente estromesso ogni barlume di diritto, subito trasfigurato in pretesa (ricordate il famoso adagio sul cavallo donato a cui non si guarda in bocca?). La prima storia che voglio raccontarvi è quella di Giacomo (che va da sé non si chiama Giacomo, ma occorre mutarne il nome perché nel precariato vale la stessa logica mafiosa che punisce la delazione). Tant’è. Giacomo ha 35 anni, mi scrive un messaggio sui social dopo avermi visto per caso in tv, sul palco del Concertone del Primo Maggio, e come tanti mi racconta la sua storia in Calabria, iniziata vent’anni prima dopo l’abbandono degli studi per far fronte a una situazione familiare complessa: la madre è disabile, da anni bloccata nel letto, e l’assistenza del primogenito non le basta, per cui anche il minore, Giacomo, ha bisogno di un lavoro vicino a casa, senza pretese, un qualsiasi mestiere che gli permetta di contribuire alle spese domestiche senza lasciare il paese. Il nostro inizia a guardarsi intorno, secondo una perifrasi ricorrente, ma forse sarebbe meglio dire che inizia a pregare. A esaudirlo dall’alto dei cieli è un benzinaio, che per l’appunto cerca per il suo magazzino/rimessa una terza figura così, un terzo ragazzo da pagare al nero, una terza risorsa instancabile, braccia gambe nel pieno delle forze, soprattutto un terzo supplice devoto ricattabile nel segno di una riconoscenza che - mi scrive Giacomo - porta addirittura i tre giovani dipendenti a chiamarlo zio. Ognuno di loro, a ben guardare, aveva un motivo familiare, umano, personale, per pregare lo zio di una benedizione in forma di impiego, a fronte della quale - mi scrive Giacomo - “gli anni passano ma tutto resta uguale, compreso che da vent’anni lavoriamo quanto e come vuole lui, senza orario, senza turno, senza domenica, senza assicurazione, e in più quando ogni giorno ci offre a mezzogiorno lattina e panino dall’alimentari all’angolo, noi gli diciamo sempre grazie come se fosse l’uomo più buono del mondo, e così anche quando, d’estate, ci dice lui che ci dobbiamo fare qualche giorno di mare, e ci dice quando”. Il racconto di Giacomo mi colpisce per come illumina il precariato di un riflesso subdolo e sottilmente sadico, analogo a quello che pervade l’anticamera del femminicidio, perché colui che intesse la rete della dipendenza si percepisce e si spaccia, spesso, come un idolo benefico, come una divinità protettrice e munifica la cui ombra è un patrocinio vitale e salvifico. Si tratta di un comune denominatore per moltissimi casi della giungla precaria, con le infinite sfumature e declinazioni di un Far West complesso che ama perlopiù giocare sul prodromo del rapporto di lavoro, ovvero sulla condizione di partenza del soggetto “in cerca” (leggi “in preghiera”) di assunzione: sei giovane e alle prime armi? Sei donna e in età fertile? Sei over 40 rimasto senza impiego? Hai famiglia a carico? Ti servono referenze?... Il catalogo sarebbe articolato e composito, ma analogo è il concetto per cui la vecchia “proposta di lavoro” si ribalta in una “proposta del lavoratore” in cui è quest’ultimo a bramare l’ingaggio. Nel luglio del 2021 volli unirmi agli operai di una fabbrica poco lontana da dove sono cresciuto, la famosa Gkn i cui oltre 400 dipendenti ricevettero notizia di licenziamento via email e whatsapp. Fece scandalo. E dire che quelli erano, in teoria, la parte protetta dei lavoratori, quelli con un contratto regolare, perché fuori dai cancelli della fabbrica, nei lunghi giorni del presidio e dei cortei, ebbi modo di conoscere anche l’altra faccia invisibile, di cui mi resi conto quando un metalmeccanico mi prese da parte correggendomi “noi però non siamo solo 400 dipendenti, perché poi ci sono tutti quelli delle ditte in appalto...”. Ed era vero: nella fabbrica del terzo millennio, nipote di quella di Paolo Volponi, non esistono solo gli operai, ma anche i figli di un Dio minore della galassia precaria, quelli per cui il licenziamento via email e whatsapp non fa neppure notizia, quelli per cui la provvisorietà è un mantra, quelli che voglio definire con le parole di Samantha, 50 anni: “Sono anni che io il futuro lo vedo fino alla data scritta sul contratto, dopo quella data ogni volta c’è il buio”. Già, sì, il buio. Due anni fa in Giappone è stato condotto uno studio sui legami fra suicidio e condizioni lavorative, con l’esito stupefacente di un trend in costante crescita fra i precari. Si muore, certo, si muore eccome per lo stress di un contratto che - per gioco di parole - contrae il futuro in un domani limitato e circoscritto, e ricordiamoci che esiste anche una claustrofobia del tempo oltre a quella arcinota degli spazi. Samantha beve un sorso della sua birra gelata, e poi mi dice: “Ti sei chiesto perché i lavori precari non sono mai considerati usuranti? Eppure conosco persone che si sono ammalate di ulcera, di ipertensione, di gastrite, senza considerare gli attacchi di panico e l’emicrania che fra noi sono quasi scontati, se pensi che ogni volta devi tornare da capo, sentirti sul mercato, come fossi all’inizio...”. Esatto, Samantha, hai ragione, è come tornare ogni volta ai nastri di partenza. E se quell’intermittenza può ben conciliarsi con l’adrenalina del ventenne, con la sua naturale insofferenza per le regole, con la sua smania di tenersi libere le mani riformulando la proiezione di se stesso nel poi, è con il tempo che l’ebbrezza svanisce nell’oggettività, e si scopre incompatibile con la vita, con la famiglia, con tutto ciò che sta intorno al Moloch del lavoro. Il coraggio del rider - Insomma, un rider padovano di 22 anni ha fatto notizia su TikTok per aver dato pubblico sfogo al suo rimpianto per i giorni bradi prima che Just Eat lo regolarizzasse. Ha detto chiaramente che quell’agognato contratto - che lo tutela e lo protegge - lo vincolerebbe troppo all’esclusiva, oltre a garantirgli dei diritti (il Tfr, le ferie...) di cui uno studente non sente necessità. Le parole di questo Mercurio alato del terzo millennio sono il paradigma di quanto vari siano i riflessi del prisma: il precariato nasce spesso come emblema di libertà estrema, di furbizia, di scaltrezza e di guadagno “senza ritenute”, salvo poi tramutarsi in breve tempo in una morsa che stritola il lavoratore, quando non lo uccide dedicandogli l’epitaffio di un titolo in cronaca. Mette i brividi leggere le parole di Michele, il grafico trentenne di Udine che 5 anni fa si tolse la vita lasciando quell’agghiacciante lettera-testamento in cui Michele bombardando ogni riga di “sono stufo”, ripercorre la sua odissea di colloqui, di compromessi, di scelte al ribasso, di compiacenze e di mortificazioni, fino a quel terribile “non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere”. La sensazione è che la lettera di Michele si collochi nel gradino esistenziale immediatamente successivo a quello del rider padovano, come se la disillusione attendesse subito dopo l’angolo della sfrenata baldoria del “work no-limit”, analogamente a un abito che d’un tratto non si addice più al corpo che sei diventato, in cui sei cresciuto. Il ventenne brinda al suo primo lavoretto stagionale, ma il cinquantenne non ne trae neppure i soldi per lo spumante, altro che brindisi. Ma non sorprende, in fondo: sono anni che viviamo nell’illusione di poter cristallizzare un’eterna giovinezza, annullando il diagramma delle nostre differenti età in un susseguirsi di picchi da pseudo-ventenne for ever. E così come l’amore tende a coincidere sempre con l’infatuazione di Romeo e Giulietta, allo stesso identico modo si è creduto di poter spalmare su un’intera carriera lavorativa il modello di chi ha tutta una vita davanti, per citare il film di Virzì sui lavoratori nei call-center. E su tutta questa follia aleggia sempre il ricordo di Abderrazak Zorgui, il reporter tunisino che nel dicembre 2018 si è immolato dandosi fuoco per far conoscere il dramma dei precari, da lui chiamati “gente senza diritto”, laddove il primo diritto è quello al futuro. In fondo sta tutto qui, e torniamo alla preghiera che sta inscritta nella stessa parola precariato: l’essere umano viene al mondo per vivere, non per supplicare di poterlo fare. Ius scholae, il premio di cittadinanza di Tito Boeri e Roberto Perotti La Repubblica, 14 luglio 2022 Tra i figli degli immigrati sono molti gli abbandoni: il 35%. Ennesimo rinvio per il disegno di legge sullo ius scholae, che concede la cittadinanza ai figli degli immigrati che abbiano completato cinque anni di scuola in Italia. Sarà discusso in Aula solo a settembre, sempre che questa legislatura continui. Siamo un paese di immigrazione recente e che per ragioni demografiche ha molto bisogno di manodopera immigrata. Questo significa che dobbiamo porci più di tanti altri paesi e subito il problema dell’integrazione degli immigrati presenti e futuri. La concessione della cittadinanza come premio per chi accetta le nostre regole di convivenza è uno dei modi più efficaci di promuovere questa integrazione. Eppure abbiamo una tra le leggi sulla cittadinanza più restrittive dell’Unione Europea: impone dieci anni di residenza legale (con permesso di soggiorno e iscrizione all’anagrafe) per un adulto “non comunitario” prima di poter presentare domanda (a fronte dei 5 anni di Francia e Regno Unito e dei 6 della Germania), e concede fino a tre anni alla burocrazia per decidere in modo spesso del tutto arbitrario. Un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e solo se fino a quel momento ha risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”. Così si impedisce per 18 anni all’intera famiglia di passare periodi all’estero. Chi nasce in Italia da genitori che si sono visti revocare il permesso di soggiorno non potrà mai ottenere la cittadinanza. Con la legge attuale non più di 50.000 immigrati di seconda generazione riescono ad ottenere la cittadinanza italiana ogni anno; per lo più ciò avviene perché i loro genitori hanno ottenuto la cittadinanza, trasferendola anche ai figli. È un numero molto basso, rispetto al milione e 300 mila figli di immigrati che vivono nel nostro Paese, di cui tre su quattro nati in Italia e più della metà con meno di 9 anni. Questi bambini parlano la nostra lingua e in 876.000 vanno a scuola e sono seduti sui banchi di fianco ai nostri figli o ai figli dei nostri figli. A questi bambini si sono aggiunti i figli dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. Ha senso presentarli ai nostri figli come degli estranei? Ha senso insegnare loro nella nostra scuola le nostre leggi, le nostre norme sociali, la nostra storia, esporli alla nostra cultura, per poi escluderli da tutto questo? Non corriamo il rischio di sviluppare in loro e nei nostri figli un sentimento di impotenza oppressa, di ingiustizia, di discriminazione, tutte premesse di rancore, odio, diffidenza? La Germania ha superato 20 anni fa lo ius sanguinis per introdurre un diritto di cittadinanza che pone come requisito il completamento di un ciclo scolastico. Come documentato dagli studi di Helmut Raiser, questo ha portato i genitori immigrati a investire di più nell’istruzione dei loro figli e questi ultimi a impegnarsi a scuola molto di più. Gli immigrati fanno meno figli, forse perché costa di più farli quando si vuole farli studiare a lungo, ma dedicano a questi figli molte più attenzioni. Passano più tempo con famiglie tedesche anziché isolarsi con persone della stessa etnia. E i figli imparano più rapidamente e meglio il tedesco. Noi avremmo un bisogno estremo di adottare un regime di questo tipo. I tassi di abbandono scolastico fra i minori di immigrati sono intorno al 35%, un’enormità. Dare una prospettiva di cittadinanza a chi completa con successo un ciclo scolastico, aiuterebbe moltissimo a ridurre questo spreco. Un ciclo scolastico significa 5000 ore di lezione sulla nostra cultura. Altro che le cinque ore di educazione civica previste per concedere il patto di integrazione! Insomma la cittadinanza condizionata all’istruzione non è un assegno in bianco. Si chiede molto a chi vuole ottenerla, ma in cambio si concede qualcosa di importante. E’ un premio, e il fatto stesso di concederlo a fronte di un investimento in istruzione è un segnale per tutti, anche per chi nasce avendo già la cittadinanza italiana in tasca. Potrà essere valorizzato organizzando, ad esempio, cerimonie nelle scuole che uniscano il completamento con successo del ciclo di studi alla concessione della cittadinanza agli immigrati, con i loro compagni di classe. Soldati italiani schierati lungo i confini dell’Ucraina di Carlo Lania Il Manifesto, 14 luglio 2022 Nel decreto missioni previsto un rafforzamento delle missioni Nato. Libia, niente addestramento ma ripareremo le motovedette della Guardia costiera. Soldati italiani a difesa dei paesi confinanti con l’Ucraina. Per la precisione 1.150 unità da impiegare per il rafforzamento dei contingenti Nato già presenti nell’Est Europa. È quanto prevede il decreto missioni internazionali come conseguenza dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nel decreto, in discussione in questi giorni nelle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, è prevista anche una modifica dell’impegno italiano in Libia: stop all’addestramento della Guardia costiera di Tripoli, alla quale continueremo però a fornire assistenza tecnica e pezzi di ricambio per le motovedette con cui vengono fermati i migranti. Un “disimpegno” parziale che non soddisfa chi, nel Pd, avrebbe voluto mettere la parola fine alla missione nel Paese nordafricano. La decisione di Putin di invadere l’Ucraina ha costretto il governo italiano a rivedere anche le missioni dei nostri soldati all’estero, fino al punto di prevedere un maggior impegno in termini di uomini, mezzi e risorse nelle attività dell’Alleanza in Bulgaria, Romania, Slovacchia e Ungheria, ma anche nel Mediterraneo. Il nuovo impegno, viene spiegato nel decreto, “rappresenta una misura di rassicurazione degli Alleati, atta a migliorare la capacità di risposta ad eventuali minacce dall’esterno”. Nello specifico è previsto lo schieramento di Battlegroup multinazionali nei quattro paesi che confinano con l’Ucraina e che avranno il compito di affiancare gli eserciti nazionali in diversi compiti: dal “supporto al combattimento”, compresa una struttura sanitaria, all’assistenza fornita da “un team per la protezione cibernetica delle reti”. In tutto è previsto l’impiego di 380 mezzi terrestri e di 5 tra aerei ed elicotteri con un finanziamento fino al 31 dicembre 2022 calcolato in 39.598.255 euro. Un altro capitolo riguarda la Libia. Tecnicamente si potrebbe definire un declassamento della missione nel paese nordafricano. L’Italia non addestrerà più la Guardia costiera di Tripoli come ha fatto fino a oggi, ma si limiterà a riparare e fornire pezzi di ricambio alle motovedette (italiane) che la Marina di Tripoli utilizza per intercettare nel Mediterraneo i migranti che cercano di raggiungere l’Europa riportandoli nei centri di detenzione. E questo - è scritto nel decreto - allo scopo di “supportare le autorità libiche preposte al controllo dei confini marittimi, per renderle progressivamente autonome nella gestione tecnica e operativa dei mezzi di cui sono dotate”. Che qualcosa nel rapporto con la Libia dovesse cambiare era nell’aria. L’anno scorso, quando di trattò di licenziare la delibera, una nutrita pattuglia composta da parlamentari di Pd, M5S e Leu si rifiutò di votare la scheda riguardante proprio l’addestramento della Guardia costiera libica chiedendo un’inversione di rotta. La soluzione trovata fu un emendamento presentato dal Pd nel quale si chiedeva al governo di trasferire la formazione dei libici all’Unione europea. In realtà quella che il governo vorrebbe adottare oggi è un parziale passo indietro. E’ dal 2020 infatti che l’addestramento degli equipaggi libici, per di più sulle motovedette fornite dal nostro Paese, è affidato alla Turchia che in questo modo di fatto ha anche il controllo anche della gestione dei migranti nel paese nordafricano dal quale parte la stragrande maggioranza di quanti arrivano nel nostro Paese. Argomento delicatissimo, al punto che non è escluso che sia stato affrontato anche nel colloquio che il premier Mario Draghi ha avuto una settimana fa ad Ankara con il presidente Recep Tayyip Erdogan. Rispetto all’anno scorso, quando la spesa prevista per l’addestramento dei libici è stata di 10,5 milioni di euro, 500 mila euro in più rispetto al 2020, quest’anno è previsto un ulteriore incremento del fabbisogno finanziario che porta la cifra stanziata a 11.848.004 euro. La missione rientra in quanto previsto dal nel Memorandum Italia Libia del 2017 e per la manutenzione dei mezzi navali di Tripoli prevede l’impiego di un Guardacoste “Classe Bigliani” corredato da un sistema di videosorveglianza per la difesa passiva, quattro blindati, “nonché materiali di consumo e parti di ricambio per la manutenzione delle unità navali libiche” insieme 25 militari. La durata della missione è infine prevista fino al 31 dicembre 2022. La scelta di limitare l’impegno italiano alla sola manutenzione delle mezzi navali libici non soddisfa però quanti continuano a giudicare troppo stretto il rapporto con un paese che ancora oggi si rifiuta di firmare la convenzione di Ginevra sui rifugiati. “Se si riconosce che il problema è rappresentato dalla Guardia costiera libica, che viola i diritti umani dei migranti, non si capisce perché gli forniamo un supporto operativo decisivo nelle operazioni di respingimento di quanti cercano di arrivare in Europa”, spiega il dem Erasmo Palazzotto. Come l’anno scorso, è quasi scontato che anche quest’anno verrà chiesto il voto separato sulla scheda che riguarda la missione in Libia. “Mi auguro che tutto il Pd, in coerenza con quanto detto in passato, voti contro”, continua Palazzotto. Intanto i lavori nelle commissioni proseguono con, tra le altre, le audizioni del Capo di Stato maggiore della Difesa, di Unhcr, Oim, e Msf. Il 21 sono attesi i ministri della Difesa e degli Esteri, mentre entro la fine del mese il testo dovrebbe arrivare in aula per il voto finale. Gran Bretagna. Richiedenti asilo deportati in Ruanda, l’Alta corte prende tempo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 luglio 2022 L’Alta corte di Londra ha rinviato l’esame di un ricorso sulla legalità delle espulsioni di richiedenti asilo verso il Ruanda. Una buona notizia considerando, che dopo la sospensione all’ultimo minuto del primo volo, l’attuazione del cinico accordo tra Regno Unito e Ruanda rimane sospesa. Resta però incredibile l’ostinazione delle autorità britanniche, incuranti del fatto che è palesemente ovvio che molte delle persone che verrebbero trasferite in Ruanda sono fuggite da conflitti e persecuzioni, spesso proprio dagli stati dell’Africa subsahariana. Inviare persone in un paese a 4000 miglia di distanza da quello dove si avrebbe diritto a chiedere asilo ed essere costretti a farlo in Ruanda, dove la situazione dei diritti umani non è delle migliori, rappresenta una completa abdicazione morale e giuridica agli obblighi di diritto internazionale del Regno Unito. Le autorità di Londra sostengono che l’accordo con Ruanda darà un colpo al traffico criminale di esseri umani. Purtroppo, è prevedibile che accadrà esattamente il contrario: più si impediscono percorsi legali e sicuri, più si costringono le persone a cercare modi sempre più rischiosi per cercare protezione. I trafficanti ringrazieranno. Bielorussia. Giornalista condannata ad altri 8 anni di carcere di Marika Ikonomu Il Domani, 14 luglio 2022 Katerina Bakhvalova si trovava già in prigione dal novembre 2020 con l’accusa di aver organizzato le proteste di quell’anno contro il dittatore Aleksandr Lukashenko. Secondo l’ong Viasna sono più di 1.200 le persone che si trovano in carcere in Bielorussia per ragioni politiche. La giornalista bielorussa Katerina Bakhvalova, 28 anni, è stata condannata ad altri otto anni di prigione con l’accusa di “tradimento”. Lo ha fatto sapere Belsat Tv, il canale satellitare con sede in Polonia vicino all’opposizione bielorussa e per il quale la giornalista lavorava. Bakhvalova si trovava in carcere dal novembre 2020 ed era stata condannata a due anni di carcere nel febbraio dell’anno successivo, con l’accusa di aver organizzato le rivolte scoppiate nel paese dopo le elezioni nell’estate 2020. Insieme a lei era stata arrestata e poi condannata anche la sua collega di Belsat Tv Daria Chultsova. Il governo bielorusso ha vietato alla famiglia di Bakhvalova e al suo avvocato di parlare pubblicamente del caso. L’udienza che ha portato alla condanna si è svolta a porte chiuse in un luogo tenuto segreto. La leader dell’opposizione in esilio, Svetlana Tikhanovskaya, ha commentato la condanna dicendo: “Mi fa infuriare vedere come il regime si stia vendicando contro coloro che hanno osato resistere”. Secondo l’ong Viasna, ci sono 1.260 prigionieri politici al momento detenuti in Bielorussia. Le proteste del 2020 - Come la maggior parte degli altri prigionieri politici, Bakhvalova e la sua collega Chultsova sono state arrestate dopo le grandi proteste che hanno minacciato di travolgere il governo del dittatore Aleksandr Lukashenko nell’estate del 2020. Le proteste sono scoppiate dopo la proclamazione dei risultati delle elezioni presidenziali, nella notte tra il 9 e il 10 agosto. Secondo i conteggi ufficiali, Lukashenko avrebbe ottenuto più dell’80 per cento dei voti, mentre Tikhanovskaya avrebbe raccolto soltanto il 10 per cento. I risultati sono ritenuti frutto di brogli e intimidazioni. L’Unione europea e numerosi altri paesi si sono rifiutati di riconoscere il risultato. Dopo la proclamazione dei risultati, centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per le strade della capitale Minsk per tutta l’estate, l’autunno e l’inverno del 2020. Soltanto nel marzo del 2021 la dura repressione del governo ha riportato la situazione sotto controllo. Durante le manifestazioni e gli scontri con la polizia, almeno dieci persone sono state uccise e ci sono stati più di 1.300 feriti. Gli arrestati sono stati in tutto oltre 30mila. Secondo l’ong Viasna, sono oltre mille i casi di tortura verificatisi in questo periodo. Lukashenko è al potere dal 1994 ed è sostenuto dal presidente russo Vladimir Putin. Dopo le proteste del 2020, la relazione tra i due si è fatta ancora più intensa e la Russia ha moltiplicato la presenza di truppe nel paese, trasformando la Bielorussia in un vero e proprio stato fantoccio. Al momento, il territorio della Bielorussia è attivamente utilizzato dalle truppe russe nell’invasione dell’Ucraina. Sri Lanka. Il presidente Rajapaksa alla fine scappa, in piazza i primi temuti scontri di Emanuele Giordana Il Manifesto, 14 luglio 2022 Raggiunte le Maldive, affida la presidenza al premier Ranil Wickremesinghe che ha già indetto lo stato di emergenza e ordinato l’uso della forza. Tensione tra polizia e cittadini. Intanto i partiti politici restano imbambolati. È stata una giornata convulsa, tesa e caotica quella che ieri ha marcato il quinto giorno di proteste del movimento GotaGoGama in Sri Lanka. L’atto ufficiale tanto atteso è arrivato in serata: la decisione ufficiale di Gotabaya Rajapaksa, l’ormai ex presidente fuggito all’estero ieri mattina, che si dimette nominando il premier Ranil Wickremesinghe presidente transitorio “per esercitare, svolgere i poteri, i compiti e le funzioni dell’Ufficio del Presidente con effetto dal 13 luglio 2022”. Un atto dovuto ma ormai tardivo e insufficiente perché la piazza non si accontenta. E mentre prende nuovamente d’assalto, circondandoli, i palazzi del potere, compreso il parlamento, anche i leader dei principali partiti politici appoggiano la richiesta che lo stesso Ranil si dimetta. Convulsioni istituzionali in una giornata che sembra prospettare uno scenario pericoloso e violento con le strade del paese piene di manifestanti ma anche di esercito e polizia inviati da un presidente transitorio che però ha già deciso lo stato di emergenza e il coprifuoco. Un uomo che sembra godere solo dell’appoggio del partito dei Rajapaksa che non è nemmeno il suo. Tutto comincia prima dell’alba quando un aereo della marina decolla da Colombo con destinazione Maldive. A bordo c’è l’ex eroe della guerra contro le Tigri tamil, Gotabaya Rajapaksa. Oggi è un uomo che rischiava l’arresto e che il popolo indica come l’autore, con il fratello Mahinda, del disastro dell’isola. Non è chiaro se anche un altro fratello, Basil, sia partito. Mahinda ha fatto perdere le tracce. Gotabaya arriva a Malè ma anche li trova manifestazioni di srilankesi contro di lui. Interviene la polizia. Voci dicono che sia ora diretto a Singapore. Il segno di una tensione sempre più alta, mentre si registrano i primi incidenti tra polizia e manifestanti nei pressi del parlamento e la folla fa irruzione nella sede della tv di Stato, arriva da un altro eroe nazionale della guerra contro le Tigri tamil (1983-2009), l’ex comandante dell’esercito e feldmaresciallo Sarath Fonseka. Fa appello alle forze armate affinché si astengano dall’attuare le istruzioni impartite da Ranil perché tra i manifestanti anti-governativi circolano voci secondo cui sarebbe stato dato ordine di sparare (non accadrà per fortuna): esorta i militari ad astenersi dall’usare le loro armi contro cittadini innocenti e disarmati. Caso mai, dice, andrebbero usate contro i politici corrotti. Gotabaya Rajapaksa avrebbe dovuto dimettersi martedì ma ha preferito farlo con un pezzo di carta per non rischiare l’arresto. In mezzo al pasticciaccio istituzionale un imbarazzato presidente del parlamento, Mahinda Yapa Abeywardena: Ranil si proclamava presidente senza aspettare che fosse arrivato il messaggio ufficiale. Una mossa che non è piaciuta. Ora Abeywardena dovrebbe nominare il premier anche se teoricamente spetterebbe farlo a Ranil che al momento somma le due cariche. I parlamentari vogliono che prima si dimetta da premier. La piazza chiede che sia estromesso dai giochi. Situazione confusa e nella quale partiti e parlamento sembrano giocare un ruolo fuori dal tempo mentre, intorno al Palazzo, infuria la protesta arrivata sin dentro gli uffici del premier-presidente. Gli scenari futuri sono molto incerti: se è vero che la marina militare ha facilitato la fuga di Gotabaya, non è chiaro quanto e fino a che punto gli alti comandi rispetteranno le decisioni di Ranil sempre che non siano tentati, pur se non è nella loro tradizione, di prendere una posizione più decisa bypassando il parlamento. Vorrebbero anche loro, dice il parlamentare d’opposizione Lakshman Kiriella, che Wikremeshinghe si facesse da parte. Le strade restano presidiate da una folla che certo non si accontenta di giochi di palazzo e che vede nel parlamento, nel quale non sembra riporre molta fiducia, una stanza di compensazione dove le vecchie élite hanno sempre giocato sulla pelle del popolino. Ora, oltre alle dimissioni dei vertici, chiedono di guidare il processo di transizione e cambiare la Costituzione che non li garantisce. Emergono anche rivendicazioni antiche: il rispetto della minoranza Tamil e il riconoscimento della loro lingua e i diritti della piccola e vessata comunità musulmana. Un cambiamento epocale.