Visite al 41 bis, nessun dramma: “La legge lo ha sempre previsto” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2022 Il sottosegretario Sisto risponde all’interrogazione di Fratelli d’Italia sui sopralluoghi effettuati da “Nessuno tocchi Caino” a Sassari e Nuoro. “È successo anche quando il ministro era Bonafede”. Ma il M5S punta ancora il dito contro Renoldi. Nulla di irregolare nelle visite dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino nelle sezioni del 41bis di Sassari e Nuoro. Ora come in passato la normativa prevede che anche soggetti diversi dai parlamentari possano recarsi nel reparto del cosiddetto carcere duro e interloquire con i reclusi per verificare, però, esclusivamente le loro condizioni di detenzione. Questa la sintesi della risposta data ieri dal sottosegretario alla Giustizia Sisto ad una interrogazione parlamentare presentata dall’onorevole Varchi di Fd’I: “Ha suscitato polemiche la notizia dell’autorizzazione rilasciata dal nuovo capo del Dap, dottor Renoldi, di accesso “libero” a soggetti, non parlamentari, in due carceri sarde, in cui sono ristretti anche detenuti sottoposti al regime del 41-bis”, ha ricordato la parlamentare. Quanto accaduto è stato al centro di una bufera scatenata dal Fatto Quotidiano in combinato disposto con M5S, Lega e Fd’I appunto. Ieri il Governo ha però chiarito la vicenda. Non una semplice difesa dell’operato del Dap sotto la conduzione di Renoldi, ma la rivendicazione di una prassi consolidata nel tempo, anche quando al Dap c’era Basentini sotto Bonafede e prima Consolo sotto Orlando. Insomma nessuno scandalo, perché è sempre stato così, come previsto dalla legge. Proprio all’inizio Sisto ha menzionato la normativa: “L’ordinamento penitenziario distingue nettamente tra visite, come quelle autorizzate nei casi menzionati dall’atto ispettivo, e i colloqui”. Le prime “sono rivolte alla verifica delle condizioni di vita negli istituti penitenziari”, i secondi “sono interlocuzioni verbali che avvengono secondo modalità precise e regolamentate, che diventano ancora più stringenti nei casi di detenuti in regime di 41bis”. Tra i soggetti a cui è consentito effettuare visite ci sono anche “figure diverse dai parlamentari” che “possono essere autorizzate dal Dap volta per volta, senza preclusioni in ordine ai reparti visitabili, nemmeno per quelli destinati ai detenuti in isolamento giudiziario (i quali possono conferire solo con il difensore e gli operatori penitenziari e quindi si trovano in una condizione ancora più limitativa di quella discendente dal regime di 41bis)”. Per tali ragioni, ha spiegato ancora Sisto, già in passato il Dap ha autorizzato l’ingresso anche nei reparti del 41bis della Casa Circondariale di Tolmezzo ai Radicali italiani nel 2017, di quella di reclusione di Viterbo al Partito Radicale nel 2019, in quella di Rebibbia Nuovo Complesso alla commissione carcere della Camera Penale nel 2017. “E analoga iniziativa è stata assunta in occasione dell’episodio oggetto della presente interrogazione, in cui l’Amministrazione penitenziaria, esercitando le prerogative previste dalla vigente normativa, ha autorizzato la visita di una Associazione sempre impegnata in ambito penitenziario, i cui esponenti erano stati già ammessi in altre occasioni all’ingresso in reparti dello stesso tipo; autorizzazione avvenuta anche in ragione della peculiare situazione degli istituti interessati, in specie quello sassarese, rispetto al quale erano state segnalate gravi carenze dell’Area sanitaria”. Nel frangente, ha proseguito quindi Sisto, “la visita è stata svolta alla presenza vigile della direzione e del personale del Reparto operativo mobile, che ha registrato i movimenti e le interlocuzioni dei visitatori all’interno dell’istituto e ha effettuato un puntuale rapporto, dal quale non è emersa alcuna anomalia. Del resto, come ormai acquisito almeno a partire dalla circolare Dap 7 novembre 2013 n. 3651/6101, i soggetti visitatori possono parlare con le persone ristrette. La presidente dell’Associazione (Rita Bernardini, ndr), inoltre, ha successivamente fatto pervenire al Dipartimento un report della visita, segnalando criticità, in particolare per quanto concerne il cattivo funzionamento dell’Area Sanitaria”. Quindi nessuna anomalia. Al termine dell’interrogazione Sisto però ha aggiunto un passaggio pure importante con cui ha voluto tranquillizzare i detrattori di Renoldi - e di Cartabia quindi -: “In alcun modo le autorizzazioni concesse in passato e da ultimo possono interpretarsi come un cambio di regolamentazione nel ricorso al c.d. carcere duro. Lo confermato i dati: dall’inizio del suo mandato ad oggi, la ministra Cartabia ha firmato 520 decreti tra proroghe e applicazioni di 41bis che resta, quando ricorrono i presupposti di legge, uno strumento efficace per il contrasto alle mafie e ad ogni forma di crimine organizzato. Uno strumento che non sarà inciso dalla riforma dell’art. 4bis in discussione in Parlamento”. Capitolo chiuso? Assolutamente no. Eugenio Saitta del M5S non è soddisfatto della risposta di Sisto e rilancia: “Prendiamo atto della risposta del sottosegretario Sisto durante il question in commissione nella quale ha detto che non esistono ipotesi di alleggerire le misure del regime carcerario speciale per i mafiosi regolato dal 41 bis. Tuttavia aspettiamo chiarimenti dal direttore Dap Renoldi che sentiremo probabilmente in settimana in merito alla questione delle visite nelle sezioni del 41 bis delle carceri di Sassari e Nuoro di esponenti della associazione Nessuno tocchi Caino: un episodio gravissimo che non dovrà ripetersi”. Il sottosegretario Sisto ha infine risposto ad una interrogazione presentata dalla Lega in cui si chiedeva “quanto tempo occorrerà perché le Camere possano esaminare gli schemi di decreti legislativi relativi alla riforma del processo penale e civile”. Come già preannunciato nei giorni precedenti da questo giornale, il rappresentante del Governo ha risposto che i decreti arriveranno all’attenzione della Presidenza del Consiglio entro la fine di luglio. Caso 41 bis, Fd’I respinti con perdite: “Visite regolari, nessuna anomalia” di Angela Stella Il Riformista, 13 luglio 2022 L’interrogazione di Fratelli d’Italia sull’accesso degli esponenti di Nessuno Tocchi Caino a Sassari e Nuoro, che tanto ha scandalizzato pure il Fatto, smontata dal sottosegretario Sisto: “Tutto trasparente”. Il caso delle visite dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino nelle sezioni del 41bis di Sassari e Nuoro è approdato ieri in commissione Giustizia della Camera a seguito dell’interrogazione presentata dall’onorevole Carolina Varchi di Fratelli D’Italia: “Ha suscitato polemiche la notizia dell’autorizzazione rilasciata dal nuovo capo del Dap, dottor Renoldi, di accesso ‘libero’ a soggetti, non parlamentari, in due carceri sarde, in cui sono ristretti anche detenuti sottoposti al regime del 41-bis, il cosiddetto carcere duro”, ha ricordato la parlamentare. La circostanza è stata al centro in questi ultimi giorni di un attacco appunto a Renoldi - e alla ministra Cartabia che lo ha voluto quale capo del Dap - da parte del Fatto Quotidiano e del Movimento Cinque Stelle. Ma i primi a presentare un atto di sindacato ispettivo sono stati quelli di Fd’I a cui ieri ha risposto il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Quest’ultimo ha prima menzionato la normativa: “L’ordinamento penitenziario distingue nettamente tra visite, come quelle autorizzate nei casi menzionati dall’atto ispettivo, e i colloqui”. Le prime “sono rivolte alla verifica delle condizioni di vita negli istituti penitenziari”, i secondi “sono interlocuzioni verbali che avvengono secondo modalità precise e regolamentate, che diventano ancora più stringenti nei casi di detenuti in regime di 41bis”. Tra i soggetti a cui è consentito effettuare visite, ci sono anche “figure diverse dai parlamentari” che “possono essere autorizzate dal Dap volta per volta, senza preclusioni in ordine ai reparti visitabili, nemmeno per quelli destinati ai detenuti in isolamento giudiziario (i quali possono conferire solo con il difensore e gli operatori penitenziari e quindi si trovano in una condizione ancora più limitativa di quella discendente dal regime di 41bis)”. Per tali ragioni, ha spiegato ancora Sisto, già in passa il Dap ha autorizzato l’ingresso anche nei reparti del 41bis della Casa Circondariale di Tolmezzo ai Radicali italiani nel 2017, di quella di reclusione di Viterbo al Partito Radicale nel 2019, in quella di Rebibbia Nuovo Complesso alla commissione carcere della Camera Penale nel 2017. “E analoga iniziativa è stata assunta in occasione dell’episodio oggetto della presente interrogazione, in cui l’Amministrazione penitenziaria, esercitando le prerogative previste dalla vigente normativa, ha autorizzato la visita di una Associazione sempre impegnata in ambito penitenziario, i cui esponenti erano stati già ammessi in altre occasioni all’ingresso in reparti dello stesso tipo; autorizzazione avvenuta anche in ragione della peculiare situazione degli istituti interessati, in specie quello sassarese, rispetto al quale erano state segnalate gravi carenze dell’Area sanitaria”. Nel frangente, ha proseguito Sisto, “la visita è stata svolta alla presenza vigile della direzione e del personale del Reparto operativo mobile, che ha registrato i movimenti e le interlocuzioni dei visitatori all’interno dell’istituto e ha effettuato un puntuale rapporto, dal quale non è emersa alcuna anomalia. Del resto, come ormai acquisito almeno a partire dalla circolare Dap 7 novembre 2013 n. 3651/6101, i soggetti visitatori possono parlare con le persone ristrette. La presidente dell’Associazione, inoltre, ha successivamente fatto pervenire al Dipartimento un report della visita, segnalando criticità, in particolare per quanto concerne il cattivo funzionamento dell’Area Sanitaria”. Insomma, tutto regolare ora come in passato: anche i non parlamentari possono recarsi nelle sezioni del 41bis e parlare con i reclusi relativamente alle loro condizioni di vita detentiva. Capitolo chiuso? Niente affatto perché la lunga e puntuale risposta non è bastata ai Cinque Stelle che con l’onorevole Saitta sono tornati subito alla carica: “Aspettiamo chiarimenti dal direttore Dap Renoldi che sentiremo probabilmente in settimana in merito alla questione delle visite nelle sezioni del 41 bis delle carceri di Sassari e Nuoro di esponenti della associazione Nessuno tocchi Caino: un episodio gravissimo che non dovrà ripetersi”. Visite anti-ergastolo ai detenuti del 41 bis, il sottosegretario Sisto non la dice tutta di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2022 “Gli attivisti erano vigilati dai Gom della penitenziaria”. Per il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che una delegazione di un’associazione privata, com’è “Nessuno tocchi Caino”, s’intrattenga a parlare con boss detenuti al 41-bis, anche di ostativo e di carcere duro, è regolare. Ieri Sisto ha risposto, in commissione Giustizia della Camera, a un’interrogazione della deputata di Fdi, Carolina Varchi, in merito all’autorizzazione concessa dal capo Dap Carlo Renoldi alla delegazione presieduta da Rita Bernardini, il 7 e il 10 maggio scorso a Nuoro e a Sassari, come scritto dal Fatto. Sisto ha tenuto a precisare che “le visite sono cosa diversa dai colloqui”, i quali per i 41 bis sono rigidamente regolamentati e Renoldi, ha scandito, ha autorizzato “visite e non colloqui” come, ha aggiunto, in passato, tra gli altri, l’ex capo Dap Francesco Basentini. In realtà Basentini non l’ha mai fatto, come abbiamo già documentato. Tornando a Renoldi, “esercitando le prerogative dell’attuale normativa - ha spiegato - ha autorizzato le visite a un’associazione”, che aveva già visitato reparti 41-bis, “anche in ragione della situazione (criticità sanitarie, ndr) degli istituti interessati”. Per sostenere che è stato tutto regolare, Sisto ha detto che “la visita è stata svolta alla presenza vigile del Reparto operativo mobile (Gom) che ha effettuato un puntuale rapporto dal quale non è emersa alcuna anomalia”. Ma dato che c’era un’autorizzazione, generica, del capo del Dap, il Gom non poteva certo stigmatizzare quella visita con tanto di conversazioni su temi cari ai mafiosi. Non solo. A Sassari, ci risulta, a parlare con i detenuti al 41 bis c’erano, con la delegazione di “Nessuno tocchi Caino” - e non per sacrosanti colloqui da difensori - anche le avvocatesse Maria Teresa Pintus, che assiste una ventina di 41-bis e Lisa Vaira che difende il camorrista Michele Zagaria, lo ‘ndranghetista Domenico Bonavota, il mafioso Salvatore Madonia, tutti a Sassari. Sisto ha voluto poi tranquillizzare: non è in discussione il 41-bis, infatti a oggi, la ministra Marta Cartabia “ha firmato 520 decreti tra proroghe e applicazione del 41-bis”. Al via il concorsone da magistrato: 500 posti e 6.524 candidati di Liana Milella La Repubblica, 13 luglio 2022 Messaggio della Guardasigilli ai concorrenti, “la magistratura e il Paese intero attendono la competenza, le fresche energie, l’entusiasmo e la passione dei più giovani”. Candidarti divisi in cinque sedi, Roma, Bari, Bologna, Milano e Torino per evitare rischi Covid. Non accadeva dal 2008 che partisse un “concorsone” per assumere 500 nuove toghe. Di cui c’è estremo bisogno per rimettere in sesto i numeri della giustizia. Soprattutto in vista del nuovo processo penale, ma anche nel rispetto delle promesse fatte all’Europa in cambio dei fondi del Pnrr. Accadrà oggi, con ben 6.524 concorrenti che affronteranno i tre giorni della prova scritta, diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo. E a loro va il saluto e l’augurio della Guardasigilli Marta Cartabia: “La magistratura e il Paese intero attendono la competenza, le fresche energie, l’entusiasmo e la passione dei più giovani”. Un concorso classico, ancora carta e penna, forse un elemento di difficoltà per una generazione ormai abituata alla scrittura su pc, tablet e cellulari. Ma tant’è. Anche stavolta, come per il precedente concorso da 310 posti, giunto adesso alle prove orali, i concorrenti dovranno scrivere su carta come una volta. Cinque sedi diverse - Roma, Bari, Bologna, Milano e Torino - per rispettare tuttora le regole anti Covid. La Fiera di Roma vedrà 1.961 partecipanti, mentre ce ne saranno 601 alla Fiera del Levante di Bari, Saranno 1.729 alla Fiera di Bologna, 1.072 alla Fiera di Milano-Rho e 1.161 al Lingotto di Torino. Ovviamente la speranza è che non finisca come per gli scritti del precedente concorso, con una vistosa falcidie di candidati dopo la correzione dei compiti scritti. Perché alla fine, su 3.797 concorrenti, il 25 maggio si è scoperto che ne erano rimasti in gara solo 220, un numero più basso rispetto ai 310 posti messi in palio. Forse colpa di commissari d’esame tra i quali ha prevalso un’estrema severità di giudizio nella valutazione dei compiti. Un esito che non ha mancato di sollevare anche polemiche all’interno della stessa magistratura. Perché la severità di giudizio del pm milanese ed ex presidente dell’Anm Luca Poniz, uno dei commissari del concorso, che aveva trovato nei compiti “errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica”, ha spinto poi due colleghe, Loredana Miccichè, togata del Csm della corrente di Magistratura indipendente, e Cinzia Barillà, presidente di Magistratura democratica, a muovergli dei rimproveri. E adesso, mentre quel concorso affronta gli orali con il presidente dei commissari Giacomo Fumu, parte la nuova gara che sarà diretta da Marcello Matera. Cartabia, nel suo saluto ai partecipanti, lega il via al “concorsone” alle riforme: “I futuri giovani magistrati, insieme ai colleghi con più esperienza, saranno chiamati a dare un contributo insostituibile alla stagione di rinnovamento che la giustizia italiana sta attraversando”. Riforme che però, ci tiene a ripetere la stessa Cartabia, non sono “a costo zero”. Come dimostra l’avvio dell’Ufficio del processo, con l’ingresso di 8.100 ausiliari dei giudici, destinati a raddoppiarsi. E, sempre con fondi Pnrr, ecco le 5.410 assunzioni di tecnici informatici, statistici, e data entry. Assunzioni purtroppo a tempo, ma che Cartabia si augura possano essere stabilizzate. Ma intanto è partita la digitalizzazione di 11 milioni di fascicoli processuali ed è nato il nuovo Dipartimento per la statistica, che sostituirà la precedente direzione generale, e avrà un titolo di peso, il Dipartimento per la transizione digitale, l’analisi statistica e le politiche di coesione. Borsellino: prescrizione e assoluzione per i poliziotti, il depistaggio rimane senza autori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2022 Due prescrizioni e una assoluzione perché il fatto non sussiste, così si conclude in primo grado il processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. I reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Il Borsellino quater, ricordiamo, ha sentenziato che è stato messo in atto il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma con questa sentenza, sommandola all’archiviazione nei confronti dei magistrati che seguirono le indagini, si rimane senza colpevoli. Un depistaggio senza autori, quindi. Ricordiamo che, durante la requisitoria, secondo il pubblico ministero Stefano Luciani, i tre imputati “hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi, che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende: non una condotta illecita di passaggio, ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera”. E poi ha aggiunto: “È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo, sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta”. Ma con la sentenza di primo grado, tale reato - se c’è stato - è prescritto. Il rapporto tra Cosa nostra e ambienti esterni confermato da Giuffrè - Rimangono così sospesi tanti punti interrogativi. Ricordiamo che a parere del procuratore Luciani ci sarebbero forti elementi a dimostrare “convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio, tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra, e ambienti esterni ad essa”. Ma quali sarebbero stati questi ambienti? Il pm Luciani fa riferimento a ciò che disse l’ex boss Antonino Giuffrè pentito nel 2001. Cosa nostra, prima di deliberare le stragi di Capaci e Via D’Amelio aveva assunto dei contatti con soggetti esterni ad essa per sondare i loro umori. Giuffrè è stato preciso e il pm ha sottolineato di prestare attenzione agli ambienti di riferimento di cui parla il pentito. Ovvero imprenditori e una parte di politici. Di cosa si è parlato? “Hanno inciso profondamente - ricorda Luciani le parole di Giuffrè - in discorsi economici e in modo particolare il discorso degli appalti pubblici”. Il dato, tra l’altro riportato in tutte le sentenze sulle stragi, è che le stragi sono frutto di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e ambienti imprenditoriali e politici. Ma a facilitare la strage è stato anche il clima di isolamento nei confronti di Borsellino soprattutto dal suo ambiente lavorativo. Anche qui il pm Luciani è stato chiaro durante la requisitoria. I dati sono incontrovertibili. Sono tanti, a partire - così ha ricordato il pm durante la requisitoria - dalla testimonianza della moglie Agnese quando si riferì alla passeggiata sul lungomare senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, così riferì la moglie, “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ud ucciderlo della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. Quindi i suoi colleghi ed altri avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione. “E questa è la traduzione di quello di cui ha parlato Giuffrè, ovvero il clima di isolamento che crea le condizioni per arrivare ad eliminare il dottor Borsellino!”, ha chiosato il pm Luciani. Per Lipari con l’arrivo di Borsellino Giammanco avrebbe avuto problemi - Altro dato, ma è solo la punta dell’iceberg, è ciò che disse Pino Lipari in merito al trasferimento di Borsellino alla Procura di Palermo. Il pm Luciani ha ricordato le motivazioni della sentenza del quater: “Il pentito Angelo Siino ha riferito i commenti di Pino Lipari secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l’avevano determinato ad accettare l’incarico propostogli del ministero della giustizia”. Ma perché il pm ha fatto riferimento a ciò? Si ritorna sempre agli ambienti esterni riferiti da Giuffrè. Ricorda che durante l’udienza del 2019, il pentito Brusca fece riferimento all’impresa Reale e tale azienda era proprio legata a Lipari. “Era un’impresa fallita, ma a un certo punto questa impresa riemerge e viene sponsorizzata da Salvatore Riina - ha spiegato il pm sempre durante la requisitoria - e messa nel giro dei grandi appalti: doveva essere lo strumento per creare il nuovo canale politico istituzionale: uno degli strumenti che venne individuato da Cosa Nostra quale possibile cerniera tra il mondo mafioso, quello politico di rilievo nazionale e imprenditoria di rilievo nazionale”. E chi c’era dietro l’impresa reale come referenti per Cosa nostra? Pino Lipari e Antonino Buscemi. Quest’ultimo doveva curare il rapporto con le figure del gruppo Ferruzzi, “ma era l’ingegner Bini quello che rappresentava questa nuova cordata politica imprenditoriale”, ha sottolineato Luciani. Tutta questa operazione, come ha riferito Brusca, avviene tra il 1989 e il 1992. “Siamo nel pieno periodo stragista!”, ha chiosato Luciani. L’avvocato Trizzino: “Un disegno criminoso di chi doveva cercare la verità” - Quindi il depistaggio non può non essere slegato dalla genesi dell’attentato di Via D’Amelio. Entrambi i momenti sono stati congegnati da Cosa nostra con il benestare di queste forze esterne appena descritte. Aiutano le parole dette in aula dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Borsellino: “Nell’opera di ricostruzione di ciò che è avvenuto dopo la strage di via D’Amelio, l’approssimazione, le anomalie e negligenze corrispondevano a un disegno criminoso portato avanti da uomini che doveva ricostruire la verità: è stato compromesso il diritto dell’accertamento della verità negli eventi antecedenti e successivi che hanno portato alla strage di via d’Amelio!”. È oramai storia nota che erano state condannate - con tanto di conferma in Cassazione - delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri). Con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 la svolta nelle indagini - La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza si è attribuito la responsabilità - unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra - di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. Siamo così arrivati al Borsellino quater che accertò il depistaggio, da lì è nata anche una indagine nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma è stata archiviata. Erano rimasti soltanto i poliziotti, conclusasi con la prescrizione e una assoluzione. Depistaggio Borsellino, due poliziotti prescritti e uno assolto: “Salvati da ritardo dello Stato” di Antonio Lamorte Il Riformista, 13 luglio 2022 Due prescrizioni e un’assoluzione. È quanto ha deciso il tribunale di Caltanissetta sulle accuse contestate a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti erano accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e alcuni agenti della scorta. L’attentato di Cosa Nostra si inseriva in quella strategia stragista che solo due mesi prima aveva colpito e ammazzato il giudice Giovanni Falcone. La sentenza lascia scontenti quasi tutti e rappresenta l’ennesimo giro a vuoto nella ricerca della verità sull’attentato di trent’anni fa in via D’Amelio. Gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del 1992, erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo l’accusa avevano costruito a tavolino, con la regia del loro capo deceduto Arnaldo La Barbera, una falsa verità sull’attentato costringendo Vincenzo Scarantino e gli altri due pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta ad autoaccusarsi e ad accusare sette persone innocenti della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il processo per il depistaggio è iniziato nel novembre 2018. Ha avuto quasi cento udienze. Stando all’accusa quella costruzione di falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. L’aggravante di aver favorito Cosa Nostra non ha retto al vaglio del tribunale che quindi ha dettato la prescrizione. Al termine della requisitoria il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca e i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Fra le parti civili nel processo la famiglia Borsellino (assistita dall’avvocato Fabio Trizzino), l’avvocato Rosalba Di Gregorio a rappresentare Gaetano Murana, l’ex netturbino in carcere per 17 anni da innocente, l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto e l’avvocato Roberto Avellone in rappresentanza di alcuni familiari degli agenti di scorta. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” secondo quanto si legge nel dispositivo di sentenza sul depistaggio. A presiedere il collegio era Francesco D’Arrigo. Il lavoro dei pm nisseni e le parole del pentito Gaspare Spatuzza avevano ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, e ha svelato quel depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. “Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”, le prime parole dell’avvocato Fabio Trizzino che ha rappresentato durante tutto il dibattimento i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i primi due presenti in aula alla lettura del dispositivo di sentenza. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, è una sentenza che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perché sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”. Insoddisfatto dalla sentenza anche l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del funzionario di polizia Mario Bo, “perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati”. Il tribunale di Caltanissetta ha rinviato alla procura gli atti affinché valuti se procedere per il reato di calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino. Tramessi anche gli atti in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza. “Ritenere in questo processo - ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo - che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare”. Caso Sutera, Sisto: “Nessuna ispezione” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2022 I 5S: “No ai privilegi ai mafiosi”. ma non ha condanne per 416 bis. Nessuna ispezione per i magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Firenze che a fine maggio hanno concesso la semilibertà a Giovanni Sutera, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Graziella Campagna. È quanto emerso dalla risposta fornita ieri dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto all’interrogazione parlamentare presentata dai parlamentari Cinque Stelle Ascari e Saitta in Commissione Giustizia della Camera. Per gli interroganti occorreva “scongiurare il rischio della concessione e applicazione di benefici penitenziari in assenza dei presupposti di legge nei confronti di soggetti condannati per gravi fatti di mafia”. La risposta data dal ministero, tramite Sisto, ricalca quasi pienamente quello che eravamo riusciti a ricostruire qualche giorno fa con l’avvocato di Sutera Elena Augustin. Il sottosegretario infatti, dopo aver ricordato che “il ministero della Giustizia non si occupa di sindacare le determinazioni assunte dall’autorità giudiziaria”, ha immediatamente evidenziato che “Sutera non era in espiazione per reati di mafia. Le condanne in esecuzione non sono attinte dalle aggravanti di cui al comma 1 del 4bis dell’ordinamento penitenziario né dalla sentenza emergono circostanze dalle quali evincere l’agevolazione mafiosa o le modalità mafiose. Questa osservazione formale vale per escludere la necessità nel caso concreto di espletare qualsiasi attività ispettiva”. Sisto poi ha ripercorso l’iter giudiziario dei processi a carico di Sutera e ha ricordato gli altri permessi di cui aveva già beneficiato il detenuto. Arrivando infine al provvedimento stigmatizzato dagli interroganti: “Con istanza del 31 maggio il Tribunale di Sorveglianza ha concesso la semilibertà posto che ‘da un lato risultava accertata l’esistenza di una attività di volontariato sociale gratuita e di pubblica utilità, dall’altro lato si riteneva che la pendenza per il reato di bancarotta non fosse ostativa alla misura della semilibertà”. “Va detto - ha concluso Sisto - che il Sutera ha espiato ad oggi 35 anni di ininterrotta detenzione, ben oltre il limite di ammissibilità della misura concessa per l’ergastolo. Quanto ai profili relativi alla rieducazione il Tribunale, nei diversi provvedimenti concessivi, ha verificato oltre ad una piena ammissione dei fatti commessi anche un ripensamento critico della propria pregressa condotta di vita”. Nonostante questo l’onorevole Ascari nella sua replica ha ripetuto: “Questa è una uccisione in cui la mafia ha dimostrato ancora una volta di non guardare in faccia a nessuno” e “comunque non è agli atti la verifica della rieducazione. La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Firenze lascia sgomenti”. Andrea Soldi, morto per Tso. “Lo Stato con i più fragili”: condanne confermate di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 luglio 2022 La Cassazione: 18 mesi per omicidio colposo ai tre vigili e allo psichiatra imputati. È un po’ il George Floyd italiano: affetto da schizofrenia dall’età di vent’anni, Andrea Soldi morì a Torino il 5 agosto 2015 dopo essere stato sottoposto a un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) eseguito in un giardino pubblico in modo erroneo e violento da tre vigili urbani e da un medico psichiatra. “Immobilizzato e ammanettato con una forte stretta intorno al collo fino a perdere i sensi, Soldi venne trasportato in ambulanza in posizione prona e morì poco dopo in ospedale. L’autopsia disposta dalla procura di Torino ha stabilito il nesso di causa ed effetto tra la costrizione subita e la morte”, ricostruiscono le associazioni A Buon Diritto Onlus e Amnesty International Italia che sono state al fianco della famiglia Soldi nella tenace battaglia per ottenere la verità. Che è arrivata ieri, con la sentenza definitiva della Cassazione che ha respinto il ricorso contro le condanne inflitte in primo grado e confermate in Appello ai quattro imputati: i vigili urbani del Comune di Torino Enri Botturi, Stefano Del Monaco e Manuel Vair, e lo psichiatra Pier Carlo Della Porta, condannati a 18 mesi per omicidio colposo. Ieri, in piazza Cavour a Roma, ad attendere la sentenza c’erano i familiari e gli amici di Andrea Soldi insieme ai rappresentanti delle due associazioni. La quarta sezione penale, presieduta dalla giudice Donatella Ferranti, ha deciso senza alcun dibattimento, sulla base della trattazione scritta. “Sono felice perché ho sempre creduto nella giustizia, fin dal giorno della morte di Andrea abbiamo sempre voluto l’accertamento della verità e nessuna vendetta - è il commento della sorella della vittima, Maria Cristina Soldi - Un anno e 6 mesi sono pochi? Io non cercavo il carcere ma una condanna significativa morale. Questo pronunciamento significa che lo Stato è accanto ai più fragili. Ora avrò ancora più forza. Al ministro Speranza chiedo di investire con più forza sulla salute mentale. Un Paese è civile quando il più fragile è tutelato e chi ha problemi mentali è il più fragile”. “Una sentenza fondamentale, ma ora serve una riforma dei servizi dedicati alla salute mentale”, è l’invito rivolto al legislatore da parte di Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto, associazione fondata da Luigi Manconi. Perché, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, quello di Andrea Soldi è purtroppo “l’ennesimo caso in cui lo Stato si è abbattuto sulle fragilità anziché proteggerle”. “Da Vincenzo Sapia a Bruno Combetto, da Giuseppe Casu a Franco Mastrogiovanni, da Mauro Guerra a Elena Casetto, sono tante, troppe, le persone che nel nostro Paese sono andate incontro alla morte a seguito di un Tso - ricorda ancora Valentina Calderone - È quello che succede quando si abdica al ruolo sanitario e di cura in favore di una risposta repressiva per cui le persone con problemi di salute mentale vengono viste come un pericolo sociale invece di essere prese in carico e supportate”. Complessità dei fenomeni e ipotesi di lettura di Giuseppe Centomani* Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2022 Ogni estate, subito dopo le lamentele sul rincaro dei costi per l’affitto degli ombrelloni, fioriscono le analisi più o meno scientifiche su alcuni fenomeni a portata di mano, si direbbe “pret ‘a porter”, sempre capaci di accendere le coscienze più che la voglia di approfondire. Uno di questi fenomeni, o, per non cadere nello stesso errore di semplificazione lamentato, la configurazione di fenomeni che spesso incorre nelle attenzioni degli opinionisti estivi, è la devianza giovanile, con tutto il suo portato di servizi, interventi, progetti e operatori impegnati a occuparsene. Naturalmente, nessuna delle analisi proposte è espressione di una posizione neutrale, quindi latamente scientifica, rispetto ai fenomeni e alle loro ripercussioni anche socio-economiche. L’effetto pratico di tale posizionamento pregiudiziale è la ricerca non dei dati e delle informazioni concrete di contesto, foriera di informazioni anche asintoniche alle esigenze del proprio posizionamento, ma una selezione di aspetti che, collegati dalla logica di partenza, confermano l’originario punto di vista. Ecco allora che a fronte di problematiche complesse, attinenti sia alle cangianti disposizioni normative sulla Contabilità di Stato, sia alle effettive risorse economiche a disposizione degli uffici periferici dello Stato, fino alle criticità intervenienti a causa della carenza di personale e di una dinamica fisiologica di assenze e pensionamenti, fiorisce una sorta di teorema dell’inefficienza statale, condito da una mancanza sospetta di volontà a rispettare i contratti e assicurare il futuro sia ai giovani presi in carico dalle comunità, sia alla democrazia nel nostro paese. Il Centro per la Giustizia Minorile per la Campania è una macchina complessa che si occupa allo stesso tempo di rispondere alle richieste della Magistratura Minorile, tentare la migliore connessione possibile con il sistema degli Enti e dei Servizi territoriali, promuovere a livello regionale una disponibilità delle comunità locali a rilanciare programmi di promozione della qualità della vita nei contesti di appartenenza dei minori che sbagliano. La costellazione degli interlocutori con cui intessere rapporti e formalizzare strategie e programmi di collaborazione è, quindi, molto variegata e richiede un investimento notevole in termini di tempi, competenze progettuali e di coordinamento da parte di Uffici in cui solo ora cominciano a registrarsi gli effetti di una nuova stagione di assunzioni e specializzazione del personale. Il recente passaggio, inoltre, da un approccio di ordinaria e formale amministrazione a un modello organizzativo proiettato all’innovazione e all’ottimizzazione delle risorse residuali esistenti, ha messo in evidenza, insieme ai limiti quantitativi, una dimensione qualitativa del personale campano che consente una reale presa in carico dei minori, nonostante tutto. Ma i fenomeni a cui si tratta di dare attenzione non hanno solo i minori come attori principali. Purtroppo il nostro meridione è popolato da figure a vario titolo impegnate ad intercettare le politiche e le risorse statali destinate alla gestione educativa dei minori dell’Area Penale in ambito extra-carcerario. Tra queste si annoverano vecchie e nuove tipologie di referenti. Una parte, della vecchia guardia, sorti agli albori della riforma del Codice di Procedura Penale per i Minorenni, conservano una solida impostazione educativa, fondata su capacità organizzative associate alla presenza di figure carismatiche, supportate da équipe multiprofessionali in grado di assicurare ai committenti della Giustizia un servizio all’altezza della complessità e della mutevolezza dell’utenza. Altri, valutato come conveniente economicamente il settore dei servizi alla persona, cercano di allestire contesti sufficientemente rispettosi dei vincoli organizzativi e professionali posti dalle leggi regionali e richieste dal CGM. La quota residuale, infine, pur non proponendo modelli innovativi e/o più efficaci della media dei servizi di comunità, è molto impegnata in attività autopromozionali, curando particolarmente reti di relazioni che solo marginalmente attengono alla sfera professionale di riferimento. Il convincimento, probabilmente è che più ampio è il novero di sostenitori, più aumenta il diritto a ricevere attenzione o addirittura precedenze o collocamenti in sovrannumero dei minori in comunità. Per fortuna, fin dal 2012, il CGM di Napoli, insieme a quasi tutti i CGM d’Italia, si è dotato di un organo tecnico di controllo (Commissione Tecnica di Verifica) che, secondo un programma predefinito ad inizio anno e integrato da visite non programmate, effettua sopralluoghi di verifica nelle sedi dei servizi di Comunità, finalizzati alla rilevazione della situazione operativa, delle condizioni di vita e della effettiva realizzazione dei PEI (Programmi Educativi Individualizzati) concordati con i Servizi Minorili della Giustizia. La verifica attiene anche all’organizzazione del lavoro e all’effettiva presenza in organico di tutte le figure professionali richieste. Non di rado, purtroppo, questa commissione ha dovuto rilevare gravi inadempienze che, se non superate, hanno determinato la sospensione dei rapporti con quelle comunità. Chiunque si occupi con passione e serietà dei giovani implicati in vicende penali, oltre che in storie familiari a volte difficilmente immaginabili, sa che si tratta di un impegno gravoso, capace di indurre frequenti condizioni di burn out e malesseri organizzativi nei contesti meno attrezzati. Allo stesso modo, gli operatori della G.M., affrontano quotidianamente difficoltà di ogni genere, a partire dagli Agenti di Polizia Penitenziaria agli Educatori, dagli AA.SS. Agli Psicologi, dai Direttori ai Dirigenti, consapevoli che la macchina statale non è perfetta e che solo l’impegno e il senso di responsabilità dei suoi operatori può compensare questa imperfezione. Ciò che è certo, infine, è che chiunque sia interessato a comprendere la portata dei risultati raggiunti, come dei momenti critici vissuti dai Servizi della Campania, troverà sempre la porta aperta e la possibilità di verificare che chi cerca di insegnare l’onestà ai minori ha certamente cominciato ad assumere questo costrutto come cardine principale della propria attività professionale. *Direttore del Centro di Giustizia Minorile di Napoli Milano. Suicida in carcere Davide Paitoni. Il legale. “Ognuno fa i conti con la propria coscienza” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2022 L’uomo era accusato di aver ucciso il figlio di 7 anni. Il 4 gennaio il gip aveva messo in guardia l’amministrazione penitenziaria: “Necessaria ogni misura utile a prevenire possibili gesti autolesivi del detenuto”. “Davide Paitoni, accusato di aver ucciso il figlio Daniele di sette anni a Morazzone il primo gennaio scorso, si è suicidato nella sua cella nel carcere di San Vittore”: lo ha comunicato ieri in una nota il procuratore di Varese Daniela Borgonovo. “Il 6 luglio gli era stato notificato l’avviso di conclusione indagini in relazione all’omicidio del figlio e domani (oggi per chi legge, ndr) era fissata la discussione con giudizio abbreviato nel procedimento per tentato omicidio di un collega di lavoro”, termina la nota. Ancora ignota la dinamica del gesto. Del caso è stato informato il pm di turno di Milano, che nell’ambito di un fascicolo, la cui apertura è scontata in questi casi, ha disposto i primi accertamenti. Proprio all’inizio di luglio il suo difensore Stefano Bruno aveva richiesto una perizia psichiatrica: “Era in condizioni di grave sofferenza fisica, psichica e, secondo me, anche psichiatrica. Per quello avevo chiesto per lui una perizia, ma il giudice ha ritenuto di non disporla perché dalle modalità con cui è stato eseguito il delitto ha desunto esservi una prova “tranquillizzante” della sua capacità di intendere e di volere. E anzi una perizia psichiatrica sarebbe stata anche dilatoria”. Il problema, per Bruno, era anche la difficoltà di instaurare un canale di comunicazione con Paitoni: “Io parlavo, ma quando si cominciava ad entrare in argomento, lui andava in confusione, in depressione, in pianto; diceva di avere un buio, di non ricordare, di avere le idee confuse; straparlava. Diceva cose a volte con poco senso”. Nonostante l’intervento di una psicologa richiesta dalla difesa, la situazione non era migliorata. Da qui la richiesta di una perizia psichiatrica per stabilire “sia la sua capacità a partecipare coscientemente al giudizio, sia la sua capacità (ovvero incapacità totale o parziale) di intendere e di volere al momento del fatto”. Due giorni fa il gip di Varese Giuseppe Battarino aveva negato l’accertamento: l’uomo “ha agito con perfetta organizzazione ideativa e derivate azioni, finalizzando coerentemente il complesso delle sue condotte”, “non esiste alcuna traccia di eventuali patologie di tipo psichiatrico”, “quanto alla capacità di partecipare al procedimento penale in corso a suo carico, l’indagato ha posto in essere atti coerenti e finalizzati, a partire dalla nomina di un difensore di fiducia”. L’avvocato, interpellato dal Dubbio, si dice “affranto”. Aveva incontrato solo due giorni fa il suo assistito: “Lui inizialmente era stato messo in un reparto dove ci sono i soggetti a rischio suicidario. All’inizio non gli erano state date neanche le lenzuola. Leggeva questo fatto come un atto ritorsivo. Io gli avevo spiegato che erano dure ma necessarie misure di prevenzione. Poi è stato preso in carico dal servizio infermieristico del carcere, dove è stato oggetto di un percorso di tamponamento mediante la somministrazione di psicofarmaci e calmanti; il rischio era stato considerato venuto meno ed era stato messo in una cella con altre persone. Da quando però si era riacutizzata la pandemia era di nuovo solo in cella. Due giorni poi fa abbiamo discusso del rigetto della perizia da parte del Gip e questo lo aveva gettato ulteriormente nello sconforto”, ha concluso l’avvocato. Per poi aggiungere all’Ansa: “Ognuno faccia i conti con la propria coscienza”. Sicuramente qualcosa non ha funzionato se un uomo si suicida quando è sotto la custodia dello Stato e nulla c’entra il delitto per cui era privato della libertà personale, in questo caso il peggiore dei crimini, ossia l’uccisione del figlio. La questione trova ancora maggiore sostegno se si tiene conto che il 4 gennaio lo stesso gip Battarino aveva inviato alla casa circondariale di Varese una comunicazione in cui si evidenziava la “necessità di ogni misura utile a prevenire possibili gesti autolesivi del detenuto”. L’Amministrazione penitenziaria aveva chiesto poi di trasferirlo a San Vittore come carcere più idoneo e da Varese era stato inoltrato il provvedimento di Battarino. Come mai allora un soggetto in quelle situazioni è rimasto solo in cella? Chi doveva vigilare e non lo ha fatto? Santa Maria Capua Vetere. Mattanza nel carcere, 105 a processo tra poliziotti e funzionari di Carmine Di Niro Il Riformista, 13 luglio 2022 Saranno 105 gli imputati del maxi processo per la mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questo il numero di agenti, funzionari dell’amministrazione penitenziaria e medici che andranno a giudizio all’inizio di novembre dinanzi alla Corte d’Assise del tribunale sammaritano presieduta dal giudice Roberto Donatiello. A disporlo oggi il gup Pasquale D’Angelo del tribunale sammaritano al termine di una udienza preliminare fiume celebrata all’aula bunker, ironia della sorte, proprio all’interno della Casa Circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Processo che vede costituite oltre cento parti civili, soprattutto i reclusi vittime dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere in provincia di Caserta, ma anche alcune associazioni come Antigone, Carcere possibile, Agadonlus, Abusi in divisa, oltre ad enti come l’Asl di Caserta e il Ministero della Giustizia. I nomi più importanti tra i 105 a processo sono quelli dell’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone e degli ufficiali della penitenziaria Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato. Con loro decine di agenti che picchiarono selvaggiamente i detenuti, ma anche due medici del carcere sammaritano. Ma ad oggi restano sconosciuti circa un centinaio di agenti che parteciparono alle violenze, una ‘vendetta’ della penitenziaria contro le rivolte scoppiate il 5 aprile dopo l’emergere di casi di positività al Covid-19 di alcuni detenuti del reparto Nilo: si tratta in particolare di poliziotti arrivati dal carcere di Secondigliano per ‘sedare’ le proteste, muniti di casco e mascherina e per questo non riconoscibili. Quella che doveva essere una “perquisizione straordinaria” si tradurrà in una mattanza: i detenuti vennero fatti inginocchiare e picchiati con manganellate, fatti sfilare tra due ali di agenti e percossi. Le telecamere inquadrarono anche il brutale pestaggio di un detenuto in carrozzina, di recente deceduto dopo la scarcerazione. Agli imputanti vengono contestati, a vario titolo, i reati di tortura (introdotta pochi anni fa e contestata per la prima volta a così tanti funzionari pubblici), maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale. Nel lungo elenco c’è anche quello di omicidio colposo in relazione alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, deceduto in carcere il 4 maggio 2020, addebitato a 12 imputati. Il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere ha fissato invece per il 25 ottobre prossimo l’udienza in cui si terrà il processo con rito abbreviato (davanti allo stesso gup) per due imputati che ne hanno richiesta, tra cui il commissario capo della polizia penitenziaria Anna Rita Costanzo, ritenuta tra gli organizzatori delle violenze. Unico prosciolto è stato Luigi Macari per il quale lo stesso procuratore aggiunto Alessandro Milita - titolare dell’inchiesta con i pm Pinto e Pannone - aveva invocato il non luogo a procedere avendo l’indagato dimostrato di non essere in carcere durante la mattanza. Importanti anche le ripercussioni politiche di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere. Se da una parte il leader della Lega Matteo Salvini non esitò a sfilare davanti al carcere per dimostrare la sua vicinanza alla polizia penitenziaria, il ministro della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi visitarono la Casa Circondariale per chiedere scusa. Santa Maria Capua Vetere. Violenze in cella: a novembre il processo per 105 imputati di Gigi Di Fiore Il Mattino, 13 luglio 2022 Sarà un mega-dibattimento senza precedenti. Riflettori puntati su quanto accadde, tra l’aprile e il maggio del 2020, all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il gip Pasquale D’Angelo ha accolto le richieste del pm Alessandro Milita e in 105, tra agenti della polizia penitenziaria, funzionari del Dap e della Asl locale, sono stati rinviati a giudizio. Il processo inizierà il 7 novembre alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere perché, oltre alle accuse di maltrattamenti, violenze e torture, tra gli 85 capi d’accusa viene contestato a dodici imputati anche l’omicidio colposo per la morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, percosso con accanita violenza nel reparto Danubio. Il reparto dove, secondo la Procura, si verificarono violenze su non meno di 14 detenuti. Erano i giorni delle tensioni e delle rivolte in più carceri italiane, legate all’esplosione della pandemia e le conseguenti restrizioni decise dal governo anche all’interno delle carceri. Nella struttura di Santa Maria Capua Vetere, realtà difficile anche per annosi problemi logistici, si scatenarono proteste seguite da durissime repressioni. Furono chiesti rinforzi di agenti arrivati dal carcere di Secondigliano. Le reazioni tra le mura del carcere furono durissime e si scatenarono soprattutto nei reparti Nilo e Danubio. La Procura sammaritana ha individuato, attraverso testimonianze, denunce e filmati interni al carcere, un lungo elenco di 178 parti offese. Oltre ai detenuti, vi compaiono il ministero della Giustizia, il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, l’associazione onlus Antigone e la onlus il Carcere possibile. Tra gli imputati, oltre a decine di agenti e a due medici in servizio a turno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, anche l’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone e gli ufficiali della polizia penitenziaria Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato. È soprattutto la giornata del sei aprile 2020, quella dove si concentrò il più alto numero di violenze, secondo la ricostruzione investigativa. Nell’inchiesta è rimasto aperto un capitolo, legato alla mancata identificazione di oltre 100 agenti che corsero di rinforzo dal carcere di Secondigliano, coperti da caschi e mascherine protettive che non ne hanno consentito il riconoscimento sia dalle testimonianze dei detenuti sia dai filmati Due imputati hanno scelto la strada del rito abbreviato, con processo fissato il 25 ottobre dinanzi lo stesso giudice D’Angelo. Tra loro, c’è il commissario capo Anna Rita Costanzo, accusata di avere organizzato la repressione delle proteste. Nel lungo elenco di imputati, figura un solo prosciolto. È l’agente della polizia penitenziaria Luigi Macari. Gli inquirenti hanno accertato la sua assenza dal servizio nei giorni dei pestaggi. Decine le intercettazioni utilizzate nelle indagini, in cui i funzionari e gli agenti parlano di facinorosi da colpire e di interventi da attuare per ripristinare il controllo della struttura carceraria. Il 4 maggio del 2020, la morte del detenuto algerino, messo in isolamento, in conseguenze delle violenze subite. Nel provvedimento di rinvio a giudizio, sui dodici imputati accusati di omicidio colposo per la morte di Lakimi Hamine, il giudice D’Angelo scrive, riprendendo l’atto di accusa della Procura sammaritana: “Ne cagionavano la morte a seguito delle torture e maltrattamenti subiti a partire dalle violenze del sei aprile e dalle indebite condizioni di isolamento sociale in cui era stato sottoposto, privato di controlli giornalieri da parte sia di un medico sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, sia delle vigilanza continuativa ed adeguata da parte del personale del corpo di polizia penitenziaria”. Un detenuto con problemi e difficoltà fisiche e psicologiche, aggravate dai pestaggi. E arrivò la morte per “edema polmonare acuto” e “arresto cardio-respiratorio”. Sarà il processo a ricostruire la verità giudiziaria, come promesso dalla ministra Marta Cartabia che, nei giorni delle polemiche sull’inchiesta in corso, fece visita all’istituto penitenziario impegnandosi a far luce sull’accaduto. Napoli. A Poggioreale 700 detenuti in più, in 10 nella stessa cella di Marco Santoro Corriere del Mezzogiorno, 13 luglio 2022 Il Garante dei detenuti: “un intervento coordinato e urgente” nell’istituto di Poggioreale sia “una delle priorità” dell’amministrazione penitenziari. Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere invece 73 positivi al Covid. Oltre 2mila detenuti, dei quali 700 in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Con il risultato che in alcuni padiglioni, come il “Roma”, ci sono camere di pernottamento “che ospitano sino a 10 persone”. Poggioreale si conferma il carcere con più detenuti in Italia, “con un pesante sovraffollamento”, e ambienti “in stato di degrado”: al “Roma”, per esempio, i servizi igienici sono ancora a vista e, nelle stampe multiple, “separati dal resto dell’ambiente di vita da un muretto basso”; al “Salerno”, un unico bagno è condiviso anche da 9 persone e i compagni di stanza devono mangiare a turno perché i tavolini sono pochi. E in generale mancano i locali per la”socialità” e per le attività in comune. Il degrado investe anche gli uffici: quelli della Matricola sono in un seminterrato “con luce insufficiente” e forte umidità. Lo dice il garante nazionale dei detenuti, Mauro Di Palma che ha visitato il penitenziario napoletano l’11 aprile scorso nel Rapporto pubblicato oggi sul sito dell’organo collegiale. A quella data il numero dei detenuti risultava pari a 2223, rispetto a una capienza regolamentare di 1571 posti e di una capienza effettiva di 1501. I condannati in via definitiva (1215) rappresentano oltre la metà della popolazione carceraria nonostante si tratti di un carcere circondariale nel quale cioè dovrebbero essere ristretti solo i detenuti in attesa di giudizio o con una pena da scontare inferiore a 5 anni. Già negli anni scorsi il Garante aveva lanciato l’allarme sulle conseguenze della presenza di tanti condannati definitivi, cioè di “soggetti appartenenti a criminalità di maggiore spessore del territorio”: “espone non soltanto le persone più deboli al rischio di continua reiterazione di reati, ma anche a forme di soggezione durante il periodo di detenzione” e comporta un “rischio di acquiescenza di taluni operatori”, che “deve essere tenuto sotto costante monitoraggio”. Ma a distanza di 5 anni, segnala il rapporto, nulla è cambiato. Un elemento che unito anche “alla carenza di spazi per le attività comuni fa del carcere di Poggioreale un Istituto in cui la gestione della vita quotidiana in una prospettiva costituzionalmente orientata appare molto difficile”. Sul punto il Garante è molto critico: “Le condizioni verificate in generale nell’Istituto di Poggioreale, e in particolare in alcuni reparti, possono essere facilmente considerate una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti umani che inderogabilmente vieta trattamenti le pene inumane o degradanti”. Di qui la richiesta pressante che “un intervento coordinato e urgente” nell’istituto di Poggioreale sia “una delle priorità” dell’Amministrazione penitenziaria. Covid, 73 positivi a Santa Maria Capua Vetere - Con la risalita dei contagi da Covid 19 tornano i focolai nelle carceri. Il più grosso è a Santa Maria Capua Vetere dove si contano 73 casi tra i detenuti. A Ferrara i positivi sono 47, 42 invece nel carcere milanese di San Vittore, 41 a Siracusa, 37 a Noto e Udine. Torino. Protocollo Musy: studio e lavoro per il reinserimento sociale degli ex detenuti di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 13 luglio 2022 L’articolo 27 della nostra Costituzione è lapidario: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Una sanzione, non una vendetta, che deve offrire la possibilità di un reinserimento a pieno titolo nella società, una volta scontata la condanna stabilita dalla magistratura. Per questo, occorrono strumenti concreti, atti da dare una reale consistenza a quel pur chiaro dettame costituzionale, che da solo non potrebbe che restare una pur nobile enunciazione scritta sulla carta. Lo studio è uno strumento fondamentale per il recupero della propria vita una volta fuori dal carcere: e oggi, al di là dei corsi scolatici, sono una settantina i detenuti che seguono corsi di laurea nei penitenziari del capoluogo piemontese e della cittadina ai piedi del Monviso. Tuttavia, fondamentale è anche garantire la possibilità di inserimento lavorativo a chi sceglie di laurearsi dietro le sbarre. Va in questo senso il rinnovo del Protocollo Musy per il reinserimento lavorativo degli studenti universitari detenuti presso i Poli universitari nelle carceri di Torino e Saluzzo (CN). La presentazione del Protocollo prima della firma - A Palazzo Civico, questa mattina, il documento è stato siglato da una molteplicità di soggetti istituzionali: oltre alla Città di Torino (con la vicesindaca Favaro e l’assessora Pentenero), i responsabili dei penitenziari di Torino e Saluzzo, La Fondazione Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo (con il presidente Marco Sisti), l’Università di Torino rappresentata dal professor Franco Prina, la Città di Saluzzo con il sindaco Mauro Calderoni, i Garanti delle persone private della liberà della Regione Piemonte (Bruno Mellano), della Città di Saluzzo e della Città di Torino (Monica Cristina Gallo), il presidente di SMAT SpA Paolo Romano e il Fondo Alberto e Angelica Musy, rappresentato da Angelica Corporandi D’Auvare, vedova del consigliere comunale Alberto Musy, il quale fu vittima di un’aggressione a mano armata nel cortile della propria casa, dieci anni fa. Presente in sala anche il presidente della Commissione legalità della Città di Torino, Luca Pidello. Il Protocollo firmato oggi prevede che siano destinate borse lavoro a persone detenute che abbiano conseguito la laurea durante la reclusione, per facilitarne il reinserimento lavorativo. Ciascuno, è stato spiegato, farà la propria parte. La Città di Torino, in particolare, favorirà l’avviamento di tirocini verso le proprie società partecipate, a partire da SMAT che, oltre a ospitare tirocini nelle proprie strutture, procederà alla collocazione lavorativa delle persone, fornendo anche referenze sul lavoro svolto. Il progetto è ora più articolato e strutturato, ma non nasce oggi. Il primo accordo per la formazione universitaria nel carcere torinese risale al 2007 e l’adesione del Fondo Musy data al 2014. “Questo accordo” ha spiegato Monica Cristina Gallo dopo la firma del documento “testimonia come sia possibile e doveroso perseguire il cammino del reinserimento e della tutela dei diritti delle persone detenute. Un documento rafforzato e più esteso rispetto alle edizioni precedenti che riconosce e supporta concretamente i percorsi dei detenuti e delle detenute, attribuendo inoltre ai Garanti un importante ruolo di sostegno alle azioni previste.” Avellino. Lavori di pubblica utilità per “evadere” dalla routine del carcere di Luigi Salvati orticalab.it, 13 luglio 2022 Il diritto di riscatto per i detenuti della provincia di Avellino. Il protocollo sottoscritto con il Tribunale dà l’opportunità a 9 persone di poter essere impiegate per 2 anni con il Consorzio ASI. Le mansioni: manutenzione di aree verdi, guardiania e sorveglianza, sistemazione archivi, supporto ai servizi di segreteria o ambiti pertinenti la specifica professionalità. Per il presidente Pisano è “un’occasione da non farsi sfuggire. A San Martino Valle Caudina raggiunti ottimi risultati” Lavori di pubblica utilità per i detenuti che si trovano nelle case circondariali della provincia di Avellino. Un’opportunità di reinserimento nella società civile, un’occasione per offrire un servizio utile a se stessi e agli altri. Il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale della Provincia di Avellino (ASI) e il Tribunale di Avellino hanno sottoscritto una convenzione che consente alla precisa categoria di persone che hanno ottenuto la sospensione del procedimento con messa alla prova di prestare attività non retribuita a favore della collettività. Nove detenuti all’anno con un massimo di tre unità contemporaneamente potranno occuparsi presso le strutture consortili della manutenzione delle aree verdi, di attività di piccola manutenzione e guardiania/sorveglianza, della sistemazione archivi, del supporto ai servizi di segreteria oppure potranno essere impiegati in altri ambiti pertinenti la specifica professionalità del soggetto. I primi contatti tra il presidente dell’ASI Pasquale Pisano ed il presidente del Tribunale di Avellino Vincenzo Beatrice risalgono allo scorso aprile. Dopo aver espletato una serie di procedure burocratiche oggi la convenzione è operativa ed i primi detenuti già possono cominciare ad espletare le attività sopra elencate per la durata di due anni decorrenti dalla data di sottoscrizione e sarà tacitamente rinnovata alla scadenza, anno per anno. Nessun onere e/o responsabilità potrà essere a carico del Ministero della Giustizia, il progetto sarà svolto a titolo gratuito da parte dei detenuti. Dal canto suo l’ASI si impegna a mettere a disposizione dei detenuti le strutture e le attrezzature necessario allo svolgimento delle attività e si impegna ad assicurare il rispetto delle norme a tutela dell’integrità fisica e morale dei detenuti garantendo, ove prevista, la vigilanza sanitaria. Ogni tre mesi e al termine dell’esecuzione della pena il Presidente Pisano relazionerà sullo svolgimento del lavoro e riferita ogni informazione utile per la stesura della relazione periodica e conclusiva sull’effettivo svolgimento del lavoro da parte del detenuto. Infine ciascuna parte potrà recedere dalla convenzione fornendo preciso con anticipo di almeno due mesi. “L’ASI è pronta - dichiara il presidente Pisano - il Tribunale di Avellino può in qualunque momento comunicarci il nome o i nomi delle persone che potranno cominciare a prestare servizio. Abbiamo stipulato questa convenzione con uno spirito ben preciso, quello poter consentire a dei ragazzi che hanno commesso degli errori di impiegare il proprio tempo per un’attività di natura pubblica. Ne giova il Consorzio e sicuramente ne trarranno beneficio anche i detenuti. È un’opportunità di reinserimento nella società civile che vale la pena sfruttare”. L’intuizione del presidente ASI nasce sulla scorta dell’esperienza vissuta a San Martino Valle Caudina, Comune amministrato dallo stesso Pisano. “Nel tempo si sono alternate dieci persone - spiega - ed abbiamo raggiunto risultati molto incoraggianti e la speranza è che anche per quel che riguarda il Consorzio per l’Area di Sviluppo il protocollo si dimostri essere qualcosa che va a favore della comunità e della persona che, in questo moto, può comprendere l’importanza del lavoro e le soddisfazioni che ne consegue”. Trieste. Studiare in carcere? In Via Coroneo manca organico di Chiara D’Incà triesteallnews.it, 13 luglio 2022 La scuola è aperta a tutti, lo dice la Costituzione nell’articolo 34. Ma nelle carceri? Secondo l’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario, “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. Diverse esigenze, ma un filo comune: il reinserimento sociale. E proprio ponendosi questo obiettivo, proseguendo la scorsa all’Ordinamento contenuto in Gazzetta Ufficiale, si arriva all’articolo 19, quello dedicato specificamente all’istruzione nelle strutture detentive. “Negli istituti penitenziari la formazione culturale e professionale, è curata mediante l’organizzazione dei corsi della scuola d’obbligo e di corsi di addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti”. Ancora una volta la “condizione” del singolo è fondamentale: Treccani alla mano, per condizione si intende lo “Stato fisico, morale o finanziario di una persona”. La persona, le sue peculiarità e le sue necessità devono essere al centro per garantire la migliore istruzione in un’ottica di reinserimento sociale. Un tema certamente caldo in tutta la Penisola è quello del reinserimento dei detenuti nella società dopo aver scontato la pena, ma che è ancora oggi troppo poco affrontato. Un’occasione di riflessione a riguardo è stata la consegna dei diplomi e delle certificazioni linguistiche conseguite dagli studenti detenuti che hanno frequentato e concluso positivamente i percorsi d’istruzione offerti dal CPIA (centro provinciale istruzione adulti) presso la Casa Circondariale “Ernesto Mari” di Trieste: attestati A2, competenza linguistica, diploma di terza media e attestati dei PON (progetti realizzati con fondi strutturali europei) svolti da alcune insegnanti al di fuori del contesto scolastico “tradizionale”. Presente alla consegna la capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati, Debora Serracchiani. Percorsi d’istruzione fondamentali per il percorso di vita dei detenuti, essenziali da tenere “nella cassetta degli attrezzi di queste persone, per reinserirsi a tutto tondo all’interno della società” riprendendo le parole della deputata. Tra i percorsi di formazione svolti nel carcere di Via Coroneo rientrano per l’appunto i PON Inclusione (Programma Operativo Nazionale Inclusione), cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo, che rappresenta una misura nazionale di contrasto alla povertà. Un PON dedicato all’inclusione che coinvolge anche la formazione nelle strutture detentive che, con la Strategia Europa 2020, desidera ridurre entro dieci anni il numero delle persone in condizione o a rischio povertà ed esclusione sociale di almeno 20 milioni. Nella pagina dedicata al Progetto M.I.L.I.A. - Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale - inserito nel PON Inclusione - del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali si legge come “Recenti studi dimostrano che il tasso di recidiva è molto inferiore nei soggetti che durante il periodo di esecuzione della pena abbiano avuto l’opportunità di svolgere attività formative e lavorative. Ciò è determinato, prevalentemente, dal reinserimento nel tessuto produttivo conseguente all’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro”. Il fine è trasmettere ai detenuti le competenze e le professionalità necessarie a garantir loro una continuità lavorativa nel momento del ritorno in libertà. Diversi quindi i piani d’azione che si dovrebbero seguire: in primis porre in risalto l’importanza del Lifelong learning, idea europea che “dovrebbe avere ora una ricaduta concreta” dichiara la dirigente scolastica, Susanna Tessaro. Un percorso di studi, quello offerto dal CPIA, che peraltro non è circoscritto alla struttura detentiva: una volta scontata la pena è infatti possibile ultimare gli studi anche al di fuori della casa circondariale; ma il carcerato prediligerà probabilmente una formazione lavorativa, ma non basta. “Ci si deve impegnare sul far comprendere l’importanza della scuola. La licenza media è conseguita da tutti, ma ci dovrebbe essere un corso formativo superiore, o comunque dei corsi trasversali in modo che la persona possa accrescere il proprio bagaglio conoscitivo” sottolinea Chiara Miccoli, funzionario giuridico pedagogico. La seconda direttrice riguarda, come rimarca l’Ordinamento penitenziario, la condizione del soggetto, poiché “Per poter fare formazione ci vorrebbe un distinguo. Abbiamo carcerati dai 18 ai 90 anni; c’è una problematica che si genera relativa al reinserimento nel mondo del lavoro a causa dell’eterogeneità nelle classi. Non è possibile garantire una formazione completa” continua Miccoli “si nota quindi che le attività formative restano legate ad un numero circoscritto senza mai ampliare il raggio.” Sono quindi necessarie “Risposte diverse per esigenze diverse” rimarca Serracchiani, per “ricostruire un percorso formativo”. Un altro punto saliente non è una direttrice da seguire, ma una problematica da risolvere: la carenza di organico. Un deficit strategico che non coinvolge solo il settore dell’istruzione, ma rappresenta una ferita aperta che riguarda tutti i settori del carcere. Dopo dieci anni di attesa la casa circondariale di Trieste ha, da un semestre, un Direttore; gravissima è la carenza nell’area giuridico pedagogica, ove a fronte di 200 detenuti vi è un funzionario giuridico pedagogico su tre e manca un addetto alla segreteria tecnica. Si lamenta in carcere anche la carenza di sovrintendenti e ispettori. “Ci sono persone che hanno un percorso di vita complesso, ed è necessario prevenire la difficoltà nell’essere reinseriti nella società. Questo lavoro viene fatto con una carenza importante di organico, che riguarda sia la parte dell’istruzione in carcere, sia delle CPIA (formazione adulti)” prosegue la deputata. Il carcere è ancora una volta una “Scatola chiusa che si preferisce tener tale”, questo è il dramma. La deputata ha ribadito il suo impegno per portare avanti un intervento “che farò personalmente, sia sul Ministero della giustizia sia sul Ministero dell’istruzione, per aumentare gli organici che sono nella disponibilità delle strutture”. Nella cassetta degli attrezzi della vita dei detenuti l’istruzione e la formazione sono fondamentali: nella sezione femminile del carcere di Via Coroneo, dove sono presenti 25 detenute, non è stato ancora possibile organizzare corsi di alfabetizzazione, rendendo estremamente complesso un percorso di reinserimento una volta scontata la pena, a causa di una mancanza di organico. “È necessario fare dei bandi di concorso che garantiscano un numero adeguato di assunzioni e le risorse devono essere proporzionate alla popolazione detenuta” dichiara Elisabetta Burla, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Trieste, aggiungendo come “un’altra soluzione sarebbe un maggiore accesso alle misure alternative, ma, in questo caso, andrebbero in primis rafforzati i servizi sociali territoriali e il personale degli uffici dell’esecuzione penale esterna”. Bolzano. Un orto comunitario per il reinserimento degli ex detenuti di Floriana Gavazzi rainews.it, 13 luglio 2022 Inaugurato a Bolzano un fazzoletto di terra curato da persone in semilibertà. Nell’ambito del progetto Art of Freedom finanziato dal FSE si è tenuto anche un corso di formazione per i carcerati che hanno creato piccoli orti verticali. Dopo l’esperienza del teatro nel carcere di Bolzano, il progetto Art of freedom - finanziato dal Fondo sociale europeo - punta all’inclusione di detenuti ed ex detenuti anche attraverso la cura di un orto molto particolare, che è stato inaugurato ieri (martedì). Si chiama orto didattico comunitario e si trova dietro via Marconi, lungo l’Isarco, tra ponte Loreto e il ponte giallo. Il comune di Bolzano lo ha dato in gestione alla Biblioteca Culture del mondo che insieme a una rete di enti e associazioni ha trasformato un fazzoletto di terra in un’occasione di riscatto per ex detenuti che beneficiano di misure alternative e si sono occupati della coltivazione delle verdure, ormai pronte per essere raccolte, come spiega nel servizio Mauro di Vieste, direttore di Biblioteche nel mondo e del progetto Art of Freedom. All’inaugurazione dell’orto hanno preso parte anche l’assessora alla cultura e all’ambiente di Bolzano Chiara Rabini e il botanico paesaggista Giorgio Bozzi che non ha solo progettato l’orto ma anche tenuto un corso di formazione in carcere. Per i detenuti che non possono uscire si è inventata una formula particolare: bancali con tasche di terra dove coltivare piante officinali e piccole verdure. All’uscita dal carcere i detenuti potranno utilizzare le competenze acquisite per trovare lavoro. Gorgona, l’isola-penitenziario dove nasce il vino che profuma di libertà di Hugo McCafferty finedininglovers.it, 13 luglio 2022 Non c’è rumore sull’isola, a parte le voci lontane dei detenuti al lavoro nei campi o un trattore che si fa strada su per la collina. Tutto è inghiottito dal vento. È una dolce brezza mediterranea che rinfresca la terra e porta il sale dal mare. Il sale arriva ovunque. Questa è Gorgona, un piccolo e polveroso sperone che sorge dal mare scintillante dell’arcipelago toscano, a circa 40 km dalla costa di Livorno. Avvicinandosi in barca, sei accolto da un villaggio di pescatori diroccato ma pittoresco, con le case e gli edifici dipinti di fresco in colori vivaci. Potrebbe essere una tipica isola del Mediterraneo, tranne per il fatto che questa ha una storia diversa. È un’isola carceraria e per i detenuti che vivono qui non c’è via d’uscita. Gorgona sembra un luogo idilliaco per espiare una condanna, e potresti chiederti che tipo di criminale ha la fortuna di scontare una pena in un posto come questo. Ma quest’isola ha la funzione di una sorta di “casa di cura”, un rifugio dove i prigionieri possono essere ammessi soltanto verso la fine di lunghe condanne. Qui possono trovare pace e persino sprazzi di libertà. Ma soprattutto, Gorgona è un luogo dove possono trovare lavoro e dignità, e alla fine possono ritrovare se stessi prima di tornare nel mondo al di là delle sbarre. La struttura presente sull’isola gestisce un programma di riabilitazione per i detenuti in collaborazione con la stimata azienda vinicola toscana Frescobaldi. I detenuti possono cos apprendere le tecniche di coltivazione dell’uva e la vinificazione mentre scontano la loro pena, e il loro lavoro contribuisce alla produzione di un numero molto limitato di bottiglie di vino Gorgona di Frescobaldi da uve Vermentino e Ansonica, circa novemila all’anno. Sono formalmente assunti da casa Frescobaldi, e ricevono un salario che viene accantonato e che consentirà loro di ricostruirsi una vita una volta tornati in società. “Qui assumiamo i prigionieri, entrano nel libro paga della Frescobaldi” afferma Lamberto Frescobaldi, presidente dell’omonima azienda e motore del programma. “Ciò permette loro di avere venti, trenta, anche quarantamila euro sui loro conti bancari. Questo è molto importante perché quando escono dalla prigione, alcuni di loro hanno paura di reimmettersi nella società ma avendo quei soldi sui loro conti in banca sono in grado di dire no al crimine”. La realtà è che quando le persone vengono rilasciate dopo aver scontato lunghe condanne, di solito hanno bande criminali fuori che le aspettano, in cerca di persone con determinate capacità e in fondo disperate, perché spesso fuori dal carcere non hanno niente e soprattutto non hanno modo di fare soldi. Frescobaldi invece sostiene che, se il tasso medio di recidiva in Italia è dell’85%, per le persone che passano da Gorgona è pari allo 0%. Quest’anno ricorre il 10° anno in cui la famiglia Frescobaldi è impegnata nel penitenziario di Gorgona. Il decennio ha visto il passaggio di molti detenuti provenienti da strutture di alta sicurezza in tutta Italia. Come ricompensa per la buona condotta, i prigionieri possono scontare gli ultimi due o tre anni della loro condanna sull’isola. E qui possono imparare a tornare nel mondo del lavoro. “Non si tratta di formare le persone a produrre una buona bacca, un buon grappolo o un buon bicchiere di vino”, dice Frescobaldi. “Devi imparare a fare quello che devi fare. Là fuori, le persone fanno quello che devono fare perché hanno una famiglia da mantenere, hanno le spese da pagare... solo una piccola percentuale fa quello che vuole fare. La maggior parte delle persone fa quello che deve... e non c’è niente di sbagliato in questo”. “Anni fa un detenuto mi disse: ‘Voglio ringraziarti. Questa è la prima busta paga che abbia mai avuto in vita mia. L’ho mandato a casa e con questi soldi hanno potuto comprare le scarpe per i miei figli”. Fu Frescobaldi ad essere contattato dal direttore del carcere di Gorgona durante il mese di agosto. I vigneti esistevano già sull’isola e il responsabile del penitenziario cercava un’azienda vinicola dove far lavorare i detenuti. Più per curiosità che altro, Frescobaldi andò a Gorgona ma quando arrivò capì subito il potenziale, per la riabilitazione delle persone ma anche di un vino fosse un’espressione unica del terroir. E qualcosa si mosse subito in lui. Cominciò a immaginare un progetto che potesse trasformare le viti e le vite. “Questo progetto significa molto per me. Mi permette di restituire”, dice. “Sono stato molto fortunato nella mia vita e voglio condividere questa fortuna con altre persone. È qualcosa che mi permette anche di essere patriottico, di fare qualcosa per l’Italia. Tutti meritano una seconda possibilità, non importa quello che hai fatto nella vita. Io ci credo davvero”. “Un detenuto che ho incontrato mi ha detto di essere stato incarcerato perché aveva litigato in una discoteca e ha tirato un pugno. L’altro ragazzo è caduto a terra ed è morto. Quindi quell’unico disgraziato attimo in cui ha perso il controllo gli è costato 20 anni della sua vita. Può succedere a chiunque. Alcune persone sono qui solo per essere nate nel posto sbagliato, o nel momento sbagliato. Potremmo essere io o te, quindi dobbiamo dare alle persone un’altra possibilità di vita”. Una volta avviato il progetto, il direttore del carcere ha confidato a Frescobaldi di aver inviato centinaia di richieste alle aziende vinicole di tutta la Toscana e oltre: lui è stato l’unico a rispondere. Per i detenuti, l’esperienza su Gorgona è davvero trasformativa. C’è una dicotomia insolita in loro che lavorano tra i filari. I detenuti che scontano una lunga condanna per un grave reato mostrano l’accettazione di uomini che hanno perso ogni autonomia nella loro vita e hanno trascorso ogni giorno per anni a riflettere sulle loro scelte sbagliate. Eppure si avverte anche un accenno di pericolo, come una molla a spirale: sono persone vulnerabili, motivo per cui un progetto come questo può fare la differenza. “È molto meglio qui”, dice il detenuto Muhammad (nome di fantasia, ndr) “Prima ero detenuto in Costa Azzurra, e ho fatto un’esperienza completamente diversa. Qui ti è permesso essere un essere umano”. “C’è fiducia tra le guardie e i detenuti”, continua, brandendo un paio di cesoie. “Anche questi strumenti potrebbero essere armi nelle mani sbagliate, ma ci è permesso usarle per fare il nostro lavoro. Posso dormire la notte, qui. Prima nelle altre carceri non ho chiuso occhio per anni”. Il rapporto con le guardie è diverso, ma Gorgona è pur sempre una prigione. I detenuti possono uscire dalle loro celle quando hanno compiti da svolgere, ma per il resto del tempo sono sotto chiave. La vendemmia, però, è un momento cruciale e le porte delle celle si spalancano per permettere ai detenuti di lavorare lunghe ore raccogliendo a mano l’uva non appena è perfettamente matura. Tutto è fatto a mano. Le viti crescono su terrazze scavate nei ripidi pendii dell’isola. Il vino viene prodotto sull’isola nella cantina denominata “garage”, dove gli enologi Frescobaldi vinificano in modo semplice e tradizionale. Tutta la vita dei detenuti è dedicata alla coltivazione dell’uva e alla produzione del vino, è il centro del loro mondo mentre si trovano nel penitenziario sull’isola. “È un momento emozionante quando fanno rotolare le botti giù per la collina e la gru le solleva sulla barca”, dice un enologo della Frescobaldi. E ti chiedi se è lo stesso per i detenuti, quando salgono sulla barca e salutano Gorgona, guardando come il villaggio di pescatori dai colori vivaci che è stata la loro casa per anni scompare in lontananza, e la barca è diretta verso la terraferma e una nuova vita. Volterra in carrozzina, il mio viaggio nell’arte dei detenuti-attori di Gianfranco Falcone Il Manifesto, 13 luglio 2022 Disabilità a confronto: quattro giorni nel carcere pisano a seguire le prove del nuovo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza. La limitazione è ciò che accomuna me e gli interpreti di “Naturae, la valle della permanenza”. “Noi non siamo abituati a persone disabili che si muovono così tanto”. Me l’ha detto T. al secondo giorno che ero al carcere di Volterra, per assistere alle prove dello spettacolo “Naturae. La valle della permanenza” che Armando Punzo ha messo in scena con la Compagnia della Fortezza, creata trent’anni fa con attori - detenuti. È vero, è più facile pensare ai disabili come soggetti che stanno al loro posto, che non si avventurano per le strade del mondo. Certamente non vanno a Volterra, città arroccata su un cucuzzolo, fatta di sali e scendi lastricati di pavé. Mi sono anche sporto dalle mura della città per avvistare qualche altra carrozzina. Non ne ho viste. Pasquale, uno dei miei compagni di viaggio, mi ha assicurato che un’altra l’ha individuata, e non era la mia. Poco male, di solito anche a Milano i disabili in libertà sono rari. Ero alla Fortezza con la mia disabilità, con i miei limiti. Ma erano proprio questi limiti ad accomunarmi ai detenuti. Eravamo simili: io con la mia tetraplegia, loro con i loro anni di carcere da scontare. Ognuno a fare i conti con la propria limitazione. E ogni volta che dovevo superare un ostacolo erano lì, pronti ad aiutarmi, ancora prima che avessi il tempo di chiedere. Probabilmente questa sorta di destino comune ha contribuito a far sì che i detenuti attori potessero aprirsi. Mi hanno raccontato scampoli delle loro vite, delle loro fantasie, dei loro desideri, dei loro impegni. Del loro proiettarsi verso il mondo esterno, chi legandosi all’associazionismo, chi partecipando al premio Tenco e vedendo le proprie liriche musicate da Petra Magoni o Gianni Maroccolo, chi facendo il factotum nelle Rsa. Ogni detenuto è un pianeta, un mondo da scoprire, con mogli, figli, relazioni. Con carrozzina e motoretta mi sono aggirato tra quelle che una volta erano le celle, ora adibite a sartoria, a camerini, a sala studio. Ho intravisto la chiesa e la moschea. Si respirava un’atmosfera frenetica, un andirivieni operoso. C’erano detenuti alle prove costumi, chi ripassava la parte, chi ascoltava assorto le indicazioni di Armando Punzo e di Alice Toccacieli, l’aiuto regista. Se chiedevo, la risposta di ogni recluso era sempre la stessa. “Sono qui per capire, per crescere, e il teatro mi aiuta”. Per quattro giorni sono stato in una bolla fatta di colori, di musiche, in un sogno che si sviluppava sulla scena, un lungo cortile rettangolare ricoperto di un bianco abbacinante che rimbombava sotto il sole brillante di Volterra. C’era caldo ma non ho mai sentito un lamento. Gli attori detenuti, ricoperti di colori, a volte con vestiti pesanti non si sono sottratti una volta alle prove estenuanti che si sono ripetute per giorni. In loro c’era l’orgoglio di partecipare a una scommessa artistica. Certo, Alice, quando chiamava la mezz’ora, doveva imporsi come accade in tutti i teatri del mondo. Mezz’ora prima dell’inizio grazie al suo richiamo quel miscuglio di storie, di passioni, di individualità, si trasformava in un insieme pronto a dare il meglio di sé per poter riscuotere la paga a cui aspira ogni attore: l’applauso del pubblico. Alla Fortezza di Volterra non ho sentito una volta parlare di rieducazione, di trattamento. Ho sentito parlare solo e soltanto d’arte, ho vissuto in mezzo all’arte. Sono stato tra le mura del carcere di Volterra quattro giorni. Ogni giorno, alle prove, mi è sembrato di vedere uno spettacolo diverso. Ogni giorno veniva aggiunto o tolto qualcosa, modificati i costumi, cambiato il finale, alla ricerca della perfezione, o semplicemente alla ricerca del gioco scenico. Da veri professionisti, i detenuti attori accoglievano cambiamenti e proposte mettendosi in gioco ogni volta. La voce narrante dello spettacolo prestata da uno dei detenuti era calda e avvolgente, senza una sbavatura. L’attore che interpretava l’infinito si muoveva su palco con vero talento. Era un tripudio di colori, una fantasmagoria di segni, allusioni, simboli, in cui gli attori si cimentavano con perfetta sincronia e capacità interpretativa. Quello in scena era un sogno, il sogno di un uomo che sa che il bello esiste, che può essere raggiunto. È uno spettacolo in cui forte rimane l’idea che la prospettiva da cui guardiamo le cose muta le cose. Il testo, la scena, i costumi, le musiche erano evocative, ricche di significati. A volte potevano risultare ostici, e qualche detenuto confidava candidamente che non ne coglieva il significato, chiedeva che glieli si spiegassero. Ovviamente tra i detenuti non c’era solo entusiasmo per questa impresa teatrale. C’era chi con ironia sorniona diceva di essere stato condannato a undici anni, sei mesi, e tre anni di teatro. Spesso dovevo ricordarmi di essere in un carcere. Perché rapito dal bello, dalla raffinatezza che mi circondava, me ne dimenticavo. Ma in questo dimenticare mi sembrava di fare un torto ai detenuti, a me stesso, a chi legge. In scena il bello, ma dopo? Dopo gli applausi, finita la tournée, che cosa accade nel down che coglie ogni artista dopo la creazione? Noi usciamo, le donne che partecipano allo spettacolo e che portano il loro femminile in un carcere maschile escono. I detenuti rimangono. Massa Carrara. “Obiettivo” sul carcere, la fotografia apre alla città di Angela Maria Fruzzetti La Nazione, 13 luglio 2022 Due vincitori di “Sono c(x)attivo” donano il premio per nuovi corsi ai detenuti. La cerimonia finale del contest nel giardino della Casa di reclusione. L’occhio delle macchine fotografiche continuerà a spalancare lo sguardo della città sul carcere. Non è stata infatti una conclusione ma un altro inizio la cerimonia di premiazione, nel giardino della casa di reclusione di via Pellegrini, che ha chiuso il concorso fotografico “Sono c(x)attivo”, progetto volto alla valorizzazione artistica di momenti significativi di vita penitenziaria. I fotografi vincitori del contest hanno infatti devoluto il loro premio, le gift card offerte dal centro commerciale Mare Monti, alla crescita di due importanti eccellenze locali: i progetti di reinserimento per i carcerati di Massa e l’Opa. L’iniziativa ha coinvolto qualche mese fa fotografi amatoriali e professionisti della zona, grazie anche alla collaborazione del club Fotografico Apuano e alla partecipazione attiva di alcuni soci e del proprio presidente, Ennio Biggi. La mostra è stata poi esposta nella galleria del Centro Commerciale Maremonti, curata dal direttore artistico Giuseppe Joh Capozzolo, e i visitatori hanno avuto modo di votare. Un evento nato nel quadro delle progettualità riferite all’obiettivo del “Carcere: quartiere della Città”, grazie alla volontà della direttrice Maria Cristina Bigi, che ha illustrato l’iniziativa. Le foto più votate sono state quelle di Daniela Marzi (che ha devoluto la sua card all’Opa) e Nada Sodini, che ha devoluto al carcere rafforzando il progetto del corso fotografico. Sulla stessa linea Carmen Franchi, che ha ricevuto il premio della giuria tecnica, e il club Fotografico Apuano. Obiettivo dell’organizzazione è infatti promuovere un corso fotografico per i detenuti, acquistando l’attrezzatura necessaria. “Non siete soli - ha detto il sindaco Francesco Persiani rivolto ai carcerati -. Le istituzioni presenti dimostrano che c’è vicinanza alla realtà del carcere. E questa è un’iniziativa importante per avvinare questa realtà al territorio”. Ha portato il saluto anche il presidente della Provincia, Gianni Lorenzetti, mettendo in evidenza alcune frasi contenute nel catalogo sulla mostra. “Complimenti a chi ha realizzato l’iniziativa - ha commentato - a dimostrazione che questo carcere continua ad essere un’eccellenza”. Il consigliere regionale Giacomo Bugliani, presidente della prima commissione affari istituzionali, ha elogiato l’iniziativa ricordando come il carcere di Massa sia ricordato anche in sede regionale per le sue qualità volte al rispetto della persona. “Con il garante, la Regione Toscana ha avviato un percorso sul territorio per visitare tutti gli istituti penitenziari - ha annunciato -. Siamo partiti con la difficile realtà del carcere di Sollicciano, il peggiore, e con il garante, vorremmo visitare il migliore per cui presto saremo a Massa”. La cerimonia ha concesso ai detenuti di vivere un momento di vita sociale, e non è poco. Hanno contribuito: Raffaella Messina, educatrice casa di reclusione, Maria Giovanna Guerra, referente progetto bambini e carcere sos Telefono azzurro; Giovanni Baron Teoaldo manager del centro commerciale Mare Monti di Massa. Questi i fotografi selezionati inseriti nel catalogo: Flavio Aragozzini, Sabrina Biagi, Mariarosa Biasi, Rita Bonini, Carmen Franchi, Salvatore Grasso, Maresa Lithgow, Daniela Marzi, Dante Melis, Lara Mignani, Franca Paladini, Massimo Rossi, Nada Sodini, Francesco Vecoli, Anna Maria Veracini. Ius scholae e cannabis: i diritti slittano a settembre. La Lega esulta, il centrosinistra non molla di Giovanna Casadio La Repubblica, 13 luglio 2022 I lavori parlamentari del mese di luglio sono già zeppi e altre riforme hanno la precedenza. Salvini soddisfatto per l’ostruzionismo riuscito. La proposta di Magi (+Europa): “Votiamo le due leggi prima dell’estate”. Nell’ordine: è previsto in aula oggi a Montecitorio il voto sulla riforma degli Istituti tecnici superiori, su cui ieri i deputati della Lega sono intervenuti tutti per fare melina. Domani, si comincia dal disegno di legge Spettacolo, poi proposte di legge Terzo settore e, a seguire, Roma Capitale. C’è poi l’informativa del ministro Cingolani sulla siccità. Giovedì non c’è aula. Il calendario dei lavori parlamentari già pieno - Non solo per questa settimana non se ne parla di diritti, né di ius scholae, la legge sulla cittadinanza ai nuovi italiani, e neppure si vota la cannabis. Ma anche la prossima settimana si darà la precedenza al Ddl Concorrenza, poi ci sono i decreti, tra cui il Dl Semplificazioni. I lavori parlamentari del mese di luglio sono già zeppi, la settimana è corta (giovedì niente aula) e poi dalla seconda settimana di agosto ci sono le ferie. La legge che consentirebbe ai ragazzi figli di immigrati ma nati o cresciuti in Italia di diventare cittadini italiani a tutti gli effetti dopo un ciclo di cinque anni di studio, rischia di slittare a settembre. Salvo accordo e pressing del centrosinistra con Forza Italia. Ugualmente la depenalizzazione della coltivazione di tre piantine di cannabis a uso personale. La Lega esulta. Pd, 5Stelle, +Europa, Leu e Iv non mollano - La Lega canta vittoria: “Ius scholae e cannabis rinviati al mittente”. Matteo Salvini, ieri nel mezzo della pre-crisi di governo, mentre il premier Draghi è al Colle a riferire lo stato delle cose dopo l’Aventino dei 5Stelle sul Dl Aiuti, è soddisfatto per l’ostruzionismo riuscito: “Grazie alle barricate della Lega, rinviati droghe libere e cittadinanza facile. Ora occupiamoci di tasse e lavoro! Promessa mantenuta”. Non è così. Pd e 5Stelle con +Europa, Leu e Italia Viva sono pronti a dare battaglia e a non mollare. Però nelle fibrillazioni della maggioranza, con la possibilità di crisi di governo mai così concreta, il rinvio delle due leggi su cui la destra fa barricate, serve anche a raffreddare la temperatura. Sono 1.500 gli emendamenti presentati dalla Lega sullo ius scholae, anche se i tempi sono contingentati e quindi si procederebbe spediti. La proposta di Magi (+Europa) - Riccardo Magi, radicale di +Europa, lancia una proposta: “Allunghiamo i lavori parlamentari, o andiamo in ferie una settimana dopo o recuperiamo la settimana piena senza accorciare la chiusura dei lavori a giovedì: votiamo le due leggi prima dell’estate”. Sulla cannabis i numeri sono più incerti, ma su ius scholae la maggioranza c’è. Forza Italia infatti è divisa, con Renata Polverini e un gruppo di deputati forzisti a favore. Antonio Tajani, il coordinatore di FI, insiste per allungare da 5 a 8 anni di scuola il requisito per diventare nuovi cittadini italiani. Assicura che se così fosse, FI voterebbe compattamente a favore. Ius scholae, ho raccontato le storie degli italiani senza cittadinanza. Ecco perché serve la legge di Marco Bella* Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2022 A quattro anni Amin aveva vissuto più di me a 50 anni e conosceva i nomi di tutte le armi che hanno sterminato quasi tutta la sua famiglia. È arrivato in Etiopia partendo da Addis Abeba, dopo una marcia di 450 chilometri a piedi sulle spalle del nonno e da lì la mamma e la zia sono riusciti a portarlo in Italia. Un paese dove non ci sono le armi, gli avevano promesso. Arrivato a Fiumicino ha visto un carabiniere in divisa e da lì ha iniziato a gridare che lui in Italia non ci voleva stare perché lo avevano ingannato: anche in Italia le armi c’erano c’erano eccome. Oggi Amin è attivista, attore e regista, e grazie al suo impegno il David di Donatello ha cambiato il regolamento (solo della sezione cortometraggi) accettando anche contributi di cittadini non italiani. Pur avendo frequentato tutte le scuole in Italia, Amin era un profugo e quindi non poteva chiedere la cittadinanza italiana in quella strettissima finestra che va dai 18 ai 19 anni e da allora è diventato uno straniero nella sua terra. Oggi a 34 anni è ancora con il permesso di soggiorno, e passati dieci anni potrà finalmente ricevere la cittadinanza italiana. La storia di Amin è quasi a lieto fine. Non come quella di Sonny Oulmati, ballerino e coreografiche invece in Italia ci è persino nato ma ha avuto una “colpa” grave di cui è “responsabile” in prima persona. Infatti, quando aveva quattro mesi i suoi genitori nigeriani si sono separati e lui è stato sbalzato tra case famiglie e affidi vari, finché a sette anni si è finalmente ricongiunto con la madre. A causa di questa situazione, a 18 anni non ha potuto provare di essere stato sempre residente in Italia e quindi la sua richiesta di cittadinanza è stata rifiutata. Ora, a 37 anni ha un permesso di soggiorno solo fino al prossimo dicembre e speriamo che gli possa essere rinnovato. La cosa che mi ha più colpito di Sonny quando lo ho incontrato a Montecitorio è che nonostante tutto quello che ha passato non ha mai smesso di sorridere, nemmeno per un secondo. Il record per la storia surreale lo detiene però Luca Neves, uno chef italiano nato a Roma, che ha fatto tutte le scuole a Roma, che parla romano ma che per aver ritardato di soli due giorni la richiesta di cittadinanza, cioè due giorni oltre il suo diciannovesimo compleanno, si è ritrovato sbattuto in un girone infernale, detenuto due volte in un centro di identificazione pronto per essere espulso verso un paese, Capoverde, dove lui non aveva mai vissuto. Un inferno che ha coinvolto anche i suoi familiari, quando il suo papà, che ha avuto 4 infarti, tre ictus, due stent al cuore e l’amputazione di una gamba è dovuto andare dal giudice di pace in piena estate per testimoniare riguardo alla vita di Luca in Italia. Della storia di Luca si era occupato The Guardian e ne abbiamo parlato anche qui su queste pagine. La novità è che finalmente Luca nelle scorse settimane ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno dalla questura e quindi a 33 anni finalmente esiste anche per lo stato italiano, nel senso che può avere un contratto di lavoro e prenotare una visita medica. Mentre raccontavo le loro storie, questi ragazzi erano in tribuna con le loro compagne, nell’aula di Montecitorio, e ascoltavano le surreali proposte della Lega, come queste, per le quali si proponevano test sulle sagre e sui prodotti tipici enogastronomici come requisito per la cittadinanza italiana. Ascoltavano in silenzio, perché il regolamento della Camera prevede che il pubblico possa assistere, ma deve astenersi da qualsiasi cenno di approvazione e disapprovazione, fosse anche un cenno con il capo. Voglio credere che quel silenzio sia costato tanto a loro. E aggiungo che la loro presenza è stata possibile solo grazie alla grande sensibilità dei funzionari della Camera, perché un’applicazione rigorosa dei controlli prevederebbe che chi ha il permesso di soggiorno e passaporto non Schengen non potrebbe nemmeno assistere dalla tribuna. Nemmeno alla discussione della “sua” legge, quella che permetterebbe a tanti ragazzi e ragazze che sono italiani perché nati e vissuti qui di ottenere la cittadinanza italiana con il requisito della frequenza di un certo numero di anni di scuola (al momento cinque). Questi ragazzi sono solo la punta dell’iceberg, quelli che ci “hanno messo la faccia” per una causa giusta. Questa legge, lo Ius Scholae, non cambierà nulla per la loro situazione personale, perché non si applica al passato (nella versione attuale). Cambierà però tanto per il loro e nostro Paese, cioè l’Italia, perché riconosce perché riconosce qualcosa che c’è già nei fatti, ovvero la cittadinanza italiana per chi ha frequentato il luogo principale dell’inclusione, cioè la scuola. Approvare questa legge passerà attraverso un percorso parlamentare, che è bene dirlo chiaramente, sarà difficile e complesso per l’opposizione ideologica di forze parlamentari come la Lega e Fratelli D’Italia, che hanno fatto un ostruzionismo serrato. Avvicinandosi le elezioni non possono permettersi di dire al loro elettorato che dare diritti a qualcuno non ne toglie agli altri italiani. Si parla di “rischio baby gang di immigrati”, ma invece il rischio reale è che se non facciamo sentire italiani questi ragazzi qualcuno li farà sentire qualcosa altro. Il mio grande desiderio è che tutte le forze moderate possano finalmente dare al nostro Paese una legge di civiltà come questa, affinché questa tormentata diciottesima legislatura possa terminare non tra spartizioni di poltrone e leggi mancetta pre-elettorali, ma permettendo a noi parlamentari di uscire a testa alta dal portone sulla Piazza tra qualche mese. E poter riconoscere i diritti fondamentali a centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze sarebbe quello che più di tutti ci renderebbe fieri di aver servito il nostro Paese. Con disciplina e onore. *Deputato M5s, ricercatore in Chimica Organica Onu & Droghe, la retorica dell’impotenza di Marco Perduca Il Manifesto, 13 luglio 2022 Il Rapporto Mondiale sulle Droghe dell’Onu del 2022 (dati del 2020) inizia attaccando la cannabis la cui legalizzazione “in Nord America sembra averne accelerato l’uso quotidiano e il relativo impatto sulla salute”. Un’ovvietà su cosa accade quando si toglie dall’illegalità comportamenti e se ne inquadrano le dimensioni su dati certi. Come è abitudine riprovevole, il documento non valuta i dati che raccoglie, aggrega numeri che non certificano il successo della guerra alla droga mondiale: globalmente nel 2020 circa 284 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni hanno fatto uso di sostanze proibite, un aumento del 26% rispetto al decennio precedente, prevalentemente giovani. Droghe Hiv/Aids: In Africa e in America Latina le persone sotto i 35 anni sono la maggioranza di chi sviluppa disturbi da uso. Globalmente 11,2 milioni di persone iniettano sostanze di cui una metà vive con l’epatite C, mentre 1,4 milioni convivono con HIV e 1,2 milioni con entrambi. Cocaina: La produzione di cocaina ha raggiunto livelli record crescendo dell’11% risoetto al 2019 raggiungendo le 1.982 tonnellate. Malgrado la pandemia i sequestri sono aumentati alla cifra record di 1.424 tonnellate nel 2020. Il volume di sequestri suggerisce che il traffico si espande ad altre regioni in aggiunta a Nord America ed Europa con livelli crescenti verso Africa e Asia. Metanfetamine: il consumo di metanfetamina si espande geograficamente con 117 paesi che hanno segnalato sequestri (2016-2020) mentre nel 2006-2010 erano 84. Le quantità sequestrate sono quintuplicate tra il 2010 e il 2020. Oppio: La produzione globale è cresciuta del 7% arrivando a 7.930 tonnellate, aumento che interessa prevalentemente l’Afghanistan anche se la superficie globale coltivata a papavero da oppio è diminuita del 16% con 246.800 ettari. Overdosi: In Usa e Canada i decessi per overdose causati da un’epidemia di uso non medico del fentanil continuano a crescere. Oltre 107.000 morti per overdose di oppiacei nel solo 2021! (quasi 92.000 nel 2020). Rispetto al 2019 in Nord America i sequestri sono aumentati del 7%, mentre nel sud-est asiatico sono aumentati del 30%, un record in entrambe le regioni. Record anche per i sequestri di metanfetamina segnalati nel sud-ovest asiatico con aumenti del 50%. Medicine essenziali: Restano enormi le disuguaglianze nella disponibilità di oppioidi farmaceutici per uso medico. Nel 2020, c’erano 7.500 dosi in più per 1 milione di abitanti di antidolorifici controllati in Nord America rispetto all’Africa occidentale e centrale. Droghe e guerre: Le Zone in guerra calamitano la produzione di droghe sintetiche; le economie delle sostanze illecite possono prosperare in situazioni di conflitto e concorrendo a prolungarlo o alimentarlo. Dal Medio Oriente al sud-est asiatico l’instabilità aumenta la produzione di droghe sintetiche pressoché ovunque, specie se l’area di conflitto è vicina ai grandi mercati di consumo. I conflitti interrompono o spostano le rotte del traffico - come accaduto nei Balcani e più recentemente in Ucraina. Droghe e donne: Le donne sono una minoranza del consumo ma l’uso personale è in aumento (45-49% delle consumatrici di anfetamine) come i disturbi che crescono più rapidamente rispetto agli uomini. Il divario di trattamento donne-uomini rimane ampio a livello globale (1/5). Le donne stanno aumentando la presenza nell’economia della cocaina coltivando e trasportando piccole quantità e spacciando al dettaglio e nelle carceri. L’Onu conclude invitando la comunità internazionale, i governi e la società civile a “intraprendere azioni urgenti per proteggere le persone, rafforzando la prevenzione e il trattamento dell’uso di droghe contrastando l’offerta di droghe illecite”. La stessa ricetta di sempre che ci ha portato dove siamo oggi. Dalla Cecenia all’Ucraina, venti anni di crimini impuniti di Massimiliano Iervolino e Silvja Manzi* Il Dubbio, 13 luglio 2022 La guerra nel cuore dell’Europa che da oltre 4 mesi occupa i nostri discorsi, le trasmissioni tv, le pagine dei giornali, i post sui social, per molti - analisti compresi - è stato un fulmine a ciel sereno. Non si poteva credere che Vladimir Putin avrebbe sferrato un attacco così clamoroso e feroce. Incredibile, perché, al contrario, ogni passo del tiranno russo portava esattamente dove siamo. Sarebbe bastato leggere le sue azioni senza le lenti della realpolitik e leggerle avrebbe, anche, significato poterla evitare questa guerra. Era, infatti, tutto scritto. Oggi i libri di Anna Politkovskaja sono in cima alle classifiche di vendita. Forse leggerli all’epoca in cui furono scritti sarebbe stata una scelta saggia. Parlava, Politkovskaja, di Cecenia, della guerra che l’aveva distrutta e di come Putin, grazie a quella guerra, aveva costruito la sua fortuna politica. Parlava, Politkovskaja, di come Putin stava parallelamente costruendo un regime letteralmente fascista. Lo denunciava, inascoltata (salvo radicali eccezioni). E per questo venne uccisa. Guarda caso nel giorno del compleanno di Putin. E siccome l’occidente democratico non voleva vedere, l’unico politico occidentale a recarsi al suo funerale fu Marco Pannella che, con i radicali, aveva visto e previsto. La Cecenia è la chiave per capire come Putin ragiona e si muove, lo scopo delle sue azioni - per rafforzare il suo potere tanto all’interno quanto sulla scena internazionale - e il metodo con cui le ha portate avanti. Come si sa, nel 2001 l’attacco alle Torri Gemelle aveva portato a una lotta internazionale contro il terrorismo, e Putin aveva immediatamente colto la palla al balzo. I ceceni erano tutti terroristi e per questo andavano distrutti. In un ribaltamento della realtà analogo a quello che oggi dipinge gli ucraini come nazisti. Nella sua personale campagna contro i “terroristi” ceceni, Putin aveva ottenuto il sostegno dei Paesi “civili”, che si era tradotto nel silenzio. Il silenzio rispetto alle sue azioni palesemente criminali. “Perseguiteremo dappertutto terroristi, e quando li troveremo… li butteremo dritti nella tazza del cesso”. Questo diceva Putin e questo ha pervicacemente perseguito. La Cecenia è stata il suo banco di prova. Tutto quello che ha fatto allora l’ha riproposto, esattamente negli stessi termini criminali, in Georgia, in Siria, nel Donbass prima e ora in tutta l’Ucraina. Sempre la stessa strategia, sempre le stesse modalità. Stupri, fosse comuni, uccisioni a bruciapelo, obiettivi civili, distruzione totale di città. La Cecenia è stato un Paese raso al suolo e la sua leadership - l’ultima riconosciuta dalla comunità internazionale - sostituita da un governo fantoccio e tirannico. Noi radicali abbiamo, in quegli anni, imbastito una lunga e solitaria campagna per sostenere il piano di pace elaborato dal governo ceceno in esilio, che chiedeva un’amministrazione controllata delle Nazioni Unite; dicevamo che se si fosse lasciata la Cecenia al destino impostole da Putin il problema del terrorismo sarebbe esploso e non risolto. Abbiamo, allora, sollecitato tutte le cancellerie europee; organizzato conferenze di membri del governo in esilio (in particolare Umar Khanbiev, iscritto e dirigente del Partito Radicale); fatto intervenire alla Commissione Onu Diritti umani il parlamentare ceceno Akhyad Idigov, che portava testimonianze precise dei crimini perpetrati dai russi (e per questo la Russia chiese, perdendo, l’espulsione del Partito Radicale dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite); organizzato manifestazioni, scioperi della fame iniziative parlamentari… ma i ceceni erano “terroristi” e se Putin li avesse schiacciati sarebbe stato un prezzo giusto da pagare. Il prezzo di quel cinismo sono stati 100.000 morti e la creazione di un vero e proprio laboratorio di un terrorismo da esportazione. Di quell’ultimo gruppo dirigente ceceno democratico oggi è ancora attivo - e naturalmente sempre in esilio - Akhmed Zakayev, primo ministro della non riconosciuta Repubblica Cecena di Ichkeria, e in questa veste è stato invitato in Italia da Radicali Italiani. Intervistato anche dal Dubbio, Zakayev ha incontrato alla Farnesina il sottosegretario agli Affari Esteri Benedetto Della Vedova, ha partecipato a una conferenza alla Camera, ha incontrato numerosi giornalisti. Zakayev ha oggi ricevuto un’attenzione a cui venti anni fa non siamo mai riusciti nemmeno lontanamente ad arrivare. È stato possibile per via della guerra sferrata da Putin all’Ucraina. Perché oggi non è più possibile voltarsi dall’altra parte e anche i ceceni sono diventati degli interlocutori credibili. Per sostenere la lotta di liberazione ucraina i ceceni di Zakayev stanno portando avanti un’iniziativa per l’incriminazione di Putin alla Corte Penale internazionale anche per i crimini commessi in Cecenia. Il nostro appello “Putin all’Aja” (che si può firmare su www. radicali. it) va in questa direzione: Putin va al più presto incriminato e giudicato per i crimini commessi in ogni luogo dove ha portato terrore e morte. Non può esserci nessuna soluzione del conflitto senza riconoscerne giuridicamente le responsabilità. La pace per l’Ucraina arriva necessariamente da questo passaggio. E con la pace dell’Ucraina può, finalmente, arrivare pace anche per la Cecenia. *Segretario e membro direzione di Radicali Italiani Iran. L’indomabile Jafar Panahi di Alberto Negri Il Manifesto, 13 luglio 2022 Un incontro a Teheran con il regista più odiato e censurato dal regime dei mullah, finito di nuovo dietro le sbarre per la sua capacità di raccontare e protestare, in difesa di diritti civili e libertà. All’ingresso della sua casa di Teheran dove lo hanno arrestato l’altra notte (era il marzo 2010) insieme alla moglie Tahereh, alla figlia Solmaz e altre 15 persone, Jafar Panahi tiene in vista una grande locandina di Ladri di biciclette, capolavoro del neorealismo e fonte di ispirazione quasi inesaurabile per la cinematografia extra-europea. “Ladri di biciclette - raccontava Panahi - mi ricorda uno dei momenti migliori all’Università, quando per l’analisi artistica del film di De Sica fui promosso a pieni voti da Sefollah Dad, professore di storia del cinema. Fu Dad, grande ammiratore del maestro italiano, a incoraggiarmi su questa strada”. Jafar, che negli anni si era fatto un nome come aiuto regista di Abbas Kiarostami, aveva appena finito di montare Il cerchio, il film sulla condizione femminile in Iran che poi avrebbe vinto il Leone d’Oro a Venezia ma che a Teheran continuava a restare vietato dalla censura. Quasi nessuno lo aveva visto in sala ma in città circolavano - come di quasi tutto ciò che è proibito - le copie pirata. Panahi all’epoca vantava già una serie di premi, a Locarno, a Cannes, ma come molti cineasti iraniani era un autore nel libro nero dei mullah. Fu con un sorriso amaro che mi rivelò la vera storia de Il cerchio: “E stato proprio lui, il mio ex professore, Sefollah Dad, che all’Ershad, il ministero della Cultura, ha bloccato la distribuzione della pellicola. Un giorno l’ho incontrato, ricordandogli come qualche anno fa difendesse l’espressione artistica contro ogni intervento politico. Adesso è diverso, mi ha risposto, non sono più un insegnante, ho un’altra responsabilità”. Fu in quella occasione che Jafar mi regalò un suo ritratto dove si era fatto fotografare dietro le sbarre di una finestra. Sembrava che fosse nella cella di un carcere. “In realtà - spiegò - sono timido e non mi piace apparire in primo piano, così quando dall’estero mi hanno chiesto una foto per una mostra sul cinema iraniano ho mandato questa, dove il volto è quasi mascherato. Timido e gentile Panahi lo è veramente. Ma anche dotato di un carattere forte, per niente incline ai compromessi e sempre pronto a prendersi il rischio di parlare a favore della libertà e dei diritti civili. Era stato Kiarostami nei primi anni Novanta, a presentarmelo. Kaveh Golestan, uomo di cinema e grande giornalista, premio Pulitzer nel 1979, ucciso nel 2003 da una mina in Kurdistan mentre filmava la guerra per l’Associated Press, mi incoraggiò: “Vai a intervistare Jafar: nei film usa le metafore, come tutti noi, ma quando parla di politica dice sempre quello che pensa”. Un giorno il distributore del film cerca Panahi per annunciargli che avrebbero proiettato Il cerchio a Bahman, il centro culturale nella zona sud della città. Sui muri avevano già attaccato i manifesti. Panahi raggiunto all’estero dalla notizia molla tutto e torna in Iran. Dopo qualche esitazione la censura però fece togliere le locandine di Dayereh, Il cerchio. Si ripiegò così per una proiezione, a mezzogiorno, al cinema Sephideh di Enghelab Street. In prima fila c’era anche Shrin Ebadi, che poco dopo sarebbe diventata Nobel per la pace. Il cerchio, forse il più riuscito dei suoi film, racconta la storia di tre donne che tentano di sfuggire all’emarginazione, alla legge islamica, alle regole della tradizione, agli uomini, a una condizione esistenziale penosa che prevede soltanto un punto di sospensione: la fuga. Alla fine Panahi salì sul palco per dire che si può rompere il cerchio e uscirne. “Mi interessava descrivere la condizione delle donne perché sono quelle che subiscono più restrizioni degli altri. Non è solo la legge a punirle: è la nostra mentalità, sono le nostre abitudini, ripetute come riflessi condizionati. Il giorno in cui nacque mia figlia, nell’89, dovevo andare all’Università per discutere la tesi. Arrivai all’ospedale e mia madre mi venne incontro. Non ti preoccupare, mi disse, vai pure tranquillo all’esame: è nata una femmina”. In questi giorni Panahi stava montando un documentario sulle manifestazioni di Teheran. Nel luglio scorso era già stato arrestato e poi rilasciato per avere partecipato a una commemorazione di Neda, la ragazza uccisa durante le proteste dell’Onda Verde seguite alla rielezione di Ahmadinejad. La pellicola è la testimonianza di questa indomabile forza di raccontare e protestare che il regime dei pasdaran non riesce a frenare, se non ricorrendo alla repressione e al carcere. “Trent’anni dopo a rivoluzione - ha detto qualche tempo fa lo scrittore Akbar Ganji - la prigione di Evin, fatta costruire dallo Shah negli anni Settanta, è ancora il posto dove trovi le persone più rispettabili”. L’arresto di Jafar Panahi è una notizia rimbalzata su tutte le pagine della stampa mondiale, anche perché è arrivata a distanza di 48 ore da quella dell’arresto di Mohammad Rasoulof e di Mostafa Al-Ahmad - a favore dei quali Panahi aveva espresso il suo sostegno sui social. In un suo post del 10 luglio si legge: “All’alba dell’8 luglio Rasoulof e Al-ahmad, critici schietti e cineasti impegnati, sono stati aggrediti nelle loro abitazioni e portati via in un luogo sconosciuto. Condanniamo la pressione che i filmmaker indipendenti e i pensatori liberi stanno subendo. Condanniamo anche la sistematica violazione da parte delle istituzioni dei diritti sociali e dell’individuo. Chiediamo l’immediato rilascio dei nostri colleghi”. La brutale repressione contro esponenti del mondo dell’arte, del cinema, e purtroppo diventata consuetudine da parte del regime iraniano. Proteste che vanno di pari passo con una crisi sociale ed economica senza precedenti. Nei mesi scorsi ci sono state forti tensioni in Iran, dove una mobilitazione contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari si è diffusa in almeno venti città, diversi sindacati hanno proclamato scioperi per ottenere salari migliori e il pagamento di quelli arretrati e la repressione delle autorità ha colpito giornalisti, attivisti, professionisti del settore cinematografico e persone con la doppia nazionalità. Anche il mondo della musica ha subito in questi anni processi e discriminazioni. Fra i casi più eclatanti quello avvenuto nell’agosto del 2020 nei confronti del musicista iraniano underground Mehdi Rajaban, 30 anni a processo “per aver collaborato con cantanti donne e ballerine”. Tutto a causa di un suo album - non completato - che include anche cantanti donne, cosa vietata in Iran. Secondo l’accusa, la sua musica “incoraggia la prostituzione”. Rajaban, che vive a Sari, nel nord dell’Iran, ha spiegato di essere stato convocato dalla polizia, arrestato e portato in tribunale dopo l’uscita, sempre sulla Bbc, di un’intervista sull’album ancora in lavorazione e la pubblicazione di un video con la celebre ballerina classica persiana Helia Bandeh che si esibisce sulla sua musica. Rajaban è stato poi rilasciato, ma solo perché la sua famiglia ha potuto pagare la cauzione. Caso Osman Kavala, il Consiglio d’Europa condanna nuovamente la Turchia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 luglio 2022 Ieri la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Turchia per non aver dato seguito alla richiesta del 2019, da parte della stessa Corte, di scarcerare immediatamente il prigioniero di coscienza Osman Kavala. “La Corte”, si legge nella nuova sentenza, “è giunta alla conclusione che le misure attuate dalla Turchia non le hanno permesso di stabilire che lo stato parte abbia agito ‘in buona fede’ e in un modo compatibile con ‘le conclusioni e il senso’ del giudizio su Kavala [espresso dalla stessa Corte]”. La sentenza della Corte getta vergogna sulle autorità turche, che da quasi tre anni rifiutano di attuare la sentenza emessa dalla stessa Corte nel 2019 e di scarcerare Osman Kavala. Ancora una volta, il governo turco non ha rispettato un obbligo legalmente vincolante. Nel 2019 la Corte europea dei diritti umani aveva stabilito che il diritto alla libertà di Osman Kavala era stato violato a causa dell’intento del governo turco di ridurre al silenzio il prigioniero di coscienza. Da allora, non solo la Turchia ha rifiutato di scarcerarlo ma ha aggiunto a suo carico nuove farsesche accuse che hanno dato luogo a una condanna all’ergastolo. Nel febbraio 2022 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, incaricato di verificare l’applicazione delle sentenze della Corte, ha avviato la procedura d’infrazione nei confronti della Turchia per la sua mancata attuazione della sentenza del 2019, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 4, della Convenzione europea sui diritti umani. Afghanistan. Bbc: “Le Sas inglesi hanno ucciso civili indiscriminatamente” di Antonello Guerrera La Repubblica, 13 luglio 2022 Uno squadrone dello Special Air Service, secondo un’inchiesta della tv pubblica, avrebbe ucciso decine di uomini disarmati o detenuti durante la guerra in Afghanistan, tra 2010 e 2011. Sono rivelazioni clamorose, che gettano più di un’ombra sul ministero della Difesa britannico e soprattutto sul leggendario corpo delle forze speciali britanniche, le Sas. Perché uno squadrone dello Special Air Service, secondo un’inchiesta di Bbc Panorama, avrebbe ucciso decine di uomini disarmati o detenuti durante la guerra in Afghanistan, tra 2010 e 2011. Non solo: i vertici militari, nella fattispecie il generale Sir Mark Carleton-Smith, ex leader delle forze speciali e successivamente diventato capo dell’esercito britannico per andare in pensione qualche mese fa, non avrebbero mosso un dito, né punito i responsabili, seppur fossero a conoscenza dell’accaduto. Il ministero della Difesa risponde: “I nostri soldati si sono comportati con coraggio e professionalità in Afghanistan”. Alcune fonti al Telegraph, raccontano la furia del dicastero, per cui “il documentario della tv pubblica mette in pericolo le nostre forze armate”. Eppure, secondo la ricostruzione della Bbc, i misfatti sarebbero stati commessi tra 2010 e 2011 durante alcuni raid “cattura o uccidi” di uno squadrone delle Sas nella provincia afgana di Helmand. In queste operazioni sarebbero morte almeno 54 persone e buona parte di queste sarebbero state disarmate o detenute. Addirittura, e questa è un’altra accusa altrettanto infamante per le forze speciali britanniche, i membri dello squadrone sarebbero stati in competizione per uccidere in Afghanistan e, in alcuni raid, sarebbero stati lasciati sul campo armi, bombe a mano e Kalashnikov per inscenare un fantomatico conflitto armato contro gli autoctoni, che molto spesso invece sarebbero stati disarmati. Tutto è nato da un’inchiesta di Bbc e Sunday Times nel 2019, che, per gli stessi motivi, investigarono su un raid sospetto delle Sas avvenuto in Afghanistan. A quel punto, un tribunale londinese ha costretto il ministero della Difesa a pubblicare file e lettere sino a quel momento segreti o riservati. Presto, si è aperto un vaso di pandora. La Bbc ha infatti scoperto un filo rosso tra varie operazioni della Sas, in cui venivano “rinvenuti” costantemente Ak-47 o bombe a mano dei “nemici”, nei resoconti delle loro operazioni. Non solo: in sei mesi di attività di questo battaglione delle Sas, ci sarebbero state in totale migliaia di vittime tra gli afgani. Mentre, in tutti i raid sotto osservazione, tra le forze speciali non c’è stato nemmeno un ferito. Difficile pensare, dunque, a una battaglia armata, sul campo. A quel punto, vertici e responsabili militari britannici iniziano a scambiarsi email, viste dalla Bbc, in cui esprimono preoccupazione per l’operato del suddetto squadrone delle Sas in Afghanistan. Qualcuno al Foreign Office definisce i resoconti “alquanto incredibili” per quello che viene definito “solo l’ultimo massacro”. Nell’aprile del 2011, i timori erano così gravi che un membro delle forze speciali scrive al suo direttore di “uccisioni indiscriminate di individui dopo la loro cattura” e di “falsificazione di prove per dimostrare la presunta necessità di auto-difesa”. Due giorni dopo, il vice capo dello staff delle forze speciali britanniche informa il direttore delle Sas che “uomini in età di combattimento sono stati uccisi, anche se non costituivano una minaccia. Se questo fosse vero, lo squadrone della Sas ha mostrato un comportamento indifendibile dal punto di vista etico e legale”. Ma tutto ciò non è sufficiente: lo stesso squadrone verrà poi reimpiegato nel 2012, sempre in Afghanistan, per altri sei mesi di operazioni e raid. Alla fine, i report sulle malefatte e dei presunti crimini arrivano anche al vertice supremo delle Sas, Sir Mark Carleton-Smith, successivamente diventato capo dell’esercito britannico. Il quale però avrebbe deciso di non agire, e tantomeno punire i responsabili, secondo la Bbc, che ha provato a contattarlo, ma Carleton-Smith non ha voluto commentare. Tuttavia, pare acclarato dall’inchiesta della tv pubblica che la polizia militare britannica, nonostante i resoconti preoccupanti, non sarebbe stata nemmeno avvertita dai vertici delle forze speciali. Il colonnello Oliver Lee, che nel 2011 era il comandante dei Royal Marines in Afghanistan, ora dice che le accuse emerse nel documentario di Bbc Panorama sono “assolutamente scioccanti e inaccettabili”. Le uccisioni indiscriminate di molti afgani disarmati, detenuti o addirittura civili da parte di questo squadrone della Sas, “meritano subito un’inchiesta pubblica”.