“Mai più bambini in carcere” di Cristina Siciliano informareonline.com, 12 luglio 2022 Le opinioni dell’On. Paolo Siani e della Garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore. Far sì che i bambini non si trovino a vivere in carcere con le loro madri detenute: questo è l’obiettivo della proposta di legge approvata il 30 maggio alle ore 19.00 dalla Camera dei Deputati. Prosegue al Senato l’iter della legge che mira a promuovere il modello delle case famiglie e a escludere che le madri incinte, o con figli conviventi di età inferiore ai sei anni, restino recluse. Qualora venisse approvata senza modifiche, la legge entrerebbe in vigore. I voti della Camera a favore sono stati 241, i contrari 7 e 2 gli astenuti. La condizione delle madri detenute è pesantemente precaria, appesa al filo delle decisioni di magistrati, educatori, assistenti sociali e condizionata dalla paura di perdere i propri figli o di non vederli crescere. Per provare a far luce abbiamo intervistato il deputato Paolo Siani, membro della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana. Com’è nata questa proposta di legge? Come crede che possa dare realmente un contributo? “Tutto ebbe inizio nel mese di settembre dell’anno 2018. Ero da pochi mesi in Parlamento e lessi una dichiarazione del cappellano di Rebibbia che celebrava il funerale di due bambini (6-18 mesi) uccisi dalla madre in carcere. Iniziai, così, a visitare alcune carceri, tra cui quello di Poggioreale a Napoli, il carcere di Rebibbia, l’Icam di Avellino e, per ultimo, la casa-famiglia per madri detenute a Roma (Casa di Leda). Scoprii che in Italia, dal 2011, vigeva una legge molto avanzata che prevedeva, nel supremo interesse del bambino, che una madre in gravidanza con un bambino di età inferiore a sei anni, non poteva stare in un carcere, ma in un istituto Icam o in casa-famiglia. Questa legge, però, aveva dei punti deboli: non aveva nessun onere finanziario e la magistratura, spesso, non era a conoscenza del fatto che, la madre arrestata, avesse o meno un bambino. Infatti, nel 2018 c’erano circa 60 bambini tra cui pochi in casa-famiglia, molti negli Icam ed alcuni nelle carceri. Quando visitai l’Icam mi confrontai con una realtà non adeguata ad un bambino, poiché viveva la vita, i tempi e gli odori di un carcere. Una madre mi raccontò di un episodio che mi colpì notevolmente, ossia, che la prima parola pronunciata dal figlio non era stata “mamma” bensì “apri”. Questo mi fece capire quanto la vita di un bambino potesse essere influenzata da una situazione di questo tipo. Ho proposto, quindi, di scrivere una legge che prevedesse ciò: la prima scelta che il giudice deve fare è quella di mandare la donna in casa-famiglia. Qualora ci fossero delle particolari circostanze, così gravi da non ritenere possibile una detenzione in casa-famiglia, la donna potrebbe andare in un istituto Icam, ma non più in un carcere. Se il reato fosse talmente grave, la madre andrebbe al 41-bis e il bambino le verrebbe tolto e dato in affidamento”. Quanto crede che sia indispensabile, questa legge, per la tutela di un bambino? “Bisogna prendersi cura della madre e del bambino, perché gli stimoli arrivano al bambino già dai primi mesi della gravidanza ed incidono sul cervello dei bambini, sia in utero che fuori. Quindi occuparsi dei bambini in questa fascia di età, vuol dire occuparsi del futuro del nostro paese perché stiamo dando a loro l’opportunità di essere degli adulti competenti e con un cervello più stimolato e molto più plastico”. Secondo il deputato Siani, “questa è un’emergenza seria che non ha bisogno più né di patti e né di esperimenti, bensì di un’Agenzia infanzia”. “Questa mia convinzione - prosegue - è venuta fuori quando in Parlamento ho iniziato a vedere che sono cinque i Ministeri che si occupano dell’infanzia, ma il dramma è che nessuno si coordina con l’altro. Un’Agenzia infanzia sarebbe la giusta soluzione, dato che sappiamo con certezza, da studi scientifici, che gli interventi sull’infanzia, affinché siano efficaci, devono iniziare alla nascita del bambino”. Intervista alla Garante dei detenuti a Caserta Emanuela Belcuore “Una normalità familiare” in una casa-famiglia protetta può redimere la donna colpevole di un reato? “No, la colpa va espiata. Le donne detenute, quando compiono un reato, devono sapere a cosa vanno in contro. Ad esempio, se una donna spaccia deve essere consapevole che questo reato le provocherà il distacco dai propri figli. Non si redime il reato, ma parliamo di reintegrazione sociale e rieducazione sociale; poi, la moralità la lasciamo alla Chiesa e alla coscienza di ognuno di noi”. La nuova legge può influire negativamente sul reinserimento sociale della donna? “Assolutamente no. Il problema è che in carcere probabilmente le donne imparano un mestiere, ma spesso non trovano un gancio con l’esterno. Si dovrebbe, quindi, cercare di creare un ponte che colleghi l’interno con l’esterno. Ovviamente, quando la donna è incinta, se si garantisce la madre, si tutela anche il figlio. Questo, però, non deve diventare “la scusa”. Infatti, a tale proposito, cito il film con Sophia Loren protagonista che “era sempre incinta quando doveva andare in carcere”. Ci tengo a precisare che i figli non devono essere strumentalizzati per nessun motivo al mondo. In questo momento storico, penso che sia più opportuno occuparci di minori che soffrono, piuttosto che delle madri detenute”. L’impegno dell’Agenzia delle Dogane per il rinserimento dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2022 Un accordo di collaborazione triennale, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso percorsi formativi e sostenere i più indigenti. Questo l’obiettivo del Protocollo d’intesa sottoscritto la scorsa settimana dal capo del Dap, Carlo Renoldi e dal direttore dell’Agenzia delle Dogane, Accise e Monopoli, Marcello Minenna. L’accordo consentirà, da un lato a gruppi di detenuti di frequentare i laboratori dell’Agenzia delle Dogane, sviluppando professionalità spendibili anche sul mercato, e dall’altro permetterà il riutilizzo di merci confiscate anche a criminalità organizzata: beni di prima necessità, come vestiario e calzature, andranno ai detenuti più indigenti, mentre legnami, tessile e altri materiali potranno essere impiegati nelle lavorazioni industriali svolte negli istituti penitenziari, come già avviene per le imbarcazioni dei migranti trasformate in strumenti musicali. “Si tratta di un’iniziativa molto importante: con il reimpiego di beni di provenienza criminale, destinati all’Amministrazione penitenziaria, si riafferma da un lato il valore della legalità, dall’altro si dà concreta attuazione ai principi costituzionali di solidarietà e reinserimento sociale. Ringrazio il direttore dell’Agenzia delle Dogane, Marcello Minenna, di questa collaborazione”, ha commentato il capo del Dap. “Il Protocollo d’intesa che l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli ha sottoscritto con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria costituisce un atto che va ben oltre la formalità istituzionale: è, di fatto, un impegno che la Pubblica Amministrazione rinnova con la società civile attraverso il sostegno e lo sviluppo di progetti a favore dei detenuti anche in vista del loro reinserimento nel tessuto sociale del nostro Paese. Ringrazio il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, per la sua sensibilità e per aver consentito di creare una sinergia tra Istituzioni che costituisce la vera chiave di volta per l’efficienza e l’ottimizzazione dei servizi che lo Stato deve ai propri cittadini”, ha dichiarato Marcello Minenna, direttore dell’Agenzia delle Dogane, Accise e Monopoli. Firmato da Anci e Garante nazionale un protocollo a sostegno dei Garanti comunali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2022 Sviluppare una collaborazione che sostenga e uniformi la figura dei Garanti comunali, per consolidare la loro istituzione, fornire un luogo di confronto e approfondimento nazionale e condivisa in collaborazione con il Garante nazionale. Nella sede romana dell’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci) è stato firmato dal presidente del Garante nazionale, Mauro Palma, e dal presidente Anci, Enzo Bianco, un Protocollo per sostenere i Garanti nominati dai Comuni e a dare maggiore omogeneità ai loro criteri di nomina e ai loro metodi di lavoro. Il Protocollo prevede, in particolare, “una procedura condivisa di riconoscimento dei garanti locali al fine di poter conferire loro apposita delega delle funzioni come previsto dalla normativa vigente”. Prevede, inoltre, di costituire un gruppo di lavoro con i Garanti comunali e con la presenza del Garante nazionale per la “redazione di linee guida per i Comuni sui requisiti minimi da adottare per la nomina del Garante comunale”. Ad aprile 2022 erano complessivamente 53 i garanti comunali: 48 Comuni, 7 Province e Città Metropolitane, oltre alle 16 nelle Regioni e Province autonome che hanno promosso questa autorità di monitoraggio della legalità. In virtù dell’accordo Anci si impegna a promuovere appositi appuntamenti nazionali dedicati alla partecipazione diretta dei soggetti autorizzati ad esercitare le funzioni di garante territoriale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Sport, per dialogare e muoversi anche dietro le sbarre di Nicola Varcasia vita.it, 12 luglio 2022 Dalla collaborazione tra Sport e Salute e Fondazione Irti nasceranno nuovi spazi di attività fisica e motoria per il benessere dei detenuti. Nel convegno dedicato all’occasione, la lezione del professor Forti sul tema del rieducare: “Come nel rugby la palla ovale non si sa mai dove cadrà, anche l’essere umano non si sa mai dove può andare e merita rispetto”. “Lo sport ha una straordinaria capacità di trasmettere il senso di comunità”. Lo ha affermato Vito Cozzoli, presidente di Sport e Salute, la società pubblica dedicata allo sviluppo dello sport nel nostro Paese, annunciando la firma di una convenzione con la Fondazione Nicola Irti, realtà impegnata in opere di carità e di cultura, con un’attenzione speciale per i detenuti. “Una comunità è tale quando si prende cura di tutti i cittadini, anche di coloro che hanno sbagliato e come, dice la Costituzione, vanno rieducati e reinseriti nella società: il fondamento del diritto di punire è fondato sull’obbligo di rieducare”, ha rilanciato il presidente Natalino Irti, specificando come “lo sport si iscriva a pieno titolo nel processo rieducativo”. Perciò dimentichiamoci per un attimo la rovesciata di Pelé in Fuga per la vittoria e chiediamoci: è possibile rieducare chi sta scontando una pena in carcere attraverso lo sport? Lo stesso ordinamento penitenziario, tra i cosiddetti “elementi del trattamento dei detenuti”, infatti, cita le attività sportive solo dopo l’istruzione, la formazione professionale, il lavoro, la partecipazione a progetti di pubblica utilità, la religione e le attività culturali e ricreative. Si può fare di più? Per contribuire a valorizzare l’enorme potenziale di capacità rieducativa che compete allo sport, l’accordo tra le due organizzazioni ha l’obiettivo di migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti, incrementare l’offerta sportiva e formativa negli istituti penitenziari con un programma affidato a tecnici e allenatori qualificati, rendere gli istituti penitenziari autonomi nelle attività sportive attraverso la realizzazione di percorsi di formazione e la dotazione di strutture. Alla firma di questo intenso programma è stato dedicato il convegno dal titolo “Rieducare, lo sport come strumento di dialogo” organizzato il 7 luglio scorso allo Stadio Olimpico di Roma, nel quale sono intervenuti oltre ai presidenti delle due organizzazioni, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi e il professor Gabrio Forti, ordinario di diritto penale e criminologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, a cui sono seguite le testimonianze della Federazione Baseball e Softball e Rugby, tra le realtà che realizzano attività motoria, fisica e sportiva nei penitenziari. Tutti gli interventi si sono succeduti sullo sfondo del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione a cui l’intero incontro faceva riferimento: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo sport, si può intuire, ha molto da dire e da dare in questo quadro e il professor Forti, con un itinerario incentrato sul tema del rieducare, lo ha chiarito anche dal punto di vista storico e culturale. Già nell’ottobre del 1948, ha esordito Forti, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, Piero Calamandrei, in un discorso alla Camera dei Deputati che riprendeva a sua volta un intervento di Filippo Turati del 1904, aveva usato accenti rimasti proverbiali: “In Italia il pubblico non sa abbastanza e anche qui molti deputati fra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia [fascista, ndr] non sanno che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere, questo è il punto essenziale”. Questo invito a “vedere il carcere”, ha proseguito Forti, va oltre la pur essenziale necessità di sapere come vivono i detenuti. Collegandosi alle idee dell’antropologo Marcel Mauss, Forti ha osservato come esso abbia “un rapporto di scambio reciproco con il mondo della cultura e del sociale, assorbendone fermenti sia negativi che positivi”. Tra quelli negativi figura, ad esempio, la pena di morte, che continua ad esistere non certo per motivi giuridici, ma solo per un intreccio di interessi: “Non serve a prevenire i reati, non c’è nessuna prova che diminuisca gli omicidi e, per definizione, non serve a rieducare. È tenuta in piedi dagli interessi di uomini politici che la sbandierano per le loro politiche di law and order, di media attirati dalle storie dei condannati in attesa di giudizio e di opinioni pubbliche che sordidamente si illudono che avere una pena di morte permetterà di controllare ciò che le nostre società contemporanee cercano di rimuovere, cioè la morte e la malattia”. Ma, in questo influenzarsi reciprocamente tra sistema delle pene e società, emergono anche scambi positivi. E qui arriviamo alla portata antropologica dell’articolo 27 della Costituzione italiana: “Ci dice che ogni persona che commette un crimine può cambiare, può essere diversa da quella che era nel momento in cui l’ha commesso. Con l’espressione del celebre umanista Pico della Mirandola de hominis dignitate, ci trasmette un’idea quasi rinascimentale di un essere umano che ha una potenza della metamorfosi”. Non è un principio semplice da accettare, basti pensare al tema dell’ergastolo ostativo, ma qui il discorso si allegherebbe troppo. Il professor Forti, però, ha tenuto il punto: “Antropologicamente parlando, il progetto dell’articolo 27, perfino rispetto agli autori di crimini estremi, ripetuti e continuati ammette la possibilità di cambiare e quindi pone allo stato il dovere di impegnarsi in questa direzione”. Ed eccoci al “trattamento rieducativo”, l’espressione un po’ infelice con la quale l’ordinamento penitenziario si riferisce alle attività all’interno delle carceri, come se il detenuto fosse “un oggetto da trattare”. Forti ha ricordato che “fra gli elementi del trattamento c’è anche l’attività sportiva, sebbene venga messa quasi per ultima, dopo il lavoro, le relazioni esterne, la cultura e l’attività ricreativa. Una collocazione nata forse da un pregiudizio perché lo sport coinvolge il fisico, la forza, la competizione e ha quindi anche un elemento di conflittualità. Questa sorta di esitazione che l’attuale normativa manifesta nei confronti dell’attività sportiva rispetto ad altri elementi del trattamento si lascia superare sulla base di un modo giusto corretto e forse essenziale di intendere lo sport”. Questo modo giusto e corretto per Forti è simbolicamente rappresentato dal rugby. Non soltanto perché per andare avanti si deve passare all’indietro e questo invita a non “inorgoglirsi troppo della posizione di cui si dispone”. Oppure perché nel rugby il terzo tempo, lo stare insieme, è il momento più importante perfino dell’aver vinto. Ma soprattutto perché, ha concluso Forti “il rugby si serve di una palla ovale, che non si sa mai dove cade. Allo stesso modo, non si sa mai dove l’essere umano può andare: il rispetto per la sua libertà è l’opposto della visione positivista di un soggetto determinato che agisce sulla base di meccanismi coatti. Ma la libertà comporta anche dei rischi, così come la fiducia nella possibilità di rieducarsi. Questa imprevedibilità segnala che noi tutti dobbiamo a volte rassegnarci alla fatalità e non farci prendere dalla tentazione di trasformare le fatalità in giudizio o in un dito indice puntato con troppa disinvoltura in segno di biasimo”. Chi sarà il prossimo colpevole? di Cristiano Cupelli* Il Foglio, 12 luglio 2022 Questa la domanda che affolla la quotidianità della giustizia penale, nella morsa della logica accusatoria del “senno del poi”, riesplosa in questi giorni dopo il tragico evento del Mottarone. Lo schema imputativo è semplice e lineare: a fronte di un evento avverso, da un disastro ferroviario a una frana, da una pandemia a un incendio o a un’inondazione, da un terremoto al crollo di un ponte, da un incidente stradale a un intervento chirurgico dall’esito infausto sino a un fallimento o a un’operazione societaria errata, non può non esserci un responsabile, qualcuno che in fondo non abbia fatto tutto ciò che si sarebbe potuto fare per evitarlo, controllando e impedendo, attivandosi o astenendosi. Parte allora la ricerca, iniziando - per non sbagliare - da chi riveste posizioni apicali, meglio se mediaticamente esposto e politicamente schierato. E va da sé che, una volta messa in moto la macchina infallibile del “senno del poi”, con l’ampia e immancabile grancassa mediatica di supporto, qualcosa che si sarebbe potuto fare, di più o di diverso (e certamente di meglio), o qualcuno che si sarebbe potuto attivare, prima e più efficacemente, o che in ogni caso avrebbe potuto controllare, si riesce sempre a trovare. Si chiude così il cerchio, inizia il processo sommario (ben prima che si arrivi a celebrarlo ritualmente nelle aule di tribunale) e giustizia è fatta. Che poi, magari a distanza di anni, si arrivi a riconoscere l’assoluta estraneità degli indagati o imputati è un dato destinato a essere relegato nelle brevi di cronaca di quei quotidiani che si sono dimostrati più implacabili nella caccia al colpevole. Per provare a spiegare le cause di questa furia colpevolista si possono certamente invocare tanto la tendenza a placare l’ansia con la ricerca di responsabili, sino a sfociare nella tentazione del capro espiatorio, quanto il ben noto circuito mediatico-giudiziario che accompagna l’apertura di indagini su fatti eclatanti; a ben vedere, però, sul piano tecnico-giuridico la matrice di questo guasto risiede anche (se non soprattutto) all’interno del sistema penale, nel combinato esplosivo tra l’improbo e talora esoterico accertamento del rapporto di causalità e i tormentati rapporti tra responsabilità omissiva e colpa, tra obblighi impeditivi e regole cautelari, tra evanescenza della cosiddetta posizione di garanzia (sia essa di protezione o di controllo) e fluidità delle regole cautelari, nel complicato crinale tra precauzione e prevenzione. In queste pieghe si annida e prolifera la logica moralizzatrice e spietata del “senno del poi”, per cui tutto è sempre prevedibile e quindi evitabile, tutto ciò che astrattamente “si sarebbe potuto fare” (anche a costo di inibire o bloccare qualsivoglia attività lavorativa, professionale, culturale o ludica che sia) allora anche “si sarebbe dovuto fare” e, in una perversa sovrapposizione di piani, quanto ex post era evitabile per ciò solo diviene anche (e sempre) prevedibile. A ciò va aggiunto che, nelle indifferenziate contestazioni colpose, una qualche regola cautelare violata - alla fine - la si riesce sempre a scovare: una non meglio specificata negligenza o imprudenza, lieve o grave che sia, sovrastante l’onnicomprensivo e pervasivo dovere di diligenza a cui potersi appellare. Tutto ciò è coerente con la sensazione che, assunta la necessità di trovare a tutti i costi un colpevole per placare, col clamore simbolico della giustizia immediata, presunte o reali istanze di protezione sociale, si vada solo dopo alla ricerca di eventuali regole cautelari violate o di obblighi prevenzionistici disattesi. A fronte di tutto ciò, basterebbe ricordare, soprattutto al cospetto di eventi per natura straordinari, che nel diritto penale non tutto ciò che è potere è anche dovere e che il giudizio di evitabilità, contaminato dalla logica del senno del poi, non può leggersi in modo disgiunto da quello, ad esso preliminare, di prevedibilità, da condurre in una prospettiva di verifica da svolgersi necessariamente ex ante. *Professore associato di Diritto penale presso il Dipartimento di Diritto pubblico dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata Il nuovo Csm votato a settembre: rischi e opportunità di Alberto Cisterna Il Riformista, 12 luglio 2022 Un modello di organizzazione vacilla sotto i colpi di riforme questa volta penetranti. Qualcuno ha parlato di novità innocue. Dipenderà molto da quanti “operai” entreranno nel Consiglio superiore della magistratura. Due mesi in più per una campagna elettorale “bendata”, resa cieca da una nuova legge sulla quale si stanno scervellando gli esperti delle correnti per scoprirne faglie e opportunità. Si sarebbe, come sempre, dovuto votare a luglio, ma questa volta le toghe andranno alle urne a settembre, a un passo dall’autunno. Il parlamento è arrivato alla riforma della legge per la composizione del Csm fuori tempo massimo e lo slittamento è stato inevitabile. Quale sarà il risultato delle urne è difficile a dirsi. Il sostanziale fallimento dello sciopero proclamato per il 16 maggio scorso dai piani alti dell’Anm, disegna uno scenario imprevisto, ma anche imprevedibile. È chiaro che esiste un “corpaccione” maggioritario della magistratura italiana che rispetto al collasso del Sistema si è chiuso a riccio, diffidente e malmostoso. Andranno le toghe a votare con l’assillo degli obiettivi del Pnrr e con l’occhio rivolto alla riforma della prescrizione che ha scaricato, soprattutto sulle corti d’appello, il peso della nuova improcedibilità. Le altre norme della legge Cartabia, dalle nuove valutazioni di professionalità alle innovative fattispecie disciplinari, disegnano uno scenario di crescente controllo e responsabilità verso il quale non sarà facile adattarsi e in direzione del quale, è inutile negarlo, man mano che le disposizioni verranno implementate e applicate tenderanno a crescere insofferenza e diffidenza. La legge 71 del 2022 assegna ai capi degli uffici un ruolo di pressante, a tratti asfissiante, controllo sulla produttività dei magistrati e sugli indici di smaltimento dei carichi di lavoro. Viene in ballo, oggi, non solo la loro carriera con l’occhio rivolto alle performance raggiunte, ma anche una loro eventuale responsabilità in sede disciplinare. Una cosa mai vista, in effetti. La spinta verso il basso, cioè verso i singoli giudici, rischia di divenire insopportabile e tutto questo non potrà non avere riflessi sulle opzioni elettorali che si eserciteranno a settembre. Il rischio latente è che cresca esponenzialmente la domanda di protezione verso le correnti e verso i loro candidati, chiamati a rassicurare la magistratura italiana sulla possibilità di dispensare una certa flessibilità nell’approccio verso i nuovi protocolli organizzativi e le nuove fattispecie disciplinare, a occhio e croce di rara severità sul versante (spesso trascurato) dell’efficienza e della produttività. È un pericolo che, questa volta, si gioca lungo un crinale in parte sconosciuto. Non si tratta tanto di mettere in campo nomi autorevoli e toghe prestigiose e acclamate dai media, ma di trovare operai che si occupino della messe rappresentata dall’insieme della magistratura italiana che, con grande difficoltà e sacrificio, tenta di assicurare una giustizia almeno soddisfacente. In fondo è l’unica soluzione possibile rispetto al rischio di innescare ulteriori deviazioni clientelari con ras delle correnti, professionisti dell’associazionismo, che una volta eletti, dall’alto, dispensino attenzioni e comprensioni ai propri elettori. Di fatto un risultato che potrebbe tanto avvicinarsi a quel vituperato sorteggio che, a detta di non pochi, avrebbe dovuto garantire l’effettivo smantellamento del Sistema e un governo inter pares delle toghe. La legge Cartabia, a scrutarla con la dovuta attenzione e fermo restando il rischio di sabotaggi (di certo non mancati per precedenti riforme della giustizia), squaderna nella sostanza e nella forma un modello “inatteso” di magistratura per l’Italia. Il fil rouge che lo tiene insieme, soprattutto dopo le modifiche parlamentari, è la convinzione che occorra imporre alle toghe obiettivi serrati e risultati misurabili in base ai quali premiare o bocciare. L’epoca del lassaire faire è giunto, probabilmente, al capolinea. La giustizia è una cosa troppo seria, si sarà pensato, per lasciarla in mano ai soli magistrati ormai. Il Pnrr o i vincoli all’obbligatorietà dell’azione penale sono stati solo una delle vie per far breccia nella cittadella fortificata della magistratura, e invero l’astuzia della politica ha ben pensato che sia molto più vantaggioso colpirla o minacciare di colpirla nel suo fianco più esposto e vulnerabile: quello dell’ambizione carrieristica. C’è latente il rischio dei kapò. Il pericolo che ci si affidi proprio all’ambizione di pochi - o di non tanti - per tenere sotto scacco la maggioranza delle toghe e, il tutto, con strumenti particolarmente performanti e minacciosi: le nuove valutazioni di professionalità e i nuovi illeciti disciplinari; tra cui si staglia quello che punisce la mancata collaborazione del giudice al raggiungimento degli obiettivi di produttività. In questo corto circuito è evidente che la scelta di settembre dei nuovi consiglieri (sulla componente parlamentare torneremo in un’altra occasione) si presenta come delicata e, forse, decisiva. Un modello di organizzazione - e, si sia chiari, anche di giurisdizione - vacilla sotto i colpi di riforme questa volta particolarmente penetranti e, per molti profili, anche sofisticate dal punto di vista dell’ingegneria comportamentale che le ispira. Qualcuno ha parlato di pannicelli caldi e di novità innocue, se non inutili. Dipenderà molto dal prossimo Csm; da quanti operai, da quanti potenziali “sorteggiabili” sarà composto. Fermo restando che le diversità culturali tra le toghe sono imponenti e che le correnti rappresentano, al pari dei partiti, un male necessario della democrazia, non potendosi concepire un modo diverso per dare paritaria rappresentanza alle idee e alle convinzioni, una certa laicità del fare non può guastare. Se, come pare, è destinato a cambiare l’assetto ideologico, sociale e morale della magistratura italiana, con nuove élite autoreferenziali e meritocratiche in parte già gemmate tra le toghe; se davvero alla distinzione dei magistrati “fra loro soltanto per diversità di funzioni” (articolo 107 Costituzione) si sostituiranno pesantemente modelli verticistici e verticali, allora anche l’associazionismo della magistratura è destinato a una lunga agonia. La loggia Ungheria non esisterà probabilmente, ma le pulsioni che avrebbe dovuto governare, quelle, cercano sempre templi ed adepti e le correnti in quel caso non contano molto. “Il Csm deve essere trasparente: solo così ritroveremo credibilità” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 luglio 2022 AreaDg ha concluso le primarie per la scelta dei candidati al prossimo Csm. Concorreranno per i seggi dei giudici di merito: Francesca Abenavoli (Collegio 1), Marcello Basilico (Collegio 2), Tullio Morello (Collegio 3), Genantonio Chiarelli (Collegio 4). Per i seggi dei requirenti: Mario Palazzi (Collegio 1) e Maurizio Carbone (Collegio 2). Per i seggi dei giudici di legittimità: il dottor Antonello Cosentino, Consigliere di Cassazione, che in questa intervista ci spiega le prospettive di recupero di credibilità della magistratura. Nell’ultimo congresso di Area ha lanciato una provocazione: ‘I fatti dell’Hotel Champagne non devono essere inquadrati in termini di questione morale. Il carrierismo fa parte dei vizi umani negli anni 80 così come adesso. Il cambiamento dei comportamenti è derivato dalle condizioni esterne e materiali del nostro lavoro’. Per questo prefigurava soluzioni normative per ‘migliorare la fedeltà dei magistrati al loro mandato costituzionale’. Cosa voleva dire? È molto semplice: trent’anni fa la corsa agli uffici direttivi e la conseguente ricerca di autopromozione - pur presenti anche allora - erano meno accentuate di oggi perché le relazioni organizzative tra i magistrati erano più egalitarie; il potere dei dirigenti all’interno degli uffici era meno incisivo, il sistema delle impugnazioni non veniva percepito come una modalità di organizzazione della magistratura in uffici sovraordinati e sottordinati. La magistratura era percepita dai cittadini e dagli stessi magistrati come un potere diffuso, non ordinato gerarchicamente, in conformità al disposto dell’articolo 107 della Costituzione, per il quale “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Questa percezione si è andata perdendo, sia per le modifiche introdotte con la riforma dell’ordinamento giudiziario Castelli- Mastella, sia per il profondo mutamento della figura dei dirigenti degli uffici, oggi investiti di responsabilità gestionali assai maggiori rispetto al passato. Si tratta, a mio avviso, di rilanciare l’idea costituzionale del potere giudiziario come potere diffuso. Lo scandalo Palamara si chiude con le sanzioni disciplinari? No. Le sanzioni disciplinari riguardano responsabilità personali, da accertare secondo le regole del giusto processo e da sanzionare in conformità alla legge. Il malcostume si contrasta con la trasparenza dell’azione di autogoverno e con la rigenerazione dell’associazionismo giudiziario. Secondo l’Anm la riforma dell’ordinamento giudiziario ‘esaspera la competizione fra i colleghi e lascia immutati gli ambiti di amplissima discrezionalità consiliare, che si prestano a quelle distorsioni per logiche di potere e di appartenenza correntizia del recente passato. Avremmo avuto bisogno di una riforma elettorale del Csm che riducesse il peso delle correnti’. Quindi vuol dire che le correnti non sono autonome nel percorso di rigenerazione? Questo è preoccupante in vista delle nuove elezioni del Csm... Negli ultimi dieci/ quindici anni le correnti hanno appannato la propria capacità di elaborazione culturale, seguendo un percorso che per qualche aspetto ricorda la crisi vissuta dai partiti politici italiani a partire dalla fine della cosiddetta prima Repubblica; il dibattito al loro interno si è insterilito, a volte riducendosi al solo tema della leadership, e la loro azione si andata appiattendo su un ruolo di mera gestione del potere nel sistema dell’autogoverno. È dalle correnti stesse che deve ripartire la loro rigenerazione. Come ci si rialza dalla caduta di credibilità? Credo che la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra la magistratura e la società italiana passi, in primo luogo, dal miglioramento del servizio reso ai cittadini, in termini di celerità di risposta, di capacità di ascolto, di accuratezza del lavoro giudiziario. È nella quotidianità della vita giudiziaria che i magistrati si mostrano ai cittadini ed è lì, assai più che sui giornali e davanti ai dibattiti televisivi, che i cittadini si formano la loro opinione della magistratura. È decisivo, allora, affrontare il problema della durata dei processi, penali e civili. Su questo l’autogoverno deve giocare un ruolo propulsivo, dialogando costruttivamente con il mondo politico, con l’avvocatura e con il mondo accademico. La fiducia non si riacquisisce anche con una maggiore trasparenza del governo autonomo? Certo. La trasparenza è precondizione della fiducia. Trasparenza significa molte cose. Significa adottare procedure che consentano ad ogni magistrato di ricevere le informazioni relative allo stato dei procedimenti amministrativi che lo riguardano attraverso canali istituzionali. Significa rendere accessibili, nel rispetto della disciplina sulla privacy, gli atti su cui si fondano le valutazioni consiliari. Significa rendere le decisioni consiliari più leggibili agli occhi dei colleghi e dell’opinione pubblica. Le soluzioni messe in campo dalla riforma Cartabia bastano per agire sulla lunghezza dei processi? Guardo con grande favore alla recente istituzione dell’Ufficio per il processo. Pur con i limiti legati alla temporaneità del rapporto di lavoro degli addetti, alla carenza di spazi negli uffici, alle difficoltà della formazione dei nuovi assunti, l’Ufficio per il processo rappresenta, tuttavia, una grandissima opportunità, che la magistratura non deve farsi sfuggire. Esso - ideato già molti anni fa dagli Osservatori sulla giustizia civile può alleggerire il magistrato di taluni incombenti, liberando spazi da destinare all’attività strettamente decisionale, e può incidere in profondità sull’organizzazione del lavoro giudiziario. Ma l’Ufficio per il processo non basta. È necessario aumentare il numero dei magistrati in operatività, coprendo interamente gli organici recentemente ampliati dal ministero, ed è necessario, soprattutto, intervenire su quei nodi strutturali della società italiana che scaricano sull’amministrazione della giustizia molte inefficienze degli apparati amministrativi (basta pensare alla rilevanza quantitativa del contenzioso in cui una delle parti è una pubblica amministrazione); in Italia la magistratura è investita della gestione di tensioni nel rapporto tra mano pubblica e cittadini di cui le magistrature di altri Paesi non devono farsi carico. Per una vera catarsi ci si dovrà concentrare anche sui futuri magistrati. Purtroppo però c’è molta impreparazione... A mio avviso è necessario trovare la strada per coinvolgere maggiormente la Scuola Superiore della Magistratura sia nella formazione dei laureati nella fase precedente al concorso, sia nello stesso meccanismo di selezione degli aspiranti magistrati, ragionando su modelli di “corso- concorso” utilizzati per altre pubbliche amministrazioni. Quali saranno le sfide che dovrà affrontare la Cassazione nel prossimo futuro? La Cassazione dovrà misurarsi sempre più con le diverse istanze di giustizia che provengono dalla società, con la necessità di tutelare vecchi e nuovi diritti, con il dovere di dialogare con il Giudice costituzionale e con le Corti sovranazionali. Oggi, però, la Corte di Cassazione patisce una crisi da sovraccarico, notissima a tutti gli operatori del diritto, che ne rallenta fortemente l’operatività. Le ipotesi affacciatesi nel dibattito pubblico per affrontare tale situazione sono molte e non se ne può parlare in questa sede. Ma un serio esame della “questione Cassazione”, con un’assunzione di responsabilità collettiva che coinvolga l’intera cultura giuridica italiana, mi sembra non più differibile. Lombardia. Rischio suicidi in carcere: nuovo piano della Regione bresciaoggi.it, 12 luglio 2022 Saranno centrali la presa in carico del detenuto e il monitoraggio costante attraverso l’apporto di uno staff multidisciplinare. Ci si prefigge “un’attenzione a 360 gradi nei confronti di chi si trova in carcere”. Questo è l’obiettivo della nuova delibera sull’aggiornamento del piano regionale per la prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari per adulti, che è stata approvata oggi dalla Giunta regionale su proposta della vicepresidente e assessore al Welfare Letizia Moratti. La Lombardia ospita 18 istituti penitenziari (tra cui quelli bresciani) sui 190 nazionali e nelle sue strutture è detenuto il maggior numero di persone sottoposte a regime carcerario. “Il piano regionale approvato - spiega Moratti - utilizza la stessa metodologia risultata vincente e più volte citata dall’Organizzazione mondiale della sanità in riferimento alla Lombardia durante la pandemia: una stretta alleanza tra il mondo penitenziario e quello sanitario per prevenire i suicidi, purtroppo aumentati durante il periodo dell’epidemia, anche a causa delle restrizioni che hanno reso ancora più afflittivo il momento della carcerazione. È necessario giocare in squadra”. La valutazione medica deve essere accompagnata dunque da una costante attenzione di tutto il contesto ai comportamenti del soggetto, soprattutto nei momenti più difficili della sua carcerazione. E “un momento di grande criticità - aggiunge l’assessore - è quello dell’ingresso in istituto e dell’inizio della vita detentiva, con la conseguente necessità di ambientarsi a un nuovo contesto. In quest’ottica le modalità di accoglienza rivestono particolare importanza e consentono una prima e immediata valutazione del rischio autolesivo e suicidario”. Il Piano ha come soggetti destinatari le Asst e le Ats sul cui territorio è presente un Istituto Penitenziario, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e le Direzioni degli istituti penitenziari per adulti. I direttori delle strutture penitenziarie e sanitarie provvederanno a nominare per le rispettive competenze uno staff multidisciplinare, composto da rappresentanti del personale penitenziario (polizia penitenziaria, Funzionario giuridico pedagogico, psicologi, volontari) e sanitario (Medici della struttura penitenziaria, personale infermieristico, personale Asst del Dipartimento di salute mentale e dipendenze) qualificati e dotati di adeguati livelli di competenza e responsabilità. “In base a colloqui e valutazioni, lo staff multidisciplinare nel più breve tempo possibile dovrà predisporre un programma individualizzato di presa in carico congiunta nel quale saranno indicati ulteriori interventi integrati degli operatori sanitari, di sostegno e di sorveglianza, secondo le necessità determinate dalle problematiche rilevate” osserva ancora Moratti. “Attraverso il dialogo e il confronto, personale sanitario, penitenziario, psicologi, volontari, ma anche i familiari, gli avvocati difensori e i magistrati dovranno essere in grado di cogliere anche il minimo segnale di disagio o campanello d’allarme che possa far pensare a gesti estremi. In questo senso, l’interruzione della corrispondenza in partenza o in arrivo, la mancata volontà di incontrare i familiari o la mancata partecipazione a momenti di condivisione con altri detenuti possono essere rivelatori di un malessere che va subito intercettato. A chi vive il mondo carcerario chiediamo un grosso sforzo per essere vigili sentinelle di queste eventuali situazioni”. Il piano verrà trasmesso al Provveditorato Regionale e alle articolazioni territoriali delle amministrazioni penitenziaria e sanitaria, cui spetterà definire, in modo congiunto, per ogni Istituto Penitenziario, un Piano Locale di Prevenzione che costituisca la declinazione operativa del Piano regionale. Emilia Romagna. Inclusione sociale e lavorativa per detenuti: dalla Regione 500mila euro bolognatoday.it, 12 luglio 2022 Bando regionale per gli Enti di formazione accreditati. I progetti d’intervento dovranno essere presentati entro il 6 settembre. La possibilità di accedere a percorsi formativi e di orientamento durante la detenzione o in area penale esterna. Così da acquisire, ed eventualmente recuperare, abilità e competenze individuali per rafforzare il percorso di inserimento nel mondo del lavoro. Per crescere, per autorealizzarsi e, soprattutto, terminata la detenzione, per poter operare attivamente nella società. Sono gli interventi orientativi e formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei minori e dei giovani adulti sottoposti a procedimento penale dall’autorità giudiziaria minorile e in carico al Centro per la giustizia minorile dell’Emilia-Romagna. Previsti in un apposito bando approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’assessore alla Formazione e Lavoro, Vincenzo Colla. Stanziati 500mila euro finanziabili a seguito dell’adozione da parte della Commissione europea del Programma regionale FSE+ 2021/2027. “Vogliamo agire su ogni forma di fragilità, per contrastare l’emarginazione sociale e favorire, attraverso il lavoro, il reinserimento nella comunità- afferma Colla-. Abbiamo l’obbligo di dare ai giovani che hanno sbagliato una opportunità seria di costruirsi un futuro dignitoso, così come previsto dai percorsi di legge”. L’invito a presentare iniziative si rivolge agli organismi accreditati per l’ambito della “formazione superiore” e in quello aggiuntivo “utenze speciali” nonché a quelli che abbiano presentato domanda di accreditamento al momento della presentazione della proposta. Gli interventi - In funzione alle caratteristiche dei destinatari, potranno essere candidati progetti relativi a interventi per l’inclusione e l’autonomia per i giovani ristretti nell’Istituto Penale minorenni di Bologna con misure di orientamento specialistico e percorsi di formazione laboratoriali; interventi per l’inclusione e l’autonomia per giovani in area penale esterna con misure di orientamento specialistico e di accompagnamento individuale, percorsi formativi brevi e tirocini. Le iniziative progettuali dovranno essere coerenti con i piani di razionalizzazione e umanizzazione della pena avviati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e con quanto rilevato dal Centro per la giustizia minorile dell’Emilia-Romagna. I progetti dovranno essere presentati, entro le ore 12 del prossimo 6 settembre,esclusivamente attraverso l’apposita procedura applicativa web e dovranno essere inviate per via telematica. Maggiori informazioni e dettagli al link Interventi orientativi e formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei minori e dei giovani-adulti sottoposti a procedimento penale — Formazione e lavoro (regione.emilia-romagna.it). Puglia. “CineAriaAperta”, una piattaforma di cinema per i detenuti di Emiliano Moccia vita.it, 12 luglio 2022 “CineAriaAperta” è la prima piattaforma gratuita digitale in Italia di cinema messa a disposizione agli istituti penitenziari di Puglia. L’iniziativa, che punta sviluppare riflessioni e dibattiti attraverso il cinema tra detenuti e detenute, è sviluppata dalla cooperativa Nuovo Fantarca e cofinanziata dal Garante Regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà C’è il film “Le invisibili”, che affronta il tema delle donne senza dimora. O “Capitain Fantastic”, che aiuta a riflettere sull’educazione dei figli e della famiglia. “Babylon Sisters”, che parla di solidarietà, di immigrazione, di diritto alla casa. E tante altre pellicole cinematografiche, dieci lungometraggi ed altrettanti corti, a disposizione dei detenuti e delle detenute degli istituti penitenziari di Puglia che potranno avvicinarsi al cinema, alla sua magia, alle sue storie. Merito del progetto “CineAriaAperta”, la prima piattaforma gratuita digitale in Italia di cinema destinata alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale all’interno degli istituti penitenziari di Puglia. La piattaforma è stata sviluppata dalla cooperativa Nuovo Fantarca e cofinanziata dal Garante Regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà - Puglia. Uno strumento per diventare finestra sul mondo fuori, contribuendo ad allargare le visioni, a favorire momenti di riflessione e dibattiti per trasformare un tempo morto in tempo vivo e produttivo. “Si tratta di film che con approccio leggero ma ricco di contenuti, vogliono stimolare percorsi culturali diversi rispetto a quelli a cui magari sono abituati i detenuti e le detenute, e far riflettere su queste tematiche offrendo un cinema di qualità” spiega Rosa Ferro, presidente della cooperativa Il Nuovo Fantarca. “Quello che abbiamo attivato con gli istituti penitenziari è un esperimento. Abbiamo chiuso i contratti con le case di distribuzione cinematografiche fino al mese di gennaio 2023 per vedere gli sviluppi dell’iniziativa, per capire se il progetto è utile alla popolazione carceraria, in modo da valutare se implementarlo o meno. Nelle carceri non mancano le offerte audiovisive, ma in questo caso quelle che proponiamo sono delle scelte un po’ guidate, che spaziano su generi diversi che vanno dall’avventura al fantasy, dal romanticismo al razzismo, dalla commedia sociale all’identità di genere”. Le direzioni delle carceri pugliesi che aderiscono al progetto, dunque, potranno accedere direttamente alla piattaforma www.cineariaperta.it e proporre la visione dei film all’interno della propria struttura attraverso una password che viene loro fornita dalla cooperativa. In base agli spazi a disposizione, come alle aule informatiche, auditorium o sale teatro, ogni penitenziario potrà organizzare al meglio la visione dei film al momento in catalogo. “L’intento sarà quello di consentire l’accesso strutturale al bello che c’è “fuori”. Non sarà solo svago” chiarisce Pietro Rossi, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà di Puglia “semmai divertimento nel senso vero del suo etimo: diversione dalla realtà del momento ma attraverso la riflessione stimolata anche da chi accompagnerà la visione e la lettura delle opere facilitando il dibattito”. Oltre alla visione dei film, infatti, “abbiamo immaginato anche dieci incontri in presenza con i detenuti e le detenute per parlare con loro, per creare un’occasione di dibattito, per riflettere su ciò che hanno visto o che vedranno” sottolinea Ferro. “CineAriaAperta” segue l’innovativo progetto che da due anni il Nuovo Fantarca porta negli istituti pediatrici italiani per garantire ai piccoli malati la possibilità di accedere a produzioni cinematografiche di un certo livello, anche per vivere al meglio il periodo di degenza, in alcuni casi anche piuttosto lungo tra ospedale e cure domiciliari. Ora anche questa iniziativa si amplia attraverso il progetto europeo “Cinema in Ospedale”, cofinanziato da Creative Europe in rete con altre sei associazioni attive a livello europeo. “Nodo centrale di questa attività è quello del cinema e dell’educazione all’immagine di qualità per bambini e ragazzi, che si muove in un contesto speciale come quello ospedaliero e incontra così ambiti come quello del Welfare e della Cultura, garantendo al tempo stesso i diritti dei bambini” aggiunge Ferro. Oltre alla Puglia, hanno aderito al progetto anche il Bambin Gesù di Roma e l’ospedale pediatrico di Monza a cui si aggiungerà da settembre la Rete Nazionale di Scuola in ospedale. La nuova programmazione 2022-2024 prevede anche il coinvolgimento dell’Università Cattolica di Milano - Settore disciplinare Media Education. Sulla piattaforma www.cinemainospedale.it sono disponibili 92 titoli, in 12 lingue diverse sia con film di animazione che documentari e di finzione, destinati a fasce d’età comprese fra i 3 e i 15 anni. Anche in questo caso, la visione dei film è lasciata all’organizzazione dell’ospedale Parma. È al 41 bis, il suo cancro al pancreas peggiora, ma rimane in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2022 “L’ha trovato molto dimagrito, disperato. Al tumore si affiancano forti dolori e difficoltà a riposare oltre che diversi episodi di febbre alta”, è la testimonianza della compagna di un detenuto al 41 bis raccolta dall’associazione Yairaiha onlus. Gli era stata da tempo diagnosticato un tumore al pancreas, e il 7 luglio scorso i familiari hanno ricevuto l’esito dell’ultima tac e, purtroppo, la patologia sta progredendo. Parliamo di E.F., classe 1969, un caso già riportato su Il Dubbio a seguito della segnalazione dell’associazione, ma nulla è cambiato. Se non peggiorato. Ricordiamo che è al 41 bis nel carcere di Parma. Da tempo gli hanno diagnosticato un tumore maligno e i medici hanno chiesto il trasferimento presso un ambiente ospedaliero per le cure. Ma è stato trasferito al Centro clinico del penitenziario di Parma, conosciuto per le sue forti criticità. Il problema è che - come relazionato dal medico chirurgo sollecitato dai famigliari per un parere - E. F. è affetto da una forma di neoplasia al pancreas estremamente grave e che necessita di un trattamento presso strutture specialistiche adeguate con alti flussi in termini di pazienti che afferiscono a tali strutture. Nei giorni scorsi la compagna ha effettuato colloquio e ha avuto modo di apprendere ulteriori informazioni in merito all’aggravamento del tumore e, più in generale, ha potuto apprendere le condizioni di detenzione in relazione alla patologia. Com’è detto, l’ha trovato molto dimagrito, disperato. Al tumore si affiancano forti dolori e difficoltà a riposare oltre che diversi episodi di febbre alta. Pare che abbia fatto richiesta per avere un cuscino nuovo, perché quello che ha è tutto sgretolato e non gli sia stato concesso. Inoltre, come segnala Yairaiha onlus, è attualmente collocato in un reparto covid nonostante sia risultato negativo al test. La stessa mattina del colloquio è stato portato a fare il port per iniziare la chemioterapia, apprendendo dall’oncologa che gli è stato aumentato il dosaggio di morfina e gli sono stati prescritti altri antidolorifici. Il 7 luglio i familiari hanno ricevuto l’esito dell’ultima tac e, com’è detto, il tumore risulta aumentato. A breve dovrebbe iniziare ad effettuare la chemioterapia in day hospital, quindi con rientro in carcere, e dovrebbe seguire una particolare dieta che in carcere non ha ancora iniziato. “In merito al tumore al pancreas - scrive Yairaiha onlus - esiste una lunga letteratura scientifica che attesta, incontrovertibilmente, che si tratta di un tumore di per sé difficilmente curabile, ma “senza interventi tempestivi, dieta adeguata e attività fisica, si moltiplicano esponenzialmente le possibilità di metastasi e morte”. Come già segnalato dal perito, dottor Rocco Natale, nella relazione del 14 maggio scorso, il detenuto necessita di ricovero in struttura altamente specializzata per poter sperare di essere curato adeguatamente. Il prossimo 12 luglio il tribunale di sorveglianza dovrebbe discutere la richiesta presentata dai suoi legali di sospensione della pena per incompatibilità carceraria. “Per esperienza - scrive sempre l’associazione rivolgendo l’ennesima segnalazione al Dap e alla ministra della Giustizia - temiamo molto un esito negativo e questo non farebbe altro che condannare la persona a sofferenze atroci senza possibilità di cure adeguate; ma speriamo di sbagliarci”. L’associazione Yairaiha, rivolgendosi alle autorità, spera che chi di dovere intervenga affinché E. F. venga messo nelle condizioni di essere giustamente curato presso una struttura adeguata, prima che sia troppo tardi. “L’essere sottoposto a regime di 41 bis non può, in alcun modo, costituire una pregiudiziale al diritto di cura sancito dalla nostra Costituzione, dal Codice penale, dall’Ordinamento penitenziario e dalla Carta universale dei diritti Umani”, chiosa l’associazione. Santa Maria Capua Vetere. Celle senz’acqua, il Dap: “Entro l’autunno allaccio alla rete idrica” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 12 luglio 2022 “È uno dei tanti provvedimenti previsti dall’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario, che dà ai detenuti la possibilità di ottenere un rimedio risarcitorio per condizioni detentive ritenute in violazione della convenzione europea sui diritti dell’uomo”. Lucia Castellano, provveditore per la Campania dell’amministrazione penitenziaria, commenta la decisione del giudice di sorveglianza Filomena Capasso che ha ridotto di 160 giorni la pena a Emilia Sibilio, moglie di uno dei capoclan della famiglia Buonerba, detenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Acqua a scarto ridotto dal 2015 al febbraio 2020 nel carcere inaugurato nel 1996, e condizioni di detenzione ritenute “disumane” dal magistrato. È una delle numerose decisioni dello stesso tipo prese in Italia dal 2014, dopo l’introduzione nell’ordinamento penitenziario dell’articolo 35-ter. Il riconoscimento ai detenuti di un “rimedio risarcitorio” della riduzione matematica dei giorni di pena, per trattamenti carcerari contrari a principi d’umanità. La decisione conferma al Dap i problemi strutturali del carcere di Santa Maria Capua Vetere su cui le soluzioni sono avviate. Due milioni di euro stanziati, un appalto assegnato e lavori partiti. Spiega il provveditore Lucia Castellano: “La parte delle condutture d’acqua potabile che spettava a lavori del Comune è ultimata. L’allacciamento della conduttura comunale a quelle del carcere è di competenza del Dap. Entro autunno anche questo sarà ultimato, con un progetto esecutivo già predisposto dalla ditta”. E ancora: “Come riconosce la decisione del giudice di sorveglianza, nel frattempo riforniamo i detenuti di 4 litri di acqua potabile in bottiglia al giorno. Per l’igiene personale, ci sono poi due pozzi artesiani. Insomma, con costi elevati, abbiamo cercato di risolvere un problema che in questa struttura carceraria esiste dall’inaugurazione. Attualmente non c’è carenza di acqua”. La mancanza di allaccio di acqua potabile è vizio d’origine dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, realizzato nel 1996 con appalti discussi e difficoltà, poi ampliato nel 2013 con un nuovo padiglione per 370 detenuti. Otto anni fa venne introdotto nell’ordinamento penitenziario l’articolo 35-ter. In quel momento, erano pendenti ben 6.829 ricorsi su violazioni nei trattamenti carcerari. Nel 2013, l’Italia fu condannata dalla Corte europea per violazione della Convenzione sui diritti dell’uomo. Era la sentenza Torreggiani su sette ricorsi per condizioni di sovraffollamento carcerario a Piacenza e Busto Arsizio. La decisione europea obbligava il nostro Paese a intervenire per trovare soluzioni. Furono approvate norme per risolvere il sovraffollamento carcerario e si introdusse l’articolo 35-ter che dava ai detenuti uno strumento di controllo e di rimedio sulla propria carcerazione. Sotto i riflettori, l’ampiezza delle celle, l’applicazione dei programmi di rieducazione, le condizioni igienico-sanitarie nelle carceri. Da allora, in tutt’Italia, si sono moltiplicate le istanze di adozione del “rimedio risarcitorio” dell’articolo 35-ter che prevede “a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”. Ed è proprio quello che è accaduto ed è stato applicato per Emilia Sibilio, detenuta per una condanna di associazione camorristica e in attesa della decisione della Cassazione su una seconda condanna a 20 anni per omicidio. Reggio Emilia. La città avrà un Garante comunale dei detenuti reggiosera.it, 12 luglio 2022 Il Consiglio comunale ha approvato oggi il regolamento. Entro il prossimo autunno Reggio Emilia avrà un garante comunale dei diritti dei detenuti. Una figura già presente in 50 città italiane e che in Emilia-Romagna manca oggi all’appello solo a Forlì e Ravenna, mentre Modena e Rimini si sono attivate per istituirla e Parma deve sostituire Roberto Cavalieri, nominato garante regionale. Il Consiglio comunale ha approvato oggi, con 16 voti favorevoli (Pd, Europa Verde - Immagina Reggio, Più Europa, Reggio è, M5S), 5 voti contrari (Fratelli d’Italia, Lega Salvini premier) e 3 astenuti (Coalizione civica, Alleanza civica), la costituzione di questa figura e il regolamento relativo. Si aprirà quindi una procedura ad evidenza pubblica di raccolta delle candidature, mentre l’ultima parola sulla nomina spetterà di nuovo ai consiglieri che siedono in sala del Tricolore. Il garante resterà in carica cinque anni, avrà un ufficio e un’indennità con tetto massimo pari al 25% del compenso di un assessore del Comune. Nell’espletamento del suo mandato affronterà in particolare le problematiche segnalate dalle persone private della libertà personale e tenterà di migliorarne le condizioni di vita sotto i profili sanitario, culturale, del welfare e della formazione al lavoro. Anche senza preavviso potrà inoltre accedere alle strutture penitenziarie per ispezioni senza limitazioni. A motivare la decisione del Comune di Reggio di dotarsi di un garante, la condizione particolarmente complessa della realtà carceraria cittadina fotografata circa un anno fa da una visita degli assessori comunali Daniele Marchi (Welfare) e Nicola Tria (Sicurezza) con il consigliere regionale Federico Amico, presidente della commissione “Parità e Diritti” della Regione. Al problema del sovraffollamento del carcere reggiano - 344 persone detenute a fronte di 293 posti disponibili (11 le donne e 183 gli stranieri al 30 giugno scorso) - si aggiungono infatti le criticità della sezione speciale per transessuali autori di reati (una decina le presenze) e quelle date dei reparti psichiatrici, retaggio del vecchio ospedale psichiatrico giudiziario ormai dismesso. A Reggio, a questo proposito, è attiva anche una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) con 30 posti. Il carcere di via Settembrini noto come “la Pulce” sconta poi secondo il garante regionale Cavalieri che lo ha visitato tre volte effettuando 20 colloqui con i detenuti, anche una “forte pressione di tipo extraregionale” e carenze di personale infermieristico e sociale, ambito quest’ultimo in cui sono presenti solo tre operatori. Cavalieri evidenzia anche la mancanza di progetti per progetti lavorativi esterni al carcere. Sul nuovo garante Marchi spiega che “sarà autonomo e indipendente, ma non isolato perché potrà relazionarsi oltre che con la Regione e l’amministrazione penitenziaria, anche con tutti i servizi del Comune interessati”. Per Tria “i detenuti vanno considerati come persone e la privazione della libertà personale non può mai comportare per loro la perdita della dignità”. Secondo Tria - di professione avvocato - bisogna inoltre accelerare su una riforma in direzione delle misure di pena alternative, che “è provato hanno un effetto dissuasivo molto più forte della detenzione”. Per Amico, che venerdì prossimo sarà in un carcere della regione a distribuire un opuscolo su questo argomento, “si colma una lacuna da tempo presente a Reggio e si aiuta a connettere il ‘dentro e il fuori’ della casa circondariale”. Reggio Emilia sarà infine nei prossimi mesi sede di un convegno sui servizi lavorativi esterni per i detenuti. Trieste. Serracchiani (Pd): “Le carceri sono una scatola che si vuole tenere chiusa” friulionline.com, 12 luglio 2022 “Sovraffollamento, mancanza di spazi, carenza di organico nella polizia penitenziaria e nel personale di sostegno come educatori e psicologi, sono mali che affliggono il sistema carcerario italiano e Trieste non è immune, nonostante il lavoro incredibile di tessitura sociale in cui tutti qui s’impegnano. Purtroppo ancora oggi il carcere è una scatola che si vuole tenere chiusa per evitare di guardare cosa c’è dentro”. Lo ha detto la presidente del gruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani, oggi al termine della visita alla casa circondariale di Trieste “E. Mari”, in occasione della consegna dei diplomi e delle certificazioni linguistiche conseguite dagli studenti detenuti che hanno frequentato e concluso positivamente i percorsi d’istruzione offerti dal Cpia (centro provinciale istruzione adulti). “Ho aperto immediatamente una linea di dialogo con il ministro Bianchi - ha riferito la parlamentare - sul tema del riconoscimento della specificità dell’istruzione carceraria, da trattare di concerto con la ministra Cartabia. I percorsi scolastici e la formazione, anche quella linguistica per gli stranieri, hanno funzione di prevenzione e di integrazione successiva alla detenzione, e per questo - ha sottolineato - serve personale dedicato”. Serracchiani, che ha incontrato il direttore dell’istituto Graziano Pujia, ha trattato anche temi relativi alla riforma della Giustizia, alle problematiche connesse alla tossicodipendenza, ai soggetti di difficile trattamento in carcere e all’attuazione delle Rems. “Il carcere non può essere la risposta a tanti tipi di disagio bensì - ha concluso - l’extrema ratio”. Torino. Caso Soldi, il processo in Cassazione dopo sette anni di Sarah Martinenghi La Repubblica, 12 luglio 2022 Ammanettato con la forza e buttato sulla barella a faccia in giù, è morto asfissiato in ambulanza. Condannati sia in primo grado sia in appello tre vigili e lo psichiatra. Arriva al suo epilogo il processo per la morte di Andrea Soldi, il “gigante buono” ucciso da un tso troppo violento, da una morsa al collo che gli tolse il fiato per costringerlo con la forza a salire sull’autoambulanza. Ammanettato e buttato sulla barella a faccia in giù, asfissiato da una procedura errata a cui nessuno, quel giorno, destò attenzione, nonostante il suo volto diventasse sempre più blu. Domani la Cassazione sarà chiamata a esprimersi, a distanza di sette anni da quella morte che scosse le coscienze di tutti, sulle condanne pronunciate nei confronti di tre vigili urbani del nucleo “servizi mirati” e dello psichiatra che avevano eseguito il trattamento sanitario. Tutti e quattro sono stati condannati, sia in primo grado che in appello, a un anno e sei mesi di carcere. Maria Cristina Soldi, la sorella di Andrea, sarà a Roma, a chiedere giustizia, ancora una volta, “perché non accada mai più”, il mantra che ripete e che l’ha portata anche a impegnarsi in politica. Era il 5 agosto 2015 e Andrea Soldi, 45 anni, il gigante buono, era seduto sulla panchina di tutti i giorni, nei giardinetti di piazza Umbria, a pochi passi da casa. Un gigante buono per la corporatura imponente che si accompagnava a una spiccata sensibilità. Affetto da schizofrenia paranoide, non prendeva più medicine. Diceva che il farmaco lo faceva ingrassare e gli era stato anche cambiato lo psichiatra, peggiorando così il suo rapporto con ciò di cui aveva bisogno. Era stato il suo papà, quel giorno, a chiamare il medico, preoccupato per l’assenza di cure. I tre vigili intervenuti per il Tso avevano usato la forza. Lo psichiatra gli aveva parlato troppo poco, lui non era intenzionato a lasciare quella panchina che considerava un porto sicuro. Uno si era messo alle sue spalle e gli aveva stretto il collo con una mossa da arti marziali, mentre gli altri due gli bloccavano le braccia. Andrea aveva subito perso coscienza. Lo avevano buttato a terra e ammanettato dietro alla schiena e poi, in quella posizione, coricato a faccia in giù su una barella. Quando era arrivato in ospedale le sue condizioni erano così critiche che il cuore aveva smesso di battere. Nessuno l’aveva capito, durante il tso e il trasporto al Maria Vittoria, nonostante l’evidenza della sua sofferenza. Oggi la panchina rossa di Andrea è diventata un simbolo. Una targa ricorderà per sempre cosa è successo. L’ha messa il Comune e sopra vi ha inciso un monito rivolto soprattutto a se stesso: “Che non accada mai più”. Arezzo. La casa di riposo come luogo di reinserimento quinewsarezzo.it, 12 luglio 2022 I lavori di pubblica utilità arrivano alla casa di riposo grazie a una convenzione tra il carcere e la Fossombroni. Lo storico legame che unisce le due realtà trova nuova linfa con un percorso di reinserimento lavorativo, al centro di un protocollo denominato “Mi riscatto per”. Questa convenzione fornirà la possibilità a quattro persone detenute di condurre volontariamente una serie di mansioni al servizio dei bisogni della casa di riposo Fossombroni per incarichi quali, ad esempio, la pulizia, la manutenzione e la conservazione degli spazi verdi interni e esterni della struttura per anziani. “La nostra casa di riposo - ricorda la presidente Debora Testi - è da sempre votata al sociale, dimostrando attenzione e sensibilità verso le esigenze del territorio e della città. Questa natura è confermata dal legame che da anni ci lega ai nostri “vicini” del carcere e che è stato rinnovato con questo protocollo che offre i nostri spazi esterni all’esigenza di prevedere specifici percorsi di reinserimento, anche lavorativo, per i detenuti”. La convenzione si inserisce sul solco della legge 345 del 1975 che prevede che detenuti e internati possano chiedere di essere ammessi a prestare la loro attività a titolo volontario e gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità anche al servizio di enti di assistenza sociale tra cui rientrano le stesse case di riposo. “Queste attività - sottolineano dalla Fossombroni - sono caratterizzate da un’importante funzione sociale perché permettono al condannato di svolgere mansioni di carattere rieducativo secondo le proprie esigenze personali orientate anche ad acquisire competenze e conoscenze professionali spendibili nella fase post-detentiva, ponendo inoltre la propria opera al servizio dei bisogni della comunità locale”. L’intervento, spiegano, sarà coordinato nel rispetto delle misure di sicurezza con il coordinamento dell’assistente capo Leopoldino Berti. “L’uscita dalle mura del carcere è uno dei nostri obiettivi - spiega Giuseppe Renna, direttore della Casa Circondariale di Arezzo. Il percorso rieducativo di un detenuto deve essere anche all’esterno della casa circondariale per portare del bene alla comunità e per riuscire così a restituire un cittadino utile per la società. Tutte queste finalità sono perseguite proprio con il progetto avviato con la casa di riposo Fossombroni”. “La convenzione di durata biennale e rinnovabile tacitamente di anno in anno - proseguono dalla struttura - è stata progettata con l’obiettivo di garantire continuità ai lavori anche in caso di nuovo peggioramento della situazione sanitaria e di conseguente chiusura delle case di riposo. Le diverse mansioni individuate di volta in volta dalla casa di riposo Fossombroni e concordate con la Casa Circondariale possono infatti essere svolte interamente all’esterno e all’aria aperta, senza ingresso nei locali della struttura e senza contatto con i suoi ospiti. Il compito della casa di riposo sarà, d’altro canto, di garantire la conformità del lavoro in materia di sicurezza e igiene degli ambienti, il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare, anche attraverso appositi dispositivi di protezione individuale, l’integrità fisica e morale dei soggetti coinvolti”. Alla stipula della convenzione erano presenti anche dell’assessore Alessandro Casi, il direttore della casa di riposo Stefano Rossi, dei consiglieri con delega al sociale e al patrimonio della Fossombroni Antonio Rauti e Lido Lucci, il commissario Luigi Bove, comandante della Casa Circondariale di Arezzo e Fabiola Papi, responsabile dell’area educativa della casa circondariale di Arezzo. “Questo accordo - aggiunge la vicesindaco e assessore alle politiche sociali del Comune di Arezzo Lucia Tanti - dimostra come sia possibile valorizzare la dimensione rieducativa e di forte reinserimento sociale che il nostro sistema carcerario culturalmente e praticamente porta con sé. La dinamica di responsabilizzazione e di coinvolgimento di chi giustamente sconta una pena rappresenta un elemento imprescindibile per una comunità sana che sa armonizzare appunto la pena con la ripartenza. Sono molto contenta che la Casa Pia sia luogo di reinserimento, così come sono molto contenta che la Casa Circondariale di Arezzo mostri alla città il valore del sistema che è capace di tenere insieme rigore e rieducazione. Il messaggio che da qui vogliamo dare è proprio questo: tenere insieme questi due aspetti dove l’uno non esclude l’altro ma anzi insieme ci restituiscono percorsi virtuosi”. Terni. “Pane e Piazza”, i detenuti del Carcere sfornano “I Giudicabili” orvietonews.it, 12 luglio 2022 Prosegue il progetto “Pane e Piazza” delle associazioni Demetra e Arciragazzi Gli Anni In Tasca, finanziato dalla Fondazione Carit. 14 i detenuti della Casa Circondariale di Terni (8 di Alta Sicurezza, 6 di Media sicurezza) coinvolti nell’attività teorico-pratica di preparazione dei prodotti da forno, grazie ai macchinari presenti nella struttura di Sabbione. I ristretti hanno sfornato dolci, ciambelline, baci di dama, cookies e salati. In soli 60 giorni di attività, è nata una linea di prodotti da forno dolci e salati, destinata alla distribuzione, dal nome “I Giudicabili”. Il nome - non a caso - fa riferimento ad una determinata categoria di imputati, per i quali è stato avviato un procedimento penale e che si trovano in attesa del giudizio di primo grado. Per questo i biscotti giudicabili rappresentano un test per il mercato. Attraverso un Qr-Code - presente sulle confezioni - e dei questionari somministrati durante le degustazioni, le due associazioni stanno raccogliendo pareri sul gradimento dei prodotti, su quanto il cliente sarebbe disposto a pagarli e poi qualche consiglio su distribuzione e packaging. Al fine di far conoscere il progetto e promuovere i dolci, Demetra e Arci Ragazzi Gli Anni In Tasca hanno organizzato delle degustazioni nell’ambito di diverse manifestazioni. La formazione dei detenuti proseguirà fino al termine del mese di luglio. Da settembre invece inizierà la vera e propria fase produttiva, con un team selezionato dai 14 detenuti. I coordinatori del progetto, insieme ai tutors, alla docente Donatella Aquili, al Comandante della Casa Circondariale di Terni, Fabio Gallo e alla responsabile dell’area educativa, Francesca Lupi, sono più che soddisfatti del percorso fin ora svolto e della collaborazione avviata. Stesso stato d’animo per i detenuti che raccontano: “Grazie a questo progetto il tempo scorre, ti stacchi dal resto. Riesci a non pensare e ti dimentichi anche di stare in carcere”. Per Marco Coppoli e Caterina Moroni, coordinatori del progetto: “Osserviamo con soddisfazione, a volte anche apprensione, a volte vero orgoglio l’andamento di questo progetto che a tutti gli effetti si caratterizza come un esperimento. Esperimento che parte dall’interno, nelle mura dell’Istituto Penitenziario, dove i detenuti si stanno effettivamente sperimentando in un nuovo mestiere per arrivare all’esterno attraverso i prodotti e i valori che questi portano con sé: impegno, riscatto, responsabilità, nuove possibilità. Proprio in questo legame tra il dentro e il fuori risiede il senso dell’operazione, affinché questi due mondi siano più vicini, comprensivi, sistemici”. Ad oggi, i prodotti possono essere degustati ed acquistati nei seguenti punti vendita: Monimbò bottega dal mondo, Bloom spazio condiviso, Meeting Point, Holy food, Lab.biciclario, I Ghibellini, Centro di Palmetta, La Siviera Officina Sociale. Roma. Le voci del carcere di Rebibbia tra teatro, letteratura e perdono di Caterina Maniaci Libero, 12 luglio 2022 Cosimo si è dovuto fermare a lungo su quella parola, su quell’invocazione: Pentitevi! È proprio Prospero che lo urla ai prigionieri, ne La Tempesta di Shakespeare. Cosimo la deve mettere in scena, con altri compagni. Però inciampa ripetutamente su quella parola. Nel suo mondo “pentito” è un insulto, peggio ancora un marchio di infamia. Come risuona terribile quella parola, nel reparto di Alta Sicurezza di un carcere. “Allora ho dovuto riflettere, tutti abbiamo dovuto riflettere: cosa è il pentimento? Cosa è il perdono? Sono parole della Legge, del Dillitu, della Magistratura? Oppure sono parole, prima di tutto, dell’anima? Perché se erano parole dei Tribunali non potevamo dirle. Ma se sono parole umane, allora possiamo dirle. E le abbiamo dette. Incredulo io stesso, ho detto: pentitevi”. Lo racconta proprio lui, Cosimo Rega, che dopo oltre 4() anni trascorsi in carcere, ha trovato il modo di “uscire” grazie al teatro. Una delle tante, tantissime, storie che il mondo dei “ristretti” continua a rivelare. La voce dei detenuti di Rebibbia, la scoperta di quanta umanità ci sia dietro le sbarre e di cosa sia davvero la pena del “ristretto”, e le molte esperienze di teatro, di letteratura, poesia, cucina, rilegatoria, insomma creatività a lungo raggio. Un’occasione per parlarne è stata la presentazione del libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia”, edito dalla Lev, la Libreria editrice vaticana, (pp.150, 17 euro) e curato da suor Emma Zordan, da otto anni volontaria a Rebibbia dove ha coordinato un laboratorio di scrittura creativa, i cui lavori vengono poi raccolti e pubblicati affinché anche fuori si conosca meglio l’esistenza reale di chi vive dentro il carcere, il microcosmo che diventa paradigma di umanità, disperazione, rinascita. Cosimo Rega è uno di loro, ex ergastolano attore e regista, che ha raccontato la testimonianza diretta del suo percorso di vita. In queste pagine i detenuti si raccontano con totale franchezza e senza autogiustificazioni, facendo trasparire un lungo e difficile itinerario autocritico. I dati impietosi mostrano che i problemi annosi del sistema penitenziario restano molto gravi. Basta dare un’occhiata ai dati al 30 aprile 2022 forniti dal ministero della Giustizia: i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.595 a fronte di una capienza regolamentare di 50.853 posti, con un tasso di sovraffollamento carcerario pari al 107,35%: una situazione di sovraffollamento che, seppur migliorata rispetto al livello raggiunto allo scoppiare della pandemia, rimane a tutt’oggi molto preoccupante. Eppure, anche in questo inferno, i piccoli miracoli avvengono. A Gorgona, l’isola carcere dell’arcipelago toscano da circa due anni viene portato avanti un progetto in collaborazione con la direzione del carcere, per la chiusura definitiva del macello e la salvezza di quasi 600 animali. Recentemente è stato presentato il volume dal titolo “Animali che salvano l’anima”, un’antologia di racconti di alcuni detenuti che hanno partecipato ad un laboratorio di scrittura creativa. Volterra (Pi). Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza decostruisce il carcere di Gianfranco Falcone mentinfuga.com, 12 luglio 2022 “Ma tu la cambieresti la tua situazione con la mia? Io ti do la mia carrozzina e tu mi dai i tuoi anni di carcere”. Questa è stata la domanda che ho posto a P. uno dei detenuti attori che nel carcere di Volterra compongono la Compagnia della Fortezza, creata, animata e diretta ormai da trent’anni dal regista, attore e drammaturgo Armando Punzo. La risposta è stata di quelle che lasciano il segno. “Il problema non è la galera o la carrozzina, ma quanto ognuno di noi è libero dentro”. Questo è stato pressappoco l’inizio della conversazione con un gruppo di detenuti - artisti della Compagnia. D. ha aggiunto che in Italia in carcere tutti conoscono il lavoro che Armando Punzo porta avanti, e tantissimi vorrebbero andare a Volterra. Perché lì è un’altra cosa. A Rebibbia da dove arriva lui, ci sono moltissime domande di trasferimento. T. ci racconta che lui è timido. Così quest’anno ha iniziato a lavorare con la Compagnia della Fortezza, per conoscersi meglio, per crescere. Si è diplomato liceo artistico, seguendo le lezioni all’interno del carcere. Quando non recita lavora come cameriere in un ristorante della città. Oltre al liceo artistico, al carcere di Volterra, ci sono anche corsi per il diploma di scuola media, l’alberghiero e agraria. L. invece si è laureata al Dams di Pisa dando gli esami su Skype. La tesi era sul cinema neorealistico. V. si è unito alla discussione è ha sottolineato che in altre carceri ci sono sei/otto brande in ogni cella, mentre a Volterra le celle sono singole. Non è difficile capire le motivazioni di questo sovraffollamento. Attualmente i detenuti in Italia sono 54.841 al 30 giugno, mentre i posti letto a quella data erano 50.900. Però quest’ultimo numero non tiene conto delle sezioni attualmente chiuse perché inagibili. Quindi ci sono all’incirca 8mila detenuti in più rispetto alle disponibilità. In questo contesto si suicidano circa 50 persone all’anno. I casi sono oltre 10 volte in più rispetto alla popolazione libera secondo le stime dell’Associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei detenuti. È bene ricordare come fa Stefano Anastasia che in Italia ci sono almeno 30mila persone in carcere per il fenomeno che Alessandro Margara, magistrato di sorveglianza che è stato anche capo dell’amministrazione penitenziaria, definiva di “detenzione sociale”. Si sta in carcere per piccoli reati, per condizioni più che altro di irregolarità sociale. Che Volterra sia una realtà particolare me ne sono accorto subito non appena varcato il portone. Passati i primi controlli della polizia penitenziaria, sempre discreta e gentile, mi sono venuti incontro due giovani uomini, che poi ho capito essere detenuti. Hanno spinto la mia carrozzina per l’impervia salita che portava al cortile interno, cuore pulsante del teatro di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza. Entrare in quel cortile, in quei luoghi teatrali, che sono anche i luoghi del carcere è disorientante. Improvvisamente tutte le retoriche, gli immaginari più retrivi sui luoghi di detenzione crollano, e sorge spontanea la domanda: Dove mi trovo? Detenuti, attori, collaboratori e collaboratrici, guardie, sembrano convivere in un vivace andirivieni, dove si perde la capacità di distinguere tra detenuti e visitatori. O meglio, capisci che le donne presenti non fanno parte della popolazione carceraria perché Volterra è un penitenziario maschile. Ed è uno dei pochi carceri dove il consumo degli psicofarmaci è ridotto pressoché a zero e non ci sono suicidi. Nelle altre realtà penitenziarie invece è solo grazie ai farmaci che si sopravvive. I visi che ho osservato in cortile erano sorridenti e rilassati. Si notavano i colori sgargianti dei costumi di scena, i gesti ripetuti, meticolosi, degli attori durante le prove, la grande cura di ognuno. A Volterra non si sopravvive, si vive. L’arte è il collante che unisce i diversi protagonisti in campo. A nessuno sembra interessare quando scade il fine pena di chi, quali tipi di reati siano stati commessi. A tutti interessa il chi si è delle persone, il lavorare a un progetto comune che è il prodotto artistico. Armando Punzo lo ha ribadito più volte. Lui non è a Volterra per salvare chicchessia, è lì per fare arte. Concepita come strumento per andare al di là dei propri limiti, al di là dell’umano con i suoi vizi. Quello che interessa ad Armando Punzo è il movimento che l’attore fa nei suoi esercizi teatrali: abbandonare la propria posizione, con tic, manierismi, affettazioni, cercare la posizione del neutro, e da lì partire per interpretare nuove storie, nuovi personaggi che abbandonino vecchi ruoli, vecchi copioni, e sappiano farsi promotori e cercatori del bello. Perché come dice Punzo a conclusione del nuovo spettacolo con la Compagnia della Fortezza Naturae - la valle della Permanenza, “C’è solo questo spazio. C’è solo questo tempo. Spazio delle infinite possibilità, un presente parallelo che ricrea la vita. L’ombra si ricongiunge con il sole, la goccia rientra nel mare”. Armando Punzo è riuscito a realizzare e vivere una vera e propria utopia a Volterra. Ha trasformato uno dei peggiori carceri italiani in un raffinato laboratorio di ricerca teatrale, all’avanguardia in Europa. Un tempo Punzo ebbe a dire: “Del carcere non mi interesso, non sono un assistente sociale, un educatore, uno psicologo, come non mi interesso di tutta la realtà per quella che è. Eppure ho potuto fare molto di più di quelli che se ne interessano”. Ma che cosa è necessario, qual è il prezzo da pagare per realizzare questo bello? È sempre Punzo a indicarlo. Non ha senso parlare di prezzo quando le nostre azioni sono frutto di una libera scelta. Bevo le sue parole pronunciate con calma passione e lo vedo allontanarsi con un’eleganza che lo fa assomigliare a una figura a metà strada tra un anarchico e un danzatore sufi. Anarchico perché è convinto che l’individuo debba trovare dentro di sé la cifra del proprio arbitrio, e debba andare al di là delle convenzioni e consuetudini che addormentano la sua capacità di aspirare al bello. Un danzatore sufi perché gesti e parole rimandano a una danza in cerca del sacro, da intendersi come ciò che è importante nella vita. È stato Andrea Salvadori, compositore delle musiche di Armando Punzo, per cui ha vinto un premio UBU, a indicare che per conquistare il bello a cui assistiamo tra le mura della Fortezza, è necessario evitare l’assenza. Quel luogo della realtà che è il carcere deve essere continuamente presidiato. Altrimenti il carcere rimangerà tutto ciò che è stato acquisito. Cinzia De Felice, direttrice organizzativa della Compagnia, mi ha ricordato che ogni conquista in carcere è frutto di un lungo e faticoso lavoro di mediazione tra le esigenze dell’arte e la cultura penitenziaria del controllo. Lo ha detto mostrandomi lo spazio dove sorgerà il primo teatro stabile d’Italia interno a un carcere. Un progetto che Armando Punzo insegue ormai da più di vent’anni. Un’altra delle sue idee folli che si sta trasformando in realtà. Altri ne verranno se la legge in discussione in parlamento sulla realizzazione di un teatro in ogni carcere verrà approvata. Napoli. Nel carcere di Nisida si gira “Desiré”, Enrico Lo Verso tra i protagonisti di Enrica Buongiorno Il Mattino, 12 luglio 2022 Sono in corso le riprese del film “Desiré” per la regia di Mario Vezza che ne firma la sceneggiatura con Fabrizio Nardi e l’amichevole partecipazione di Maurizio Braucci. Primi ciak nel carcere di Nisida con i protagonisti Enrico Lo Verso, Antonella Stefanucci, Tonia De Micco e la giovane Nassiratou Zanre nel ruolo di Desiré. Il film è prodotto da Antonio Acampora e Armando Ciotola per CinemaFiction, casa di produzione e scuola di recitazione cinematografica con sede a Napoli, in associazione con TNM Production, con il contributo della Regione Campania ed il sostegno della Film Commission Regione Campania. Le riprese hanno una durata di quattro settimane tra Nisida, grazie Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero di Grazia e Giustizia e all’IPM di Nisida diretto da Gianluca Guida, e tra le strade di Napoli. Desiré, nigeriana, vive sola con la madre in un basso nel centro di Napoli. Costretta dalla madre tossicodipendente a spacciare erba per pochi soldi nel proprio quartiere per conto del clan egemone. Una notte viene arrestata dalla polizia e spedita nel penitenziario minorile di Nisida. La sua detenzione durerà quasi due anni. In questo lasso di tempo, avrà inizio un lento percorso fatto di silenzi, ascolti e desideri. Verso la fine della detenzione, Desiré dovrà fare i conti con il suo passato… “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale”, di Davide Steccanella di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 luglio 2022 Ho difeso Vallanzasca e Battisti, per loro non vale il motto: “La legge è uguale per tutti”. “L’avvocato è un mestiere che, secondo alcuni, neppure dovrebbe esistere. Quante volte mi è stato infatti chiesto, con dissimulata malizia: “Come fai a difendere un assassino?”, o uno stupratore, un mafioso, un pedofilo o anche un bancarottiere, un poliziotto corrotto, un truffatore, aggiungo io. Il codice penale, come la vita, è ricco di figure devianti”. È questa una delle prime riflessioni contenute nel libro “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale” (Mimesis edizioni, pp. 238, Euro 18) di Davide Steccanella, avvocato del Foro di Milano con quasi quarant’anni di esperienza professionale. Tra i suoi assistiti Cesare Battisti e Renato Vallanzasca. “Il primo - scrive l’autore - è semplicemente l’emblema del terrorista mentre il secondo è semplicemente l’emblema del criminale, con buona pace del loro diritto a essere trattati e giudicati in modo giusto”. Avvocato Steccanella, nel suo libro c’è tanto di autobiografico. Un tributo a una professione che lei ama e che sta profondamente cambiando? Io ho raccontato semplicemente quello che è capitato a me ed è tutto vero. Più che un tributo alla professione, il mio libro nasce dalla volontà di far sapere a chi non lo bazzica come funziona in Italia il sistema giustizia, perché ero stufo di assistere a continui processi in tv o sui media fatti da chi non ha mai messo piede in un’aula di tribunale. Ho pensato, se volete continuare a commentare i processi in corso seguendo la moda di quello che io chiamo nel capitolo iniziale il fenomeno del “panpenalismo”, ossia “l’irresistibile propensione a introdurre, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale e da qualunque osservazione degli effetti che le pene producono concretamente, nuove figure di reato al fine di soddisfare un sempre più diffuso giustizialismo di tipo popolare”, allora vi racconto cosa succede davvero tra quelle quattro mura. Lei scrive in maniera provocatoria ma non troppo: “Chi preferisce pensare che in tribunale venga sempre accertata la verità assoluta, farà meglio ad abbandonare subito la lettura”. È il disincanto di chi indossa la toga da tanti anni? Non è tanto un disincanto, spero di essere riuscito a trasmettere anche una certa fiducia nell’importanza della giustizia e che mai come in questo periodo percepisco come affievolita nella communis opinio, perché non è vero che, come diceva Bartali: “Gli è tutto sbagliato e tutto da rifare”. Però, è anche giusto sottolineare che, come titola il libro, la giustizia è amministrata dagli uomini, che sono per definizione fallibili, per cui non si deve pensare che il processo sia come un computer, dove, se inserisci determinati dati, il risultato è matematico. Una sentenza si basa sempre sulla “verità processuale”, ovvero su quanto le parti in contesa hanno allegato al giudice, e non sempre corrisponde a quanto è davvero accaduto nella realtà. Le sentenze vanno rispettate, ma è sbagliato ritenerle vangelo assoluto, tanto è vero che il nostro ordinamento consente alla parte soccombente di impugnarle in due successivi gradi di giudizio, uno di merito e uno di legittimità. Diventare avvocato non è facile e, forse, rispetto al passato questa professione attira di meno. È altrettanto difficile conservare la toga sulle spalle? Oggi il mestiere dell’avvocato, come molti altri peraltro, è molto cambiato rispetto a quando ho iniziato io. Ai miei tempi era fondamentale un bravo maestro che, come gli artigiani di una volta, ti insegnava l’arte nella bottega, e io da questo punto di vista sono stato molto fortunato a trovare sin da subito l’avvocato Lodovico Isolabella, che era non solo un grande avvocato ma anche un grande uomo. Soprattutto in città come Milano, il mercato impone a chi si affaccia alla professione di entrare in grandi studi all’americana aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, che forniscono un servizio completo ai propri clienti creando dipartimenti di esperti in ogni settore del diritto. Non dico che questo lo abbia reso più difficile, ma certo lo ha reso meno affascinante. Il mito del singolo avvocato che sceglie di impegnarsi per garantire “giustizia” non esiste più neppure nel diritto penale, salvo poche eccezioni che proprio per questo meritano il massimo rispetto. Di recente ho letto un libro scritto dall’avvocato Gabriele Fuga, il quale, raccontando la propria esperienza di detenuto negli anni dell’emergenza terrorismo, a causa delle calunnie di un ex cliente “pentito”, disse ai propri giudici che un avvocato deve mantenere il segreto sulle confidenze fattegli dal suo assistito anche se queste potrebbero scagionarlo. Nel mio libro, oltre a Isolabella, cito alcuni grandi avvocati milanesi che ho avuto il privilegio di incontrare nel corso dei miei trentacinque anni di professione e che oggi non ci sono più, come Corso Bovio, Carlo Gilli, Angelo Giarda e Francesco Arata. Costoro hanno nobilitato la nostra professione, che non è fatta solo da “azzeccagarbugli” in cerca di soldi o facile notorietà. La giustizia degli uomini, essendo tale, può spesso fallire? Come racconto nel libro, in alcuni dei processi che ho affrontato è successo. Questo però non deve diventare un alibi per impegnarsi meno da parte dell’avvocato. Accettare di difendere qualcuno che ripone in te una tale fiducia da consegnarti in mano il destino della propria vita, affrontare un processo, soprattutto per chi non ci è abituato, è già una pena terribile ed è una responsabilità enorme. Da un tuo errore può dipendere la vita di un essere umano, quasi come per il medico, per cui ho fatto mio il motto che mi ha insegnato mio padre, a sua volta avvocato: “Fai quel che devi, accada quel che può”, però fai quel che devi, appunto, e se puoi fai persino di più. Per capirci, un avvocato deve fare cento per ottenere venti. Quasi sempre quel venti arriva. Tranne nei casi degli imputati “indifendibili” che racconto in uno dei capitoli finali del libro, e nei cui confronti, ho scoperto sulla mia pelle, non vale il motto: “La legge è uguale per tutti”. Inps, poveri al lavoro, pensioni da fame: la bomba sociale è innescata di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 12 luglio 2022 Gli effetti delle “riforme” neoliberali del mercato del lavoro e delle pensioni iniziate negli anni Novanta nella relazione annuale del presidente dell’Inps Pasquale Tridico. 4,3 milioni hanno meno di 9 euro lordi l’ora, 1 su 3 guadagna meno di mille euro al mese. La controrivoluzione neoliberale lascia in eredità una bomba sociale. Nessuno intende disinnescarla. Sono oltre 4,3 milioni i lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora e quasi un lavoratore su tre guadagna meno di mille euro al mese, considerando anche i part-time. Per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico che ieri ha presentato la XXI relazione alla Camera alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, guadagnano una cifra mensile lorda inferiore al massimale di 780 euro del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, stabilito sulla base del reddito mediano. Sembra che percepiscano meno di 5 mila euro all’anno. La povertà lavorativa è più marcata in Italia che negli altri Stati europei. Secondo Eurostat, nel 2019, l’11,8% dei lavoratori era povero rispetto alla una media europea del 9,2%. Tre anni dopo la situazione è peggiorata. I “lavoratori poveri” sono raddoppiati negli ultimi quindici anni, tra il 2005 e il 2021, corrispondenti alle due grandi crisi che hanno devastato il capitalismo globale: la crisi dei mutui subprime e dei debiti sovrani (2007-2008) e quella della pandemia alla quale si è agganciata quella attuale. Tridico ha prefigurato il loro percorso nei prossimi trent’anni. Se riuscissero a versare i contributi, e non è affatto detto, e se arrivassero a 65 anni in queste condizioni, allora avrebbero una pensione di circa 750 euro, superiore al corrispettivo della pensione minima attuale pari a 524 euro al mese. Questa è già la realtà delle pensioni italiane, la maggior parte delle quali sono inferiori a mille euro al mese. Tra un paio di decenni ci saranno pensionati ancora più poveri. La simulazione è ottimistica. Per ora riguarda solo i nati tra il 1965 e il 1980. Per chi è nato tra il 1981 e il 2000 andrà peggio. “Chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani” ha detto Tridico. Le donne sono le più penalizzate. “Sono state le più penalizzate - ha aggiunto il presidente dell’Inps - perché hanno avuto un allungamento della vita lavorativa, per allinearla a quella degli uomini, e stanno andando in pensione più tardi di quanto si aspettassero al momento in cui sono entrate nel mercato”. Non va dimenticato che, tra il 2005 e il 2021, la povertà assoluta è triplicata, arrivando agli attuali 5,6 milioni (dati Inps, Il Manifesto 9 luglio). I due fenomeni compongono la parte emersa di un iceberg che naviga sott’acqua. E presto emergerà, e non solo per il riscaldamento climatico. Ma per gli effetti del combinato disposto delle riforme neoliberali del mercato del lavoro e delle pensioni iniziate dalla metà degli anni Novanta, in Italia e non solo. La decrescita salariale deriva dalla “parcellizzazione della prestazione lavorativa, anche per effetto della eccessiva flessibilizzazione introdotta dalle riforme sul mercato del lavoro”. Non va inoltre trascurato l’impatto della denatalità sul sistema previdenziale. “L’onda dei baby boomers sta arrivando alla pensione - ha detto Tridico - La base contributiva si sta restringendo. Quand’anche le politiche di contrasto alla denatalità risultassero efficaci, i benefici di nuovi contribuenti che entrano nel mercato del lavoro si verificheranno tra 20-25 anni”. Allungamento dell’età pensionabile in cambio della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale; precarizzazione dei rapporti di lavoro fino al punto che oggi il tasso di occupazione (60%) cresce grazie ai contratti di breve e brevissimo termine; blocco sostanziale dei salari da trent’anni. Lo schema è stato accompagnato dall’abbandono di ogni politica industriale a favore delle esternalizzazioni, e dalla crescita di un’economia dei servizi poveri (turismo, ristorazione, digitali e altro). Questa situazione ha allargato la forbice delle differenze di reddito all’interno del lavoro dipendente. I lavoratori che hanno lavorato di continuo negli ultimi 15 anni hanno salvaguardato la loro posizione: tra questi l’85% ha avuto una crescita relativa del reddito. Ma è solo l’1% dei lavoratori che concentra il 6,4% del reddito totale percepito dal lavoro dipendente. Tra tutti gli altri occupati, la metà più povera ha perso reddito tra il 2005 e 2020. L’indice Gini che calcola le diseguaglianze è salito nel 2021 a 46 dal 44 del 2019. Le diseguaglianze, dunque, non sono solo tra “ricchi” e “poveri”, ma all’interno del rapporto di lavoro precario, e non. Trent’anni di trasformazione postfordista hanno indebolito il contratto nazionale di lavoro, sia per quanto riguarda la tutela del salario (anche chi ha un contratto guadagna pochissimo), sia per la rappresentatività. Per Tridico, ci sono 1.011 contratti: “Troppi, e spesso non rappresentativi”. È il problema dei “contratti pirata”, ai quali non sembra esserci una soluzione. “Se si introducesse un salario minimo, i profili contributivi si alzerebbero significativamente, in media del 10%” sostiene Tridico. Prospettiva difficile mentre l’inflazione, che non dipende da una crescita dei salari, è usata per mantenerli bassi. È in questa direzione che va la modesta prospettiva di rivalutazione prospettata in Italia. Dopo la repressione salariale, e in assenza di un significativo ciclo di lotta di classe, non saranno i bonus degli ultimi governi, compreso quello di Draghi, a cambiare la situazione. La controrivoluzione neoliberale lascia in eredità una bomba sociale. Nessuno intende disinnescarla Fame di welfare di Linda Laura Sabbadini* La Repubblica, 12 luglio 2022 Poveri lavoratori, poveri pensionati, poveri disoccupati. E soprattutto povere. Anche il Rapporto Inps, dopo quello Istat focalizza l’attenzione sul forte disagio che attraversa il Paese. C’è fame di welfare, dobbiamo capirlo e intervenire presto, prima che sia troppo tardi. Parto da un dato che era presente nel Rapporto Istat e che è confermato in quello Inps. Il numero di lavoratori a basso salario, con retribuzione lorda annua inferiore a 12 mila euro o che ha una retribuzione oraria minore di 8,41 euro, è pari a 4 milioni 300 mila. Attenzione, ciò è dovuto solo in un terzo dei casi al fatto che la paga oraria è inferiore a 8,41. Nei due terzi dei casi è il numero di ore lavorate che è basso, il numero di mesi lavorati. Il che ha una conseguenza precisa. Il salario minimo non risolve da solo il problema delle disuguaglianze nelle retribuzioni. Deve essere affrontata la questione della precarietà, dell’intermittenza, del numero di mesi dei contratti e del numero di ore lavorate. Ciò è ancora più evidente per le donne. Oltre ad un problema di discriminazione che si esprime in un minor salario femminile, a parità di altre condizioni, sulle donne pesa il fatto che svolgono lavori più precari e più a part time, soprattutto involontario e quindi cumulano discriminazione a bassa qualità del lavoro svolto. il differenziale tra uomini e donne “non condizionato”, nel periodo pre-pandemia, si aggirava intorno al 39%. Tenendo conto della bassa qualità del lavoro svolto e di altre caratteristiche individuali e delle imprese il differenziale si riduceva al 15%. Ma nel 2020 la situazione peggiorava di nuovo e il differenziale di genere a parità degli altri fattori tornava al 25%, si incrementava di 10 punti. Il 2021 migliora ma si torna al livello del 2015. Quando sempre alto era. Chi è povero lavorativamente oggi sarà un povero pensionisticamente domani. 16 milioni sono i pensionati. Il 40% ha percepito un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12.000 euro. 8,3 milioni sono le donne. Ma pur essendo maggioranza percepiscono solo il 44% dei redditi pensionistici e cioè gli uomini hanno redditi del 37% più alti. L’Inps sottolinea che tra il 20% più povero dei pensionati (fino a 10.000 euro annui) la maggioranza, il 60%, percepisce una pensione di vecchiaia o anticipata dal Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti. Cioè subisce il fatto di aver sperimentato la povertà lavorativa nel corso della sua vita. E anche in questo caso sono sempre le donne ad essere ripetutamente più penalizzate: perché ricordiamocelo, hanno lavorato meno a lungo, interrotto di più il lavoro nel corso della vita, specie in concomitanza con la nascita dei figli, con una paga oraria/settimanale inferiore a quella degli uomini. Ma a proposito di anziani il Rapporto Istat ci ha ricordato che sono 6 milioni 400 mila quelli che non sono autonomi, anche se solo parzialmente. Di questi un terzo lamenta di non essere sufficientemente aiutato. Manca loro assistenza, non necessariamente sanitaria, anche solo sociale o psicologica. Così come mancano le infrastrutture sociali per i bambini, e più in generale per alleviare il carico di cura sulle spalle delle donne. C’ è bisogno di rifondare il welfare nel nostro Paese. Profondamente. Dobbiamo capirlo una volta per tutte. È da questa carenza decennale strutturale che deriva il complesso delle disuguaglianze. È ora di aggredire questo vulnus storico italiano. E ora non c’è più tempo da perdere. È in gioco la tenuta sociale del Paese. *Direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat Ius scholae, si cerca un compromesso con Fi per salvare la legge di Carlo Lania Il Manifesto, 12 luglio 2022 Il testo rischia di slittare a settembre. Ostruzionismo della Lega per impedire che l’aula di Montecitorio possa arrivare in settimana al voto sulla riforma della cittadinanza e sulla cannabis. Prolungare di almeno una settimana i lavori della Camera in modo da permettere il voto sui ddl su cannabis e ius scholae prima della pausa estiva. A proporlo, praticamente in zona Cesarini, è stato ieri il deputato di +Europa Riccardo Magi nella speranza di riuscire in questo modo ad aggirare l’ostruzionismo messo in atto a Montecitorio dalla Lega. Pur di riuscire a fermare i due provvedimenti, ieri i 131 deputati del Carroccio sono infatti intervenuti “a titolo personale” su tutti gli articoli di un altro ddl, quello sull’istituzione del sistema terziario di istruzione tecnologica superiore (Its), in modo da impedire che l’aula possa arrivare a un voto sulla possibilità di coltivare in casa la cannabis per uso domestico e sulla riforma della cittadinanza. “La Lega sta dimostrando ancora una volta tutto il suo disprezzo per il parlamento e per la democrazia” ha spiegato Magi, che ha anche invitato quanti hanno sostenuto finora in commissione i ddl su cannabis e ius scholae ad appoggiare la proposta di una settimana di lavoro in più. Anche senza contare le fibrillazioni di queste ore sul dl Aiuti che già fanno ballare il governo, i tempi per i due ddl sono comunque stretti visto che la precedenza va ad altri provvedimenti più urgenti. Cosa che vale in particolare per lo ius scholae, che nel calendario dei lavori della Camera segue la cannabis. Per questo quanti sostengono il testo, che permetterebbe a più di 800 mila ragazzi nati in Italia da genitori immigrati o che sono arrivati nel nostro Paese prima del dodicesimo anno di età di poter diventare cittadini italiani, in queste ore sono al lavoro alla ricerca di un compromesso che permetta di portare finalmente in porto la legge. Almeno alla Camera perché poi al Senato, dove i numeri sono più incerti, si giocherebbe una partita più difficile. Al momento l’unica via percorribile sembra essere quella di un accordo con Forza Italia. Il partito di Berlusconi non è contrario per principio allo ius scholae ma chiede per i ragazzi interessati dalla riforma un percorso di studi più lungo per poter avere la cittadinanza: otto anni invece di un ciclo di cinque come previsto dalla legge approdata nell’aula di Montecitorio. Con un problema in più: se davvero fosse questo l’accordo, andrebbe abbassata anche l’età massima dell’ingresso in Italia, da 12 a 6 anni. Mancano, al momento, prese di posizione ufficiali da parte di M5S, Pd, Leu, Autonomie, +Europa e Italia Viva, lo schieramento favorevole allo ius scholae, ma sarebbe questo il compromesso al quale si starebbe lavorando. Anche ieri la Lega è tornata ad attaccare Pd e M5S accusandoli di avere come priorità “la legalizzazione della cannabis e delle droghe libere”. “Per la Lega -ha detto il vicecapogruppo alla Camera Fabrizio Cecchetti - l’unica vera emergenza, è dare aiuti concreti alle famiglie e alle imprese in questa fase di crisi economica acuta”. Al leghista ha replicato la vicepresidente del parlamento europeo Pina Picierno: “Con la stessa velocità con cui cambia idea, Salvini pretende di dettare le priorità del Paese - ha scritto su Facebook la parlamentare dem. Ora il grande nemico del capo del Carroccio è lo ius scholae, un provvedimento ritenuto ‘folle’. Talmente folle che con il suo partito ha presentato 1.500 emendamenti per affossarlo, tra cui un test scritto sul presepe e una prova orale sulle sagre italiane”. Secco anche il commento dell’ex forzista Elio Vito, che ha parlato di “ignobile ricatto” del Carroccio “per contrastare leggi attese da decenni che riguardano i diritti delle persone”. La restaurazione europea su gas e nucleare di M. Agostinelli, A. Grandi, J. Ricci, M. Scalia* Il Manifesto, 12 luglio 2022 Il Parlamento europeo ha respinto a maggioranza una mozione che puntava a capovolgere la decisione della Commissione europea di includere gas e nucleare nell’elenco delle fonti rinnovabili, riconoscendole quindi come attività finanziabili: ancora miliardi di euro alle fonti fossili come il gas e al pericoloso nucleare. La maggioranza del Parlamento ha votato sotto la pressione dei potentati economici, finanziari e politici, sensibili ai propri interessi, senza riguardo alle conseguenze ambientali. Addirittura hanno fatto delle conseguenze della guerra in Ucraina l’occasione per rilanciare i loro affari, come dimostra anche il tentativo, purtroppo appoggiato dall’Italia, di rinviare di anni la dismissione della produzione di nuovi veicoli a motore basati sulle fonti fossili. La tassonomia europea è l’elenco delle attività energetiche considerate sostenibili dal punto di vista ambientale con l’obiettivo di orientare gli investitori privati, la finanza europea e internazionale, gli interventi pubblici dell’Europa e nazionali. Gli impianti a gas avviati entro il 31 dicembre 2030 potranno di fatto aggirare le nuove restrizioni previste. I nuovi impianti nucleari potranno essere costruiti entro il 2045 ed entro il 2040 ampliati quelli esistenti, mentre gli Stati dovranno attivare un impianto di smaltimento dei rifiuti ad alta radioattività solo entro il 2050. La Commissione europea consente a tutti i nuovi impianti e a quelli esistenti di operare da quando i permessi verranno rilasciati e i finanziamenti incassati. Di fatto un permesso al buio. La maggioranza europea favorevole a gas e nucleare è composta anzitutto da gruppi politici tradizionalmente posizionati a destra dello schieramento politico e dai liberali di Renew Europe. A favore di gas e nucleare gli eurodeputati eletti in Italia di Lega, Fdi, FI e Italia Viva, mentre hanno votato contro M5S, Pd e Verdi, astenute le due elette oggi con Di Maio, assente Calenda. Questo voto conservatore e contro il clima del Parlamento europeo, che ha perso l’occasione di ribaltare la decisione della Commissione, viene considerato molto grave dall’Osservatorio sulla Transizione Ecologica-Pnrr che insieme a tanti altri ha fatto di tutto per impedire questa decisione, compresa una petizione di 160.000 firme. Solo il Parlamento poteva opporsi alla Commissione. La conferenza di Glasgow, gli impegni del G20 sono stati contraddetti clamorosamente proprio da chi solo alcuni mesi fa aveva affermato la priorità del clima. La guerra in Ucraina è stata l’occasione per passi indietro clamorosi. Mentre il clima dimostra ogni giorno il suo impazzimento fuori controllo, le sedi politiche e istituzionali che si erano impegnate a metterlo al primo posto, hanno colto l’occasione della guerra per un clamoroso capovolgimento di posizioni. Si poteva e doveva puntare tutto sulle energie rinnovabili, invece ora c’è la ricerca spasmodica del gas e il rilancio del carbone, dando vita ad una nuova epoca di attacco al clima, ignorando gli allarmi degli scienzati. Per quanto riguarda il nucleare non solo è in vista una crisi del materiale fissile, ma adesso il parco nucleo-elettrico francese sta andando in tilt per la siccità, mentre la sicurezza delle centrali non ha fatto passi avanti perché la tecnologia di fondo resta la stessa e i depositi delle scorie, soprattutto di quelle pericolose, restano un problema non risolto. Il governo lussemburghese, quello austriaco e Greenpeace, hanno annunciato di essere determinati a chiedere l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per ottenere l’annullamento di questa decisione su gas e enucleare. L’Osservatorio plaude a questa determinazione ed è pronto a partecipare a questa iniziativa. C’è un patto scellerato tra interessi finanziari ed economici, a partire dalle grandi compagnie che dominano il mercato dei fossili, contro il clima e una Commissione europea debole, incapace di resistere alle lobbies, e i governi nazionali che guardano solo al (presunto) interesse immediato, fingendo di ignorare gli effetti devastanti sul clima di questa tassonomia europea, di fatto alternativa agli investimenti a favore di nuove modalità energetiche compatibili con il clima. Un folto gruppo di ragazze e ragazzi ha presidiato per giorni il parlamento a Strasburgo. Guardiamo a loro con speranza e ci auguriamo che siano l’avanguardia di una grande mobilitazione che deve ripartire prima possibile, perché è in gioco il futuro di tutti. Il voto del parlamento europeo è un colpo di coda della vecchia Europa degli interessi e del lobbismo, in gioco c’è il senso stesso dell’Unione europea. Non bisogna arretrare. Non bisogna scoraggiarsi. Occorre rilanciare la mobilitazione. La crisi climatica, purtroppo, dimostrerà che avevamo ed abbiamo ragione e chi ha scelto gas e nucleare si è assunto gravi responsabilità. *Osservatorio sulla transizione ecologica-Pnrr, promosso dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale Genesi di una fake news: Svezia e Finlandia non hanno mai venduto i curdi al tiranno Erdogan di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 12 luglio 2022 Il memorandum rafforza il sultano ma parla chiaro: nessuna estradizione fuori dal diritto europeo. “Per voi italiani la Russia è lontana, e il Mediterraneo non è un lago russo - si sfoga Karl, barista. Per noi svedesi, e ancora di più per i finlandesi, la Russia è molto vicina”. Questo, più o meno, il sentimento di quel 58 di svedesi che a maggio si è espresso favorevolmente all’adesione alla Nato. Dice Kenneth G. Forslund, presidente del Comitato sugli affari esteri del Riksdag (il parlamento svedese), e membro dei Socialdemokraterna (socialdemocratici): “La politica di non- allineamento è stata una parte importante delle politiche del nostro partito, e ha servito bene la Svezia per oltre duecento anni. Ma i tempi sono cambiati. Nella nuova realtà emersa dopo la brutale e illegale invasione russa dell’Ucraina, la Svezia ha bisogno di formali garanzie di sicurezza, che derivano dall’essere membri della NATO. Per la sicurezza della Svezia e del suo popolo, la NATO è l’opzione migliore e più fattibile” [Per Svezia e Finlandia la NATO è la sola garanzia contro l’imperialismo russo, di Gabriele Catania, su Valigia blu]. È da questo sentimento che è nata la richiesta di Svezia e Finlandia di aderire alla NATO. Quella richiesta - per l’approvazione della quale è necessaria l’unanimità dei membri - contro la quale si è schierato Erdogan, imputando a svedesi e finlandesi di dare ospitalità e protezione ai “terroristi curdi”. È solo dopo il “Memorandum di intesa” firmato a Madrid, il 28 giugno, da Mevlut Cavusoglu, Pekka Haavisto e Ann Linde, rispettivamente ministri degli Esteri turco, finlandese e svedese, che Erdogan ha concesso il suo via libera. È stato un ricatto politico - non c’è un’altra definizione possibile. Erdogan ha profittato della situazione per mettere il coltello alla gola di svedesi e finlandesi. Che hanno rimangiato in parte la loro decennale posizione di critica e accusa nei confronti dell’autocrate turco di condurre una guerra spietata non solo contro i curdi ma contro ogni opposizione interna. Anche perché nei due paesi scandinavi, c’è una consistente comunità curda (circa centomila in Svezia e diecimila in Finlandia) che riesce, come in Germania, a fare sentire la loro pressione. “Io penso sia stata una resa dello Stato svedese di fronte a un paese nemico della libertà quanto la Russia di Putin” - dice A., figlio di curdi, e dipendente di un ente pubblico svedese. L’intesa tra la Svezia, la Finlandia e la Turchia ha fatto infuriare Amineh Kakabaveh parlamentare indipendente che ha definito “inaccettabile” il negoziato con il regime turco, definendolo fascista e “una dittatura”. E proprio a inizio giugno Kakabaveh aveva anche salvato una seconda volta il governo di minoranza di Magdalena Andersson che, a sua volta, aveva confermato la cooperazione con il PYD, il Partito dell’Unione Democratica attivo nella Federazione del Nord della Siria, inserito ora nel Memorandum come “terrorista”. L’allarme maggiore - perché immediato - è scattato a proposito della possibilità che Svezia e Finlandia avessero firmato un protocollo che li impegnava a avviare pratiche di estradizione e consegnare immediatamente a Erdogan una lunga lista di nomi che l’autocrate turco considera “terroristi” e che hanno trovato lì rifugio. Questa “notizia” è girata per giorni sui social - soprattutto in quell’area che considera responsabile di questa guerra la NATO e che quindi giudica l’adesione di Svezia e Finlandia una “escalation” contro Putin, una minaccia ai russi. Più o meno, il “copione ucraino” (l’allargamento a est della NATO è l’origine della risposta russa). Ora, non c’è scritto da nessuna parte del Memorandum questa cosa e il paragrafo 8 vincola ogni decisione sull’estradizione a che sia presa “in conformità con la Convenzione europea sull’estradizione”. Per Martti Koskenniemi, professore emerito di Diritto Internazionale presso l’Università di Helsinki, e tra le menti legali più note d’Europa, il Memorandum “incarna una formula diplomatica di compromesso che in realtà vincola i due paesi semplicemente ad avere più colloqui. Ritengo impensabile che questo possa condurre a qualche cambiamento legislativo significativo in Finlandia”. Eppure, qui è scattato subito quello strano meccanismo mentale per cui i ricattati (Svezia e Finlandia) sono i colpevoli, e il ricattatore (Erdogan) passa sotto silenzio. Di nuovo, il “copione ucraino”. Non fa bene alla causa curda, oltre che alla verità, dire cose inventate. Dice Michael Walzer - professore emerito a Princeton, filosofo della? politica, da sempre impegnato nella sinistra americana - in un bel colloquio con Wlodeck Goldkorn su l’Espresso del 10 luglio: “Cosa ha ottenuto la Turchia per aver “permesso” a Svezia e Finlandia di entrare nell’Alleanza atlantica non è del tutto chiaro, ma sembra un accordo a spese dei curdi, traditi di nuovo”. Intanto, il 7 luglio 2022, l’amministrazione autonoma ha dichiarato lo stato generale di emergenza per tutte le regioni del nord est della Siria. I bombardamenti turchi si sono intensificati. Il 19 luglio di dieci anni fa, è iniziata la rivoluzione del Rojava. Per quella data, si chiede una mobilitazione internazionale. Iran. Arrestato Jafar Panahi, un attacco feroce alla libertà d’espressione di Cristina Piccino Il Manifesto, 12 luglio 2022 Il noto regista aveva manifestato la sua solidarietà a Rasoulof e Al-ahmad, catturati due giorni prima. La notizia ieri è rimbalzata subito in tutto il mondo: Jafar Panahi è stato arrestato a Tehran a soli due giorni di distanza dall’arresto di Mohammad Rasoulof e di Mostafa Al-Ahmad - a favore dei quali Panahi aveva espresso il suo sostegno sui social. In un suo post del 10 luglio si legge: “All’alba dell’8 luglio Rasoulof e Al-ahmad, critici schietti e cineasti impegnati, sono stati aggrediti nelle loro abitazioni e portati via in un luogo sconosciuto. Condanniamo la pressione che i filmmaker indipendenti e i pensatori liberi stanno subendo. Condanniamo anche la sistematica violazione da parte delle istituzioni dei diritti sociali e dell’individuo. Chiediamo l’immediato rilascio dei nostri colleghi”. Non è la prima volta che il regista, uno dei più importanti nomi nel cinema iraniano e tra i più riconosciuti a livello internazionale sin dagli esordi con Il palloncino bianco (1995) che vinse la Caméra d’or al festival di Cannes - il successivo Lo specchio (1997) ha conquistato il Pardo d’oro al festival di Locarno mentre Il cerchio (2000) ha avuto il Leone d’oro a Venezia - viene arrestato nel corso della sua carriera: nel 2010 è stato condannato a sei anni di reclusione, tramutati poi in arresti ai domiciliari, e gli è stato vietato di lasciare il Paese, di rilasciare interviste e di girare film fino al 2030, anche se ha continuato a farne e con grande potenza - pensiamo a Closed Curtains (2013) premio della sceneggiatura alla Berlinale, e a Taxi Tehran (2015) Orso d’oro, girato in clandestinità, la cui protagonista, l’avvocata per i diritti civili Nasrine Saotoudeh è stata arrestata nel 2018 e detenuta in condizioni orribili con un deterioramento grave della sua salute ulteriormente peggiorata dopo avere contratto il Covid. La persecuzione del regime nei confronti del regista, figura sempre “scomoda” i cui film venivano regolarmente censurati, inizia insieme a quella contro Rasoulof: i due cineasti vengono messi in prigione mentre stanno preparando un film sull’Onda verde, il movimento che era esploso in Iran contro la presidenza di Ahmadinejad per chiedere una maggiore democrazia e dei cambiamenti sociali, economici, il rispetto dei diritti civili che Panahi aveva sempre pubblicamente sostenuto. Contro entrambi l’accusa è di “propaganda contro il governo” e di “attentare alla sicurezza pubblica”. Da allora come accade in Iran le loro vite sono rimaste sospese a un arresto che poteva accadere di nuovo da un momento all’altro, una forma di tortura psicologica messa in atto con ricatti e minacce di ogni genere. Rasoulof era stato nuovamente fermato e privato dei documenti mentre tornava dal festival di Telluride nel 2017 dove aveva presentato A Man of Integrity, e nel 2019 aveva fatto appello all’imputazione di “propaganda contro il regime”. Entrambi potevano scegliere la via della fuga e dell’esilio ma hanno deciso di restare in Iran continuando a esprimere il loro pensiero attraverso le loro opere. Rasoulof e Mostafa al-Ahmad avevano lanciato qualche giorno fa un appello alla polizia iraniana firmato da una settantina di artisti in cui chiedevano di non usare le armi contro i manifestanti con riferimento alle violenze messe in atto dalle forze speciali iraniane nella città di Abadan durante le manifestazioni seguite al crollo di un edificio nel quale sono morte oltre quaranta persone - la cittadinanza accusava il governo di negligenza e di corruzione. Ieri si sono moltiplicate le richieste di una immediata scarcerazione dei registi, tra cui i comunicati del festival di Cannes che ha voluto ribadire il suo sostegno a tutti “quegli artisti nel mondo vittime di violenze e di rappresaglie” e della Berlinale che nell’arresto di Panahi, Rasoulof e Al-Ahmad denuncia l’ennesimo attacco “alla libertà di espressione e dell’arte”. L’incarcerazione senza alcuna accusa di Panahi è solo l’ennesimo atto di una repressione che si fa in Iran sempre più dura, quasi che il regime cerchi di camuffare la forte crisi economica e la protesta sociale che ne deriva con questi arresti eclatanti, rivolti contro un ambito, quello della c ultura, che viene valutato come potenzialmente pericoloso. Nei mesi scorsi erano state arrestate le registe Firouzeh Khosrovani (Radiography of a family) e Mina Keshavarz (The art of living in danger) -liberate poi il 18 maggio su cauzione - entrambe autrici riconosciute a livello internazionale, senza dare alcuna motivazione. Cuba. Un anno fa la repressione delle proteste di massa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 luglio 2022 L’11 luglio 2021 migliaia di persone scesero spontaneamente in strada in decine di città di Cuba, in numeri che non si vedevano da decenni, per chiedere un cambiamento delle condizioni di vita. Al centro delle proteste c’erano la mancanza di cibo, di medicine e di prodotti per l’igiene, le continue interruzioni della corrente elettrica, le restrittive misure adottate dal governo per contrastare la pandemia da Covid-19 e la tradizionale politica repressiva dello stato, che da anni causava violazioni dei diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Durante le proteste e nelle settimane successive, le autorità arrestarono centinaia di persone senza informare le famiglie sulla loro sorte, posero attivisti e giornalisti indipendenti sotto sorveglianza e bloccarono l’accesso a Internet. Una delle principali e ben collaudate tattiche utilizzate dalle autorità per reprimere le proteste e ridurre al silenzio le persone che la pensano diversamente consiste nel ricorso agli arresti arbitrari. È andata così anche quella volta. Il caso dell’artista e difensore dei diritti umani Luis Manuel Otero Alcantara (nella foto) è emblematico: è stato arrestato dopo che aveva annunciato che avrebbe preso parte alle proteste e, quasi un anno dopo, è stato condannato a cinque anni di carcere solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. Nei mesi successivi sono stati celebrati numerosi processi a porte chiuse ed è stato fatto costantemente ricorso a sorveglianza e intimidazioni. Inoltre, le autorità cubane hanno provato a disfarsi delle voci critiche proponendo lo scambio “libertà contro esilio”, come nei casi di Esteban Rodriguez e Hamlet Lavastida. Il presidente Miguel Diaz-Canel, colui che chiamò a raccolta “i difensori del regime” per reagire violentemente contro coloro che erano scesi in strada, continua a dire che il governo operò in modo legittimo. Secondo la narrazione ufficiale, le proteste stavano minacciando “l’ordine costituzionale e la stabilità” dello stato socialista. La realtà è diversa: a oggi almeno 701 persone restano in carcere, private della loro libertà solo aver espresso la loro insoddisfazione per la situazione nel paese.