Giustizia non significa pena massima, carcere a vita o legge del taglione di Giovanni Varriale Il Riformista, 11 luglio 2022 Ancora una volta nei giorni scorsi abbiamo assistito all’ennesimo grido di giustizia questa volta nei confronti dei ragazzini (minori) che, a Napoli, avevano aggredito un rider. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. È accaduto con il processo nei confronti di Matteo Salvini come nei confronti di Silvio Berlusconi o anche per l’uccisione del giovane Ugo, freddato da un carabiniere fuori servizio. In tutti questi casi e non solo, il leitmotiv è sempre lo stesso: giustizia! Ma cosa si intende per giustizia? È quel sentimento popolare che inneggia quasi alla legge del taglione o l’applicazione delle Leggi sostanziali e processuali cui si basa il nostro ordinamento!?!? È evidente come in uno stato di diritto, è fondamentale che vengano tutelati i diritti di tutti: sia della vittima che del carnefice. Giustizia non vuol dire massimo della pena vuol dire applicazione corretta delle Leggi in ossequio ai principi cardine dell’ordinamento penale. D’altronde il sistema penale italiano si fonda su un principio cardine cui tutti, sempre, dovremmo far riferimento: la pena ha valore di risocializzazione e di reinserimento sociale del reo. Purtroppo ciò non sempre accade anche e soprattutto per lo smisurato e incomprensibile utilizzo della pena detentiva in carcere. Le strutture carcerarie sono sature, i detenuti sono spesso abbandonati a sé stessi in luogo insalubri e in condizioni degradanti e disumane. Tali circostanze rendono difficile la risocializzazione del reo che, non solo viene privato della libertà personale, lontano dai propri affetti, ma viene costretto a vivere in un luogo privo di intimità in uno spazio vitale di poco più di 3 mtq. Sul punto svariati sono stati gli interventi del Legislatore sopranazionale con cui si è chiesto all’Italia di rendere più vivibili le carceri e di prevedere maggiori tutele per i detenuti ma in realtà a parere di chi scrive, sarebbe già sufficiente ridurre drasticamente l’utilizzo al carcere in particolare per quanto concerne le misure cautelari. Ridurre drasticamente l’utilizzo della misura cautelare in carcere, per altro prevista come extrema ratio anche dal nostro ordinamento, significherebbe rendere più vivibile le strutture carcerarie, facilitare il lavoro del personale amministrativo e della polizia penitenziaria. D’altronde le ultime riforme della giustizia tendono evidentemente a questo risultato, con l’introduzione di istituti quali ad esempio la sospensione del procedimento con messa alla prova, o anche con la modifica del tetto massimo di pena (da tre a quattro anni) entro cui poter accedere alle misure alternative. Ebbene, per poter concretamente aspirare al rispetto delle garanzie costituzionali è necessario che gli operatori del diritto, ma anche gli organi di stampa, inizino un percorso di crescita culturale che concretamente applichi sempre quanto previsto dalla carta costituzionale. È necessario che proprio gli organi di stampa, per primi, si muovano in questa direzione evitando che una mera informazione di garanzia si trasformi in sentenza di condanna o che una sentenza di assoluzione passi sotto traccia. Solo con un percorso di pari passo tra gli organi di informazione e gli operatori del diritto potrà essere comprensibile per i cittadini come Giustizia non significhi massimo della pena, carcere a vita o la legge del taglione bensì il rispetto delle norme sostanziali e processuali nel rispetto delle garanzie previste dalla nostra carta costituzionale. Concezione medievale del diritto dietro l’attacco a Nessuno tocchi Caino e al direttore del Dap di Pasquale Motta lacnews24.it, 11 luglio 2022 Il Fatto Quotidiano e un’interrogazione del M5S hanno messo sotto tiro il dottor Carlo Renoldi, neo capo degli istituti penitenziari, e gli ex parlamentari radicali Bernardini, D’Elia e Zamparutti rei di aver visitato la sezione 41 bis di alcune carceri sarde. Cosa nasconde tutto ciò? Marco Travaglio ordina di abbattere un presunto nemico della cordata mediatico forcaiola giustizialista e immediatamente i soldati grillini eseguono gli ordini in parlamento. Sotto tiro questa volta è finito il direttore del Dap, Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’associazione Nessuno tocchi Caino e suoi dirigenti, in particolare, gli ex parlamentari radicali Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, gli ultimi due, rispettivamente segretario e tesoriere di Nessuno tocchi Caino e ad altri componenti della stessa associazione. Zamparutti, tra l’altro, è anche rappresentante per l’Italia del comitato europeo per la prevenzione della tortura. L’impegno e l’attenzione di Nessuno tocchi Caino per il mondo delle carceri è noto. È alla base dei valori costitutivi di questa associazione. E tra l’altro un impegno che viene da lontano, dal patrimonio di battaglie condotte da Marco Pannella. Nessuno tocchi Caino, e i suoi dirigenti da anni si battono per il rispetto della condizione dei detenuti. Attenti difensori dei diritti delle persone che ruotano intorno all’universo carcerario. I dirigenti radicali vanno su e giù per il paese visitando le strutture carcerarie. Le loro posizioni sono note e, i radicali, non hanno mai nascosto la loro avversione al regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi. Una posizione, quella di Nessuno Tocchi Caino, trasparente. In linea con i profili delle associazioni umanitarie. Le battaglie dei dirigenti di Nessuno Tocchi Caino tendono inoltre a tenere aperto il dibattito sulla riforma del sistema carcerario. Da poco il direttore del Dap è Carlo Renoldi, un garantista molto sensibile ai temi del rispetto dei diritti dei detenuti. In quella postazione lo ha voluto la Ministra di Grazia e Giustizia, Marta Cartabia. La stessa ministra che ha introdotto un minimo di riforma della giustizia. E per la prima volta, lo ha fatto senza riverenze verso la casta della magistratura e, soprattutto, verso l’universo giustizialista di Travaglio e company. Per tali motivi, la Cartabia, fine costituzionalista, presidente emerita della Corte Costituzionale, cattolica militante, è invisa ai giustizialisti, alle rete dei professionisti dell’antimafia, a tutto il mondo pentastellato e a certi pm icone della lotta alla ndrangheta 4.0, quella cioè, che fa rumore nell’inchiesta e naufraga clamorosamente nelle sentenze. Torniamo al punto. Cosa ha fatto il nuovo direttore del Dap per aver scatenato il furore del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio? Niente che non avesse già fatto nel passato. Ha concesso alla delegazione di Nessuno tocchi Caino di accedere alle sezioni destinate al 41 bis. Secondo il Fatto Quotidiano, ciò sarebbe un fatto inedito e, un pericoloso buco al regime del 41 bis. Una ricostruzione quella del giornale di Travaglio, smentita da Bernardini, D’Elia e Zamperutti dalle colonne del Il Riformista. Scrivono infatti i tre dirigenti radicali: “Il Fatto Quotidiano ha spiato dal buco della serratura quello che avevamo fatto alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati a visitare 5 carceri sarde e anche le sezioni del 41-bis”. “Una visita autorizzata, come tante altre, - proseguono Bernardi, D’Elia e Zamperutti - dal Dap e quindi non una visita senza precedenti come tuona erroneamente il giornale. Visitammo infatti il 41-bis di Viterbo nell’aprile 2019 e negli anni precedenti anche quelli di Parma e Tolmezzo. Al Fatto e ai suoi parlamentari stellati consigliamo di leggere e di meditare sul rapporto di 11 pagine che abbiamo redatto alla fine delle visite in Sardegna e trasmesso al Capo del Dap. Capirebbero e interrogherebbero il ministro della Giustizia sul vero scandalo. Non lo scandalo dell’allarmante visita al 41-bis, un regime che, ribadiamo, è una forma di “tortura democratica” e come tale da riformare. Ma lo scandalo della carenza allarmante di direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori. Lo scandalo delle condizioni di vita di tutti i detenuti, di una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. Per non parlare dello scandalo del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia”. Un’altra storia, dunque, quella raccontata dai dirigenti di Nessuno tocchi Caino, che smentisce la ricostruzione del quotidiano diretto da Travaglio. In una democrazia liberale normale e di tipo europeo, la vicenda sarebbe passata come una circostanza assolutamente ordinaria. Ma noi non siamo una democrazia liberale normale. Noi siamo istituzionalmente liberali solo sulla carta. La qualità della vita carceraria ci colloca tra i peggiori d’Europa. Senza parlare del fatto che, nelle nostre patrie galere, sono rinchiusi migliaia di persone ancora in attesa di giudizio e senza neanche una sentenza di primo grado. Tant’è che, l’Europa, per tali motivi ci ha sanzionato più volte. La polemica sollevata dal Fatto Quotidiano, giornale vicino alle procure e contemporaneamente al gruppo politico (o quel che ne rimane del M5S) certifica l’anormalità della nostra democrazia. Tra l’altro, il cosiddetto “caso”, è stato sollevato in queste ore, ma risale a due mesi fa. Rita Bernardini aveva richiesto la visita dei penitenziari di Sassari e Nuoro con una mail il 2 maggio. Secondo il giornale di Marco Travaglio, e di tutti i fogli online di ogni ordine e grado legati al professionismo dell’antimafia militante e pronti a rilanciare ogni fatwa lanciata dal quotidiano delle procure, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini avrebbe richiesto l’accesso ai 41 bis, senza specificarne le ragioni. Un’obiezione abbastanza curiosa. Nessuno tocchi Caino si occupa di diritti delle persone detenute. Quale motivazione avrebbe dovuto addurre? La polemica innescata dal Fatto, viene immediatamente raccolta dal gruppo del M5S, i quali presentano un’interrogazione parlamentare. Una tempesta in un bicchier d’acqua, considerato la puntuale replica dei dirigenti di Nessuno tocchi Caino. La polemica contro il direttore del Dap nasconde altro. L’obiettivo è il ministro Cartabia, rea, per il Fatto Quotidiano, di aver nominato un garantista in quel ruolo. Al momento della nomina la battaglia è stata furibonda e a dar manforte a Travaglio e ai grillini sono arrivate anche le truppe di Salvini, garantista a corrente alternata. Il membro del Csm Di Matteo ha votato contro la nomina nel plenum. Di Matteo, un’altra icona antimafia star, lo stesso che da pm ha gestito il naufragato processo Trattativa e la gestione del falso pentito Scarantino che, di fatto ha depistato le indagini sulla strage Borsellino. Le parole della figlia di Borsellino in merito al depistaggio sulla strage via D’Amelio di qualche giorno fa sono state dure come pietre, anche con Di Matteo, e la dicono lunga sugli “eroi” tanto cari ai grillini e all’antimafia militante. Carlo Renoldi è l’opposto dei pm star, magari scrittori e sempre alla ribalta dei media e alla ricerca della “sparata più grossa” per conquistare quotidianamente le prime pagine dei giornali. Il nuovo direttore del Dap è stato magistrato penale e poi di sorveglianza. Fino alla nomina al Dap consigliere di Cassazione. Sempre lontano dalla ribalta mediatica. Tra i suoi riferimenti e maestri c’è Alessandro Margara, che fu capo del Dap, ispirò la riforma Gozzini (la più liberale della storia italiana) ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti. Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti. Troppo per l’autoritarismo di Travaglio e company. E forse per questi motivi sta sullo stomaco al giornale dei giustizialisti italiani. Il network del giustizialismo nostrano in quel ruolo preferirebbe magari un direttore torturatore. E, d’altronde, il veleno traspare dal pezzo di Antonella Mascali sul Fatto, che ricordando la nomina sottolinea: “Fatta tra le proteste delle associazioni antimafia e dei familiari delle vittime”. Una curiosa interpretazione del ruolo delle associazioni antimafia, secondo la quale, si dovrebbe assumere il loro parere preventivo e vincolante alle politiche giudiziarie di questo paese come verità divina. Il resto del pezzo è costituito da una serie di sottolineature sprezzanti, quasi rancorose verso dirigenti di Nessuno tocchi Caino. Il governo Draghi, al ministero di Grazia e Giustizia, ha portato un ministro competente, il quale di fronte ai diktat dei Travaglio e dei girotondini antimafia, ha tirato dritto per la sua strada. Linea che, dopo la sua nomina al Dap, è stata seguita anche dal dottor Renoldi, il quale ha firmato un permesso a Bernardini e alla delegazione di Nessun tocchi Caino perfettamente lecito. Tuttavia, la vicenda è avvilente sia sul piano culturale che sul piano politico. Travaglio e tutto l’universo dell’antimafia di professione sono ormai fermi ad uno schema datato 30 anni fa. Per costoro, infatti, non è contemplata la possibilità che un uomo, dopo decenni e decenni di carcere duro, seppur non ritenendo di collaborare, possa cambiare e, sottolineo, cambiare, che non vuol dire redimersi. La loro visione è semplice: chi si trova recluso in regime di 41 bis deve marcire lì dentro fino alla fine dei suoi giorni (ergastolo ostativo). Anche se malato. Anche se le sue condizioni psicofisiche sono incompatibili con il regime carcerario. A meno che, non decida di collaborare. Una visione tribale, medievale, della funzione punitiva dello Stato che, tra l’altro, non è contemplata dalla nostra costituzione. Per Travaglio e i suoi sceriffi mediatici e politici, dentro e fuori del Parlamento, la fotografia deve rimanere fissa allo schema di 30 anni fa. Al clima di emergenza dell’epoca delle stragi e da cui sono scaturite leggi e normative (la cosiddetta legislazione antimafia) in evidente contrasto con i rudimenti della Costituzione. Il contesto dell’epoca era simile a quello di una guerra civile. Le scelte legislative, nacquero in quel clima di terrore, derogando, forse giustamente, dai fondamentali rudimenti della carta costituzionale. Oggi non siamo più in quel contesto. Una nazione democratica, liberale ed europea dovrebbe ricercare la via legislativa ad un graduale ritorno alla normalità. Eppure, la narrazione della lobby mediatico-giudiziaria della rete antimafia vorrebbe tenerci ancorati a quel clima. Un clima che ha determinato la fortuna e le carriere di magistrati, giornalisti e politici. Nel corso di questi 30 di emergenza sono state prodotte molteplici norme liberticide. Non sarebbe forse arrivato il momento di rivedere questa impalcatura legislativa? La visione reazionaria e conservatrice di un pezzo di sistema sostiene di no. Si oppone a qualsiasi nuova lettura della realtà, sia sul piano istituzionale che sociale. Una concezione di questo tipo dello stato di diritto, è tipica di una visione autoritaria dello Stato, piuttosto che di una visione liberale. Il paradosso è che in Italia, una tale visione, oserei dire quasi fascista, è sostenuta da un pezzo di sinistra e da un pezzo del Pd. Il mondo progressista, compreso molti psudo intellettuali, per una serie di ragioni, che qui non c’è il tempo di analizzare, si è legato a questa visione illiberale del sistema giudiziario e dello Stato. Una anomalia mostruosa sul piano dei contenuti valoriali. Insomma, per farla breve, una certa sinistra ha sostituito “L’Unità” con “Il Fatto Quotidiano”. Fino ad arrivare al punto di una visione doppio pesista anche rispetto alla difesa dei valori della costituzione. La bandiera della difesa della Carta è sempre in alto, quando si tratta di dare addosso a Berlusconi, Renzi, Draghi, Cartabia. L’indifferenza verso la violazione dei valori costituzionali e dei diritti umani, invece, quando si tratta di difendere battaglie che oggi, in questo paese, sono difese solo da persone come Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e associazioni come Nessuno tocchi Caino. Una sinistra che si indigna solo quando nelle maglie di questa “giustizia impazzita” finiscono Niki Vendola o Mimmo Lucano e rimane indifferente all’attacco reazionario contro un direttore del Dap come Carlo Renoldi, o Rita Bernardini o l’associazione Nessuno tocchi Caino. Una sinistra con questa visione distorta di se stessa e della realtà, è una sinistra già morta e sepolta. Fuori dalla storia da tempo. La polemica contro Renoldi e Nessuno tocchi Caino è stata sconsiderata al momento della nomina e risulta ancor più sconsiderata oggi, sulla base di menzogne costruite nel circo mediatico del giustizialismo nostrano, e finalizzate alla delegittimazione del capo del Dap. È utile ricordare le parole del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, recentemente scomparso, in difesa della nomina di Renoldi. “Il curriculum e le esperienze” del giudice Renoldi “lo rendono, a mio parere, molto adatto a ricoprire il ruolo di capo Dap. Il carcere - sottolinea ancora Onida - ha mille bisogni. Dentro il carcere, vive un’intera umanità: fatta di detenuti e agenti, di cui bisogna garantire la dignità. È un equivoco pensare che un carcere con più diritti sia meno sicuro, anche rispetto ai mafiosi. Per ogni detenuto, in base al suo reato, ci saranno poi accorgimenti particolari”. Una democrazia solida, per riformare il regime carcerario dovrebbe partire da una riflessione come questa e non dalle irresponsabili fatwa del circo mediatico giudiziario di questo scassato paese. “Avvocati e magistrati smettano di farsi la guerra. E lavorino insieme sulle sfide della giustizia” di Armando Spataro L’Espresso, 11 luglio 2022 La modernità impone nuovi problemi: tra algoritmi, intelligenze artificiali e tentazioni di giustizia “predittiva”. I professionisti dovrebbero pensare a un codice deontologico che guardi al domani e non al passato. In tempo di guerre e pandemie mondiali, sembra difficile discutere pacatamente di giustizia, specie dopo il fallimento del provocatorio referendum del 12 giugno. È anche vero, però, che proprio questo periodo di silenzio potrebbe favorire se non la pace, almeno la sospensione della “guerra dei trent’anni” tra avvocati (specie penalisti) e magistrati (specie pubblici ministeri). Naturalmente non è giusto generalizzare, perché si tratta di una “guerra” che non coinvolge affatto la maggior parte degli appartenenti ai due ruoli, ma ciononostante si manifestano troppo spesso ingiustificate diffidenze reciproche. Anche per questo un tentativo va fatto. La mia personale speranza è cresciuta dopo avere letto un recente libro, colto, originale ed utile, “L’avvocato nel futuro”, degli avvocati torinesi Fulvio Gianaria e Alberto Mittone. Ma qui non intendo recensirlo, né proporre riforme costituzionali o modifiche ai codici vigenti. Vorrei piuttosto trarne spunto per promuovere una riflessione comune di magistrati ed avvocati che, proiettata sul futuro, riguardo gli importanti temi trattati nel libro e che, scevra da sbarramenti e pregiudizi, possa dar vita a prassi condivise. Una strada forse in salita da percorrere insieme, riconoscendo che la giustizia non è l’avventura di un giorno! Vorrei provare ad elencare, allora, solo alcuni degli argomenti che potrebbero essere oggetto di una futura “Carta Comune della Giustizia”, in particolare quelli che la modernità dilagante ormai impone di considerare. Sia pure senza classifica di importanza, parto dalla ormai inaccettabile teatralità delle rappresentazioni processuali, fenomeno che viviamo ogni sera, grazie anche a magistrati ed ex magistrati, avvocati, esperti di accertamenti scientifici e sedicenti intellettuali. Sulla scena, cioè, vediamo tutti coloro che ormai provano a sfruttare talk show, conferenze stampa ed interviste a raffica solo per accrescere la propria visibilità. Dibattimenti e sentenze diventano secondari, mentre con toni assertivi e senza cedimenti al dubbio ed alla presunzione di innocenza, si evoca - non sempre indirettamente, la propria bravura a fini di autopromozione, nonostante codici etici dell’avvocatura e della magistratura lo vietino. Si può continuare ad essere silenti di fronte a queste prassi che nulla hanno a che fare con il diritto-dovere di informare? L’irrompere nella società di nuove scienze e tecniche di analisi (tra cui neuroscienze, matematica finanziaria ed altro), ha poi determinato rispetto al passato il crescere del peso nei processi della prova scientifica che diventa più importante di ogni altra, mentre consulenti ed esperti di parte diventano la bocca della verità. Nessuno può più ignorare questi scenari che influenzano anche la giurisprudenza della Cassazione e tutti devono imparare ad interloquire con questi nuovi saperi, tanto più se si esercitano mestieri che richiedono sempre più competenze e specializzazione, anche per effetto del cosiddetto panpenalismo, ovunque in costante crescita. Ma non mi pare accettabile che l’esito dei processi dipenda spesso dal dictum di periti e consulenti di parte, talvolta dagli opposti contenuti e che le aule di giustizia vengano dominate dalla tecnica, anziché dal diritto. E veniamo così all’impatto dell’intelligenza artificiale e delle moderne tecnologie nel mondo della giustizia e della sicurezza, un impatto tale da incidere sulla diffusione di controlli anche preventivi del territorio e delle persone, quasi vivessimo sorvegliati dal Dipartimento Precrimine nell’ America del 2054, descritta nel film Minority Report di Steven Spielberg. Nonostante sull’utilizzo della intelligenza artificiale siano intervenute risoluzioni del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, avanza un futuro preoccupante, quello caratterizzato dagli algoritmi che decidono: algoritmi e intelligenza artificiale (sui cui software incombe peraltro una inaccettabile segretezza industriale) possono certamente aiutare la raccolta oggettiva e storica dei dati, della giurisprudenza, degli atti per decidere, ma non possono servire per la previsione delle decisioni giudiziarie, neppure quanto all’entità delle pene. Bisogna opporsi con forza, dunque, alla giustizia predittiva, che pure viene usata in altri Paesi per stabilire se un sospettato sia un terrorista da incriminare, se sia pericoloso etc.. Nel libro di Gianaria e Mittone, si cita una decisione della Corte Suprema del Wisconsin fondata sul responso di un algoritmo per affermare il rischio di reiterazione di reati dello stesso tipo di quello per cui si procedeva contro un ladro. Ovviamente altra cosa sono i metodi moderni di indagine come l’uso dei trojan, o la raccolta dei dati sui contatti tra telefoni, sui loro spostamenti, che servono e che in Italia, contrariamente a quanto altrove previsto, devono essere autorizzati con provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ripeto: è la decisione che deve essere salvaguardata. Andando avanti, si sente spesso parlare dei sistemi informatici che sarebbero stati installati in tutti gli uffici giudiziari italiani per velocizzare la giustizia penale e civile e facilitare il mestiere dell’avvocato e del magistrato. Si tratta, però, di un’affermazione vera solo in parte, non solo per la mancanza persistente di strutture e di personale competente, ma anche perché i relativi software e programmi - elaborati da tecnici che spesso non conoscono la giustizia nelle sue articolazioni concrete e necessità quotidiane - si rivelano inadeguati, fino a determinare anche delocalizzazione dei servizi legali pubblici e nuove strutture degli studi degli avvocati. Tecnica e modernità finiscono così con il condizionare l’iter della giustizia, mentre dovrebbero essere solo strumenti per rendere più efficace e rapido ogni passaggio dei processi. Certamente è giusto affermare che occorre una corretta mediazione, senza pregiudizi, tra ciò che abbiamo alle spalle e la tecnologia informatica che avanza. Ma deve essere chiaro, come scrivono Gianaria e Mittone, che la tecnica deve rispettare il modello costituzionale e l’impianto normativo che si intende costruire e non viceversa. Ciò, aggiungo, anche rispetto allo svolgimento dei dibattimenti ordinari in cui - salvo il periodo di emergenza ancora in corso - non si potrà accettare l’assenza non volontaria dei protagonisti e la rinuncia alle prove orali in presenza. Penso che quelle sin qui sommariamente elencate e molte altre connesse, siano le problematiche pratiche che dovrebbero seriamente essere affrontate da avvocati e magistrati, abbandonando da un lato (quello degli avvocati) la inutile ed antistorica guerra sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, bocciata anche dal Parlamento Europeo, e dall’altro (quello dei magistrati) ingiustificate diffidenze nei confronti della classe forense. Ve lo immaginate un documento redatto dopo l’inizio di un simile leale confronto, una sorta di codice deontologico comune, che, recante in intestazione sigle e simboli dei rispettivi organi istituzionali e rappresentanze associative, indichi ad avvocati e magistrati le virtuose e condivise prassi cui conformarsi nel pur diverso loro lavoro quotidiano, proponendo altresì confronti stabili - e non solo in momenti emergenziali - con il ceto politico? È davvero un sogno ingenuo? Il futuro dei giovani avvocati e magistrati non sarà cupo se si riuscirà ad usare correttamente la modernità senza lasciarsene travolgere. E forse i cittadini, gradualmente, potrebbero tornare ad avere fiducia nella giustizia. Femminicidi, spesso i tecnici non sono abbastanza specializzati. Fabio Roia conferma di Bruno Contigiani* Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2022 La triste cadenza dei femminicidi, lo squadernare di cifre, di comparazioni e di statistiche rischiano di renderci in qualche modo insensibili e assuefatti a un fenomeno che espresso in numeri trasforma l’ennesima tragedia in un punto su di un arido diagramma. Sulle ordinate (y) il numero di donne violentate o uccise e sulle ascisse il Tempo (x), è evidente a questo punto il rischio dell’indifferenza e soprattutto un senso di impotenza di fronte a un fenomeno in crescita, che va di pari passo con la vittimizzazione secondaria delle donne nelle aule di giustizia, anche perché da più parti si sono evidenziati casi di scarsa specializzazione nell’apparato di giustizia su un tema così scottante. Di fronte alla non sufficiente specializzazione dei giudici, ma anche dell’avvocatura, delle forze di polizia giudiziaria, dei servizi sociali e di tutti gli attori che partecipano alla rete di protezione su questi specifici temi “non ci si può improvvisare, bisogna essere competenti e formati” sostiene Fabio Roia, magistrato dal 1986, presidente facente funzioni del tribunale di Milano, docente universitario, autore di Crimini contro le donne, politiche, leggi, buone pratiche, un libro in grado di ridare fiducia anche in un quadro a tinte molto fosche, che ho avuto la fortuna di incontrare, un punto di riferimento nella lotta alla violenza subita dalle donne. A questo proposito qualche cosa si è mosso e i più recenti dati del Consiglio Superiore della Magistratura ci dicono che nel 90% delle procure c’è almeno un Pm specializzato mentre per i giudicanti il dato si ferma al 24%, che non significa solo la conoscenza delle fonti del diritto nazionale, ma anche di quelle sovranazionali come la convenzione di Istanbul (che continua ad essere trascurata come ha denunciato anche in un recente rapporto l’Agenzia Dire), la direttiva sulle vittime del 2012, ma anche la conoscenza di scienze complementari. Per valutare la coerenza del racconto il giudice deve capire che la donna che subisce violenza è ferita nei sentimenti, con sensi di colpa e di vergogna e spesso sottomessa a pressioni esterne, e se non si conoscono a fondo queste caratteristiche sì rischia di sbagliare. Nel recente convegno #hodettono, che si è svolto a Udine, organizzato da Maddalena Bosio in collaborazione con il Sole24ore nella figura di Simona Rossitto, è emerso però che, se si sta ponendo rimedio all’eventuale impreparazione/specializzazione di alcuni giudici, resta il problema della scarsa competenza dei consulenti tecnici d’ufficio (spesso psicologi) figure che intervengono nel campo del diritto civile, problema al quale la riforma nota come Cartabia (entrata in vigore il 22 giugno di quest’anno) sta ponendo mano, in quanto dovranno aver maturato almeno tre anni nello studio della violenza domestica. A questo proposito Fabio Roia è ottimista, pensa che in prospettiva la scarsa preparazione delle CTU dovrebbe essere superata. Ad ogni buon conto il consulente tecnico è un ausiliario ed è il giudice, a cui spetta la decisione finale, che deve avere le competenze necessarie, e può richiedere degli approfondimenti ad altri specialisti o consentire un ruolo attivo del Pubblico Ministero. Un nodo che sembrava risolto, anche in seguito alle recenti esternazioni della consulta e del suo presidente Amato, riguarda il fatto che molti degli attori in campo siano ancora imbevuti di una cultura maschilista del sospetto nei confronti della donna offesa, e si tenda ancora a far prevalere il principio di genitorialità del padre, senza ascoltare i bambini, anche in casi di denuncia o di condanna del padre. Sebbene la Consulta si sia espressa chiaramente per assoluta non scientificità della sindrome da alienazione parentale (Pas) alcuni consulenti, nel caso di separazione con figli, tendono a colpevolizzare, ingiustamente la mamma al posto di chiedersi come mai un bambino non voglia stare con un padre violento, magari avendo assistito alla violenza. “Tendono a non credere alla donna, e questo può avvenire anche se i consulenti sono donne, non conta il genere, la competenza è il vero discrimine, e queste distorsioni possono essere raddrizzate solo con il rafforzamento delle competenze, la violenza assistita è comunque un reato reintrodotto anche dal Codice Rosso”, sottolinea il presidente Roia. Vivere con lentezza lavora da anni in varie carceri italiane, in particolare a Pavia e Piacenza (qui con i sex offender), da questo incontro abbiamo capito che dovremo fare molto di più, creando contaminazione, parlandone di più, magari organizzando un convegno in quel di Piacenza, dove l’esperienza di un carcere che sta raggiungendo livelli d’eccellenza in questo settore anche grazie ai rapporti consolidati con il Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), potrebbe essere di grande aiuto. Ma potremmo partire anche nel quotidiano, indipendentemente dal nostro ruolo, iniziando a gelare quelli che fanno quelle stupide battute per strada o al bar, per cominciare a contrastare a ogni occasione questa strisciante, odiosa, subdola e persistente violenza nei confronti delle donne, ancora una volta seguendo i consigli di Fabio Roia. *Scrittore e fondatore de L’Arte del vivere con lentezza Suo figlio ha ucciso in preda al crack: “Non andrò in carcere a trovarlo. Dovevo chiedere il Tso” di Irene Famà La Stampa, 11 luglio 2022 “Non lo perdono, non pensavo potesse uccidere”. “È mio figlio, ma non lo perdono. Un gesto del genere non è accettabile da nessuno”. Simona Buonanoce è una donna coraggiosa, dalla vita sfortunata. Un ex marito in cella e un figlio assassino. Una madre come fa i conti con un figlio che ruba, rapina e ora uccide? “Non lo so, mi creda. Ho cresciuto cinque ragazzi da sola. Ho fatto del mio meglio, a Francesco ho provato a dare delle regole. Nelle ultime settimane ho anche creduto che stesse migliorando”. Come mai? “Andava a lavorare con il mio compagno come facchino. Non usciva nemmeno più la sera e io mi stupivo. Pensavo: “Guarda che bravo. Sta a casa perché sa che l’indomani deve alzarsi presto”. Ero tranquilla. È per questo che sono andata via e ieri ero fuori Torino. Se avessi immaginato una cosa del genere, non l’avrei mai lasciato solo. So che si è detto pentito”. Non gli crede? “Secondo me non si è nemmeno accorto di ciò che ha fatto. E da madre ora non so nemmeno io cosa devo fare”. Francesco ha detto di essersi rovinato la vita. “Il problema è che non ha rovinato solo la sua, ma anche la nostra. Sapevo che prima o poi avrebbe fatto una sciocchezza, ma non lo credevo capace di uccidere. Più volte ho chiamato le forze dell’ordine”. Perché? Era violento? “No, violento non lo è mai stato. Rubava e io speravo che lo arrestassero, per il suo bene. Ho anche pensato di chiedere un Tso, ma tutti mi dicevano che così l’avrei rovinato. Forse sarebbe stata la cosa giusta, ma in questi casi nessuno fornisce un manuale di istruzioni”. Sapeva che faceva uso di droga? “Credevo si facesse qualche canna, di certo non pensavo al crack. Sapevo che spesso faceva sciocchezze visto che mi ritrovavo le persone sotto a casa a minacciarmi”. A minacciare lei? “Sì. Lui andava a rubare in giro, il quartiere è piccolo e la gente veniva fuori dalla porte a minacciare me e gli altri miei figli. Dopo che ha rubato un motorino, l’ho cacciato di casa. Si comportava male e certe cose non le accetto”. Poi l’ha ripreso con sé. “Cosa avrei dovuto fare? Gli ho sempre offerto il mio aiuto. Da piccolo non era così. Andava male a scuola e spesso non ci andava proprio, è vero. Ma nulla di troppo grave. Poi è cambiato. Ha seguito l’esempio del padre”. Ovvero? “Il mio ex marito è in carcere praticamente da sempre per rapina. Anche lui fa uso di stupefacenti. L’ho lasciato per questo, di certo non sono andata via con cinque bambini per divertimento. E Francesco è cresciuto uguale. Sono stata sfortunata, ma ho cercato di riprendere in mano la mia vita”. E ora? “Devo ricominciare da capo. Ho dovuto spiegare agli altri miei figli cos’è successo. Sanno tutto e siamo sotto choc”. Francesco ha chiesto perdono. “Come si può perdonare una persona del genere? Sono la prima che prova rabbia quando sento notizie di ragazzi che ammazzano altri ragazzi fuori dalla discoteca. Che penso al dolore che provano le madri delle vittime”. E questa volta che il colpevole è suo figlio? “Non cambia nulla. Sarà anche mio figlio, ma si rende conto di cosa ha fatto? Ha ucciso un uomo per un pacchetto di sigarette”. Andrà a trovarlo in carcere? “Non ci penso proprio”. Reati stradali e tenuità, da valutare danni e colpa di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2022 È illegittima la concessione della non punibilità per particolare tenuità del fatto - disciplinata dall’articolo 131 - bis del Codice penale - in favore di chi si sia reso responsabile di lesioni stradali gravi, se la sentenza non fa alcun riferimento all’entità del danno causato alla persona offesa, al grado della colpa e al pericolo derivato dalla condotta rispetto alla sicurezza della circolazione stradale, valorizzando invece solo comportamenti successivi al reato, come la confessione e la sollecita definizione del risarcimento del danno. Lo ha stabilito la sentenza 20038/22 della Cassazione, depositata lo scorso 23 maggio. La pronuncia ha annullato la sentenza della Corte d’appello che aveva concesso il beneficio al conducente di un’auto che aveva provocato un incidente stradale, coinvolgendo altri quattro veicoli e causando alla persona che aveva riportato lesioni più severe una malattia durata, in concreto, oltre 90 giorni. La decisione si pone in un solco giurisprudenziale che ha definito con chiarezza i confini dell’applicabilità della particolare tenuità del fatto ai reati stradali. L’istituto La particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, introdotto dal decreto legislativo 28/2015, esclude la punibilità dell’autore di reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con pena pecuniaria, sola o congiunta a quella detentiva. I presupposti della particolare tenuità sono l’esiguità del danno o del pericolo; il comportamento deve inoltre risultare non abituale. La peculiarità è che non estingue il reato, ma lo rende non punibile: tanto è che il beneficio non può essere applicato retroattivamente e i provvedimenti, anche di archiviazione (sentenza 38954/2019), che lo riconoscono risultano iscritti per dieci anni nel casellario a uso del circuito giudiziario. Pertanto, la Cassazione ha chiarito che il proscioglimento per prescrizione del reato, o remissione di querela, sono formule più favorevoli dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: i primi cancellano il reato, mentre la seconda lascia inalterato l’illecito penale (sentenza 43700/2021). Per questo, la Cassazione ha stabilito che la concessione della non punibilità non esclude l’irrogazione delle sanzioni amministrative accessorie previste dal Codice della strada, che vengono comminate dal Prefetto dopo che il giudice penale abbia applicato il beneficio (sentenza 13681/2016). Per i loro limiti edittali, quasi tutt’i reati stradali - non solo contravvenzionali, ma anche contro la persona - possono rientrare nel beneficio. Ciò anche perché, ai fini della determinazione della pena per cui può scattare la non punibilità, si computano le circostanze a effetto speciale, tra le quali rientra il concorso di cause, cioè un’attenuante speciale introdotta dalla legge 41/2016 sull’omicidio stradale, che diminuisce la pena fino alla metà per incidenti con morti o feriti. Sulla carta, rimane perciò fuori dall’applicabilità dell’articolo 131-bis solo l’omicidio stradale aggravato. Tuttavia, la giurisprudenza ha ristretto in modo significativo il campo d’azione della norma, circoscrivendone l’operatività ai casi in Sui l’offesa sia oggettivamente esigua e la condotta di guida dell’autore del reato sia riconducibile a banali disattenzioni, sintomatiche di colpa lieve. In questo contesto, la Cassazione ha in genere escluso la rilevanza delle condotte seguenti all’incidente stradale, spiegando come la legge stabilisca che la valutazione del giudice deve concentrarsi sulle modalità della condotta, sul grado della colpevolezza da esse desumibile e sull’entità del danno o del pericolo (sentenza 660/2019). Pertanto, solo le lesioni di poco superiori a 4o giorni di prognosi sono state in concreto ritenute idonee per la concessione della non punibilità, sempre se accompagnate dal risarcimento integrale del danno e da condotte di guida non pericolose, ma frutto di occasionali, e banali, disattenzioni. Viceversa, è stato ritenuto legittimo il diniego del beneficio per la mancata copertura assicurativa del veicolo, visto che diminuisce la possibilità di un rapido risarcimento della vittima (sentenza 10481/2022). Lombardia. Il tasso di affollamento delle carceri è del 130% Roberto Canali Il Giorno, 11 luglio 2022 La Lombardia è all’avanguardia per tante cose ma non per gli istituti penitenziari, sottodimensionati per una Regione che conta 10 milioni di abitanti. A dirlo è lo stesso ministero della Giustizia nelle statistiche che fotografano lo stato delle carceri italiane. A fine maggio nel nostro Paese la popolazione carceraria era di 55mila detenuti a fronte di 51mila posti, quindi con un tasso di affollamento del 108%. In Lombardia la situazione è nettamente peggiore e il tasso di affollamento sale al 130%. Se tutti e 18 i penitenziari delle province lombarde stanno male, c’è anche chi sta peggio. A Lodi a fronte di 45 posti i detenuti sono 75, con un tasso di occupazione del 172%; a Canton Mombello di Brescia 170% (316 detenuti per 189 posti); 170% anche a Busto Arsizio (401 su 240 posti); appena un po’ meno a Como (160%: 372 detenuti invece dei 240 previsti) e a Monza con il suo 150% (621 ospiti per 411 posti). Anche a Bollate, per anni considerato un esempio per la sperimentazione dei percorsi di recupero dei detenuti attraverso il lavoro e lo studio, il sovraffollamento rappresenta da anni un grosso problema. Firenze. Cento detenuti in più a Sollicciano. Ma gli educatori sono la metà di Stefano Brogioni La Nazione, 11 luglio 2022 Sovraffollamento in carcere: la maggioranza è straniera. Il personale è costantemente sotto organico. Le denunce nella relazione del garante Fanfani: “In carcere chi non entra pazzo, lo diventa”. Delle quasi 600 persone che - al 31 dicembre scorso - erano detenute nel carcere di Sollicciano, 395 sono stranieri. II penitenziario non potrebbe contenere più di 491 detenuti (in modo da garantire tre metri quadrati per ogni detenuto, stando ai numeri pubblicati dal garante Giuseppe Fanfani, nella sua relazione del 2022), e il sovraffollamento cronico innesca una serie di altre problematiche. Il suicidio del poliziotto, in custodia cautelare per l’episodio avvenuto alle Cascine del maggio scorso, accende i riflettori, ad esempio, su quelli che la stessa relazione chiama “eventi critici”. Nei dodici mesi dell’anno scorso, a Sollicciano hanno provato a togliersi la vita 47 persone. “Io spesso dico in maniera forse iperbolica, o forse no, che in carcere chi non vi entra pazzo vi diventa”, scrive il Garante Fanfani. Un problema, spesso, è intercettare il disagio. Sono sufficienti cinque educatori, laddove ne sarebbero previsti nove, per coprire l’intera popolazione carceraria? Bastano 487 agenti quando dovrebbero essercene più di 560? E quanto gli psicologi previsti contro il rischio-suicidi dalla Relazione emerge che vengono chiamati tramite il comune in caso di necessità. Dal primo gennaio scorso, il dipartimento di Scienze Giuridiche sta conducendo una ricerca sull’ampio tema della tutela della salute mentale delle persone private della libertà personale. “Questo ambito di ricerca, prescelto per la particolare attualità e rilevanza del tema, si articola in tre aree - spiega Fanfani -, tra cui anche quella della tutela della salute mentale in carcere, di particolare rilievo oggi, dopo due anni di pandemia che hanno visto la popolazione penitenziaria particolarmente sacrificata dalle doverose misure di contenimento del contagio (minori attività, periodi di totale assenza di figure esterne, difficoltà nei colloqui con familiari e persone della cerchia degli affetti). Sullo specifico tema della salute mentale in carcere, la ricerca si pone l’obiettivo di offrire un quadro delle modalità attraverso cui viene garantito il diritto alla salute mentale delle persone detenute in Toscana, evidenziando criticità e punti di forza del modello. Partendo da una definizione ampia di salute mentale, si cercheranno di individuare le connessioni tra mandato psichiatrico e mandato custodiale e disciplinare nelle relazioni terapeutiche all’interno di un’istituzione chiusa, come quella penitenziaria”. La relazione, ospita anche il punto del garante comunale Eros Cruccolini. Nel capitolo della salute mentale, Cruccolini fa sapere di aver “evidenziato la necessità di incrementare il numero di educatori psichiatrici per poter seguire i detenuti, non solo dal punto di vista farmacologico, ma anche promovendo gruppi di persone competenti, che possano coinvolgerle in attività, per impegnare parte del tempo detentivo, che altrimenti sarebbe vissuto nelle camere di pernottamento”. Firenze. L’allarme del Sindaco: “Il carcere non può essere un luogo estraneo alla città” di Stefano Brogioni La Nazione, 11 luglio 2022 Nardella: “Dobbiamo fare il massimo per il reinserimento sociale dei detenuti a fine pena”. “Visitare un carcere è un dovere per un ministro, perché in una visita ho potuto rendermi conto di quello che già sapevo, ovvero che questo è un istituto che ha tante criticità a partire dalla struttura, dai locali, per continuare con le condizioni generali che portano a situazioni di aggressioni alle forze di polizia, che sono gravi e difficili da gestire, difficoltà di vigilanza ma anche condizioni che mettono i detenuti in situazioni tali da praticare più che in altre carceri forme di autolesionismo o tentativi di suicidio”. Queste le parole di Marta Cartabia, ministra della giustizia, dopo la visita a Sollicciano nel gennaio scorso. A invitare la ministra era stato il sindaco Dario Nardella. “L’ho già detto molte volte - disse allora il primo cittadino - è fondamentale per la nostra città che Sollicciano non sia vissuto come un luogo estraneo alla vita della città, che si possa fare il massimo dell’investimento possibile sul reinserimento sociale dei detenuti perché possano uscire migliori, proprio per evitare che i livelli di recidiva siano alti a scapito di tutta la comunità”. All’epoca il carcere di Sollicciano risultava anche particolarmente sovraffollato e con gravi carenze di personale. “Servono interventi strutturali per garantire dignitose condizioni di lavoro agli agenti e una detenzione che punti al reinserimento nella società. Chiediamo che possa diventare un vero luogo di riabilitazione, non di abbandono e solitudine. Il carcere non è una discarica, è un pezzo della città e del nostro Stato, ci riguarda tutti, è ora di intervenire”. Firenze. “Sul carcere solo discorsi. Ora si deve fare” di Stefano Brogioni La Nazione, 11 luglio 2022 Lo sfogo di don Vincenzo Russo, il cappellano del penitenziario: “La situazione è disumana, i detenuti hanno bisogno di attenzione”. Dalla relazione del garante toscano dei detenuti, Giuseppe Fanfani, emerge che in un anno ci sono stati oltre mille episodi di autolesionismo. Uno di questi, venerdì pomeriggio, è diventato l’ennesimo suicidio. “Ho avuto modo di incontrare questo poliziotto. Era chiuso, ha parlato poco e non ha espresso il suo dolore e per esperienza quando qualcuno parla poco di sé, sta maturando qualcosa. Forse anche io dovevo azzardare, essere più entrante”. Don Vincenzo Russo è il cappellano del carcere di Sollicciano e l’ultimo suicidio in cella gli ha tolto ogni freno. E si sfoga, consapevole che quando parla “disturbo sempre qualcuno”. “Non possiamo più tacere, bisogna denunciare la condizioni del carcere. Basta discorsi, sono vent’anni che sento di discorsi e di progetti e sono vent’anni che vedo persone che si tolgono la vita. Il progetto è oggi, bisogna uscire dal mondo delle chiacchiere e dare vero sostegno”. Ma non si poteva percepire ugualmente qualche segnale delle sue difficoltà? “Mi dicono che avesse scritto qualcosa, sicuramente aveva bisogno di attenzione come ce n’hanno bisogno tutte le persone che sono lì dentro, indipendentemente dal reato. Ma in carcere la situazione è disumana, c’è abbandono. Gli educatori sono pochi, quattro per 500, 600 persone. Intercettare il disagio è difficile. C’è una componente personale ma anche ambientale che non tutti riescono ad affrontare. Lui poi non era una persona cresciuta in un ambiente delinquenziale, anzi. Ma Sollicciano è un inferno e lì dentro le cose si amplificano. E crolla tutto addosso”. Le risulta che fosse in cella da solo? “Non so. Ma sempre per esperienza dico che quando uno matura quella decisione, riesce sempre a metterla in pratica. Un altro detenuto era in cella con un compagno. Attese che l’altro uscisse per l’ora d’aria, e lo fece”. Il suicidio è avvenuto nello stesso giorno in cui a Sollicciano c’era un convegno, con presenti autorità del mondo carcerario e della politica... “Sì, c’ero anche io. Un convegno anche interessante, dedicato a un magistrato di altissimo spessore come Margara. Ma proprio Margara non avrebbe lasciato spazio alle chiacchiere, ma avrebbe agito con concretezza. Invece mentre si stava facendo questa discussione, in cui sembra che vada sempre tutto bene, a pochi metri un detenuto stava lavorando alla fine della sua vita”. Il detenuto aveva chiesto il trasferimento al carcere militare: lì forse avrebbe trovato una situazione più consona? “Anche queste cose devono essere fatte subito. Non si può burocratizzare la vita di una persona. Siamo schiavi della lentezza della giustizia e degli uffici, poi succedono queste cose catastrofiche”. Asti. Autorizzato l’acquisto (a carico dei detenuti) di ventilatori per le celle lavocediasti.it, 11 luglio 2022 Dopo tre anni di dinieghi, l’Amministrazione penitenziaria ha dato il via libera all’acquisto, a carico degli stessi detenuti, di alcuni ventilatori da destinate alle celle del carcere di Asti. Lo ha comunicato la Garante dei detenuti Paola Ferlauto, rimarcando l’importanza della cosa in relazione alla struttura dell’istituto di pena e alle condizioni di salute di alcuni detenuti. “La sezione del carcere è un lungo corridoio con le stanze poste su un solo lato - ha spiegato - quindi quando fa caldo non si crea corrente d’aria anche se i detenuti aprono le finestre”. “Inoltre - ha proseguito - il tetto della struttura non ha tegole, quindi chi si trova all’ultimo piano soffre in modo particolare il caldo”. Per quanto concerne invece gli aspetti correlati la salute, ha spiegato la Garante: “Essendo un carcere di massima sicurezza, ospita diversi detenuti non più giovanissimi e con gravi patologie cardiache”. “Pertanto - ha concluso - ringrazio di cuore il capo del dipartimento e l’Amministrazione penitenziaria per la decisione e per aver fatto acquistare i ventilatori in tempi brevi”. Ivrea (To). Doppio appuntamento sulla vita carceraria, Colombo presenta il suo libro di Andrea Scutellà La Sentinella, 11 luglio 2022 Lunedì 11, alle 21.30, nel Cortile del Museo Garda, proiezione di Ariaferma, film di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo e Silvio Orlando. Martedì incontro pubblico con Gherardo Colombo. Due sono gli appuntamenti dedicati al tema della realtà carceraria proposti in questo inizio settimana dalla rassegna Ivreaestate. A partire da lunedì 11, alle 21.30, nel Cortile del Museo Garda, dalla proiezione di Ariaferma, film di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo e Silvio Orlando, ambientato in un vecchio carcere ottocentesco in dismissione dove, per problemi burocratici, i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti con pochi agenti rimangono in attesa di nuove destinazioni in un’atmosfera sospesa. “Non un film sulle condizioni delle carceri italiane - sottolinea il regista - forse, sull’assurdità del carcere”. Un tema che sarà ripreso martedì 12, alle 18, allo Zac, nell’incontro pubblico con Gherardo Colombo, autore de Il perdono responsabile, edito da Ponte alle Grazie, che converserà con alcuni redattori del giornale dal carcere, La Fenice, e Olivia Realis Luc. “L’argomento -ricorda Simonetta Valenti, presidente dell’associazione culturale Rosse Torri che organizza Ivreaestate- è di strettissima attualità e merita un’attenzione particolare, non solo perché i problemi legati alla realtà carceraria sono tanti e si trascinano da troppo tempo, ma anche perché il taglio dell’incontro vuole andare a parare anche nel recupero e in un’integrazione possibile”. Originario della provincia di Monza-Brianza, classe 1946, Colombo, per oltre trent’anni magistrato, dal 2007 si dedica alla riflessione pubblica sulla giustizia attraverso l’associazione Sulle regole. “Nel suo libro - spiegano le note di presentazione diffuse dall’editore - indaga le basi di un nuovo concetto e di nuove pratiche di giustizia, la cosiddetta giustizia riparativa, che lentamente emergono dagli ordinamenti internazionali e nel nostro. Pratiche che non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma incoraggiano un sostanziale rinnovamento nel tessuto profondo della nostra società: riguardano l’essenza stessa della convivenza civile”. E rimarcano: “La gran parte dei condannati a pene carcerarie torna a delinquere; la maggior parte di essi non viene riabilitata ma semplicemente repressa, e privata di elementari diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale, così come ne vengono privati i loro cari; la condizione carceraria, per il sovraffollamento, la violenza fisica e psicologica, è di una durezza inconcepibile per chi non la viva, e questa durezza incoraggia tutt’altre tendenze che il desiderio di riabilitarsi”. L’inferno di prossimità delle carceri italiane di Giovanni Iozzoli ilmanifestoinrete.it, 11 luglio 2022 “Morti in una città silente”, di Sara Manzoli, Sensibili alle foglie, 2022, pp. 120, € 15,00. Se qualcuno, solo 3 anni fa, avesse previsto un ciclo di rivolte nelle carceri italiane, sezioni distrutte o incendiate, 13 morti, decine di agenti sotto processo per tortura e centinaia di detenuti per “devastazione”, ebbene quel qualcuno sarebbe passato per visionario o allarmista paranoico. Questo, non perché il sistema dell’esecuzione penale in Italia fosse stato negli anni umanizzato, bonificato o riformato: ma solo perché il carcere era stato espunto dall’agenda politica, dal dibattito pubblico e dall’attenzione mediatica, diventando uno di quei rimossi ingombranti e pericolosi attraverso cui le società liberali costruiscono la narrazione di se stesse. Del resto, chi si occupa normalmente di discariche? Solo quando si intasano o vanno a fuoco, mettendo in discussione il ciclo della raccolta e smaltimento, qualcuno si pone il problema della gestione del rifiuto: finché la discarica funziona, lontano da occhi indiscreti, nessuno se ne preoccupa più di tanto. Le discariche nascondono al nostro sguardo lo scarto della vita sociale: dei loro siti maleodoranti, meno si vede meglio è. Sara Manzoli, dopo aver scritto di sfruttamento del lavoro domestico e della crisi del sistema socio-psichiatrico, affronta il tema di un altro “inferno di prossimità” insospettabilmente vicino eppure pervicacemente rimosso: il sistema carcerario italiano e soprattutto l’esplosione che lo ha coinvolto, in quella primavera del 2020, che ha segnato un punto di non ritorno nella storia della governance delle emergenze in Italia e in Europa. L’autrice si concentra sulla vicenda della Casa Circondariale di Modena, quella che ha fatto registrare gli esiti più pesanti e tragici. Sant’Anna, anche prima del Covid, era una fedele rappresentazione del malessere strutturale del carcere italiano: a un passo dal centro cittadino, eppure totalmente sradicato dal suo contesto sociale; ordinariamente sovraffollato da una popolazione prevalentemente straniera e tossicodipendente; una piccola polveriera di provincia di cui tutti fingevano di ignorare la inumana pericolosità - tranne gli ineffabili sindacati della destra secondina, che chiedevano, ottenendola, nel tempo, una avocazione del potere di gestione interna, sempre più sbilanciato verso la componente in divisa. Manzoli ricostruisce i giorni folli del primo lockdown, quando il panico e le misure di emergenza che stanno impattando sulla società, si rovesciano sul malandato circuito penitenziario, trasformando gli istituti italiani in altrettanti campi minati. Se fuori dal carcere l’ansia e le restrizioni crescono progressivamente - in carcere il clima ansiogeno travolge immediatamente ogni precarissimo equilibrio. I contatti con l’esterno, le visite dei congiunti, l’arrivo dei pacchi, la socialità interna: tutto viene sospeso per via amministrativa. Centinaia di detenuti afflitti da dipendenze mal gestite, da problemi psichiatrici irrisolti, dalla voglia di ribellarsi ad un sistema oppressivo e irrazionale, dalla paura del contagio per chi condivide cameroni sovraffollati (mentre si invoca a reti unificate il distanziamento sociale), esplodono in mille atti di insubordinazione. La febbre si trasmette da un istituto all’altro, da Sud a Nord, in alcuni casi rientra rapidamente senza danni, in altri lasciando dietro di sé una scia di cadaveri e incendi. In quei giorni tanti amanti della dietrologia che affollavano talk show e rilasciavano interviste circa l’origine e le finalità delle rivolte: dalla regia ‘ndranghetistica ai sodalizi anarco-mafiosi, con l’intento in ogni caso di “fare uscire i boss”. Questi teoremi verranno poi smontati. Le rivolte dei detenuti sono state spontanee, dettate dalla rabbia e dalla paura. Rabbia per essere stati esclusi dalle precauzioni che il governo stava predisponendo per la società libera; paura per questo nemico invisibile che stava terrorizzando il mondo intero. Le narrazioni arrivate in quei giorni da centinaia di familiari, e successivamente dai detenuti, alcune delle quali confluite in diversi esposti (su Milano Opera, Pavia, Voghera, Foggia, Melfi, Rieti, Bologna, Alessandria), parlavano di un medesimo modus operandi da parte delle forze dell’ordine intervenute nelle diverse carceri. E testimoniano di reparti speciali intervenuti non solo per sedare le rivolte ma anche per dare una “lezione” ai rivoltosi (pag. 9). Qualcuno mette in discussione l’uso della categoria della “rivolta” - per descrivere gli episodi di quella primavera tragica: troppa la sproporzione nel rapporto di forza tra “rivoltosi” e apparati. Per capirci: nel 1974 si contarono circa un centinaio di sommosse nei penitenziari italiani, con morti, sparatorie e prese di ostaggi; ma si trattava di azioni spesso coordinate da organizzazioni che agivano “dentro e fuori le mura”, all’interno di strategie, metodi e dentro un certo clima della società italiana di quegli anni. Niente di paragonabile all’oggi. Nel marzo del 2020 queste jaquerie carcerarie, più che il segno della “rivolta”, assumono quello della disperazione; sono più urla di dolore, che di resistenza; puntano agli armadietti dei medicinali non al controllo delle carceri; i detenuti non prendono ostaggi, non fanno male a nessuno se non a se stessi e ai pollai in cui sono stivati. Protagonisti sono ragazzi giovani, in qualche caso alla prima condanna, quasi tutti molto vicini al fine pena. Solo l’insopportabilità quotidiana della propria condizione, può spiegare la loro scelta. La deflagrazione di Modena lascia sul terreno 9 morti, una parte importante dell’Istituto incendiata, centinaia di detenuti trasferiti in condizioni inumane e molte testimonianze circa la consueta rappresaglia indiscriminata operata dalla Polizia penitenziaria, su cui la Procura ha aperto una inchiesta. L’autrice racconta delle ore concitate, dopo le prime notizie che cominciavano a trapelare; racconta del filo di fumo nero ben visibile da tutta la città; del pellegrinaggio dei parenti allibiti davanti ai cancelli di Sant’Anna, ignari della sorte dei propri cari; di mogli e genitori di alcuni dei morti che saranno avvisati dagli avvocati, giorni dopo il decesso. Racconta di istituzioni pronte cinicamente a tacitare lo scandalo di una strage senza precedenti. Racconta di una versione - suicidio per overdose di metadone - che è già pronta e confezionata mentre la rivolta è ancora in corso e non si sa neanche quante siano le vittime. Uno scenario sudamericano calato nella placida cittadina padana, resa ancora più silente dalle regole del lockdown. A Sant’Anna per almeno 48 ore saltano tutte le leggi della Repubblica: l’Istituto vive uno stato di guerra non dichiarata e si sottrae ad ogni regola di garanzia a tutela della vita, della salute e dei diritti delle persone detenute. Dodici delle tredici vittime (in tutta Italia) erano migranti, e anche questo lo avevamo presagito da subito di fronte al silenzio “istituzionale” sull’identità dei detenuti morti. Casualità? No! Sistema. E non si può continuare a ignorare la componente strutturale del razzismo in buona parte delle forze dell’ordine. Come non si può continuare a ignorare il carattere razzista e classista del carcere e del sistema penale in sé. Come non si può credere alle mele marce né, tanto meno, alle “morti per metadone”. Il medico che constatò il decesso dei detenuti di Modena notò che uno dei morti era in mutande mentre all’esame autoptico venne presentato rivestito e con le tasche piene di farmaci (pag. 12). A Modena, l’8 marzo del 2020, cade la maschera del carcere “casa di vetro”, con le sue retoriche piene di buone intenzioni e pessime pratiche. Anche San Vittore o Poggioreale, faranno registrare insubordinazioni e proteste, ma è nel “piccolo” istituto di provincia che succedono le cose più gravi. Così come nel micro contesto modenese, risulterà da subito difficile fare chiarezza sulla ricostruzione di cause e condizioni degli eventi. Il “sistema Modena”, un misto di repressione, omertà e conformismo istituzionale e mediatico, si chiude a riccio, a garanzia del suo ordine istituzionale e simbolico. Un incubo che solo a Modena spezzerà la vita di nove persone: Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Rouan Abdellah, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti e Salvatore Cuono Piscitelli, le quali, a posteriori, non meriteranno nemmeno la fatica di vedere aperto un processo sulla loro morte. Come insegna la storia di questo Paese, lo Stato si autoassolve. Sempre. Il loro status di detenuti che si sono ribellati non merita troppi approfondimenti investigativi e pochi spazi devono essere lasciati ai dubbi. In fin dei conti, a distanza di poco più di un anno dall’8 marzo la conclusione alla quale era giunta la Procura di Modena nella sua richiesta d’archiviazione coincideva pressoché esattamente con le ipotesi fatte circolare fin dalle prime ore di quella tragica giornata e cioè che i detenuti morti durante la rivolta fossero morti, tutti, per overdose di metadone. Morti che andavano cancellate in fretta e furia nel tentativo di purificare l’immagine di una città e di istituzioni ormai molto lontane dall’orizzonte democratico professato (pag. 16). Sara Manzoli ricostruisce bene il clima che si respira in città nei giorni successivi a quella carneficina. Lo conosce perché lo ha attraversato da attivista, dentro il Comitato Verità e Giustizia per la Strage di Sant’Anna: organismo che fin dalla denominazione rivendica con forza lo stragismo di Stato come cifra di quelle morti, al di là delle autopsie e delle versioni ufficiali. Il clima, dicevamo, della “piccola città” è solo apparentemente condizionato dai lockdown. Entra all’opera piuttosto un riflesso condizionato di rimozione dei traumi, delle brutture, delle zone d’ombra, che le piccole comunità sanno mettere in atto con efficace discrezione, compattandosi e allontanando da sé l’ombra del “male”. Il carcere di Sant’Anna viene semplicemente considerato un corpo estraneo, alieno, una escrescenza artificiale in una città sana; tutto quello che accade dietro quelle mura non riguarda i cittadini, non riguarda la società civile - le istituzioni, i partiti, i sindacati, gli ordini professionali, l’associazionismo. gli intellettuali e il mondo accademico, con i suoi patetici festival filosofici. La strage viene derubricata a incidente, una parentesi sfortunata da rimuovere dal calendario civico. Bene ha fatto l’autrice a rimarcare, fin dal titolo, lo scandalo della “città silente”: perché la discarica sociale di Sant’Anna è sempre stata parte integrante del sistema di governo della polis, dei suoi codici di comando, dei suoi strumenti di disciplinamento sociale. È ipocrita e rassicurante, la narrazione di chi sostiene il contrario. Il libro è denso e si legge d’un fiato. Nelle sue pagine troviamo la Spoon River dei morti di Sant’Anna, sottratti all’anonimato da tastiera e restituiti alle loro biografie spezzate; si rende conto del materiale di controinchiesta che organismi, avvocati e giornalisti coraggiosi, hanno saputo accumulare segnalando le criticità della versione ufficiale. Un campionario di fatti e circostanze di cui sulla stampa mainstream si è potuto leggere solo frammenti o stralci. Raccogliere tutto e operare una sintesi coerente e fruibile da chiunque, è il merito principale di questo sforzo editoriale. Il volume di Sara Manzoli è un contributo importante per provare a tenere alta la bandiera della verità: non quella giudiziaria - che probabilmente è già chiusa (ma quando mai in Italia la giustizia arriva dalle aule dei Tribunali?); quanto piuttosto il perseguimento di un’altra verità possibile, di una partita ancora più cruciale, quella della memoria. Questo libro vuole spingere la comunità dei “silenti” ad assumersi le proprie responsabilità storiche, a togliere dall’oblio quelle nove vittime, a onorarne il ricordo e assumerlo come elemento della vita cittadina in uno dei suoi snodi più drammatici. Sensibili alle foglie - la casa editrice che più di ogni altro in questi anni ha posto il carcere al centro della sua produzione saggistica e letteraria - continua a raccontare il perturbante, “gli indicibili sociali” (che è anche il titolo della collana che ospita questo volume): nella speranza che la storia rimossa, sepolta, imprigionata, diventi finalmente storia e memoria collettiva, sapere alternativo e condiviso. Non sarebbe male, come esercizio di educazione civica, se qualche insegnante coraggioso proponesse la lettura di questo libro ai suoi studenti: studiare la Costituzione repubblicana a partire dalle galere, il luogo di massima violazione del suo spirito e della sua lettera. L’Italia povera dell’Istat e la sfiducia dei cittadini di Chiara Saraceno La Stampa, 11 luglio 2022 Tra i molti e interessanti dati che emergono dal quinto round dell’indagine dell’Istituto sulle condizioni di vita e lavoro in Europa di Dublino su “vivere, lavorare e Covid 19” due mi sembrano particolarmente preoccupanti. Il primo è la netta diminuzione della fiducia dei cittadini europei nei loro governi, nella polizia e nei media. Anche la fiducia nell’Unione europea, che, probabilmente a seguito delle nuove iniziative di solidarietà come il Next Generation Fund, nel 2021 aveva conosciuto un aumento nei Paesi che partivano dai livelli più bassi - Romania, Spagna, Italia, Grecia - è di nuovo diminuita nel 2022. Tradizionalmente la fiducia nelle istituzioni è più bassa tra le persone che hanno difficoltà economiche e faticano ad arrivare a fine mese e questo dato è confermato anche da questa indagine, che tuttavia mostra anche che il calo complessivo della fiducia riguarda principalmente chi non si trova in difficoltà. Il divario tra ceti sociali nella fiducia nelle istituzioni si riduce perché si allarga l’area della sfiducia: un dato tanto più preoccupante se si pensa che questa perdita di fiducia è avvenuto in un periodo (la primavera) in cui le economie stavano riprendendo e non erano ancora del tutto dispiegati gli effetti dell’aumento dell’inflazione, dei costi energetici e della guerra russo-ucraina. Anche se già allora in media più di un quarto degli intervistati europei dichiarava di avere difficoltà ad arrivare a fine mese e di essere in ritardo con il pagamento delle bollette e quasi la metà di costoro (45%) riteneva che non sarebbe riuscito a pagarle nei tre mesi successivi. L’Italia, con un 25% di intervistati che è indietro nei pagamenti e un 30% che ritiene che le cose peggioreranno è uno dei Paesi in cui emergono le maggiori criticità su questo fronte, anche se in minor misura della Bulgaria, di Cipro e, soprattutto della Grecia. In quest’ultimo Paese il 50% degli intervistati ha dichiarato di essere indietro con i pagamenti e il 58% di temere di non farcela nei mesi successivi. Alla perdita, o mancanza, di fiducia nelle istituzioni non contribuisce tuttavia solo la sensazione di vivere nell’incertezza. Contribuisce anche il diffondersi dell’abitudine di utilizzare i social come fonte prevalente, quando non esclusiva, di informazioni. L’indagine, infatti, mostra che la fiducia nelle istituzioni è molto più bassa tra chi utilizza solo o prevalentemente i social rispetto a chi usa gli strumenti tradizionali: rispettivamente 3 e 4,2 su una scala da 1 a 10. Non sorprendentemente, inoltre, la fiducia nelle istituzioni è molto bassa anche tra chi è contrario o comunque ambivalente rispetto ai vaccini, anche se in questo caso ci si potrebbe chiedere quale sia la causa e quale l’effetto. Inoltre, nonostante l’ambivalenza o contrarietà ai vaccini sia un fenomeno complesso, vi è anche un nesso con le fonti di informazioni cui ci si affida. Dall’indagine emerge che sono più ambivalenti, quando non ostili, ai vaccini coloro che si affidano prevalentemente o esclusivamente ai social. Invece di limitarsi a condannare i social per le troppe informazioni fasulle o non controllate, questi dati dovrebbero interrogare le istituzioni, i politici, e i responsabili dei media tradizionali sulla loro (in)capacità di stabilire una comunicazione e costruire fiducia con una fetta ampia, e crescente, di popolazione. Il secondo dato preoccupante che emerge dall’indagine riguarda l’entità dei bisogni sanitari non soddisfatti a motivo dalla pandemia. Nonostante nel 2021 e soprattutto nel 2022 ci sia stato un recupero man mano che diminuiva l’emergenza epidemica, la quota di bisogni insoddisfatti rimane elevata, riguardando in media una persona su cinque, ma con grandi differenze tra paesi. In Italia riguarda il 16%. Nel caso del disagio mentale, che per altro è aumentato a seguito della pandemia e delle costrizioni da questa imposte, il bisogno insoddisfatto è persino aumentato tra il 2021 e il 2022. I giovani sono stati coloro che hanno conosciuto il maggior aumento di disagio mentale durante il periodo più acuto della pandemia, perché sono stati i più colpiti alle restrizioni. La percentuale di chi ha dichiarato di non trovare aiuto, pur scesa dal 62% del 2021 al 49% del 2022, rimane altissima. C’è il rischio che, non trattandosi di una patologia chiaramente come identificabile come medica, ne venga sottovalutata la serietà e la necessità di affrontarla per tempo e con gli strumenti adeguati. Donne, i numeri della discriminazione di Emanuele Bonini La Stampa, 11 luglio 2022 C’è un potenziale tutto “rosa” che il nostro Paese non sfrutta. Il commissario Ue: “Occorrono politiche per l’assistenza all’infanzia e l’uguaglianza di genere”. La crescita economica passa per la forza lavoro femminile, che però scarseggia in Europa, come, ancor più, in Italia. C’è un potenziale non sfruttato, tutto “rosa”, che soprattutto il nostro Paese fatica ad attivare. Il risultato si paga in termini di competitività. Numeri e indici condannano il sistema Paese, agli ultimi posti in classifica per lavoratrici attive e ritmi di crescita. Una donna su due di età compresa tra i 20 e i 64 anni è fuori dal mercato del lavoro, e il risultato è in Prodotto interno lordo strutturalmente debole rispetto ai partner di Eurozona e Unione europea. Prendendo in considerazione la situazione pre-pandemica, il tasso occupazione femminile tricolore si attestava al 53,2%, contro medie europee del 66,3% (Ue) e 66,4% (area euro). Solo per la Grecia Eurostat registra un indice più basso. L’aumento del Pil reale italiano si fermava allo 0,9%. Per fare raffronti, Francia e Irlanda crescevano del’1,9% e del 9% per effetto di un contributo femminile al sistema produttivo pari al 68,9% e 67,9% delle donne in età da lavoro. Il 2019, anno di confinamenti e spegnimento dell’economia, ha visto un incremento delle quote rosa al lavoro in Italia dello 0,7% (53.9%), e mentre nonostante tutto l’Ue conosceva una crescita economica dell’1,5%, l’Italia appeno dello 0,5%. La correlazione tra attività lavorativa della donna e crescita economica non è né casuale né pretestuosa. Tra uomini e donne c’è un divario occupazionale di genere dell’11,3%. La Commissione europea stima una perdita economia dovuta proprio a questo divario occupazionale di genere in 370 miliardi di euro all’anno. Viceversa, “il miglioramento della parità di genere potrebbe portare a un aumento del PIL fino a 3,15 trilioni di euro entro il 2050”. Ecco perché si richiedono interventi che siano efficaci, strutturali, e rapidi. “Agire è un imperativo sia sociale che economico”, il messaggio che arriva da Bruxelles, con Roma tra i principali destinatari. Alla fine del 2021 l’Italia sconta ancora ritardi. Figurano 9,2 milioni di lavoratrici, la metà di quelle che può vantare la Germania (18,4 milioni), più di un terzo in meno di quelle in forza in Francia (13,1 milioni). Se poi si osservano gli indici occupazionali nei settori chiave di scienza e tecnologia, quelli dove si produce innovazione, il tasso tricolore è del 32,1%. È inferiore a quello tedesco, francese, delle repubbliche baltiche, dei Paesi Benelux e dei Paesi scandinavi, inferiore anche ai tassi degli Stati del blocco dell’est. La risposta a tutto questo è una e una sola. “È necessario aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro”, insistono da Bruxelles. È vero per l’Europa, lo è ancor più per l’Italia. Ci sono un richiamo implicito e uno esplicito per il Paese. Il primo è quello che emerge dai dati che vedono una partecipazione femminile al sistema economico-produttivo, il secondo è quello continuamente ribadito negli ultimi anni attraverso le raccomandazioni specifiche per Paese. Politiche occupazionali e riforma del mercato del lavoro è competenza degli Stati, e i vari governi sono stati sempre invitati a promuovere una maggiore e una migliore presenza femminile, superando anche limiti culturali evidenziati dal commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni, facendo il punto sui progressi fatti sulla realizzazione degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Sulla parità di genere “l’Ue si è purtroppo allontanata dagli obiettivi”. Oggi “le donne hanno ancora meno probabilità di essere occupate rispetto agli uomini”, e questo perché “le responsabilità di cura sono il motivo principale per cui le donne non fanno parte della forza lavoro”. La donna paga il fatto di essere donna e la possibilità di essere madre, e l’assenza di misure per famiglia e lavoro pesano sull’Europa e ancor più sull’Italia. L’esecutivo comunitario lo sa bene. Per questo, in occasione della giornata internazionale della donna di quest’anno, il commissario Ue per il Lavoro, Nicolas Schmit, ha esortato agli Stati a “concentrarsi sulle politiche per promuovere l’assistenza all’infanzia a prezzi accessibili e l’uguaglianza di genere”. La trappola della somiglianza che frena la riforma della cittadinanza di Anna Granata Il Domani, 11 luglio 2022 Si chiama trappola della somiglianza e questa volta non dobbiamo caderci. L’idea diffusa e radicata che per essere cittadini si debba essere simili, se non identici, condividendo gusti calcistici o musicali, stili di vita e culturali. Immagini di giovani musulmane capaci di recitare a memoria la Divina commedia, adolescenti dagli occhi a mandorla che tifano Italia, intere classi multiculturali capaci di cantare l’inno di Italia hanno popolato in questi anni telegiornali e social media. Quanta retorica in queste narrazioni! E a ben vedere non ci hanno portato molto lontano. Quella della somiglianza è sempre una trappola. Per chi è contrario alla riforma, i nuovi italiani non saranno mai abbastanza simili all’idea di italiano medio, anacronistica ma ben radicata nelle menti di molti. L’idea che ci porterà - Inshallah! - all’approvazione della tanto attesa riforma della cittadinanza è radicalmente diversa: cittadini non si nasce ma si diventa, a partire da storie, esperienze, stili di vita sempre più diversificati ma prendendo parte a un progetto comune di convivenza civile. Ius culturae - Attivisti, politici, ricercatori, mossi spesso dalle migliori intenzioni: ci siamo caduti tutti. La trappola della somiglianza ha attraversato le narrazioni di movimenti e partiti tra i più sensibili ai diritti: l’idea di ius culturae, presente in una delle precedenti proposte di riforma della cittadinanza, intendeva per esempio sottolineare il diffuso senso di italianità delle nuove generazioni, la naturale appartenenza all’unico paese conosciuto da questi bambini e ragazzi, che di rado visitano e conoscono la terra e la lingua dei loro genitori. La cultura, qualcosa di fluido e indefinibile, diventava il criterio attraverso il quale sancire concreti diritti e doveri. Per essere un vero italiano, in fondo, dovevi rinunciare a lingua, abitudini, stili di vita dei tuoi genitori. Anche nell’ambito della ricerca sociale, abbiamo enfatizzato le differenze tra i migranti della prima ora e i loro figli, considerando questi ultimi più simili ai nostri e più facili da integrare. L’arrivo di giovani rifugiati e minori non accompagnati ha messo in crisi la distinzione netta tra queste categorie, rivelatesi artificiose e poco utili. Ius scholae - Prudente e limitata in molti aspetti, la proposta di riforma della legge sulla cittadinanza dello ius scholae evita la trappola della somiglianza, a partire da un’idea diversa e forte: cittadini non si nasce ma si diventa. È a scuola che, indipendentemente dalle storie di ognuno, il luogo in cui si può costruire un senso di appartenenza e partecipazione alla base del nostro vivere civile. Il progetto democratico della nostra scuola nasce da lontano e trova la sua più netta esplicitazione nella nostra Costituzione. “La scuola è aperta a tutti”, recita l’articolo 34, principio che nessun’altra costituzione europea esplicita in maniera così netta e radicale. Rileggendo il dibattito dei nostri padri costituenti si coglie come a livello trasversale la scuola sia stata considerata come lo strumento più straordinario e potente di ricostruzione del paese e antidoto alla guerra. È questa la scuola dove ancora oggi - nonostante i drammatici e crescenti tagli alla spesa pubblica in istruzione - sono presenti dietro gli stessi banchi alunni abili e diversamente abili, con difficoltà di apprendimento e plus dotati, con prima e seconda casa di famiglia o privi di residenza, autoctoni, nati in Italia da genitori stranieri o neo arrivati da un altro paese. Non esiste in nessuna parte d’Europa e del mondo una scuola, almeno negli intenti, inclusiva come la nostra. La diversità - La scuola pubblica non si fonda sul principio di somiglianza ma sul principio di diversità. È in questa scuola che alunni e studenti imparano, negli spazi informali della giornata scolastica così come nelle ore curricolari, a confrontarsi con storie, esperienze, vissuti profondamente diversi dai propri. A scuola si scopre che il proprio compagno di classe non ha mai visto il mare o fatto una vacanza. A scuola si impara che non è scontato vivere una festa religiosa o un’altra. A scuola si sperimentano i ritmi diversi di apprendimento, le forme diverse di socialità, le diversità di genere e orientamento sessuale. A scuola ciascuno scopre in fondo sé stesso e chi vuole essere, incontrando gli altri. Crescendo, si riduce drasticamente la possibilità di fare esperienze di questo tipo. I nostri mondi adulti, lavorativi o informali, sono fortemente connotati da somiglianza e omogeneità. Possiamo vivere lo stesso quartiere di periferia magari, ma altra cosa è condividere la quotidianità della giornata e dell’aula scolastica. C’è un’ora di scuola che più di ogni altra mette in luce diversità delle storie di vita e partecipazione a un progetto di vita comune. È l’ora di storia, disciplina mai neutra, che suscita emozioni forti negli alunni, specialmente quando tocca “temi caldi”, anche lontani nel tempo: le migrazioni nell’Impero romano, i genocidi di popoli vicini o lontani, i totalitarismi e in particolare il nazifascismo, le pagine più recenti del colonialismo e della decolonizzazione, per fare qualche esempio. Disinteresse, noia, apatia. O viceversa: conflitto, provocazione, rifiuto durante le commemorazioni sono all’ordine del giorno nelle nostre scuole superiori. Si apre, in particolare per gli insegnanti, una sfida complessa dal punto di vista educativo: non lasciare cadere le provocazioni, ascoltare i ragazzi, coinvolgerli e renderli protagonisti attivi della storia, magari a partire dalle personali e collettive di sofferenza e violazione della libertà che alcuni di loro hanno vissuto. La coscienza collettiva - È in quei momenti, spesso inaspettati, nei quali la storia risuona in classe che ognuno può imparare a sentirsi parte di una comunità, quella della classe ma rappresentativa della società intera. È in quelle occasioni, sfidanti e preziose, che la coscienza collettiva si forma e il senso di cittadinanza diventa qualcosa di concreto per adulti e ragazzi. È in quel luogo, la scuola, che diventiamo e ridiventiamo tutti cittadini, non per somiglianza ma per adesione a un progetto comune di futuro, che nasce dal modo in cui poniamo il nostro sguardo sul passato. Abbiamo bisogno urgentemente di uno ius scholae, potrebbe essere un’occasione di rinascita per tutti. Filomena Gallo: “La mia vita accanto a chi sogna un figlio e a quanti chiedono di morire” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 11 luglio 2022 Per la serie “I diritti non vanno in vacanza” intervista all’avvocata che si batte per fecondazione assistita ed eutanasia. “Nel 2004 incontrai Luca Coscioni e capii che quella era la mia strada”. Il rapporto con Pannella e Bonino. “Le piante del mio terrazzo un dono di Emma”. “Questa era la sedia di Marco Pannella, la sua compagna storica, Mirella Parachini, me l’ha regalata dopo la sua morte. Le piante sul terrazzo invece me le ha mandate Emma Bonino quando con il mio compagno ci siamo trasferiti qui, due anni fa. Curare le piante mi dà sollievo alla mente e sono ricordi per me carissimi”. Filomena Gallo sorride spesso, muove i capelli scuri, ha un tono musicale nella voce pacata, l’accento che modella le parole di chi è cresciuto al Sud, mamma siciliana, papà campano, si incontrano in Svizzera, Filomena nasce nel 1968 a Basilea, poi la famiglia torna indietro, a Teggiano, troppo grande la nostalgia delle radici. Dall’incontro con il pescatore povero a quello con Coscioni - “Fin dai miei primi giorni da avvocata, dall’incontro con un pescatore che non poteva pagare un legale per difendersi da una cartella esattoriale ingiusta, avevo deciso che una parte del mio lavoro sarebbe stata dedicata, gratuitamente, all’aiuto di chi non aveva tutele. Poi nel 2004 ho conosciuto Luca Coscioni, la sua forza dirompente, nonostante la malattia, mi ha catturato e ho capito qual era la mia strada. Essere dalla parte di chi subisce la violazione dei diritti fondamentali. Le sue parole sono diventate le mie parole: dal corpo delle persone al cuore della politica”. Un attico silenzioso e ordinatissimo in una bella piazza di San Giovanni, a Roma. Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, avvocata cassazionista, protagonista di tutte le più estreme battaglie sui diritti civili degli ultimi vent’anni, abita qui, con il suo compagno, avvocato anche lui, in una fusione di vita e di militanza politica. I tre modelli e l’impegno per la democrazia - “I diritti della persona sono la democrazia. Me l’hanno insegnato Pannella, Bonino e Coscioni”. Empatia, acciaio, uno studio accuratissimo dei casi, così Filomena Gallo vince nei tribunali. Dall’abbattimento dei divieti della legge 40 alla libertà di scelta sul proprio morire, dall’assistenza negata ai disabili alla battaglia per la maternità surrogata solidale, non c’è ambito dei “nuovi diritti” che Filomena non abbia abbracciato. Per spostare, ogni volta, la frontiera più in là. Sono passati 25 giorni dal primo suicidio assistito in Italia. Con un collegio giuridico specializzato lei ha vinto contro l’Azienda Sanitaria Unica delle Marche. Era accanto a “Mario” negli ultimi istanti di vita... “Mario, cioè Federico Carboni, mi manca moltissimo. Per me non esistono i casi, esistono le persone. Con ognuna entro in una comunicazione profonda, altrimenti non potrei occuparmi delle loro vite. Questo ciondolo che porto al polso me l’aveva mandato Federico per il mio compleanno. Fino all’ultimo ho detto a Federico che poteva cambiare idea, ma lui era sereno. ‘Però Filomena tu continua a combattere perché quelli come me possano essere liberi’“. Oggi chi si trova in condizioni di estrema sofferenza è più libero di scegliere? “Sì, perché grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato e le battaglie dell’Associazione Coscioni, i malati che hanno i requisiti richiesti dalla Consulta potranno esercitare il proprio diritto di essere accompagnati a morire. Per me però è stata una vittoria con un’ombra”. Quale ombra? “Ho perso un amico. Federico oggi è in pace, ha affermato la sua libertà, ma il dolore della perdita resta, è umano”. Ha sempre voluto diventare avvocata? “Veramente volevo fare il medico. Mio padre, anzi, avrebbe preferito che scegliessi l’insegnamento, aveva indirizzato i miei studi verso un diploma completo, cioè le magistrali. Mio nonno invece mi aveva appoggiato subito. Giurisprudenza era stato il punto di incontro. Studiavo e lavoravo d’estate in Germania con mio fratello, nei suoi ristoranti. Mi sono laureata a Salerno, ho fatto il praticantato in un ottimo studio. Lì mi sono orientata sul diritto di famiglia”. E com’è la sua di famiglia? “Semplice e unitissima. Mio padre era emigrato in Svizzera per lavorare in fabbrica, lì ha incontrato mia madre. Una storia italiana, una storia del Sud. Sono nata che mia mamma Serafina aveva soltanto vent’anni, quando ero ragazza sembravamo sorelle, mentre mio papà Giovanni ne aveva 27. Da bambina passavo mesi nella fattoria di mio nonno, c’erano i conigli, le mucche. Ho un ricordo stupendo di quei giorni”. Nel 1997 lei inizia ad occuparsi di fecondazione assistita. Come mai? “Si era verificato un problema nella distribuzione dei farmaci che servivano per la stimolazione ovarica. Non ci fu bisogno di andare in tribunale, la ministra Bindi corresse l’ordinanza. Ma dal dolore delle coppie infertili è nata la mia prima battaglia: perché a quelle coppie fosse garantito il diritto civile di provare ad avere un figlio con l’aiuto della Scienza”. In Italia era ancora tutto possibile. Lo chiamavano il Far West della provetta, però... “Un Far West che non esisteva invece. Serviva una legge, ma il testo che poi fu approvato ha inflitto sofferenze disumane alle coppie. È stato durante il referendum per abolire la legge 40, che ho incontrato Luca Coscioni e il Partito Radicale”. Un incontro fondamentale... “Ricordo Luca, gravemente malato di Sclerosi laterale amiotrofica, parlava con il sintetizzatore, non aveva voce ma la sua voce era un urlo contro una politica sorda che negava la libertà di ricerca. Davanti a lui mi ero sentita piccola piccola. Poi ho conosciuto Pannella, Bonino, Cappato. Mina Welby. Marco Pannella mi chiamava Minuccia, l’unico da cui abbia accettato un diminutivo, al di fuori della famiglia. Con Emma ho sempre avuto un rapporto affettuoso che dura tuttora”. Dal corpo della persona al cuore della politica. Come si traduce in azioni concrete? “Portando fuori dalle stanze dei malati le loro istanze, come fecero Luca Coscioni con la Sla e poi Welby, con la sua richiesta di eutanasia che portò all’interruzione delle cure. Il corpo diventa soggetto politico. Ma anche con la strategia dell’attivazione delle giurisdizioni. Cercare cioè ogni strada possibile per applicare un diritto se il Parlamento è inerte, passando per i tribunali. Così abbiamo abolito i divieti della legge 40, così abbiamo ottenuto il primo suicidio assistito”. Tanti bambini sono tornati a nascere grazie alla sua battaglia contro la legge 40. Lei invece non ha figli... “Li avrei voluti, poi le condizioni di vita cambiano e cambiano le scelte. Con il mio compagno siamo insieme da 10 anni, abbiamo una vita piena: il lavoro, i libri, gli amici, la buona cucina, la musica, qualche viaggio. È già molto e va bene così”. Droghe. Stati generali: cannabis legalizzata per alleggerire tribunali e carceri di Ilaria Carra La Repubblica, 11 luglio 2022 Per Gherardo Colombo, ex magistrato e a capo del comitato “Legalità milanese”, la mancata legalizzazione delle droghe leggere “favorisce i guadagni della criminalità”. Il numero è ingente: sono oltre 95.400 i procedimenti penali pendenti per droghe leggere. “Se la cannabis venisse legalizzata - dice il penalista Mirko Mazzali - i processi veramente importanti verrebbero fatti prima. Mantenere lo status quo avvantaggia solo la criminalità organizzata “. L’alleggerimento del carico dei tribunali per pene lievi è uno dei temi sottolineati dai sostenitori della legalizzazione della cannabis al centro della due giorni degli Stati Generali che si è svolta nel weekend a Milano. Un’iniziativa targata centrosinistra, radicali, associazioni, società civile, che ha rimarcato gli aspetti negativi delle politiche proibizionistiche in materia. Nell’analisi dei costi e dei benefici, un dato può essere indicativo: ogni anno si spendono in repressione circa 769 milioni, 541 milioni in magistratura e spese carcerarie e 228 per le forze dell’ordine impiegate in ordine pubblico e sicurezza in materia di droghe leggere. “Soldi che potrebbero essere impiegati nel sociale”, rilancia Daniele Nahum, consigliere Pd promotore dell’iniziativa. Che aggiunge: “Sono 20 mila i detenuti che scontano pene sotto i due anni, che potrebbero fare pene alternative, e 16 mila i detenuti per cannabis”. E che al leader leghista Matteo Salvini (“La priorità per Pd, 5Stelle e sinistra del “campo largo”? La droga libera. Siamo alla follia”) risponde che “l’unica follia è il proibizionismo, a differenza tua non vogliamo regalare 7 miliardi all’anno alle mafie”. La depenalizzazione in materia di droghe leggere è supportata anche dai direttori delle carceri, con un problema di sovraffollamento “diventato ormai strutturale”, specialmente in Lombardia. A fine marzo si contavano 54.609 detenuti in Italia, con un tasso di sovraffollamento del 107,4 per cento. In Lombardia il tasso sale al 130 per cento, oltre la media nazionale, “con picchi del 170 per cento” ricorda Teresa Mazzotta, direttrice del carcere di Bergamo. Secondo dati aggiornati, il 33,4 per cento dei detenuti è in carcere per fatti legati a stupefacenti, un dato tra i più alti in Europa. Intervenire dunque inserendo la lieve entità per i fatti meno gravi “può ridurre il sovraffollamento e le risorse potrebbero essere meglio impiegate sui detenuti presenti”. A San Vittore oggi “ci sono ristretti 850 uomini e 70 donne - dice Giacinto Siciliano, il direttore della casa circondariale milanese - solo nel primo semestre di quest’anno abbiamo preso in carico 998 detenuti, per reati prevalentemente minimi legati all’assunzione o al piccolo spaccio. Stiamo creando un sistema intasato senza la possibilità di intervenire direttamente sulle persone”. Molte delle quali, peraltro, sono giovanissimi sotto i 25 anni, “giovani adulti che sono la fascia più fragile che a volte non riconosce l’abuso”, dice il direttore di Bollate, Giorgio Leggieri. Per Gherardo Colombo, ex magistrato ea capo del comitato Legalità milanese, la mancata legalizzazione delle droghe leggere “favorisce i guadagni della criminalità e ricordiamoci che una sostanza che passa per canali illeciti si può manipolare, in modo spesso da creare dipendenza”. Sul fronte della salute, agli Stati Generali sulla legalizzazione si è sottolineato anche il nodo legato alla marijuana terapeutica, “il cui fabbisogno oggi manca per due terzi”. Come per Mara, che convive da sempre con “dolori cronici e lancinanti” per colpa di una malattia rara, “fatico a trovare la cannabis, che lenisce il mio dolore, mai è stato così difficile come quest’anno”. Cannabis terapeutica, la serra gestita da disabili per avere le cure che lo Stato non garantisce di Simone Bauduccio Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2022 “Siamo pazienti non delinquenti. Se lo Stato non riesce a garantirci la cannabis terapeutica ce la coltiviamo noi”. Simone Stara è il presidente dell’aps “Seminiamo Principi” che in provincia di Torino ha allestito una serra per coltivare cannabis. “Ci siamo messi in gioco rischiando di andare a processo ma la nostra non è una disobbedienza, è lo Stato che viola la Costituzione non garantendoci le cure” racconta Stara mentre attraverso un’applicazione sul tablet regola l’irrigazione delle piantine. L’impianto è gestito da persone con disabilità ed è nato con l’idea di garantire le cure per qualche mese a undici pazienti affetti da gravi patologie come la tetraplegia o la fibromialgia. Tra loro c’è Paolo Leone che da due mesi aspetta che la sua farmacia gli fornisca la cura prescritta dal medico: “Per noi è una necessità fondamentale perché il dolore che proviamo è insopportabile”. Le persone che dovrebbero seguire terapie a base di cannabis si scontrano quotidianamente con numerose difficoltà. “Innanzitutto non è facile trovare un medico che la prescrive - racconta la dottoressa Lucia Garramone - e poi ci sono difficoltà burocratiche per cui i medici di medicina generale ricevono con grave ritardo le credenziali per inserirsi nella piattaforma nazionale per prescrivere la cannabis”. È quello che è accaduto a Stara che da ottobre aspetta che si sblocchi la situazione per poter avere la prescrizione. Ma il problema più grande continua ad essere quello della fornitura insufficiente. “Che cosa dovremmo fare - si chiede Stara - mandare i nostri genitori dal pusher al pacchetto alimentando le mafie?”. E così è nata l’idea della serra e dell’autoproduzione in attesa che il Parlamento faccia il suo. “Non c’è più tempo, devono fare in fretta - conclude Leone - ogni giorno che la politica tarda a legalizzare la cannabis è un giorno in più per sofferenza per noi”. Europa in fiamme tra inflazione, disagio sociale e nuovi populismi di Massimo Giannini La Stampa, 11 luglio 2022 Viviamo un presente “retrotopico”. Perduta l’utopia, ci rifugiamo nella nostalgia. Nel mondo, ormai da quasi cinque mesi, c’è di nuovo la guerra. L’Angelo della Storia di Walter Benjamin, con il viso rivolto al passato e una catastrofe di morti e rovine ai suoi piedi, non riesce più a spiccare il volo verso il futuro. Così ci stiamo abituando anche a questo: l’orrore del Donbass, i missili che piovono, i civili che muoiono. Tutto è già quasi routine, almeno per la nostra coscienza morale. Ma non per la nostra esistenza materiale. Del conflitto russo-ucraino valutiamo il costo economico, più che il conto delle vittime. Quanto rincara la bolletta del gas, il pieno di benzina, la spesa al supermercato? Quando scatteranno le restrizioni alle forniture di energia, di aria fredda o di acqua calda? Dove arriverà l’inflazione, la più ingiusta di tutte le tasse, che non ha pietà dei più deboli? L’Africa e l’Asia sono già in fiamme. Le immagini dello Sri Lanka, dove migliaia di disperati assaltano il lussuoso palazzo presidenziale e si tuffano nella piscina del rais Rajapaksa, non simboleggiano il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo che avanza e si emancipa dal bisogno. Sono piuttosto l’allegoria della ciclica, universale, feroce ribellione dei popoli contro le élite. L’Europa, risparmiata (per ora) dai cannoni di Putin, rischia di trasformarsi in grande polveriera sociale. I governi, tra l’estate infuocata e l’autunno rovente che pare già cominciato, dovranno farsene carico. Le tensioni sociali e sindacali sono già esplose questa settimana. In Francia le agitazioni dei lavoratori hanno paralizzato per giorni l’aeroporto Charles De Gaulle, dove le file per i check-in si sono allungate in un solo giorno fino a due chilometri e mezzo. Lo sciopero dei ferrovieri della Sncf ha paralizzato i treni Intercity e i regionali dei pendolari, ma anche i Tgv ad alta velocità. Tutti reclamano aumenti salariali doppi rispetto a quelli offerti dall’azienda, che oscillano tra il 2,2 e il 3,7 per cento: i sindacati chiedono l’allineamento all’inflazione, che Oltralpe è a quota 6,5 per cento. Una grana enorme per Macron, che rischia un’altra devastante stagione di gilet gialli sugli Champs Elyseés. In Gran Bretagna, dove il carovita ha già sfondato il tetto del 9 per cento, è già partito un primo sciopero contro l’aumento della benzina lunedì scorso. Il sindacato dei macchinisti ha già indetto un referendum tra gli iscritti, per chiedere il via libera a una serie di scioperi nazionali: sarebbe il primo dal 1995, in un Paese dove gli stipendi sono fermi dal 2019. Un problema gigantesco per Boris Johnson, anatra zoppa che guida un governo-fantasma e che - come scrive il “Guardian” - descriveremo presto con le stesse parole usate dal Marco Antonio di Shakespeare per ricordare Giulio Cesare: “Il male che un uomo fa, gli sopravvive...”. Nei Paesi Bassi lo scontro è ancora più aspro, perché anticipa nel settore-chiave dell’agricoltura fratture che presto si apriranno a livello europeo anche nel settore auto. Gli agricoltori olandesi hanno paralizzato il Paese con mucche e trattori per contestare il taglio del 50 per cento alle emissioni inquinanti di ossido di azoto e ammoniaca, fissato dall’esecutivo nel 2030. Circolazione bloccata nelle campagne e scaffali vuoti nelle città. Intanto, nelle stesse giornate e per le stesse ragioni, i pescatori di gamberi hanno occupato il porto di Harlingen. Le rivolte contadine hanno un sapore antico, ma un valore moderno. Evocano la madre terra, il bestiame, il pane quotidiano, le rivoluzioni. La miccia è accesa sotto la poltrona di tutti i capi di Stato: non solo del premier Mark Rutte, finora troppo impegnato a guidare la resistenza dei “frugali del Nord” contro il price cap al gas russo, l’estensione del Next Generation Eu, la revisione del Patto di stabilità. In Italia non stiamo affatto meglio. Venerdì scorso il presidente Gian Carlo Blangiardo e la direttora Linda Laura Sabbadini, nel Rapporto annuale dell’Istat, ci hanno scosso dal torpore, descrivendo con i numeri un’Italia insopportabilmente povera, drammaticamente invecchiata, scandalosamente diseguale. Non sappiamo cosa sperare, in una nazione dove per ogni 100 adolescenti sotto i 15 anni ci sono 200 anziani over 65, la povertà degli under 18 è salita al 14 per cento, quella dei ragazzi tra i 18 e i 34 anni è aumentata all’11 per cento, 7 milioni di giovani vivono ancora a casa con mamma e papà, 4 milioni di stipendi sono sotto i 12 mila euro l’anno, 1 salario su 3 non arriva a mille euro al mese, metà delle donne tra i 25 e i 44 anni non lavora. Possiamo consolarci pensando che la statistica ufficiale fotografa solo il Paese legale, mentre nel Paese reale c’è un altro Pil da 150-200 miliardi che non vediamo, perché è occulto, è nero, è sommerso. È il frutto proibito dell’economia “informale” e dell’evasione fiscale, ma che se non ci fosse avrebbe già portato gli italiani alla fame e alla sommossa. Ma che conforto è, quello in cui si arrotonda o si ingrassa violando la legge e rubando denaro sporco alle spalle di chi la rispetta? Draghi finora ha portato avanti la missione che Mattarella gli aveva affidato un anno e mezzo fa: la lotta alla pandemia, con l’avvio del piano vaccinale, e l’attuazione del Recovery Plan, con la messa a terra dei progetti concordati con la Ue per ottenerne i fondi. Ora la guerra ha cambiato lo scenario. Il Pnrr è fondamentale, ma non basta più. I decreti aiuti servono, ma sono insufficienti e talvolta iniqui, perché spesso sussidiano più le famiglie benestanti che quelle incapienti. I bonus sono stati utili, ma hanno bruciato troppe risorse. Carlo Cottarelli segnala che, tra gli oltre 40 introdotti negli ultimi due anni, esiste anche un bonus zanzariere fino a 60 mila euro detraibili: devono esserci in giro zanzare davvero molto grosse, per giustificare sostegno di questa portata. La prossima legge di bilancio è l’occasione per dare risposte al disagio sociale che cresce, e di cui finora la politica non si è fatta carico se non scegliendo poco e promettendo troppo. Fisco, welfare, giustizia, concorrenza: le vere riforme sono ancora tutte da fare. Neanche Draghi le ha fatte. Ma benché non rientrassero nel suo mandato, sarà il caso di prevederle adesso, usando l’ultima sessione di bilancio utile prima della fine della legislatura. Possiamo ironizzare finché vogliamo sui grotteschi borborigmi del fu Movimento Cinque Stelle. Del suo capo-comico Grillo che si crede in connessione spirituale col Mahatma Gandhi ma pare il Gabibbo. Del suo capo-politico Conte che pensa a Cavour ma somiglia a Forlani. E possiamo anche bocciare il preambolo in nove punti che i pentastellati hanno consegnato al premier, per chiedere risposte senza le quali si dichiarano pronti a uscire dalla maggioranza: è assurdo chiedere un altro condono mascherato, nel Paese dei poeti dei santi e degli evasori, né si può lasciare che Roma marcisca sotto i rifiuti, per il no antistorico a un termovalorizzatore. Ma da Palazzo Chigi è urgente un ascolto più attento e concreto ai mali profondi della società italiana, ai fenomeni di marginalità e di esclusione sociale, ai bisogni delle nuove generazioni, alle quali non basta risparmiare altre cambiali emettendo più debito pubblico o facendo ulteriori scostamenti di bilancio. Scuola, formazione, lavoro, salari, parità di genere tra uomo e donna: qui, davvero, il piatto piange. Dopodomani il presidente del Consiglio Draghi incontrerà i sindacati. È una buona occasione per provare almeno ad aprire una fase nuova, in vista della manovra di settembre. Ha ragione Maurizio Landini, quando nel colloquio con Lucia Annunziata che pubblichiamo oggi sostiene che se la guerra non si ferma andiamo incontro a un’esplosione sociale. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che le scelte si devono fare ora, e sono tutte dentro la politica. Se si chiude questa “finestra” temporale, non solo l’Italia, ma l’intero Occidente rischia di lasciare di nuovo il campo ai profeti dell’anti-politica. Non illudiamoci: come dimostrano Trump in America e Le Pen in Francia, il ciclo populista non si è affatto esaurito. Al contrario, resiste, cresce, ingrassa. Come nel recente passato, si nutre di paura, disagio e rancore sociale. Mai come oggi, tocca alla buona politica “affamare la Bestia”. Le due guerre di Vladimir Putin di Ezio Mauro La Repubblica, 11 luglio 2022 Una è combattuta sul campo in Ucraina. L’altra è sospesa, non guerreggiata e tuttavia dichiarata: è il conflitto tra la Russia e l’Occidente. Dunque le guerre sono due. Una combattuta sul campo in Ucraina, l’altra sospesa, non guerreggiata e tuttavia dichiarata, anzi ormai introiettata nella coscienza dei popoli. È il conflitto tra la Russia e l’Ovest che Putin ha messo al centro del suo ultimo discorso con i leader della Duma, creando una nuova immagine dell’eterno nemico: “l’Occidente collettivo”, accusato di cercare lo scontro per contenere il Cremlino e indebolire la sua guida, “seminando discordia, devastando la società e demoralizzando le persone”, e infine impegnato a “combattere fino all’ultimo ucraino per battere la Russia sul campo di battaglia. Ci provino”. L’Ucraina, con i suoi morti e la sua resistenza sotto i bombardamenti, gli assedi e le città distrutte, per Mosca è soltanto il teatro dello scontro militare su una sovranità trasformata in possesso. Un altro scontro è al centro dell’interpretazione putiniana della guerra e della rappresentazione che ne fa ogni giorno il Cremlino. È la perenne battaglia per l’egemonia tra le due Europe, che oggi vede la Russia in campo contro i suoi tre fantasmi perenni: la sirena politica della Ue, la minaccia armata della Nato e quindi dell’America, l’insidia culturale dell’Occidente. Nel vecchio mondo, prima dell’invasione russa di febbraio, la democrazia, l’ideologia e l’ipocrisia avevano costruito un sistema di convivenza basato sulla deterrenza, sull’eredità di Jalta e sulla convenienza, assegnandosi reciprocamente un ruolo e rispettandolo anche nei momenti di maggior tensione tra gli Stati. L’Est e l’Ovest sapevano di essere concorrenti, avversari ma anche partner, con voce in capitolo nelle questioni più rilevanti. Questo schema ha retto per quasi mezzo secolo nella lunga stagione della Guerra Fredda, quando la leadership internazionale era divisa in due, ed è rimasto in piedi per inerzia anche nei trent’anni senza nome che abbiamo attraversato dopo il terremoto seguito al crollo del muro di Berlino, con la mappa d’Europa completamente cambiata. Oggi quei tre elementi si separano definitivamente, prendendo ognuno la sua strada, come se non potessero più convivere dopo l’ingresso dei tank russi in Ucraina e la criptoguerra mondiale che ne deriva. Il problema è che quel confronto-scontro perennemente alimentato e continuamente controllato garantiva l’ordine mondiale: fragile, sospettoso, armato e tuttavia custodito col concorso di tutti. La memoria e il lascito spaventoso della guerra agivano come un impulso a costruire meccanismi di regolazione preventiva dei conflitti, organismi internazionali di salvaguardia della legalità nei rapporti tra gli Stati, strutture sovranazionali di arbitrato e di garanzia per l’esercizio del diritto internazionale. Il titanismo istituzionale dei padri ha inseguito fino a ieri l’utopia politica di un mondo più sicuro per i figli. La terribile geografia europea, capace di incubare due guerre mondiali dentro i suoi confini, veniva messa sotto tutela sia pure conflittuale, nell’interesse comune. Tutto era sospeso più che definitivo, affidato al pragmatismo della realpolitik piuttosto che alla condivisione di una teoria generale della convivenza. Ma se il dispotismo dell’Est europeo cercava in questo confronto negoziale con l’Ovest una sicurezza e un riconoscimento, la democrazia occidentale sperimentava l’universalità dei suoi valori, del suo metodo, dei suoi obiettivi: per l’Unione Sovietica la pace era una garanzia di stabilità interna e internazionale, una convenienza politica, mentre per l’Occidente era l’ambiente necessario per il dispiegarsi dei diritti e delle garanzie, una condizione indispensabile per la promessa di libertà e di giustizia, addirittura la prova dell’universale democratico, perché la democrazia ha bisogno della pace per esprimersi compiutamente. Il codice riconosciuto e accettato dell’ordine internazionale ha consentito di controllare le crisi, di gestire la convivenza nella diversità e nell’opposizione di due sistemi politici e culturali inevitabilmente antagonisti. È dunque stato uno strumento di governo del mondo, che ha affermato un principio democratico, la superiorità del diritto sulla forza. Si potrebbe dire che attraverso questo metodo e questa ricerca la democrazia ha finito per coincidere col punto di razionalità della politica: e anche chi non accettava i principi, le istituzioni e la pratica democratica, non poteva negare l’elemento razionale di questa proposta. Oggi questo computo razionale è saltato, è come se Mosca avesse inventato un altro sistema di calcolo unilaterale dei costi e dei benefici di ogni azione e, tirate le sue somme della partnership con l’Occidente, avesse deciso una secessione dalla logica comune, entrando in un’altra dimensione, soltanto sua: ritraendosi dall’osservanza universale delle norme giuridiche figlie della civiltà romana, ritornando a far prevalere lo scopo sulla regola, recuperando alla fine della storia la triade gloriosa degli inizi, cioè l’alleanza - santa come la Russia - tra l’autocrazia che impera, l’ortodossia che benedice e il popolo che si unisce in comunione obbediente al sovrano. In questo senso Vladimir Putin, protagonista di questo cambio di dimensione, è l’ultimo erede della potestà imperiale esercitata nel millennio dai sovrani guerrieri della Rus’, dai Gran Principi di Moscovia, dagli Zar, dai Segretari Generali del Pcus. Ma è anche il primo leader che decide di abitare nel mondo nuovo, colonizzandolo politicamente, rimettendo “l’idea russa” al centro dell’identità nazionale, separandola dall’Occidente nuovamente “marcio” come nella maledizione degli slavofili, recuperandole un posto privilegiato nella competizione per la supremazia, dando un nome e un ruolo agli avversari, costituendoli in nemici. Non solo. Poiché per Putin una storia universale non esiste ma è solo un inganno dell’Occidente per contrabbandare i suoi valori, bisogna rileggere le vicende del passato come espressioni di civiltà separate e distinte: per concludere che la Russia può solo adempiere alla sua missione universale e compiere il suo destino, cosciente di “non essere una nazione ma un mondo intero”, mentre il suo popolo, come certifica Dostoevskij “è l’unico portatore di Dio”. Si capisce a questo punto che di fronte a questa interpretazione metafisica della politica e a questo esercizio messianico del potere, le armi tradizionali della diplomazia risultino spuntate: per un negoziato bisognerà inventarne di nuove. Solo la guerra è uguale a se stessa. E la vera paura di Putin, man mano che la resistenza continua, è di rimanere intrappolato nella terra sospesa di nessuno, tra il vecchio mondo che ha abbandonato e il nuovo che non si lascia conquistare. Così “il dittatore utile” Erdogan ha trasformato la Turchia in un’enorme prigione di Benedetta Argentieri The Post Internazionale, 11 luglio 2022 Una repressione senza confini - Con la scusa della propaganda terrorista, che colpisce qualsiasi voce critica con la linea di governo, oggi in Turchia ci sono 65 giornalisti in prigione. Almeno 241 sono stati perseguiti solo nel 2021, e centinaia hanno obbligo di firma e divieto di espatrio. Non solo. Avvocati, politici eletti, attivisti, chiunque non segua la narrazione mainstream del governo, chiunque racconti quello che avviene, o dia voce al dissenso viene arrestato e bollato come terrorista. “Mi sveglio tutti i giorni verso le 4, mi tolgo il pigiama, mi vesto e mi rimetto a letto. Se per le 7 non hanno ancora bussato vuol dire che anche oggi sono libera”. Gozde Ça?ri Özköse, giornalista di 41 anni, è convinta che la polizia presto si presenterà di nuovo anche alla sua porta. L’8 giugno il suo capo redattore alla Mezopotamya Agency l’ha chiamata alle 5 del mattino per sapere se era stata arrestata, perché era in corso un’operazione di polizia. In quelle ore, 21 giornalisti curdi di diverse testate sono stati portati nel carcere di Diyarbakir, per il Times tra le dieci prigioni peggiori al mondo a causa delle violenze e delle torture subite dai detenuti. Quasi un mese dopo l’arresto, i capi di accusa non sono stati né depositati né tantomeno comunicati agli imputati e agli avvocati difensori, ma nel frattempo la polizia ha perquisito gli appartamenti e sequestrato gli uffici di ben sei diversi organi di stampa, tra cui Mezopotamya Agency, JinNews e Xwebûn, confiscando materiale tecnico per quasi 200mila euro. “Un danno enorme che di fatto ci impedisce di lavorare”, continua Özköse. Tutti sono stati interrogati rispetto alle loro attività giornalistiche, il contenuto di programmi televisivi, che domande fanno per un articolo, le linee editoriali per la pubblicazione di un pezzo, e dopo gli interrogatori l’arresto è stato confermato per 16 di loro, mentre altri cinque avranno l’obbligo di firma e il divieto di lasciare il Paese. “Nonostante le nostre richieste il giudice non ci ha comunicato formalmente le accuse ma allo stesso tempo ha fatto insinuazioni in merito con agenzie di stampa vicine al governo”, spiega a TPI l’avvocato Resul Temur che aggiunge: “Non ci sono basi legali per questi arresti. Il giudice parla di adesione a gruppi terroristici ma non ci sono le prove. La verità è che gli imputati hanno svolto attività giornalistica scomoda e li si vuole fermare”. In Turchia si va in prigione per un post su Facebook. “La Turchia è uno dei principali carcerieri di giornalisti al mondo”, spiega dall’esilio Abdullah Bozkurt, presidente dello Stockholm Center for Freedom che in un recente rapporto ha descritto come il governo abbia sistematicamente silenziato, accusato e imprigionato giornalisti che hanno fatto il proprio mestiere. E non solo loro, bisogna ricordare che in carcere ci sono migliaia di persone perché dissentono con le politiche del governo. “Un utile dittatore” l’aveva chiamato il premier Mario Draghi, proprio in questi giorni in visita ad Ankara, e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, al potere con il partito islamista Akp, sta riuscendo ad avere la meglio sulla Nato e, in particolare, su Finlandia e Svezia, imponendo delle misure lontanissime finora dalle politiche dei due Stati. In un memorandum di tre pagine firmato durante l’ultimo vertice Nato a Madrid, parla tra l’altro di deportazioni in Turchia per concittadini e persino cittadini di Stati terzi, e la necessità di bollare come terrorista chiunque simpatizzi con l’amministrazione della Siria del Nord Est, lo Ypg o le Ypj, le unità di Difesa del Popolo e delle Donne. Le donne e gli uomini che hanno sconfitto l’Isis. Se qualcuno avesse l’illusione che questo memorandum sia solo un pro-forma, Erdogan ha chiarito subito che bloccherà l’adesione di Finlandia e Svezia se non sarà attuato. Il 70 per cento dei finlandesi ha già dichiarato di non voler entrare nella Nato a queste condizioni ma i governi di entrambi i Paesi sembrano convinti di voler tradire ancora una volta i curdi pur di far parte dell’Alleanza Atlantica, che dice di essere portatrice di democrazia. Intanto Erdogan si prepara alle elezioni del prossimo anno. La situazione nel Paese è molto tesa, l’inflazione corre, l’economia rallenta e la Turchia è in guerra su più fronti. L’ultima operazione, ancora contro i curdi, sulle montagne tra l’Iraq e la Turchia dove l’aviazione non risparmia nessuno, tantomeno i civili e in più usa armi chimiche, non sta andando come sperava. I guerriglieri del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, resistono sulle montagne che li hanno protetti per quasi quarant’anni. Non riuscendo ad avere una chiara vittoria per il suo elettorato, Erdogan si prepara anche a una nuova guerra di aggressione contro la Siria del Nord Est, lamentando minacce alla sicurezza interna. Ma la verità è che vuole distruggere la speranza di autogoverno dei curdi in Siria, non accetta una regione in cui democrazia diretta, ecologia e liberazione delle donne siano poste al centro della vita politica. Tutte idee che sono riconducibili ad Abdullah Öcalan, fondatore del Pkk e dal 1999 detenuto sull’isola di Imrali in condizioni disumane. “Questa nuova retata contro i giornalisti è partita da Diyarbakir perché hanno denunciato la corruzione del consiglio comunale imposto dall’Akp, e molto probabilmente si allargherà a Urfa, Ankara, Istanbul e altre città”, spiega al telefono Özköse. Il suo tono è calmo, quello di qualcuno con esperienza e che ha dovuto vivere questa situazione troppe volte. Nelle scorse elezioni il Partito Democratico dei Popoli (Hdp) è riuscito a conquistare 65 comuni e, per tutta risposta, il governo ha rimpiazzato con la forza i sindaci e i consiglieri comunali eletti in almeno 33 città, tra cui Diyarbakir, e ha sbattuto in prigione centinaia di deputati, sempre con l’accusa di terrorismo. Dal 2015 almeno 15mila membri del partito sono stati arrestati, 6.000 hanno ricevuto sentenze pesanti, compreso il leader Selahattin Demirta?, arrivato inaspettatamente terzo alle scorse elezioni politiche e ora dietro le sbarre. Battersi per la verità - “Con il nostro lavoro abbiamo svelato traffici di armi, e le relazioni della compagnia Baykar (che produce droni e vende in tutto il mondo - ndr) guidata dal genero di Erdogan e suo possibile delfino; abbiamo raccontato dei legami tra il governo e lo Stato Islamico e altre bande islamiste, siamo gli unici a raccontare quello che sta succedendo in Siria o in Iraq”, continua la giornalista. “Tutti i giorni cerchiamo di raccontare la verità”. Nel 2013 era a Gezi Park, a Istanbul, stava ancora studiando e con la sua macchina fotografica ha cominciato a documentare la violenza e la repressione della polizia nei confronti di migliaia di persone che chiedevano di salvaguardare il parco rispetto alla costruzione di un centro commerciale. “Da quel momento ho cominciato a seguire le manifestazioni anche dopo Gezi, e con altre persone abbiamo formato un gruppo media. In questo contesto ho capito quello che subiva la popolazione curda”. Così ha cominciato a lavorare per l’agenzia e ora è a capo della redazione internazionale. “Ho seguito delle storie così ingiuste e violente che quando scrivevo piangevo, onestamente non mi sono mai abituata ai soprusi anche se il mio capo mi prende spesso in giro”. Una tra tutte la storia di una donna curda anziana a cui veniva continuamente negato il colloquio con il figlio in carcere perché non sapeva parlare turco. Così ha imparato solo: “Come stai?”, e tutto il tempo le ripeteva a macchinetta nella speranza di poter rivedere il figlio, permesso che le è stato negato. È morta senza riabbracciarlo. “Siamo gli unici che raccontiamo queste storie, per questo veniamo continuamente vessati”. Da due anni Özköse ha l’obbligo di firma e il divieto di uscire dal Paese ma non le importa. “Io amo questo lavoro. Continuerò a farlo, non mi fermerò, non posso. E se finirò in prigione continuerò anche da lì”. Uygar Önder Simsek, rinomato fotogiornalista, è scappato dalla sua Turchia. “Avevo fatto un reportage per il Washington Post in Siria dove ho ritratto i combattenti dello Ypg e Ypj a Manbij. Ho condiviso l’articolo su Facebook e la polizia si è presentata alla mia porta”. L’accusa di nuovo è propaganda terroristica: hanno selezionato una dozzina di post sul social media - “tutti sul mio lavoro”, racconta - e Simsek è stato condannato a due anni e mezzo di carcere. È riuscito a scappare appena in tempo e oggi vive in esilio in Germania dove continua a lavorare. Secondo Abdullah Bozkurt, “l’intensificazione della repressione della stampa è iniziata nel 2015 con il sequestro da parte del governo del terzo più grande media Ipek Group, seguito dal sequestro del giornale più diffuso del Paese, Zaman, nel marzo 2016”. A luglio dello stesso anno, un colpo di Stato fallito volto a rovesciare Erdogan, ha dato il via a una nuova ondata di repressione. Infatti, subito dopo “sono stati chiusi quasi 200 giornali. Con i media imbavagliati, il governo Erdogan ha iniziato a reprimere le ong, i gruppi della società civile e l’opposizione. Questo schema continua anche oggi, con un’ulteriore escalation e una brutale repressione su tutti i settori della società turca”. In altre parole: “Erdogan ha armato il sistema giudiziario penale turco per dare la caccia a giornalisti e oppositori. Abusa di meccanismi internazionali come l’Interpol e la Nato per dare la caccia anche all’estero. Il protocollo d’intesa firmato con Svezia e Finlandia non ha alcuna applicazione pratica, poiché le parti hanno approcci opposti alla libertà di stampa. Ma il governo di Erdogan cercherà di usarlo per esercitare maggiore pressione e sostenere la campagna di intimidazione contro i giornalisti in esilio”. Tra questi c’è anche Bozkurt in esilio dal 2016. Non teme di essere deportato, ma è preoccupato per la sua sicurezza “quando il mio nome e la mia foto vengono pubblicati sui giornali filogovernativi turchi e sono oggetto di una campagna diffamatoria con ogni sorta di appellativo. Quasi la metà dei turchi della diaspora in Svezia sostiene il partito di Erdogan e mi sento in ansia quando cammino per le strade di Stoccolma, temendo il rischio di una violenza da parte dei vigilanti. Sono già stato aggredito davanti a casa mia un anno e mezzo fa e ho riportato alcune ferite”. La longa manus della repressione da pochi mesi si estende anche ai media internazionali. Infatti il governo ha varato una nuova legge per cui le testate straniere si devono registrare ufficialmente e ricevono in cambio delle linee guida. Voice of America e Deutsche Welle si sono rifiutate di ottenere la licenza, e quindi sono state oscurate. A ottobre verrà rivotata una legge sui social media, e chi condivide “fake news” rischia il carcere. Non è chiaro come e chi deciderà cosa sia fake e cosa no, ma è evidente che qualsiasi critica verrà punita severamente. Intanto le carceri scoppiano. Secondo una ricerca del Consiglio Europeo pubblicata nel 2021, la Turchia è il più grande carceriere d’Europa, viene superata (di poco) dalla Russia. L’Associazione per i Diritti Umani (Ihd) riassume i dati: ci sono 341.502 persone in prigione, di queste 1.517 sono malate e 651 in condizioni gravi. “Le cure ai detenuti possono essere impedite per semplici motivi. I carcerati subiscono molte violazioni dei loro diritti, come la perquisizione della bocca, il trasporto in ospedale in veicoli insalubri e le visite in manette quando si recano in ospedale. Sebbene gli ospedali pubblici diano il referto “non può stare in prigione” ai detenuti malati che non sono in grado di sopravvivere da soli, l’Istituto di medicina legale (Atk) rifiuta questi referti e tutti vengono riportati in carcere”, racconta Delal Akyüz. Anche lei scrive per l’agenzia e segue il sistema carcerario. La situazione dei detenuti politici, spiega, è particolarmente grave. “Solo alcuni esempi di prigionieri che potrebbero morire da un momento all’altro nelle carceri turche sono Mehme Emin Özkan, 84 anni, rinchiuso nella prigione di tipo D di Diyarbak?r da 27 anni per un crimine che non ha commesso. Mehmet Emin Özkan, affetto da molteplici patologie e più volte segnalato come “idoneo alla detenzione” dall’Atk, continua a essere detenuto perché curdo”. E racconta il caso di Abdullah Ece, 73 anni, morto in carcere quando doveva essere libero ma gli agenti penitenziari hanno ignorato l’ordine di rilascio. Albert Camus scriveva che “una stampa libera può essere buona o cattiva, ma senza libertà, la stampa non potrà mai essere altro che cattiva”. Ozgur Ogret, lavora per il Comitato di Protezione dei Giornalisti (CPJ) negli Stati Uniti, e riassume la situazione così: “L’ultimo decennio di governo dell’Akp è stato duro per i media in un modo difficilmente paragonabile a qualsiasi altro periodo della storia moderna della Turchia. Solo un decennio fa, la Turchia aveva media molto dinamici e variegati; oggi, invece, abbiamo il dominio degli organi di informazione filogovernativi e pochi altri coraggiosi che cercano di sopravvivere di fronte alle vessazioni del governo”. Per usare le parole di Freedom House, che svolge attività di ricerca e di advocacy sulla democrazia, la libertà politica e i diritti umani, dice che la Turchia non è libera. Martedì 5 luglio, mentre scriviamo, il sindacato della stampa libera ha organizzato un presidio ad Ankara per chiedere il rilascio dei colleghi. “Forse non uccidono i nostri amici come facevano negli anni ‘90, ma li trattengono e li arrestano. Alcuni sono costretti a migrare. Noi continuiamo a scrivere, indipendentemente da ciò che fanno. Nessuno scrive le storie che scriviamo noi. O hanno paura di farlo o, se lo fanno, distorcono la verità. Siamo venuti qui pagando prezzi molto alti. Abbiamo 52 martiri della stampa libera. Continueremo sulla nostra strada perché la gente ha bisogno di sentire la verità”, ha spiegato il giornalista e scrittore Hüseyin Aykol. Poco dopo la polizia ha attaccato il presidio. Tre giornalisti sono stati fermati. Mi ha avvisata Özköse via messaggio: “Durante la conferenza stampa hanno arrestato anche il mio capo redattore, vado a vedere e ti faccio sapere”. Per ore i miei messaggi non le arrivano. Alla fine mi risponde, era in ospedale con una collega rimasta ferita al Pride di Ankara. L’Egitto inghiotte un altro studente, sparito un giovane francese al Cairo di Caterina Stamin La Stampa, 11 luglio 2022 I media: “Un nuovo Regeni?”. Non ci sono tracce del giovane 27enne dall’agosto scorso. Svuotato il suo conto al bancomat. La famiglia: “Le autorità francesi ed egiziane avvisate, ma finora non hanno informazioni”. Un mistero senza risposta da quasi un anno, che ricorda a tratti la storia di Giulio Regeni, il ricercatore friulano scomparso in Egitto nel gennaio 2016. Stavolta si tratta di uno studente di storia francese, Yann Bourdon, che secondo quanto segnala la famiglia sui social sarebbe scomparso da agosto scorso al Cairo. “Zaino sulla schiena, scarpe da trekking ai piedi, stava girando l’Europa da solo, prima di arrivare fino al Cairo”, racconta la sorella, che comunica di non averne notizie da oltre un anno. Affidato a Facebook l’appello per ritrovare il fratello: “Vi chiedo aiuto”. Le tappe della vicenda: la ricostruzione della famiglia - Il 27 giugno la famiglia ha denunciato la scomparsa del giovane su Facebook, creando un’apposita pagina intitolata “Scomparsa di Yann Bourdon al Cairo, in Egitto”. “Ciao a tutti, Yann Bourdon è scomparso al Cairo la scorsa estate”, si legge nella didascalia del post. Poi la ricostruzione delle ultime tappe del viaggio del giovane: “Yann ha fatto un giro dell’Europa a piedi, poi i suoi passi lo hanno portato in Egitto. È arrivato a Sharm el-Sheik il 25 luglio 2021, prima di raggiungere la capitale egiziana il 27 luglio. Il 28 andava a visitare il quartiere Copte o il museo del Cairo. Il 4 agosto 2021, Yann ha promesso a sua sorella di aggiornarlo presto”. Aggiornamenti che, stando a quanto riferito, non sono mai arrivati. “Dato che non abbiamo avuto notizie, Yann è scomparso - conclude il post della famiglia -. Le autorità francesi ed egiziane sono state avvisate, ma finora non hanno informazioni”. Da qui la decisione di puntare sul potere di condivisione dei social nella speranza di poter riabbracciare il figlio e il fratello. L’appello della sorella: “Aiutateci” - Il post ha rapidamente raggiunto le 400 condivisioni. Solo quattro giorni fa un altro appello, stavolta firmato dalla sorella di Yann, Wendy. “Caro Network, mio fratello Yann è scomparso al Cairo, Egitto da quasi un anno” scrive la giovane, che lo descrive con “zaino sulla schiena, scarpe da trekking ai piedi”. “Stava girando l’Europa da solo - spiega -, prima di arrivare fino al Cairo. Di fronte alla mancanza di risposte, stiamo lanciando una chiamata per testimoni, una richiesta di aiuto. Ecco perché oggi vi chiedo aiuto, attraverso il vostro potere sulle reti: iscrivetevi, ci aiuterebbe, su Facebook, Instagram o anche Twitter. Grazie a tutti in anticipo per l’aiuto che potete darci”. Nell’ultima riga, quattro parole per il fratello: “Prenditi cura di te”. Anche sotto questo post commenti di vicinanza e promesse di condivisione dell’appello. I media - Oggi, con un video postato su Twitter, è stato un media di opposizione al governo egiziano, Rassd, a far luce sulla vicenda. Yann Bourdon stava compiendo un “tour mondiale”, scrive Rassd, e prima di giungere al Cairo aveva attraversato Europa e Turchia, come scritto di recente dal sito della tv francese Rtl. Dal novembre scorso “in Egitto è stata aperta un’inchiesta, per il momento senza esito”, ha aggiunto il sito, riferendo che anche il ministero degli Affari esteri francese sta seguendo caso. Rassd riprende poi un appello della madre, aggiungendo che la donna non crede in una sparizione volontaria. Riferisce, inoltre, citando il resoconto di Rtl, che “il conto in banca” del giovane è “stato svuotato presso un bancomat nel centro del Cairo”. “Non mi sembra assolutamente possibile - sono le parole della donna riportate da Rassd - che abbia deciso di tagliare i ponti e isolarsi per mesi senza dirmi ‘non mi sentirai’”. “Quando Bourdon arrivò in Egitto, era già passato più di un anno da quando aveva sospeso gli studi”, riferisce Rtl. “Capelli incolti e barba folta, sbarca nella località balneare di Sharm el-Sheikh poi fa l’autostop al Cairo. Dorme in un ostello”, viene aggiunto. Alla fine del breve video postato su Twitter, dal titolo “un nuovo Regeni?”, composto da immagini e scritte arabe in sovrimpressione, Rassd evoca il rapimento del ricercatore friulano “scomparso in Egitto nel gennaio 2016 prima che il suo corpo fosse scoperto scatenando una crisi diplomatica” con l’Italia che ha “accusato la polizia di essere dietro il suo omicidio”. Nigeria, tre condanne alla lapidazione per omosessualità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 luglio 2022 Mentre in Liberia il Senato ha approvato l’abolizione della pena di morte, in un altro stato africano, la Nigeria, c’è stato uno sviluppo molto preoccupante. Un tribunale dello stato di Bauchi ha emesso tre condanne alla lapidazione nei confronti di altrettanti uomini giudicati “colpevoli” di essere omosessuali. I tre imputati, di 20, 30 e 70 anni, non hanno potuto avere assistenza legale e sono stati condannati sulla base, secondo il giudice, delle loro “confessioni”. Bauchi è uno dei 12 stati della Nigeria, molti dei quali nel nord, che applicano la shari’a. L’articolo 134 del codice penale dello stato prevede che “chiunque commetta il reato di sodomia sarà punito con la morte tramite lapidazione o ogni altro metodo deciso dallo stato”. Negli stati dove non è applicata la shari’a, l’omosessualità è comunque un reato punibile con 14 anni di carcere. I tre condannati hanno ora 30 giorni di tempo per ricorrere in appello.