Se nelle carceri aumentano i suicidi di Mauro Palma* La Stampa, 10 luglio 2022 Un paio di settimane fa, la Ministra della giustizia, intervenendo pubblicamente, ha sottolineato la gravità di ventisei suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno. Oggi i suicidi sono 35, uno al giorno tra il 28 giugno e l’inizio di luglio. L’ultimo l’altro ieri, venerdì 7 luglio, a Sollicciano, dove un detenuto di 47 anni ha deciso di porre fine alla sua vita. Una sequenzialità che scandisce la recente drammatica accelerazione di questo fenomeno che riguarda istituti molto diversi l’uno dall’altro per tipologia, gestione e quotidianità interna, ma accomunati da quel senso di annullamento che il carcere attualmente proietta. L’Italia nel contesto europeo non è un Paese di molti suicidi. I numeri nella società libera, sebbene alti se si pensa che ognuno di essi riflette una vita, sono tra i più bassi: le 3.989 persone che si sono tolti la vita nello scorso anno rappresentano un tasso di 6,6 ogni centomila abitanti. Solo Cipro e la Grecia hanno un tasso inferiore, mentre Paesi a noi vicini hanno un tasso molto superiore come la Croazia, di quattro volte più alto o la Slovenia, di tre volte. Nella popolazione detenuta però il tasso sale a 108,6 cioè si moltiplica per più di sedici volte, rispetto a quello delle persone libere. Altrove, sebbene la partenza - cioè il valore nella società libera - sia più basso il fattore moltiplicativo e minore: il carcere incide meno. Le ragioni di un suicidio sono sempre imperscrutabili e personalissime e bisogna avvicinarsi al tema col dovuto rispetto e senza alcuna volontà di attribuire responsabilità o colpe. Ma l’osservazione degli ultimi dodici casi da parte dell’Ufficio del Garante porta ad alcune evidenze ricorrenti. Molte delle persone che hanno deciso di togliersi la vita erano giovani, quattro di loro avevano meno di trent’anni e solo due più di sessanta. Circa la metà era in custodia cautelare in attesa di giudizio e tra le cinque persone condannate con sentenza definitiva, quattro dovevano scontare pene brevi. Quale può essere dunque un filo comune che tiene insieme una possibile lettura di queste decisioni ultime? Il carattere ricorrente non è, come si potrebbe pensare, la non sopportazione di lungo periodo detentivo, quanto la percezione di sé stessi come detenuti, la propria auto-rappresentazione di non appartenenza alla collettività in senso largo per il fatto di trovarsi ora al di là di quei muri. Chi si trova dentro ha una percezione di irreversibilità; su di lui e sul suo destino si allunga fin da subito un cono di ombra scura a cui, in molti, non reggono. Il futuro scompare nelle parole ultimative con cui oggi si discute di carcere e di meritevolezza del castigo. Quindi, anche di implicito futuro stigma. Qui entra in gioco anche il modo con cui fuori si discute di dentro, il linguaggio con cui si commentano eventi anche drammatici, la richiesta di “buttare le chiavi”, l’applauso alle sentenze di ergastolo, il ridacchiare dei social nell’augurare una vita detentiva durissima, quasi non sia sufficiente la privazione della libertà che, invece, è in sé il contenuto della sanzione penale. Il linguaggio è un costruttore di significato quale modellatore non solo del senso comune diffuso, ma anche della propria percezione nel momento in cui si è all’interno di quel mondo che quel linguaggio qualifica nei suoi termini. E che, parola dopo parola, fa crescere fino a oltre sedici quel moltiplicatore di decisioni finali autodistruttive. Lo stesso immaginario riguarda anche l’aumento del tasso dei suicidi nel personale di Polizia penitenziaria, un dato consolidato negli ultimi anni. Se a una professione che richiede impegno e preparazione viene tolto il sostegno di una rappresentazione diffusa che le dia valore; se al contrario tale professione viene sempre connotata con una dequalificante terminologia del passato che la riduce a mera azione di controllo; se il riconoscimento sociale si restringe solo a qualche parola in particolari occasioni non può stupire che la difficoltà quotidiana, lo stress vissuto e la continua attenzione richiesta retroagiscano anche in una sfiducia nel proprio ruolo e a volte in una profonda depressione. Eppure in quei luoghi spesso irrispettosi anche dal punto di vista della materialità per chi vi è ospitato e per chi vi lavora, viene svolta una funzione centrale perché la società sappia reagire alle proprie lacerazioni. Perché sappia sempre ricostruirsi, anche dopo eventi drammatici. Non è possibile che, con la nostra disattenzione, si tramutino in luoghi di disperazione. *Garante nazionale dei diritti dei detenuti Botta e risposta tra le Ucpi e M5S sulle carceri. Caiazza: “Noi persone serie” di Davide Varì Il Dubbio, 10 luglio 2022 Dopo il caso Renoldi le prime parlano di “naufragio del travaglismo italico”, il secondo di “vicenda gravissima e senza precedenti”. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali “saluta con autentica soddisfazione l’ennesimo naufragio del travaglismo italico”: il capo del Dap Renoldi “ha infatti autorizzato esponenti di Nessuno Tocchi Caino a visitare cinque carceri sarde, due delle quali anche con reparti di 41 bis, esattamente come fece, tra gli altri, il dottor Basentini, capo del Dap voluto dal ministro Bonafede, con il Partito Radicale e con la Commissione Carcere della Camera Penale di Roma, d’altronde in coerenza con altre precedenti autorizzazioni (capo del Dap Santi Consolo, ministro Andrea Orlando, per esempio)”. A scriverlo, in una nota, sono le Camere Penali, che suggeriscono “ai promotori della ruggente campagna denigratoria immediatamente lanciata contro il dottor Renoldi (e dunque contro Cartabia, e dunque contro Draghi, e così via) di estendere a questo punto le proprie richieste di chiarimento all’on. Alfonso Bonafede, allora ministro di Giustizia, onde accertare le ragioni di un cosi’ doloroso collasso della integrità antimafiosa del proprio ministero, rendendone conto da subito ai propri colleghi parlamentari, oggi interroganti ed indignati”. Non solo. I Penalisti si dicono “ovviamente solidali con il dottor Renoldi, con la ministra Cartabia e con gli amici, a noi carissimi, di Nessuno Tocchi Caino”. Al tempo stesso si dicono “consapevoli che la miseranda vicenda non meriti nemmeno un soverchio impegno polemico: sono grotteschi colpi di coda di una nefasta parentesi politica che il Paese sta già dimenticando”. La risposta pentastellata arriva da Eugenio Saitta, capogruppo M5S nella commissione Giustizia della Camera, e da Giulia Sarti, responsabile Giustizia del Movimento Cinque Stelle. Saitta spiega di non capire “perché l’Unione delle Camere penali non abbia la nostra stessa esigenza di chiarezza rispetto a quanto avvenuto nelle carceri di Sassari e Nuoro, fatti gravissimi e senza precedenti”. Secondo l’esponente grillino “con toni sprezzanti ci si accusa di voler fare polemica politica nei confronti dei responsabili istituzionali interessati nella vicenda: falso”. Per poi spiegare che al M5S sta a cuore “solo la sicurezza del Paese e la tenuta delle norme contro la mafia”. Secondo Sarti invece “è sorprendente e molto grave la superficialità con cui l’Unione delle Camere penali, autorevole organismo del mondo forense, rilegge la vicenda delle visite di esponenti di “Nessuno tocchi Caino” nelle sezioni speciali delle carceri di Sassari e Nuoro” e “la vicenda è gravissima e senza precedenti, perciò deve assolutamente essere chiarita”. La contro-risposta arriva nientemeno che da Giandomenico Caiazza. “Vorrei ricordare agli onorevoli Sarti e Saitta che noi penalisti abbiamo la sana abitudine di parlare dopo aver letto le carte ed udito i testimoni - commenta Caiazza - Il 3 novembre 2017 esponenti radicali furono autorizzati dal Dap a visitare le carceri di Tolmezzo e Padova, ivi compresi i detenuti al 41 bis, e tanto avvenne: allo stesso modo, il 18 aprile 2019, ministro Bonafede (ma l’on. Sarti glissa) fu autorizzata identica visita con colloqui per il carcere di Viterbo, senza alcuna esclusione del 41 bis, i cui detenuti furono infatti pacificamente incontrati”. Per poi aggiungere che “il dottor Renoldi ha semplicemente replicato una consuetudine, dunque, appartenuta anche ai governi Cinque Stelle, ho le mail sotto i miei occhi”. E poi la stoccata finale. “Noi - conclude Caiazza - siamo persone serie, non spendiamo le nostre giornate parlando a vanvera e scrivendo castronerie, come altri usano fare, la prossima volta, on. Sarti, usi maggiore prudenza nel parlare di superficialità: per le brutte figure dovrebbe pur esistere un plafond, non trova?”. Finita qui? Nemmeno per sogno, perché in serata arriva la smentita dello stesso Basentini. “È l’ennesima volta che il mio nome viene adoperato in maniera completamente gratuita e in merito a una circostanza che non corrisponde al vero - spiega l’ex capo del Dap con Bonafede - Io non ho mai autorizzato i radicali né altre associazioni ad accedere al reparto del 41bis e in merito alla circostanza riportata dal comunicato dell’Unione delle Camere Penali riguardo la visita dei radicali nel 2019 al carcere di Viterbo, senza alcuna esclusione del 41 bis, chiarisco quanto segue: all’epoca i permessi per le visite in carcere venivano dati per competenza dal Direttore generale dei detenuti e del trattamento, dottor Piscitello. Poteva capitare che li desse, in casi particolari, il capo del Dap, ma in merito alla circostanza di Viterbo, fu sempre il dottor Piscitello a fornire il permesso per la consueta visita dei radicali. Poi, per quanto sono riuscito a ricostruire, i radicali vollero accedere anche al reparto del 41bis. L’autorizzazione venne data dal dottor Piscitello per un mero equivoco telefonico mentre la delegazione radicale era già sul posto. Quando mi venne comunicato con una relazione del comandante del carcere che i radicali avevano fatto visita anche ai reclusi del 41bis io feci subito una nota diretta al Direttore generale dei detenuti e del trattamento e per conoscenza al capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia chiarendo, letteralmente, che fosse “pacifico che simili concessioni non possono essere rilasciate”. L’impressione è che non finirà qui. “Mai autorizzai colloqui ai 41bis come Renoldi” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2022 Per i penalisti, Renoldi autorizzò “Nessuno tocchi Caino” come fece il suo predecessore Basentini. Ma una lettera dice il contrario. L’Unione camere penali in lode della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del capo del Dap Carlo Renoldi che, come ha ricostruito Il Fatto, ha autorizzato il 7 e il 10 maggio scorsi i vertici di “Nessuno tocchi Caino” a visitare le sezioni 41-bis delle carceri di Sassari e Nuoro, dove la delegazione presieduta da Rita Bernardini ha avuto conversazioni dirette con i detenuti mafiosi e li ha invitati a iscriversi all’associazione. L’Unione camere penali ha attaccato poi il M5s che, come FdI, ha presentato un’interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia. L’Ucpi sostiene che i 5S dovrebbero chiamare in causa anche il loro ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Il capo del Dap, il dottor Renoldi, ha autorizzato esponenti di ‘Nessuno Tocchi Caino’ a visitare cinque carceri sarde, due delle quali anche con reparti di 41 bis, esattamente come fece, tra gli altri, il dott. Francesco Basentini, capo del Dap voluto dal Ministro Bonafede”. I penalisti si riferiscono alla visita del 22 aprile 2019, quando una delegazione di “Nessuno tocchi Caino”, anche allora presieduta da Rita Bernardini, visitò il carcere di Viterbo per una situazione molto critica dei detenuti comuni, e vide anche la sezione 41-bis. Al Fatto Quotidiano, però, non risulta che Basentini abbia mai autorizzato visite del genere. Anzi, abbiamo potuto leggere una lettera del 2 maggio 2019 inviata da Basentini all’allora direttore generale dei detenuti del Dap, Roberto Piscitello, in cui si evince che fu Piscitello a dare l’assenso (via telefono) a “Nessuno tocchi Caino” per l’ingresso nella sezione 41-bis di Viterbo. Scrive infatti Basentini, sulla base di una relazione di servizio che aveva ricevuto: “Sono certo che, in riferimento all’autorizzazione data dalla S.V. (Piscitello, ndr) alla delegazione dei Radicali all’accesso nella sezione dei detenuti” al 41 bis “la suddetta autorizzazione sia stata il frutto di un mero equivoco telefonico, essendo assolutamente consueto e pacifico - anche sulla scorta di quanto concordato tra gli Uffici - che simili concessioni non posso essere rilasciate”. Piscitello, contattato in merito dal Fatto, ricorda: “Risposi a quella lettera dicendo al Capo del dipartimento che l’articolo 117 dell’ordinamento penitenziario permette al Dap di autorizzare visite agli istituti penitenziari, anche all’interno dei reparti 41-bis. All’interno di quei reparti, però, vigono le norme dell’ordinamento penitenziario che attribuiscono la facoltà di fare colloqui, cosa ben diversa dalle visite, solo nei limiti delle rigorose disposizioni di cui al 41-bis”. D’altronde, in quella visita di Viterbo non ci risulta che la delegazione di Nessuno tocchi Caino abbia conversato con i detenuti al 41-bis, come è avvenuto invece a Sassari e a Nuoro, dove s’è svolto uno scambio di battute (presente anche il boss stragista Leoluca Bagarella) pure sulla riforma dell’ergastolo ostativo oltre che sulle condizioni di salute. Che le visite siano una cosa ben diversa dai colloqui, mai autorizzati neppure da Piscitello, si può anche evincere dall’allarme da lui lanciato all’Antimafia il 30 maggio 2019: “Alcune recentissime sentenze hanno concesso ai Garanti (comunali o regionali, ndr) la facoltà di accedere nelle sezioni e chiedere dei colloqui riservati con detenuti al 41-bis: a mio vedere è un vulnus pericolosissimo perché mina ogni controllo. Il colloquio del detenuto in 41-bis con la famiglia avviene attraverso un vetro e viene registrato: nulla può sfuggire. Mentre un Garante che ha facoltà di un colloquio riservato può conferire liberamente, al di là di ogni controllo. Con questo sistema si può eludere ogni separatezza del regime restando questo solo con gli orpelli, le vessazioni”. Sempre l’Unione camere penali parla pure di “naufragio del travaglismo italico” e di “miseranda vicenda” che non merita “nemmeno un soverchio impegno polemico”, anche se poi il presidente Gian Domenico Caiazza se la prende col Fatto e col direttore Marco Travaglio. L’Ucpi chiama in causa il M5S, che replica con la responsabile Giustizia Giulia Sarti: “È sorprendente e molto grave la superficialità con cui l’Ucpi rilegge la vicenda delle visite di esponenti di ‘Nessuno tocchi Caino’ nelle sezioni speciali delle carceri di Sassari e Nuoro e tenta di far apparire la critica 5S come un modo per limitare genericamente gli ingressi in carcere. È un evidente abuso, agevolato da un’omissione nel ‘passi’ rilasciato da Renoldi, come ammesso dalla stessa Bernardini in dichiarazioni pubbliche: non vi sarebbe stata infatti nessuna specifica autorizzazione all’ingresso nelle sezioni del 41-bis”. Donne in carcere: la situazione di Sara Rossi metropolitanmagazine.it, 10 luglio 2022 Sovraffollamento, malfunzionamenti, carenza di personale. Questi sono solo alcuni dei problemi che riguardano le carceri italiane. Quando poi chi vi è rinchiuso è donna, a questi si aggiungono anche diversi problemi di genere. Anche la prigione infatti appartiene a quella serie di realtà che prende a riferimento il maschile, e solo questo. Le carceri non sono posti per donne, e non perché quest’ultime siano troppo deboli per poter sostenere una detenzione o perché debbano, in un atto di umiliante pietas, essere giustificate, ma perché le carceri non sono a loro misura. E manca anche qualcuno che lotti per le donne in carcere, da fuori le mura. Dati e vita delle donne in carcere - Il 31 marzo di quest’anno erano 2.276 le donne presenti negli istituti penitenziari del Paese, ossia il 4,2% del totale dei detenuti. Un numero che negli ultimi due anni ha più o meno oscillato, mantenendosi comunque costante. Di queste donne in carcere solo 576 sono state ospitate nelle 4 prigioni esclusivamente femminili del territorio: 321 e 146 rispettivamente nelle due Case a Roma (“Rebibbia”) e Pozzuoli e 64 e 45 in quelle di Trani e Venezia (“Giudecca”). Solamente 8 invece nell’Istituto a custodia attenuata (Icam) per madri detenute, recluse con i propri figli minori di 3 anni. Le altre donne invece divise nelle 46 sezioni femminili di carceri maschili. La vita in istituti pensati e fruiti per la maggior parte da uomini è, com’è immaginabile, complessa. Le donne hanno bisogni specifici che non sempre trovano risposta. Solo il 62,5% delle carceri visitate dall’associazione Antigone disponeva di un servizio di ginecologia, mentre il 21,7% di quello di ostetricia. Solo nel 58,3% dei casi, poi, nelle celle era presente il bidet, disposto dal regolamento di esecuzione da più di vent’anni. Come possono le donne in carcere ottenere i servizi necessari? Semplicemente, basterebbe implementare i servizi per le donne, a prescindere da quante ne siano detenute. In realtà, però, vige una specie di rapporto proporzionale: più il numero di donne in carcere aumenta e più c’è possibilità che questo accada. Si consideri però i casi della Casa di Reclusione di Paliano o di quella Circondariale di Mantova, dove sono presenti rispettivamente solo 3 donne su 70 detenuti e 5 su 130. Da un estremo all’altro: a eccezione di quella di Venezia, le carceri femminili del Paese sono sovraffollate: Trani con il 140,6%, Pozzuoli con il 139% e Rebibbia femminile con il 123,5% di detenute. Delle donne in carcere dall’inizio del 2022, il 31,9%, ossia 727 detenute, è di origine straniera. Per loro, il pericolo di una marginalizzazione è ancora maggiore, con la barriera linguistica come ennesimo limite invalicabile. E per le detenute si fa poco anche fuori - Secondo un sondaggio di “Women Beyond Walls”, il 70% dei gruppi che lavorano con le donne in carcere non riceve fondi dalle associazioni femministe e più di un quarto ha affermato di non garantire di poter continuare a operare a causa della mancanza di fondi. La ragione è spiacevole, ma ben si accorda con una realtà sempre più orientata al mostrare felicità, benessere e perfezione: le donne in carcere sono figure controverse e, per usare un prestito dalla televisione, “non fanno ascolto”. A spiegarlo Sabrina Mahtani, fondatrice di “Women Beyond Walls”. In genere c’è una percezione negativa delle donne in carcere e delle detenute, ed è questa percezione che rende difficile alla società sostenerle, affiancarle. La questione del crimine non è mai un interesse per la maggior parte dei donatori o finanziatori aziendali, che per la maggior parte scelgono di non associare il proprio nome alle carceri”. Una questione di immagine, dunque. Ma allora di quale femminismo stiamo parlando? Come può un gruppo femminista definirsi tale, se poi non assolve al valore fondante del femminismo stesso? Se poi si preferisce abbandonare queste donne, disinteressarsi, che aiutarle a liberarsi e combattere con e anche per loro l’oppressione di genere? “Il carcere è un luogo tra i più terribili. Continuo a indagarlo con il teatro” di Andrea Porcheddu L’Espresso, 10 luglio 2022 Armando Punzo negli anni Ottanta ha dato vita alla più incredibile esperienza del teatro italiano: la Compagnia della Fortezza. Ora, mentre il carcere di Volterra accoglie il teatro stabile, il fondatore vara un nuovo spettacolo. Me le ricordo bene le prime volte in cui si entrava nel carcere di massima sicurezza di Volterra. I documenti, i controlli, le sbarre, i metal detector, le lunghe attese allo spaccio bar o nei corridoi. Ci voleva tempo per arrivare nel cortile della rocca medicea del piccolo centro toscano. Eravamo emozionati e spaventati, noi spettatori chiamati ad assistere agli spettacoli della Compagnia della Fortezza, fondata e guidata da Armando Punzo. Dagli anni Ottanta - il 1988 è l’anno di fondazione del gruppo di teatro composto da detenuti attori - le mura spesse del carcere erano testimoni di una delle esperienze più incredibili della storia del teatro italiano. E noi spettatori di professione non potevamo non dare conto di tanta emozione: a leggere le cronache di quelle prime aperture, i critici abbondano di un “impressionismo” emotivo difficile da domare. Sappiamo bene cosa sono le carceri italiane: l’impatto era talmente forte che superava ogni lucida analisi critica. Ma il regista ci ha guidati, anno dopo anno, ogni luglio, a lavori sempre più complessi, raffinati, profondi. Creando una poetica tutta sua, intrecciata indissolubilmente alle presenze - ai corpi, alle voci, alle storie - dei detenuti-attori. Ora, mentre il carcere si apre per “Naturae-La valle della permanenza” (questo il titolo dello spettacolo 2022) e per un progetto che coinvolge anche comuni limitrofi, Punzo rivendica la potenza dell’Utopia. Se Michelangelo Pistoletto diceva che “gli artisti realizzano le utopie, altrimenti non sono”, Armando Punzo è l’uomo dell’utopia incarnata. Perché la sua ricerca - personale e collettiva - è davvero un costante richiamo alla meraviglia di un sogno impossibile che diventa reale. “Il desiderio di vedere un mondo e un Uomo che si possano trasformare. Il cambiamento non può essere solo una speranza differita nel tempo, un paradiso da raggiungere. Occorre agire quotidianamente per ottenere dei cambiamenti. E il mio lavoro lo testimonia. Utopia è una parola che ha avuto un declino terribile, ha assunto un’accezione quasi negativa. “Utopista” è un’offesa: indica qualcuno fuori dal mondo, che non ha capito che è meglio essere pragmatici, realisti. Insomma, un inconcludente sognatore. Invece, ho sempre cercato, e in particolare negli ultimi otto anni, di difendere l’Utopia. Ricordo bene cosa era il carcere quando siamo arrivati, quando è arrivato il teatro, quando è arrivata un’altra possibilità per l’essere umano. So come questo luogo è cambiato, quanto ancora si trasforma, quanto le persone si trasformano. E non è un aspetto che tocca solo i detenuti. Di solito, la trasformazione viene veicolata e banalizzata nel concetto di riabilitazione o di rieducazione. No: la prigione è un luogo della realtà tra i più terribili, concretissimo, monolitico, claustrofobico. Ma quando si incontra con un punto di vista diverso, non riesce più a rimanere tale, è obbligato a trasformarsi”. In effetti, la prospettiva di questo viaggio artistico e certamente politico è affascinante. Di solito, si sa, è il contesto a determinare il testo. L’ambiente influenza quanto vi accade - e non potrebbe essere altrimenti. Raccontava Susan Sontag che, quando andò a fare “Aspettando Godot” nella Sarajevo assediata, il testo “assurdo” di Beckett diventava quasi neorealismo: non c’era da mangiare, si dormiva all’aria aperta nel freddo e Godot, come la Nato, non arrivava mai. A Volterra, però, le cose sono andate diversamente. L’azione del teatro ha fatto sì che il “testo” - ossia la pratica scenica - sia riuscito a modificare il contesto. Adesso si sta lavorando per la costruzione di un vero e proprio teatro dentro il carcere: “Sì, un Teatro stabile in carcere”, dice Punzo: “Ne ho parlato la prima volta 22 anni fa. Ora ci stiamo riuscendo, i lavori inizieranno”. Insomma, questo progetto nato sul finire del secolo scorso sta trovando una rinnovata vitalità. Certo non è mutato l’ardore iniziale: la spinta, oscura eppure creativa, di un giovane regista che, dopo esperienze importanti (come con Jerzy Grotowski) arrivava nel carcere per capire, studiare, mettersi alla prova. “Mi sono reso conto che non è stata una scelta occasionale né superficiale. Non volevo fare qualcosa di “strano” per poi tornare nel teatro mainstream. Ho rifiutato tante proposte. Ho cercato invece un lavoro in profondità. E continuo a indagare questo luogo: luogo ordinario, ossia l’edificio, il carcere, con le sue contraddizioni e luogo che è “l’attore”, l’Uomo”. Già, l’essere umano. Quando noi spettatori ci perdevamo nel labirinto costruito per “Orlando Furioso”, quando ci incantavamo per un Pasolini spinto a un paradossale “elogio del disimpegno”, quando risuonavano le parole di Shakespeare, era - ed è - serrato il confronto tra individui chiamati senza reticenze a guardarsi negli occhi nella dimensione della detenzione. Chi sono quei reclusi-attori? Oggi Punzo invita a superare il canone occidentale, a sganciarsi dalla meravigliosa descrizione dell’Umano creata da Cervantes e Shakespeare. Con il Bardo la Compagnia della Fortezza ha fatto i conti: oggi non basta più. “È intoccabile Shakespeare? È vero: il suo racconto dell’Uomo è enorme. Noi siamo anche ciò che lui ha straordinariamente scritto. Ma ne dobbiamo uscire. Dobbiamo fermare la claustrofobica “ruota della vita”. Non sono buddista, ma quel concetto è concretissimo e terribile. Pensare che non potremo mai uscire dalla “ruota della vita” mi angoscia. Eppure, molti artisti, di fatto, ci chiudono comunque nell’eterna ruota della vita. Oggi abbiamo continuamente notizie che confermano quanto siamo orribili come esseri umani e quanto non riusciamo mai ad affrancarci da questa natura terribile. Ma perché dobbiamo continuare a raschiare il guazzabuglio brutto che siamo e che sono, e invece non proviamo a interrogarci su un “poi”? Come ci allontaniamo dal noi stessi di sempre?”. Punzo parla di “liberato in vita” cui aspirare, piuttosto che il “liberato in morte”, salvato o meno da religioni o credenze in un paradiso-altrove. E il concetto di libertà - per chi lavora in un carcere - è ovviamente nodale. La questione, però, non è tanto né solo uscire dalle celle, quanto piuttosto provare ad andare oltre sé stessi. Sembra quasi di sentire Antonin Artaud, il visionario folle, quando parlava di “corpo senza organi”, capace di “danzare alla rovescia”, liberato davvero dalla schiavitù dell’anatomia. Risuona in Armando Punzo: “Bruciare in scena. Morire a sé stessi: dobbiamo imparare a far morire la parte più ordinaria di noi, per liberare la creatività, il sé potenziale straordinario sommerso dalla quotidianità. La “Conferenza degli uccelli” di Farid al-Din Attar è il racconto di un viaggio cui mi piace accostare il nostro. L’upupa invita al volo: ma gli uccelli accampano pretesti per non muoversi. Ecco, noi stessi siamo i pretesti per non cambiare. Dobbiamo provare ad andare verso un oltre, per vivere l’esperienza della meraviglia, per coltivarla poi, dopo il teatro”. Negli ultimi anni, dunque, la Compagnia e Punzo hanno abbracciato questo percorso complesso e difficile. La svolta c’è stata con l’incontro con l’universo di Borges, che ha portato ad uno spettacolo di folgorante bellezza, “Beatitudo”. Ma anche il poeta argentino non è stato sufficiente. Di nuovo punto e a capo. La ricerca non si è fermata. Adesso arriva “Naturae”: “Ci siamo chiesti, senza pietà, se eravamo capaci di fare quel che sognavamo e che avremmo voluto e dovuto fare. Sono in grado, nella mia vita, di allontanarmi da me stesso, di mettermi in crisi, di pormi domande e mandare tutto all’aria? Borges ci ha aiutato, ha indicato personaggi diversi: di “Beatitudo” siamo contenti, la scena è bellissima, con un lago creato nel cortile del carcere. Ma i dubbi non passavano”. Ecco allora le indagini sulle “nature” dell’Essere Umano: nature sommerse, che cercano di uscire e cui noi, con mille scuse, non diamo spazio. “Cercare l’armonia”, dice Punzo, “è faticosissimo. Abbiamo le nostre abitudini, le soluzioni comode, e invece dobbiamo allontanarcene. Sembra, paradossalmente, che stiamo vivendo la migliore esperienza di vita possibile. E non parlo delle guerre, delle catastrofi, delle crisi. È assurdo, no? Invece quel che vorrei è passare da homo sapiens a homo felix”. La cosa strana, sorprendente, è che ci stiano provando in un carcere di massima sicurezza. E magari ci riescono. Dal carcere al palco: così grazie al teatro si riscattano gli ex detenuti di Francesca De Sanctis L’Espresso, 10 luglio 2022 La Compagnia Fort Apache di Roma composta da attori con precedenti penali, il Teatro libero di Rebibbia e i tanti talenti emersi da San Vittore a Castelfranco Emilia. Ecco come l’arte aiuta a ricostruirsi una vita. “O vinci o muori, era questo il nostro destino”. E in caso di caduta, fine di ogni prospettiva. Se sei difettoso, vieni abbattuto, cancellato, accantonato. Succede di continuo. Non possiamo permetterci di sbagliare, perché la società semplicemente non lo accetta. Figuriamoci se si cade a causa di un crimine. Figuriamoci se si va contro la legge e poi si finisce rinchiusi per anni in un carcere. Ripenso a quelle parole pronunciate sul palcoscenico del Teatro India di Roma, ai corpi degli attori, alle loro catene e alle bare-abbeveratoio sistemate a terra. Lo spettacolo così carnale, puntellato da picchi poetici, è “Destinazione non umana”, il nuovo lavoro della Compagnia Fort Apache Cinema Teatro, l’unica compagnia stabile costituita da attori ex detenuti, che si sono formati nelle diverse carceri di provenienza. La dirige Valentina Esposito, autrice e regista, che da oltre 20 anni conduce attività teatrali dentro e fuori le prigioni italiane, con grande costanza e passione. Ricorderete sicuramente Marcello Fonte, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2018 per la sua interpretazione come attore protagonista di “Dogman”, il film di Matteo Garrone. Ecco, lui, per esempio, proviene proprio da lì, da quel groviglio di storie di vita che è Fort Apache. Ci arrivò per caso, quando morì all’improvviso un ex detenuto e lui, che faceva il custode del centro sociale romano Nuovo Cinema Palazzo, sapendo a memoria la parte, lo sostituì, diventando attore stabile della compagnia. Garrone lo vide e se ne innamorò. In tanti rinascono grazie al teatro. Fra gli ex detenuti ci sono anche dei talenti, poi approdati anche al cinema, come Aniello Arena, ex ergastolano del carcere di Volterra, cresciuto professionalmente nella Compagnia della Fortezza di Armando Punzo e interprete di vari film, come “Ultras” di Francesco Lettieri. Oppure Salvatore Striano e Cosimo Rega, divenuti noti al grande pubblico soprattutto grazie al film del 2012 diretto dai fratelli Taviani “Cesare deve morire”, coprodotto dal Centro Enrico Maria Salerno che li seguiva da tempo. Entrambi, infatti, hanno recitato per anni sul palco del Teatro Libero di Rebibbia, grazie a Fabio Cavalli e a Laura Andreini Salerno, da vent’anni attivi nel carcere romano con laboratori, spettacoli, seminari. Ricordo quel pomeriggio del 2005 in cui andò in scena per la prima volta “La tempesta” di Shakespeare nella riscrittura che ne fece Eduardo De Filippo in dialetto napoletano. Fu interpretata dai detenuti del reparto di “alta sicurezza” di Rebibbia, diretti da Fabio Cavalli, che aveva collaborato fino alla fine con Isabella Quarantotti, moglie di Eduardo, scomparsa tre mesi prima del debutto. Gli occhi dei detenuti brillavano dalla felicità. Un lavoro prezioso, dunque, quello che viene svolto all’interno delle nostre carceri. A Milano, per esempio, Donatella Massimilla lavora con detenuti e detenute del carcere di San Vittore dal 1989. Di recente, hanno portato in scena “Le Visite in Versi”, in cui le attrici del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) recitano e cantano in diverse lingue del mondo, donando una nuova musicalità alle poesie di Alda Merini. Nel Carcere di Castelfranco Emilia (Modena), invece, è stato allestito di recente “Odissea”, una produzione Teatri dei Venti in coproduzione con Ert / Teatro Nazionale, con la regia di Stefano Tè, in cui attori professionisti e carcerati erano in scena insieme, in un viaggio nel quale gli spettatori stessi erano parte dell’equipaggio. Insomma, se ad entrare nel carcere è il mondo, che si accende grazie al teatro, la rinascita è possibile. E per tornare a “Destinazione non umana” (che sarà in tournée a Campobasso, Narni e poi Milano nel 2023), quello spettacolo racconta proprio questo: il senso di solitudine, la precarietà, la paura della morte e del dolore, che riguarda tutti noi e ancora più chi viene da quel mondo carcerario, dove ciascuna persona sembra essere in attesa di una “macellazione”, proprio come i sette cavalli da corsa geneticamente difettosi al centro della pièce. Ma il teatro, forse, può aiutare a cambiare rotta. Firenze. Poliziotto suicida in carcere: il suo disagio era stato segnalato al Gip di Luca Serranò La Repubblica, 10 luglio 2022 È l’agente arrestato dopo la violenza alle Cascine. “Sollicciano aggrava la condizione di chi è in difficoltà”. Due mesi fa era stato arrestato e poi sospeso dal servizio. Venerdì scorso, ormai stremato dai rimpianti e dall’onta della galera, ha legato i lembi di un lenzuolo alla finestra e li ha usati come un cappio. È finita in modo drammatico la vita dell’agente della questura che lo scorso 19 maggio, al parco delle Cascine poco distante dalla fermata della tramvia, aggredì un nordafricano (con precedenti per spaccio) per poi esplodere due colpi di pistola in aria. L’uomo, denunciato per gli spari e arrestato insieme alla compagna per aver fatto resistenza ai carabinieri, era detenuto in una sezione protetta e non aveva compagni di cella. Sono state le guardie penitenziarie a trovare il corpo senza vita e a dare l’allarme, ma per lui non c’è stato niente da fare. Indagini sono ora in corso per ricostruire i suoi ultimi momenti di vita: la procura ha aperto un fascicolo e formulato una prima ipotesi di omicidio colposo, funzionale allo svolgimento dell’autopsia in programma nei prossimi giorni all’istituto di medicina legale di Careggi. Di certo, come riferito da più testimoni, il poliziotto era caduto in una fortissima depressione appena oltrepassati i cancelli del carcere. Secondo fonti vicine alla direzione del carcere, i propositi suicidi erano stati intercettati dagli operatori della struttura, nel corso dei colloqui, tanto che nei giorni scorsi il caso era stato segnalato al gip e alla procura. Persone vicine all’agente raccontano di una triste parabola discendente iniziata già da alcuni anni, per vicende personali che avevano portato al trasferimento per incompatibilità ambientale dalla questura di Rimini a quella di Firenze. Dopo un breve periodo al corpo di guardia della questura, lo scorso 19 maggio il poliziotto ha di fatto chiuso la sua esperienza con la polizia con il clamoroso raid contro il presunto pusher nordafricano. Secondo la ricostruzione l’agente voleva vendicare uno screzio tra l’uomo e la compagna, avvenuto il giorno prima: durante lo scontro avrebbe colpito il rivale con il calcio della pistola e poi esploso due colpi in aria, prima di scappare in scooter verso l’appartamento condiviso con la fidanzata. Poi l’arrivo dei carabinieri, la reazione scomposta e violenta, e l’arresto. Durissimo per lui, dopo una lunga carriera (tra Roma e Rimini) in cui aveva anche raccolto alcuni encomi, accettare il contrappasso della galera. Giorni, settimane di isolamento forzato e di pensieri sempre più cupi, fino a quando due giorni fa la sua vita è finita. Un’altra vittima del sistema carcerario, secondo il cappellano di Sollicciano, don Vincenzo Russo, e in particolare proprio del degrado della casa circondariale fiorentina. “Sollicciano aggrava la condizione delle persone in difficoltà - commenta - La morte di questo giovane uomo è un drammatico richiamo alle responsabilità di tutti, le condizioni del carcere sono invivibili e non possiamo continuare a essere spettatori passivi di questo scempio e di queste morti. Lui aveva una sua sofferenza interiore molto forte e la detenzione ha fatto il resto. Ci sono tante persone in condizioni analoghe, che hanno crisi, compiono gesti di autolesionismo”. Firenze. Il poliziotto suicida in carcere era in attesa del trasferimento di Manuela Plastina La Nazione, 10 luglio 2022 Aveva chiesto di essere spostato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Giovedì era in aula quando la vittima aveva raccontato davanti al gip. Ci aveva già provato, a togliersi la vita, l’assistente capo della polizia di Stato in custodia cautelare a Sollicciano con l’accusa di aver sparato a un gambiano alle Cascine: una volta a casa (lo aveva riferito lui al giudice) e altre volte in cella. Ci è riuscito ieri, nonostante una sorveglianza speciale. Ci è riuscito ieri, quando a Sollicciano c’erano i vertici del Dap, la politica, il tribunale di sorveglianza a discutere del “senso di umanità” della giustizia. Una beffa, insomma, che deve far riflettere sulle condizioni complessive ed individuali del carcere. Era quello il luogo più adatto per la misura a cui era sottoposto? L’avvocato Marco Calabrese, suo legale, aveva fatto richiesta di trasferimento nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. L’ok non era ancora arrivato. Anche il penitenziario aveva informato procura e gip della situazione psicologica del detenuto, 46 anni, padre separato, che per altro era comparso in udienza giusto giovedì mattina per l’incidente probatorio del procedimento in cui era indagato. “L’ho visto molto male”, commenta una persona che era presente. Poca voglia di commentare l’accaduto in questura. Il Siulp, il sindacato più rappresentato in polizia, per bocca del segretario Riccardo Ficozzi, si dice “rattristato per l’accaduto, esattamente come lo è ogni volta che un essere umano ricorre a gesti così estremi. Nel merito, però, non conoscendo i pregressi del collega, trasferito a Firenze solo in tempi recentissimi, né tantomeno i suoi trascorsi, ritiene inopportuno esprimere qualsivoglia considerazione in ordine alle motivazioni che, nel mese di maggio scorso, hanno indotto l’autorità giudiziaria a trarlo in arresto”. La procura, intanto, ha disposto l’autopsia, che servirà a stabilire che il decesso sia avvenuto per via dell’impiccagione. Il poliziotto avrebbe usato le lenzuola presenti nella cameretta, che occupava da solo, per togliersi la vita. L’accertamento medico-legale viene disposto nell’ambito di un fascicolo aperto contro ignoti sulla base di un’ipotesi di omicidio colposo. È stata la polizia penitenziaria a trovarlo privo di vita, durante il giro delle celle del pomeriggio. “Come sapete, abbiamo sempre detto che la morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato”, commenta amareggiato Donato Capece, segretario generale del sindacato della penitenziaria Sappe. “Non so se l’uomo avrebbe potuto o meno, in quanto appartenente alle Forze dell’Ordine, chiedere di scontare la detenzione in un carcere militare e neppure se questo avrebbe impedito che si togliesse la vita. Certo è che mi sembrano essere questi i problemi reali penitenziari sui quali Autorità istituzionali e politiche dovrebbero porre attenzione piuttosto che pensare a qualsiasi ipotesi di cancellare l’ergastolo in Italia…”. Il poliziotto, trasferito da Rimini a Firenze per questioni disciplinari, era indagato per l’episodio delle Cascine del 19 maggio scorso in cui, per motivi in corso di indagini da parte dei carabinieri, in una lite ferì un cittadino del Gambia con un coltello e poi sparò due colpi con la Beretta d’ordinanza, uno dei quali, secondo le accuse, alla figura di questa persona. Venne denunciato per questo, ma lo stesso giorno i carabinieri lo arrestarono per resistenza, oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale a causa delle pesanti intemperanze avute durante la perquisizione quando oltre a ostacolare le ispezioni rimase ferita una donna carabiniere. Il 46enne fu messo ai domiciliari, ma sue successive violazioni a questi obblighi, portarono il gip ad aggravare la misura con quella della carcerazione. Torino. Infarto in cella, morto il boss di Sant’Anastasia di William Argento ilfattovesuviano.it, 10 luglio 2022 Gerardo Perillo, boss della camorra di Sant’Anastasia (Napoli), è morto venerdì 8 luglio. Aveva 68 anni. Ad ucciderlo un infarto che lo ha colpito in carcere. Il decesso è sopraggiunto all’ospedale Maria Vittoria di Torino, dove era stato trasportato in ambulanza dal vicino carcere delle Vallette. Qui era detenuto. L’uomo aveva alimentato un problema addominale, poi il malore. Perillo era detenuto per alcuni omicidi e per altri reati. Era considerato il capo del clan Perillo-Panico, noto soprattutto per una serie di delitti avvenuti a inizio anni Duemila e tuttora attivo sul territorio della provincia di Napoli. Un infarto, dunque, è la causa del decesso a Torino dell’esponente di spicco del clan Perillo-Panico operativo a Sant’Anastasia, Gerardo Perillo. Era ricoverato all’ospedale Maria Vittoria di Torino. Nel carcere delle Vallette, era detenuto per alcuni di delitti avvenuti nei primi anni del 2000. Napoli. A Poggioreale detenuto dà fuoco alla cella. “La situazione è allarmante” di Elena Del Mastro Il Riformista, 10 luglio 2022 La rovente estate continua portare alle cronache storie tremende di disagio e insofferenza dal carcere di Poggioreale, nonostante gli sforzi dell’amministrazione di Carlo Berdini e le segnalazioni continue dei garanti locali. Un detenuto extracomunitario ha dato fuoco, con una sigaretta, alla cella dove era recluso nel Reparto Avellino del carcere di Poggioreale. È accaduto venerdì 8 luglio, a riferirlo, oggi, il segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria (Sappe), Donato Capece. “Le fiamme e il fumo - racconta - si sono estese in tutta la Sezione. Ancora una volta solo grazie all’immediato intervento del personale di polizia penitenziaria si è riusciti a mettere in sicurezza 14 detenuti, nonostante le fiamme ed il fumo avessero reso difficili le operazioni di soccorso. Il tutto è avvenuto con un numero fortemente ridotto di agenti per la nota carenza del personale, in un carcere che ha superato le 2.200 presenze tra i detenuti”. “La situazione è grave in Campania: è ora di dire basta. Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio a Poggioreale lo fanno con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento. Ma servono urgenti provvedimenti per frenare una situazione operativa che è semplicemente allarmante”, conclude Capece. Ma le cronache dal carcere si fanno via via più allarmanti. Un detenuto di 47 anni è morto lo scorso 11 giugno all’ospedale Cardarelli di Napoli dopo essere stato trasferito d’urgenza dal carcere di Poggioreale dove era recluso. L’uomo di nazionalità straniera si chiamava Sinka Sada e, secondo una prima ricostruzione, avrebbe avvertito intorno all’una un dolore toracico e addominale oltre a una forte sudorazione e a un senso di nausea. Trasferito d’urgenza con un’ambulanza del 118 in ospedale, è deceduto intorno alle 5 a causa di un infarto fulminante. La notizia è stata diffusa da Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti dei detenuti. “Era un senza fissa dimora, non aveva parenti e non faceva colloqui da tempo con nessuno. Nell’ultimo incontro avuto con il suo legale era sereno e tranquillo e non le avrebbe lamentato alcun problema di salute” sottolinea Ciambriello che aggiunge: “Nelle ultime settimane altri due detenuti del carcere di Poggioreale, uno di loro 72enne, hanno rischiato di morire per arresto cardiocircolatorio. Il più anziano versa ancora in condizioni precarie di salute ed è ricoverato in ospedale. Sempre a Poggioreale, nel mese di maggio, è deceduto per infarto un sovrintendente della polizia penitenziaria. In molte circostanze, a poco serve il pronto intervento dei medici e degli agenti”. Da qui la richiesta di pene alternative al carcere, soprattutto in una casa circondariale, come quella di Poggioreale, dove il sovraffollamento non fa più notizia. “Per questo, invoco un’inversione di tendenza: due detenuti su tre hanno seri problemi di salute (48% malattie infettive, 32% disturbi psichiatrici, 20% malattie cardiovascolari), quindi per loro e per gli anziani devono essere applicate misure alternative alla detenzione in carcere; bisogna potenziare l’area penale esterna, concedere maggiormente i permessi premio. È chiaro che affinché tutto questo si realizzi è necessario incrementare il personale del Tribunale di sorveglianza e gli stessi magistrati di sorveglianza, in carenza organica e gravati di moltissime richieste”. Anche perché in carcere non viene garantito un sistema di assistenza sanitaria adeguato: “Due cose reclamo negli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano - incalza Ciambriello - manca il medico h24 in ogni reparto, gli ambienti in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento, questo specialmente a Poggioreale, sono angusti. Si trovano a vivere in camere di pernottamento non ariose, non possono usufruire più volte al giorno della doccia e questo, specie nella stagione più calda, può provocare dei disagi e malori. Non è possibile che ci siano, nelle carceri, così pochi medici generici e specialistici e manchino quasi completamente attrezzature di diagnostica, senza dover attendere tempi lunghissimi. Che questa ennesima morte, sensibilizzi le istituzioni. Mi auguro che l’Asl di Napoli 1 quanto prima provveda ad assumere medici generi e specialistici, infermieri ed Oss, nonché acquistare attrezzature specialistiche da destinare all’interno delle carceri”. Asl che ha già confermato che presto arriveranno più sanitari. Lo stesso Ciambriello ha poi denunciato una vicenda paradossale, ovvero la presenza in carcere di un detenuto che ha più di 90 anni e di un altro recluso che pesa ben 270 chili. “Tenere in carcere un ultranovantenne, già da quattro anni in carcere, e un obeso di 270 chili, con problemi cardiopatici, riconferma che nel nostro Paese c’è una cultura giuridica grezza e retrograda, che non tiene minimante conto dei dettami della Costituzione”. “Mario è un detenuto che pesa 270 chili, soffre di problemi cardiaci ed ha anche diverse fratture, non entra nella cella, ha sfondato due letti, sia in carcere che in ospedale, dove era stato ricoverato due settimane fa - dichiara il Garante campano Ciambriello - Come fa ad essere ancora sottoposto alla custodia in carcere? Come è possibile che non venga applicata una misura alternativa? Anche perché stiamo parlano di un reato non ostativo. Mi sembra un accanimento nei confronti di una persona che vive un doppio disagio, una doppia reclusione. Mario non può stare nella camera di pernottamento con nessun altro e, se anche viene allocato da solo, per lui, soprattutto considerate le celle di Poggioreale, vive in una condizione di sofferenza”. Detenuti con patologie gravi che andrebbero seguiti in strutture idonee diverse dal carcere in generale e soprattutto da Poggioreale, dove tra celle stracolme di persone e un’assistenza sanitaria precaria, si rischia davvero di rimetterci la pelle. “Mancano medici di reparto, ci sono pochi medici generici e pochissimi specialisti e mancano quasi completamente attrezzature di diagnostica, che permetterebbero ai detenuti di non dover attendere i tempi lunghissimi delle liste ospedaliere. Nelle carceri, specie a Poggioreale e Secondigliano, bisogna assumere medici, infermieri e Oss”. Altro primato del carcere di Poggioreale è quello di ospitare un detenuto di 91 anni, recluso da quattro anni. “È accusato di un reato a sfondo sessuale e solo questo basterebbe a giustificare, secondo gli operatori del diritto, che un novantenne possa vivere dietro le sbarre. È assistito da un piantone, che pensate ha 75 anni. Io - è scontato e ridondante affermarlo - penso che il carcere non sia un luogo adatto a persone di questa età, qualunque sia il reato. Per queste persone è necessario che si trovino soluzioni alternative. Le istituzioni devono portare avanti una battaglia di sensibilizzazione che miri a trovare risoluzioni per chi vive situazioni di emarginazione come questa. In Campania ci sono cooperative e associazione che, attraverso un progetto cofinanziato da Cassa Ammende e Regione Campania, accoglie uomini e donne senza fissa dimora. Bisogna farsi carico del compito di potenziare questi percorsi alternativi e migliorativi, non continuare a girarsi dall’altra parte”. Torino. Quel processo infinito: 4 imputati e un legale morti, il pm in pensione di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 10 luglio 2022 A 16 anni dal reato, al via l’appello (subito rinviato). Dopo la prima notizia di reato, nel 2006, e la sentenza di primo grado, nel luglio del 2016, l’altro giorno si è aperto il processo d’appello: subito rinviato, causa Covid di uno dei giudici Non fosse che qui c’è un inizio - l’anno 2006, segnato sul registro delle notizie di reato (numero 21179) - questo processo somiglierebbe a Il libro di sabbia di Jorge Luis Borges: che non ha fine e che si apre e si legge all’infinito, come la fame di conoscenza, qui giustizia. Quella che ancora non c’è se, dopo la sentenza di primo grado (20 luglio 2016), siamo all’apertura del processo di Appello, saltato l’altro giorno, a causa del contagio Covid di un giudice. Di fronte al risultato parziale - 27 condanne e 26 assoluzioni - nell’attesa c’è chi se n’è andato, senza una pronuncia definitiva che lo giudicasse colpevole o innocente. Quattro imputati morti, idem uno degli avvocati, mentre il pubblico ministero che coordinò le indagini, Antonio Rinaudo, è serenamente in pensione. Ormai sfogliare le scartoffie dei processi è come tagliare un albero e contarne i cerchi del tronco: quando tutto cominciò, c’era Romano Prodi presidente del Consiglio, gli azzurri erano campioni del mondo e l’ingiuria era ancora reato. Altri tempi. Dunque, eravamo rimasti, davanti alla prima sezione penale del tribunale, a 123 anni di carcere, per una maxi-banda composta da persone di origine slava e italiani, sospettata di rapine ai tir e di riciclaggio di grandi somme di denaro. Per incastrarli, la polizia stradale aveva lavorato parecchio, indagando sulle razzie di metalli (rame e acciaio) nei capannoni industriali di città e provincia; e sui furti dei tir rubati a pieno carico e rivenduti in blocco attraverso la mediazione di ricettatori italiani. La Procura aveva chiesto la condanna anche per associazione a delinquere, ma l’accusa era già prescritta. Figurarsi ora: restano in piedi le ipotesi di furti aggravati, e solo per chi ha la recidiva. Nel frattempo, alcuni non ci sono più: un imputato - difeso dall’avvocato Domenico Peila - è morto in un incidente stradale, un altro sotto i binari del treno, un altro ancora - difeso dall’avvocato Claudio Novaro - se l’è portato via il Covid, un anno fa. Una conta aggiornata l’altra mattina, in aula, al momento dell’appello degli imputati al quale, per quattro volte, è seguita la risposta: “Deceduto”. È morto anche uno dei legali, nel maggio del 2021. Eppure il processo dovrebbe definire un’inchiesta tutt’altro che banale, se tra i presunti ricettatori della refurtiva e i riciclatori - alcuni dei quali difesi dagli avvocati Emanuela Bellini, Rosalba Cannone e Roberto Capra - figurerebbero anche un paio di personaggi della criminalità organizzata. Le indagini scovarono pure le ingenti disponibilità finanziarie di alcuni dei rom chiamati in causa, con famiglie con beni e conti correnti per centinaia di migliaia di euro. In tutto, ne furono confiscati tre milioni. La storia continua (forse). Bari. Nel carcere un nuovo ambulatorio per la cura delle patologie neurologiche di Gennaro Totorizzo La Repubblica, 10 luglio 2022 Il servizio è stato avviato dall’Asl Bari per affrontare il fenomeno delle demenze e delle malattie neurodegenerative. Nel carcere di Bari è stato avviato un nuovo ambulatorio per la cura delle patologie neurologiche. Con l’obiettivo, entro la fine dell’anno, di aprire un Centro per la diagnosi e cura delle demenze e disordini neurocognitivi dei detenuti. Il servizio è stato avviato dalll’Asl Bari per affrontare direttamente nell’istituto il fenomeno delle demenze e delle malattie neurodegenerative. I detenuti sono assistiti da un gruppo di specialisti formato da un neurologo, un neuropsicologo e un tecnico di fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare. Potranno sottoporsi a esami strumentali, test diagnostici e screening. L’iniziativa fa parte del più ampio progetto sperimentale “Brainspace” nato dalla sinergia della Medicina penitenziaria, della Neurologia dell’ospedale Di Venere - diretta dal dottor Giuseppe Rinaldi - e dall’unità di Programmazione, innovazione e continuità ospedale-territorio guidata dalla dottoressa Silvana Fornelli. L’invecchiamento delle persone detenute sarebbe più precoce rispetto al resto della popolazione - secondo alcuni studi - “tanto che la loro età biologica si stima essere di 10 anni più elevata rispetto alla loro età anagrafica”, spiegano dalla Asl. A determinare questo fenomeno sono lo stile di vita, la convivenza in celle spesso affollate, la mancanza di attività, la deprivazione di stimoli e la perdita di riferimenti familiari. “L’ambulatorio rappresenta la prima tappa di un percorso che entro la fine dell’anno vedrà nascere un Centro per la diagnosi e cura delle demenze o disordini neurocognitivi nella popolazione detenuta degli istituti penitenziari afferenti alla Medicina penitenziaria della Asl di Bari, e in particolare nell’istituto penitenziario di Bari, che ospita un’alta percentuale di pazienti detenuti ad alta fragilità sanitaria e rappresenta un hub per la medicina penitenziaria in tutta la regione”, spiega la dottoressa Fornelli. In questo modo si potranno ridurre le visite all’esterno del carcere per raggiungere altre strutture sanitarie e al contempo favorire i percorsi riabilitativi nello stesso istituto, accorciando i tempi d’attesa. Se le democrazie non imparano di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 10 luglio 2022 Si pensava che le democrazie, invecchiando, diventassero sagge. Invece stiamo scoprendo che non è così. Vorremmo, sempre, una vita emozionante. Viviamo, spesso, una vita emotiva. Tra i due aggettivi c’è differenza. Emozionante è ciò che suscita emozioni. Emotivo è chi, alle emozioni, cede facilmente. Questo sta accadendo alle società democratiche: sono diventate emotive. E la politica se n’è accorta. Sembra quasi inutile, dal punto di vista del consenso, governare bene e con rigore. Rende di più lo spettacolo, che può prendere varie forme. Manipolare gli elettori, ipersensibili e impressionabili, con allarmi, furori, continui annunci. Proporre soluzioni pericolosamente semplici, deridendo chi accetta e affronta la complessità. Indicare nemici, anche quando non ci sono. Provocare rabbia e indignazione, soprattutto. Perché le proteste, al momento del voto, pagano più delle proposte, purtroppo. Molti rivolgimenti politici degli ultimi anni sono frutto di risposte emotive collettive. La decisione britannica di lasciare l’Unione Europea aveva ben poco di razionale; è uscita da una miscela di irritazione, illusione, nostalgia (condita di false promesse, frullata abilmente da Boris Johnson e compagnia). Anche l’elezione di Donald Trump è nata da un fastidio (verso gli eccessi censòri di molti liberal) e da un sogno imprecisato (“Make America Great Again!”). Il risultato è stato disastroso: le crepe nella democrazia Usa sono lì da vedere, e tendono ad allagarsi. Anche in Italia abbiamo votato spesso con la pancia, negli ultimi vent’anni. Prima Silvio Berlusconi, abile a mescolare sogni, rassicurazione e intrattenimento. Poi Matteo Salvini, instancabile generatore d’ansia, infaticabile vedetta di pericoli all’orizzonte (appena l’orizzonte è cambiato, s’è trovato in difficoltà). Infine il Movimento Cinque Stelle. Finché c’era da gridare e demolire, è andato forte; quando s’è trattato di ragionare e costruire, ha frenato di colpo e s’è spaccato in due, come le automobili nei cartoni animati. Qualcuno dirà: qual è la novità? Nel XX secolo è andata molto peggio: i manipolatori di emozioni, diventati tiranni, hanno provocato catastrofi. Vero. Ma si pensava che le democrazie, invecchiando, diventassero sagge. Non è così, purtroppo. Siamo sempre gli stessi: iracondi e ingenui, incoscienti e maledettamente fragili. Ora battiamo le diseguaglianze di Francesco Manacorda La Repubblica, 10 luglio 2022 Serve al più presto una risposta che attutisca le differenze di reddito, dando una spinta a quelli più bassi, e sistematizzi i sostegni alla parte più povera della popolazione. Gli oltre quattro milioni di lavoratori che guadagnano meno di mille euro lordi al mese, certificati dall’Istat nel suo Rapporto 2022, gettano una luce non nuova, ma significativa, sulla condizione dell’Italia. Anche se nei dati ufficiali manca una parte di economia sommersa che esiste e contribuisce a molti dei redditi più bassi, i “working poors”, le persone che lavorano, ma allo stesso tempo galleggiano con un reddito che non gli consente di vivere dignitosamente, non sono più da tempo un fenomeno circoscritto a società come quella americana bensì una realtà europea a tutti gli effetti. E assieme a loro ci sono anche i 5,6 milioni in condizione di povertà assoluta. Un dato quasi triplicato rispetto al 2005, nonostante l’effetto mitigatore del reddito di cittadinanza. Al micidiale combinato disposto della pandemia, che ha penalizzato i lavoratori meno qualificati, e poi della guerra che sta spingendo in alto i prezzi non solo dell’energia, ma anche degli alimentari, si aggiunge l’inflazione generata in larga parte dagli effetti di quegli eventi. Si tratta di una vera “tassa sui poveri”, che erode i redditi e nel caso dei lavoratori dipendenti non può essere contrastata se non con un aumento degli stipendi. Di fronte a questo quadro di diseguaglianze in aumento le tensioni sociali sono state finora molto limitate. Con l’arrivo dell’autunno - quando anche il peso degli aumenti di gas ed elettricità si farà sentire in pieno - potrebbero accendersi in modo più serio. Per questo serve al più presto una risposta che attutisca le differenze di reddito, dando una spinta a quelli più bassi, e sistematizzi i sostegni alla parte più povera della popolazione, cercando di rendere strutturali interventi che oggi (vedi il bonus da 200 euro) appaiono dettati dall’emergenza. Sulla spinta ai redditi più bassi due sono i temi sul tappeto. L’introduzione di un salario minimo, che il ministro del Lavoro Andrea Orlando sostiene con convinzione, e la riduzione del cuneo fiscale, cioè la differenza tra il lordo che le aziende pagano ai lavoratori e il netto che rimane loro. Una misura su cui tutti sono in teoria d’accordo, ma dove l’unanimità si infrange su due scogli: il costo per le finanze pubbliche, che in base alle richieste degli industriali dovrebbe essere di 16 miliardi, e il modo in cui sarebbe ripartito lo sconto fiscale tra aziende e lavoratori. Difficile dunque che nei prossimi mesi si facciano passi avanti su questo fronte, mentre più promettente è il confronto sul salario minimo che comincerà dopodomani, quando i sindacati sono stati convocati a Palazzo Chigi. La strada che si prospetta - fissare i minimi salariali delle categorie sulla base dei contratti collettivi già firmati - non sarà forse risolutiva ma appare più praticabile di un’imposizione per legge. Confindustria, che non è entusiasta dei salari minimi perché afferma che tutti quelli firmati dai suoi associati sono sopra i 9 euro che potrebbero essere appunto la soglia minima, non dovrebbe avere troppi problemi a un accordo. Per quello che riguarda il reddito di cittadinanza, invece, è arrivata l’ora di un tagliando, visto che non è riuscito ad “abolire la povertà”, come proclamò Luigi Di Maio non ancora fulminato sulla via di Draghi. Ma sono stucchevoli anche le polemiche su chi preferirebbe reddito e divano a un impiego. Separare i sussidi di povertà dal collocamento, visti gli scarsi risultati ottenuti, potrebbe essere una strada. Ridurre una rete di protezione per i più deboli no. I dati dell’Istat ci ricordano - se mai ce ne fosse bisogno - che la questione irrisolta dell’equità rimane al centro delle società. Se chi è al governo non riuscirà a dare rispose effettive, nonostante una maggioranza oggi all’apparenza così instabile, la strada per le destre populiste sarà ancora più facile. La parità non fa progressi di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 10 luglio 2022 Non ci sono passi avanti su occupazione, carriere, presenza femminile in istituzioni decisionali. In Europa la situazione è migliore che altrove ma ci sono Paesi in cui è in corso un’erosione. Durante il recente vertice con Erdogan, Mario Draghi ha chiesto che la Turchia rientri nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, dalla quale era uscita un anno fa: un brutto segnale per un Paese ancora ufficialmente candidato ad entrare nell’Unione europea. Ma anche un sintomo della più generale “recessione democratica” in corso a livello globale, che non riguarda soltanto le istituzioni e i diritti politici, ma anche le libertà civili e la parità di genere. Nei Paesi dove la democrazia è stata recentemente sconfitta - come il Myanmar e soprattutto l’Afghanistan - le donne sono ricadute in condizioni d’”assoggettamento” che avrebbero fatto impallidire John Stuart Mill, che pure visse nel XIX secolo. L’ondata emancipatoria delle primavere arabe è a sua volta entrata in fase di rapido reflusso: la Tunisia sta discutendo una riforma costituzionale che la trasformerebbe di nuovo in una repubblica islamica. In Russia il regime di Putin rivela ogni giorno di più la propria vocazione paternalistica e oppressiva rispetto alle donne e agli omosessuali. La sentenza contro l’aborto pronunciata dalla Corte suprema americana indica che l’erosione dei diritti civili riguarda anche le democrazie consolidate. Il pronunciamento dei giudici preoccupa per il suo contenuto ma in particolare per le sue motivazioni. “La Costituzione del 1787 non menziona esplicitamente il diritto alla privacy”, a suo tempo evocato dalla sentenza “Roe contro Wade” nel 1973 per giustificare proprio il diritto all’interruzione di gravidanza. Il movimento delle donne è allarmato. La Costituzione americana si fonda sul principio che “tutti gli uomini nascono uguali”. E le donne? Non vengono citate, così come il divieto di discriminazione. Ciò limita la competenza del Congresso a legiferare su questioni come la parità di retribuzione e persino la violenza contro le donne. Nel 2000, ad esempio, la Corte Suprema dichiarò incostituzionale un provvedimento che titolava le donne vittime di violenza a chiedere risarcimento. Per rimediare a questa asimmetria di diritti, nel 1972 il Congresso approvò un emendamento della Costituzione che stabilisce espressamente l’eguaglianza fra uomini e donne. Ci sono voluti cinquant’anni per ottenere la necessaria ratifica da parte di almeno 38 Stati. Trump ha tuttavia contestato la validità di alcuni risultati e per ora l’emendamento non è entrato in vigore. In Europa la situazione è per fortuna diversa. Nella stragrande maggioranza delle costituzioni nazionali è prevista la parità di diritti (in Italia l’articolo 3) e lo stesso vale per i Trattati Ue. Sappiamo però che in Paesi come la Polonia e l’Ungheria è in corso una graduale erosione di tale principio. E molti partiti della destra populista propugnano apertamente il ritorno a valori tradizionali nella sfera della famiglia e dei comportamenti sessuali. La situazione di fatto tende poi ad essere peggiore rispetto a quella di diritto. Qui incide notevolmente il peso di stereotipi e pregiudizi inconsci, che riproducono nel tempo i tratti fondanti della cultura patriarcale. Facciamo parlare i dati. Nella progredita Europa si stima che l’80% delle donne abbia subito violenze sessuali almeno una volta nella vita - il 16% sono state violentate in senso stretto. Più del 30% ha subito molestie sessuali sul lavoro, il 23% online. La tratta interessa circa 15.000 vittime all’anno, i femminicidi più di due milioni. Numeri che fanno inorridire: la prima funzione di uno Stato liberale è quella di garantire la vita e la sicurezza fisica de* propr* cittadin* (la schwa è d’obbligo in questo caso). La parità non fa progressi neppure per quanto riguarda occupazione, carriere, la presenza femminile nelle istituzioni decisionali. Su questi fronti il problema è in parte la discriminazione (diretta o indiretta), ma soprattutto la diseguaglianza di opportunità. Il sistema delle quote non appartiene allo strumentario liberale, ma si rende necessario per abbattere i recinti che si sono costruiti nel tempo a favore delle opportunità degli uomini. Grazie alla legge Golfo-Mosca la quota di donne che siedono nei consigli di amministrazione italiani è salita dal 5% del 2010 al 35% del 2018, un valore più alto della Germania e molto vicino a quello della Svezia. Nel nostro Paese, tuttavia, il tasso di occupazione femminile resta il più basso della Ue, senza dar segnali di avanzamento. Purtroppo il Pnrr si è dato obiettivi del tutto inadeguati su questo fronte. Eppure lo scostamento italiano rispetto agli altri Paesi europei riguarda soprattutto il settore “istruzione, sanità e welfare”, quello più sensibile alle politiche governative. Negli Usa il movimento delle donne ha annunciato che batterà i pugni sul tavolo per difendere la libertà di scelta sull’aborto. Da questa parte dell’Atlantico il pugno va battuto per riempire il bicchiere della parità. Senza massimalismi “matriarcali”, ma più semplicemente per realizzare gli obiettivi della Strategia Ue sulla parità. Ossia costruire una società in cui le donne siano libere dalla violenza e dagli stereotipi e possano realizzare le proprie ambizioni in una economia basata sull’eguaglianza fra uomini e donne. Una società che ponga la parità al centro della vita associata, dal welfare alla famiglia e ai processi decisionali in tutte le organizzazioni. E che sorregga concretamente l’insieme delle capacità (risorse e opportunità) che servono alle donne per “funzionare” in tutti gli ambiti, tenendo in conto le loro specifiche diversità e bisogni. Migranti. A Lampedusa l’hotspot della vergogna di Flavia Amabile La Stampa, 10 luglio 2022 Oltre 1.800 ospiti nel Centro di accoglienza dopo gli ultimi sbarchi. Materassi a terra e rifiuti, la denuncia dell’ex sindaca: “Condizioni inumane”. È difficile accettare Lampedusa con gli ombrelloni, i turisti, i bambini che fanno i capricci, le gite in barca a cinquanta euro per vedere delfini, tartarughe e ignorare i migranti che con il bel tempo hanno ripreso a sbarcare sule coste dell’isola. È difficile accettare questo pezzo di terra più vicino all’Africa che all’Italia dove ieri davanti alla spiaggia del Porto svettava il cacciatorpediniere San Marco che per i turisti si è trasformata nell’ennesima attrazione da esibire in videochiamata ai parenti insieme al mare cristallino senza sapere che era accorsa con la sua stazza imponente a risolvere il problema eterno delle estati sull’isola, l’hotspot che diventa un inferno di corpi, rifiuti ed escrementi. È difficile accettare Lampedusa soprattutto per chi sopravvive ai deserti dell’Africa, alla prigionia nei lager libici, gli stupri, le violenze, i ricatti alle famiglie per estorcere altri soldi in cambio della libertà e scoprire che la loro libertà è rischiare la vita nel Mediterraneo e arrivare in un luogo fetido, dove ci sono una decina di bagni per 1.850 persone, l’acqua corrente va e viene e, per evitare di dormire sul terreno cosparso di rifiuti, bisogna arrangiarsi con materassi di fortuna. Non è una novità l’incapacità dell’hotspot di Lampedusa di offrire condizioni dignitose ai migranti in arrivo, ogni anno però diventa più incredibile assistere al ripetersi di un’emergenza che non trova più giustificazione nel numero degli sbarchi. “È inaccettabile che, dopo tutte le denunce, le battaglie e gli avvertimenti, ancora una volta a decidere i flussi in arrivo sia la criminalità”, osserva Giusi Nicolini, ex sindaca dell’isola. È stata lei a pubblicare sui social alcune foto che mostravano le condizioni disumane del centro e a lanciare l’allarme. Ieri è arrivata la nave San Marco della Marina Militare a occuparsi di quella che dovrebbe essere una procedura ormai ordinaria, trasferire i migranti dall’hotspot di Lampedusa ai centri di accoglienza. “Se ogni giorno partissero delle persone si eviterebbe il sovraffollamento. Invece in Italia possiamo controllare quello che accade nei canili ma nessuno può entrare nei centri dove si trovano i migranti e verificare le condizioni in cui sono tenuti. È grave tutto questo anche perché vorrei sapere che cosa accade quando l’hotspot raggiunge questi numeri. Lo Stato paga per 1800 persone anche se non hanno, come dovrebbero, un bagno, un letto, una doccia, acqua corrente? Presenterò un’interrogazione parlamentare per chiedere di avere accesso alle fatture emesse e chiarimenti su questo tema”. Attraverso una decina di viaggi ieri sono stati accompagnati sulla nave San Marco circa 600 degli ospiti del centro e trasferiti a Porto Empedocle dove saranno assegnati alle strutture di accoglienza presenti in Sicilia. Nell’hotspot di Lampedusa restano comunque 1250 persone, circa quattro volte di più rispetto alla capienza regolare. E, come denuncia Silvia Faggin, Child protection officer di Save The Children, ci sono ancora 200 minori non accompagnati e 100 minori accompagnati, una situazione che le fa esprimere “preoccupazione per le loro condizioni precarie e di difficoltà nell’accedere ai diritti di base come cibo, acqua e assistenza sanitaria”. La nave San Marco tornerà stamattina per ripetere l’operazione e trasferire altri 600 migranti. Inoltre stasera dovrebbe partire “un grosso pattugliatore della Guardia di finanza che imbarcherà altre 120 o 150 persone e nel frattempo si sta cercando di imbarcare altri 80-100 migranti su un traghetto di linea. “Se non lunedì, al massimo martedì, completeremo i trasferimenti”, ha promesso, dopo un sopralluogo all’hotspot, il prefetto di Agrigento Maria Rita Cocciufa. “Lavoriamo alacremente e continueremo a farlo - ha aggiunto. È stata fatta già ieri, d’intesa con il Comune, una raccolta straordinaria di rifiuti presenti nella struttura che verrà ripulita ulteriormente”. Dopo la denuncia sul sovraffollamento si è scoperto anche che nella struttura operava un solo medico e che c’è carenza di mediatori culturali. Si parla di contratti e incarichi scaduti che ancora non sono stati rinnovati rallentando le procedure di pre-identificazione degli ospiti, “Ci sono stati degli innesti significativi grazie a Frontex e Unhcr. Stiamo cercando di rimettere in piedi un meccanismo - ha assicurato il prefetto di Agrigento - che ha avuto dei momenti di difficoltà, da parte nostra l’attenzione è assoluta”. Le difficoltà vanno avanti da mesi e coinvolgono la cooperativa Baia Grande di Trapani che da marzo ha in gestione il centro. Già dalla primavera i dipendenti hanno denunciato di non ricevere regolarmente lo stipendio e di essere costretti a continui cambi di mansione durante il lavoro. A maggio una di loro si è licenziata. Si chiama Piera Magnolia, ha 48 anni e una lunga esperienza nell’assistenza ai migranti ma quello che ha vissuto a Lampedusa le è sembrato intollerabile. “Non ho ancora ricevuto gli stipendi anche se sono trascorsi quasi due mesi da quando mi sono licenziata. Ma questo è il minore dei problemi. Mi sono trovata a pulire i bagni e subito dopo a distribuire i pasti in mensa. Da un punto di vista igienico non è tollerabile. C’erano due soli operatori per ottocento persone, uomini donne e bambini nello stesso padiglione, ho assistito a scene di sesso, ho visto che gli abiti vengono consegnati con grande ritardo, che non ci sono le lenzuola né le coperte per tutti. È una situazione di totale disumanità nei confronti degli ospiti”. Di fronte alle difficoltà il sindaco Filippo Mannino chiede di intensificare i trasferimenti e soluzioni “strutturali non emergenziali” attraverso corridoi umanitari e “istituendo punti di accesso per le richieste di asilo politico direttamente in Africa”. Una soluzione che ricorda proposte molto care alla destra. Infatti il sindaco ottiene la solidarietà del leader della Lega Matteo Salvini che prova a contrastare il calo di consensi annunciando del suo arrivo “imminente” sull’isola dopo essersi impadronito delle foto pubblicate da Giusi Nicolini e aver dichiarato fallito “il modello di accoglienza della sinistra”. Il Villaggio globale di Riace ripopolato dagli afghani: nonostante tutto, l’accoglienza non si ferma di Alice Pistolesi L’Espresso, 10 luglio 2022 Mentre l’ex sindaco Mimmo Lucano attende la sentenza d’appello, una rete di associazioni mantiene in vita il borgo con aiuti e sottoscrizioni “contro la criminalizzazione di un modello solidale”. Dall’Afghanistan a Riace per ricostruire una nuova vita. Quattro famiglie sono arrivate nel mese di giugno nel borgo calabrese, dove l’accoglienza ministeriale è stata bloccata poco dopo l’avvio del procedimento giudiziario contro Mimmo Lucano. Il processo di appello all’ex sindaco, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere con una serie di accuse legate alla gestione dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, è iniziato il 25 maggio. Il 6 luglio è fissata la prossima udienza. Ezatullah e Roqia, 30 e 29 anni sono arrivati a Riace dopo una lunga attesa. “Abbiamo trascorso quasi nove mesi in Pakistan. Veniamo da Kandahar. Siamo fuggiti con la nostra bimba di tre anni alla fine di agosto e siamo riusciti ad attraversare il confine. Io lavoravo con gruppi di statunitensi, mentre mia moglie era una maestra. Non potevamo restare, rischiavamo entrambi tremende ritorsioni”, raccontano a L’Espresso. Entrare o uscire dal Pakistan non è facile. Ezatullah e la sua famiglia hanno dovuto aspettare che venisse loro concesso un visto, che costa circa 800 euro a persona. A Riace sono quindi arrivati tramite un percorso umanitario gestito dall’associazione Jimuel Onlus. “Ci siamo presi carico del costo del visto e del viaggio. Lo Stato italiano chiede infatti delle garanzie per l’arrivo delle persone provenienti dall’Afghanistan. Noi siamo riusciti a coprire i costi per quattro famiglie tramite le sottoscrizioni di privati che hanno donato quote all’associazione. Riace, subito dopo l’invasione russa, si era resa disponibile anche ad accogliere famiglie ucraine, ma serviva un’approvazione formale, che il Consiglio Comunale non ha dato”, racconta Isidoro Napoli, presidente di Jimuel. A Riace Ezatullah e Roqia hanno iniziato la propria ripartenza. Roqia ha una borsa lavoro in un laboratorio di sartoria ed entrambi stanno frequentando la scuola di italiano. “Vedo il mio futuro qui, prima di arrivare speravo di trovare un buon posto in cui vivere ma non potevo esserne sicuro. Il nostro obiettivo è imparare l’italiano prima possibile e iniziare la nostra nuova vita”, prosegue Ezatullah. Un “modello Riace” in versione ridotta sta quindi ricominciando. Le famiglie afghane sono ospitate all’interno del cosiddetto Villaggio globale, la zona del borgo in cui le decine di case abbandonate dai cittadini emigrati nel Nord Italia o all’estero vengono affittate, tramite un’associazione, alle famiglie rifugiate. “Gli afghani stanno ripopolando il borgo ma in realtà l’accoglienza spontanea a Riace non si è mai fermata”, racconta Mimmo Lucano. E non si è fermata nonostante nel 2016 sia iniziata la trafila giudiziaria per l’ex sindaco e nel 2017 siano stati congelati i fondi del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, sostituito nel 2018 dal Sipromi, Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati e nel 2020 dal Sai, Sistema accoglienza Integrazione), finanziato con fondi del ministero dell’Interno. Dopo che a Riace vennero bloccati i progetti in corso, i migranti vennero trasferiti in altri centri sparsi in tutta Italia. Il blocco dei finanziamenti ha di fatto paralizzato l’accoglienza a Riace: il borgo si era nuovamente spopolato, anche se c’era chi aveva comunque deciso di restare. Il modello Riace, iniziato nel 1998 con i primi sbarchi di curdi e ampliato nei vent’anni successivi, ha contribuito, secondo molti, a fermare lo spopolamento del piccolo centro. In quindici anni il Paese era infatti tornato ai livelli di popolazione del 1920, arrivando a superare i 2.500 abitanti, mentre negli anni Novanta abitavano a Riace solo 1.600 persone. La storia di accoglienza del borgo calabrese parte da lontano e ha visto Mimmo Lucano in prima linea prima come volontario e poi come sindaco. Lucano è stato infatti primo cittadino di Riace dal 2004 al 2018, anno in cui Antonio Trifoli è stato eletto con una lista civica vicina alla destra, mentre l’ex sindaco non ha ottenuto i voti per poter entrare in Consiglio comunale. “Ho sempre pensato che l’accoglienza nei borghi spopolati contribuisse a far rinascere un senso di identità. Le comunità in cui ci sono solo autoctoni non sono ideali, non c’è crescita, contaminazione. Io ho sempre considerato quello che abbiamo creato negli anni come qualcosa di spontaneo, che andasse al di là dei confini. Il fatto che un luogo di emigrazione in cui non c’è lavoro e ci sono fortissime infiltrazioni mafiose si stesse trasformando in uno di arrivo ha incuriosito tanti. Nel bene e nel male”, racconta Mimmo Lucano. Ma a ripopolare Riace sono stati negli anni anche i riacesi stessi. Tra questi c’è Vincenzo, emigrato prima in Toscana e poi a Parigi subito dopo il diploma per ragioni di studio e lavoro, e rientrato nel Paese per lavorare con l’accoglienza. “Sono tornato ad abitare nella mia vecchia casa. Lasciare Riace era stata una necessità visto che volevo lavorare con il cinema. Adesso continuo a farlo ma ho la base nel mio paese e aiuto a portare avanti il nostro progetto di accoglienza. Come me sono stati molti i giovani riacesi che erano tornati per lavorare negli anni passati. Ora in molti sono ripartiti”, racconta. Riace continua in ogni caso a essere “meta di un’accoglienza spontanea”. Sono ad oggi, oltre alle famiglie afghane arrivate a giugno, trenta le persone provenienti da Nigeria, Ciad, Etiopia, Etitrea, Somalia, Ghana ed Egitto che abitano nel borgo. “Arrivano tramite passaparola. Tra loro c’è chi ha concluso i progetti di accoglienza nei Sai ma non sa dove andare. C’è chi fugge dalla violenza dei propri familiari. La scorsa settimana è arrivata una ragazza nigeriana incinta con i suoi due bambini. Vengono qui perché sanno che possono trovare una porta aperta, che nonostante tutto non lasciamo per la strada nessuno”, spiega l’ex sindaco. Nel Villaggio globale non ci sono solo case. È anche un luogo di attività: restano aperti i laboratori tessili, di falegnameria, il forno sociale, la biblioteca dei diritti umani ed è in fase di creazione Radio Aut, una web radio che si rifà all’esperienza dell’emittente antimafia creata a Cinisi negli anni Settanta da Peppino Impastato. È attivo, poi, il banco alimentare che fornisce ogni settimana un buono spesa a ciascun nucleo familiare, così come l’ambulatorio medico in cui tre medici specialisti visitano gratuitamente sia le persone rifugiate che i riacesi. Dietro al modello di accoglienza c’è il sostegno di una serie di associazioni. Centinaia le attività che dall’inizio del processo a Lucano si sono svolte in tutta Italia per raccogliere fondi con l’obiettivo di portare avanti il progetto. Una delle realtà più attive è “Una luce per Riace”, associazione bolognese che si occupa di pagare le bollette alle case dei rifugiati che abitano nel Villaggio globale. Al lavoro anche vari “Comitati 11 giugno” (data di inizio del processo a Mimmo Lucano) che stanno, tramite sottoscrizioni, sostenendo il modello di accoglienza con eventi, iniziative e raccolte fondi. Un modello, quello di Riace, che ha subito un processo di criminalizzazione. A dirlo, tra gli altri, una delegazione di parlamentari europei di Verdi (Greens-Efa) e Sinistra (Left) che i primi di giugno ha fatto visita al borgo calabrese per portare la propria solidarietà all’ex sindaco. Un sostegno che, secondo Damien Careme del gruppo dei Greens, si sostanzia al Parlamento di Strasburgo con l’appoggio di 60 deputati. La criminalizzazione della solidarietà non è un fatto solo italiano ed è anzi diffusa in tutta Europa. Secondo un dossier realizzato dal gruppo dei Verdi, sono state 89 le persone perseguite nei Paesi Membri tra gennaio 2021 e marzo 2022. Tra questi 18 devono affrontare nuove accuse e quattro sono essi stessi migranti. Nell’88 per cento dei casi le persone sono state accusate di “favoreggiamento dell’ingresso, del transito o del soggiorno di migranti”. A questi casi si sommano poi le quasi 300 persone che tra agosto e settembre 2021 sono state arrestate per aver aiutato i migranti che attraversavano illegalmente le frontiere tra Bielorussia e Polonia a seguito della crisi afghana. Anche il rapporto “Accused of solidarity”, publicato da Border violence monitoring network (Bvmn, una rete indipendente di associazioni che monitorano le violazioni dei diritti umani alle frontiere esterne dell’Ue) alla fine di maggio descrive e documenta il processo di “criminalizzazione” dei migranti e delle associazioni e operatori impegnati in questo campo. Elencando e contestualizzando gli episodi di criminalizzazione il rapporto evidenzia il “deterioramento della situazione” per chi offre sostegno ai migranti. Una criminalizzazione che, secondo le rilevazioni di Bvmn, sta diventando “sempre più raffinata perché attuata con metodi e strumenti formalmente legali”. Ius scholae, rinvio al veleno di Alessandro Di Matteo La Stampa, 10 luglio 2022 Il calendario della Camera è affollato e la legge rischia di slittare ancora. La norma spacca la maggioranza: la Lega si blinda e Fi diventa l’ago della bilancia. In teoria dovrebbe arrivare in aula alla Camera questa settimana, ma la strada dello Ius scholae sembra sempre più in salita. A frenare la legge che darebbe la cittadinanza ai ragazzi stranieri in Italia dopo un ciclo di studi c’è innanzitutto il calendario fitto di luglio, zeppo di decreti da convertire, di scadenze legate al Pnrr. Di fatto, spiega una fonte Pd, quella che si apre domani sarebbe la settimana migliore del mese per avviare la discussione del provvedimento, ma prima c’è un tale elenco di altre cose da fare che “è difficile che si riesca ad arrivare allo Ius scholae”. Anche perché, sottolinea “subito prima il calendario prevede il ddl sulla cannabis, e lì succederà il caos…”. Un ingorgo che viene confermato anche da Federico Fornaro, capogruppo di Leu: “L’iter va avanti, ma certo siamo in un periodo dell’anno che è un po’ “a imbuto”, tra decreti, scadenze del Pnrr. Si fatica a trovare spazio”. Ma, assicura, non ci sono motivazioni politiche, non c’entra la volontà di tenere al riparo il governo, “non ci sono manovre per frenare”. Fatto sta che l’ipotesi di uno slittamento a inizio agosto - se non addirittura a settembre - sta diventando concreta. Ma, ovviamente, non ci sono solo gli ingorghi parlamentari a mettere a rischio lo Ius scholae. La norma spacca la maggioranza di governo e senza il sì di Forza Italia al Senato sarebbe molto forte il rischio di un bis del Ddl Zan. Allo stato, i partiti chiaramente a favore della norma sono quelli di centrosinistra - a cominciare da Pd e Leu - e poi M5s, Di Maio e i centristi di Azione e Iv, mentre il centrodestra dice no quasi in blocco, anche se il dibattito in Fi è aperto e anche se esponenti come Giovanni Toti sono disposti a ragionare. Lega e Fdi sono decisamente contrari, Giorgia Meloni - che pure era favorevole al principio della cittadinanza legata a un percorso di studi, dice no perché “la scuola dell’obbligo significa dieci anni. Invece, la norma approvata dalla sinistra, prevede 5 anni, ovvero una cosa completamente diversa, che di fatto è più vicina allo Ius soli che allo Ius scholae”. La Lega, poi, ha annunciato barricate contro la legge sulla cittadinanza. Matteo Salvini ogni giorno twitta per sostenere che con lo Ius scholae verrebbe data la cittadinanza anche alle “baby gang di stranieri”. Soprattutto, il leader ha trovato un argomento per ricompattare il partito dopo le fibrillazioni post-amministrative, perché tutti sono netti nel dire no alla cittadinanza più rapida per i ragazzi stranieri che studiano in Italia. “Faremo tutto il possibile per bloccarla”, ha detto il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari. Linea condivisa pure da Giancarlo Giorgetti, anche se il ministro lavora per evitare che lo scontro si ripercuota sul governo. Il vero ago della bilancia è Fi, perché nel partito di Silvio Berlusconi ci sono diversi esponenti disponibili al dialogo su questo tema. Il Cavaliere, però, qualche giorno fa ha di fatto chiuso la trattativa, dopo il no del centrosinistra agli emendamenti che chiedevano di portare da 5 a 8 il numero di anni di scuola necessari per richiedere la cittadinanza: “La sinistra ha bocciato in Parlamento tutte le nostre proposte di buonsenso”. Solo che senza Fi, ammette un esponente del centrosinistra, “al Senato è davvero dura”. Cannabis e ius scholae, rischio di rinvio a settembre di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 luglio 2022 Slittano a data da destinarsi la pdl coltivazione domestica e la riforma della cittadinanza. A Milano gli Stati generali contro il proibizionismo lanciano un appello al Pd. Rinviati a settembre. O quasi. Avrebbero dovuto arrivare in Aula alla camera martedì prossimo ma la proposta di legge Magi-Licantini, che depenalizza la coltivazione domestica della cannabis a uso personale, e la riforma della cittadinanza che introduce il cosiddetto ius scholae, mediazione già al ribasso per i figli di cittadini stranieri che con essa potranno avere la cittadinanza italiana al termine di un ciclo scolastico, slittano a data da definirsi. Infatti il decreto Aiuti, che avrebbe dovuto concludersi già la settimana scorsa, è andato per le lunghe e il voto finale è previsto per domani. In calendario ci sono poi una serie infinita di altre questioni da affrontare, a volte minori, che vanno dall’istituzione del Sistema terziario di istruzione tecnologica superiore, al voto sulle dimissioni del deputato Elio Vito, passando per il nucleare ultima generazione. Da lunedì 11 luglio arriva poi in Aula il ddl Concorrenza licenziato a maggio dal Senato in attuazione del Pnrr, che ha la precedenza come tutti i decreti da convertire. Per gli stessi motivi, si farà largo il ddl Semplificazioni, atteso il 25 luglio in Aula. Unica finestra possibile, quindi, quella ristrettissima tra il 15 (forse) e il 20 luglio. Poi, giustamente, le vacanze estive. E così nessuno è disposto a scommettere che cannabis e ius scholae (in questa sequenza) saranno affrontati dall’Aula di Montecitorio prima del prossimo settembre. Quando, nel caso della riforma della cittadinanza, si ricomincerà da quei 1500 emendamenti presentati da Lega, Fd’I e FI che però, con il contingentamento dei tempi, si sono fortunatamente ridotti ad un centinaio segnalati per la votazione. Ma il leader della Lega Matteo Salvini, che palleggia costantemente tra i due campi di propaganda, ieri ha scelto il ballon d’essai della “droga libera”, cogliendo l’occasione degli Stati generali della Cannabis che si sono svolti l’8 e il 9 luglio a Milano, organizzati dal consigliere comunale del Pd Daniele Nahum con il supporto di JustMary e Dalai. “La priorità per Pd, M5S e sinistra del “campo largo”? La droga libera - ha scritto Salvini su Facebook -. Siamo alla follia!”. Naturalmente il leader del Carroccio sa bene che i 38 oratori - direttori di carceri, giuristi, costituzionalisti, giornalisti, politici, amministratori, sindacalisti, avvocati, scienziati, criminologi, ecc - che hanno discusso e si sono confrontati per due giorni sull’effetto nefasto del proibizionismo, hanno contestato proprio la “droga libera”, quale è di fatto quella ottenuta dall’attuale regime legale che lascia alle cosche criminali il monopolio dello spaccio. Gli esperti hanno invece ripreso le tante analisi che da decenni vengono prodotte sull’impatto che questo regime di “droga libera” ha sulla società e sulla salute pubblica. E così, mentre in autunno anche la Germania si prepara a varare una legge di legalizzazione della cannabis, il Pd si è così dimostrato finalmente attento ad un tema per troppo tempo considerato “minore”. Dallo stesso Nahum e da molti altri si è levato l’appello affinché il Pd “abbia il coraggio di porre il tema della legalizzazione a livello nazionale” e metta “al centro del suo programma elettorale del 2023, anno di elezioni, la legalizzazione”. L’Unione Europea continua a subire ricatti. E sta mettendo a rischio il suo futuro di Federica Bianchi L’Espresso, 10 luglio 2022 Cede a Erdogan, subisce i veti di Ungheria e Polonia, è costretta al dialogo con Egitto e Iran, cerca di affrancarsi dalla Russia di Putin da cui dipende energeticamente e rischia di finire nelle mani della Cina. Dossier su tutti i fronti diplomatici gestiti male che, se non si cambia rotta, possono mettere fine al sogno Continentale. Quando il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha posto il veto all’entrata della Finlandia e della Svezia nella Nato all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina era chiaro a tutti che stava compiendo la mossa d’apertura dell’ennesima partita a scacchi con i leader dell’Unione europea. A Bruxelles è conosciuto come “il ricattatore in capo”, uno dei dittatori più abili sullo scacchiere mondiale, che, forte della posizione geografica della Turchia, ponte tra Est e Ovest del continente euroasiatico, e dell’appartenenza alla Nato, da anni tiene sotto scacco l’Europa. È stato Erdogan a insegnare al russo Vladimir Putin e al sodale bielorusso Alexander Lukashenko come ottenere denari e concessioni dai 27, utilizzando i migranti come arma: nel novembre del 2015 ottenne tre miliardi di euro da Bruxelles, rinnovati nel 2021, in cambio dell’accoglienza dei migranti respinti dalla Grecia, richiedenti asilo inclusi. Un accordo che nemmeno le sue continue violazioni dei diritti umani - migliaia di dissidenti politici, giornalisti e lavoratori delle Ong sbattuti in carcere - hanno potuto scalfire, a dispetto di ogni proclamata superiorità morale della Ue. Non ha sorpreso dunque che, nel plauso generale, il mese scorso Erdogan abbia scambiato il via libera a Svezia e Finlandia con la vita dei dissidenti curdi e dei seguaci dell’ex alleato e predicatore islamico Fethullah Gülen, che nel 2016 aveva tentato un colpo di stato, oltre che con la rimozione dell’embargo alla vendita di armi alla Turchia. Non solo. Da esperto ricattatore, all’indomani della firma, quando tutti avevano pensato che la questione fosse chiusa, ha puntualizzato che la ratifica da parte del Parlamento turco (da lui controllato), necessaria per l’entrata in vigore dell’allargamento, come quella di tutti i Parlamenti degli Stati membri della Nato, non verrà mai apposta se prima la Svezia non avrà estradato 73 “terroristi”, un numero che non figura sul memorandum appena sottoscritto. Il testo dice solo che Svezia e Finlandia dovranno trattare “le richieste turche di estradizione velocemente e con grande cura, prendendo in considerazione le informazioni e l’intelligence fornita dalla Turchia”, in accordo con la convenzione europea sull’estradizione. Ma tant’è. I ricatti di Erdogan a Bruxelles non sono l’eccezione. Da qualche anno l’Unione europea, cercando di cucire l’ennesimo compromesso impossibile, ha finito per rendersi facile preda di una serie di Paesi ricattatori, fuori dai suoi confini come al suo interno, che ne stanno logorando la credibilità sull’adesione ai valori fondanti come lo stato di diritto e i diritti umani, l’autorevolezza nelle negoziazioni internazionali e la coesione tra Stati membri. All’interno della Ue, Polonia e Ungheria da anni usano il voto all’unanimità, richiesto dai Trattati sulle questioni di politica estera e di finanza, come strumento di ricatto per fare passare le loro costanti violazioni dello stato di diritto: bavaglio alla magistratura, chiusura di media indipendenti, persecuzione delle comunità Lgbtq, graduale rimozione dei diritti delle donne e via dicendo. Così la Commissione, in base alla norma inserita nel Recovery plan, che lega gli esborsi in denaro al rispetto dei valori dell’Unione, non ha ancora voluto erogare loro i fondi. Ma la Polonia non si è arresa: ha posto il mese scorso il veto sulla ratifica europea in sede Ocse della tassa minima sulle multinazionali al 15 per cento, peraltro già negoziata e approvata dai 27 lo scorso ottobre, riuscendo a ricattare la Commissione europea nell’approvazione del suo Pnrr, seppure condizionandolo al raggiungimento da parte del governo di alcuni obiettivi che restituiscano alla magistratura una certa indipendenza, come imposto anche dalla recente sentenza della Corte europea. L’Ungheria del premier illiberale Viktor Orban, altro abile ricattatore, ha preso nota. Visto che il suo Recovery plan è ben lontano dal ricevere il via libera, non ha posto anche lei lo stesso veto. In attesa di ricevere un’offerta dalla Commissione. “Con questi comportamenti Ungheria e Polonia minano non solo l’Unione di oggi ma soprattutto quella di domani”, dice Antonio Villafranca, direttore degli studi europei presso l’Ispi: l’ingresso auspicato di Paesi eterogenei come l’Ucraina o l’Albania, seppure importante per aumentare il peso geopolitico dell’Europa, è sempre più spesso visto dai leader europei come una possibile occasione per moltiplicare i ricatti. Almeno fino a quando non verrà modificata la “governance” della Ue. La debolezza interna è amplificata oltre confine. Paesi come l’Egitto non si fanno scrupoli a utilizzare il loro ruolo di fornitori d’energia e di garanti della sicurezza dei confini meridionali dell’Europa per farsi perdonare crimini sanguinosi come l’uccisione di Giulio Regeni. Oppure, come nel caso dell’Iran, non esitano a tenere in ostaggio cittadini con doppia nazionalità, minacciandoli della pena di morte se non ottengono concessioni militari e politiche. Ancora una volta la Svezia ha offerto il fianco. Il prossimo 14 luglio un tribunale svedese dovrà decidere della colpevolezza di Hamid Nouri, un burocrate iraniano arrestato l’anno scorso con l’accusa di avere eseguito l’esecuzione di massa e la tortura di 5mila prigionieri nel 1988, durante la guerra tra Iran e Iraq su ordine dell’Ayatollah Khomeini. In quella data sarà chiara la sorte del ricercatore esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria Ahmadreza Djalali, docente in varie città europee tra cui Novara, poi arrestato a Teheran nel 2017, accusato di spionaggio in Israele e condannato a morte. “Le autorità iraniane hanno fatto sapere che il suo destino è legato a quello di Nouri, con cui auspicano uno scambio”, dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. A mettere in evidenza la facile ricattabilità europea ci ha involontariamente pensato la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Dopo avere pensato per anni che l’ex nemico russo, diventato il “dittatore della porta accanto”, si fosse convertito al ruolo di partner strategico dell’Europa, avendone abbracciato il sistema economico, Germania e Italia gli avevano affidato la propria fornitura energetica, dimentiche del ruolo che un tale approvvigionamento ricopre nel garantire la sicurezza di una nazione, e noncuranti del riarmo che la Russia aveva intrapreso da una decina d’anni. Un’ingenuità politica, frutto dell’avidità economica, che resterà nei libri di storia europea. Putin lo sapeva bene quando, dopo avere saggiato il terreno con conquiste parziali di territorio in Cecenia, Georgia e Ucraina, ha deciso di lanciarsi alla riconquista dell’intera Ucraina. Contava di riuscire a tenere in scacco l’Europa con la dipendenza da gas e con contratti milionari. E difatti l’Unione si è trovata con le mani legate: per fermarlo ha dovuto non solo farsi del male ma stravolgere il suo modello economico. L’inflazione alle stelle e un inverno che potrebbe essere straordinariamente freddo per una buona parte della popolazione sono non solo le conseguenze del tentativo di fermare l’espansione militare di Putin ma anche i primi effetti di una completa disconnessione dell’economia europea da quella russa, a cui seguirà un rapido riavvicinamento a quella americana, da cui ci eravamo allontanati soprattutto per volontà dell’ex presidente Donald Trump. “Adesso il vero pericolo è il passaggio di ricatto”, dice Carlo Altomonte, professore associato di Politica economica europea. La Commissione europea ha varato “Repower Eu” per ridurre la dipendenza dai fossili russi, accelerare la transizione verde e aumentare la tenuta di tutto il sistema energetico europeo. Ma il piano punta tutto sulle auto elettriche, i pannelli solari, le batterie elettriche, facendo finta che il contesto geopolitico non sia completamente cambiato e che la globalizzazione non sia finita. “Repower Eu non è realizzabile né economicamente, né politicamente”, sottolinea Altomonte. Economicamente perché l’Europa non ha ancora messo a punto la produzione degli strumenti di energia rinnovabile e perché le materie prime potrebbero essere insufficienti. “Se dovessimo mettere un pannello solare su ogni edificio pubblico, come chiede il programma della Commissione, non basterebbe tutto il litio estratto al mondo”. E poi politicamente perché l’Unione per produrre sufficiente energia rinnovabile sarebbe costretta a comprare pannelli e batterie dalla Cina, divenendone facile preda di ricatto. Un ricatto che potrebbe alla lunga risultarle letale. Per questo gli Usa hanno cominciato a parlare di “friend-shoring”, ovvero di riportare le produzioni esportate in Cina e in Russia all’interno dei confini degli alleati geopolitici. Un esempio sono le terre rare, i metalli indispensabili delle nuove tecnologie. L’aggettivo “raro” non è dovuto alla scarsa presenza sul Pianeta ma alla loro diluizione nei terreni: servono distese immense per estrarle e l’Europa non ne ha. Per non essere ricattabile dalla Cina, che ha ampio territorio a disposizione e lo sta usando, ma che è sempre più un avversario geopolitico e commerciale, “l’Europa dovrebbe stringere rapporti di amicizia con i Paesi africani, ormai stanchi del colonialismo cinese”, dice Altomonte. Smettendo di pretendere che la domanda e l’offerta continueranno a incrociarsi come prima in questa nuova epoca, caratterizzata da ricatti incrociati sempre crescenti. Nel giro di due anni l’Europa si dovrebbe sganciare completamente dalla dipendenza russa: più difficile sarà farlo da quella cinese. La Germania, locomotiva europea, negli ultimi vent’anni ha ottenuto la metà della propria crescita economica dalle esportazioni in Cina e fa fatica a prenderne le distanze. Ma sarà complicato continuare a contare sul mercato cinese senza mettere in pericolo l’intera autonomia strategica europea, nonché la difesa comune. “Dovrà cominciare a esportare più all’interno dell’Unione, che ha la capacità di assorbire la sua offerta, e verso gli Stati Uniti, alzando i salari degli operai tedeschi e creando deficit”, dice Altomonte. Cambiando, insomma, il suo modello economico. Esattamente come, in un futuro non troppo distante, potrebbe essere costretta a fare, sul piano istituzionale, l’Unione europea, nell’impossibilità di conciliare gli interessi eterogenei di tutti i suoi membri, nonostante la disponibilità a compromessi sempre più rischiosi. Potrebbe nascere un’Europa a due velocità. Un’Europa a cerchi concentrici. Un’Unione politica e una economica. Comunque la si voglia delineare, la nuova struttura europea potrebbe finire per essere composta da un centro più coeso e integrato politicamente, magari guidato da Francia, Germania e Italia, che insieme rappresentano il 90 per cento della produzione militare e l’80 per cento delle esportazioni, e, contestualmente, da un corpo più ampio, necessario a costruire le economie di scala e a garantire al Continente una solida autonomia economica. La Brexit ha dimostrato che è possibile cambiare tutto. La guerra di Putin rischia di costringerci a farlo davvero. Zagrebelsky: “La guerra va ripudiata anche quando è indiretta” di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2022 “L’incolumità delle persone è un valore che scavalca confini e differenze sociali. Il ripudio di cui parla la Carta dovrebbe essere condiviso da tutti”. “Dell’esportazione di armi non si sa nulla. Che cosa ci nascondono? La vera natura della nostra industria bellica?”. In una lettera al Mahatma Gandhi, pochi mesi prima di morire, Lev Tolstoj scrive che c’è una contraddizione evidente tra il riconoscere il cristianesimo e contemporaneamente la necessità degli eserciti di uccidere; alla fine o sarà abolita la religione cristiana, indispensabile per il mantenimento dello Stato, oppure l’esercito (e qualsiasi forma di violenza) che non è meno indispensabile allo Stato. “I governi sanno da dove arriva il pericolo principale e proteggono i loro interessi: si tratta di essere o non essere”. Con Gustavo Zagrebelsky proviamo ad affrontare qualcuno dei molti temi che il conflitto in Ucraina pone e che sono affogati in una discussione pubblica a volte infantile e spesso intollerante. Professore, partiamo dall’interrogativo radicale del pacifismo tolstoiano - posto per esempio nei bellissimi Racconti di Sebastopoli, al cui assedio lo scrittore partecipò come ufficiale: perché si fanno le guerre? Già, perché c’è la guerra? Eppure, a parte qualche matto come Hegel e Marinetti che l’hanno celebrata come il colmo della eticità o come “igiene del mondo”, tutti la considerano un terribile flagello. Perché l’umanità si fa da sé tanto male, spontaneamente, con le sue stesse mani? Perché questo supremo masochismo? Uno spirito religioso risponderebbe che non è propriamente così perché nella guerra c’è qualcosa di metafisico che è entrato “nell’umano”, per qualche colpa originaria: un seme demoniaco contro il quale, infatti, si invoca, il “dona nobis pacem”. Non resta che la preghiera o la psicanalisi? Non guastano. Ma c’è dell’altro: gli esseri umani ci mettono del loro scientemente. Su questo c’è molto da dire e da fare. Per esempio? Incominciamo con una distinzione, con una piccola pulizia concettuale. Si dice che “c’è la guerra”. Ricorda quel tragico canto di Sergio Endrigo che inizia con “dicono che domani ci sarà la guerra”? “Ci sarà” indica una fatalità di cui nessuno sembra portare la responsabilità. Oppure, ci si chiede perché “si fanno” le guerre e anche in questo caso, con la formula impersonale, si nasconde qualcosa di essenziale, si manipolano le intelligenze ed evaporano le responsabilità. Che cosa intende? Le guerre non “si fanno”. Le guerre “si fanno fare”. È un’evidenza. Da una parte ci sono coloro che decidono, dall’altra coloro che eseguono. I primi fanno fare la guerra ai secondi. I capi di Stato, i ministri, gli alti comandi, i sobillatori, i fabbricanti di armi, i giornalisti (a parte gli inviati di guerra) e gli opinionisti al seguito, di solito non vanno sul campo, non sparano e non si fanno sparare, non distruggono case altrui e non si fanno distruggere le proprie. Le loro compagne, i loro bambini, i loro vecchi non sono uccisi, non sono buttati in strada tra le macerie. Quelli che fanno fare la guerra giocano con le vite altrui. Nella guerra, la distanza tra chi sta sopra nella gerarchia sociale e comanda e chi sta sotto ed esegue è abissale. C’è una questione sociale nella guerra? Esattamente. Stiamo parlando delle guerre decise da qualcuno che manda qualcun altro a combattere e a morire. Comandare e ubbidire. Si può essere sicuri che, se a decidere fossero gli inermi che devono combattere in guerre decise da altri, dai potenti, la guerra scomparirebbe dalla faccia della terra. L’abisso tra la vita e la morte è diversamente percepito se si tratta di sé oppure degli altri. Quando Napoleone doveva rimpiazzare i soldati nella campagna di Russia, tornava a Parigi e, senza batter ciglio, ordinava tra i contadini la leva di centomila nuovi soldati da mandare a loro volta a morire. Lo stesso faceva Alessandro tra i servi della gleba. La carne umana non è tutta uguale e quella da cannone si trova preferibilmente nella parte bassa della stratificazione sociale. Eppure la storia dice che la partenza per la guerra è quasi sempre organizzata come una festa, una grande festa nazionale… Sì, è un’esaltazione dello spirito guerresco delle nazioni. Ma finisce presto. La retorica si sbriciola in presenza della realtà. Per questo occorrono miti, ideologie, valori generali che confondono le menti e intimoriscono. Come si può essere insensibili all’amor di patria, per esempio? Ricorda l’antica menzogna dulce et decorum est pro patria mori con la quale Orazio, poeta di corte di Augusto, incitava i soldati a immolarsi con entusiasmo, per non passare per vili? Oppure, si fa appello a qualche magnifica e progressiva “vocazione storica”, data da bere a popoli inebetiti e creduloni per indurli a precipitare in guerre per la civiltà, il progresso, la giustizia, il bene della nazione. O si chiama in causa la volontà di Dio (il deus vult d’ogni crociata), o qualche cogente “ragione della storia” che si incarna in potenze auto-investite di “missioni” civilizzatrici universali. Oppure ancora si glorifica la virilità, lo sprezzo del pericolo, la bella morte (il “Viva la muerte” dei fascismi) e si dileggiano i miti che non ci credono. È un miscuglio di propaganda in mano ai potenti, al quale gli impotenti possono opporre canzoni (Dylan, De André…) e poesie (Brecht, Ungaretti…) per di più spesso censurate. La guerra è sempre violenza non solo verso chi è combattuto, ma anche verso chi combatte? Con l’eccezione dei fanatici. Dietro ogni guerra c’è una missione e ci sono i missionari. I soldati, per essere disposti a morire e a uccidere, devono essere imboniti, eccitati dalla propaganda, frastornati dall’uso di valori, frasi a effetto, ricatti morali in nome dell’eroismo e dell’amor di patria; oppure terrorizzati con i più orribili ritratti e caricature del nemico. Se poi questo non basta - dopo un po’ non basta a contatto con gli orrori: la guerra è bella solo a chi non l’ha provata, diceva Erasmo - allora ecco la gogna, la galera per i “disfattisti” e per gli obiettori (ricordiamo il processo del 1963 a don Milani), la fucilazione dei disertori sul campo o dopo processi sommari. Questo è il “codice di guerra”, il codice dell’umanità rovesciata, della dittatura più spietata. Il pensiero si perde in un’orribile confusione di fantasmi, proiezione nelle menti della confusione dei campi di battaglia. Pensi che anche la nostra Costituzione, così chiara nel “ripudiare” la guerra e nel vietare la pena di morte, fino alla modifica del 2007 lasciava alle “leggi militari di guerra” la possibilità di comminare la pena capitale. Qualunque guerra è una festa dell’ipocrisia? All’inizio lei ha citato Tolstoj, che era un idealista. Io mi limito a citare Federico II di Prussia, un onesto realista che disse: “Se i nostri soldati pensassero con la loro testa, si rifiuterebbero di andare in guerra”. Ecco il perché della mobilitazione, prima che degli eserciti, dei propagandisti e delle menti: per impedire di pensare o per far pensare storto. Il pacifismo assoluto è un dovere morale? No. Il pacifismo assoluto condanna l’uso della forza sia per aggredire che per resistere all’aggressione. Non è la stessa cosa. La pace è un bene cui tutti dichiarano devozione ma è, per così dire, un bene plurilaterale. È un rapporto tra più parti. Difendersi dall’aggressione, contrariamente alla prima impressione, fa bene alla pace, cioè impedisce a colui che l’ha violata di godere i frutti della violazione. Non difendersi, fa bene alla guerra e a chi l’ha iniziata. Potrà proseguire. Non è, dunque, solo una questione di legittima difesa, il vim vi repellere licet del diritto romano. Anche qui occorre una distinzione nell’uso della forza: una cosa se è per aggredire, un’altra se è per difendersi. Chi si difende combatte per la pace perché cerca di impedire il diffondersi della guerra. Questo, diciamo così, “in diritto”. In fatto può essere difficile discernere aggressori e aggrediti. Lei dice “difendersi”. Può valere anche per “difendere”, cioè andare in soccorso di chi l’aggressione l’ha subita? Ottima osservazione. Capisco dove vuole portare il discorso. Ci arriveremo. Per ora restiamo a ragionare sulla differenza tra il verbo difendere nell’uso transitivo e in quello riflessivo. Lei mi chiede un esempio concreto: non è forse un’orribile macchia del nostro Occidente che non si siano bombardate le linee ferroviarie su cui correvano i treni per Auschwitz? Si sapeva, ma c’erano altre cose cui pensare prima, che interessavano di più. Capisco anche l’obiezione di chi dice: allora, per coerenza, occorrerebbe intervenire sempre e comunque con l’uso della forza tutte le volte che ci sono vittime innocenti da proteggere. Ma è un ragionamento per assurdo. Perché “per assurdo”? Si immagina un mondo in cui tutti si riconoscessero il dovere di portare la guerra, a giudizio di ciascuno, ovunque vi sia un’ingiustizia da combattere? Non sarebbe la guerra di tutti contro tutti? O, forse peggio, non sarebbe la legittimazione della dittatura di chi ha le armi più potenti? Altro che pace e giustizia per tutti: il regno del caos o della forza. Per questo c’è dell’ingenuità, o anche dell’ipocrisia, in chi dice: perché intervenite lì e non siete intervenuti là? In Ucraina (ecco dove il nostro discorso inevitabilmente finirà per arrivare) e non, per esempio, in Siria o nelle repubbliche africane sconvolte da terribili conflitti tribali? Cosa risponderebbe se le girassi questa domanda? Due cose. Primo: come ho già detto, l’applicazione generale e astratta di questo principio porterebbe al suicidio del mondo. Ad evitare esiti catastrofici, fino a quando non si sarà instaurato il regno della “pace perpetua” e universale, o almeno la pace come regola e la guerra come eccezione, vale, prima facie come dicono i giuristi, il principio di “non ingerenza”. Brutta cosa di fronte alle ingiustizie, ma meno brutta dell’ingerenza illimitata per propri interessi negli affari degli altri. Secondo: poiché non ci può essere automatismo, è ovvio che chi interviene lo fa quando, al di là delle ragioni umanitarie, ha anche un interesse proprio. Può non piacere, ma è così. Interessi e ragioni umanitarie si mescolano inevitabilmente. Se viaggiassero gli uni indipendenti dalle altre sarebbero o pura prevaricazione o astratto umanitarismo. Naturalmente, si tratta di ingredienti di decisioni complesse che hanno due estremi: la morale umanitaria indipendente dall’interesse, inverosimile; l’interesse rivestito di umanitarismo, cinismo. Su tutto, dovrebbe valere come garanzia l’autorità delle Nazioni Unite. Lei ha scritto su Repubblica che “i valori possono essere bellissimi ma, maneggiati dai potenti, spesso fanno paura”. Questa guerra è presentata da entrambe le parti come uno scontro in difesa dei valori: è così? Per giustificare una cosa così terribile come la guerra occorre poter esibire ragioni fortissime, “valori” inconfutabili: valori non negoziabili. Infatti, quando c’è la guerra non ci sono trattative, tace la diplomazia. Anzi, chi invoca trattative è a sua volta trattato come un traditore dei valori. Lo scontro tra valori che ciascuna parte indossa come corazza porta alla guerra assoluta. Questo è evidente quando le parti in guerra invocano lo stesso valore, ma ciascuna dalla sua parte. Questo valore è la sicurezza, cosa bellissima ma ambigua. Non c’è guerra, né politica militarista che non sia giustificata con l’argomento dell’autodifesa nei confronti dell’aggressore, in atto o in potenza. E quando uno invoca la propria sicurezza, l’altro è autorizzato a fare altrettanto. Per questo, per scatenare la guerra c’è bisogno di un casus belli, di una “provocazione” e, se non c’è, la si costruisce artatamente attraverso qualche “incidente”. Non c’è bisogno di portare esempi. Non è forse questa una dimostrazione palmare di cattiva coscienza? Paradossalmente la guerra - il massimo dell’insicurezza - la si fa invocando proprio la sicurezza. I valori esibiti in guerra si mescolano in un tutto putrescente dove vero e falso, realtà e inganno, onestà e raggiro s’intrecciano. L’unica cosa da farsi per sottrarsi al gioco delle menzogne è la miscredenza. Che cosa orribile sta dicendo! È l’elogio dell’indifferenza, proprio di fronte alla tragedia. Non le viene in mente quella legge di Solone che condannava i cittadini che non avessero preso posizione, o di qua o di là, quando nella città spirava aria di guerra? Condannava gli “attendisti” in attesa di schierarsi col vincitore... Niente di ciò. L’unico valore comune e incontrovertibile è la vita e l’incolumità delle persone. Dovrebbe valere per tutti, allo stesso modo. Per tutti ma, evidentemente, i potenti che scatenano le guerre e le preparano per “farle fare” agli altri, mettendo in conto migliaia di morti e invalidi, e immani distruzioni che non li toccano personalmente, hanno altre priorità. La loro prima preoccupazione non è la vita, ma la potenza. Sono pronti - cosa di questi giorni - a sacrificare vite in cambio di armi (curdi contro basi militari), in più facendo furbescamente finta di niente (“chiedete chiarimenti ai governi turco e svedese”). La vita è un valore che scavalca i confini e le differenze sociali. Il ripudio della guerra di cui parla la Costituzione dovrebbe essere condivisione di tutti. Pacem in terris è l’enciclica di Giovanni XXIII, uno dei testi più lungimiranti del XX secolo. Ma ha nemici. Chi sono? Sono i “potentissimi signori” ai quali scriveva Bertrand Russell (allora Eisenhower e Kruscev) nel 1957 al tempo dell’”immane terrore” della bomba atomica, un tempo che sembrava superato e, invece, era solo dimenticato e ora si ripropone drammaticamente. Se c’è una speranza di pace è nella democrazia, cioè nel diritto degli impotenti, delle vittime designate, di sapere e di dire la loro. Se ci si accontenta di mettersi nelle mani di potentissimi signori, anche se scelti in forme più o meno democratiche, tutto può essere perduto. Le vite distrutte a migliaia o milioni e le immani distruzioni sono per loro “effetti collaterali” o effetti “purtroppo” necessari (Hiroshima ecc.). Mi stupisce che finora non abbia parlato dell’articolo 11 della Costituzione. Non sarebbe una guida sufficiente per districarsi in questi grovigli? È un lungo discorso… sotto un aspetto è datato; sotto un altro non lo è. Paradossalmente ciò che lo rende datato è anche ciò che lo rende attuale. Professore ce lo spieghi meglio... Che cosa è la guerra di cui questo articolo della Costituzione parla? Dagli atti dell’Assemblea Costituente risulta chiaro che si intendeva la guerra da cui si era appena usciti: la guerra in cui “si entrava” con una certa procedura disciplinata dal diritto interno e dal diritto internazionale. Occorreva la “deliberazione dello stato di guerra” con conseguente applicazione delle leggi di guerra, la coscrizione obbligatoria, il conferimento al governo dei “poteri necessari”, l’eventuale sospensione di alcuni diritti, la “dichiarazione” solennemente notificata al nemico. Quando la Costituzione parla di guerra anche in altri articoli (78 e 87 nono comma), usa la parola in questo significato, per così dire, classico. Già allora si fece tuttavia osservare che la guerra moderna è incompatibile con i tempi lunghi. Pearl Harbor dimostrava l’importanza della sorpresa dal punto di vista militare. Lo straordinario sviluppo della tecnologia bellica che culmina con i missili e la bomba atomica dà un vantaggio incolmabile a chi sferra a sorpresa il primo colpo. Insomma, se la guerra che la Costituzione “ripudia” fosse (soltanto) questa, l’art. 11 potrebbe essere annoverato tra le anticaglie vintage che spesso sopravvivono inutilmente nel diritto. In che senso è attuale? Nelle relazioni internazionali, oggi la forza si minaccia e si usa sempre di più evitando di pronunciare la parola “guerra”: polizia internazionale, missioni umanitarie o di peacekeeping, fino alla “operazione speciale” in corso in Ucraina. D’altra parte, nel diritto internazionale, il “flagello dell’umanità”, che dopo la II Guerra mondiale si volle condannare definitivamente, è qualificato diversamente e ampiamente come “violenza bellica” o, nelle parole dello statuto dell’Onu e di altre dichiarazioni della stessa fonte, come “minaccia o uso della forza”. Questo è il significato che deve darsi all’art. 11 della Costituzione per non privare di senso il libello di ripudio ch’esso contiene. In questo senso è una norma attualissima. Del resto, l’interpretazione stretta della parola “guerra” significherebbe per assurdo che è vietata la guerra antica, ma sono ammesse quelle di oggi cambiando i nomi. Sono cambiate anche le modalità di queste guerre... Si possono fare e si fanno guerre per delega o procura, mandando aiuti materiali e finanziari, mezzi militari, soldati, mercenari, contractors, istruttori. Non si “dichiara” la guerra, ma la si “fa”. A me pare evidente che il “ripudio” imposto dalla Costituzione vale sia per le guerre dirette, che per quelle indirette. Il “neo-colonialismo” del nostro tempo usa questi mezzi. Ma, ciò che è vietato per le une è vietato anche per le altre. È chiaro, comunque, che concettualmente una cosa sono coloro che agiscono come longa manus di potenze straniere che non vogliono apparire in prima persona e sono da queste foraggiate per i propri interessi; un’altra cosa sono, per esempio, i movimenti di liberazione nazionale il cui fine non è opprimere, ma liberarsi dall’oppressione. La Costituzione non vieta la guerra sempre e comunque, ma quando è “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”... Questo punto è molto importante. La Costituzione non è “pacifista” in assoluto, nel senso evangelico del “porgere l’altra guancia” a chi ti ha offeso. La legittima difesa è, e non potrebbe non essere, ammessa. È piuttosto “pacifica” nel senso del “Discorso della Montagna”: “beati i pacifici”, cioè coloro che fanno pace, i “costruttori di pace”. Perciò è vietata la guerra offensiva, la guerra che “offende la libertà degli altri popoli”. Nessuno mette in dubbio che ci si può, anzi ci si deve (“sacro dovere”, articolo 52 della Costituzione) difendere, ma non è vietato l’uso della forza quando si tratta non di offendere, ma di proteggere la libertà degli altri popoli. L’articolo 11 vieta le “offese”, ma non dice nulla sulle “difese”. Badi bene: non si parla di libertà degli Stati, ma dei “popoli”. I popoli non sono solo i cittadini di uno Stato, non coincidono con lo Stato; sono collettività di persone di natura etnica, politica, culturale, religiosa, eccetera. Pensiamo ai numerosi casi persecuzione e sterminio politico o etnico (le famigerate “pulizie”). Ritorniamo al caso emblematico della Shoah. La questione non è di principio, ma è pratica: evitare che sotto il pretesto umanitario si nascondano ragioni di potenza. Non pacifista, ma pacifica. La difesa, anche con le armi, è ammessa. Ma che cosa s’intende per difesa? Pare un concetto chiaro solo a prima vista... Anche a questo proposito, bisogna fare i conti con un mondo che non è più quello del quale ragionavano i nostri Padri costituenti. Si pensava ancora a un mondo di Stati che difendevano la propria sovranità innanzitutto sui propri confini. Oggi il mondo deve essere più realisticamente considerato come una grande scacchiera. I “pezzi” sono tanti, tra di loro esistono enormi differenze di peso e di possibilità (i pedoni sono tanti, da soli possono poco; il cavallo scalcia a destra e a manca; l’alfiere va trasversalmente; la torre va diritto o di qua o di là; la regina è mobile e va dove vuole secondo il suo estro; il re, apparentemente il più importante, è quasi solo la preda). Questa è la globalizzazione politica. La mossa in un punto qualunque può essere una minaccia per tutti o per qualcuno indipendentemente dalla contiguità territoriale. I giocatori di scacchi lo sanno bene. La difesa del re si fa con strategie apparentemente lontane dal punto in cui egli si trova collocato. Questo è realismo o, se si vuole, “geopolitica”: termine che, nel senso attuale, non ha più di cinquant’anni. Chi ragiona seduto sui suoi confini e non guarda oltre perde la partita. Quindi bisogna guardare lontano per pensare la pace? Politica per la pace... Sì. Lontano nello spazio e anche nel tempo. Il buon giocatore di scacchi non pensa alla prossima mossa ma a tutte le prossime mosse. In un certo senso, è un politico che fa scelte geopolitiche. L’articolo 11 impone di guardare lontano nello spazio e nel tempo quando ammette, in condizione di parità, le “limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e invita a “promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. È un grande programma, il programma del futuro. Certo, una volta che si sia aderito a qualcuna di queste organizzazioni, si deve essere conseguenti. Conseguenti, non vuol dire ubbidienti passivi. Non basta dire, come si usa: “ce lo chiede”… l’Onu, la Nato, l’Ue. Ma tu, che cosa ci stai a fare in queste organizzazioni, ci stai per ubbidire? Fai valere, per quanto è possibile, la parità che la Carta esige, secondo la tua visione della pace. Vogliamo dire qualcosa anche sulla guerra che è in corso in Ucraina? Sì, con la cautela di chi - a onta della valanga di notizie che ci si rovescia addosso - ne sa poco, al di là del fatto che c’è un esercito russo che fa guerra, morti a migliaia, distruzioni sul territorio ucraino e al di là dei “valori” che da una parte e dall’altra sventolano come bandiere. Questi sono gli unici dati. Il resto è sospetto di reciproca propaganda. Anche un poco di propaganda è inquinante di tutta la verità. Per non essere creduloni siamo perplessi. Vorremmo saperne molto di più: quali cause ha questa guerra, come sono venute accumulandosi, chi ha fomentato le contrapposizioni, quali interessi al di là dei valori muovono le parti in guerra, chi sono i “potentissimi signori” di questo conflitto, chi se ne avvantaggia, quali sono gli intenti, che cosa pensano le vittime, e come vanno le operazioni sul terreno. Non teme che in questo modo si finisca per trovare giustificazioni all’aggressore? C’è una differenza che solo gli sciocchi non vedono: la differenza tra comprendere e giustificare. Si può “tutto comprendere” e “nulla giustificare”. Si deve comprendere per poter giudicare. Una volta che hai “compreso”, solo allora potrai assolvere o condannare. Di fronte all’invasione che cosa c’è da comprendere? Non si deve essere, comunque e incondizionatamente, dalla parte delle vittime innocenti? Chi potrebbe dubitarne. Ma “stare dalla parte” può voler dire molte cose. La guerra, diretta o indiretta che sia, è l’ultima di queste cose. Innanzitutto, non è sempre moralmente lecita, anche se si sa chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Ricordo la polemica, al tempo della prima Guerra del Golfo, tra Norberto Bobbio e alcuni suoi allievi, scandalizzati perché il loro maestro aveva detto che la guerra priva di prospettive di successo è immorale. L’avevano frainteso, come se avesse detto che la guerra vittoriosa è comunque “morale”. Bobbio diceva il contrario, cioè che una guerra combattuta senza prospettive - come quella dei Melii contro gli Ateniesi di cui parla Tucidide - è comunque immorale: morte, distruzione e disperazione senza senso. Chi potrebbe pensare il contrario? Se sai che la guerra è senza speranza ma la fai ugualmente, non sarà che vuoi la guerra per altri motivi? Davvero in Ucraina si è convinti di sconfiggere la Russia e di poter costringerla alla resa? Davvero si crede all’efficacia di strumenti come le sanzioni economiche che non hanno mai funzionato nei confronti di popoli abituati alle più disperate resistenze in nome di “guerre patriottiche”? La Costituzione dice qualcosa che valga a proteggerci dagli abusi, noi che ne sappiamo poco o niente e siamo facili vittime della propaganda di guerra? Sì. Innanzitutto ha voluto sottrarre le decisioni di guerra e pace alla solitudine dei governanti. In passato, la politica estera in generale era un “potere di prerogativa”, appannaggio del re e del suo governo. Era materia “riservata”. Per quanto invecchiata rispetto all’esigenza di decisioni rapide, è chiara l’impronta “garantista” della Costituzione. I poteri straordinari necessari in caso di guerra non sono del governo, ma del Parlamento che glieli “conferisce” (art. 78). Ciò significa pubblicità, trasparenza e responsabilità: responsabilità che, in ultima istanza, riguarda il popolo sovrano, i cittadini. Meno sappiamo, meno siamo sovrani. Sotto questo aspetto, si dice, le cose sono formalmente a posto. Ci sono decreti convertiti in legge; “atti d’indirizzo” del Parlamento. Il presidente del Consiglio ha “riferito” alle Camere e le Camere hanno “preso atto”. Basta? È stata prevista la partecipazione di personale militare ai dispositivi Nato e la cessione di mezzi e equipaggiamenti militari “non letali e di protezione”. Poi questa clausola è caduta a favore della cessione di “ulteriori mezzi”. Quali siano, è stabilito dal ministro della Difesa con documenti “classificati”, cioè secretati, elaborati dallo Stato maggiore della difesa. Il Parlamento, in un suo atto d’indirizzo aveva però previsto la necessità d’essere costantemente informato sulla “cessione degli apparati e strumenti militari” per poterne discutere. Non si capisce perché non si possa sapere quali siano. Segreto militare? Una volta inviati e messi sul campo si saprebbe benissimo che cosa sono. Si vuol che si sappia solo a cose fatte? In altri Paesi che partecipano alla fornitura di armi all’Ucraina vige la pubblicità. Sapere quali sono è essenziale per comprendere la natura della partecipazione italiana alla guerra in Ucraina. Che cosa si nasconde? La natura dell’industria bellica in Italia, forse? Quindi, lei sostiene che l’informazione è insufficiente, alla luce del “garantismo” voluto dalla Costituzione? Così mi pare. Aggiungo che la responsabilità non è solo del governo. Anzi, forse in misura maggiore è del Parlamento stesso che si accontenta troppo facilmente. Basta leggere le generiche formule, piene di buone intenzioni (tra cui la de-escalation della guerra, mentre si aumentano le armi che sparano sul campo) contenute negli “atti d’indirizzo”. Tutte le volte che il Parlamento si accontenta, scontenta i cittadini che in esso dovrebbero potersi rispecchiare. La frontiera dell’Europa è il deserto africano: “Milizie pagate con fondi Eu per respingerci” di Bianca Senatore L’Espresso, 10 luglio 2022 Il Marocco sta diventando la nuova Libia, ponte verso il continente: e quanto successo a Melilla lo dimostra. Ma i flussi vengono già bloccati prima, nel Sahel, con la solita spietatezza. Mentre la crisi del grano mette in ginocchio tutto il Continente. “Ho provato a scalarlo varie volte quel muro di ferro alto 9 metri, ma venerdì ho rinunciato e forse mi sono salvato la vita”. A Nador, città portuale sulla costa del Marocco, a due passi dall’enclave spagnola di Melilla, ha piovuto per qualche minuto. Per questo, l’incontro con Makan, 22 anni e originario della Nigeria, si svolge in un bar al chiuso. È scosso per la morte di 37 migranti che venerdì 24 giugno hanno provato a scavalcare il muro. Sono precipitati, sono stati picchiati, alcuni sono morti soffocati. E ora la sezione di Nador dell’Association marocaine des droits humains chiede che si apra un’indagine seria per l’accaduto. È la prima volta da anni che accade una tragedia simile e forse non è un caso. Il vicepresidente, Omar Naji ci aveva accompagnato in macchina lungo la barriera di metallo, solo poche ore prima che si scatenasse l’inferno. Ed è proprio da Nador, dalle coste del Mediterraneo, che abbiamo imboccato la rotta dei migranti per arrivare fino al deserto algerino. E vedere cosa succede, quali sono gli effetti della crisi del grano bloccato in Russia e se ci sono davvero indizi di un incremento dei flussi verso l’Europa. Lungo la strada da Nador verso Oujda, nonostante il caldo, ci sono gruppi di uomini e donne che camminano per arrivare al mare. E ci sono bimbi che giocano a calcio. “Sono tutti minori non accompagnati, ma non ci sono abbastanza fondi per gestirli tutti, sono aumentati negli ultimi mesi”, spiega il volontario che ci accompagna. Il Marocco, infatti, di recente è diventato meta di un gran flusso di migranti sub-sahariani, molti più di prima, perché le rotte desertiche verso Tripoli sono diventate troppo rischiose. Il Marocco potrebbe diventare la nuova Libia. A confermarlo è Jamila Berkau, responsabile del progetto Afrag. A Oujda si occupa della prima assistenza ai migranti che arrivano. La cittadina è solo a pochi km dal confine algerino ed è diventata molto povera da quando la frontiera tra i due Paesi è stata sbarrata. Mentre prima viveva di commercio e turismo, oggi vive di mercato nero e traffici illeciti, anche di esseri umani. I migranti arrivano a piedi lungo il deserto, dopo un viaggio di mesi e mesi, come Aminata, arrivata con i figli dalla Guinea Bissau. “Mi hanno stuprato due volte e tutte e due le volte sono rimasta incinta”, sussurra. Il frutto della sua violenza ha il volto di un bimbo di nove mesi che tiene in braccio con amore. “Hanno abusato di me la prima volta a casa mia, perché c’è una guerra etnica e la mia tribù dicono sia malvagia, l’ultima volta è stata in Niger”. Hanno ucciso gran parte della sua famiglia e non sapeva cosa fare. Insieme a lei, nella stanza dell”associazione Afrag c’è anche Zalika, arriva dal Mali. Durante il suo viaggio verso il Marocco è stata torturata e picchiata così tanto che all’arrivo i volontari hanno dovuto portarla in ospedale. È ancora sotto shock. Nonostante il caldo, si avvolge e si nasconde dentro un pile rosa. Quando era a poche miglia dal Marocco, un gruppo che si è spacciato per attivisti si è fatto pagare per portarla in un centro. Peccato però, che il centro fosse finto e che arrivata lì le abbiano chiesto altri soldi prima di rispedirla, come un pacco, indietro nel deserto. Non parla molto ma racconta di aver pianto tanto. Ora fa ancora fatica a sentirsi al sicuro. Ha solo 17 anni. Mentre parla, arrivano quattro uomini, anche loro giunti da poco. Jamila li fa accomodare nella stanzetta. “Ormai la rotta più battuta verso l’Europa è quella che attraversa Ciad, Niger, Algeria e Marocco”, spiegano i ragazzi. Arrivano rispettivamente da Sud Sudan, Camerun e Nigeria. Durante il cammino, hanno incontrato trafficanti di uomini e milizie che li hanno derubati e picchiati. “Alcuni dei ragazzi che erano con noi sono stati uccisi, altri sono morti di sete. Altri ancora, invece, sono stati feriti e abbandonati nel deserto a dissanguarsi ed essiccarsi”, racconta David. I loro volti dicono più delle parole. Sono stati dissetati e nutriti dall’associazione che ha dato loro anche vestiti nuovi e puliti. Ma i segni delle sofferenze li portano addosso, come una patina trasparente ma percettibile. Dai discorsi si intuisce che c’è qualcosa che non rivelano con chiarezza. Chi vi ha respinto in Ciad e Niger?, proviamo a chiedere. “Gruppi paramilitari pagati dal governo, ma con i soldi dell’Unione europea”, spiega David. Interviene Jamila Berkau a chiarire, mentre i ragazzi temono di essersi esposti troppo e Aminata si agita. “Il Niger e il Ciad ricevono soldi dall’Italia provenienti dal Fondo Africa. E i governi locali impiegano quei fondi per pagare milizie che respingono i migranti”, dice Jamila: “Ma lo fanno con ogni mezzo, cioè quasi sempre con brutalità”. Si chiamano accordi soft, cioè accordi che non seguono il classico iter normativo, vengono siglati da diversi organismi e agenzie e soprattutto non vengono pubblicizzati. In questo modo, l’Unione Europea esternalizza le sue frontiere, allarga sempre di più i suoi confini, affinché meno persone possibile riescano ad accostarsi alle coste del Mediterraneo. Ma a che prezzo? “La verità è che noi non vogliamo andare via dalle nostre case, ma se c’è la guerra, c’è il terrorismo, veniamo massacrati, viviamo nel terrore, cosa possiamo fare?”. Oluwa, 24 anni, ha studiato lingue e letterature europee: “È un istinto scappare, mettersi al sicuro, salvaguardare la propria specie, la stirpe o semplicemente la propria famiglia. Non fareste lo stesso?”. La domanda resta nell’aria, come una freccia prima di colpire il punto dolente. L’Europa respinge, non accoglie i profughi che arrivano da una certa parte di mondo e spende milioni e milioni in armamenti, mentre una parte dell’Africa non ha più cibo. Qualche giorno fa il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha annunciato che sospenderà gli aiuti alimentari in Sud Sudan, perché non ci sono più fondi. Proprio ora che, tra grano bloccato e cambiamenti climatici, l’Africa rischia la più grande crisi alimentare di tutti i tempi. “La maggior parte dei Paesi africani dipende dal grano russo”, racconta Fatima, volontaria di un’associazione per lo sviluppo dell’Africa: “Il Senegal dipende per il 66 per cento, la Somalia per il 70, la Tanzania per il 64, il Sudan per il 75, la Repubblica Democratica del Congo per il 69. E poi c’è chi dipende al 100 per cento dal grano russo, come per esempio il Benin. L’Africa dimostra tutta la sua grande fragilità con questa forte dipendenza dalle produzioni del nord del mondo”. Gli effetti della crisi alimentare non si vedono ancora, eppure i ragazzi che ho incontrato hanno raccontato che nelle ultime settimane c’è un fermento insolito nelle chat Telegram dei rispettivi Paesi. “Ci sono tantissime richieste di persone che vogliono partire e chiedono aiuto e suggerimenti”, raccontano i ragazzi. Aminata conferma. Ormai in molte aree non c’è più cibo, non c’è acqua e i prezzi sono diventanti insostenibili per chiunque. “Arriveranno molte persone”, ammette Fatima. Mentre si sventola con un quadernetto, guarda in alto a sinistra e riflette: “Vedremo i primi segni di un flusso intenso tra settembre e ottobre e ci saranno molti più arrivi verso l’Europa. Non solo verso la Spagna. Ci saranno più partenze anche via mare”. Sarà una manna per i trafficanti di uomini, per i contrabbandieri e per chi fa affari con l’Ue. Dopo che l’ultimo dei ragazzi è andato via, ci rimettiamo in cammino per arrivare nel deserto. Da Oujda verso Ain Sefra, al di là del confine algerino, lungo rotta che conduce nel Sahel, attraverso la valle del Saoura e del Tuat. La strada è impervia, desolata com’è ovvio che sia una strada nel mezzo del deserto e in alcuni tratti non c’è che la linea dell’orizzonte, tremolante per il caldo. A circa una trentina di km da Oujda, la guida si ferma e mostra un angolo di sabbia. “Questo lo chiamano il punto zero, perché è ormai la fine del viaggio e i migranti sanno che la città è vicina. Di solito si fermano qui, piangono e pregano per esser arrivati ormai a pochi km dalla meta. Vivi”. Ma lo chiamano il punto zero anche per un altro motivo. È proprio qui che Marocco e Algeria, abbandonano i migranti che vengono respinti, invitandoli a imboccare la strada nel verso opposto. Andando verso sud, c’è un gruppo in cammino. Alcuni sono scalzi ma hanno maglie a maniche lunghe e foulard o cappucci in testa, per ripararsi dal sole. Con loro c’è anche una ragazzina, è ferita in volto, l’hanno colpita dei trafficanti che volevano tenersela come schiava. È stato solo un caso che non ci siano riusciti. Mentre erano fermi al checkpoint improvvisato, tra due Toyota bianche a sbarrare il cammino, è arrivato un furgone a tutta velocità, per forzare il blocco. Gli uomini lo hanno rincorso e hanno lasciato libero il gruppetto. Il destino ha voluto che Nyamey arrivasse fino al confine con il Marocco. Giunti a una sessantina di chilometri da Oujda lungo il deserto, andare oltre diventa rischioso. È tempo di tornare indietro, al punto di partenza. A Nador si scavano le buche per seppellire i cadaveri dei migranti morti nel tentativo di superare la barriera di Melilla. Senza identificarli, senza nessuna pietà. Iran. Arrestato il regista Rasoulof per la richiesta di fermare la violenza di Cristina Piccino Il Manifesto, 10 luglio 2022 Il regista di “Il male non esiste” Orso d’oro alla Berlinale nel 2020 è stato arrestato per avere lanciato via social network un appello contro le violenze della polizia. Mohamed Rasoulof, il regista di Il male non esiste Orso d’oro alla Berlinale nel 2020 è stato arrestato venerdì in Iran insieme a un amico, Mostafa Al-Ahmad, anche lui cineasta per avere lanciato via social network un appello contro le violenze della polizia di questi ultimi mesi. Con l’hashtag #put­your_gun_down (metti giù la tua arma) i due registi chiedevano alle forze speciali iraniane di non usare più le armi contro i manifestanti facendo eco alle proteste seguite alla repressione, lo scorso maggio, delle manifestazioni nella città di Abadan dopo il crollo di un edificio nel quale sono morte quarantuno persone. Non è la prima volta che Rasoulof, regista riconosciuto internazionalmente i cui film invece sono proibiti in Iran, viene arrestato. Era già accaduto nel 2011 quando lo avevano processato insieme al regista Jafar Panahi per avere attentato alla sicurezza del Paese, e condannato a sei anni di prigione con l’interdizione di girare film per vent’anni. La sentenza era stata poi sospesa e Rasoulof era stato rilasciato su cauzione. Nel 2017, le autorità iraniane lo hanno fermato di ritorno dal festival di Telluride - dove aveva presentato il suo film A Man of integrity - sequestrandogli il passaporto senza permettergli nel 2020 di partecipare alla Berlinale - l’Orso d’oro era stato ritirato dalla figlia del regista, Baran Rasoulof. Rasoulof e Al-Ahmad sono state arrestati nelle loro case, con un’azione “brutale e congeniata” ha dichiarato il produttore di Rasoulof Kaven Farzah a “Variety” e portati in una località sconosciuta. L’arresto - ha ancora commentato Farzah - è l’ennesima prova dell’incapacità da parte del regime iraniano di rispondere alla crisi economica e alle accuse di corruzione se non con atti violenti anche di fronte a richieste pacifiche come quella dei due registi. Immediata la reazione della comunità del cinema internazionale, a cominciare dalla Berlinale, con la richiesta di rilasciare subito i due registi. I due nuovi arresti testimoniano ancora una volta l’ondata di repressione che ormai da diversi mesi attraversa l’Iran, e che trova negli artisti uno dei principali obiettivi. Secondo l’Associated Press l’appello di Rasoulof e Al-Ahmad è stato firmato da altre settanta personalità del cinema iraniano. La rivolta del pane travolge lo Sri Lanka di Emanuele Giordana Il Manifesto, 10 luglio 2022 Dopo la revoca del coprifuoco. Folla arrabbiata e affamata all’assalto dei simboli del potere: presidente in fuga, in fiamme la casa del premier. Entrambi sono costretti a dimettersi. Crisi fuori controllo e paese allo stremo. La protesta popolare finisce con un tuffo nella piscina presidenziale. A guardarlo nei filmati diffusi dalle tv dello Sri Lanka, l’assalto di ieri al palazzo presidenziale è impressionante. Non gli inquietanti e variopinti figuri che assaltarono per Donald Trump il Congresso degli Stati uniti, ma una folla gigantesca - arrabbiata e affamata - che ha sfondato la tiepida resistenza della polizia anti sommossa che, dopo aver sparato in aria e lanciato lacrimogeni, se l’è data a gambe. Scena che si è ripetuta anche davanti ad altri palazzi del potere come il segretariato del ministero della finanza, sede di un sit in di protesta pacifica durato mesi, e la residenza del premier: data ieri alle fiamme. La “rivolta del pane”, che covava ormai da tempo, puntellata di manifestazioni, sit in, tendopoli, è esplosa in una forma che sembra in parte spontanea, anticipata dagli studenti universitari. Per certo assolutamente popolare e trasversale. Già nelle prime ore dell’assalto al simbolo del potere si diffonde la notizia che il target numero uno, il presidente Gotabaya Rajapaksa, è scappato. In serata annuncerà le dimissioni per il 13 luglio. Stessa storia anche per il premier Ranil Wikremeshinghe. E mentre la gente che ha invaso la residenza coloniale del presidente si tuffa nella piscina del palazzo, occupa scale e corridoi avvolta nella bandiera nazionale, mentre si assembra anche sotto la casa del premier in fuga. Ranil getta la spugna per primo. Le decisioni le prendono dopo che una riunione dei vari partiti politici chiede formalmente a presidente e premier di lasciare. La soluzione proposta è che il presidente del parlamento assuma la carica di Capo dello Stato temporaneo secondo quanto dice la Costituzione. Nella notte le manifestazioni sono continuate ma la giornata si è conclusa fortunatamente senza vittime: con decine però di feriti e contusi. Il sabato nero per i vertici del Paese era stato anticipato da un venerdì molto teso in cui era stato annunciato il coprifuoco, levato poi ieri dopo le critiche di parlamentari e avvocati che lo avevano definito illegale. L’apertura ha così consentito che la folla si assembrasse davanti al palazzo già più volte preso di mira ma senza che fosse stato violato. Molti srilankesi sono arrivati anche da fuori Colombo per protestare contro l’aumento galoppante dei prezzi e la mancanza di benzina e beni di prima necessità che il Paese non è più in grado di comprare. A metà aprile lo Sri Lanka aveva annunciato uno stop del rimborso del debito estero, sia dei prestiti bilaterali sia di quelli ottenuti dalle istituzioni internazionali. Aveva intanto accettato di trattarne la ristrutturazione col Fondo monetario che dovrebbe versare nelle casse prosciugate del Paese circa 3 miliardi di dollari. Colpito dal Covid, dal crollo del turismo, dall’aumento generale dei prezzi di cibo, fertilizzanti e gasolio lievitati con l’invasione russa dell’Ucraina, il Paese si è ritrovato coperto da debiti insolvibili per circa 50 miliardi di dollari. La protesta popolare ha individuato nella famiglia Rajapaksa, Gotabaya l’attuale capo dello Stato e suo fratello Mahinda costretto a dimettersi da premier in maggio, i responsabili di una conduzione famigliare e fallimentare del Paese. Gotabaya era riuscito a restare in sella fino a ieri mentre si tentava la carta di Wikremeshinghe, carta usurata peraltro perché Ranil, seppur non in buoni rapporti col duo famigliare, fa parte di un’élite che ora la gente vuole fuori dalle stanze del potere. Una soluzione potrebbe essere dunque quella di un governo istituzionale che comprenda tutti i partiti, minoranze tamil e musulmane comprese. Un paio di giorni fa, quando ormai era chiaro che benzina e gasolio stavano finendo, Gotabaya aveva telefonato a Putin per chiedere aiuto (lo aveva già fatto in precedenza) anche perché la Russia è stata in passato uno dei principali fornitori di turisti alla “Lacrima dell’Oceano indiano”. Anche un modo per uscire dalle strette del debito con India e Cina, i principali creditori. E forse puntando sul ruolo del Cremlino in questo momento, che potrebbe approfittare della crisi energetica, dei fertilizzanti e del grano per riconquistare posizioni in Asia. Un cammino già iniziato con l’acquiescenza di India e altri Paesi che ben si è visto al summit di Bali del G20 sotto presidenza indonesiana. Ora il nuovo possibile governo di salvezza nazionale dovrà rimboccarsi le maniche: riprendere la trattativa col Fondo monetario, con Delhi, Pechino e Mosca. Con la situazione di caos, blocco delle attività produttive dovuto alla mancanza di petrolio e un’emergenza Covid che non pare affatto finita, sarà ben difficile ritentare la strada del turismo, introito che, dalla fine della guerra coi Tamil, garantiva un flusso costante di valuta pregiata assieme alle esportazioni agricole ora ferme. Restano solo le rimesse dei migranti, boccata d’ossigeno insufficiente.