Ridurre i casi in cui è prevista la custodia cautelare? Le ragioni del Si e quelle del No di Giulia Merlo Il Domani, 9 giugno 2022 Referendum. Il quesito sulla scheda arancione al referendum del 12 aprile, che si terrà insieme alle elezioni amministrative, riguarda le motivazioni per cui si può disporre la misura cautelare. Votando sì, ci si esprime per ridurre la possibilità di trattenere in carcere un indagato prima del processo. In particolare, il quesito prevede di eliminare dall’articolo 274 del codice di procedura penale una parte che riguarda il pericolo di reiterazione di reato. La questione di procedura è complicata. Nella fase delle indagini preliminari, quindi prima che il processo inizi e che ci sia una sentenza di condanna, il pm può chiedere e il giudice per le indagini preliminari disporre una misura cautelare personale per l’indagato. Le misure cautelari sono gradate a seconda del reato per cui si indaga e possono essere per esempio l’obbligo di firma, il divieto di avvicinamento, l’obbligo di dimora in un determinato luogo, oppure quelle più invasive come gli arresti domiciliari o la detenzione in carcere. Il gip le dispone sulla base di alcune motivazioni previste dal codice: innanzitutto devono esserci sempre gravi indizi di colpevolezza, poi si valutano il rischio che l’indagato inquini le prove, il pericolo di fuga e il rischio che commetta nuovamente il reato per cui è indagato. Basta che esista una di queste ragioni per disporre la misura cautelare. La reiterazione del reato - Il quesito si concentra sul rischio di reiterazione del reato. Attualmente si prevede che questo pericolo esista quando, sulla base della personalità e delle circostanze del reato ipotizzato, l’indagato possa commettere gravi delitti con uso di armi, violenza personale, delitti di criminalità organizzata o “delitti della specie di quelli per cui si procede”. Quest’ultima previsione e alcuni dettagli specifici che seguono è l’oggetto del referendum e i promotori chiedono di eliminarli, in modo da ridurre i casi in cui è possibile disporre una misura cautelare giustificandola con il rischio che l’indagato commetta di nuovo il reato. Se il quesito passasse, questa motivazione potrebbe essere usata solo per delitti gravi elencati nella prima parte dell’articolo, commessi con armi, con violenza o di criminalità organizzata. Non più, invece, per reati considerati meno gravi. Le ragioni del Sì - Secondo i promotori, con modifica si ridurranno i casi di indagati che scontano una misura cautelare in carcere senza una sentenza che li condanni e che quindi - nei casi più gravi - finiscano in carcere come forma di pena anticipata. Il pericolo di reiterazione del reato, infatti, è la motivazione che più di frequente viene utilizzata per disporre una misura cautelare. Secondo i dati, in Italia si stima che in trent’anni siano state quasi 100 mila le persone che sono state private ingiustamente della libertà personale, 30 mila delle quali sono state indennizzate per ingiusta detenzione per un totale di quasi 900 milioni di euro. Le ragioni del no - Secondo i critici, invece, non esiste un abuso delle misure cautelari che vengono disposte a tutela dell’ordine e della sicurezza dei cittadini. Addirittura, secondo alcuni giuristi, questo quesito rischia di generare l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, creando un cortocircuito. Il taglio di una parte dell’articolo, infatti, potrebbe fare sì che una misura cautelare non possa essere disposta nel caso di rischio di reiterazione di reati che non rientrano tra quelli “gravi” indicati nella parte non toccata. Un esempio che spesso si fa è quello del reato di stalking, che potrebbe non essere ricompreso. In realtà, secondo giurisprudenza, lo stalking è un reato che comprende il requisito della violenza psicologica, quindi va fatto rientrare nella casistica della parte di articolo non toccato dal taglio. “Io, in cella da innocente per 22 anni, vi dico: votiamo Sì per cambiare questa giustizia feroce” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 giugno 2022 Parla Giuseppe Gulotta, vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia italiana: “La mia storia è emblematica di come si possa finire in carcere senza aver commesso alcun reato. Io ho trascorso oltre due anni in misura cautelare e poi mi hanno dato l’ergastolo da innocente”. Giuseppe Gulotta ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana. Ora ci dice: “Bisogna andare a votare domenica per i referendum e votare sì anche con la speranza che casi come il mio non accadano più”. Tutto ha inizio il 27 gennaio 1976 quando due carabinieri - Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta - vengono trucidati mentre dormono nella caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Giuseppe aveva poco più di diciotto anni, lavorava come muratore e non immaginava la tragedia che di lì a poco lo avrebbe travolto. Uno dei principali indiziati per l’omicidio fa il suo nome. L’uomo fu posto in stato di fermo e, in assenza di un avvocato, venne sottoposto a torture e sevizie al punto da confessare un reato che non aveva commesso. Quando giunse finalmente davanti al magistrato, ritrattò la confessione ma ormai era troppo tardi. Nessuno gli credette. Dopo ben 8 processi, che ora lo assolsero ora lo condannarono, gli fu comminato l’ergastolo nel 1990. Ventidue anni dopo, il 13 febbraio 2012, Giuseppe, assistito dai legali Pardo Cellini e Baldassare Lauria, è stato assolto con formula piena, dopo la revisione del processo. I giudici hanno stabilito che la confessione venne estorta e gli venne riconosciuto un risarcimento di sei milioni e mezzo di euro. Fu possibile riaprire caso grazie ad un ex brigadiere che raccontò come effettivamente erano andati i fatti: l’uomo che aveva accusato ingiustamente Gulotta subito dopo l’arresto venne portato presso una casermetta di campagna e sottoposto a torture terribili. Bendato, fu costretto a ingerire enormi quantitativi di acqua e sale, con l’ausilio di un imbuto mentre lo stesso veniva schiacciato fra due piani di legno. Subì anche scariche elettriche. Dopo arrivò la chiamata in correità per Gulotta e altri, poi rivelatasi falsa. La strage di Alcamo è tuttora un mistero irrisolto: anni di indagini e processi hanno fallito l’obiettivo di assicurare alla giustizia i colpevoli. Giuseppe Gulotta lei domenica andrà a votare? E se sì cosa? Bisogna andare a votare e votare sì anche con la speranza che casi come il mio non accadano più. Credo che quello di domenica sia un appuntamento importante per cominciare a riformare la giustizia, dando un forte segnale. Ho già partecipato a un incontro con il Partito radicale a Roma perché condivido la loro battaglia a cui si è aggiunta anche la Lega. Mi auguro che tutti vadano a votare, anche se, purtroppo, nelle tv c’è un silenzio totale sui referendum, a parte qualche piccola informazione che danno fra uno spazio e l’altro. I talk show non se ne occupano, forse qualcosa in più la sta facendo Mediaset. Lei ha trascorso 22 anni in carcere da innocente... È stata una vera tragedia per me e per la mia famiglia. E ogni volta che un innocente finisce in carcere si ripete lo stesso dramma. Quando si scopre un errore giudiziario, anche la famiglia della vittima rivive il dramma perché vuol dire che non è stata fatta giustizia... Sì, senza dubbio. È quello che è successo nel mio caso. Io sono stato condannato ingiustamente ma allo stesso tempo non sappiamo ancora, dopo oltre quarant’anni, chi abbia ucciso quei due carabinieri. Cos’è che non ha funzionato nel suo caso? Oltre alla confessione estorta sotto tortura, poi i magistrati non hanno valutato bene le prove. A loro bastava avere un colpevole, non il colpevole. Avevano trovato quattro ragazzini e si sono accontentati senza vagliare altre piste. E non scordiamo che il mio avvocato di allora si era recato in caserma ma gli venne detto che non era nulla di importante e che dopo poco mi avrebbero riportato a casa. E intanto ci picchiavano e ci facevano fare false confessioni. Dunque il sistema è marcio e va rifondato. Qualcuno le ha mai chiesto scusa? No, nessuno, tranne in privato qualche carabiniere. Nessuno si è assunto le responsabilità per quanto accaduto. Ma i carabinieri che l’hanno torturata non si sono mai fatti avanti? Mai, non so se qualcuno di loro è ancora in vita. Io sarei disposto anche ad incontrarli. Non ho alcun problema, a differenza delle loro coscienze. Molti dicono che non bisogna andare a votare perché basta la riforma in discussione ora al Senato... Io non sono un esperto, non sono un tecnico in grado di analizzare compiutamente la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La riforma del ministro Cartabia è sicuramente importante sotto alcuni aspetti ma penso che l’occasione offerta dai referendum rappresenti una maggiore spinta per riformare la giustizia. Quali sono i quesiti che sente più vicini? La mia storia è emblematica di come si possa finire in carcere senza aver commesso alcun reato. Io ho trascorso oltre due anni in misura cautelare e poi mi hanno dato l’ergastolo da innocente. Quindi sicuramente quello sull’abuso della custodia cautelare. Ma anche quello sulla separazione delle funzioni lo ritengo molto importante. Un pm che va a braccetto con il giudice è una cosa abnorme. Quando ero sotto processo, il pm, a fine udienza, quasi quasi andava in camera di consiglio con la Corte e la giuria popolare. Ecco, io spero che con il sì si arrivi alla parità fra accusa e difesa, e spero che il pm cominci a valutare anche le prove a favore del reo. Il giudice deve giudicare in piena libertà, deve essere terzo, super partes. La vittoria dei Sì sarebbe risolutiva oppure rappresenterebbe solo un primo passo? Non so se la vittoria dei sì, con il superamento del quorum, renderà più difficile che si verifichino casi come quelli di cui sono stato vittima io, so però che di ingiuste detenzioni e errori giudiziari ce ne sono tanti. Ogni giorno 3 innocenti finiscono in carcere, mille all’anno. Quando mi invitano per raccontare la mia storia lo faccio per fare in modo che casi come il mio non succedano più. Purtroppo, però, la realtà è molto diversa da ciò che speravo. Dunque invito a votare sì anche con la speranza che casi come il mio non accadano più. Così come invito i mass media a dare un’informazione maggiore sui referendum, anche perché il periodo è un po’ particolare, la gente magari pensa ad andare al mare, ma speriamo che il 12 giugno si rechi a votare per i referendum. La procuratrice: “Il Sì al referendum sulla custodia cautelare è un voto contro le donne” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 9 giugno 2022 “Chi ha scritto questo referendum non ha pensato alle donne e alle conseguenze che avrebbe, proprio sulle donne, l’abrogazione della misura cautelare per i delitti come lo stalking”. Valeria Sanzari, procuratrice aggiunta di Padova e a capo del gruppo “Fasce deboli”, non usa mezzi termini per dire quello che pensa sul referendum sulle misure cautelari, ossia uno dei cinque quesiti che verranno posti domenica 12 giugno agli italiani. La scheda è quella arancione e la domanda è: volete cancellare la “reiterazione del reato” dall’insieme delle motivazioni per cui i giudici possono decidere la custodia cautelare in carcere o i domiciliari per una persona prima del processo? Oggi una persona indagata può finire in carcere o ai domiciliari prima della sentenza se c’è il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, oppure per impedire che la persona possa compiere di nuovo lo stesso reato. Attualmente si può finire gli arresti per questo ultimo motivo se si tratta di un reato per cui è prevista una pena massima di 4 o 5 anni oppure per il finanziamento illecito dei partiti. Dottoressa, se vince il sì che cosa succede? “L’effetto “collaterale” di un eventuale sì è che non si potranno chiedere misure cautelari per gli uomini che perseguitano le loro mogli o compagne, e per misure cautelari non intendiamo solo il carcere ma anche l’allontanamento da casa o il semplice divieto di avvicinamento. Questa norma oggi si applica anche alle persone che non sono violente nei confronti delle loro vittime e si fa proprio perché si vuole evitare che lo diventino: lo stalking inizia con pedinamenti, appostamenti, ma poi c’è un’escalation che potrebbe portare a violenze ben più serie”. La norma sulla reiterazione del reato che si vuole abrogare rende più efficaci anche i codici rossi? “Le norme che ci sono oggi sono a tutela delle donne maltrattate, e lo stalking è a tutti gli effetti un maltrattamento anche se non è fisico. Le esigenze cautelari che precedono la sentenza di primo grado hanno proprio l’obiettivo di evitare che il reato si ripeta, ma in casi di violenze in famiglia lo stalking non si ripete uguale identico a se stesso, ha una deriva incontrollabile”. Com’è possibile che chi ha scritto il referendum non abbia pensato a questo effetto? “Questo non lo so, ma è andata proprio così, ed è un paradosso, perché proprio in questo periodo storico in cui si parla tanto di tutelare le donne e di violenza di genere, la prima volta che si fa un intervento per cambiare una legge le prime ad essere dimenticate sono proprio le donne. Se il referendum passasse sarebbe devastante per le vittime di atti persecutori”. L’obiettivo di questo referendum è evitare il carcere a chi commette reati finanziari, la questione è politica, poi però tutti puntano il dito sui magistrati quando una donna viene uccisa... “Dubito che chi voterà sì a questo quesito conosca bene i termini della questione. Se dovesse passare l’abrogazione per noi magistrati ci sarebbe molto meno lavoro: meno carte, meno burocrazia, ma non è così che devono andare le cose, non è così che si salvano le donne”. Emma Bonino: “Poca informazione sui referendum, voterò 5 Sì per cambiare la giustizia” di Francesco Grignetti La Stampa, 9 giugno 2022 “Io schierata con Salvini? Non direi, ha raccolto le firme ma poi è scomparso”. Per la senatrice Emma Bonino, è vigilia di un’ennesima tornata referendaria. Questa volta si tratta di cinque quesiti di Lega e Radicali sulla giustizia, sui quali +Europa ha scelto 5 sì. I quesiti sono abbastanza eterogenti, ma lei pensa che ci sia un filo rosso. “Di certo la riforma avviata dalla signora Ministro Cartabia è positiva e va sostenuta, ma non è sufficiente. Dal buon funzionamento della macchina giudiziaria passa tutto ciò per cui ho fatto numerose lotte politiche, dai diritti umani, alle libertà economiche e civili, alla difesa dei più deboli. Per non parlare della burocrazia, le carceri, i migranti e via dicendo. Serve una riforma coraggiosa e complessiva, perché dalla giustizia giusta passa lo Stato di diritto e quindi la democrazia e la tutela delle libertà”. I quesiti portano la firma di Matteo Salvini. Imbarazzata da questo compagno di strada, da cui tanto vi divide? “Sono sempre contenta quando vedo un avversario politico che sostiene le iniziative che hanno riguardato tutta la mia storia politica. È così per l’europeismo, cui tutti ora sembrano entusiasti sostenitori, manco volessero togliermi il “core business” che mi ha portato a fondare +Europa. Lo stesso vale sulla giustizia. Il coinvolgimento di Salvini è arrivato in corsa su un’iniziativa del Partito Radicale, ma, raccolte le firme, sembra ora non gli interessi più la buona giustizia. Mi pare sia più interessato a mettere in discussione le scelte di Draghi e a correre in soccorso dell’amico Putin - diciamo che il garantismo e la simpatia per quei regimi dove la libertà dei cittadini è annichilita sono un po’ in contraddizione - e i referendum non siano la priorità”. Come si spiega tanta ostilità da parte dei magistrati? “Si tratta di certo del voler mantenere lo status quo. Ma basti pensare agli scandali che hanno interessato il Csm, che ne è uscito lacerato, ancor più dalle divisioni correntizie che lo caratterizzano. Ricordiamoci che è un organo di rilievo costituzionale presieduto dal Presidente della Repubblica, che non può e non deve essere terreno di battaglia tra le correnti della magistratura”. C’è ormai uno zoccolo duro di astensionismo, ed ogni volta è più difficile raggiungere il quorum. È un problema solo di questi referendum, oppure in prospettiva si azzoppa l’istituto stesso? “I cittadini sono in parte disaffezionati dalla politica, certo. Ma il vuoto non esiste. Non andare a votare implica solo che qualcun altro, che avrà votato, imporrà la scelta. Tanto vale sui rappresentati, quanto sui referendum. E poi i cittadini sono disinformati. Dei i quesiti si parla poco e non a in modo coinvolgente; nemmeno sulla Rai che dovrebbe svolgere un ruolo di servizio pubblico”. Alcuni costituzionalisti notano una contraddizione tra maggiore facilità nella raccolta delle firme, favorita dalla modalità telematica, e di contro una minore possibilità di superare il quorum, stante la disaffezione dal voto. Immagina qualche intervento legislativo in futuro? “Credo che la possibilità di raccogliere le firme con autenticazione via Spid sia solo arrivata tardi, e che vada benissimo. È impensabile, data la diffusione dell’identità digitale, che per raccogliere le firme su referendum servano gli autenticatori, i tavoli, i documenti di identità. Sono convinta poi che se l’informazione, anche pubblica facesse il proprio dovere, i cittadini andrebbero a votare. Basti pensare che su eutanasia, prima, e su legalizzazione cannabis, dopo, i cittadini hanno dimostrato tanto fisicamente quanto telematicamente che su questioni che li toccano da vicino ci sono. La disaffezione non è sui temi, ma su una politica sempre più distante dalla realtà delle persone. E poi il quorum va rivisto: così chi vuole boicottare i referendum gioca in discesa”. Il senatore Calderoli è in sciopero della fame per protesta contro il black-out informativo. Una protesta che voi avete dovuto percorrere tante volte in passato... “Apprezzo lo sforzo del senatore Calderoli. Ritengo che sia un atto non violento, da me e Marco Pannella usato in moltissime occasioni, efficace. Non so se la situazione sia più o meno peggiorata. Di certo non si è fatto alcun avanzamento per informare e, quindi, consapevolizzare le scelte dei cittadini italiani che restano allo scuro e quindi si distanziano sempre più dalla politica. Il Presidente Einaudi usava l’espressione “conoscere per deliberare”. Non è pensabile che si chieda ai cittadini di partecipare tenendoli disinformati”. Smeriglio (Pd): “Il populismo giudiziario colpa anche della sinistra. I miei Sì di domenica” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 9 giugno 2022 “La punizione e l’extra pena della carcerazione preventiva hanno poco a che fare con lo Stato di diritto. La separazione delle carriere ha a che vedere con l’equilibrio tra accusa e difesa che a volte non è garantita. La Severino distrugge vite a prescindere dall’esito finale del processo”. “Sì” convinti. Di sinistra. Perché il cambiamento passa anche da una giustizia più giusta. E i referendum del 12 giugno possono servire a questo. La parola a Massimiliano Smeriglio, europarlamentare del Partito democratico, già Vice presidente della Regione Lazio. Dallo scorso febbraio, Smeriglio è coordinatore della Commissione per la cultura e l’istruzione del Parlamento europeo. Mancanza di coraggio, subalternità a quel “giustizialismo” che ha marcato il terreno a sinistra. Perché i referendum sulla giustizia non hanno “udienza” a sinistra e nel Pd? Per ragioni storiche, negli ultimi decenni la magistratura ha svolto funzioni decisive e spesso di supplenza almeno in tre tornanti difficili della storia repubblicana: le leggi emergenziali contro la lotta armata di fine anni settanta, la eroica lotta alla mafia e la gestione di tangentopoli. Soprattutto con tangentopoli la fragilità della politica ha determinato un disequilibrio tra i poteri dello Stato. La sinistra ha surfato sulla crisi del 93 sperando di averne un ritorno, andare al governo lisciando il pelo al giustizialismo. Non è andata benissimo. Sarebbe stato opportuno ragionare sulla fine del dopoguerra e sul keynesismo a connotazione clientelare della seconda parte degli anni ottanta che ha caratterizzato La fine prima repubblica. La caduta del muro ha autorizzato il disarcionamento di un sistema di tenuta democratica vetusto e costoso. Ma che di contro aveva garantito un buon compromesso tra capitale e lavoro. Di questo purtroppo non si è mai discusso e la politica ha assistito inerme e con qualche complicità alla propria dissoluzione. Al netto delle responsabilità giudiziarie il discorso politico più coraggioso lo fece Craxi in parlamento. Leader che mi è capitato di combattere nelle piazze ad esempio per la scala mobile. Qui si è inverata una forma di populismo giudiziario che ha segnato profondamente questa fase storica del Paese. La seconda repubblica non è mai nata e la polarità Berlusconismo e antiberlusconismo ha fatto il resto. Per responsabilità della destra ma anche nostra. E per incapacità della politica di auto rigenerarsi. E dopo il fallimento del “sogno” berlusconiano, arricchitevi se potete, è arrivato l’incubo populista giustizialista. Che alludeva di nuovo a processi sommari di piazza e alla politica come capro espiatorio. I cittadini contro il sistema. I risultati sono davanti ai nostri occhi, un Paese bloccato impedito nell’alternativa di governo e che ora rischia di non vedere neanche l’alternanza formale delle forze in campo. Con il dominio della tecnica e l’unità nazionale. La politica a pigliare legnate, a volte meritate, la magistratura impegnata a darle e le élite economiche e tecnocratiche fuori dei radar dell’una e dell’altra. In fondo una politica debole con poca credibilità, ricattabile, fa comodo a tanti. Partiti personali, consenso volatile, salvatori della patria che si gonfiano e sgonfiano come palloncini, scarsa visione e idealità. E spesso reati contro la pubblica amministrazione. La politica è in difficoltà in tutta Europa ma come in Italia da nessuna altra parte. Per ridarle forza serve autonomia e servono partiti veri, capaci di stabilizzare il sistema della rappresentanza. Serve anche una riflessione su come si forma una classe dirigente impegnata a salvaguardare la cosa pubblica. Ma molti opinion leader, le élite vere, non sembrano interessati a questo obiettivo. Il primo passo verso il rilancio del sistema politico passa per il ripristino della giusta simmetria tra i diversi poteri dello Stato. Quali sono le ragioni più pregnanti che l’hanno portata a dire “sì” ai quesiti referendari? Credo nello Stato di diritto, chi sbaglia paga il suo pegno e lo Stato ha il dovere di tentare la riabilitazione della persona. La punizione e l’extra pena della carcerazione preventiva hanno poco a che fare con lo Stato di diritto. La separazione delle carriere ha a che vedere invece con l’equilibrio tra accusa e difesa che a volte non è garantita. La Severino distrugge vite e carriere a prescindere dall’esito finale del processo che nel nostro ordinamento arriva dopo il terzo grado di giudizio. Inoltre nella stragrande maggioranza dei casi in cui la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali, il pubblico ufficiale è stato sospeso, costretto alle dimissioni, o comunque danneggiato, e poi è stato assolto perché risultato innocente. C’è chi sostiene, in modo più o meno tranchant, che la giustizia sia materia troppo seria e complessa per essere sottratta a coloro che la esercitano e l’amministrano... È vero, vale anche per tante altre materie. Il luogo preposto per fare scelte ponderate però rimane il parlamento non altri luoghi. E il referendum non nega affatto questa prerogativa, semmai spinge il legislatore a prendere atto di situazione di palese mal funzionamento della giustizia. Da sempre uno dei temi più caldi e divisivi riguardala riforma del Csm e, soprattutto, la separazione delle funzioni dei magistrati. L’Anm accusa i sostenitori del sì di “attentare” all’autonomia e all’indipendenza del potere giudiziario. Come ci si sente nei panni dell’attentatore? Sulla riforma del Csm mantengo delle perplessità ma da noi funziona così, tutti siamo sottoposti alla legge, magistrati compresi. Non c’è alcun attentato se si percorrono le strade che i padri costituenti ci hanno affidato, il parlamento e anche i referendum abrogativi. Si dice: per avere un’idea sulla civiltà di un Paese, uno dei luoghi da visitare è il carcere. L’Italia come è messa? Al di là della buona volontà degli operatori carcerari, di alcuni straordinari direttori, anzi spesso direttrici, dei volontari il carcere somiglia ad una discarica, dove spesso finiscono poveri cristi con capacità difensive limitate, dove la recidiva galoppa, dove si muore e dove si fanno rivolte per la dipendenza da uno psicofarmaco sedante come nell’ultimo episodio del carcere di Cremona. Il carcere fa male e non riabilita quasi nessuno. È spesso un luogo extraterritoriale dove vigono altre regole. L’impressione è che interessi davvero a pochi. Ci siamo abituati a essere feroci con chi sbaglia e con chi finisce in galera. In particolare sono circa mille le persone che ogni anno vengono incarcerate e che poi risulteranno innocenti. Dal 1992 al 2020 si sono registrati 29.452 casi. Il carcere ha un impatto drammatico sulle famiglie e rappresenta anche un onere economico per il Paese: i 750 casi di ingiusta detenzione nel 2020 sono costati quasi 37 milioni di euro di indennizzi, dal 1992 a oggi lo Stato ha speso quasi 795 milioni di euro. Non è questa la civiltà giuridica a cui dovremmo ispirarci. E la sinistra dovrebbe riscoprire la dimensione fondamentale del proprio stare al mondo, quella libertaria. I referendum al tempo della guerra. La guerra in Ucraina. Siamo alla sua “cronicizzazione”? Temo di sì, con conseguenze non del tutto prevedibili. Putin è il massimo responsabile di questa tragedia che coinvolge la popolazione Ucraina e che avrà risvolti economici pesanti anche da noi. Non sono certo che noi si stia facendo il massimo sforzo per ridare spazio al negoziato. Intanto l’Alleanza atlantica si allarga. Una super Nato, a trazione angloamericana, in una piccola Europa? Può essere il peggiore degli scenari. La Nato è una alleanza militare difensiva, per noi irrinunciabile. L’Europa è casa nostra e il modello di democrazia e civiltà su cui abbiamo deciso di investire tutto. Nato e Ue non sono sinonimi e l’Ue non può essere subordinata ad un comando militare improprio. Uno degli obiettivi dei diversi attori in campo è quello di indebolire l’Europa, dobbiamo impedirlo investendo in autonomia e indipendenza economica, energetica e militare. Sono contrario all’aumento del 2% del Pil in spese militari. Mentre penso sia giusto accelerare verso la difesa comune europea, saremo più forti razionalizzando la spesa e la catena di comando. Sanzioni alla Russia, armi all’Ucraina. E i pacifisti trattati come utili idioti al servizio di Putin... Condivido le sanzioni alla Russia anche se vanno messi in conto rinculi evidenti sulle nostre economie. Ho dubbi sull’invio di armi che ci avvicinano troppo al profilo dei cobelligeranti sguarnendo il fronte diplomatico. Chi meglio dell’Ue può svolgere la funzione di dialogo per avvicinare il cessate il fuoco (parole del Santo Padre che la politica non ha raccolto) dentro una idea multipolare del mondo, attenta alle diversità e non solo alla supremazia occidentale? I pacifisti stanno facendo un lavoro straordinario a sostegno delle popolazioni colpite dal fuoco russo. Di questa potenza pacifica disarmata che opera ogni giorno in maniera cooperativa si parla pochissimo. Piuttosto si preferiscono le banalizzazioni, si preferisce far parlare strani giornalisti russi tradotti da interpreti russi così da enfatizzare l’effetto via col vento, ricordate l’accento farsesco degli afrodiscendenti? Stessa cosa. Così da mandare in scena una commedia in cui tutte le parti sono già scritte. Di chi va in Ucraina portando cibo e torna mettendo in salvo persone interessa a pochi. Purtroppo penso che il sistema dell’informazione, delle grandi firme a difesa dello status quo, sia parte integrante della crisi delle élite del nostro Paese. Molto atlantiche e poco attente ai veri interessi nazionali ed europei. Referendum sulla giustizia, cosa tace e nasconde chi chiede il “Sì” di Armando Spataro La Repubblica, 9 giugno 2022 Al di là dell’incomprensibilità dei testi dei cinque quesiti, sui quali si vota domenica 12 giugno, serve il disvelamento di ciò che non viene detto o è contraddittorio. Ho già denunciato la spinta populista e le suggestioni alla base dei cinque quesiti referendari, di cui pericolosi sono i primi tre, inutili gli ultimi due. Al di là dell’incomprensibilità dei testi, serve il disvelamento di ciò che è taciuto, nascosto o contraddittorio. Primo quesito: si vuol abolire il decreto legislativo “Severino” che presenta una parte condivisibile e una discutibile. Non pare ingiusta, cioè, la previsione di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo e amministratori regionali e sindaci nel caso di condanne definitive per reati gravi. Punto critico, invece, è la sospensione per reati non gravi o abusi di potere oggetto di condanne non definitive. Orbene, i proponenti il referendum parlano solo di questo secondo aspetto, in nome della necessità di garantire la presunzione di innocenza (giusto!), tacendo sul fatto che, se passasse il “sì”, pregiudicati, anche recidivi, rimarrebbero in carica, in violazione dell’interesse dei cittadini alla correttezza dell’agire pubblico. Nessuno dice: “È questo che volete? Sì o No?”. Si parla solo dei sindaci assolti, con silenzio anche sui due ddl presentati dal Pd per modificare la norma. Perché il silenzio? Eppure basterebbe che non si candidassero condannati e, in base a codici etici, ne fosse esigibile l’autosospensione. Con il secondo quesito si intende cancellare una delle tre ragioni di possibile applicazione delle misure cautelari (non solo la custodia in carcere, ma anche arresti domiciliari e misure interdittive varie), cioè il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per cui si procede (gli altri due sono rischio di fuga e di inquinamento delle prove). Si vuole eliminare, cioè, il più diffuso motivo di misure cautelari. Si tratta di una strada che smantellerebbe ogni forma di contrasto di attività criminali in corso e seriali. Sarebbero favoriti non solo gli autori di reati persecutori, esponendo le vittime al pericolo, ma anche di bancarotte, reati dei “colletti bianchi”, come corruzione, peculato, manipolazione dei mercati e finanziamento illeciti dei partiti e altri. Si immagini il caso di un ladro arrestato in flagranza mentre compie un furto in una casa privata: oggi il giudice deve convalidare l’arresto ed eventualmente emettere un provvedimento cautelare, il che non sarebbe più possibile, neppure se il ladro fosse recidivo. Pur dopo una condanna con rito direttissimo, il giudice dovrebbe scarcerarlo per mancanza di rischio di fuga e di inquinamento probatorio derivanti dall’arresto in flagranza. È questo che volete? Sì o no? Ma la contraddizione più insanabile è quella secondo cui il “sì” al secondo quesito si imporrebbe anche alla luce delle scarcerazioni e assoluzioni di arrestati disposte dai giudici che disattendono le ansie giustizialiste dei pm, mentre il “sì” al terzo quesito sulla separazione delle carriere sarebbe necessario perché troppe condanne sono conseguenza della contiguità dei giudici con le tesi dei pm. Allora i giudici si appiattiscono sulle tesi dei pm o le smentiscono? E perché mai, sempre sul terzo quesito, si fanno affermazioni non vere sul fatto che la separazione delle carriere costituirebbe l’assetto ordinamentale degli ordinamenti degli altri Stati europei tacendo sulla diffusa dipendenza del pm dall’esecutivo ove la carriera del pm è separata da quella del giudice? Chiedo ai sostenitori del “sì”, lo sapete che con una raccomandazione del 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si auspicano “passerelle tra funzioni di giudice e pm” per meglio garantire i cittadini? “Sì o no”? L’Europa viaggia verso quel modello che, invece, in Italia viene messo in discussione, un modello che obbliga il pm a indagare anche a favore dell’imputato, in quanto tenuto alla ricerca della verità secondo canoni della valutazione delle prove simili a quelli usati dal giudice (ecco cos’è la cultura giurisdizionale). E la separazione delle carriere che si vuole introdurre non c’entra nulla con il principio costituzionale del giusto processo che si fonda sulla parità processuale delle parti, prevede indagini difensive e consente all’avvocato di sostenere la tesi dell’innocenza del suo assistito pur quando ne conosce la colpevolezza. Per finire sul terzo quesito, poi, si strumentalizzano le parole di Giovanni Falcone sostenendo che fosse favorevole alla separazione delle carriere. Questo non è vero, come sanno coloro che gli erano vicini e come ha precisato il cognato Alfredo Morvillo. Con il quarto quesito si vuole introdurre la possibilità - ora negata - che gli avvocati, quali membri “laici” dei Consigli giudiziari e del Consiglio Direttivo della Cassazione, esprimano parere e voto in ordine alle valutazioni di professionalità dei magistrati, su cui comunque poi decide il Csm. La proposta è inutile perché preferibile è la soluzione prevista nel ddl di riforma Cartabia, già approvato dalla Camera e che condivido, secondo cui il voto degli avvocati dovrebbe essere unanime e conforme alla valutazione del Consiglio dell’Ordine forense competente: si eliminerebbe anche il rischio di pareri condizionati da episodi di dialettica processuale, argomento ingiustificatamente sostenuto da certi magistrati. La contraddizione vale anche per il quinto e ultimo quesito, inutile e bizzarro: si vuole scardinare il correntismo, con cui si indicano inaccettabili deviazioni e criticità dell’azione delle correnti dell’Anm (nel cui valore culturale credo), eliminando la necessità di presentare almeno 25 firme di sostegno per candidarsi alle elezioni del Csm. In tal modo, si dice, non sarebbero le correnti a decidere chi si candida. Ipotesi inutile rispetto agli scopi dichiarati poiché è evidente che il temuto ruolo delle correnti non sarebbe eliminabile nella fase del voto. Meglio la proposta Cartabia, con un diverso sistema e l’eliminazione delle firme di presentazione dei candidati. Ai cittadini, qualunque sia il loro orientamento, chiedo e auguro una scelta consapevole. Nulla di ciò che viene proposto serve al buon funzionamento della giustizia. Il sabotaggio dei requisiti referendari in tema di Giustizia di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 9 giugno 2022 Possono esistere vari gradi e livelli del dolore fisico, così come possono esistere vari gradi e livelli di sofferenza degli ordinamenti statuali e nelle istituzioni che indichiamo come democratiche o strumentali all’esercizio della democrazia. In Italia, ed è comprensibile anche all’uomo della strada, benché il sistema reale dei poteri che si è andato formando nel tempo lo induca a spingerlo verso l’indifferenza (il forte progressivo astensionismo nell’esercizio del voto ne è una quasi consolidata e preoccupante, nonché evidente, manifestazione), c’è un grande e terribile problema sociale, che coincide con quello di una Giustizia negata, la quale ha perso, proprio nei riguardi di quanti più di altri dovrebbero rappresentarla, la sua immagine reputazionale, al punto da considerarla asservita a interessi corporativi e carrieristici. Quindi, non più obiettiva regolatrice dei rapporti tra gli stessi cittadini e tra loro e le istituzioni, perciò scemandone la sua natura di funzione pubblica democratica. Non solo, ma oramai sempre più spesso ci si chiede se essa non si sia di fatto trasformata in una nuova forma di potere, la quale diventa difficile considerare appartenente alla res publica, perché convintamente “irresponsabile” verso i cittadini e, probabilmente, così unica nello scenario europeo, ove solo fosse comparata con la generalità dei sistemi di giustizia “occidentali”. L’inganno, infatti, perpetrato di fare artatamente coincidere gli indispensabili valori di indipendenza e terzietà del giudice, rectius magistrato, con quelli dell’assoluta indiscutibilità postuma dei suoi provvedimenti e delle decisioni, pur quando esse risulteranno, a seguito di giudicato, palesemente, abnormi, ingiuste, sproporzionate, irragionevoli, mortifere con le considerazioni dalle quali trassero avvio. E che per tali ragioni hanno determinato gratuite sofferenze e danni enormi, sia verso la stessa società nel suo complesso di interessi sociali, economici, politici, religiosi che nei confronti degli indagati, uscitine, spesso dopo lunghi calvari, assolti, ma ormai già segnati non solo nello spirito ma anche nel corpo - e il richiamo all’odissea di Enzo Tortora continua a essere un monito costante - ne sono la prova manifesta. Quello che però sconcerta ulteriormente è che un tanto sembri trovare tutela sottile anche da parte di quanti, di diritto e professione, siano dei comunicatori sociali, tra l’altro ingaggiati per il servizio pubblico, ancorché si tratti della cosiddetta televisione di svago e intrattenimento. Pur quando, con una disinvoltura di avanspettacolo, ci si inerpichi su tematiche complesse ed essenziali per una comunità. Quanto è accaduto, banalizzandone i contenuti, nel corso di una recente trasmissione serale della tv di Stato, a opera di una seguita comica-non comica, conduttrice certamente (da Conducator, o meglio da “ducere”) quindi capace di orientare quelle che una volta potevano essere indicate come le “masse”, francamente non desta scandalo. Ma rappresenta l’ennesima prova di un sistema Italietta che predilige la veicolazione dell’ignoranza, elevata come linguaggio condiviso, alla pretesa e al diritto alla conoscenza al quale ogni cittadino avrebbe legittima pretesa. Ridicolizzare, sostanzialmente, i referendum sulla giustizia, a causa di una loro asserita complessità, che imporrebbe significative conoscenze in ambito giuridico, costituisce una vera e propria mistificazione, perché non ci sarebbe voluta chissà quale straordinaria competenza per poter semplicemente sintetizzare, ove per davvero si fosse voluta offrire una comunicazione corretta e rispettosa verso i cittadini-contribuenti, che i quesiti sostanzialmente chiedono al cittadino se preferisca il sistema giustizia così com’è, oppure si intenda promuoverne un radicale cambiamento. Incidendo su alcuni degli istituti giuridici che ne rappresentano, al momento, il nocciolo duro, granitico e finanche tombale, per quanti considerino gli stessi come strumentali a un modo di fare giustizia, il quale parrebbe non corrispondere più ai principi costituzionali e del buon senso comune. Insomma, i quesiti chiedono se si preferisca la conservazione dell’attuale sistema giurisdizionale, oppure si preferisca modificarlo concretamente, attraverso appropriati interventi del legislatore, oggi timido o compromesso. Posto in tal senso, ogni cittadino, sulla scorta della propria sensibilità e delle esperienze vissute, direttamente o apprese da altri, potrà essere certamente in grado di esprimersi in modo consapevole, senza bisogno che debba necessariamente essere un uomo o una donna del diritto. In verità, il partito trasversale del non cambiamento e del perpetrarsi di un sistema giurisdizionale che ha conseguito l’obiettivo di scontentare, allo stesso momento, le vittime e gli autori delle vittime, le forze dell’ordine e il mondo dell’avvocatura, gli imprenditori e le maestranze, i credenti e gli agnostici, e la generalità delle persone tutte, è stato capace di anestetizzare il legittimo desiderio della maggioranza degli italiani di non subire la giustizia ma di confidare nella stessa. Non comprenderlo corrisponde all’infilare forzatamente la testa dei cittadini nella sabbia. E tale circostanza è gravissima, perché si deruba il popolo italiano dall’ispirazione a essere nei fatti più europeo. E perciò più tutelato da ogni forma di arbitrio e di abuso di cui il mondo dell’informazione ci offre costanti raffigurazioni, al punto che ne sono stati allarmati gli investitori nazionali ed esteri, nonché le stesse istituzioni europee, così come quelle internazionali. Ma talvolta può, però, anche accadere, ed è quello che in tanti speriamo, che i più illiberali propositi da parte di coloro che si sentano legibus solutus si infrangano con una volontà popolare, che si spera non vorrà incaprettarsi da sola, finalmente esigendo essa quell’attenzione e quel rispetto dovuto. Perché va ricordato, a quanti se ne siano dimenticati, che le sentenze sono pronunciate in nome del popolo sovrano, per l’appunto, e non a uso di masse beote oppure che si vogliono disinformare, attraverso gli strumenti di distrazione di massa finora impiegati. Personalmente, voterò per i cinque Sì, pure ove per taluno avrei bisogno di una maggiore informata riflessione, con l’auspicio che il Parlamento poi sappia tradurre il disagio dei cittadini e delle aziende attraverso un nuovo corpo di norme che sia davvero coerente con l’esito delle consultazioni referendarie, evitando che, come per il passato, se ne tradiscano i contenuti: La responsabilità civile dei magistrati, così come ne è stata disposta la concreta applicazione, ingannando lo spirito di un referendum che avrebbe imposto tutt’altro, ne mostra la peggiore rappresentazione che il popolo italiano ha dovuto subire. *Penitenziarista, former dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria italiana, componente del Consiglio generale del Partito Radicale Non Violento Transnazionale Transpartito, presidente dell’Osservatorio internazionale sulla Giustizia di Trieste, presidente Onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma, vicepresidente dell’Osservatorio regionale Antimafia del Friuli-Venezia Giulia Fiammetta Borsellino: “Le cosche non sparano più ma fanno alleanze con politica ed economia” di Claudia Brunetto La Repubblica, 9 giugno 2022 Intervista alla figlia del magistrato assassinato dalla mafia: “Il sistema dei partiti non ha gli anticorpi. Palermo è a un bivio. Inaccettabile il ruolo di Cuffaro e Dell’Utri”. “Le organizzazioni criminali continuano a trovare alleanze nei settori strategici dell’economia e della politica: per questo non bisogna mai abbassare la guardia”. Ne è convinta Fiammetta Borsellino, terzogenita di Paolo, il magistrato ucciso trent’anni fa nella strage di via D’Amelio: ieri, insieme con un nome storico della sinistra, l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, ha portato la sua testimonianza in chiusura della campagna elettorale della lista “Sinistra civica ecologista” che a Palermo sostiene il candidato sindaco del centrosinistra Franco Miceli. Una giornata segnata dall’arresto del candidato forzista al Consiglio comunale Pietro Polizzi per scambio elettorale politico-mafioso. Che sapore ha questa notizia a pochi giorni dal voto a Palermo? “Solo perché la mafia non spara più non significa che non esista: le organizzazioni criminali sono bravissime a adeguarsi ai nuovi contesti socio-economici e vivono di alleanze fuori dall’organizzazione. La mafia non è forte in quanto tale, ma perché trova alleanze all’esterno. L’arresto del candidato di Forza Italia dimostra tutto questo. Non bisogna mai smettere di parlare di mafia e di questione morale”. Il sistema politico non ha ancora anticorpi per difendersi? “No. Ecco perché tutti noi dobbiamo avere un compito di vigilanza, indipendentemente dagli schieramenti politici. Si tratta di forze che lavorano sottobanco e possono riemergere. Siamo molto distanti dall’averle eliminate. Tutti siamo responsabili, in un momento in cui la città, in vista delle elezioni, può crescere e svilupparsi o fare al contrario un enorme passo indietro”. Vede un passo indietro nel sostegno di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri al candidato sindaco del centrodestra Roberto Lagalla? “Non è moralmente e politicamente accettabile che persone condannate per mafia influenzino l’andamento elettorale o appoggino candidati con le loro liste. Bisogna dire chiaramente da che parte si sta”. Palermo, dunque, è a un bivio? “A un bivio importante. Tutti siamo coinvolti, anche se non assumiamo direttamente degli incarichi. Oggi un’amministrazione può governare bene solo se ha la collaborazione di tutta la cittadinanza”. Il suo impegno antimafia a chi si rivolge? “Ai ragazzi: sono tornata a occupare i banchi di scuola. Questa è la mia pratica dell’antimafia quotidiana. Ogni giorno parlo con i ragazzi e li convinco che scegliere il male è sbagliato e non porta vantaggi, se non apparenti. Lo faccio attraverso esempi positivi da seguire: sicuramente mio padre ma anche tanti altri. Trasmettere valori positivi è il miglior modo per togliere consenso alle mafie. Mio padre, del resto, ha fatto della lotta alla mafia una questione di vita”. Palermo è irredimibile? “Come è stata capitale della mafia, è stata anche capace di dare vita al più grande movimento antimafia mai esistito al mondo. Dobbiamo prenderne atto. Credo nelle persone, credo nei giovani. C’è tanta gente che vuole che le cose cambino e sono le persone che lavorano più in silenzio. Come i docenti delle scuole, per esempio. Nutro un’enorme speranza che Palermo possa riscattarsi”. “I miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 9 giugno 2022 Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di diffondere documenti riservati della Commissione Moro II: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro? Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commissione Moro II allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e il complottismo sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. “La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!”. Perché questo accanimento? Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato. Cosa sosteneva il “teorema”? Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro II, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso. Quale sarebbe stata la finalità? Siamo nel cuore del teorema: mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata argomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del mio libro, trovandole sospette. In che senso “recensioni”? Secondo funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo. A quali fatti si riferiscono? Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà. È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni? Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi littizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo. E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato... Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sul terrorismo, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”. C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore... Certo, questo ahimè è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro. Non è diffamazione comunicare all’Ordine le ragioni della revoca del mandato al difensore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2022 È legittimo esercizio del diritto di critica segnalare che l’avvocato non ha operato secondo le indicazioni ricevute dal cliente. Non commette il reato di diffamazione il cliente che dopo aver revocato il mandato al proprio difensore comunica alle altre parti del giudizio e al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati le ragioni che lo hanno indotto a tale scelta condividendo la missiva con cui aveva motivato la fine del rapporto di fiducia col professionista. In concreto il ricorrente, ora assolto dalla Cassazione, aveva lamentato il fatto che il legale non si fosse attenuto al mandato non dando seguito alle richieste di far emergere alcuni fatti nella causa di affidamento dei figli e per aver nominato come perito di parte un professionista in conflitto di interessi rispetto alla vicenda sub judice. Con la sentenza n. 22119/2022 la Cassazione smentisce in toto la condanna per diffamazione comminata dal giudice di pace che aveva ravvisato il reato nella comunicazione a terze persone e all’ordine professionale di appartenenza di giudizi lesivi della correttezza e competenza dell’ex avvocato di fiducia. Veniva di fatto escluso, dal giudice di merito, che la condotta fosse scriminata come espressione del legittimo diritto di critica, in particolare di fronte all’organo competente ad azionare eventualmente un giudizio disciplinare. Il fatto - Il ricorrente aveva inviato una e-mail in cui dava conto dell’avvenuta revoca del mandato fondata sulla rottura del rapporto di fiducia assistito-avvocato, per non essersi attenuto quest’ultimo alle indicazioni e alle scelte processuali indicate dal proprio cliente. La missiva era stata inviata non solo al destinatario diretto, ma anche a un suo collaboratore di studio, all’avvocato di controparte e all’Ordine degli Avvocati condividendola infine in udienza davanti al giudice civile che gestiva la causa sull’affidamento dei suoi figli minorenni. L’assenza di offesa - Ma la Corte assolve il ricorrente non solo perché in assenza di offese gratuite le segnalazioni agli ordini professionali sono legittima interlocuzione tra gli esponenti di una professione e i relativi clienti, i quali attraverso segnalazioni ed esposti possono lecitamente contribuire a garantire un legittimo controllo sulla correttezza delle attività professionali prestate e la tutela dell’onorabilità della categoria. Quindi a fronte di lamentele rispettose del canone della continenza e la sussistenza della buona fede con cui le si comunica all’Ordine cui appartiene il professionista si può sicuramente affermare che si tratti di legittimo esercizio del diritto di critica. La circostanza poi di averle comunicate al collaboratore del professionista stesso o all’avvocato di controparte o anche al giudice procedente della separazione non integra quella comunicazione con terze persone prevista dal reato come ingiustamente lesiva della sua reputazione. Si tratta dice la Cassazione di un’ulteriore sintomo della buona fede del ricorrente e dell’assenza di gratuità delle critiche espresse (in sé non offensive). Anzi, nell’ambito del dialogo processuale tale comunicazione si è legittimamente limitata a soggetti cui aveva senso spiegare le motivazioni della fine del rapporto fiduciario con il legale revocato dal mandato difensivo. Milano. Perché il detenuto con disturbi psichici che si è suicidato non doveva essere in carcere di Ilaria Quattrone fanpage.it, 9 giugno 2022 Giacomo Trimarco è morto suicida nel carcere di San Vittore a 21 anni: il ragazzo, arrestato per il furto di un cellulare, doveva essere trasferito in una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituiti gli ospedali psichiatrici giudiziari. Giacomo Trimarco, 21 anni, soffriva di un disturbo bordeline di personalità a basso funzionamento. Una condizione psichica ritenuta incompatibile con il carcere. Giacomo è morto però in un istituto penitenziario: il 21enne si è tolto infatti la vita a San Vittore, a Milano. Il ragazzo è morto nella serata di ieri, martedì 7 giugno: si è suicidato nella sua cella con del gas. Alcuni giorni prima si era tolto la vita un altro ragazzo, il 24enne Abou El Maati che viveva nella cella vicina. Giacomo era stato arrestato per il furto di un telefonino - Il 21enne non doveva essere a San Vittore: Giacomo, dopo una serie di piccoli reati e gesti di autolesionismo, era stato arrestato lo scorso agosto per il furto di un telefonino. Finito a San Vittore, a ottobre aveva ottenuto la disposizione di essere trasferito in una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che nel 2014 hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Nonostante il via libera, il 21enne era ancora a San Vittore: “Queste strutture hanno pochi posti disponibili, sono solo venti: c’è un meccanismo di liste d’attesa perché, a differenza del carcere, non si può entrare in sovra numero - spiega a Fanpage.it la ricercatrice dell’Osservatorio Antigone, Daniela Ronco - Si può accedere solo quando si libera un posto”. Pochi posti disponibili nelle Rems - Per l’Osservatorio Antigone, il problema maggiore è dato dal fatto che questi soggetti dovrebbero essere seguiti soprattutto esternamente. Una condizione che potrebbe essere resa possibile solo dal potenziamento del sostegno psichiatrico sul territorio: “Questo sicuramente può significare aumento dei posti in Rems, ma a nostro avviso dovrebbe soprattutto significare un incremento delle prese in carico all’esterno. Un potenziamento - continua la dottoressa - che non deve portare al trasferimento del paziente in un’altra struttura chiusa, ma a un rafforzamento di misure alternative che possono essere realizzate attraverso una presa in carica sul territorio da parte di uno psichiatra”. Il carcere ha difficoltà a gestire i problemi psichici - Come in tutti gli altri casi, anche per quello di Giacomo, paziente con doppia diagnosi (psichica e da dipendenza da sostanze) è stato il giudice a richiedere il trasferimento in una Rems: “Molto spesso accade che un soggetto viene inviato in queste strutture perché considerate delle comunità che danno maggiori garanzie in termini di contenimento: si fa riferimento a soggetti che, nella percezione comune, vengono considerati - spiega l’esperta - come un rischio per la società. Il carcere generalmente è una istituzione che è in difficoltà nello gestire il problema psichiatrico”. Difficoltà ancora più evidenti per strutture come quella di San Vittore - dove l’ultimo suicidio risale al 2019 e dove sono tre le persone in attesa di essere trasferiti in una Rems - che, in quanto carceri metropolitani, raccolgono un elevato numero di soggetti con problemi psichiatrici: “Disturbi che spesso non sono certificati. Anzi quelli attestati come tali sono veramente la minoranza. Questo è uno dei più grandi problemi della detenzione: in questo modo - precisa Ronco - il carcere diventa un contenitore di emarginazione sociale legata al disagio psichico, al disagio delle dipendenze o ancora legato all’estrema povertà”. La detenzione acuisce il problema psichiatrico - Un insieme quindi di problematiche che fa si che il disagio psichico diventi uno degli aspetti più difficile da gestire all’interno di un istituto penitenziario: “La detenzione è un’esperienza di sofferenza per chiunque e all’interno di un carcere - spiega ancora l’osservatrice - si acuisce un problema psichiatrico”. Impossibile inoltre svolgere un lavoro di prevenzione: “Si tratta purtroppo di attimi. Non c’è una carenza di agenti, ma di sostegno psichiatrico e psicologico. Il tema dei suicidi è stato affrontato sotto vari punti di vista: per esempio in termini di controllo. È però impensabile credere che - spiega ancora l’esperta - vi sia la possibilità di sorvegliare a vita tutte le persone. Ci si interroga su come un controllo eccessivo possa contribuire a un peggioramento delle condizioni psichiatriche di un soggetto sottoposto a detenzione. È possibile fare una valutazione del rischio suicidario, ma questa non può dire matematicamente chi commetterà o meno un gesto estremo”. Molti dei soggetti che devono entrare in una Rems arrivano dall’esterno - Bisogna anche considerare che molti dei soggetti che attendono di entrare in una Rems arrivano dall’esterno: “Persone che aspettando di accedervi, ma che non rappresentano un pericolo per la società. In questi casi infatti, i dati sui reati commessi sono pressoché inesistenti. Attenuare un po’ l’idea della pericolosità rappresentate da questi soggetti potrebbe essere un’alternativa rispetto alle costruzioni di nuovi Rems”. Una possibilità che potrebbe essere consentita - come ribadisce più volto la dottoressa Ronco - dal potenziamento dei servizi territoriali: “In questo modo si potrebbe rassicurare la magistratura che, nel momento in cui deve disporre un ricovero in Rems, sa che alle spalle vi è un progetto forte”. Napoli. In dodici in una cella, questo carcere non è umano: “Da qui si esce più criminali di prima” di Viviana Lanza Il Riformista, 9 giugno 2022 La cella 55bis è nel carcere di Poggioreale. Si trova nel reparto dei cosiddetti sex offender, cioè dei detenuti che si trovano in carcere per reati a sfondo sessuale. La descrivono come una cella da cui il cielo è ridotto a uno spazio di pochi centimetri quadrati. Lo si vede a stento, il cielo. In alcuni giorni si fa quasi fatica a capire se sia giorno o sera. La luce, dentro la cella 55bis, non riempie mai lo spazio tra le quattro mura. C’è una sola finestra. Una sola. Mentre all’interno della cella 55bis si arriva a stare anche in dodici. Sì, dodici persone. Di notte dormono in letti sistemati uno sull’altro. Di giorno provano a resistere e convivere fra equilibri delicatissimi. Non ci vuole molto a comprendere che trovarsi in dodici in uno stanzone rende la vivibilità sempre ai limiti. Con questo caldo, poi, può diventare un inferno. Ma a chi interessa? Intorno a queste storie calano silenzio e indifferenza. Un muro che il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, con il garante della città metropolitana di Napoli, Pietro Ioia, cercano di rompere. Ieri a Napoli i garanti hanno partecipato al corteo e alla manifestazione che i parenti dei detenuti hanno organizzato nella cittadella giudiziaria del Centro direzionale, tra la sede del Tribunale di Napoli e il carcere di Poggioreale. Parliamo delle due realtà giudiziarie più grandi d’Italia: il Tribunale con la Procura sono gli uffici giudiziari con i numeri di processi e inchieste più alti a livello nazionale, il carcere è la struttura penitenziaria più grande che c’è e arriva a contare oltre duemiladuecento detenuti. Ha la popolazione di un paese di provincia. È come una piccola città chiusa tra quattro mura. “Chiediamo carceri più umane in grado di produrre cittadini votati alla legalità e non alla criminalità”, ripetono i parenti dei detenuti. Al corteo partecipano anche persone provenienti da altre regioni d’Italia. Marciano attorno alle mura grigie del carcere di Poggioreale, fino a uno dei varchi del Tribunale di Napoli, quello che si apre su piazza Cenni. “Queste famiglie - dice il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello - non vogliono altro che attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema delle carceri. Domenica c’è un referendum importante sulla giustizia. Il tema del carcere è un tema centrale”. Eh già, il 12 giugno gli italiani sono chiamati a esprimere il proprio voto ai cinque quesiti referendari che affrontano nodi delicati del sistema giustizia. In questi mesi, in queste settimane, soltanto poche voci hanno informato i cittadini sul contenuto dei quesiti referendari e sull’importanza del voto, per il resto sull’argomento è calato un silenzio vergognoso, un silenzio voluto da una buona parte della politica e dalla magistratura contraria alle proposte di riforma contenute nei quesiti del referendum. Uno dei cinque quesiti tocca il tema del carcere, perché riguarda i limiti agli abusi della custodia cautelare. Le statistiche degli ultimi anni dicono che ogni anno nel solo distretto di Napoli si contano circa cento casi di ingiusta detenzione. “Molte persone entrano in cella da innocenti - aggiunge Ciambriello -, parecchie da persone sane per poi uscire ammalate. Uno dei temi che solleviamo oggi è quello della sanità. Tante aggressioni ai danni degli agenti vedono protagoniste persone con problemi psichici. A Poggioreale c’è un Sert per i tossicodipendenti ma le condizioni sono disumane: anche 8-10 persone in una stanza. Nella sezione dei cosiddetti sex offender c’è una stanza, la 55bis, che ospita 12 detenuti e ha solo una finestra”. Per Pietro Ioia le carceri, sono diventate “scuole di criminalità”. “Da questi posti - dice parlando delle carceri - ormai si esce più criminali di prima”. Bisognerebbe invertire questa tendenza, puntando sulla rieducazione, sulle misure alternative, su percorsi di legalità. Fossano (Cn). Il carcere che sforna pane: un nuovo laboratorio interno al “Santa Caterina” di Barbara Morra La Stampa, 9 giugno 2022 A settembre dello scorso anno, in piena raccolta degli ortaggi, era stato inaugurato il laboratorio di trasformazione alimentare. Ora tocca a quello del pane. È il progetto di formazione e lavoro che il carcere “Santa Caterina” di Fossano sta portando avanti in collaborazione con la Regione, cooperative, associazioni, società del territorio e il sostegno della Fondazione Crf. La direttrice della casa di reclusione, Assuntina Di Rienzo ha diffuso nei giorni scorsi gli inviti per l’inaugurazione che si terrà sabato 18 giugno, alle 10,30. “Il pane viene preparato e cotto nel locale che affianca il laboratorio di trasformazione degli ortaggi - spiega Michela Manzone, una delle educatrici che seguono l’iniziativa. Il progetto riguarda, al momento, un detenuto in tirocinio formativo pagato dalla Regione. A lavoro avviato si punta a impiegare due persone oltre al dipendente della società che fa da traino”. Il laboratorio è stato chiamato “APpena sfornato” ed è promosso da Mondo pane srl, società partecipata da Mondo Food di Mondovì e selezione Baladin. Il prodotto viene commercializzato attraverso i punti vendita di questa società che ha i locali del carcere in comodato d’uso. “Nel frattempo sono stati avviati altri due laboratori - aggiunge Manzone - che verranno presentati in concomitanza con quello del pane: uno di ceramica con la cooperativa Perla che da luglio occuperà un detenuto in borsa lavoro per tirocinio formativo”. Il laboratorio porta il titolo di “Filidellastessatrama” e produrrà oggetti in ceramica per feste, matrimoni e prime comunioni che verranno messe in commercio da “Tam Tam” di Savigliano, punto vendita della cooperativa Perla. Conclude l’educatrice: “Questo laboratorio si svolge in quello che noi chiamiamo “secondo cortile”, uno spazio aperto diverso rispetto a quello che ospita la parte alimentare. Sarà affiancato dalla terza nuova attività chiamata “Mani Libere” e proposta dalla cooperativa DrinnGreen: si tratta di assemblaggio di materiali plastici da recupero per costruire giocattoli e altri oggetti. Occuperà tre detenuti in borsa lavoro a tempo pieno per tre mesi prorogabili a sei. È previsto anche il riciclo in via sperimentale di materiale recuperato dall’esterno”. Il laboratorio già avviato di trasformazione di frutta e verdura è gestito dalla Cascina Pensolato di Sant’Antonio Baligio che già occupa detenuti in lavori esterni. I prodotti che escono trasformati dal carcere sono i più vari, dalle confetture, alle conserve di pomodoro ma anche quelli più da gourmet come i pomodorini ripieni, le melanzane, ogni tipo di verdura. La distribuzione avviene con il negozio della Cascina (a Fossano in via Sacco ndr) e gruppi privati di acquisto. In concomitanza per le colture di Cascina Pensolato è nata una collaborazione con il presidio Slow Food “La Granda” guidato da Sergio Capaldo. Airola (Bn). Giovani detenuti dal carcere al palcoscenico con “Portami là fuori” di Giuliano Delli Paoli Corriere del Mezzogiorno, 9 giugno 2022 Seconda edizione della rassegna che impegna i giovani detenuti di Airola in scena domani a Capodimonte e sabato nel chiostro del comune sannita. Al via la seconda edizione di “Portami là fuori”, il festival in programma, nell’ambito del Campania Teatro Festival. Una rassegna nata per portare fuori storie, spettacoli e musiche create all’interno dell’istituto penale per minorenni di Airola. Al via la seconda edizione di “Portami là fuori”, il festival in programma, nell’ambito del Campania Teatro Festival, domani e dopodomani a Capodimonte e nel chiostro comunale di Airola. Una rassegna nata per portare fuori storie, spettacoli e musiche create all’interno dell’istituto penale per minorenni di Airola, ideata dalla onlus “Crisi Come Opportunità”. Protagonisti sono i giovani detenuti, che daranno vita a rappresentazioni teatrali, concerti, laboratori inediti e affreschi street art. Si comincia domani alle 19 a Capodimonte, nelle Praterie del Gigante, con il debutto assoluto dell’opera teatrale “Amleto principe di Airola” di Maurizio Braucci. Un riadattamento innovativo del capolavoro shakespeariano messo in scena da una compagnia teatrale composta dai ragazzi detenuti e da studentesse dell’istituto superiore “de’ Liguori” di Sant’Agata de’ Goti, frutto del laboratorio di teatro permanente curato dal rapper Luca Caiazzo, in arte Lucariello, Pino Beato, Lello Genovese, Fabrizio Nardi, con la collaborazione artistica della regista Alessandra Asuni. In “Amleto principe di Airola” i personaggi originali abbandonano figurativamente la lontana Danimarca per addentrarsi in Campania, mentre i rispettivi ruoli mutano a seconda del carattere. “Amleto - spiega Braucci - è un archetipo umano e universale. Nella condizione di detenzione è forte, come in Amleto, il dilemma interiore tra la colpa e la redenzione, tra l’aver commesso qualcosa di esecrabile e la consapevolezza di un destino sociale. I personaggi originali sono stati inoltre trasformati. Rosencrantz e Guildenstern, ad esempio, diventano avvocati. Mentre Orazio è un colpevole, dunque è anche lui detenuto. Amleto, invece, finisce in prigione per scegliere se deve o meno compiere la sua vendetta. Da una parte è spinto dal destino e dall’altra parte dalla possibilità concreta di evitarlo. Shakespeare è quindi utilizzato anche in chiave pedagogica”. E prosegue: “Durante i laboratori abbiamo cercato di lavorare moltissimo sul depotenziamento della figura patriarcale, maschilista, machista che con la sua cultura porta i ragazzi in carcere. In Amleto principe di Airola si ridiscute la figura del maschio che reagisce in maniera violenta”. Non solo teatro. Anche la musica rap è al centro del progetto ideato da “Crisi Come Opportunità”. “Il progetto - racconta la vicepresidente Giulia Minoli nasce dieci anni fa, nel teatro settecentesco situato all’interno del carcere di Airola, che è diventato un presidio culturale permanente. Il nostro sforzo è stato quello di garantire continuità, coinvolgendo anche le scuole, le associazioni, con il festival a fungere da collante tra l’interno e l’esterno. Il rap è per noi fondamentale, perché è il genere con cui i ragazzi esprimono meglio i loro sogni e le loro esperienze. E da Airola siamo passati anche a Catanzaro e a Roma”. Si prosegue all’insegna appunto del rap nella giornata di sabato con un laboratorio pomeridiano a porte chiuse, ma aperto ai ragazzi del carcere, guidato dal rapper partenopeo Oyoshe. Mentre alle 18 nel chiostro comunale spazio alla musica dal vico con “Musica InChiostro” del Lucariello Quartet. Il palco, allestito con le opere prodotte dai detenuti nel laboratorio di street art, ospiterà Lucariello, impegnato in prima persona nei laboratori musicali per giovani detenuti, Ciccio Merolla, Pietro Condorelli, Davide Afzal, i rapper Kento e Oyoshe, e i ragazzi del “Benevento rap lab” della cooperativa “Sale della Terra” e dello stesso Ipm di Airola. Al concerto seguirà una jam session e un dj set. “Vedere un adolescente nel pieno delle sue energie rinchiuso in un carcere - afferma Lucariello - è qualcosa di doloroso e innaturale. La musica, il teatro, la poesia ci permettono di guardarci allo specchio attraverso una nuova prospettiva e il rap diventa quello strumento magico che permette, anche a un rapinatore o a un killer, di raccontare la sua umanità, la sua poesia”. Vigevano. Teatro-carcere: una nuova versione del mito di Teseo di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 9 giugno 2022 Nel buio del labirinto, in cerca del Minotauro, per liberare da un destino infausto dei malcapitati fanciulli. Questo il glorioso compito a cui Teseo, con l’aiuto di Arianna, è stato destinato nel racconto mitologico. Nel carcere di Vigevano, il 30 giugno 2022 alle ore 20.00, è prevista l’anteprima dello spettacolo “Paesaggio con albero, uomini e bestie (regno su tela)”, una produzione ForMattArt | Rumore d’Ali Teatro, realizzato grazie al progetto “Per aspera ad astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, che propone una diversa versione della storia. La drammaturgia messa in scena sarà fondata sulle suggestioni, in particolare quella legata alle ragnatele, intese come trappole, ma anche come un intreccio per la costruzione di nuove opportunità. In tal senso è stato fondamentale il contributo dei detenuti-attori, sia in termini di scrittura dei testi, sia riguardo la costruzione della narrazione, che si evolverà fino a proporre riflessioni sul potere rigenerativo della natura e, nel suo epilogo, ridisegnerà la leggenda del labirinto. Davide Pisapia, direttore del carcere di Vigevano sottolinea: “La nostra struttura ha puntato molto sull’aspetto culturale con ben 2 laboratori teatrali, uno maschile e uno femminile. La rappresentazione artistica investe l’animo delle persone e permette loro di evolvere, rivolgendosi diversamente nei confronti della vita e del futuro. Quindi parliamo di un risultato enorme sia in termini di impegno che di crescita personale. Auspico che si prosegua su questa strada, che è quella del vero cambiamento”. Roma. Disegna le tue idee: l’arte non ha sbarre paeseitaliapress.it, 9 giugno 2022 Arte, rieducazione e co-progettazione con le detenute della casa circondariale di Rebibbia. Sabato 11 giugno, presso la Sala Tirreno della Regione Lazio, si svolgerà la tavola rotonda dal titolo “La funzione rieducativa della pena e il ruolo delle istituzioni e del terzo settore: il caso de L’Arte non ha Sbarre”, per approfondire l’importanza della sinergia delle istituzioni in tema di rieducazione dei detenuti. All’interno della casa circondariale di Rebibbia - sezione femminile, l’Associazione LiberaMente sta dimostrando che l’arte non ha sbarre. Disegna le tue idee: l’arte non ha sbarre è infatti il nome del progetto - vincitore di Vitamina G, promosso dall’Associazione LiberaMente nell’ambito del programma GenerazioniGiovani.it finanziato dalle Politiche Giovanili della Regione Lazio con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Gioventù - che propone un modello di co-progettazione tra istituzioni, magistratura della pena e terzo settore al fine di programmare politiche rieducative dei detenuti che si basino sul vettore dell’espressione culturale. Non solo detenute, ma anche artisti, criminologi e volontari hanno così modo di partecipare a laboratori artistici, che in una seconda fase porteranno alla realizzazione - ad opera di street artist celebri - di murales nell’istituto penale di Rebibbia e nella borgata Quarticciolo, ispirati proprio alle opere delle detenute. Un progetto straordinario di cui si converserà ampiamente l’11 giugno, in occasione della tavola rotonda La funzione rieducativa della pena e il ruolo delle istituzioni e del terzo settore: il caso de L’Arte non ha Sbarre. Nella Sala Tirreno della Regione Lazio - sabato 11 giugno dalle 16:00 alle 18:00 - i rappresentanti delle istituzioni regionali e penitenziarie, della magistratura e degli enti del terzo settore impegnati in progetti di rieducazione e apprendimento all’interno delle strutture penitenziarie della città metropolitana di Roma interverranno su temi relativi alla funzione rieducativa della pena, analizzando in particolare il progetto l’arte non ha sbarre. Attraverso la partecipazione di relatori attivi nella progettazione, esecuzione e monitoraggio delle politiche e attività rieducative dei detenuti, si analizzerà - sotto diversi punti di vista - opportunità e criticità dell’attuale sistema penitenziario italiano in riferimento alle politiche rieducative, evidenziando l’importanza che la sinergia tra enti del terzo settore e le istituzioni coinvolte nelle politiche penitenziare ha nel raggiungimento degli obiettivi in tema di rieducazione dei detenuti. L’evento è moderato da Oriana Rizzuto - curatrice MarteLive - e prevede gli interventi di Lorenzo Sciarretta (Delegato del Presidente alle Politiche Giovanili della Regione Lazio), Leonardo Maria Ruggeri Masini (Presidente Liberamente e Portavoce della Rete VIS Volontari In Sinergia), Marta Bonafoni (Consigliere Regionale Regione Lazio), Gabriella Stramaccioni (Garante Detenuti del Comune di Roma), Wilma Ciocci (Criminologa e sociologa), Luana Sciamanna (Avvocato), Emanuela Boille (Psicologa, psicoterapeuta e grafologa), Stefania Tallei (referente di comunità di Sant’Egidio per gli istituti di pena), Silvio Palermo (fondatore Made in Jail) e Tamir El Bendary (LiberaMente e Resp. Consulta S.C.U. Lazio). Foggia. “Un’ora d’aria colorata”, la musica di Luca Pugliese che anima le carceri di Emiliano Moccia vita.it, 9 giugno 2022 Luca Pugliese è un pittore e cantautore irpino. Dal 2013 porta in giro nelle carceri italiane il tour “Un’ora d’aria colorata”, esibendosi con chitarra, voce e percussioni a pedale in un concerto che coinvolge i detenuti. Dopo le restrizioni del Covid-19 ha ripreso il suo viaggio e si è esibito nell’istituto penitenziario di Foggia davanti a 300 persone. Nell’ultimo concerto che ha tenuto nella sala teatro del carcere di Foggia, c’erano alcuni detenuti che piangevano. “Ma non erano lacrime di disperazione. Erano lacrime di sfogo, di liberazione, di emozioni provate. Perché gli istituti penitenziari sono dei non-luoghi e con la musica provo ad abbattere le mura e a far trascorrere ai ristretti un’ora d’aria diversa, come se stessero fuori, in un prato ad ascoltare qualcuno che canta”. Luca Pugliese si è laureato in Architettura mettendo in scena nell’aula magna universitaria una performance musicale con la sua chitarra. Perché ha sempre coltivato la passione per la musica e per l’arte. Tanto che oggi, l’artista irpino, si divide tra il mestiere di cantautore e quello di pittore. Nel 2013 ha iniziato il tour “Un’ora d’aria colorata”, iniziativa solidale a favore dei diritti dei detenuti che chiama in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. Da quel primo concerto a Poggioreale, davanti a mille detenuti che hanno ascoltato in silenzio le sue canzoni, il cammino del cantautore campano negli istituti penitenziari italiani non si è più fermato. Secondigliano, Rebibbia, Regina Coeli, Opera, San Vittore, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Ariano Irpino ed altri ancora. “Mi sono sempre occupato di sociale” racconta Pugliese. “Ho deciso di fare della pittura e della musica degli strumenti di sollievo morale e spirituale a favore di coloro che devono ristabilire un debito con la società civile. Sono persone che, per gli errori che hanno commesso nella loro vita, trascorrono la maggior parte del tempo in luoghi angusti e grigi. Con il mio concerto “Un’ora d’aria colorata” provo a restituire piccoli momenti di normalità, di allegria, di serenità. Del resto, suonare nei penitenziari è qualcosa che arricchisce entrambi”. Riprendere il suo tour nelle carceri dopo il lungo periodo di chiusura provocata dal lockdown, ha subito riscosso un grande successo tra i detenuti che hanno assistito alla sua esibizione. Anche perché quello che porta in scena Luca Pugliese è un “one man band”, dove l’artista poliedrico sfodera davanti al pubblico chitarra, voce, armonica a bocca, percussioni a pedale, mettendo insieme un repertorio che spazia tra brani da lui scritti e musicati e contaminazioni di ritmi occidentali, mediterranei e latini, fino ai classici della musica napoletana ed ai successi di Franco Battiato. Tra i brani che suscitano maggiore commozione tra la popolazione carceraria, c’è sicuramente “Corri, corri”, musica trascinante e testo dedicato al tempo, “l’unico luogo in cui tutti possono trovare Dio, anche in carcere. Quando ascoltano questo brano” prosegue Pugliese “i detenuti si commuovono, forse perché ripensano a come hanno utilizzato il loro tempo. Mi piace poter portare attraverso questa forma d’arte un po’ di aiuto a chi ne ha bisogno. Perché la musica ha per chi l’ascolta il sapore dell’aria, dell’acqua, della libertà. La musica rende tutti più umani, tocca la nostra spiritualità, i nostri sentimenti a prescindere dalle strade che ciascuno di noi ha fatto”. L’artista, quindi, ha di fatto ripreso il suo tour e riaperto il ciclo di iniziate culturali e sociali limitate negli ultimi due anni dalle ristrettezze del Covid-19. Il concerto, realizzato nell’istituto foggiano grazie alla collaborazione di tutto il reparto di polizia penitenziaria, dell’area trattamentale e del CSV Foggia, si è svolto in due momenti della giornata, coinvolgendo circa 300 persone detenute. “Il carcere di Foggia riapre con la musica e non poteva essere diversamente: giugno è il mese in cui si celebra proprio l’arte dei suoni, nel giorno del solstizio d’estate” aggiunge Giulia Magliulo, direttore della Casa Circondariale. “Abbiamo alle spalle un periodo molto duro. Ognuno di noi ha perso qualcuno o qualcosa a causa della pandemia. Per proteggere le persone care abbiamo dovuto imparare a mantenere le distanze, abbiamo rinunciato agli abbracci. Ma la musica no, non l’abbiamo mai abbandonata e non ci ha mai abbandonati. Anche nel periodo più buio del lockdown, quando intorno a noi c’era silenzio, abbiamo reagito con la musica sui balconi, nell’intimità delle nostre case. Ecco” conclude Magliulo “la musica unisce tutti, anche e soprattutto chi soffre. Oggi è solo l’inizio di una nuova fase che riporterà in primo piano le attività e i laboratori”. E dopo la musica di Luca Pugliese che ancora risuona nel penitenziario foggiano, è partito in questi giorni anche il laboratorio “Come in un film. Ponti di Comunità”, il cineforum realizzato in sinergia con il CSV Foggia, l’Associazione Libero Pensiero Giordano Bruno ed il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, che attraverso la visione di pellicole cinematografiche vuole stimolare momenti di serenità e di riflessione tra i detenuti che, guidati dall’esperta di criminologia Annalisa Graziano, possono condividere le loro personali esperienze prendendo spunto dai messaggi lanciati dai film selezionati. Perché l’arte, il cinema, la musica, le attività educative, sociali e di volontariato cercano in qualche modo di dare un senso all’articolo 27 della Costituzione Italiana in cui si ricorda che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Reggio Emilia. I detenuti giocano a calcio con i figli: abbracci, gol e merendine di Marco Vigarani Corriere di Bologna, 9 giugno 2022 Una giornata di “normalità” in carcere: porte aperte in palestra e nei campetti dove i padri han sfidato i loro bambini. Una partita a calcio con il papà è sempre un momento prezioso di gioia per un bambino, che diventa impossibile da vivere quando il genitore finisce in carcere. Ieri mattina però gli Istituti penitenziari di Reggio Emilia hanno dato alle famiglie dei detenuti la possibilità di ritrovare quelle dinamiche di gioia e spensieratezza che sono comuni nella vita fuori dalla prigione. Aperti i cancelli a mogli e figli, nei cortili interni sono state quindi organizzate partite di calcio per adulti e bambini tra sorrisi, dribbling, abbracci e gol. L’iniziativa - L’iniziativa denominata “La partita con papà” è nata nel 2015 grazie al sostegno dell’associazione Bambinisenzasbarre Onlus e in questi anni ha visto moltiplicarsi le adesioni, arrivando a coinvolgere decine di carceri in tutta Italia e migliaia di famiglie fino allo stop di due anni dovuto alla pandemia. Da questo giugno però si è ricominciato con ancora maggiore entusiasmo, per riportare qualche istante di gioia a chi deve portare avanti un rapporto familiare facendo i conti con la divisione forzata di una prigione. Si calcola infatti che nel nostro Paese circa 100mila bambini abbiano almeno un genitore agli arresti e così l’associazione si è attivata in collaborazione con il Ministero di Giustizia, inserendo il progetto all’interno della campagna europea “Carceri aperte” promossa dal network COPE (Children Of Prisoners Europe). Il primo obiettivo è regalare gioia a bambini e adulti durante questi momenti, il secondo è sensibilizzare la società sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per accantonare definitivamente tutti i pregiudizi con cui devono convivere i familiari dei detenuti. Partita, abbracci, merendina - Ieri a Reggio Emilia per una mattinata ci si è dimenticati di pene da scontare e lontananza forzata perché quando i bambini (maschi e femmine, di tutte le età) vestiti di giallo sono scesi in campo per sfidare i propri papà ha vinto solo l’umanità. Alla fine il risultato è stato una vittoria per 12-3 dei figli, molti dei quali hanno fatto anche un lungo viaggio per riuscire ad essere presenti all’evento. Alla fine foto di gruppo e merenda insieme, prima di darsi appuntamento alla prossima occasione. Per tutto il mese di giugno, Bambinisenzasbarre porterà questo progetto in giro per l’Italia regalando sorrisi. Quelle vite travolte per presunti abusi di pochi euro per poi sentir dire: “Il fatto non sussiste” di Simona Giannetti Il Dubbio, 9 giugno 2022 “Il fatto non sussiste” è il libro di Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale, che ha raccolto le storie di interviste della sua rubrica, in onda su Radio Radicale, “Stato di Diritto”. Le storie sono vere e sono la prova che la giustizia non è giusta: leggere e ascoltare queste storie di vite, rase al suolo dalla leggerezza di un abuso del carcere in misura cautelare o da sentenze di condanna emesse da giudici sempre troppo poco indipendenti dalle tesi accusatorie dei loro colleghi inquirenti, porta dritto ai cinque quesiti referendari. “Il fatto non sussiste, e invece sussiste eccome. Ed è quello che ti ha scaraventato all’inferno senza un motivo. Che ha distrutto la tua vita e quella dei tuoi cari. Il fatto sussiste, si chiama malagiustizia, errore giudiziari, sciatteria, malafede. Tutto quello che travolge una persona che mai avrebbe immaginato un incubo dal quale districarsi, perdendo dignità, salute e soldi. Le storie raccolte da Irene sono le nostre storie”. È quanto scrive nella sua prefazione Gaia Tortora, giornalista e figlia del noto Enzo Tortora, che la macelleria giudiziaria si portò via da innocente in manette, di prima mattina a favore di telecamere. Giovanni De Luise aveva ventidue anni quando, assistendo in obitorio il fratello ucciso in una sparatoria a Scampia, finisce dritto in carcere con l’accusa di omicidio. Il caso volle che al suo fianco ci fosse Cinzia, la sorella di Massimo Marino che, in quella sparatoria tra faide, era rimasto ugualmente ucciso. Il pubblico ministero aveva imbastito l’accusa di omicidio con le dichiarazioni di un testimone: il testimone si scoprì che era Cinzia. Ergastolo in primo grado e poi ventidue anni in appello, quindi quasi dieci anni di galera preventiva: tutto questo, prima di arrivare alle dichiarazioni del tutto fortuite del pentito, che ammise di aver ucciso lui Massimo Marino. Giovanni, incensurato, veniva scagionato. Ma tante sono le storie. Il carcere e la misura cautelare non sono una gita, come vorrebbero farci credere quelli che propongono di mandarci i magistrati per qualche giorno: il carcere è un’esperienza di terrore del non ritorno in libertà; quello che manca è la prospettiva del domani da liberi. Ecco perché i quesiti dei referendum del 12 giugno sono racchiusi in queste storie. Non potevano mancare i racconti dei sindaci e amministratori locali, arrestati e poi assolti per reati, che rasentano il ridicolo se non fosse che le storie sono vere. Abusi d’ufficio per poche migliaia di euro, che giustificherebbero il pericolo di reiterazione del reato per persone incensurate. Del resto, anche laddove le vicende riguardassero imputati che fossero stati giudicati colpevoli per fatti simili, la misura cautelare in carcere sarebbe comunque da considerare sproporzionata, anche se consentita da una norma che il quesito referendario vuole appunto modificare, riducendone l’abuso. Simone Uggetti ex sindaco del Comune di Lodi, assolto dopo cinque anni di processi, fu arrestato per l’appalto di una piscina del valore di cinque mila euro. Pio del Gaudio ex Sindaco di Caserta, denunciato per tangenti del valore di tre mila e venti mila euro, fu portato in carcere per dodici giorni per un fatto archiviato un anno e mezzo dopo. Marco Melgrati, ex Sindaco di Alassio, subì 34 processi con 34 assoluzioni nell’indagine “spese pazze”, con l’accusa tra le altre di aver speso 2.800 euro, di cui 1.500 erano di carta usata dietro autorizzazione. Tante altre sono le vicende dei più noti Giovanni Paolo Bernini, Cristiano Scardella, Diego Olivieri, Giovanni Terzi. Chiude le storie di ordinaria giustizia Luca Barbareschi: “Invito gli italiani ad andare a votare i referendum giustizia giusta perché è un tema che riguarda i cittadini. I grandi cambiamenti di questo Paese li ha fatti il Partito Radicale, io vi aiuterò e mi iscriverò”. Anche Luca Barbareschi, ex deputato, attore e regista e produttore cinematografico è stato inquisito, processato e assolto dall’accusa di traffico di influenze. Il Partito Radicale ha promosso il referendum giustizia giusta con la Lega e chiuderà la campagna referendaria con un evento a Milano al Centro Congressi delle Stelline in Corso Magenta n 61 presso la Sala Manzoni: un anno di battaglia per “Liberare la Repubblica e la Magistratura dal peso delle correnti togate”, come si legge sulla locandina dell’evento, a cui sono invitati tutti i cittadini che vogliano conoscere per poter deliberare il 12 giugno, con cinque Si per la giustizia giusta. Mauro Palma: “Migranti, basta emergenze. Ora bisogna ripensare i Cpr” di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 giugno 2022 Il Garante dei diritti dei detenuti anticipa la sua relazione annuale al Manifesto. “Dietro la parola emergenza si nasconde l’incapacità di affrontare il fenomeno con una politica forte, non nel senso di dura ma di solida democraticamente”. Il prossimo 20 giugno il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) presenterà la sesta Relazione annuale al parlamento. Mauro Palma, presidente dell’organismo collegiale, anticipa al manifesto i temi riguardanti i diritti delle persone migranti. Nel suo lavoro pone sempre molta attenzione alle parole, soprattutto quelle pronunciate dal potere. Nei passaggi della Relazione 2022 sulle politiche migratorie ne sottolinea tre: solidarietà, emergenza, eccezionalità. Perché? La nostra Costituzione richiama subito la parola “solidarietà”, mentre non dice mai “emergenza” e usa solo due volte “eccezionalità”, ma come aggettivo. All’articolo 13 e 81, per i casi eccezionali di limitazione della libertà personale e per quelli di indebitamento dello Stato. Questo impianto mi pare contrario all’abitudine consolidata sui migranti. Si dice che il loro arrivo è un’emergenza, ma si tratta di una questione strutturale. Dietro la parola emergenza si nasconde l’incapacità di affrontare il fenomeno con una politica forte, non nel senso di dura ma di solida democraticamente. L’Italia spende più in trattenimenti e rimpatri che in accoglienza? Sì, ma ovviamente in termini percentuali, di frequenza relativa non assoluta. Qualche anno fa la Corte dei conti scrisse che si era rovesciato il rapporto tra spese per accogliere e per respingere. In termini soggettivi pesano più le seconde. L’obiettivo della detenzione amministrativa dei migranti è il rimpatrio, ma i dati del 2021 confermano che nella metà dei casi non avviene. Il legislatore potrebbe evitare questa privazione della libertà senza scopo? Dovrebbe. Perché la direttiva Ue 115 del 2008, che alcuni definirono “della vergogna”, aveva aumentato la possibilità di trattenere le persone ma anche affermato che quando non c’è più una “prospettiva ragionevole” di rimpatrio la privazione della libertà diventa una misura non giustificata. Questo aspetto credo vada esteso: siccome la libertà è un bene fondamentale qualcuno può esserne privato solo sulla base di una determinata finalità. Se non c’è, per esempio perché non esistono accordi di rimpatrio con lo Stato d’origine o i voli sono sospesi per il Covid-19, il trattenimento perde la ragione che lo giustifica. È possibile chiudere i Cpr? Vanno totalmente ripensati. Quando le persone non hanno diritto a stare sul territorio ed è accertato un rischio effettivo per la sicurezza si deve procedere al rimpatrio. Ma serve un chiaro accertamento e una precisa motivazione. La persona non è riassumibile in un momento. Vanno indagate le cause dell’irregolarità. Comunque i luoghi di attesa dell’eventuale rimpatrio non possono essere gli inutili contenitori che abbiamo oggi. State lavorando a un report sulle “strutture idonee”. Cosa sono? Quando non c’è disponibilità nei Cpr o ci sono difficoltà con le persone da rimpatriare è possibile trattenerle in locali o strutture idonee delle questure. Questa possibilità è stata introdotta nel 2018 dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. All’inizio ho criticato questa scelta: non si capiva cosa fossero e dove si trovassero. Nel 2020 la titolare del Viminale Luciana Lamorgese ha dato una strutturazione e delle regole a questi luoghi, riportandoli alla controllabilità. È stata definita una mappa e quali devono essere le loro caratteristiche. La Ue è intervenuta con un finanziamento per adeguarle. Adesso stiamo cominciando a visitarle. Tra quelle pronte e quelle in ristrutturazione sono in tutto 44. Due mesi dopo la fine dello stato di emergenza le navi quarantena hanno smesso di operare. Che giudizio ne dà? Dal punto di vista logistico e di primo accudimento sono state migliori degli affollatissimi hotspot. Da quello psicologico rimane la difficoltà del non approdo, che incide su persone che arrivano dal mare. In termini di diritti le ho dichiarate insufficienti: il personale della Croce rossa non aveva la formazione necessaria. Temevo diventassero una soluzione stabile per cui recentemente ho detto: piantiamola con le navi quarantena. Se sono accettabili in un momento particolare, non possono diventare permanenti. Così non c’è il rischio che l’hotspot di Lampedusa sia perennemente sovraffollato? Nella prima settimana senza navi quarantena sono sbarcate 960 persone e i trasferimenti con i traghetti di linea vanno a rilento... È vero, questo rischio esiste. Ma non ci si può far prendere di sorpresa ogni volta. Non è che siccome non siamo in grado di gestire gli hotspot dobbiamo avere le navi quarantena. Non è accettabile. In questi giorni a Lampedusa c’è una situazione quasi invivibile, ma dobbiamo pensare altre modalità. Chiamare a responsabilità, oltre all’Europa come si fa sempre, le regioni. Non è pensabile che ricada tutto su due-tre regioni meridionali. Dopo Salvini alle navi Ong non sono più stati negati i porti, ma ogni volta si ripete la stessa routine: richieste ripetute, ritardi più o meno lunghi e uno stillicidio di evacuazioni mediche. Come in queste ore dalla Sea-Watch 3. Prima dell’attuale legislatura non accadeva. Queste attese in mare sono accettabili? In linea generale, di principio, non sono accettabili. Ma nel concreto sono comprensibili. Nel diritto vissuto succede. Il problema è che devono essere considerate eccezionali e non possono ripetersi. Migranti. Dramma Lampedusa: sovraffollamento e condizioni disumane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2022 L’hotspot di Lampedusa è in grave sovraffollamento, con donne e uomini stipati insieme, cibo scarso e di cattiva qualità e vestiti nuovi consegnati dopo giorni. Martedì notte ci sono stati tre sbarchi, per un totale di 114 migranti approdati. All’hotspot di contrada Imbriacola si contano al momento 996 ospiti, a fronte di 350 posti disponibili. La struttura è al collasso e ciò rimette di nuovo in discussione l’esigenza di tali strutture che risultano avere grosse problematica dal punto di vista dei diritti umani. Il 31 maggio scorso, c’è stata una interrogazione parlamentare alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese presentata dal deputato Pd Erasmo Palazzotto. Il caso sollevato è relativo proprio all’hotspot di Lampedusa, gestito dal mese di marzo di quest’anno dalla cooperativa Badia Grande di Trapani, dove secondo il deputato esisterebbero seri problemi di gestione. Denuncia che la struttura si trova in una condizione di sovraffollamento inaccettabile che costringe gli ospiti a vivere in condizioni disumane, ma il disagio è manifestato anche dai dipendenti della cooperativa che non riceverebbero regolarmente lo stipendio e sarebbero costretti a continui cambi di mansioni durante l’orario di lavoro, passando dalla pulizia dei bagni alla raccolta dei rifiuti, alla distribuzione dei pasti in mensa, anche in assenza delle certificazioni necessarie per svolgere tale mansione. “Prima dell’arrivo di questa cooperativa - si legge nell’interrogazione parlamentare - il centro di Lampedusa era gestito da non meno di cinque persone per ogni turno di lavoro che lavoravano nei diversi padiglioni, mentre oggi ce ne sarebbero soltanto due per turno in una struttura che attualmente conta circa mille ospiti a fronte di una capienza massima nettamente inferiore”. Non solo. All’interno del padiglione dove prima alloggiavano soltanto donne e bambini adesso è consentito dormire anche agli uomini, mariti delle donne ospitate, determinando così una situazione di promiscuità che può creare disagio alle ospiti, ai bambini e ai dipendenti. Secondo quanto segnala il deputato alla ministra Lamorgese, anche il vestiario verrebbe consegnato ai migranti dopo diverse ore o addirittura giorni e non al loro arrivo, lasciando che gli stessi continuino ad indossare i medesimi abiti utilizzati per giorni a bordo dei barconi durante la traversata. Come se non bastasse, all’interno dell’hotspot di Lampedusa stazionerebbero ovunque sacchi della spazzatura, cestini traboccanti accanto ai materassi gettati per terra su cui molti migranti sono costretti a dormire, vestiti appesi ad asciugare perché i cambi sono insufficienti. Anche il cibo sarebbe poco e a volte di cattiva qualità e ciò può generare piccole proteste. “La cooperativa Badia Grande - segnala sempre il deputato Palazzotto è accusata dalla procura di Bari di aver frodato lo Stato garantendo un’assistenza medica assai più scarsa di quanto previsto dall’appalto di gestione del Cpr di Bari, sulla quale gli investigatori segnalavano come “la precarietà dei servizi essenziali erogati avesse contribuito a creare le condizioni di esasperazione da cui sono scaturiti proteste e incendi”. A tal proposito, il parlamentare segnala come incendi e rivolte si siano verificati in più di uno dei centri che Badia Grande ha gestito, dal Cara di Mineo al Cpr di Milo. Il deputato, alla luce di queste testimonianze, osserva che occorre un immediato intervento del Ministero dell’interno per verificare le condizioni in cui versa il centro di accoglienza di Lampedusa, il pieno rispetto del contratto d’appalto e le modalità di gestione da parte della cooperativa Badia Grande di Trapani con particolare riguardo circa l’adeguatezza dei livelli di assistenza ai migranti e dei servizi a loro garantiti, il rispetto delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori del centro. Nell’interrogazione, si sottolinea che sulla gestione dei centri di accoglienza, che deve sempre essere adeguata e trasparente, “non possono esistere zone d’ombra e qualora vengano riscontrate anomalie o inadempimenti da parte dei gestori occorre procedere con la revoca immediata degli affidamenti, perché non può essere consentito lucrare sulla dignità delle persone migranti e dei dipendenti”. L’Italia ripudia la guerra non solo di offesa ma come soluzione delle controversie di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2022 L’opinione pubblica è stata sviata ancora una volta dal polverone sollevato dal Corriere della Sera su una presunta lista di putiniani contrari al riarmo dell’Ucraina. Notizia platealmente smentita dal capo dei servizi segreti Gabrielli e dal Presidente del Copasir Urso. Resta da capire perché un giornale di così alto prestigio come il Corriere della Sera abbia dato una notizia che appare totalmente falsa. Ci si domanda se si tratta di un tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi, oppure del tentativo, mal riuscito, di intimorire coloro che hanno il coraggio di esprimere democraticamente il proprio parere su argomenti di vitale importanza per la Nazione. Per quanto riguarda le vicende che avvengono sul campo di battaglia, è da dire che l’avanzata russa continua lentamente, ma inesorabilmente in tutto il Donbass. Sul piano diplomatico ha fatto scalpore la dichiarazione del Ministro degli esteri russo Lavrov, il quale ha affermato che qualora gli Usa forniscano missili a lunga gittata altrettanto farà la Russia. Forse, involontariamente, Lavrov ha posto in maniera molto seria il problema della legittima difesa in caso di aggressione del territorio. Ricordo in proposito che l’articolo 52 del Codice penale, riguardante la legittima difesa, sancisce che: “Chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, non è punibile, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Come si nota, questo articolo riguarda i rapporti inter-individuali, cioè tra singoli soggetti, e non può essere trasportato su un piano generale, poiché, per quanto riguarda i rapporti tra i Popoli sono da attuare norme ben diverse di carattere costituzionale, le quali superano il problema della legittima difesa e affermano, su un piano ben più alto, che la difesa della Patria è dovere sacro del cittadino (art. 52 Cost.), utilizzando il nome Patria non limitatamente al territorio, ma ovviamente alle due fondamentali componenti dello Stato-Comunità e cioè il Popolo e il territorio, nonché l’articolo 11 della Costituzione, nel quale l’affermazione di maggior peso è quella contenuta nelle prime parole dell’articolo medesimo, secondo le quali l’Italia ripudia la guerra, non solo come strumento di offesa, ma anche come mezzo di strumento di risoluzione delle controversie internazionali, si tratta invero di due piani costituzionalmente diversi tra di loro. Dunque il concetto più importante è che la Costituzione è comunque contro la guerra e il problema di difendersi o meno contro l’aggressore dipende da una scelta oculata dei governanti, i quali devono porre a base delle loro decisioni lo sterminio che la guerra produce tra i propri governati e gli infiniti effetti economici che dalla guerra provengono. Ne consegue che, secondo la Costituzione, i rappresentanti del Popolo devono far di tutto per evitare la guerra, e non sono affatto legittimati a fomentarla, magari con l’invio di armi. Voglio dire che il principio di solidarietà, di cui all’articolo 2 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (tra i quali c’è il diritto alla pace) sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, impone un’alleanza tra le potenze mondiali per evitare che, anziché usare la ragione, si faccia ricorso alla forza. Questa interpretazione è confermata anche da una lettura ermeneutica delle norme costituzionali seguendo l’insegnamento del Betti, in base al quale l’interpretazione dei principi e dei diritti fondamentali va dedotta dal sistema costituzionale, un sistema che nella sua interezza ripudia la guerra e, come recita il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, rimuove ogni ostacolo di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il piano sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, come si nota un inno alla pace, alla giustizia e alla vita che esclude ogni invio di armi. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Senza le guerre, niente carestie di Danilo Taino Corriere della Sera, 9 giugno 2022 Uno studio di Our World in Data - l’organizzazione legata all’università di Oxford - ha messo in prospettiva storica l’uso dei terreni per fini agricoli e di allevamento e la loro produzione. Il primo dato di fatto, poco conosciuto, è che, dopo millenni di crescita, la superficie di terra coltivata o usata a pascolo ha da qualche anno iniziato a ridursi. Tristemente, si torna a parlare del rischio di carestie. Come spesso nella storia, provocate da una guerra, questa volta dall’invasione russa dell’Ucraina. Sono la politica di potenza e l’aggressività di alcuni Stati a provocare la penuria di cibo e la fame nei Paesi più poveri: diversamente, l’umanità, lasciata libera di fare i propri affari, se la caverebbe abbastanza bene. Uno studio di Our World in Data - l’organizzazione legata all’università di Oxford - ha messo in prospettiva storica l’uso dei terreni per fini agricoli e di allevamento e la loro produzione. Il primo dato di fatto, poco conosciuto, è che, dopo millenni di crescita, la superficie di terra coltivata o usata a pascolo ha da qualche anno iniziato a ridursi. Misurare l’estensione di terre coltivate e usate per allevamento non è facile. Our World in Data presenta tre studi che divergono nelle quantità ma arrivano alla stessa conclusione. La Fao (Food and Drug Administration dell’Onu) indica che il picco di terreno usato è stato raggiunto attorno al 2000 a 4,88 miliardi di ettari, mentre al 2019 la superficie si è ridotta a 4,78 miliardi di ettari. Fino al secolo scorso, non era mai calata e dopo avere superato il miliardo di ettari attorno al 1720 era cresciuta velocemente. Un secondo studio, Hyde, calcola anch’esso che il picco sia arrivato nel 2000, a 4,95 miliardi di ettari, e che da allora siamo sostanzialmente su un plateau. Il terzo studio, Taylor and Rising del 2021, mette la massima espansione al 1990, a 4,28 miliardi di ettari, e da allora registra un calo, a 4,20 miliardi di ettari nel 2010. Se si considera che dalla fine dell’era glaciale l’estendersi di agricoltura e pascolo ha ridotto di un terzo le foreste della Terra, con un grande costo in termini di biodiversità, si nota come la svolta millenaria in corso possa essere rilevante. Non è niente di consolidato, ci sono Paesi dove i terreni agricoli crescono ancora, i pascoli si riducono più delle aree coltivate, i cambiamenti del clima confondono le tendenze. Ma il dato straordinario è che la produzione agricola globale continua a crescere nonostante il minore uso di terreni: ha superato i tremila miliardi di dollari attorno al 2008 e oggi si avvia a toccare i quattromila miliardi. E cresce anche in volume. Sono tendenze positive per l’ambiente e non sono numeri da carestia. Se non fosse per Vladimir Putin. Regno Unito: “Mi toglierò la vita” di Federica Salvati La Repubblica, 9 giugno 2022 Così i rifugiati che stanno per essere deportati in Ruanda gridano la loro disperazione. I rifugiati detenuti in Gran Bretagna che dovrebbero essere deportati in Ruanda hanno detto ad Al Jazeera di essere in sciopero della fame, mentre sentono a rischio la loro salute mentale, al punto da avere frequenti pensieri suicidi. La soluzione-ruandese del Regno Unito per affrontare quella che è stata definita dal governo di Boris Johnson, “minaccia dei migranti” ha suscitato e suscita molte critiche, soprattutto dalle numerose organizzazioni umanitarie che si occupano del fenomeno planetario dell’emigrazione e dell’accoglienza dei rifugiati. Oltre tutto, stando alle ultime notizie, il premier britannico appare come un funambolo in procinto di perdere definitivamente l’equilibrio, anche dopo che il Parlamento ha respinto la mozione di sfiducia nei suoi confronti, per la storia dei festini a Downing Street durante la pandemia. Un voto che lo fa restare, sì, a capo del partito conservatore britannico, ma con spaccatura davvero molto ampia. “Se mi costringono ad andare, mi ucciderò”. Il Regno Unito ha annunciato ad aprile il piano per espellere i richiedenti asilo offshore nella nazione africana. Il primo volo di espulsione partirà il 14 giugno prossimo. Ahmed, fuggito dalla Siria, ha raccontato ad Al Jazeera di essere uscito dal suo Paese dopo aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito ed è arrivato nel Regno Unito senza documenti. Dovrà così essere espulso con il primo volo. “Sono scappato e sono arrivato nel Regno Unito attraverso i Paesi balcanici”, ha detto al telefono ad un giornalista Bashir Mohamed Caato di Al Jazeera il ventenne, detenuto presso il Colnbrook Immigration Removal Center vicino all’aeroporto di Londra Heathrow. “Purtroppo, il 20 maggio, il Ministero dell’Interno mi ha notificato la decisione e mi ha dato un biglietto per il Ruanda”. Ha detto che è in sciopero della fame per protestare contro la decisione, perché non capisce la ragione per cui viene mandato in Ruanda, date le differenze linguistiche e culturali. “Non vedo alcun motivo per andare in un Paese africano dove non ho parenti né famiglia, né conosco persone lì. Mi rifiuterò di andare, ma se il governo del Regno Unito insisterà sulla mia deportazione a Kigali e mi costringerà a salire sull’aereo, mi ucciderò”. I due pesi e due misure in UE a favore degli ucraini. Gli immigrati hanno manifestato contro il programma di espulsione nei centri di immigrazione come Colnbrook. Ferhad, un detenuto curdo di 23 anni proveniente dall’Iran nello stesso centro, ha affermato che la prospettiva dell’espulsione è particolarmente cupa rispetto all’accoglienza europea per i rifugiati ucraini. Ora, quando sente un aereo volare sopra il centro, si sente nervoso. Anche lui è in sciopero della fame - si legge ancora su Al Jazeera - ed è in programma per il volo del 14 giugno. “Quando è iniziata la guerra in Ucraina, tutti gli ucraini sono stati accolti e trattati meglio”, ha detto. “Dato che siamo tutti rifugiati, non capivo perché sarei stato trasferito in Ruanda quando gli ucraini vengono accolti, ricevono una vita migliore, un riparo e tutto ciò di cui hanno bisogno. “Indipendentemente dalla nostra origine, siamo tutti esseri umani”. È prevista la deportazione di 60 persone da Colnbrook. “Uccidedeci qui o lasciate che l’Iran ci uccida, invece di portarmi in Ruanda”, dicono in coro una quindicina di detenuti a Colnbrook, dove è prevista la deportazione in Ruanda di oltre 60 persone. Altri dovrebbero essere detenuti in altri centri di detenzione vicino a Londra. Al Jazeera ha contattato il Ministero dell’Interno per chiedere quante persone nel complesso dovrebbero essere espulse, ma un portavoce del dipartimento ha rifiutato di commentare. Tra il gruppo di detenuti con cui ha parlato il giornalista c’erano anche richiedenti asilo provenienti dall’Africa. Asim, un 25enne sudanese arrivato in Gran Bretagna all’inizio di maggio via Francia in barca, ha detto di aver rischiato la vita viaggiando attraverso la Libia e il Mar Mediterraneo per raggiungere il Regno Unito. Ma giorni dopo, il 17 maggio, “mi è stata data la decisione di mandarmi in Ruanda”, ha detto al telefono da Colnbrook. “Sono fuggito dal Darfur a causa del conflitto. Portarmi in Ruanda è contro i miei diritti umani fondamentali e per protestare contro questo sto facendo lo sciopero della fame”. “In Egitto passi in avanti sui diritti”, così l’Ue “dimentica” il caso Regeni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2022 Nella relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2021 (Annual Report on Human Rights), curata dal Servizio europeo per l’azione esterna e, in particolare, dall’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, non c’è nessun cenno all’ostruzionismo delle autorità egiziane verso le autorità giudiziarie italiane impegnate a fare luce sul sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Questo a differenza del rapporto del Dipartimento di Stato americano che, ogni anno, ricorda il dramma del ragazzo italiano. Un aspetto che ha segnalato Marina Castellaneta, professoressa di diritto internazionale e avvocata che collabora con il settimanale giuridico “Guida al diritto”. Tramite il suo blog dove documenta i vari rapporti tra ordinamenti e relazioni delle organizzazioni internazionali, ha segnalato che i rapporti annuali sono spesso un adempimento formale, ma forniscono chiare indicazioni sulla reale volontà di tutelare i diritti umani e la democrazia anche guardando a ciò che manca nei documenti. Ebbene, indicativa, in questa direzione, è la relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2021, che, appunto, ha completamente omesso il caso Regeni e silenzio totale anche nell’esame specifico nella situazione dell’Egitto (rapporto Stati). “Anzi, beffa delle beffe - denuncia la professoressa Castellaneta -, nel rapporto si sottolineano i passi avanti in materia dei diritti umani dell’Egitto”. Osserva che l’inerzia, il silenzio dell’Unione europea nella più drammatica vicenda che abbia coinvolto un cittadino europeo in un Paese terzo, legato a numerosi accordi con la stessa Unione europea, non sono una novità. Solo nel rapporto del 2016 c’era un breve richiamo all’omicidio di Giulio Regeni attraverso una citazione di una risoluzione del Parlamento europeo del 16 marzo 2016. Negli anni successivi silenzio totale. Ma non solo. Nel 2019 l’Unione europea aveva acconsentito a svolgere il primo summit con la Lega araba in Egitto, a Sharm El- Sheikh. Con il Presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi come co-presidente del vertice insieme all’allora presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. In quell’occasione, poi, l’ex presidente della Commissione europea Juncker, indirizzandosi ad Al- Sisi in persona, nel suo discorso di apertura, aveva ricordato la storia comune tra Unione europea e Lega araba e il comune senso per la tutela dei diritti umani. Invece, a differenza dell’Unione europea, è il Dipartimento di Stato americano a ricordare, ogni anno, il dramma di Giulio Regeni. La professoressa Castellaneta rende noto che così ha fatto anche nel nuovo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani nel mondo pubblicato ad aprile 2022 e riferito al quadro nel 2021. Il Dipartimento di Stato non dimentica la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni e, proprio con riferimento alla situazione dei diritti umani in Egitto, stigmatizza il comportamento delle autorità egiziane - che non collaborano con l’Italia nel processo ai quattro egiziani accusati del sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni - per consentire l’accertamento della verità e la punizione dei responsabili. L’Egitto sta lasciando morire in carcere l’uomo della rivoluzione di Laura Cappon Il Domani, 9 giugno 2022 L’attivista simbolo della rivoluzione egiziana Alaa Abdel Fattah è in sciopero della fame da 68 giorni ma le autorità continuano a negargli la visita delle autorità consolari del Regno Unito, paese di cui è cittadino, e anche della Commissione dei diritti umani. “Stiamo iniziando a pensare che le autorità egiziane vogliano far morire Alaa in carcere”. Le parole su Twitter di Ahdaf Soueif, scrittrice e zia di Alaa Abdel Fattah, attivista simbolo della rivoluzione egiziana, sono perentorie. Suo nipote è al 68esimo giorno di sciopero della fame. Ha una condanna inappellabile di cinque anni da scontare. E in carcere ne ha già passati almeno sette, in condizioni estreme, nei suoi ultimi otto di vita. I familiari temono che Alaa sia al limite. “La commissione per i diritti umani dice che i suoi valori vitali sono normali”, continua Soueif. “Ma sappiamo che il ministero dell’Interno, anche in altri casi di prigionieri che poi hanno perso la vita mentre portavano avanti lo sciopero della fame, ha sempre detto così. Dobbiamo aspettare che stia letteralmente morendo per capire che in questo momento è in pericolo?”. L’attivista dalla sua protesta ha ottenuto solo il trasferimento dal carcere di Tora a quello di Wadi al-Natrun, un penitenziario in mezzo al deserto. Ora, dopo due anni ha carta e penna, libri e un materasso su cui dormire. Ma le concessioni si fermano qui. La mobilitazione internazionale, ancora una volta, non è sufficiente. Non è bastato l’appello di 35 parlamentari britannici a Liz Truss, il Segretario di Stato per gli affari esteri del Regno Unito. Oppure la raccolta di scritti dell’attivista che continua a essere pubblicata e presentata in Europa e negli Stati Uniti. E nemmeno lo sciopero della fame a staffetta che in Italia va avanti da quasi due settimane. Il regime non molla. E Alaa non mangia. Le visite negate - Ha preso la cittadinanza britannica ma le autorità gli vietano di ricevere una visita della delegazione consolare del Regno Unito. Questa settimana, gli è stata persino negata la possibilità di incontrare i rappresentanti della Commissione per i diritti umani egiziana. Un organismo che non è in opposizione al governo. Anzi, è uno degli strumenti che il regime sta utilizzando per dare una nuova immagine di sé dopo che dal 2013 a oggi, cioè da quando il generale el-Sisi ha preso il potere con un colpo di stato, i detenuti politici sono almeno 60mila. “Alaa riceve il vassoio, non lo può rifiutare, e distribuisce il cibo ai suoi compagni. Beve solo latte e poco altro”, dice la madre Laila Soueif. “L’attivista è video sorvegliato, e la luce resta accesa 24 ore su 24, quindi non possono non sapere che dal vassoio non prende nulla”. Così si perdono le speranze e si ripete, per l’ennesima volta, la strategia del regime egiziano che fa concessioni parziali e attende che scenda l’oblio sui soprusi che quotidianamente perpetra contro la società civile. Lo ha fatto con Giulio Regeni, il giovane italiano trovato morto nel 2016 nella periferia del Cairo con evidenti segni di tortura. La procura di Roma ormai da tempo chiede i domicili dei quattro agenti accusati di aver sequestrato e ucciso il ricercatore di Fiumicello ma le autorità egiziane si rifiutano di fornirli perché per loro il caso è chiuso. Un altro caso, ancora più simile a quello di Alaa, è la storia di Mustafa Kassem: cittadino egiziano e americano, dopo l’arresto nel 2013 è morto nel 2020 mentre conduceva uno sciopero della fame in protesta contro la sua detenzione. Anche su di lui è calato il silenzio. Poco dopo il trasferimento dell’attivista da un carcere a un altro, la madre aveva affermato che la pressione internazionale stava svolgendo un ruolo cruciale. I contatti diplomatici tra Egitto e Regno Unito sul suo caso vanno avanti da mesi. A marzo c’è stato anche un colloquio tra il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, e il presidente egiziano el-Sisi. L’approccio soft di Londra - Ma ora che la situazione continua a essere in stallo, la famiglia del blogger sta iniziando a criticare l’approccio soft di Londra. “Nel momento in cui mio fratello è diventato cittadino britannico, pensavamo che qualcosa sarebbe cambiato. Non solo perché finalmente aveva un altro passaporto, ma anche per le buone relazioni che esistono tra Egitto e Regno Unito”, ha detto al Guardian Mona Seif, sorella di Alaa. “Credo che il segretario per gli affari esteri britannico voglia mantenere una sorta di distacco dal caso e dalla nostra famiglia, nonostante la situazione sia sempre più critica. Questo silenzio è ormai assordante e credo che sia intenzionale”. La Gran Bretagna, così come altri paesi europei, ha forti legami con l’Egitto. Negli ultimi anni ha venduto al Cairo circa 28 milioni di euro di armi e proprio in questi mesi, i due paesi si stanno passando il testimone della conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni unite che sarà a Sharm el-Sheikh il prossimo novembre. Il cuore vulnerabile dell’Impero statunitense di Fabrizio Tonello Il Manifesto, 9 giugno 2022 Nella società americana la guerra civile strisciante non è iniziata nel 2021: da almeno 14 anni, dalla vittoria di Obama nel 2008, i repubblicani hanno deciso di fare terra bruciata, di rinunciare a vincere proponendo idee o soluzioni conservatrici e di puntare tutto sulle guerre culturali. Prendiamo il gruppo che riunisce le principali economie dei paesi avanzati: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno unito e Stati uniti, le democrazie modello dell’Occidente. Quali di questi paesi hanno rischiato un cambiamento violento di regime negli ultimi 60 anni? Solo uno, gli Stati Uniti, il 6 gennaio 2021. Il cuore dell’impero è anche il suo luogo più vulnerabile, quello dove i pretoriani possono prendere il potere con la violenza e insediare un nuovo imperatore, come nella Roma del III secolo dopo Cristo. C’era stato il caso della Francia, nel 1958, con la ribellione di un gruppo di generali che rifiutavano di accettare l’inevitabile indipendenza dell’Algeria, ma Charles de Gaulle era troppo abile e carismatico per loro: il colpo di stato fallì nel giro di pochi giorni e dallo scampato pericolo nacque la repubblica presidenziale attuale. Nulla, ovviamente, in Giappone, Canada, Gran Bretagna e Germania, mentre l’Italia aveva dovuto fare i conti con i complotti del piano Solo e del “golpe Borghese” ma niente di lontanamente paragonabile a ciò che è accaduto negli Stati uniti un anno e mezzo fa, con un assalto paramilitare al parlamento. Nella società americana la guerra civile strisciante non è iniziata nel 2021: da almeno 14 anni, dalla vittoria di Obama nel 2008, i repubblicani hanno deciso di fare terra bruciata, di rinunciare a vincere proponendo idee o soluzioni conservatrici e di puntare tutto sulle guerre culturali. L’America rurale, nostalgica degli anni Cinquanta, non sempre razzista ma certamente convinta che donne, neri e ispanici dovrebbe “tornare al loro posto”: quella è la base elettorale del partito repubblicano, una base minoritaria ma a cui l’oligarchico e iniquo sistema elettorale degli Stati uniti permette spesso di vincere. Era una strada in discesa, ovviamente: non c’è limite al risentimento dei maschi bianchi senza laurea che un tempo guadagnavano dignitosamente e poi si sono ritrovati a fare tre lavori contemporaneamente per sopravvivere. E non c’è limite allo spettacolo fascistoide di Trump che dal 2016 in poi ha dovuto continuamente rincarare la dose, insultare e minacciare, mentire su qualsiasi cosa e in ogni momento, giusto per mantenere attento il suo pubblico. L’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 è stata la conseguenza inevitabile di tutto questo. Le indagini della commissione della Camera incaricata di indagare hanno rivelato che lo schema per rovesciare il risultato delle elezioni a favore di Biden non era un’iniziativa estemporanea di Trump ferito nel suo narcisismo: al contrario era un piano maturato a cavallo delle elezioni, quando i primi numeri avevano già fatto capire che Trump stava perdendo. Un piano a cui hanno attivamente collaborato funzionari della Casa Bianca, dirigenti del partito repubblicano a tutti i livelli e gruppi paramilitari come i Proud Boys, il cui leader Enrique Tarrio è accusato di cospirazione sediziosa. Naturalmente i pesci piccoli sono già stati arrestati e processati, anche se il dipartimento di Giustizia è stato particolarmente indulgente nei loro confronti: a nessuno è stato finora contestato il reato di insurrezione, nonostante le migliaia di ore di filmati che documentano la violenza degli scontri tra manifestanti e polizia, il cui bilancio finale è stato di sette morti. Una inerzia che si spiega in un solo modo: a novembre si vota per la Camera dei rappresentanti e per un terzo del Senato; mandare sotto processo Donald Trump in questi mesi sarebbe un gigantesco spot elettorale a favore dei repubblicani, che potrebbero mobilitare i loro elettori per impedire il “processo politico”. Questa prudenza dell’amministrazione Biden è stata però compensata da un eccellente lavoro investigativo della Commissione della Camera, che stasera inizierà le sue audizioni pubbliche sul tentativo di colpo di stato. Audizioni che dovrebbero finalmente mostrare a un distratto pubblico americano quanto vicini si sia andati al caos istituzionale o alla guerra civile in quei giorni. Una delle cose che non si erano immediatamente capite, per esempio, è il fatto che in realtà l’eroe della giornata era stato il vicepresidente Mike Pence, un repubblicano conservatore e bigotto che però, nel momento cruciale in cui gli scherani di Trump erano già penetrati nel Campidoglio, si è rifiutato tassativamente di abbandonare l’edificio, permettendo gradualmente alla polizia di riprendere il controllo del Congresso e di proseguire le operazioni di certificazione della vittoria elettorale di Joe Biden. Senza questo passaggio istituzionale gli Stati uniti sarebbero precipitati nel caos. Pence (che gli squadristi volevano fisicamente impiccare) ha saputo dire “no” al momento giusto ma il fatto che senza il suo coraggio fisico e morale il golpe sarebbe riuscito ci dice quanto fragili siano le basi della democrazia che mezzo mondo prende a modello. Stati Uniti. California, cacciato dagli elettori il giudice che svuota le carceri di Federico Rampini Corriere della Sera, 9 giugno 2022 In America gli elettori di sinistra riscoprono lo slogan Law & Order. Nella città più progressista della California, San Francisco, l’egemonia dei democratici è schiacciante. Il 60% ha votato sì al referendum popolare per destituire il procuratore generale (una carica elettiva), sotto accusa per una politica giudiziaria permissiva, associata a un degrado spaventoso dell’ordine pubblico. Il magistrato cacciato dagli elettori, Chesa Boudin, è un’icona della sinistra più radicale, esponente di punta di un movimento delle “procure progressiste”. Ha svuotato le carceri teorizzando che i criminali sono vittime di un sistema ingiusto e razzista. In parallelo con l’ascesa di Black Lives Matter e dei suoi attacchi alla polizia, anche la magistratura militante si è schierata contro le forze dell’ordine. Queste ricette ora sono ripudiate dalla popolazione in molte città governate dai democratici. Boudin ha una biografia emblematica, che esibisce con orgoglio: è figlio degli “anni di piombo” americani. I suoi genitori erano terroristi rossi dell’organizzazione Weather Underground. Finirono in carcere per una rapina a mano armata del 1981 in cui furono uccisi due poliziotti e una guardia giurata. Chesa venne allevato da altri membri dell’organizzazione clandestina di lotta armata. Dopo l’università lavorò anche come interprete del leader socialista Hugo Chávez in Venezuela. Venne eletto alla guida della procura di San Francisco nel novembre 2019 con un programma radicale: de-carceration e stop alla detenzione su cauzione. Cominciò la caccia agli abusi della polizia, ai comportamenti razzisti dentro le forze dell’ordine. Il clima era segnato da Black Lives Matter, l’organizzazione radicale dell’antirazzismo già potente dopo l’uccisione dell’afroamericano Michael Brown da parte di un agente nel 2014 a Ferguson, Missouri. Il capitalismo digitale della Silicon Valley, Hollywood, il mondo della cultura e i media sostenevano i sindaci di sinistra che tagliavano fondi alla polizia. L’appoggio dell’establishment alle procure progressiste era generoso: vedi i 40 milioni di dollari versati dal miliardario liberal George Soros per le campagne elettorali dei magistrati più radicali. Il bilancio si è rivelato insostenibile in tutte le città dove la giustizia è in mano ai procuratori militanti. San Francisco figura insieme a New York, Los Angeles, Chicago e Philadelphia, tra le metropoli che hanno avuto un balzo del 30% negli omicidi già dal 2019 al 2020. Nel biennio successivo a San Francisco l’impennata degli assassinii è peggiorata: +37%. Sotto la gestione Boudin sono esplosi anche altri reati comuni come i furti di appartamento: +45% in un biennio. Le rapine nei negozi hanno ricevuto una sorta di legittimità politica, alla stregua di “espropri proletari”, quando le manifestazioni di Black Lives Matter degenerarono in saccheggi, razzie, assalti di gang organizzate che accumulavano bottini di oggetti di lusso. La certezza che la magistratura libera senza cauzione coloro che gli agenti arrestano in flagranza di reato, ha sconvolto quella che era stata una città sicura. Undici farmacie-supermercati della catena Walgreens hanno chiuso nel centro di San Francisco, falliti per troppe rapine. Boudin non persegue i furti se il valore è sotto i 950 dollari. Ha depenalizzato lo spaccio di droga, incluso il devastante Fentanyl. Nel 2021 in città i morti per overdose sono stati 640, più delle vittime del Covid. La tolleranza verso la criminalità diventa un magnete che attira comportamenti devianti: malgrado una nuova supertassa in favore dei senzatetto (300 milioni di gettito annuo) l’esercito degli homeless continua a crescere. Il centro storico di San Francisco è un accampamento sempre più vasto, dove le forze dell’ordine intervengono il meno possibile. L’insicurezza assedia soprattutto i quartieri popolari. Le minoranze etniche non si sentono tutelate: gli asiatici-americani, che all’origine avevano votato Boudin, lo hanno ripudiato in massa. La caduta di Boudin è solo la punta dell’iceberg. A Los Angeles si è lanciato in politica un imprenditore italo-americano, Rick Caruso, che promette più sicurezza nelle strade. New York ha fatto da apri-pista l’autunno scorso eleggendo come sindaco un Black, Eric Adams, ex capitano di polizia. Lo avevano plebiscitato le minoranze etniche nei quartieri più poveri, dove le forze dell’ordine si sono ritirate. Per ora il nuovo sindaco di New York fatica a riprendere il controllo della città: ha contro di sé un procuratore progressista contrario agli arresti, e l’intellighenzia bianca di Manhattan. La base del partito democratico però sembra rivalutare la tradizione degli anni Novanta: quando politici come Bill Clinton e lo stesso Joe Biden capirono che la sicurezza non è di destra.