“Se 1 detenuto su 3 è in custodia cautelare, qualcosa non funziona” di Luca Cereda vita.it, 8 giugno 2022 Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone e giurista: “Il 2° quesito referendario tocca il tema della carcerazione preventiva, un provvedimento straordinario del Diritto, che su spinta sociale è diventato una consuetudine in moltissimi, troppi, casi” Quando si pensa e si parla (ma anche quando si scrive) di misure cautelari viene subito in mente la più afflittiva - ovvero quella che più incidente sulla libertà dell’imputato o dell’indagato in un procedimento penale - non ancora condannato - tra quelle previste dal codice: la custodia in carcere. Non è l’unica misura, che è necessario ricordare può essere presa nei confronti di persone “non colpevoli fino a prova contraria”. Ci sono gli arresti domiciliari, la custodia cautelare in luogo di cura, il divieto e l’obbligo di dimora, il divieto di espatrio, l’obbligo di firma, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento alla persona offesa: tutte misure cosiddette “coercitive”. Poi ci sono quelle “interdittive”, che impediscono al soggetto colpito di esercitare ruoli e facoltà: la sospensione da un pubblico ufficio o servizio, la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale, il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione o di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali. Tra i cinque referendum per cui gli italiani potranno votare domenica 12 giugno (qui la nostra guida), il 2° propone la “limitazione delle misure cautelari attraverso l’abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale. Il quesito limita le possibilità di adottare misure cautelari (obblighi di firma, arresti domiciliari, ecc.), compresa la carcerazione preventiva, la più importante di tutte, il cui eccesso è un problema reale. Si interviene sulla tipologia della possibile reiterazione del medesimo reato, che in vari casi (ad esempio lo stalking, la truffa, reati fiscali e finanziari) appare però un pericolo obiettivo”. Patrizio Gonnella, da presidente dell’associazione Antigone, ma anche da giurista, la modifica al provvedimento previsto dal referendum, in che modo potrebbe incidere - venendo approvato - sull’ordinamento giuridico? Innanzitutto va detto che le misure cautelari, intervenendo prima di una condanna definitiva, si pongono a livello di diritto astrattamente in contrasto con la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione. Per applicarle quindi servono una serie di requisiti stringenti: il primo, quello più generico, è la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Il secondo è il riconoscimento, da parte del giudice, di una delle tre esigenze cautelari previste dall’articolo 274 comma 1 del codice di procedura penale. Ovvero quello su cui vorrebbe intervenire il referendum? Si anche perché le misure cautelari vengono assegnate se c’è il pericolo di inquinamento delle prove [Quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze (…) in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova” (lettera a)]; pericolo di fuga [Quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga” (lettera b)]; pericolo di reiterazione del reato [Quando (…) sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”]. Quest’ultimo motivo è quello che cadrebbe in caso di passaggio del referendum, rendendo più complesso il ricorso alle misure cautelari. Perché si vuole limitare il ricorso a queste misure? Oggi qual è l’impattano le misure cautelari che si riflettono direttamente anche sul sistema-carcere? Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia riferiti al 2021, meno del 10% delle 32.805 misure di custodia cautelare in carcere emesse nel corso dell’anno ha avuto come esito un’assoluzione definitiva (l’1,6%) o non definitiva, o un proscioglimento a vario titolo. A fronte di questi dati, c’è però il fatto che nel 2021 in Italia decine di migliaia di persone siano state private delle libertà in carcere, essendo ancora in attesa di giudizio. A loro si aggiungono circa 20mila persone ai domiciliari. Come Antigone, dai rilevamenti che facciamo nelle carceri nazionali ogni anno, riscontriamo che circa 1 detenuto su 3 è in cella, ma in attesa della condanna definitiva. La persona detenuta attraverso la misura di custodia cautelare è un detenuto con gli stessi diritti di chi è stato condannato in definitiva? Suo malgrado, no. Le persone a cui viene ristretta la libertà con la misura cautelare in carcere si trovano in una sorta di limbo: sono detenute, ma non hanno i diritti dei detenuti condannati per cui costituzionalmente il carcere ha il compito di provvedere alla creazione di percorsi rieducativi e riabilitativi. Quindi non possono aderire alle misure alternative o accedere ai servizi dell’area trattamentale perché sono in attesa di giudizio e quindi presumibilmente innocenti. Inoltre c’è un numero non indifferente di persone per le quali la custodia cautelare è una misura che viene giudicata ingiusta, e per la quale il legislatore prevedere la riparazione: sono stati 750 provvedimenti di risarcimento per detenzione in carcere nel 2020, poco meno di 600 nel 2021, con un esborso economico medio di 44mila euro a persona. Questo referendum è secondo lei è riuscito ad essere un’occasione - al di là di come andrà il voto del 12 giugno - per stimolare la coscienza civica degli italiani sul ruolo della giustizia e del carcere? Credo che serva un lavoro educativo e culturale, prima che giuridico e normativo, da compiere nel nostro Paese. I giudici sono condizionati in modo inevitabile della pressione sociale della politica, dei media e dei social-media. Dalla “cultura” del “devono marcire in galera” o ancora del “buttiamo via la chiave” riferendosi a persone indagate o imputate. Occorre quindi portare avanti un lavoro culturale che faccia permeare nelle coscienze degli italiani il senso civico del principio di presunzione d’innocenza, che tutela tutti. E poi dobbiamo lavorare sul far passare il fatto che la pena non sia una punizione per il reato commesso, ma il primo passo di un percorso di recupero e rieducazione per far rientrare il detenuto in società. Chi deve fare questo lavoro? I giuristi. Il referendum poteva essere un’occasione per nutrire la coscienza civica e critica degli italiani, ma non è stato così. A prescindere da quanti vadano a votare degli aventi diritto. Quello di promuovere la cittadinanza attiva è un compito che non si può affidare “solo” alle agenzie intermedie, dall’associazionismo al Terzo settore, fino alla scuola: in prospettiva spero che i partiti recuperino la funzione pedagogica di un tempo anche per quanto riguarda i diritti e il diritto. Oggi sono gli studiosi, i giuristi, i giudici, gli avvocati che devono iniziare a fare divulgazione sul diritto e sulle regole del vivere collettivo, un percorso che gli scienziati hanno dovuto compiere “accelerando” durante la pandemia, ma l’obiettivo è che ci siano divulgatori che affrontino questi temi. Lavoro per i detenuti, l’eredità di Carlo Smuraglia di Ilaria Sesana altreconomia.it, 8 giugno 2022 L’ex senatore e partigiano scomparso il 30 maggio ha dato il nome a una legge fondamentale che agevola l’assunzione di persone ristrette da parte di aziende e cooperative, con l’obiettivo di facilitare il reinserimento sociale. Lo strumento è utilizzato ma resta una forte disomogeneità territoriale. Ecco perché. La legge che porta il nome dell’ex senatore e partigiano Carlo Smuraglia (la numero 193/2000) nasce da una constatazione: “Nonostante la chiara indicazione costituzionale, all’articolo 27, che la pena è finalizzata alla rieducazione del condannato e nonostante l’ordinamento penitenziario del 1975 dedicasse un intero capitolo al lavoro in carcere i risultati erano modesti -ricordava lo stesso Smuraglia durante un evento online organizzato dal Garante dei detenuti di Milano il 30 giugno 2020. Di lavoro ce n’era poco e in questo modo veniva vanificato l’obiettivo della Costituzione”. Carlo Smuraglia, che in quel periodo ricopriva la carica di presidente della commissione Lavoro al Senato, diede avvio all’iter legislativo che ha portato all’approvazione di una norma innovativa che prevede per le aziende e le cooperative che assumono detenuti la possibilità di usufruire di un credito d’imposta (pari a 520 euro mensili per ogni lavoratore assunto) per tutta la durata del contratto lavorativo sia per quanto riguarda i detenuti che non possono uscire dal carcere, sia quelli che hanno la possibilità di lavorare all’esterno. Inoltre, i datori di lavoro possono continuare a usufruire del credito d’imposta anche per i primi sei mesi successivi alla scarcerazione. Un ulteriore vantaggio per imprese private e cooperative è dato dall’utilizzo in comodato d’uso gratuito dei locali e delle attrezzature presenti nelle carceri. “L’aspetto innovativo e geniale della ‘Legge Smuraglia’ è stato proprio la scelta di defiscalizzare gli oneri contributivi, in modo da abbassare il costo del lavoro in carcere incentivando così le imprese ad assumere i detenuti. E al tempo stesso garantendo ai ristretti uno stipendio equiparabile a quello di una persona che lavora all’esterno - spiega ad Altreconomia Lucia Castellano, che per vent’anni ha diretto carceri in diverse città d’Italia tra cui la casa di reclusione di Milano Bollate e oggi è Provveditore della Campania. Con la Smuraglia si affronta in maniera assolutamente corretta un problema annoso del lavoro in carcere, ovvero la ridotta produttività”. Una condizione legata alle specificità e ai tempi della quotidianità dei penitenziari italiani: tutto ciò che entra ed esce dai cancelli - dalle merci ai macchinari - deve essere ispezionato, i detenuti periodicamente incontrano i propri familiari e gli avvocati o devono recarsi in udienza perdendo così giornate lavorative. Tutto questo determina rallentamenti e limita la produttività. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 dicembre 2021, i cosiddetti “lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria” sono 2.305, pari all’11% del totale dei detenuti che svolgono attività lavorativa. Mentre poco meno di 17mila sono impiegati come cuochi, porta vitto, addetti alla pulizia o alla manutenzione degli edifici alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. “L’impressione generale è che la ‘Legge Smuraglia’ sia uno strumento piuttosto utilizzato, grazie a una copertura finanziaria che mette a disposizione risorse importanti -sottolinea Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone-. C’è però un’enorme disomogeneità nella distribuzione: e questo ci dice che gli incentivi sono fondamentali per portare il lavoro in carcere, ma non bastano: serve un tessuto produttivo forte sui territori che sia disponibile a sfruttare questa possibilità”. Per il 2020 il ministero della Giustizia ha stanziato 8,7 milioni di euro per il finanziamento della “Smuraglia”, che ha erogato sgravi contributivi a oltre 400 realtà tra imprese e cooperative sociali. A fare la parte del leone è il Provveditorato della Lombardia con oltre 3,2 milioni di euro distribuiti tra 109 attività nelle diverse carceri della Regione. Segue il Provveditorato che comprende Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige con 2,5 milioni e 38 attività lavorative. Da sole queste aree territoriali assorbono circa il 64% dei fondi messi a disposizione dal ministero. All’estremità opposta si collocano Regioni come la Calabria (che ha ottenuto circa 68mila euro e dove le attività presenti sono solo 11), la Sardegna (93mila euro e 19 attività), il provveditorato della Puglia-Basilicata (101mila euro e 14 attività). “Questa disomogeneità di distribuzione dipende dalle risorse e dalle ricchezze dei territori -riflette Scandurra. Poi dipende anche da quanto il singolo istituto è capace di aprirsi all’eterno e garantire una serie di servizi di cui l’azienda o la cooperativa ha bisogno. Nella mia esperienza posso dire che spesso questa ‘macchina’ si ferma ancora prima di essere messa in moto: quanto è facile per l’imprenditore fissare il primo appuntamento con il direttore? Ci sono istituti in cui noi, come Antigone, non riusciamo a parlare con il centralino anche per due o tre giorni”. Per Francesca Valenzi, direttrice dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato della Lombardia intervenuta in occasione del funerale dell’ex partigiano e senatore, la “Legge Smuraglia apre le porte alla speranza. Perché se è vero che l’articolo 27 della Costituzione punta alla rieducazione è vero che è difficile superare stigma e pregiudizi. Grazie a questa legge ogni giorno 130 persone del carcere di Bollate abbandonano lo status di detenuto per assumere quello di lavoratore e altri 60 nella casa di reclusione di Opera. Iniziare un vero percorso lavorativo durante l’esecuzione penale abbatte significativamente la recidiva e va a vantaggio di tutta la società”. “La legge è uno strumento molto importante - aggiunge Castellano - poi sta all’amministrazione lavorare per cambiare la cultura e darle concretamente gambe. Servono campagne di comunicazione per farla conoscere sempre di più perché molti imprenditori non sanno di questa possibilità. Quando ero direttore nella casa di reclusione di Bollate abbiamo investito molto in questo senso e adesso sto provando a fare lo stesso qui in Campania: il lavoro è uno strumento potentissimo per il reinserimento sociale e per evitare che l’ex detenuto, una volta in libertà, torni a commettere reati”. Altro elemento di innovazione suggerito da Castellano è quello di “provare ad adeguare i tempi del carcere a quelli della società esterna: non è pensabile che i prodotti necessari per una lavorazione restino bloccati per ore all’ingresso - riflette. Occorre iniziare a pensare a come organizzare il tempo del carcere attorno al lavoro, ad esempio organizzando i colloqui con i familiari durante i giorni festivi”. Domenica il referendum sulla giustizia: partiti divisi, la vera sfida è sul quorum di Conchita Sannino La Repubblica, 8 giugno 2022 Comunali e consultazione lo stesso giorno: cinque schede per cinque colori, dalla cancellazione della legge sulla incandidabilità dei condannati alla separazione delle funzioni. La polemica: Lega e FdI denunciano la “cappa di silenzio”, appello a Draghi e Colle. Più che “sul merito”, è una campagna elettorale sull’audience quella per i cinque referendum sulla giustizia che domenica - urne aperte dalle 7 alle 23 come per le elezioni amministrative in 978 Comuni - andranno al voto. Cinque schede, per cinque colori. E una polemica, che si trascina da giorni, e che vede protagonista tutto il centrodestra. A partire dalla Lega, che un anno fa ha “sposato” la causa dei Radicali e ha sottoscritto i sei referendum sulla giustizia. La Consulta, a metà febbraio, non ha ammesso quello sulla responsabilità civile diretta dei giudici, così come ha bocciato quelli su eutanasia e cannabis. Di certo i più “popolari”: basti pensare che nel lontano 1987 la responsabilità civile diretta chiesta da Marco Pannella a ridosso del caso Tortora conquistò l’80,21% di sì. Ma ora la polemica è sulla (presunta) “cappa di silenzio”, come la chiamava ieri Giorgia Meloni, che sarebbe precipitata sui referendum, con lo scopo recondito di “far abbassare il quorum”. La leader di FdI parla come Matteo Salvini che da giorni lamenta “la censura e il bavaglio” che avrebbero investito i quesiti, al punto da chiedere “aiuto” a Draghi e Mattarella, e accusando la sinistra di “nascondere” i referendum con l’obiettivo “di avere magistrati politicizzati con cui provare a vincere se perdono le elezioni”. Premesso che, come ha scritto su Questione giustizia, rivista online di Magistratura democratica, il direttore Nello Rossi, “non recarsi ai seggi (o rifiutarsi di ritirare le schede) è una opzione non solo libera, non solo legittima, ma pienamente rispondente alla logica propria del referendum abrogativo”, la polemica del centrodestra riguarda più il quorum che il merito. È un fatto che i sondaggi danno scarse chance ai referendum di superare il 50% dei votanti. Ed è altresì un fatto che l’oggetto dei referendum sia assai tecnico. Basta scorrere le schede. “Rossa” per cancellare la legge Severino sull’incandidabilità dei condannati. Arancione per limitare la custodia cautelare durante le indagini preliminari. Gialla, per bloccare la possibilità che giudici e pm passino da una funzione all’altra. Grigia, per dare il diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari. Verde per sopprimere le norme che impongono un minimo di 25 firme per candidarsi al Csm. Giusto ieri Silvio Berlusconi, da sempre un fan della separazione delle carriere, invitava “gli italiani a votare”. Mentre il leghista Roberto Calderoli, in sciopero della fame per via del (presunto) silenzio, dava notizia di aver perso 5 chili in 7 giorni. Ma il centrodestra non dice che giusto tre giorni dopo il voto, al Senato la maggioranza, centrodestra compreso, dovrà dare il voto finale alla riforma del Csm della Guardasigilli Marta Cartabia che affronta più d’uno dei quesiti del referendum, sicuramente il più popolare, la separazione delle funzioni. E consente un solo passaggio da giudice a pm. Così come permette agli avvocati di esprimere la loro valutazione sui magistrati nei consigli giudiziari. Ed elimina le 25 firme per candidarsi al Csm. Di fatto superando anche tre dei cinque quesiti posti con il referendum, sempre che si raggiunga il quorum. Ma i referendum abrogativi servono davvero a qualcosa? di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 8 giugno 2022 Il fallimento per mancanza di quorum, cioè della indispensabile maggioranza assoluta dei votanti, di un numero considerevole di referendum soprattutto negli ultimi vent’anni, sembrerebbe segnalarne l’inutilità, la perdita, secondo alcuni, irrimediabile, di incisività. Sono anni che il dibattito politico italiano si agita in maniera carsica fra una molteplicità di poli lungo una linea che va dall’assoluta importanza del referendum come strumento di democrazia diretta alla assoluta inutilità del referendum come modalità per il miglioramento della legislazione e la soluzione di problematiche complesse. Per una volta mi calerò nel ruolo, per me inappropriato e scomodissimo, di cerchiobottista, e argomenterò che entrambe le posizioni estreme corrispondono alla realtà effettuale. In generale, il referendum è uno strumento di partecipazione efficace corroborato da molti esempi italiani: divorzio, interruzione di gravidanza, scala mobile (1985), leggi elettorali. Informati dai proponenti e, in parte, mobilitati dagli oppositori, i cittadini italiani si sono spesso fatti un’idea e la hanno riversata con efficacia nelle urne. È una storia abilmente e convincentemente ripercorsa nei dettagli dal costituzionalista (anche protagonista) Andrea Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022) (il Mulino 2022). Di contro, il fallimento per mancanza di quorum, cioè della indispensabile maggioranza assoluta dei votanti, di un numero considerevole di referendum soprattutto negli ultimi vent’anni, sembrerebbe segnalarne l’inutilità, la perdita, secondo alcuni, irrimediabile, di incisività. Di qui alcune proposte per superare il requisito del quorum. La più convincente è quella che lo vorrebbe calcolato con riferimento alla percentuale di coloro che hanno votato nelle più recenti elezioni politiche. Non è, però, solamente con i numeri e le percentuali che il referendum deve fare i conti. Per quanto sgradevole, in special modo per chi crede, come il sottoscritto, che il voto davvero “è dovere civico” (art. 48), e che in nessun modo una democrazia deve premiare gli apatici e gli astensionisti, sembrerebbe inoppugnabile che una legge approvata dalla maggioranza assoluta dei parlamentari, rappresentanti del popolo, non possa essere abrogata da una minoranza di elettori per quanto “intensi”. Soprattutto, deprecabile è che a incitare all’astensionismo siano, senza dimenticare il leggendario cardinale Ruini (referendum sulla procreazione assistita, 2005) e alcuni giornalisti/opinionisti d’assalto, proprio i politici che, poi, frequentemente, piangono calde lacrime da coccodrilli sulla bassa partecipazione alle elezioni, in particolare, quelle politiche. Molto più comprensibile e spesso anche condivisibile è la critica, non tanto al referendum in sé, ma alle materie alle quali lo applicano i promotori. Di questo difetto sono stati passibili non soltanto i radicali i quali portano la responsabilità di avere ecceduto con le loro “raffiche” di referendum. So che la replica ne sostiene la liceità anche alla luce della quantità di firme raccolte, indicanti una “necessità” sentita. Piuttosto, in definitiva, la mia critica va, non tanto alle materie sulle quali è costituzionalmente possibile promuovere un referendum, ma al fatto che l’abrogazione di una legge o di sue parti non garantisce quasi mai una soluzione immediatamente accettabile. Il cerino acceso torna, come nel caso di tutt’e cinque i quesiti sull’amministrazione della giustizia, nelle mani degli stessi parlamentari che non hanno saputo trovare soluzioni condivise, convincenti. Toccherà poi a loro interpretare il senso del verdetto referendario, talvolta con l’aiuto della Corte Costituzionale. Con (non) buona pace dei promotori e degli elettori. *Accademico dei Lincei I referendum mostrano la debolezza della politica e la forza della magistratura di Lorenzo Castellani Panorama, 8 giugno 2022 Il silenzio sui referendum è il simbolo di una politica fondamentalmente debole, in cui i leader non sono disposti a rischiare e in cui il sistema dell’informazione preferisci girarsi dall’altra parte. Il fronte a favore del SI per tutti e cinque i quesiti che riguardano la giustizia è ampio, ma i partiti sembrano aver perso interesse. La Lega appare concentrata soltanto sulle questioni economiche interne e internazionali, lo stesso vale per Forza Italia e i partiti centristi (Italia Viva e Azione). Giorgia Meloni si è messa a fare distinguo, atteggiamento che non aiuta la spinta al referendum. La leader di Fratelli d’Italia si era schierata a favore della separazione delle carriere dei magistrati, dell’eliminazione delle firme per le candidature al Csm e della possibilità per gli avvocati di valutare l’operato dei magistrati, ma si è detta contraria sia alla limitazione della custodia cautelare sia all’abolizione della legge Severino. Il Partito Democratico ha scelto la linea neutra, libertà di voto per gli elettori, che nel caso di un referendum significa schierarsi contro il raggiungimento del quorum di fatto. Mentre il Movimento 5 stelle è sempre stato contrario al referendum e dunque predica astensione. Ma anche la società civile - associazioni, fondazioni, gruppi, giornali - sembrano aver perso mordente sul tema. Forse nessuno crede che il quorum sia raggiungibile, d’altronde le amministrative non includono in questo anno i comuni più grandi e non c’è una grande trazione politica in questo momento. La crisi Ucraina e la crescita dell’inflazione hanno monopolizzato il dibattito politico uccidendo in culla il referendum. Al tempo stesso, però, è evidente che nessun leader politico abbia voluto mettere fino in fondo la faccia sulla questione della giustizia. Le incerte elezioni del 2023 si avvicinano e nessuno intende farsi bollare come lo sconfitto della consultazione referendaria, su tutti un Salvini in difficoltà nei sondaggi. Inoltre, nessuno dei leader dei grandi partiti vuole rotture interne in questo momento, cioè in una fase in cui i partiti sono già abbastanza difficili da tenere uniti di fronte alle riforme del Pnrr, la guerra in Ucraina, la crisi economica entrante, e ciò spiega gli atteggiamenti prudenti di Letta e Meloni. Ma anche chi si oppone come Giuseppe Conte e il suo partito, in difesa di un certo giustizialismo e del corporativismo di categoria, rischia di ricavare poco dal fallimento del quorum. Pur se non pronti a mobilitarsi, la stragrande maggioranza degli italiani vede il funzionamento della giustizia come un’anomalia, un problema politico mai risolto. La difesa dello status quo a prescindere, dunque, rischia di pagare un dividendo ridotto sul piano del consenso elettorale. C’è poi il fattore paura per il modus operandi della magistratura inquirente, se il referendum passasse per la spinta di alcuni leader politici dopo quanto poco tempo tutti o alcuni di loro si ritroverebbe sommersi da avvisi di garanzia e futuri processi? Non importerebbe l’esito, ma l’indagine ad libitum del pm è già abbastanza per intimidire la campagna elettorale. Berlusconi, Renzi, Salvini, per non citare numerosi ministri vicini a questi leader, sono già passati o stanno passando per le forche caudine delle indagini dei magistrati. Un potere aggressivo e, in alcuni fasi del rito, sostanzialmente arbitrario è difficile da riformare con la democrazia. Da ultimo, spesso il referendum viene utilizzato come strumento di pressione per far agire il Parlamento. In questo caso però il risultato è modesto perché la riforma Cartabia è un compromesso a ribasso, almeno per quanto riguarda le questioni di governo della magistratura. La riforma non cambia quasi nulla del rapporto tra magistratura e politica, non tocca nessuno dei privilegi dei magistrati. Lascia intatto il loro potere. Anomalo, invasivo, troppo spesso fuori controllo. I referendum, pur promossi con buoni propositi da Lega e radicali, quasi certamente non raggiungeranno il quorum. L’equazione del potere distorto è sempre la stessa: politica debole e corporazione giudiziaria forte. Sarà così anche questa volta, nonostante la possibilità data ai cittadini di esprimersi. Aspettando i referendum sulla Giustizia di Desi Bruno bolognaforense.net, 8 giugno 2022 Come è noto, a seguito del vaglio di ammissibilità della Corte Costituzionale, il 12 giugno 2022 si svolgeranno cinque referendum abrogativi sulla giustizia, in concomitanza con le elezioni amministrative che interessano 981 comuni, di cui 26 capoluoghi di regione e provincia. La concomitanza con il turno elettorale può favorire il raggiungimento del quorum necessario per la validità del voto referendario ex art. 75 co. 3 Cost., e cioè la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto e la maggioranza dei voti validi dei votanti. Da sempre, ma non sempre, l’istituto referendario, come strumento di democrazia diretta, ha fatto fatica a trovare una sua collocazione nella vita politica del paese, anche per la difficoltà dei cittadini di comprendere il significato tecnico-giuridico dei quesiti e la non sempre puntuale informazione fornita dai mass media. La Corte costituzionale ha invece dichiarato inammissibile il quesito relativo alla responsabilità diretta dei magistrati per errori compiuti nell’esercizio della loro attività, tema molto sentito non solo dai promotori dei referendum, Lega e Partito Radicale, ma soprattutto dai cittadini che si erano già espressi con chiarezza l’8 novembre 1987 quando analogo quesito riportò l’80% dei consensi. Successivamente il Parlamento ha varato la legge n. 117/1988 “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, nota come legge “Vassalli”, che prevede non una diretta responsabilità del magistrato, ma quello dello Stato, con possibilità di rivalersi poi sul magistrato nella misura di un terzo dello stipendio annuale. Sul punto ad oggi nulla è cambiato. I quesiti referendari riguardano: L’elezione al CSM Consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno dei magistrati, composto per due terzi da magistrati eletti. Il quesito riguarda l’abrogazione della necessaria raccolta di un certo numero di firme (da 25 a 50) da parte del magistrato che vuole candidarsi. Secondo i proponenti ciò comporta la necessità di addivenire a patti con le correnti associative della magistratura, a discapito di competenza e professionalità di chi verrà scelto. Il tema, che ha incontrato un crescente interesse a seguito in particolare della vicenda dell’ex giudice Palamara e delle sue rivelazioni sui meccanismi correntizi di scelta dei magistrati, potrebbe essere risolto in anticipo in sede legislativa, a seguito di presentazione di disegno di legge delega n. 2681 oggetto di attuale dibattito politico e parlamentare. Altro quesito che forse non vedrà il voto alle urne se venisse disciplinato in sede legislativa è quello relativo alla valutazione dei magistrati in sede di Consiglio giudiziario anche da parte dei rappresentanti dell’Università e dell’Avvocatura, oltre a quella dei magistrati, in rappresentanza della componente laica del CSM. Si tratterebbe di una innovazione importante, perché consentirebbe, sotto altro profilo, di monitorare l’andamento in concreto dell’attività giudiziaria, nell’ottica non certamente di un pericoloso controllo dei singoli componenti togati, ma per valorizzare un principio di responsabilità che deve valere per tutte le categorie e professioni. Al momento però la previsione normativa non ha carattere precettivo e si tratta quindi di seguire il cammino della legge delega attualmente in commissione referente. Terzo quesito, anche questo dal destino incerto, ma di importanza vitale per la riforma della giustizia è quello relativo alla distinzione definitiva tra la funzione giudicante e requirente, al fine di consolidare la terzietà effettiva della giurisdizione ed eliminando il meccanismo delle cd. “porte girevoli”, che consentono, sia pure oggi con qualche limite, il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. La separazione delle carriere è peraltro una delle battaglie storiche dell’Unione delle Camere penali e mira a rendere effettiva la parità tra accusa e difesa sancito dall’art. 111 Cost., come vuole il processo di stampo accusatorio introdotto nel 1989 nel nostro sistema e mai compiutamente realizzato, evitando commistioni di ruoli che possono pregiudicare l’equidistanza del giudice dalle parti. Si tratta di una riforma forse tra le più invise alla magistratura (ma non a tutti), demonizzata con il rischio paventato di una minaccia all’autonomia della magistratura, che così verrebbe ad essere sottoposto al potere esecutivo. Questo rischio, è bene ribadirlo, non esiste, ed anzi ormai è comune sentire che la separazione possa solo avvantaggiare il ruolo e l’indipendenza della magistratura giudicante e il ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti delle persone coinvolte nel processo penale. Al momento i passaggi possibili sono quattro, che verrebbero cancellati da un eventuale esito positivo del voto in senso abrogativo, mentre la previsione in DDL è di un unico passaggio tra le funzioni, con immediata portata precettiva. Il referendum riguarda anche il tema delicato della custodia cautelare, nel senso che il quesito proposto vuole limitare l’uso della carcerazione durante il giudizio prima del riconoscimento definitivo della colpevolezza ed evitare l’annoso problema delle ingiuste detenzioni (solo nel 2020 sono state 750 con grave danno anche economico per lo Stato che deve riconoscere l’indennizzo). Su questo tema non è previsto alcuna riforma in sede parlamentare. L’Italia continua ad avere un alto tasso di carcerizzazione di persone in custodia cautelare, circa il 31% della popolazione detenuta, un detenuto su tre. In caso di vittoria del si verrebbe meno la possibilità di applicare la custodia cautelare in ragione di una “possibile reiterazione del reato”, ad eccezione dei reati di particolare gravità come quelli descritti nella prima parte della lett. c dell’art.274 cpp. come delitti di criminalità organizzata, contro l’ordine costituzionale oppure con uso di armi, ecc., mentre sarebbe sempre possibile nel caso che ricorrano gravi indizi di reato e il pericolo di fuga o di inquinamento probatorio. Non corrisponde a verità quindi il tentativo di delegittimare il quesito con una presunta impossibilità di impedire la commissione di reati, essendo circoscritta l’abrogazione della norma e consentendo l’applicazione della custodia cautelare estrema nei casi di maggior allarme sociale durate il processo. Il quinto quesito referendario riguarda la legge Severino, che prevede la incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi a norma dell’art. 2 comma 63 legge 190/2012. Prevede altresì la sospensione di chi eletto venga successivamente condannato con sentenza anche non definitiva. Trattasi del quesito forse meno comprensibile dai cittadini, ma che mira ad evitare rigidi automatismi e, in particolare, per la efficacia retroattiva della normativa, che vengano sospesi dalle funzioni soprattutto amministratori locali (come è successo in passato), poi nel tempo assolti ma ormai irrimediabilmente danneggiati. Neppure per questo quesito è prevista alcuna modifica normativa in sede legislativa. Dunque, è possibile che a fronte dell’iniziativa legislativa volta a superare la necessità di almeno due dei cinque quesiti referendari, si riduca la portata degli stessi. Un autorevole commentatore come il prof. Sabino Cassese, sul “Corriere della Sera”, ha in questi giorni definito le riforme sulla giustizia in cantiere (parlamentare), comprensive di quelle relative alla separazione delle funzioni e alla riforma dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso in modo comunque positivo perché , in ogni caso, si è avviato un progetto riformatore che pone al centro questioni concrete, come l’aumento della efficienza, la riduzione del carico processuale, una diversa valutazione della professionalità dei magistrati, ecc. . Ciò è indubbio, ma non si può non notare come le proposte del Parlamento relative al sistema elettorale del CSM potrebbero non essere in totale sintonia con il quesito per cui sono state raccolte le firme dei cittadini e si sono spesi nella presentazione i Consigli regionali proponenti. Stesso ragionamento vale per il tema della separazione delle funzioni tra magistratura giudicante e requirente. Ancora una volta, forse, gli strumenti di democrazia diretta serviranno più come spinta alle riforme concordate in sede di politica legislativa che a dar parola ai cittadini sui quesiti ammessi dalla Corte costituzionale. I referendum sulla giustizia vogliono abrogare senza risolvere di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2022 Il dubbio amletico più che sulla risposta da dare ai quesiti referendari, o recarsi fisicamente al voto (il superamento del quorum per il referendum abrogativo potrebbe non essere raggiungibile neanche calcolando chi potrà partecipare alle simultanee elezioni amministrative nell’election day del 12 giugno), riguarda anche un altro punto di osservazione. I quesiti sulla giustizia non sono stati proposti da generici comitati di cittadini, bensì da giunte regionali politicamente caratterizzate a destra che, per i temi coinvolti, incrociando il loro destino con quello della riforma tentata dalla ministra Marta Cartabia, sono stati utilizzati, finché era utile, come strumento di pressione sul governo e sulle forze di maggioranza. E un altro aspetto non meno rilevante: la Corte, ammettendo i quesiti, tende a confondere ormai apertamente oggetto e soggetto degli stessi perché, implicitamente, favorisce che il referendum diventi un altro modo di positivizzare il diritto. Vale la pena, dunque, insistere su questo aspetto, anche per valutarne le interferenze, i boomerang e le ricadute ordinamentali. Sorvolo sull’abolizione della legge Severino e quella sul limite alle misure cautelari per la reiterazione del reato per via, nel primo caso, dell’immagine di mafiosità e corruttela da qui all’eternità che ne deriverebbe agli occhi di qualsiasi investitore; nel secondo, circa le molestie, i maltrattamenti e gli atti persecutori, a ritenerne irricevibile, per tutte le donne, perfino il pensiero. Per quelli sulla giustizia sono state istituite tre commissioni: per la riforma del processo civile, del processo penale, del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Sulla spinta del Pnrr, quelle concernenti i due riti processuali sono state approvate con relativa semplicità; la terza, dopo che la proposta formulata dalla Commissione guidata da Massimo Luciani è stata sostituita senza tanti complimenti dalla ministra, ha un testo insufficiente. Il referendum invece abroga ma non risolve. La nuova formula sarà in grado di contenere gli abusi del correntismo? Ma davvero pensiamo che sia con la sola forza del diritto che può ottenersi un simile risultato? Sui consigli giudiziari, la proposta referendaria persegue l’obiettivo di coinvolgere con voto deliberativo la componente laica, professori e avvocati, nella valutazione della carriera del magistrato equiparando questi organi a quello del Csm, cui spetta la parola definitiva. Tuttavia, il referendum potrebbe avere effetti controproducenti: si pensi all’avvocato componente del consiglio che, in un processo, incroci il magistrato su cui ha espresso un giudizio negativo o non favorevole. Sul punto il referendum interferisce con la riforma Cartabia, che però vi interviene in maniera molto moscia. Il più rilevante e mediatico resta il referendum sulla separazione delle funzioni requirente e giudicante. L’obiettivo però, nonostante la pubblicità ingannevole che se ne dà, non è la separazione delle carriere, che avrebbe rilievo costituzionale. Il quesito ammesso, nella sua complessità, persegue lo scopo di impedire totalmente il passaggio dalle giudicanti alle requirenti e viceversa. Sul punto, invece, la riforma Cartabia prevede un solo passaggio per tutta la carriera del magistrato, previo corso di preparazione professionale e previo parere del Csm. Anche in questo caso, si dovrà valutare fino a che punto la riforma, una volta giunta in Parlamento, corrisponda al “verso” del quesito abrogativo. Nel complesso i referendum sulla giustizia sono stati un’occasione persa: sia per i promotori, sia per il Parlamento e la riforma. Oltre i tempi incerti dei decreti attuativi, contribuirà solo in minima parte a risolvere i nodi più gravi in cui è imbrigliata la magistratura, senza riabilitarne la reputazione che non è facile recuperare, anche per la politica della polvere sotto il tappeto condotta sinora. Di sicuro tutto ciò nuoce ai cittadini e ai magistrati. E quindi disertare le urne diventa un altro modo per fare politica. E non basterà prendersela con la mancanza di spazi nei media nazionali. Il referendum rischia, così inteso, di non essere più un dispositivo per fare pronunciare gli elettori su una legge, ma uno strumento giocato dai partiti per le loro finalità-partito. La dinamica impressa al fenomeno dell’astensione dal voto è essa stessa prova più evidente della volontà popolare. Forse, per taluni, un’arma impropria per vincere qualsiasi referendum. Oggi però accade qualcosa di singolare. La disaffezione politica viene sfruttata dagli stessi promotori affinché il voto fallisca, senza ovviamente incitare a farlo, per raggiungere gli obiettivi perseguiti di pressione. Si potrà sempre dire “ci hanno impedito di sentire il popolo…”. Ecco perché il tavolo su cui si giocano le sfide che contano non è più quello del 12 giugno, ma l’altro, quello dei rapporti con i partiti e tra gli schieramenti, o quello con il governo del Paese. Così facendo, però, si continua a giocare con il fuoco. Il consenso dei cittadini è una cosa molto seria con effetti inattesi contro chi ne abusa. Rispetto pertanto ad una riforma che dovrebbe essere un esempio di celerità attuativa per via del Pnrr, i quesiti referendari appaiono francamente ridondanti e perfino stridenti con la sua stessa ratio. Con il rischio di dovere innescare un successivo processo di adattamento legislativo e tempi parlamentari che ne vanificherebbero il senso e l’urgenza. Insomma, una bella baraonda. Occorrerebbe, piuttosto, soffermarsi con attenzione sulle criticità della riforma Cartabia con l’apertura mentale necessaria e sufficiente per accogliere, con animo scevro da pregiudizi, utili suggerimenti: a partire dal rischio, già oggi tangibile, che l’ansia da smaltimento dell’arretrato giudiziario comporti motivazioni sommarie in sentenza, conseguenti massicci ricorsi in appello, improcedibilità pressoché certa. In una parola: denegata giustizia. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Le bufale delle procure inquinano la campagna del referendum di Piero Sansonetti Il Riformista, 8 giugno 2022 Il capo della Procura di Trieste sostiene che se vince il Sì al referendum lui non può più arrestare le bande di trafficanti di droga. Falso. Riccardo Magi (+Europa) chiede l’intervento di Cartabia. L’esito dei referendum sulla giustizia sarà probabilmente condizionato da due elementi negativi. Il primo è il Grande Silenzio decretato dalla Rai e dai principali giornali indipendenti. Il secondo è lo spargimento di balle. Azione nella quale sono ben attivi gli stessi giornali indipendenti e le Procure. (Naturalmente ai giornali indipendenti, che Travaglio chiama sempre i giornaloni, si affiancano i giornali dichiaratamente fiancheggiatori delle procure, come proprio il giornale di Travaglio, che fa da avanguardia a tutti). Uso la parola Procure e non la parola magistratura perché sono cose diverse. L’ultimo sciopero, fallito, proclamato dal Anm (cioè dal partito delle Procure) ha dimostrato che un po’ più di metà della magistratura è contro il partito delle Procure e probabilmente vedrebbe di buon occhio una riforma democratica che ristabilisca lo Stato di Diritto, freni lo strapotere e l’attitudine a sopraffare di molti Pm, e riporti la magistratura alla sua funzione e al suo prestigio. Probabilmente molti magistrati voteranno sì ai referendum. Nella campagna contraria al Sì, basata sullo spargimento di balle (che è la traduzione in italiano del termine inglese fake news) si distinguono alcuni Procuratori. Ieri si è lanciato alla testa della pattuglia battagliera filotravaglista, il Procuratore capo di Trieste. Cioè un personaggio molto importante nella vita pubblica, e con il potere - se coltiva i buoni rapporti che il genere i Procuratori hanno coi loro colleghi Gip - di mettere in prigione chi vuole lui e di tenercelo per diversi mesi. Il Procuratore di Trieste teme che questo suo potere possa essere limitato da uno dei referendum, Precisamente dal numero 2, quello sulla carcerazione preventiva. Il Procuratore ieri ha dichiarato - esaltando una operazione giudiziaria con 38 arresti per traffico di droga - che se passerà il referendum sulla carcerazione preventiva questi 38 spacciatori presunti dovranno essere liberati. Non è vero. È, appunto, una balla. È una balla che si ispira a simili balle dette e scritte molte volte in questi mesi da diversi esponenti del fronte manettaro (non uso questa parola come epiteto, mi serve solo a indicare quelli che vorrebbero aumentare e non diminuire il numero delle custodie cautelari, e che sono contrari a misure liberali). La cosa abbastanza grave è che questa balla venga messa in giro da un Procuratore. Possibile, mi chiedo, che questo procuratore ignori le norme sulla carcerazione preventiva? Sarebbe molto grave. E se invece le conosce, perché ha raccontato questa balla? Lo ha fatto consapevolmente? Se esistesse davvero un organismo di autogoverno della magistratura, sarebbe logico che intervenisse per capire come è potuta succedere una cosa così. E per prendere poi i provvedimenti del caso. Purtroppo questo organismo non esiste. Esiste un consesso, chiamato Csm, domina dalle correnti delle Procure, che si occupa di dividersi il potere ma non di amministrare la giustizia. La riforma Cartabia non cambierà quasi niente in questo stato di cose. E purtroppo, persino il referendum, tecnicamente, cambierà molto poco nel funzionamento del Csm. Del resto i margini che la Costituzione lascia ai referendum abrogativi sono molto stretti. Servirà comunque a dare un segnale. Veniamo alla carcerazione preventiva. Dice il procuratore di Trieste (copio dal Fatto Quotidiano online le sue dichiarazioni): “Gli arrestati dovrebbero essere messi in libertà con tante scuse del popolo italiano: questa è la norma che si intende abrogare. Le misure cautelari cadrebbero tutte per reati come il traffico di droga, a prescindere dalle quantità mostruose, se non vengono eseguiti in violenza alle persone, e quindi ricadrebbero nell’alveo abrogativo del referendum”. Se il 12 giugno vincessero i sì, infatti - spiega Il Fatto - diventerebbe impossibile disporre qualsiasi misura cautelare - non soltanto il carcere - motivandola con il rischio che l’indagato, o imputato, commetta di nuovo il reato di cui è accusato, o altri simili, “se questi non implicano l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”. Non è così. Vogliamo andare a vedere come sarà davvero legge dopo l’abrogazione di una parte del punto C dell’articolo n. 274 del decreto del Presidente della Repubblica n.447 del settembre 88? Dice testualmente il nuovo articolo 274: “Le misure cautelari sono disposte quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o da suoi precedenti penali, sussiste il concreto (e attuale) pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata”. Capito? Il Procuratore si è dimenticato di scrivere nella sua dichiarazione quelle quattro paroline: “delitti di criminalità organizzata”. Se il Procuratore ha fatto arrestare 38 persone per traffico internazionale di droga, non c’è dubbio che si tratta di un’accusa di criminalità organizzata. Quindi la sua tesi, secondo la quale il referendum impedirebbe gli arresti, è una fake. È grave la fake. Ed è anche molto grave il fatto che un Procuratore, nell’esercizio della sue funzioni, usi i risultati del suo lavoro investigativo per fare campagna elettorale. Credo sia un fatto senza precedenti. Il deputato di +Europa, Riccardo Magi, ieri ha chiesto l’intervento della ministra Cartabia, ed effettivamente questo è proprio un caso classico nel quale l’intervento del ministero - di fronte alla probabile immobilità del Csm - è inevitabile. Referendum 2022, il primo quesito: abolizione del decreto Severino di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2022 La norma del 2012 impone la non candidabilità e la decadenza per chi ha condanne definitive superiori a due anni. Per gli amministratori locali basta anche una condanna in primo grado per la sospensione. Quando fu approvato definitivamente - era il 31 dicembre 2012 - il decreto legislativo Severino si conquistò le prime pagine dei giornali ed ebbe una grande risonanza internazionale. Era una pietra miliare nella lotta alla corruzione. E nell’imporre una piena garanzia di trasparenza ai suoi organi politici rappresentativi - dalle Camere a scendere verso i più piccoli Comuni - l’Italia metteva a segno un passo importante. Nell’ambito di una legge sulla corruzione firmata dall’allora prima Guardasigilli donna, l’avvocata Paola Severino, ecco un decreto che imponeva la non candidabilità e la decadenza nei Parlamenti italiano ed europeo, e anche nel governo, per tutti coloro che fossero stati definitivamente condannati a due anni, nonché la sospensione per gli amministratori locali, ma nel loro caso anche per una condanna non definitiva. L’anno dopo, il 27 novembre 2013, il decreto Severino fece la sua prima “vittima”, per giunta eccellente, perché il Senato votò la decadenza di Silvio Berlusconi, condannato ad agosto di quell’anno per frode fiscale a 4 anni nel processo Mediaset. Adesso, con sole quattro righe, Radicali e Lega vogliono cancellare del tutto il decreto Severino. Il quesito è secco: “Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235?”. Il Sì lo cancella per sempre. Il No lo salva. Altrettanto lo salva l’eventuale mancanza del quorum. Se i votanti non superano il 50% anche di un solo punto il referendum “muore” automaticamente. Come si sono schierati i partiti? Il Sì arriva dai proponenti, Lega e Radicali. Sì convinto anche da Forza Italia, e pure da Azione di Carlo Calenda. Sì dei renziani. È contraria invece Fratelli d’Italia. Come anche Pd e M5S. Ma nel Pd va registrata la dissidenza degli amministratori locali. Come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Il quale sostiene che non sia accettabile la sospensione di un sindaco o di un assessore solo a seguito di una condanna in primo grado per reati minori. Tra i quali fa la parte del leone l’abuso d’ufficio, anche se progressive modifiche ne hanno via via attenuato la portata. La sospensione, in vista di una condanna che potrebbe anche non esserci, secondo Gori, “è contro il principio della presunzione di innocenza”, tant’è che il Parlamento avrebbe già dovuto cambiare la legge, “ma non l’ha fatto”. A Repubblica, a marzo, subito dopo il via libera della Consulta a cinque degli otto referendum (inammissibili invece eutanasia, cannabis, responsabilità civile diretta dei giudici), l’ex Guardasigilli Severino ha ipotizzato possibili modifiche proprio sulla sua legge: “Ho sempre detto che le norme vanno monitorate. Se l’applicazione di quella legge, specie in riferimento all’abuso di ufficio, ha portato a constatare che molte di quelle sentenze venivano modificate in appello, è legittimo che si suggerisca una modifica. Poi ci sono anche altri progetti in corso”. Ma in ben due occasioni - nel 2015 e nel 2016 - la Corte costituzionale ha affrontato due ricorsi contro la legge, rispettivamente dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, e del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Condannati entrambi in primo grado per abuso d’ufficio contestavano, rispettivamente, il primo la validità della legge anche reati commessi prima della sua approvazione, e il secondo la disparità di trattamento tra parlamentari nazionali e amministratori locali, i primi costretti a lasciare l’incarico dopo una condanna a due anni, i secondi sospesi anche dopo il primo grado di giudizio. La Consulta - con due sentenze firmate dall’amministrativista Daria de Pretis - ha bocciato i ricorsi. Nel caso De Magistris perché l’applicazione retroattiva era possibile trattandosi di una garanzia dell’effettiva trasparenza delle funzioni pubbliche. Nel caso De Luca invece la diversità delle funzioni giustificava a sua volta le diverse sanzioni previste dalla Severino. Comunque, sia De Magistris che De Luca, sono poi stati assolti in Appello. Referendum giustizia, il secondo quesito: stop al carcere preventivo di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2022 Per stalking, furti, rapine, violenza sessuale e reati fiscali. La scheda arancione cancella uno dei tre presupposti per ottenere la custodia cautelare per chi potrebbe commettere di nuovo lo stesso reato. Nel centrodestra Meloni dice no. E no anche dal dem Ceccanti. È uno dei “pezzi forti” del tam tam dei garantisti e - ovviamente - degli avvocati. Si tratta del netto “no” a mettere in carcere preventivamente, e cioè prima della condanna frutto di un processo, un indagato che potrebbe commettere di nuovo lo stesso delitto. Oggi, per via dell’articolo 274 del codice di procedura penale - che data al 1988, e fu firmato dall’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, famosissimo avvocato, sui lavori della commissione ministeriale presieduta da un giurista e avvocato anch’egli del rango di Giandomenico Pisapia - è consentito mandare in carcere un indagato qualora ricorrano tre possibili rischi: l’inquinamento delle prove, il pericolo di fuga, la ripetizione dello stesso reato. Ed è proprio su quest’ultimo punto che agisce il referendum proposto dalla Lega e dai Radicali, e che gli elettori domenica si troveranno tra le mani con la scheda arancione, dove appunto viene proposto di cassare questa possibilità. Il quesito propone di cancellare questo capoverso dell’articolo 274 del codice di procedura, “se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti”. Un ex procuratore aggiunto di Roma come Nello Rossi, già mesi fa, in un articolo su Questione giustizia, aveva definitivo la sola ipotesi di questo referendum “un boomerang”. E ne aveva spiegate le ragioni che conviene qui ripetere. Perché se quelle poche righe del codice di procedura dovessero effettivamente essere cancellate, non ci potrebbero essere più arresti cautelari per furti e per rapine, per spaccio, per casi di stalking, o di ripetuta violenza sessuale, né tantomeno per i maltrattamenti in famiglia, ma pure per reati fiscali e finanziari. Tant’è che Rossi scriveva così: “Nell’ipotesi di successo del referendum, i potenziali autori seriali di gravi delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale (purché non commessi con violenza) e così via, saranno inattingibili da misure cautelari motivate sulla base di una prognosi di ripetizione degli atti criminosi per cui si procede penalmente”. A norma cancellata, secondo Rossi, non potrebbero più essere “alimentate critiche feroci per le decisioni giudiziarie conformi al nuovo assetto cautelare disegnato dal referendum e non imprecando, alla prima occasione, contro il lassismo giudiziario incapace di impedire la prosecuzione di allarmanti attività delinquenziali. Molto più realistico immaginare invece che pubblici ministeri e giudici dovrebbero prepararsi a subire le ondate di malcontento generate da decisioni obbligate ma incomprensibili a vasti settori di opinione pubblica e che la giustizia italiana ne subirebbe un ulteriore pregiudizio di immagine e di credibilità”. Una lettura che si ritrova nelle considerazioni del costituzionalista e deputato del Pd Stefano Ceccanti, che pure ha già detto che voterà Sì a tre referendum (separazione delle carriere, via le firme per candidarsi al Csm, sì agli avvocati nei consigli giudiziari), ma che considera all’opposto “un pericolo” cancellare questa fetta della custodia cautelare. È giusto ieri, sul quesito arancione, si è scatenata una polemica per via di alcune dichiarazioni alla stampa del procuratore di Trieste Antonio De Nicolo, rilasciate dopo l’arresto di 38 persone per un sequestro di 4,3 tonnellate di cocaina: “Questi arresti non si potrebbero più fare” ha detto De Nicolo. E gli eventuali arrestati “dovrebbero essere rimessi in libertà con tante scuse del popolo italiano perché le misure cautelari cadrebbero tutte”. E poi una frase contestata da Riccardo Magi di +Europa. Dice De Nicolo: “Reati come il traffico di droga, a prescindere dalle quantità anche mostruose, non vengono eseguiti in violenza alla persona e quindi ricadrebbero nell’alveo abrogativo del referendum”. Pronta la risposta di Magi che annuncia un esposto alla ministra Marta Cartabia e al Procuratore generale della Cassazione, entrambi titolari dell’azione disciplinare. Magi parla di dichiarazioni di “gravità inaudita”, di “informazioni false che possono condizionare il libero convincimento dei cittadini italiani sull’espressione del voto”. Le parole di De Nicolo sarebbero “false”, secondo Magi, perché il referendum “non eviterebbe affatto il ricorso alla custodia cautelare in casi di reati di criminalità organizzata, tantomeno di traffico internazionale come in questo caso”. Ma l’episodio dimostra come l’eventuale taglio del codice potrebbe essere letto in modo opposto. Referendum, terzo quesito: l’obiettivo di separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 giugno 2022 Se passasse il sì, si arriverebbe all’impossibilità di passare da una funzione all’altra nello stesso ordine giudiziario. I promotori del referendum numero 3 (scheda gialla) aspirano alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici perché solo così - affermano - si può realizzare la vera parità tra accusa e difesa davanti a un giudice realmente “terzo”: due magistrature diverse, senza la comune appartenenza a un unico ordine giudiziario e con due organi di governo autonomo differenti al posto dell’attuale Consiglio superiore della magistratura. Ma la Costituzione prevede un unico Csm e, all’articolo 107, stabilisce che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Così, in attesa di una difficile riforma costituzionale, questo referendum chiede di abrogare una serie di norme ritagliate da cinque diverse leggi con l’obiettivo di impedire il passaggio da una funzione all’altra. Arrivando alla situazione ibrida di carriere separate di fatto all’interno dello stesso ordine giudiziario. Ma c’è pure chi sostiene che la complessità del quesito (certamente il meno comprensibile all’elettore, composto da 1.067 parole) arriverebbe al paradossale risultato, in caso di vittoria dei sì, di abolire tutte le barriere che attualmente limitano le possibilità di passare da una funzione all’altra, liberalizzando una transizione senza regole. Nel corso degli anni si sono sommate sempre maggiori restrizioni per un pm che volesse diventare giudice e viceversa: bisogna cambiare regione e non si può superare un massimo di quattro passaggi. Un tetto che la riforma approvata dalla Camera e ora al vaglio del Senato ha ulteriormente ridotto a uno (oltre la scelta a inizio carriera), ma il referendum vuole arrivare a zero. Chi è contrario alla separazione delle carriere (ma anche così netta delle funzioni) ritiene che la doppia esperienza sia necessaria per poter svolgere al meglio sia il ruolo di pm che di giudice; inoltre creare una categoria di pubblici ministeri sganciati dal corpo dei giudici (qualcuno vorrebbe chiamarli “avvocati della polizia”) finirebbe per portarli inevitabilmente sotto la sfera d’influenza del governo, facendone perdere l’autonomia a sua volta legata al principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito anch’esso dalla Costituzione. Tuttavia la separazione resta un punto centrale e pressoché irrinunciabile delle rivendicazioni degli avvocati, che ne fanno una questione culturale prima ancora che pratica: finché non ci sarà un giudice totalmente separato dal pm non si potrà realizzare il “giusto processo” introdotto in Costituzione nel 1999. Comunque la si pensi, e al di là del fatto che in ogni caso l’esito del referendum non impedirebbe l’approvazione della riforma all’esame del Parlamento, resta che da oltre un decennio i passaggi da una funzione all’altra sono diventati del tutto marginali. Mentre un tempo i pm che diventavano giudici oscillavano tra il 6 e il 9 per cento all’anno, e il cambiamento inverso tra il 10 e il 17 per cento, dal 2011 in poi i passaggi da funzioni requirenti a giudicanti sono crollati allo 0,2 per cento, mentre quelli inversi si attestano sull’1 per cento. Come dire che una pressoché definitiva separazione delle funzioni s’è già realizzata nei fatti. Più del referendum sulle carriere servirebbe un doppio Csm di Guido Salvini* Il Dubbio, 8 giugno 2022 Sono del tutto d’accordo con l’obiettivo principale di chi ha proposto il referendum sulla separazione netta delle carriere, e cioè che i Pubblici Ministeri non possano condizionare le scelte dei giudici, ma credo che una separazione tout court, così come proposta, rischi di essere controproducente e poco realistica, perché non tiene conto del percorso dei giovani che affrontano il concorso di magistratura. Non mi sembra logico che i due concorsi, come seguirebbe inevitabilmente a quanto proposto con il referendum, debbano essere separati. Dopo l’università, un laureato di 22- 23 anni, quando si prepara ad affrontare il concorso, conosce ben poco di quel mondo, e non può sapere in modo esatto cosa vorrà fare. Il concorso dovrebbe rimanere unico e così anche il tirocinio dei neo-magistrati che lo segue. Resta importante che tutti i possibili nuovi magistrati abbiano una cultura comune, e cioè che coloro che diventeranno magistrati conoscano le tecniche di investigazione, e nel contempo coloro che saranno i Pubblici Ministeri abbiano la piena consapevolezza di quali prove e come si debbano raccogliere per poter pervenire ad un giudizio corretto. Altrimenti sia gli uni che gli altri avranno una cultura giurisdizionale monca. Nei primi anni il percorso professionale è ancora un work in progress, e questo è nell’interesse di tutti. Separare immediatamente i giovani PM dagli altri magistrati rischierebbe di subordinare i primi completamente alla Polizia giudiziaria senza avere una cultura e una preparazione sufficiente per avere un’autonomia di giudizio rispetto alla stessa. Mi sembra quindi del tutto accettabile, come previsto anche dalla riforma Cartabia, che il concorso rimanga unico e che nei primi anni sia consentito un mutamento di funzioni, certamente uno solo, in modo che ad un certo punto, presto ma non subito, la scelta divenga consapevole e definitiva. Chi vorrebbe la divisione integrale delle carriere sin dal momento del concorso non tiene inoltre in considerazione il fatto che la scelta iniziale non è necessariamente determinata dalla volontà di seguire una carriera o l’altra. Dato che i posti disponibili sono in numero limitato, soprattutto chi non si trova nei primi posti della graduatoria è costretto magari ad una funzione che non ritiene però definitiva, o che lo costringe a prestare servizio in una sede molto lontana da dove viveva. Qualche anno dopo potrà chiedere il trasferimento e ottenere la funzione definitiva di magistrato o di Pubblico ministero in una sede più accettabile, di solito anche per ragioni familiari. Di conseguenza almeno all’inizio un minimo di mobilità non può essere abolita. Comunque già da molti anni i limiti posti dall’Ordinamento giudiziario rendono il passaggio da una categoria all’altra molto raro. Infatti per passare da Pubblico Ministero a giudice è obbligatorio trasferirsi in un’altra Regione, e ad un certo punto della vita personale ciò diventa molto improbabile. I passaggi dopo i primi anni di carriera infatti sono rarissimi. Nel mio ufficio, l’ufficio GIP di Milano, che per la sua importanza può essere ritenuto una cartina di tornasole, non c’è nessuno che, se non per pochissimi anni all’inizio della carriera, sia stato Pubblico Ministero. Praticamente tutti sono sempre stati giudici. D’altronde questo accade anche negli uffici della Procura, dove dopo qualche anno il ruolo di accusa diventa una vera e propria vocazione. Basti pensare, solo per fare esempi milanesi, che sostituti procuratori noti come Ilda Boccassini e Armando Spataro certo giudici non sono mai stati né hanno mai pensato di diventarlo. Sarebbe forse utile che all’ingresso in carriera il giovane magistrato non possa svolgere subito il ruolo del Pubblico Ministero ma debba prestare servizio, per un paio d’anni, in una Sezione penale collegiale in modo da acquisire una concreta idea del giudizio e del confronto, senza farsi trascinare subito da una funzione di parte e di semplice accusatore. Detto questo, è indubbio che nella magistratura vi sia un potere dei Pubblici ministeri che va ben oltre il loro numero, tenuto conto che gli inquirenti rappresentano solo il 20% dei magistrati. Basti pensare al fatto che i fenomeni di clientelismo, malcostume e arrivismo che si sono evidenziati in modo prepotente in questi ultimi anni riguardano sempre le Procure e soprattutto le Procure nevralgiche, cioè quelle che hanno un’importanza strategica, superiore anche a quella di un Ministero o di un posto di governo. Quegli uffici in cui talvolta anche un semplice sostituto ha molta e immediata visibilità, possono intervenire in molti modi sulla vita di ciascun cittadino e, anche solo con un’informazione di garanzia, incidere sulla vita politica o amministrativa di una Regione o addirittura del Governo. Chi come me è da lungo tempo in magistratura sa bene che il potere dei Pubblici ministeri tende a tracimare, in quanto sono Pubblici Ministeri i personaggi più influenti e potenti delle correnti, nonché i consiglieri di maggior peso eletti nel Consiglio superiore della Magistratura. A questo punto, per evitare che un magistrato venga giudicato, ad esempio quando fa domanda in un concorso, da Pubblici Ministeri i quali dovrebbero avere ben poco titolo per valutarlo, una soluzione, che certo comporterebbe una modifica costituzionale, potrebbe essere separare il Consiglio superiore della Magistratura in due organi, uno per i Pubblici Ministeri e uno per i magistrati giudicanti, e che ciascuna delle due categorie intervenga su vita professionale, promozioni, concorsi, sanzioni disciplinari solo di coloro che vi appartengono. Potrebbe comunque essere previsto nel contempo che per le questioni di interesse generale il Consiglio si riunisca in forma plenaria, cioè con la partecipazione di entrambe le categorie. In questo modo rimarrebbe comunque esclusa ogni forma anche indiretta di condizionamento sui giudici, che non dovrebbero preoccuparsi di essere “graditi” ai PM più potenti. Capisco le ragioni di chi ha indetto il referendum, in particolare le associazioni degli avvocati, che sentono il loro ruolo in aula dinanzi al giudice in qualche modo sminuito e secondario rispetto a quello dei Pubblici Ministeri. Ma la separazione integrale delle carriere non è uno strumento così efficace. Se si volesse usare un escamotage, non così banale come sembra, per impedire collegamenti troppo stretti tra PM e giudici, sarebbe sufficiente che gli uni e gli altri lavorassero in due palazzi separati, così come gli uffici degli avvocati sono fuori dal Tribunale. Sarebbe molto più efficace questo di una separazione integrale, che finirebbe per darci magistrati che hanno sperimentato nelle aule solo, e qualche volta troppo e con troppa enfasi, il ruolo dell’accusatore. *Gip presso il Tribunale di Milano Pm-media: l’asse tra poteri che silenzia i referendum di Astolfo Di Amato Il Riformista, 8 giugno 2022 A pochi giorni dal voto ancora non se ne parla. La causa non è la guerra in Ucraina né i quesiti “troppo tecnici”. C’è una strategia. E c’è un’alleanza irresistibile: Mani Pulite l’ha dimostrato. La data fissata per il voto sui quesiti referendari è, ormai, imminente. Eppure, il silenzio dei media sui referendum continua ad essere, come si usa dire in questi casi, “assordante”. Lo ha rotto, si fa per dire, Luciana Littizzetto per comunicare, dal palcoscenico della televisione pubblica, che lei andrà al mare. A questo punto diventa inevitabile chiedersi a cosa sia dovuta la congiura del silenzio, alla quale stiamo assistendo e che sembra coronare una strategia volta, sin dall’inizio, a far fallire l’appuntamento referendario. Il primo contributo l’ha dato la Corte Costituzionale, bocciando, con motivazione molto criticabile, i referendum che più avrebbero sollecitato l’attenzione dell’opinione pubblica, quelli sul fine vita e sulla responsabilità civile dei magistrati. Poi il Governo, invece che le usuali due giornate, ha fissato un solo giorno per la votazione, associandola al voto per le amministrative. Infine, vi è stato e vi è il contributo dei media, che con il loro silenzio operano nella stessa direzione. Perché? Perché si tratta di quesiti troppo tecnici, come dice la Littizzetto, e di un tema che non interessa l’opinione pubblica? Certamente non può essere questa la spiegazione. Quando si è trattato di dare conto all’opinione pubblica delle ragioni che sarebbero state a sostegno dell’accusa di sequestro di persona, a danno di alcuni migranti, nei confronti di Salvini, la grande stampa non ha esitato a dilungarsi su questioni estremamente tecniche, quali quelle delle regole che disciplinano, sul piano nazionale e su quello internazionale, il soccorso in mare o la materia dei migranti. Si trattava e si tratta di questioni molto più difficili da comprendere di quella, per fare un esempio, relativa alla opportunità che la stessa persona possa tranquillamente passare dalle funzioni di giudice a quelle di accusatore e viceversa. Quanto, poi, alla rilevanza di tutti i temi che riguardano la giustizia, anche oggi che c’è la guerra in Ucraina, basta considerare, per rendersene, conto lo spazio dato dai media alla richiesta di condanna che l’accusa ha formulato nell’ennesimo processo a carico di Berlusconi. A questo punto diventa inevitabile prendere atto che si tratta di una strategia ben consapevole e chiedersi il perché di questa strategia ed a chi faccia capo. Di fronte ad un comportamento così uniforme dei media si pone subito il dubbio se non si sia in presenza di una direzione impressa da un gruppo di intellettuali, titolari, in questa materia, di una egemonia culturale di gramsciana memoria. Ma ogni dubbio si dissolve immediatamente ove si consideri che, anzi, in questo caso gli intellettuali di maggiore spessore e che fanno opinione in Italia si sono largamente espressi a favore dei quesiti referendari. Se è vero che le maggiori resistenze contro i referendum si annidano nella sinistra, è utile citare le posizioni chiaramente favorevoli ai referendum, espresse da personalità, per fare un esempio, del peso culturale di Sabino Cassese e di Paolo Mieli, che della loro appartenenza a sinistra non fanno mistero. Neppure si può dire che vi sia un timore reverenziale verso la magistratura, atteso il seguito di fiducia che la stessa ha nel paese. Questo era vero rispetto alla magistratura che affrontò gli anni di piombo. Oggi non è così: le ultime rivelazioni dicono che solo meno del 35% dei cittadini ha fiducia nella magistratura, mentre il 60% ritiene, addirittura, che la gestione della giustizia sia dannosa per il paese. E, allora, quale può essere la spiegazione di questa vera e propria congiura del silenzio? Non si può dimenticare che la magistratura, per quanto oggi screditata, ha comunque un potere enorme che, se opportunamente strumentalizzato dalla stampa, ha mostrato di essere in condizioni di distruggere chiunque. L’esperienza di Mani Pulite ha detto con chiarezza che l’accoppiata potere giudiziario-quarto potere non ha avversari in grado di resistere. È una alleanza che, mettendo insieme da un lato il potere di svolgere indagini molto pervasive, e poco importa la effettiva esistenza di reati, e dall’altro il potere di orientare la pubblica opinione e, anche, di stimolarne gli istinti più primordiali, è in grado di annientare qualsiasi rivale. Ecco, allora, che per un giornale, e ancora di più per la proprietà di un giornale, che ha partecipato a tale accoppiata dare spazio a referendum, volti a riequilibrare i rapporti tra magistratura e politica, significherebbe combattere se stessi. Quanto alla televisione pubblica, poi, basta chiedersi se i partiti che oggi la controllano abbiano beneficiato dell’opera di quella accoppiata. Il silenzio sui referendum dice allora molto di quanto oggi, nella realtà, valga in Italia la volontà popolare. “Riforma Cartabia insufficiente: i miei 5 sì contro il correntismo” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 8 giugno 2022 Luca Palamara, già a capo dell’Anm, arriva in redazione al Riformista Tv e va in onda con il sottopancia “Saggista”. Non a sproposito: Il Sistema, che ha scritto a quattro mani con Alessandro Sallusti, va per la maggiore. Lobby e Logge, suo secondogenito, segue quella strada. Sedici edizioni che hanno superando le 300.000 copie vendute per il primo titolo. Un successo che ha pochi eguali: è stato il caso editoriale dell’anno. E da qui partiamo: tutti quei lettori, presumibilmente interessati alla giustizia, informati, forse perfino indignati, non sono l’indice di una base mobilitata e pronta ad attivarsi per votare e far votare, al referendum di domenica? Intanto diciamo cosa farò io, domenica”, propone lui. Palamara andrà a votare e voterà cinque Sì: “È il segnale più forte che si possa dare. Perché se la politica continua a dire che deve fare tutto il Parlamento, e quello non decide, è doveroso per i cittadini farsi sentire con gli strumenti che la democrazia mette a disposizione”. E sulla riforma Cartabia, che giudizio dà? Molto negativo. Una riforma insufficiente che non risolve niente, proprio a partire dal primo dei problemi, l’elezione dei membri del Csm. Capisco che nasca sulla base di altri presupposti, che bisogna dare un segnale all’Europa per il Pnrr. Ma non così. Qual è la soluzione che indica? Il sorteggio è l’unica strada se vogliamo risolvere i problemi delle correnti che indicano i loro e pesano con il bilancino decisioni, promozioni e spostamenti. Se il Csm è l’organo supremo del diritto non può essere sottostante a dinamiche che mutuano quelle della peggiore politica”. Perché tanti si oppongono al sorteggio? Perché rompe il giochino. Si sa già chi deve andare al Csm, chi deve diventare Procuratore in questo o quell’ufficio, chi deve assumere una Direzione… Con il sorteggio niente sarebbe più possibile per le correnti. A proposito di politica, è una sua passione... Non l’ho mai negato. È una mia passione. Rilancerò l’idea di una mia candidatura alle politiche del 2023. Saranno i cittadini a decidere, io dirò quello che voglio fare per cambiare la giustizia che rimane il problema numero uno del Paese. Con chi si candiderà? Ha già preso accordi? La compagnia è importante, ma non è tutto. Andiamo avanti step by step. Voglio partire dalle mie idee, vedrò con chi mi sarà possibile realizzarle. Andare in fondo e conoscere le storie. In Italia il tema della giustizia è stato trattato solo da una parte, ritenendo che lì vi fosse la verità. Invece penso sia importante che tutti possano capire come funzionano i meccanismi. E soprattutto, ci tengo a dirlo al Riformista: l’ho scritto per i magistrati, per coloro che credono nella magistratura corretta e che vogliono cambiarla in meglio. Dopo il successo de Il Sistema, da dove parte Lobby e Logge? Dalla Loggia Ungheria, dai suoi verbali, dal racconto dei Pm titolari diretti del dibattimento, mi riferisco a Paolo Storari, che hanno un po’ squarciato quella vulgata iniziale secondo la quale esistono delle lobby di pressione esterne che hanno in qualche modo influenzato, inciso sulle nomine. Se ne Il Sistema il focus era su come il sistema delle correnti incide sulle nomine privilegiando l’appartenenza correntizia rispetto al merito, questo secondo è invece un modo di dire perché in determinate situazioni i magistrati utilizzano determinate dichiarazioni per altri fini. Ogni riferimento al processo Eni è puramente causale. Se i suoi libri, che affondano sulla giustizia, sono così venduti, perché si dice che la gente non ha interesse in questi temi, a proposito del referendum? Quello lo dice chi non vuole accendere la luce sui quesiti, chi ha interesse a farli naufragare. Io ho presentato il libro in tutta Italia, sempre un pienone di persone, di domande, di interventi dal pubblico. Chi sostiene che la giustizia malata, il Csm da cambiare etc. non interessa la gente, beh, non conosce il Paese o non capisce la gente. Sul quorum la battaglia non sarà facile... Per mille ragioni. Ma anche quando non si dovesse riuscire a raggiungere la fatidica quota, però sarà chiaro che i cittadini si stanno riappropriando della discussione su un tema che è di tutti. Ed è talmente importante che la giustizia non sia di proprietà di questo o di quello ma di tutti, perché tutti hanno diritto ad avere una giustizia giusta, una giustizia che funziona, una giustizia che non è politicizzata. Questo alla gente interessa. Se se ne fosse parlato un po’ di più, sarebbe stato meglio, certo”. Si diceva di lei che è uomo di relazioni alte, perfino oscure. E invece è diventato uomo delle piazze... Bisogna saper fare da pungolo. La mia esperienza di divulgatore mi dice che le persone sono interessate, eccome. Ho smesso di parlare agli addetti ai lavori e adesso mi rivolgo ai cittadini, che sono decine di milioni e in gran parte stanchi di questa giustizia che frena tutto il Paese. La sua prima prova elettorale per le suppletive a Roma le è piaciuta? Si è buttato a capofitto… E un buon risultato l’ho avuto, da solo, senza alcun partito, alcun finanziamento. Senza simboli. Non vado alla ricerca di vendette. Né di visibilità. Voglio mettere in pista progetti di riforma della giustizia. Non ho costruito intese di potere, con le suppletive: ho parlato con le persone, con i cittadini, con gli studenti. È finito nel mirino del Fatto, naturalmente. Come avversario politico, a questo punto... Una delle firme più rappresentative del Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro, ha detto che i libri si vendono quando parlano male della magistratura. Gli rispondo da qui, dalle vostre colonne, se posso. Prego... Padellaro, non parlerò mai male della magistratura, ma di come può funzionare meglio. La giustizia non è un terreno che deve dividere, ma che può unire. Ma bisogna dire la verità, altrimenti si porta la politica giudiziaria a fare lo strumento di contrapposizione tra fazioni politiche contrapposte. Ed è una stortura democratica, una ferita insopportabile. Anche quella delle porte girevoli è una criticità. Passare dalla magistratura alla politica può essere una strada a senso unico, in uscita... Questo è diventato un problema adesso. Quando negli anni Novanta la magistrata Elena Paciotti passò dal tribunale al Parlamento, la sinistra la accolse a braccia aperte. E gli esempi sarebbero tanti. Giusto pensare a una riforma che valga per tutti”. Separazione carriere e funzioni, è fondamentale separare inquirenti e giudicanti, o sbaglio? Oggi viviamo una contraddizione profonda. Ci sono pm che si giocano la carriera su certi processi, come può opporvisi il loro amico e sodale magistrato giudicante, dopo anni di osmosi? Nella magistratura c’è un mantra, una frase che si ripete sempre. Quale? Le carriere non si toccano, non debbono essere separate. Anche quello è un giochino che non può essere manipolato da altri, non lo consentono. I magistrati vogliono fare carriera, e per farla si devono specializzare. Costruendo poi cordate, in un gioco delle parti. Io nella mia nuova veste l’ho sperimentato: il diritto alla difesa non può essere garantito senza separazione delle carriere. E se il referendum andasse male? Ci penserò io, in Parlamento. Con la prossima legislatura. Ne vedrete delle belle. Un errore per quattro stranieri e una norma da cambiare di Luigi Manconi La Repubblica, 8 giugno 2022 La storia di quattro eritrei condannati per favoreggiamento di immigrazione clandestina, in due gradi di giudizio, da una legge ingiusta. Il 20 maggio scorso si è tenuto l’ultimo atto, davanti alla Corte di Cassazione, di un processo che ha avuto inizio tra il 2015 e che si è concluso con l’annullamento senza rinvio delle condanne nei confronti di G. Afewerki, G. Abraha, M. Hintsa e G. E. Kidane, quattro cittadini eritrei accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questi furono inizialmente considerati membri di una presunta cellula romana appartenente a una più grande organizzazione transnazionale dedita al traffico di esseri umani, che si sarebbe occupata di guidare il transito dei migranti dai luoghi di approdo ai paesi di destinazione, fino nel nord Europa. I quattro vennero giudicati colpevoli in primo e secondo grado, ma l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina cadde dopo che in sede di appello il capo di questa ipotetica organizzazione venne dichiarato innocente. Era rimasta in piedi, tuttavia, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, motivata dall’acquisto di biglietti di autobus dalla Sicilia a Roma, da piccoli prestiti, dall’ospitalità offerte in alloggi o in edifici occupati. Il procedimento, già in primo grado, aveva provato che gli accusati non avevano tratto profitto da queste azioni, ma, ciò nonostante, i quattro eritrei hanno dovuto trascorrere un anno e mezzo in carcere. Questo perché il Testo unico sull’immigrazione, all’art. 12, indica che determinate condotte sono punibili anche quando, pur in assenza di un vantaggio economico, è possibile “trarne profitto, anche indiretto”. Quale mai potesse essere quel “profitto indiretto”, non è stato mai accertato, ma ciò non ha impedito la condanna di primo e secondo grado. Qualche settimana prima, quattro attivisti dell’associazione Baobab Experience sono stati giudicati per quello stesso reato di favoreggiamento, per aver prestato aiuto, nell’ottobre del 2016, ad alcuni cittadini del Sudan e del Ciad, intenzionati a raggiungere il centro della Croce Rossa di Ventimiglia. Anche qui si è trattato dell’acquisto di biglietti dell’autobus e del fatto di aver accompagnato i migranti fino a destinazione. In entrambi i casi, secondo i giudici, “il fatto non sussiste”. E menomale. Resta che la normativa vigente in materia di immigrazione si presta ad abusi francamente intollerabili, arrivando a sanzionare penalmente comportamenti che rientrano in quella elementare disponibilità al soccorso, costituente il fondamento stesso del legame sociale e della vita di relazione. Che cosa si aspetta a cambiare quella norma? Videochiamate al 41 bis: il ministero fa ricorso, ma la Cassazione gli dà torto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2022 I magistrati di sorveglianza concedono - come prevede la legge - la videochiamata ai detenuti al 41 bis, il Dap e il ministero della Giustizia fanno ricorso fino in Cassazione e puntualmente perdono. Lunedì scorso la Corte suprema ha depositato ben due ordinanze (numero 21691 e 21695) che dichiarano il ricorso del ministero inammissibile perché manifestamente infondato. Prendiamo in esame quella relativa ad Aldo Ercolano (boss catanese e nipote di Nitto Santapaola) che, tra l’altro, da poco non è più al 41 bis, ma spostato in regime di Alta Sorveglianza: i difensori, gli avvocati Valeria Rizzo del foro di Catania e Fabio Federico del foro di Roma, hanno presentato reclamo davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma e hanno ottenuto la revoca. E ritorniamo al ricorso del ministero, dichiarato infondato. Accade che l’Amministrazione Penitenziaria fa un reclamo contro il provvedimento del 22 giugno del 2021, con il quale il Magistrato di sorveglianza aveva ordinato alla Direzione della Casa Circondariale di Sassari di consentire a Aldo Ercolano di effettuare mediante video chiamata il colloquio in presenza mensile ovvero quello telefonico, cui lo stesso aveva diritto ai sensi dell’art. 41 - bis, comma 2 - quater Ord. Pen. mediante l’uso di piattaforma validata dal Dgsia e nel rispetto delle previsioni della circolare della Direzione Generale Detenuti e Trattamento 30 gennaio 2016 n. 00311246.0 e della circolare del Dap. 2 ottobre 2017, n. 3676/ 6126, precisando che, in caso di impossibilità del congiunto a recarsi nell’istituto di pena prossimo al luogo di residenza in ragione delle limitazioni Covid- 19, il colloquio potesse essere svolto mediante collegamento con l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza, che avesse in dotazione strumenti idonei ad assicurare il collegamento da remoto. Il tribunale di sorveglianza, investito dal ricorso del Dap, fa un’ordinanza del 4 novembre 2021 confermando sostanzialmente la decisione del magistrato di sorveglianza. Il ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo: 1) ‘ violazione dell’art. 41- bis comma 2 - quater lett. b) Ord. Pen., come interpretato dalla Cass. Pen. n. 19826/ 2021’; 2) ‘ falsa applicazione della circolare DAP 29 gennaio 2019 n. 0031246U’, 3) ‘ violazione dell’art. 69, comma 6 lett. b) Ord. Pen. e degli artt. 35- bis, 41 - bis Ord. Pen., 97 Cost., 4 I. n. 2248/ 1865. La corte suprema dichiara però che il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato. I giudici scrivono che, quanto ai primi due motivi di ricorso, secondo la giurisprudenza della Corte stessa, “il detenuto sottoposto a regime differenziato, ai sensi dell’art. 41 - bis Ord. Pen., può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal citato art. 41 - bis Ord. Pen. (Cass. Sez. 1, n. 19290 del 09/ 04/ 2021, Rv. 281221 - 01; cfr., tra le tante, anche Cass. Sez. 1, n. 23819 del 22/ 06/ 2020, Rv. 279577 - 01)”. Ebbene, secondo i giudici della Cassazione, l’ordinanza impugnata ha “correttamente applicato il suddetto principio di diritto, mentre le doglianze prospettate avverso la decisione del Tribunale di sorveglianza di Sassari finiscono con il prospettare enunciati ermeneutici in contrasto con esso”. Per quanto concerne il rilievo svolto con il terzo motivo di ricorso, relativo alla dedotta violazione dei limiti di esercizio del potere giurisdizionale, che sarebbe stato esercitato, da parte del Tribunale di sorveglianza, stabilendo la possibilità di effettuare il collegamento presso l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza dei familiari del detenuto, ritiene il Collegio, in conformità ad altre pronunce (cfr. Cass. Sez. 1, n. 10306 del 7 febbraio 2022), che la relativa indicazione “non rivesti, nell’economia del provvedimento alcun carattere cogente, configurandosi, invece, come una mera esemplificazione delle modalità esecutive con cui il colloquio potrebbe essere organizzato dall’Amministrazione Penitenziaria, cui spetta la competenza a definire i concreti profili attuativi della statuizione giudiziale, anche alla luce delle peculiari esigenze di sicurezza che possono venire in rilievo nel caso concreto”. Stessa cosa è accaduta con il ricorso presentato sempre dal ministero della giustizia, avverso all’ordinanza del tribunale di Sassari che, con ordinanza del 28 ottobre 2021, ha rigettato il reclamo proposto dall’Amministrazione Penitenziaria avverso il provvedimento del 14 giugno del 2021, con il quale il Magistrato di sorveglianza aveva ordinato alla Direzione della Casa Circondariale di Sassari di consentire al detenuto al 41 bis Antonio Mennetta di effettuare mediante videochiamata il colloquio telefonico mensile. Il ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo gli stessi motivi riportati nell’altra ordinanza. Ovviamente, anche in questo caso e per gli stessi identici motivi, la Corte suprema ha dichiarato inammissibile il ricorso del ministero. Napoli. Protesta dei familiari dei detenuti: in corteo davanti a Poggioreale di Rossella Grasso Il Riformista, 8 giugno 2022 “L’estate è senza dubbio il momento peggiore per i detenuti: in 12 o 13 persone in celle strettissime, fa caldissimo, non ci sono ventilatori o frigoriferi. Non c’è aria, è come l’inferno. E io che sono stato un detenuto lo so bene. Per questo sono sceso in piazza per protestare, per dare voce a chi sta in carcere e non può dire niente”. E questo che ha detto un ragazzo di 30 anni, arrivato fuori al carcere di Poggioreale per protestare contro le condizioni che definisce “disumane” in cui vivono i detenuti. Suo padre è attualmente ristretto nel carcere napoletano e lui non si dà pace: conosce bene cosa significa essere ristretto nel carcere più sovraffollato d’Europa. Ed è proprio lì che si è radunato un gruppo di altri familiari dei detenuti delle carceri di tutta Italia sono accorsi al grido di “dignità” per i detenuti i tutte le carceri. Al loro fianco, in marcia, il Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello e quello del Comune di Napoli, Pietro Ioia. “Famiglie dei ristretti in movimento - siamo la voce dei detenuti”, è lo striscione che ha aperto il corteo che dai cancelli del carcere si è spostato lungo tutto il perimetro del penitenziario. Una protesta pacifica per far accendere i riflettori sulla tutela dei diritti umani delle persone ristrette in tutta Italia perché “uno ha sbagliato, ha fatto un reato e deve pagare per questo, ma con dignità”. “D’estate stanno in mezzo alle blatte e ai topi”, dice una mamma preoccupata per il figlio ristretto in un carcere del nord. “Ieri mio marito mi ha chiamata dal carcere e mi ha detto che faceva un caldo micidiale, non si può vivere così…è dura”, dice un’altra signora arrivata da Brindisi per protestare senza riuscire a trattenere le lacrime. “Abbiamo diritto solo a una chiamata di 10 minuti che se hai protestato o fatto qualcosa non ti fanno nemmeno fare - continua la signora di Brindisi - Hanno sbagliato e devono scontare una pena ma umanamente. Qui invece vivono come gli animali”. C’è anche un altro problema che scalda gli animi dei familiari: i costi in carcere. “Un pacco di piatti di plastica in carcere costa 7 euro - dice la mamma di un altro detenuto - Hanno comprato di tasca loro i ventilatori, pagandoli 20 euro e poi devono pagare 3 euro al mese per la corrente”. “Mio figlio è detenuto in un carcere al Nord Italia - continua un’altra mamma - un petto di pollo è arrivato a costare 17 euro. Poi dicono che un detenuto costa allo Stato 150 euro al giorno. Ma da mangiare è sempre poco”. “Non c’è più l’essere umano nel carcere - dice una ragazza ventenne con uno striscione in mano - è solo un numero di matricola”. “Anche noi familiari lo diventiamo - le fa eco un’altra ragazza - Sappiamo che la penitenziaria sta in affanno però ogni volta per fare 1 ora di colloqui arriviamo in carcere alle 8 e andiamo via alle 3. Ore e ore in attesa. Anche la distanza materiale fa il suo nel rendere la vita di detenuti e i loro familiari sempre più difficile. La territorialità della pena in Italia sembra un lusso per pochi. Succede così che la signora Paola di Catania debba percorrere ogni mese 580 chilometri per andare a trovare per un’ora il marito ristretto in Calabria: “Porto con me i nostri figli piccoli per salutare il padre, anche questo trauma devo fargli subire - dice - Poi lo stress di dover stare chiusi in quella stanza…per i bambini è una grossa sofferenza”. “In carcere li tengono in brandina, giornate intere seduti senza far nulla - dice la mamma anziana di un detenuto - Che riabilitazione è questa? Usciranno e nessuno gli vorrà dare un lavoro perché hanno precedenti penali. E che faranno? Hanno famiglie, per vivere dovranno andare a delinquere nuovamente?”. C’è anche chi invece ha deciso di investire il tempo della prigione per migliorarsi e laurearsi. “Mio figlio a Genova frequenta l’Università - racconta una mamma - gli abbiamo portato un pc che gli serviva mesi fa. Gli hanno disattivato tutte le connessioni e quello che va disabilitato. Ma ancora non glielo danno. Perché? È una persona che sta facendo di tutto per cambiare”. Alcuni dei familiari dei detenuti denunciano che nelle roventi celle affollate di Poggioreale non ci sono né ventilatori né frigoriferi. “I familiari portano ai loro cari il cibo - dice Pietro Ioia - ma poi va quasi tutto buttato perché in assenza di frigorifero va tutto a male. Abbiamo organi8zzato una raccolta e presto consegneremo frigoriferi e ventilatori”. “Da qui, da Poggioreale, abbiamo lanciato un messaggio per attirare l’attenzione su tutte le carceri - ha detto Samuele Ciambriello - Pochi spazi di vivibilità, poche misure alternative, pochi spazi di lavoro. Il Governo almeno facesse la liberazione anticipata di 70 giorni e 70 giorni. Noi che siamo liberi abbiamo avuto i ristori, loro niente. La politica rifiuta la parola indulto, dovrebbe recuperare la parola dignità”. Roma. Regina Coeli sovraffollata: oltre 300 detenuti in più di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 8 giugno 2022 Secondo i dati del ministero della Giustizia, l’istituto sul lungotevere al 31 maggio scorso aveva 943 reclusi su 615 posti. L’altro ieri un agente è stato aggredito da due detenuti. Per i sindacati la Penitenziaria è sotto organico di 500 unità. I detenuti sono oltre un terzo in più di quelli previsti. E si sente. Anche sotto il profilo della sicurezza interna. La conferma è arrivata lunedì sera con un agente della Penitenziaria aggredito da due reclusi: gli hanno puntato il coltello alla gola, hanno tentato di trascinarlo in cella. Il poliziotto ha rischiato di essere preso in ostaggio dai due, un italiano e un rumeno, nel carcere di Regina Coeli. Una scena ormai purtroppo frequente nelle strutture di reclusione nella Capitale - dove a Rebibbia a decine sono sotto inchiesta per i disordini del 2020, appena cominciata l’emergenza Covid - e nel Lazio. In questo caso la mediazione del vice comandante nel complesso di Trastevere ha evitato il peggio, ma il poliziotto è in ospedale con 25 giorni di prognosi. I due detenuti sono stati invece riportati in cella. L’ultimo episodio di violenza dietro le sbarre in un 2022 già drammatico: tre suicidi (da fine dicembre), aggressioni, minacce, violenze sessuali. Colpa anche delle prolungate chiusure dei reparti causa Covid e del sovraffollamento di Regina Coeli e di altri istituti regionali. Attualmente per il ministero della Giustizia, sono 422 in più le persone detenute al 31 maggio scorso nei 14 istituti del Lazio: 5.653 invece di 5.231. Fra le situazioni più preoccupanti proprio Regina Coeli dove ci sono 943 detenuti rispetto al 615 previsti. Vengono poi alcuni reparti di Rebibbia, insieme con Velletri, Viterbo e Rieti. Il numero delle presenze in più rispetto alla capienza di ogni carcere prende in considerazione anche i detenuti in regime di semi libertà e quelli in transito verso altri istituti di pena, e questo ha portato, come accaduto il 31 maggio scorso, a oltre 300 reclusi in eccedenza solo a Regina Coeli. Del resto a livello nazionale il sovraffollamento raggiunge quasi le 4mila persone in più (54.771 su 50.859), con 17.136 stranieri detenuti. “Per quanto concerne il personale della polizia penitenziaria - spiega Massimo Costantino, segretario generale della Fns Cisl Lazio - mancano circa 500 unità rispetto alla pianta organica prevista. Purtroppo non bastano i 100 agenti inviati a maggio e non saranno sufficienti gli altri 110 previsti a fine luglio”. “Uno dei detenuti che ha preso per il collo il poliziotto a Regina Coeli - rivela Donato Capece, segretario generale del Sappe - aveva aggredito un altro collega. Gli eventi critici contro gli appartenenti alla polizia penitenziaria sono aumentati in maniera spaventosa, anche per effetto della vigilanza dinamica e del regime detentivo aperto. E tutto questo in assenza di provvedimenti utili a garantire la sicurezza e l’incolumità del nostro personale”. E dopo quanto accaduto Capece chiede al ministero della Giustizia “solleciti interventi” a favore del reparto in servizio a Regina Coeli. Ma è anche sul fronte delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che ora si gioca una partita complicata. Proprio per oggi la Fns Cisl Lazio ha organizzato una manifestazione fuori dal carcere di Velletri sia per protestare contro la carenza di organico della penitenziaria sia per ribadire il fatto che “la gestione di queste strutture, delicata e complicata - sottolinea ancora Costantino - sia solo dei direttori penitenziari, dei dirigenti penitenziari del Corpo e della penitenziaria”. Il riferimento è a quanto accaduto a Rieti dove il protocollo operativo “è stato emanato senza il coinvolgimento dell’amministrazione penitenziaria”. Roma. La Garante dei detenuti: “A Regina Coeli celle piccole e niente attività” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 8 giugno 2022 “Nel carcere sul lungotevere c’è un brutto clima, i detenuti si sono incattiviti anche a causa delle chiusure dei reparti per il Covid. Percepisco la tensione non appena varco il portone”. E ancora: “Bisogna far uscire prima chi ha quasi finito di scontare la pena”. “Regina Coeli è peggiorata molto negli ultimi cinque anni. E il Covid ha scompaginato i normali assetti interni. Prima di tutto, è nato per essere un carcere circondariale, ovvero una struttura dove non ci sono detenuti con pene definitive ma solo per brevi reclusioni, invece oggi ci sono più di 400 persone con condanne da scontare anche lunghe, senza che ci siano le attrezzature adatte a questo scopo”. Gabriella Stramaccioni, fino al 31 maggio scorso Garante dei detenuti nominata dopo aver vinto un bando 5 anni fa e ora in proroga in attesa di quello nuovo che dovrà scegliere il Comune, è molto preoccupata. Che clima c’è a Regina Coeli? “Molto brutto. Percepisco tensione non appena varco il portone. Non ci sono spazi verdi per i detenuti, non ci sono attività ricreative e in pochi hanno la possibilità di lavorare. Anche se è appena arrivata una nuova direttrice, da Bologna, gli organigrammi del personale amministrativo e della penitenziaria sono in difficoltà. Così le persone detenute si incattiviscono, e il sovraffollamento di certo non aiuta”. Quali sono le cause di questa situazione? “Almeno negli ultimi due anni sicuramente il Covid, con i reparti chiusi e isolati, ha giocato un ruolo decisivo, anche se i problemi di Regina Coeli sono cronici. Non basta qualche lavoro di ristrutturazione nei reparti per far cambiare le cose. Il carcere è complicato anche dal punto di vista logistico, le celle sono piccole, gli spazi angusti. Solo fino al mese scorso poi c’erano 200 reclusi positivi, quindi vi lascio immaginare la situazione. Il fatto è che in questa città, come nel resto d’Italia, le condizioni di detenzione sono l’ultimo dei problemi. Ma bisogna fare molta attenzione perché poi si rischiano episodi come quello di lunedì sera”. Di riabilitazione neanche a parlarne... “Macché, come si fa? Quelle 400 persone condannate dovrebbero aver già iniziato il “trattamento”, ma qui non è possibile. Devono essere trasferite in altri istituti. La gente deve essere impegnata in qualcosa, a Regina Coeli non c’è la sezione per gli articoli 21, coloro che possono uscire a lavorare. Analoghe situazioni ci sono a Rebibbia, ma anche a Viterbo”. Cosa bisognerebbe fare? “Impegnarsi per far uscire prima, semmai con il braccialetto elettronico, chi ha fine pena brevi e puntare sulle misure alternative. Andiamo incontro all’estate, bisogna far scendere il sovraffollamento, anche perché non ci sono educatori. Il rapporto è uno per 200 detenuti. E in Parlamento ancora non si è vista la riforma dell’ordinamento penitenziario che, in tema di liberazione anticipata, prevede uno sconto di 75 giorni per buona condotta ogni sei mesi di detenzione”. Milano. Il ragazzo che si è ucciso a San Vittore non doveva essere in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 8 giugno 2022 Bensì in una Rems, una struttura in cui sarebbe stato seguito dagli psichiatri: ma sono poche, e le liste d’attesa lunghissime. Nelle ultime settimane due giovani uomini detenuti nel carcere milanese di San Vittore si sono uccisi: Abou El Mati, italiano di origine egiziana, aveva 24 anni; Giacomo Trimarco ne aveva 21, e in carcere non doveva esserci. Già 15 giorni prima aveva tentato il suicidio e da otto mesi era stato destinato a una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dal 2014 sono progressivamente subentrate agli ospedali psichiatrici giudiziari. Il problema è che le Rems sono poche (36) e i posti disponibili sono meno di quelli di cui ci sarebbe bisogno. Dovrebbero ospitare le persone che non sono giudicabili nei processi per i reati che hanno commesso perché ritenute incapaci di intendere e di volere, ma che al tempo stesso vengono giudicate socialmente pericolose. Spesso, non essendoci posto in una Rems, queste persone vengono portate dove non dovrebbero, e cioè in un istituto penitenziario. Alle Rems vengono anche indirizzate persone non giudicate totalmente incapaci di intendere e di volere, ma il cui stato di salute si aggrava durante la detenzione. I genitori di Giacomo Trimarco, che si è ucciso con un oggetto a disposizione dei detenuti per cucinare, hanno parlato con il Corriere della Sera di “detenzione illegale”. Loro figlio doveva essere in una struttura di cura: “Se servirà ad altri ragazzi, adiremo le vie legali”. Trimarco, che aveva una diagnosi di “disturbo borderline di personalità a basso funzionamento”, incompatibile appunto con il carcere, era stato arrestato nell’agosto del 2021 per il furto di un telefonino. La disposizione di trasferirlo in una Rems era stata data a ottobre eppure ancora il 31 maggio, giorno del suicidio, non era stata trovata una collocazione disponibile. I giudici non hanno il potere di ordinare l’ingresso in una delle Residenze, che hanno per regolamento un numero di posti limitato. Trimarco non era stato giudicato totalmente incapace di intendere e di volere, ma solo parzialmente. Avrebbe dovuto essere curato o in una struttura esterna al carcere oppure all’interno del carcere stesso. Maria Gorlani, che ha attivato la rete Ci siamo anche noi, dedicata proprio alle famiglie con ragazzi che hanno disturbi borderline di personalità a basso funzionamento, spiega che “Giacomo Trimarco aveva avuto una condanna quindi doveva essere detenuto in una struttura alternativa al carcere oppure curato nel carcere stesso. Cosa che non è avvenuta, per questo il giudice aveva deciso l’ingresso in una Rems anche se il suo posto non avrebbe dovuto essere quello”. Il figlio di Gorlani ha lo stesso disturbo psichico, e 17 procedimenti penali pendenti: “Mio figlio non riesce a controllare le proprie emozioni, è accaduto per esempio che durante una crisi abbia distrutto una fila di auto. Io non chiedo che il reato venga ignorato, non pretendo che non venga condannato, così come non lo pretendeva la mamma di Giacomo Trimarco. Chiedo però che venga curato. Cosa che non avviene: è stato affidato a un Cps della Lombardia, cioè un Centro psico-sociale, che però non è in grado di fare nulla. Il giudice si trova così praticamente costretto a mandarlo in carcere, perché comunque mio figlio è giudicato “socialmente pericoloso”. Dovrebbe essere curato nell’istituto di pena, ma sappiamo già che questo non accadrà”. Il problema della psichiatria in carcere è che gli psichiatri sono pochi a fronte di un numero molto alto di persone con disturbi. Dice ancora Gorlani: “Gli psichiatri devono occuparsi di moltissimi casi, spesso si tratta di piccoli disturbi e così per forza di cose vengono trascurati i disturbi più gravi. Si ricorre così agli psicofarmaci, somministrati a pioggia. I genitori di Giacomo Trimarco hanno nominato un perito che assisterà all’autopsia del figlio per capire se al ragazzo fossero state somministrate benzodiazepine che nel caso del disturbo borderline di personalità possono essere molto dannose”. Secondo i genitori di Trimarco “se i servizi di salute mentale facessero il loro dovere, questi ragazzi al carcere non arriverebbero neanche. Non sono criminali. Per le loro condizioni psichiche non sarebbero neanche in grado di progettare reati”. Ornella Favero, coordinatrice del sito specializzato Ristretti Orizzonti, dice che “purtroppo il disagio psichico nelle carceri è in aumento e le strutture continuano a essere carenti. Sia le Rems sia quelle interne al carcere”. La Corte europea per i diritti dell’uomo ha più volte intimato all’Italia di mettersi in regola, ma per ora non è stato fatto. Secondo dati del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i detenuti in attesa di entrare in una Rems sono 750, il tempo medio di attesa è di 304 giorni ma ci sono regioni come Puglia, Campania, Calabria, Lazio, Sicilia dove arriva a 458 giorni. L’avvocata Antonella Calcaterra, dell’Osservatorio carcere e territorio, dice che “le Rems hanno lunghe liste di attesa e l’intervento psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente. I servizi territoriali per la salute mentale non riescono a garantire un intervento adeguato e la continuità terapeutica”. Il timore espresso da Calcaterra è che senza un potenziamento degli interventi all’interno degli istituti, con una maggiore presenza di psicologi e psichiatri, non sarà possibile evitare altri casi come quello dei due giovani che si sono uccisi nelle ultime settimane a San Vittore. La riforma con cui venne stabilita la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari fu inserita nel decreto legge del 2011 noto con il nome di “svuota-carceri”. Gli ultimi due internati per “vizio di mente” uscirono dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nella primavera del 2017. Alla loro chiusura doveva corrispondere la contemporanea apertura delle Rems, su base regionale, a vocazione riabilitativa e gestita esclusivamente da personale sanitario. Doveva anche esserci un potenziamento delle strutture di cura all’interno delle carceri. Nell’antico e ancora in uso gergo carcerario le persone affette da patologie psichiatriche si dividono in due gruppi: i “folli rei” e i “rei folli”. I primi sono le persone incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolose e dunque destinate da subito alle Rems. I secondi sono coloro il cui disturbo si aggrava o insorge dopo l’ingresso in carcere. Per loro, come spiega l’associazione Antigone, “devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario”. Sono così state create le Articolazioni per la tutela della salute mentale che sono sezioni a gestione prevalentemente sanitaria, concentrate in pochi istituti, almeno uno per regione, con un compito difficilissimo: curare il disagio psichico in un luogo che di per sé è destinato ad aumentare quel disagio. Le sezioni Atsm oggi attive in Italia sono concentrate in 32 istituti penitenziari e sono in tutto 34 (29 maschili, 5 femminili). Vi sono ospitati 261 uomini e 21 donne, dunque meno di 300 persone in totale. Per quanto riguarda le Rems è stato fissato per legge un limite massimo di venti posti: in pratica c’è un numero chiuso. È un principio che evita il sovraffollamento, ma dall’altra parte però tante persone che dovrebbero trovare posto in una Rems non lo ottengono. Scrive ancora l’osservatorio di Antigone: “L’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti, e? una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché e? stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilita?” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorita? giudiziaria sono invece prassi quotidiana”. La Corte costituzionale si è espressa nel gennaio di quest’anno dicendo che serve una legge per superare le criticità. Ha scritto la Corte in un documento che è necessario “il potenziamento e la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività”. Milano. Sette agenti di San Vittore condannati per botte e minacce a un detenuto di Manuela Messina La Repubblica, 8 giugno 2022 “Da loro disegno criminoso per costringerlo al silenzio”. Tra il 2016 e il 2017 un detenuto che doveva testimoniare su presunte ruberie nel carcere di Velletri fu per mesi picchiato e minacciato da sette agenti di polizia penitenziaria. Le motivazioni della condanna: “Relazioni di servizio false e pressioni per certificati medici che nascondessero le botte”. Calci, pugni, offese all’interno del carcere. Il tutto per intimidire un detenuto impedendogli di testimoniare in un’aula di giustizia, o inducendolo a testimoniare il falso. È successo nel carcere di San Vittore di Milano tra il 2016 e il 2017, e gli agenti che si sono resi responsabili di tali comportamenti sono stati condannati nel marzo scorso, in primo grado, a pene tra un anno e mezzo di carcere e 4 anni di carcere. Secondo le motivazioni di quella condanna, firmate dal giudice della settima sezione penale del Tribunale di Milano Mattia Fiorentini, gli agenti hanno agito con lo scopo di realizzare un unico “disegno criminoso”, ovvero “intimidire il detenuto per indurlo a non testimoniare, o a testimoniare il falso”. E non si sono fermati neanche durante il processo, scrive il giudice che ha negato le attenuanti generiche, in quanto hanno cercato anche di screditare la vittima e altri testimoni detenuti “attraverso la formazione di relazioni di servizio tendenziose, quando non radicalmente false” e facendo “pressioni per ottenere certificazioni sanitarie compiacenti subito dopo le aggressioni”. Gli agenti della penitenziaria condannati a Milano erano imputati per le violenze (tra il 2016 e il 2017) a Ismail Ltaief, un detenuto tunisino di 55 anni pestato in carcere perché voleva testimoniare in un altro processo sulle ruberie nella mensa del carcere di Velletri. Secondo le accuse riportate in quel processo, gli agenti della penitenziaria in servizio nel carcere laziale (sono stati assolti di recente da queste accuse) avrebbero sottratto in grandi quantità carne e latticini, lasciando che i detenuti mangiassero solo pasta in bianco. Ismail Ltaief, che faceva il cuoco, era stato chiamato a testimoniare in quel processo. Stando all’indagine del pm Leonardo Lesti, quando il tunisino si è ritrovato nuovamente ristretto per altri fatti, stavolta a Milano, i colleghi di quegli agenti hanno messo in atto una serie di “comportamenti vessatori” con lo scopo di intimidirlo e impedirgli di testimoniare: calci e pugni, percosse col tirapugni, schiaffi e inviti a mettersi una busta in testa per ammazzarsi. Minacce di morte, rivolte anche alla moglie. Il tutto, dicono gli atti, con la ex direttrice del carcere Gloria Manzelli (in servizio fino al dicembre 2017 e mai indagata) che “senza mai avere ascoltato personalmente le ragioni del detenuto, ha basato le sue valutazioni unicamente su quanto riferitole de relato dagli agenti di custodia di cui peraltro conosceva la qualità di indagati, assumendo aprioristicamente le loro difese, come se gli atteggiamenti insolenti o maleducati del detenuto, peraltro indotti quantomeno in larga misura, dalla comprensibile frustrazione provata da Ltaief a seguito delle ingiustizie osservate e subite proprio durante il regime carcerario fin dai tempi di Velletri, potessero giustificare l’utilizzo della violenza (fisica e psicologica) da parte degli agenti”. Per questo, secondo il giudice, la deposizione di Manzelli “lungi dall’apportare elementi a discarico” degli imputati costituisce “un riscontro alla tesi accusatoria”. Stando all’inchiesta, poi, uno degli agenti avrebbe chiamato “beduino” il detenuto e per sminuirlo davanti agli altri, gli avrebbe dato dell’“infame” e dello “spione”. In più occasioni, come ha riconosciuto il giudice, lo avrebbe picchiato con un metal detector. Il detenuto, invece, è stato ritenuto dal giudice assolutamente attendibile nonostante “la posizione di preminenza di cui godevano gli imputati e il clima di sottomissione percepito dai detenuti (...) era tale da indurre questi ultimi a tacere la maggior parte dei soprusi di cui erano vittime o alle quali assistevano”. Solo venerdì scorso è emerso che sempre a San Vittore due giovani detenuti, uno di 24 anni e uno di 21, si sono tolti la vita in pochi giorni nel settimo reparto della casa circondariale. A rivelarlo è stato l’Osservatorio carcere e territorio, di cui fa parte anche Caritas Ambrosiana, che sottolinea la crescente presenza nell’istituto milanese di persone affette da disturbi mentali. Cosenza. Ha 6 mesi, non può essere operata e negano il permesso al padre per registrarla all’anagrafe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2022 C’è una bambina di sei mesi che deve fare una operazione urgente. Per avere il riconoscimento di paternità è necessaria la presenza del padre, ma l’uomo è detenuto in Alta sicurezza e da circa sette mesi è in attesa della concessione del permesso per recarsi all’anagrafe: per ben tre volte, le richieste sarebbero state rigettate. Per poter programmare l’intervento, tramite il centro unico di prenotazione (Cup), è necessario che la piccola abbia un medico di base, ma senza la registrazione all’anagrafe la piccola non è ancora in possesso neanche del Codice fiscale e quindi per lo Stato italiano non esiste. Una vicenda denunciata dall’Associazione Yairaiha Onlus e segnalata al ministero della Giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al Garante nazionale delle persone private della libertà. L’associazione denuncia che il diritto alla salute di una minore ancora in fasce non possa essere pregiudicato da ulteriori lungaggini burocratiche e, per tale ragione, “portiamo alla vostra attenzione la seguente segnalazione”. Segnala che a M. L., detenuto in Alta sicurezza presso la Casa Circondariale di Cosenza “S. Cosmai”, da circa 7 mesi non viene concesso di potersi recare all’anagrafe di Casali del Manco (Cs) per il riconoscimento di paternità della figlia, nata il 30 novembre del 2021. “La bambina - scrive Yairaiha Onlus - necessita di un delicato intervento al più presto ma, a causa del mancato riconoscimento di paternità, non dispone del Codice fiscale e non esiste agli occhi dello Stato!”. Il detenuto, che teme per l’aggravarsi delle condizioni di salute della piccola, ha presentato per ben tre volte regolare istanza sia alla Corte d’Appello che al Magistrato di Sorveglianza competente, ma - come segnala l’associazione - tutte le richieste sono state rigettate. Nella segnalazione, Yairaiha Onlus rileva che tale situazione di stallo si pone di certo in contrasto con il superiore interesse del minore, tutelato da Convenzioni nazionali e internazionali: la posizione giudiziaria del padre, infatti, “non dovrebbe costituire un pregiudizio per diritti costituzionalmente garantiti di chi non ha commesso alcun reato, soprattutto se si tratta di una bambina in tenera età”. Bari. “Il lavoro diventi un fattore fondamentale per vivere in un mondo migliore” di Christian Cabello interris.it, 8 giugno 2022 Intervista a Angelo Santoro, presidente di Semi di Vita, protagonista di un progetto di giustizia riparativa a Bari. In Italia, ad oggi, i ragazzi di età inferiore a 18 anni, in carico alla giustizia minorile sono 13.611, dei quali 316 detenuti in strutture carcerarie. In particolare, la Costituzione della Repubblica, all’art. 27, sottolinea il significato di responsabilità penale e la funzione della pena e recita al comma 3 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A Bari, nell’Istituto Penale Minorile “N. Fornelli”, in ossequio ai principi di rieducazione della pena, la cooperativa sociale “Semi di Vita” attua un progetto denominato la “Cardoncelleria Fornelli” per il quale è stata approntata una serra di 330 mq per la coltivazione di funghi cardoncelli e un laboratorio di confezionamento di 70 mq, la cui finalità è quella di ridare dignità ai ragazzi attraverso la legalità e pratiche agricole sostenibili. Interris.it ha intervistato, in merito a questa opera di inclusione, il presidente di “Semi di Vita” Angelo Santoro. Come nasce il progetto “Cardoncelleria Fornelli” e che obiettivi si pone? “Il progetto ha visto gli albori nel 2018 quando, ad un certo punto, la rivista “Le Due Città” dell’amministrazione penitenziaria italiana, ha pubblicato un articolo in cui asseriva che, se i percorsi di formazione e lavoro, cominciano all’interno delle carceri e sfociano con un inserimento lavorativo all’esterno, la recidiva si abbassa da un 70%/90% ad un 20%. Quindi, se una persona esce dal carcere e non lavora, ricomincia a delinquere, altrimenti può avere la possibilità di sistemare la sua vita in meglio. Grazie a questo passaggio e all’aver intercettato alcuni fondi del ministero della Giustizia sull’inserimento lavorativo di giovani dell’area penale, siamo riusciti ad ottenere insieme al carcere di Bari, all’Istituto Penale per Minorenni “Fornelli”, la somma necessaria per poter costruire una serra all’interno dello stesso. Dimostrando così che, attraverso alcune azioni di produzione vera e propria, si potevano assumere dei ragazzi e cercare di dare loro una possibilità rispetto a quella che è l’alternativa di tornare a delinquere all’esterno del carcere”. Quale valore ha il lavoro come forma riabilitante per i giovani in condizione di fragilità all’interno del carcere? “Il lavoro ha un valore molto importante. È complicato dimostrare ai ragazzi che vale di più un lavoro retribuito onestamente rispetto a cifre molto alte che loro recuperano facendo azioni delittuose. C’è sempre l’antitesi del guadagno poco ma sono libero rispetto al guadagno molto denaro ma mi posso ritrovare in carcere. In questo momento la difficoltà è, far capire che, guadagnando poco, lo stesso non è solo di tipo economico, ma soprattutto della libertà. Nell’ambito minorile parliamo di ragazzi che entrano all’interno dell’istituto a 16/17 anni e, siccome la giustizia riparativa in Italia lavora molto bene, nel carcere minorile rimane chi deve scontare delle pene molto lunghe e ha commesso dei reati molto gravi. Noi lavoriamo su di loro, sugli ultimi, su coloro che si ritrovano a fare delle scelte difficili perché, ad un certo punto, torneranno a casa e dovranno scegliere se continuare a fare quello che facevano o avere una vita onesta. Ciò è sempre molto complicato perché sono ragazzi in formazione in quanto, il carattere, fino a 21 anni, si forma. Qui sta la bravura dell’educatore nel far capire che le cose vanno in una certa maniera”. Quali sono i vostri auspici per il futuro? In che modo chi lo desidera può aiutare la vostra opera? “Ci auguriamo di salvare quanti più ragazzi possibili. Nell’ottica che non possiamo salvare tutti, ciò purtroppo è un dato di fatto, ma ci impegniamo affinché questo avvenga e i ragazzi che inseriamo, sia alla Cardoncelleria ma anche sui 26 ettari confiscati alla mafia che gestiamo a Valenzano, in provincia di Bari, diventi un fattore fondamentale per vivere un mondo migliore rispetto a quelle che sono le possibilità dei ragazzi e di noi stessi. Per sostenere la cooperativa, l’elemento importante è rappresentato dall’acquisto dei nostri prodotti poichè non abbiamo nessun centro diurno o altre attività che vengono finanziate dalla regione. L’unica fonte di sostentamento è appunto l’acquisto degli stessi. In carcere ora abbiamo finito di produrre i funghi, stiamo per essiccare i pomodori e, acquistandoli, si può dare una mano affinché il progetto non rappresenti solamente un’utopia, ma qualcosa di veramente concreto per tutti coloro che partecipano all’attività della cooperativa”. Brescia. Arteterapia in carcere: i progetti al Nero Fischione quibrescia.it, 8 giugno 2022 I detenuti possono partecipare a laboratori di arteterapia e musicoterapia, ma anche a progetti di reinserimento lavorativo per conto di alcune aziende bresciane. Sono tanti i dibattiti attorno al tema del valore rieducativo del carcere, ma, spesso, per mancanza di opportunità e di possibilità, chi viene recluso non ottiene questo spazio per ripensare alla propria vita in termini di riscatto sociale. Il carcere cittadino Nero Fischione si apre all’arteterapia ed al lavoro attraverso alcuni progetti messi in campo da cooperative sociali del territorio, come il Centro diurno “L’Ancora”, gestito dalle Cooperative Fraternità e di Bessimo, che ha realizzato, da un anno a questa parte, uno spazio terapeutico rivolto ai detenuti, nel quale, cinque pomeriggi a settimana, dalle 14 alle 17, gli operatori realizzano laboratori di arteterapia e musicoterapia, attraverso il quale le persone possono esprimere anche le proprie emozioni, i sogni, le aspettative di una vita “oltre le sbarre”. La Cooperativa La Fontana di Lumezzane, da inizio maggio, ha coinvolto quattro detenuti in un progetto lavorativo che consiste nel montare ed assemblare pezzi di rubinetteria, all’interno del carcere, in uno spazio appositamente attrezzato. Il lavoro come mezzo di riscatto, come espressione di dignità e di emancipazione. I risultati di questi interventi sono stati illustrati dalla direttrice Francesca Paola Lucrezi, alla presenza di monsignor Pierantonio Tremolada, vescovo di Brescia, e dell’assessore Marco Fenaroli. “I 9 morti del carcere sono un buco nero in una città distratta” di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 8 giugno 2022 Sara Manzoli e il suo saggio sulla rivolta a S. Anna. Sappiamo ancora poco della rivolta dell’8 marzo 2020 che portò alla distruzione del carcere, a nove detenuti morti e a numerose denunce per pestaggi. Le ricostruzioni politiche e giudiziarie, come le indagini ad ora note, appaiono lacunose e spesso suscitano il sospetto che non tutto venga detto. Dopo l’archiviazione dei nove decessi di detenuti, ufficialmente per overdose - in attesa che finiscano le altre inchieste - resta l’indifferenza delle autorità per la più grande strage carceraria italiana dal Dopoguerra. A mettere un punto fermo è Sara Manzoli, modenese e attivista del Comitato Giustizia e Verità, già autrice di un’importante inchiesta sul mondo delle badanti. Ha pubblicato il saggio “Morti in una città silente” (Sensibili alle Foglie Editore) basandosi su fatti solidi: lo presenterà domani alle 18.30 all’Happen (via Canaletto Sud 43). Sara, l’uso degli psicofarmaci in carcere è un tema di grande attualità ed è un aspetto centrale nella rivolta di Modena. Nove detenuti risultano morti per overdose da metadone e benzodiazepine. Perché sono così importanti oggi in carcere? “La recente protesta ha portato alla sostituzione di uno psicofarmaco diventato merce di scambio interna al carcere. Parliamo di un luogo in cui le persone vengono private di tutto. Molti detenuti chiedono una visita psichiatrica quando in realtà chiedono subito una prescrizione di psicofarmaci per sedarsi, “stonarsi”, dissociarsi da quel mondo. In realtà, in questo modo i detenuti vengono “psichiatrizzati”: oggi è più facile ottenere psicofarmaci che una tachipirina. E poi metà dei detenuti sono in carcere per reati legati allo spaccio di droga. Se passiamo al saccheggio dell’ambulatorio di Sant’Anna, l’idea che mi sono fatta è che quelli che non partecipavano alla rivolta sono andati all’ambulatorio perché faceva gola, un po’ se li sono trovati a portata di mano per utilizzarli nei giorni seguenti come merce di scambio interna, un po’ per non pensare a cosa accadeva, per fuggire dalla loro realtà”. Lei scrive: “Il carcere come discarica sociale”... “È così. In carcere finisco i tossicodipendenti, gli immigrati e tutti quelli che sono considerati gli scarti della società, le persone che non vogliamo avere intorno e per le quali non vogliamo attivarci per una reintegrazione reale. I percorsi non esistono, ci sono solo piccoli progetti ai quali possono accedere pochissimi detenuti. Da carcere si esce più incattiviti di prima. È un luogo dove un adulto deve chiedere sempre il permesso a un altro adulto per fare qualsiasi cosa. Non credo che sia il modo per riabilitare le persone. Non si può “infantilizzare” qualcuno rinchiuso in un contesto ben poco dignitoso. E non tutti i detenuti hanno gli strumenti per capire e cambiare vita”. Tra i fatti che non tornano, è centrale il mistero delle telecamere di sorveglianza. Subito le autorità carcerarie avevano detto che erano fuori uso senza spiegare dove, da quando e perché. Poi è saltato fuori che ci sarebbero immagini. Che però nessuno ha mai visto, a differenza di Santa Maria Capua Vetere... “A Capua Vetere le telecamere sono state determinante per avviare una discussione pubblica. Di queste telecamere di Modena non si è mai avuto conferma e non si sa nulla delle immagini. Sarebbe importante vedere. Nove morti in un carcere sono un triste primato. In ballo c’è una serie di responsabilità che magari sarebbero finite tutte in un fascicolo da archiviare ugualmente. Ma come cittadina mi sarei sentita meglio se le indagini fossero state fatte in maniera più approfondita”. Il libro si intitola “Morti in una città silente”. Modena è una città distratta? “Modena non ha voglia di occuparsi di ciò che non funziona. È una città che si interessa delle sue eccellenze locali: delle auto, dei ristoranti, dei prosciutti, il balsamico, Vasco Rossi e tutta la gamma del top, ma non ha voglia di scavare nei suoi buchi neri”. Per diminuire la distanza tra carcere e società di Roberta Barbi L’Osservatore Romano, 8 giugno 2022 Cortometraggio presentato dal prefetto del Dicastero per la comunicazione. La morte di un figlio e il dolore di una madre: ci sono tutti gli elementi fondativi dello Stabat Mater classico nel cortometraggio dell’Electra Teatro di Pistoia, girato dal regista Giuseppe Tesi nella casa circondariale della città, con la partecipazione di un gruppo di detenuti. Tratto dal dramma Madri della poetessa pistoiese Grazia Frisina, il lavoro, realizzato nei mesi più bui della pandemia, è stato presentato oggi nella Filmoteca Vaticana dal prefetto del Dicastero per la comunicazione Paolo Ruffini e dalla vicepresidente della Commissione straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani - istituita all’interno del Senato della Repubblica italiana - Paola Binetti. Con questa iniziativa “il Dicastero ha voluto rispondere all’attenzione del Pontefice nei confronti di questi nostri fratelli”, ha detto il prefetto nel suo saluto; “abbiamo scoperto che nel carcere si vedono abissi di dolore, di disperazione, ma anche abissi di straordinaria capacità di reagire e di straordinaria capacità di ritrovare se stessi nel momento della sofferenza. Una pastorale carceraria che sia realmente incisiva, deve far leva unicamente sull’ascolto e sulla vicinanza, proprio come ci esorta a fare costantemente il Papa”. Nel cortometraggio al centro è la figura di Maria, qui fotografata nel suo lato più umano, quello di una madre pronta addirittura a rifiutare la santità pur di non veder soffrire il Figlio, pur di non provare il dolore più grande e, assieme a questo, l’impotenza dell’ineluttabilità. Il lutto di Maria, dal testo universalmente conosciuto, in questo lavoro che è il frutto di un laboratorio teatrale durato oltre un anno, diventa il lutto e il vissuto di ogni detenuto che si fa interprete nel coro, diventa il lutto della detenzione intesa come privazione della libertà e come separazione dagli affetti e dalla famiglia. Un tempo, troppo spesso vuoto, che può però diventare riabilitativo grazie a iniziative come questa, raccontata nel volume-documentario “Senza pregiudizio. Dove il cinema si fa riscatto”, che ripercorre l’incontro umano e professionale tra il regista e gli ospiti della casa circondariale di Pistoia, dalla prima impressione all’ultimo giorno di riprese, già bagnato dalle lacrime della nostalgia. Tra queste pagine si sottolinea, tra l’altro, il valore catartico dell’attività teatrale e i benefici che questa ha in carcere nel tentativo di liberarsi sia del dolore provato che di quello inflitto, raggiungendo una dimensione finalmente riparativa della giustizia. “Sta a noi dare il giusto contributo per umanizzare questi Istituti, alimentando la circolarità delle idee e delle proposte”, ha proseguito Ruffini. “Il cortometraggio di oggi è una delle più efficaci testimonianze di questo tipo di contributi. Tutto quello che è stato fatto e che continueremo a fare ha un unico obiettivo: diminuire la distanza che c’è tra l’uomo in carcere e la sua famiglia, che c’è tra l’uomo in carcere e la società. Anche perché, lo stesso Francesco ci ricorda che “tutti sbagliamo nella vita, ma l’importante è non rimanere sbagliati”. Crisi sociale e guerra, democrazia a rischio di Alfiero Grandi Il Manifesto, 8 giugno 2022 Landini (Cgil) ha posto la grande questione. Non può continuare a crescere la frattura tra ciò che si aspettano settori decisivi Paese e le (non) decisioni politiche del governo. Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ha denunciato con forza le ragioni di un grave malessere sociale del mondo del lavoro, destinato a crescere nei prossimi mesi. L’occupazione cresce poco ed è precaria. I salari italiani sono surgelati. l’Ocse fotografa un -2,9 % in 30 anni, ultimi in Europa e unici ad averli in diminuzione. L’inflazione è in crescita (6,9 %), riduce drammaticamente il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e da pensione. Quasi 6 milioni di poveri. Lavorare non garantisce più di non essere poveri. Una denuncia forte. Una situazione insopportabile. I sindacati provano a reagire, come con lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil nel dicembre scorso. Cresce un disagio sociale profondo, potenzialmente esplosivo. Non tenerne conto può portare ad una crisi democratica, a una verticale caduta della capacità di risolvere i conflitti, ad una sfiducia dilagante. La continuazione e la ferocia della guerra in Ucraina, il forte riarmo che ha innescato nel mondo, il rischio dell’estensione del conflitto contribuiscono a creare angoscia sul futuro, in particolare del mondo del lavoro. Rischio di frattura democratica, cioè incapacità di risolvere i conflitti con gli strumenti della democrazia, pericolo che la guerra sfugga di mano, fino a diventare l’innesco di un conflitto mondiale, perfino nucleare, richiedono scelte nette e consapevolezza dei pericoli. Nascondere la testa sotto la sabbia è pericoloso. Landini ha posto una grande questione democratica. Non può continuare a crescere la frattura tra ciò che si aspettano settori fondamentali del Paese e le (non) decisioni politiche che vengono prese. Due esempi. È dimostrato che sull’Ucraina almeno la metà del nostro paese è preoccupato dalla scelta di mettere l’accento sulla guerra anziché sulla ricerca della pace, come dimostra l’invio crescente di armamenti, più potenti, in Ucraina, mentre per trovare una soluzione al conflitto c’è troppa rassegnazione. Lo sblocco del grano ucraino può esserci senza trarne le conseguenze di una trattativa che deve affrontare altri aspetti del problema? Dal blocco dell’invasione russa all’invio delle armi e alle sanzioni. Il parlamento non riesce a decidere sul fisco, se non a patto di sancire ancora una volta che i cittadini sono soggetti a due sistemi fiscali diversi, uno progressivo per i redditi da lavoro e pensione (come afferma la Costituzione) e uno ad aliquota proporzionale per le rendite e i redditi da capitale, non previsto dalla Costituzione. Per non parlare dell’evasione e del prelievo sui ricchi. È la conferma che il paese reale non trova ascolto nella rappresentanza politica. A meno di un anno dalla scadenza naturale delle elezioni non c’è un credibile tentativo di arrivare ad una nuova legge elettorale. Così la prossima legislatura può essere un’occasione perduta per ristabilire una sintonia tra il paese reale e la rappresentanza politica che ha il compito di prendere decisioni. Questo impedirebbe di affrontare i problemi drammatici di cui parla Landini, con il rischio che il futuro assomigli al presente. La legge elettorale consente ai capi partito di scegliere chi fare eleggere. Questo avviene da alcune legislature e ha provocato uno scadimento progressivo della qualità dei parlamentari (scelti per fedeltà) e la perdita di ruolo del parlamento, che già ora potrebbe chiedere di conoscere gli armamenti che il Governo sta inviando in Ucraina e perfino decidere di interromperne l’invio. La scelta diretta dei parlamentari da parte degli elettori potrebbe portare ad un orientamento del parlamento sulla guerra vicino a come la pensano gli elettori. Se elettrici ed elettori scegliessero direttamente i loro rappresentanti l’occupazione, la sua qualità, i salari, il potere d’acquisto diventerebbero ragioni per scegliere o bocciare un/a candidato/a. Altrimenti la denuncia drammatica della situazione del mondo del lavoro rischia di non avere sbocco. Siamo vicini ad un punto di rottura. La prossima legislatura dovrà difendere i principi costituzionali. I confini della lotta politica non dovrebbero essere valicati, per tornare ad un confronto tra opzioni politiche diverse, che non sono riducibili a due schieramenti ma appartengono a più partiti, che dopo il voto dovranno aggregarsi per governare, sottratti all’obbligo/convenienza di riunirsi in coalizione prima del voto. Solo il proporzionale può rappresentare il paese reale. Le maggioranze “coatte” non hanno portato fortuna né al centro sinistra né al centro destra. In poco tempo i governi della “stabilità” sono andati in crisi. La parabola del M5Stelle non ha colmato il vuoto da cui era balzato ad un terzo del parlamento. La frattura tra elettori e rappresentanti può alimentare allontanamento, indifferenza, restrizione della democrazia. Crisi sociale e guerra fanno temere per il futuro della democrazia disegnata dalla nostra Costituzione. Ragazze molestate. Milano, l’altra Africa: “Non odiamo le donne, il male è nel branco” di Brunella Giovara La Repubblica, 8 giugno 2022 Dopo le molestie sul treno, viaggio nei quartieri dell’immigrazione. I ragazzi e i volontari: “Siamo una pentola a pressione, come le banlieue”. Di solito va così: “Nel gruppo ci sono sempre i più aggressivi, quelli che danno la linea. ‘Andiamo a fare casino, andiamo a rubare, cerchiamo le donne...’. E gli altri, scemi, dietro. Sul treno è successo questo, purtroppo. Ma per tre violenti, ce ne erano sicuramente venti-trenta solo scemi, che adesso sono complici di un reato gravissimo”. Così parla Aladin, esperto di delinquenti minorenni in quanto ex delinquente minorenne. Egiziano, 19 anni, in “messa alla prova” nella comunità Kairos - “facevo rapine, quando ero piccolo” - conosce le dinamiche dall’interno “perché così succede anche nei furti. Vai in gruppo, mica da solo. Il gruppo ti dà forza... Poi cominci con le rapine”. E sul fatto specifico, che conosce via Instagram, “la cosa mi fa molto schifo. A me in famiglia hanno insegnato che le donne si rispettano. Erano ‘africani’? Mi vergogno per loro”. Aladin è di Baggio, periferia di Milano come il Gallaratese, e San Siro, Giambellino, Molise-Calvairate, Corvetto. Alta densità di ragazzi extracomunitari, i cosiddetti seconda generazione, e anche di prima, perché gli arrivi continuano e riempiono quartieri a reddito infimo, case popolari spesso orrende, malsane, che traboccano un puro odio che poi diventa concreto nei raid dei più giovani, le scorribande predatorie in corso Como - le rapine di orologi, magliette, scarpe firmate - , e le violenze sessuali in piazza Duomo, la notte di Capodanno, e il raduno trap sul lago di Garda, con 5 ragazze ostaggio di una trentina di maghrebini, probabilmente, di sicuro la giornata era all’insegna del “siamo africani, e cattivi” (“Questa è Africa, siamo venuti a conquistare Peschiera”, così si sente gridare nei video poi finiti online). Salvate dal peggio da un ignoto al momento “ragazzo di colore”, che le ha fatte scendere a Desenzano, scansando i violenti. Non sappiamo ancora chi - tra aggressori e salvatori - ma sappiamo da dove vengono questi ragazzi, e sono questi posti “che non sono ancora banlieue ma lo stanno diventando, e te lo dice uno di Quarto Oggiaro come me”. Dario Anzani è il coordinatore del Centro diurno Giambellino, struttura storica gestita da cooperativa sociale eroica, e finanziato da Comune e Save the Children. Un posto dove si rischia parecchio, ad entrarci, per via delle pallonate di un gruppo eterogeneo di età e colore di pelle, tenuto a bada da un arbitro che avrà 18 anni, una partita di calcio tra alberi e panchine, un via vai di mamme con il velo o senza, e rispettivi neonati, e dentro c’è una festa per la fine della scuola, dove si preparano polpette e qualcosa sta bruciando. Un 150 ragazzi quasi tutti non italiani passano i loro pomeriggi qua, perché c’è il doposcuola per tutti, e il centro famiglie, e molte altre cose ancora che un altro quartiere critico e più grande come San Siro, ad esempio, non ha. “Questi quartieri sono pentole a pressione. Ci sono scuole, come la elementare Narcisi, con il 68 per cento di alunni stranieri, e la media a Milano è il 27 per cento. E ci sono ragazzi che hanno trascorso il lockdown con tre fratelli in 27 metri quadri di casa. Per me l’unica sorpresa è che non facciano molto di peggio”, e stiamo parlando dell’aggressione sul treno. “Ne abbiamo parlato, certo”, dice Anzani. Cosa dicono i ragazzi? Schifo. “Il pericolo è il gruppo, la massa. Poi c’è il pregiudizio. Verso gli arabi, certo. Gli ‘africani’ vengono considerati delinquenti a priori”, e questo Aba, che si chiama per lungo Abanoub Daoud Mosaad Beh Abadir, cita il caso del fratello minore, “che ha la pelle più scura della mia e una pettinatura da tamarro, così la polizia lo ferma almeno tre volte la settimana”. Il padre “sempre preoccupato”, o forse anche rassegnato all’idea che in quanto egiziani, questa sia la vita che gli tocca. “però, capisci, in questo quartiere ci sono due scuole medie. La Anemoni, una scuola ghetto dove sono quasi tutti stranieri. La Carlo Porta, dove la maggioranza è italiana”. E’ giusto, si domanda il giovane (21 anni) che è uno dei pochissimi, al Giambellino, ad “essere uscito dalla scuola ghetto”, e attualmente frequentante il secondo anno di Ingegneria edile e Architettura a Pavia? E mentre si parla con Aba, schivando le pallonate, proprio a Pavia Simone Feder sta parlando con una ragazzina di 15 anni, “italiana, una che ha tutto e non ha voglia di fare niente”. Feder è coordinatore dell’area Dipendenze della Casa del Giovane, e fino al 2019 giudice onorario al tribunale dei minori di Milano. Sa che “i ragazzi che commettono reati sono italiani e stranieri, senza distinzioni di carta di identità e estrazione sociale. I genitori? Delegano allo specialista, non si prendono responsabilità educative. Gli arabi? Come tutti gli altri. In più, hanno una totale diffidenza ad accettare un aiuto. E vale per tutti, una totale inconsapevolezza dei reati che compiono”. Al massimo dicono “ho fatto una cazzata”. Di chi è la colpa, Feder. “Delle famiglie, che non hanno messo i paletti al momento giusto”. E’ così? E’ così, lo dice anche don Claudio Burgio, uno che se ne intende. Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano. Vive nella comunità Kairos - quella di Aladin - “insieme a 50 ragazzi dai 14 ai vent’anni. E chi sono? Italiani, anche di buona famiglia. Più italiani che stranieri. Ci sono maghrebini, certo”. Ma “non ne farei un problema etnico, o di seconda generazione. E’ un problema di cultura”, anzi di non-cultura, “dove non c’è educazione di genere, e non c’è una educazione sentimentale. Sono ragazzi anaffettivi, che talvolta, ecco, hanno seguito dei corsi di educazione sessuale a scuola. E a casa, lasciamo perdere. Dal punto di vista emotivo, sono tutti analfabeti”. Al punto di non rendersi conto di commettere una violenza? “Non sentono le emozioni degli altri, e questo poi può degenerare”. Don Claudio non teme certo l’accusa di buonismo, il prete buono che difende gli ultimi eccetera. E nemmeno Anzani, che prete non è e si arrabatta con i quattro soldi che ha: “Una volta c’erano i terroni, che tenevano le donne chiuse in casa, e usavano i coltelli. Ne siamo venuti a capo, no? Ma una volta c’era lo Stato, oggi io non lo vedo più”. Vede però “la ghettizzazione culturale, e ragazzi di 15 anni nati a Milano, che non sanno parlare italiano”. Hai voglia, a parlare di integrazione, allora. Intanto, davanti al kebab Giambellino, due ragazzini in bici accettano di parlare dei fatti di Peschiera. Eravate lì? Uno dice “no, mio padre mi ha detto di non andare”. L’altro esita. C’eri? “Ma non ho visto niente. C’era quel messaggio su TikTok, e siamo andati”. Lo spettro della fame ora scuote l’Occidente di Domenico Quirico La Stampa, 8 giugno 2022 Molti Paesi africani e asiatici rischiano la rivoluzione per la mancanza di cibo: è l’altra faccia della globalizzazione, nascosta dal paravento della ricchezza per tutti. Dannato Putin! In Occidente cercavamo di durare il più possibile, nel dolce tepore del benessere e della pace. Il convincimento era smottato nel profondo di noi stessi, che la globalizzazione non fosse un vantaggio solo per questa scaglia del pianeta ma stesse rendendo tutto il mondo più ricco, anche quello dei diseredati chiamati così a partecipare al grande banchetto dei consumi e delle occasioni universali. Era questo che ci ha tenuto al riparo perfino dagli scrupoli e dai rimorsi anche se si intravedevano pallori. Libero mercato e democrazia non viaggiavano forse a passo obbligatoriamente eguale? Per le autocrazie prima o poi sarebbe suonata la campana a morto. Non ci turbavamo più, facevamo allegramente gli illuministi. Lui, l’autocrate, un mattino dichiara la guerra, distrugge, invade, separa, ci iberna in un nuovo pessimismo. E nella sua furia di scombinare il mondo che non gli aggrada interrompe subdolamente anche il commercio del grano. Così ci costringe a una inusuale ricognizione nel repertorio delle cose dimenticate, una presenza che pensavamo scomparsa: il povero di stampo biblico, l’affamato, chi muore di inedia, il pezzente assoluto. Ci costringe a riadottare l’angoscia per la povertà tangibile, biologica, psicologica e storica. La povertà si tocca. Con questi poveri non si può eccepire, storicizzare, girare intorno, ignorare e negligere. Sgomitolano subito le nostre proposizioni bizantine. I titoli recitano dando voce all’allarme dell’Onu: si rischia la più grande emergenza umanitaria della storia. Intendiamoci: i poveri, i nostri poveri, li conosciamo bene, perché sono in mezzo a noi, inciampiamo nei loro giacigli anche nei luoghi più chic delle capitali d’Occidente. Ma sono quelli che pudicamente chiamiamo i poveri “nuovi”, come se l’esser specie finora sconosciuta giustificasse lo scandalo che esistano. Un problema di welfare zoppicante, di ristori e redditi minimi, di classi medie in crisi, il Covid lungo, per cui ci sono mille formule miracolose per dare assistenza e riportarli a medie numeriche accettabili. In fondo, ci si consola sociologicamente, ci saranno poveri finché ci saranno ricchi. Evitando di aggiungere il comma successivo, che nessuno dovrebbe avere il diritto di esser ricco fino a quando ci sarà un povero. Ma con il raddoppio del prezzo del grano, le esportazioni ucraine bloccate nei porti, i noli marittimi che crescono per la guerra (il grano viaggia per mare come ai tempi di Cesare), parti intere del mondo ora rischiano di non poter sfamare la quota predominante dei propri cittadini, gli indigenti per cui il pane sotto innumerevoli forme e nomi costituisce (venduto a prezzo politico o donato) il fragile, quotidiano contatto con la possibilità di sopravvivere. Gli uomini che conoscono le vie del niente. (Ri)scopriamo creature assolutamente diverse, che non dovrebbero esistere per come si è andata configurando la nostra idea del mondo che punta sul tornaconto, il successo, la garanzia. Invece sono lì. Sono sole, incomprese, contraddette, derubate, clandestine. Nel terzo millennio come invano ci hanno raccontato con voce sempre più flebile per la delusione del silenzio samaritani tutt’altro che dispersi e smarriti, soltanto rimasti desolatamente soli, milioni di uomini sopravvivono appesi a un pezzo di pane, al prezzo di un pezzo di pane. La guerra civile europea, guerra sciagurata e criminale in un luogo di cui non hanno mai sentito parlare, e i cui pretesti (la denazificazione, il Donbass, la guerra fredda) risulterebbero loro del tutto incomprensibili se mai qualcuno tentasse di spiegarli, a migliaia di chilometri di distanza taglia il filo della sopravvivenza, li getta nel buio preistorico della fame. Ieri il governo americano ordinava ai governi africani di non comprare il grano portato da navi russe, perché sarebbe stato saccheggiato nei silos ucraini. Raramente ho avvertito così forte la bruciante, implacabile distanza che separa il nostro mondo, quello delle sanzioni, della geopolitica, dei bilanciamenti di potenza, dalle eterne periferie geografiche e umane. Penso agli affamati che nulla sanno delle nostre mischie, capolinea umani dove l’agricoltura è infima, le capanne spoglie, la morte familiare, la resa data per certa. Migliaia di bidonvilles e villaggi in Africa e in Asia ciascuno con lasua pena. Notizie come quella della strage in una chiesa della Nigeria, che si avvia a essere la nuova Somalia africana, acquistano in questa emergenza del grano una disperazione diversa. Qui è la lotta primitiva eterna tra pastori e contadini in una terra morta che si arroventa sotto una luce, che grida, lotta per sopravvivere, e risale in una disperata ferocia a qualcosa che viene prima addirittura delle fedi e dei fanatismi. La crisi nel commercio del grano ancora non c’entra. È la desertificazione che avanza, si lotta per una pozza d’acqua ancora umida, o i campi o il bestiame. Se il blocco e i prezzi resteranno alti tutto questo si aggraverà e moltiplicherà, toccherà le metropoli africane dove cercano rifugio e assistenza gli sconfitti della desertificazione. Scoppieranno le guerre più feroci, quelle della fame. La prepotenza di Putin ha capovolto dunque la nostra luccicante globalizzazione, l’ha rovesciata, con il ricatto del grano, nel suo contrario: la globalizzazione della fame. Riscopriamo l’uomo più povero del mondo, uno sterpaio di storie definite insolubili. L’uomo più povero del mondo è certamente l’abitante di uno di questi Paesi africani su cui incombe l’ombra scura di una nuova carestia. Anzi probabilmente è una donna, una donna africana. Ecco la sua vita quotidiana: cammina per ore, porta sulla testa un carico che può pesare fino a 50 chilogrammi, sulle spalle il suo ultimo nato e in grembo spesso un altro che deve ancora nascere. Dall’età di dieci anni pesta la manioca e si occupa dei fratelli più piccoli. A quattordici l’hanno fatta sposare, anzi violare, altre volte è semplicemente venduta come prostituta senza esitazioni. Pensiamo a lei quando dobbiamo giudicare la smisurata e colpevole inutilità di questa guerra. Ucraina. La denuncia degli orrori di Kherson: “Nelle camere di tortura 600 civili” di Corrado Zunino La Repubblica, 8 giugno 2022 Nel territorio occupato di Kherson, Ucraina meridionale, immediatamente sopra la Penisola della Crimea, sono in corso - è la denuncia del governo ucraino - nuovi crimini di guerra. Violazioni collettive. La rappresentante permanente della presidenza ucraina in Crimea, Tamila Tacheva, ha detto, illustrando le sue parole con un rapporto, che a Kherson, la prima grande città presa dall’Armata russa, e nella sua regione seicento persone considerate ostili al nuovo regime sono state portate dalle truppe russe “in camere di tortura”. Lì seviziate per uno o due giorni e avviate verso un carcere in Crimea, territorio annesso da Putin nel 2014. Contattata da Repubblica, la rappresentante governativa, che dall’inizio della guerra del 24 febbraio scorso ha dovuto lasciare la Crimea, ha detto: “Secondo le nostre informazioni, seicento persone sono detenute in scantinati appositamente attrezzati in tutta la regione, la metà sono nei seminterrati nella città di Kherson”. Ha spiegato, quindi: “Sono principalmente giornalisti e attivisti che hanno organizzato manifestazioni filo-ucraine a Kherson e nella regione dopo che le truppe russe avevano occupato il territorio. Sono trattenuti in condizioni disumane”. Sono durate settimane le manifestazioni di protesta in questa parte dell’Ucraina meridionale. Il 19 aprile da Kherson è sparito l’ex sindaco Vladimir Mikolaenko, caduto in una probabile trappola dopo l’invito di un amico. E, ancora, dieci giorni prima era stato denunciato il rapimento dell’ex capo dell’amministrazione regionale Andrey Putilov, probabilmente deportato in Crimea. La stessa Tacheva ha riferito che gli oppositori detenuti nelle stanze di tortura “vengono poi deportati nelle prigioni della Penisola”. In particolare, verso il carcere Sizo di Simferopol, dove le autorità russe hanno chiuso un blocco destinandolo ai prigionieri ucraini e proibendo ogni visita esterna. Il dossier della rappresentante dell’Ucraina è dettagliato e basato su molte testimonianze, “rese da chi ha subito torture e si è piegato o dai parenti di chi è scomparso. Sono tutte verificate”. In alcuni casi le “tecniche di profilassi” adottate - così sono chiamate le torture in questi centri di detenzione - sono state rese pubbliche dagli stessi militari russi per spaventare altri attivisti e far loro abbandonare ogni forma di protesta. Diverse persone sono state trattenute - in media per uno o due giorni - nell’edificio correzionale numero 90 di Kherson, detto Nord, quindi nel palazzo dell’amministrazione regionale, sempre nel capoluogo dell’oblast, e in quello degli ex servizi segreti ucraini. Diversi “i centri di detenzione e tortura” avvistati nelle città minori: il dipartimento di polizia di Nova Khakovka, ancora un edificio a Kalanchak, un “centro di ricreazione” lungo il Fiume Dnipro occupato dall’esercito russo e la scuola numero 17 di Henichesk, cittadina marittima. Tra coloro che sono stati fermati e portati nei centri di tortura, dice il dossier, ci sono, anche persone fuggite dalla Crimea dopo l’occupazione del 2014, tra cui i leader dei Tatari, stanziati nel territorio di Genichesk, diversi soldati che hanno combattuto in queste stagioni nel Donbass, politici locali e i loro familiari: “Tutti quelli che rifiutano di collaborare con il nuovo governo”. Tamila Tacheva cita episodi e nomi: “Sono stati rapiti, uno dopo l’altro, i fratelli Edem e Refat Asanov, che per un mese non si erano fatti trovare dall’esercito russo. Con un raid nella casa del più grande, nel villaggio di Schastlyvtseve, il 2 maggio, senza aver trovato prova della sua presunta eversione, i russi lo hanno costretto a seguirli. Il giorno dopo è toccato al fratello minore. Entrambi sono spariti”. Due militanti di 52 e 63 anni sono stati prelevati e interrogati con l’accusa di far parte del Crimean Tatar Battalion. Iryna Gorobotsova è scomparsa il 13 maggio, nel giorno del suo compleanno. Sui social condannava l’invasione e da un mese i familiari non sanno dove sia: “Sono gli stessi metodi che i russi hanno usato negli ultimi otto anni in Crimea”. Medio Oriente. I piccoli campioni di pace ebrei e palestinesi di Giulia Zonca La Stampa, 8 giugno 2022 Scegliere l’asfalto come terreno morbido dà l’idea della fantasia che ci vuole per mettere insieme una squadra di calcio arabo-israeliana. Una squadra di bambini che hanno genitori cresciuti con la necessità di separare e, all’improvviso, si trovano a condividere il tifo per i figli, sul campetto coperto a bitume che sta proprio tra l’Est e l’Ovest di Gerusalemme. Tra la città palestinese e quella ebrea. Come succede a Tel Aviv e addirittura a Ramallah. Tredici di questi ragazzini oggi sono a Cagliari per il progetto sociale del torneo Selis, calcio giovanile ai massimi livelli e un gruppo di pulcini che prima d’ora ha condiviso solo un allenamento a settimana e si ritrova a scambiarsi un’esperienza pazzesca. Per la prima volta fuori di casa, per la prima volta davvero insieme a raccontarsela, a mangiare spalla a spalla senza parlare la stessa lingua. Sette arabi e sei ebrei, tutti nati nel 2011: scuole differenti, culture opposte, religioni non parliamone, festività sfalsate. In caso di finale, prevista sabato, una parte non prenderebbe i mezzi pubblici e farebbe cose alternative perché è Shabbat. Ma il problema non esiste o meglio è sempre il solito e nessuno ci pensa in questa gita costruita negli ultimi tre anni a forza di prospettive impossibili diventate reali: “Sappiamo di non poter essere tra i migliori, l’obiettivo è fare un gol. Aspettative basse ed emozioni giganti”. A creare il team e il progetto “Social Goal” mediorientale che conta 300 bambini sparsi in varie città, 150 sotto l’ombrello Inter Campus, ci sono due italiani. Yasha Maknouz, nato a Milano in una famiglia libanese e dal 2005 di base a Tel Aviv e Arturo Cohen, sempre natali lombardi e radici ebraiche che lui ha deciso di seguire nove anni fa: “Ho capito che la questione israeliana non mi dava pace”. E ha curato quest’ansia con i palloni. Calcio, basket, pallamano, pallanuoto qualsiasi sport faccia aggregazione e obblighi bambini abituati a camminare su strade parallele a trovare un punto d’incontro. Un passaggio, un assist, la costruzione di un futuro. Le tensioni ci sono, le discussioni mai perché dentro questa squadra “ci si sporca le mani”. A volte arrivano i rifiuti, e i ragazzi non si frequentano. Non possono: la società spacca il gruppo che si ricompone solo quando entra in azione la palla. Fino a oggi, a questa trasferta che allunga i tempi dell’incontro. In allenamento, si impara a non attribuire l’errore alla provenienza, “il tiro sbagliato, il fallo, il gol mancato potrebbero diventare in fretta l’entrataccia dell’ebreo, l’occasione mancata dall’arabo. Noi smontiamo questa struttura”. Per montare una collaborazione. “Social Goal” raccoglie fondi con l’organizzazione di tornei aziendali: mettono sul campo di calcetto Facebook contro Tik Tok e poi quei loghi, insieme a quello dell’Inter che foraggia in parte l’iniziativa, diventano sinonimo di neutralità. Nulla è legato alle istituzioni dei due Paesi “sarebbe la fuga collettiva” e invece è l’unione parziale. Trecento bambini che sperimentano una coabitazione precaria e tredici di loro ora sono in Sardegna a coesistere senza neanche sapere come parlarsi. A giocare.