Tensioni, suicidi e sovraffollamento, ma finora nessuna azione concreta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2022 Doppio suicidio al carcere di Milano, incendio provocato dai detenuti a Cremona, scarseggiano medici nelle carceri tanto che la Asl locale di Foggia ha dovuto fare un avviso pubblico urgente. Oltre 4.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare ufficiale. Nel frattempo, secondo i dati raccolti da Ristretti Orizzonti, siamo a 29 suicidi dall’inizio dell’anno. “Quanto sta avvenendo in queste ore, sperando che si debba fare la conta di danni solo materiali, conferma che la grave emergenza penitenziaria è ancora in atto e che dalle rivolte e dai tredici morti del marzo 2020 la situazione non è affatto cambiata”, queste sono state le dure parole si Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, quando venerdì sera alcuni detenuti del carcere di Cremona, a causa della mancata somministrazione di uno psicofarmaco, hanno inscenato una protesta appiccando il fuoco alle rispettive celle. Ottanta ristretti sono stati evacuati. Ma sempre venerdì c’è stata la notizia che al carcere milanese di San Vittore due giovani detenuti, uno di 24 anni e uno di 21, si sono tolti la vita in pochi giorni nel settimo reparto della casa circondariale. Notizia data dall’Osservatorio carcere e territorio, di cui fa parte anche Caritas Ambrosiana, sottolineando la crescente presenza nell’istituto milanese di persone affette da disturbi mentali. Uno dei due suicidi era in attesa del trasferimento in una Rems - Uno dei due giovani, il 21enne che si è tolto la vita giovedì 2 giugno, era in attesa del trasferimento presso la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), e nelle settimane precedenti aveva già tentato due volte il suicidio. L’altro, il 24enne, si è invece tolto la vita nella notte di giovedì 26 maggio. Secondo l’Osservatorio, l’intervento di supporto psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente perché i servizi per la salute mentale non riescono a garantire continuità terapeutica. Il personale psichiatrico non va nel carcere di Ariano Irpino - Ma il problema della salute mentale in carcere non è solo una peculiarità di San Vittore, ma generale. Proprio ieri, gli osservatori campani dell’associazione Antigone hanno visitato il carcere di Ariano Irpino (AV), dove sono attualmente ristrette circa 220 persone. Gli osservatori denunciano che il carcere soffre di una grave carenza di personale medico, in particolare, il personale psichiatrico del Dsm di Avellino non si reca in istituto nonostante la presenza di 8 detenuti con diagnosi psichiatrica grave. Quasi la totalità dei detenuti assume ansiolitici blandi. Inoltre, osservano, nessun dirigente sanitario è assegnato alla struttura. Gli osservatori di Antigone sottolineano che il penitenziario si compone di due padiglioni: uno, vecchio e in attesa di ristrutturazione, dove all’interno di alcune celle, ancora in uso, sono visibili macchie di muffa. Il nuovo, di recente fattura, non presenta evidenti problemi strutturali. Soltanto in 4 delle 11 sezioni - tutte di media sicurezza - vige il regime delle celle aperte. Nel reparto di infermeria, composto da cinque celle, sono attualmente ristretti alcuni detenuti con diagnosi psichiatrica e di difficile gestione da parte del personale di polizia penitenziaria. Avviso urgente della Asl di Foggia per reclutare personale medico-sanitario - C’è anche l’urgenza del poco personale medico che opera nelle carceri. C’è l’esempio eclatante del carcere di Foggia, tanto che la Asl locale ha pubblicato un “avviso pubblico urgente” per reclutare il nuovo personale di profilo medico- sanitario. In particolare l’azienda sanitaria sottoscriverà contratti per “incarichi provvisori” della durata di 18 ore settimanali. Ma con alcune varianti: ad esempio occorrono medici Sias (Servizio Interno di Assistenza Sanitaria) per 24 ore settimanali; richiesti inoltre specialisti in Psichiatria e con esperienza nel settore delle tossicodipendenze. La mancanza di medici, stando all’escalation di episodi segnalati negli ultimi tempi, avrebbe acuito lo stato di disagio dei detenuti del carcere di foggia in considerazione dei numerosi episodi di autolesionismo (anche suicidi) registrati nell’ultimo anno e mezzo. Un problema esploso il 9 marzo 2020 quando 72 detenuti evasero dalla Casa circondariale di Foggia dopo la fuga di notizie sui rischi di contagio Covid nelle strutture ristrette che allarmarono sia i ristretti che il personale interno dell’istituto (gli evasi furono poi tutti ripresi e in gran parte trasferiti in altri istituti). La cronaca purtroppo registra negli ultimi tempi ben due suicidi nel carcere foggiano: il 12 maggio un detenuto barese si tolse la vita impiccandosi con una corda rudimentale appesa alla finestra della sua stanza; il 23 aprile un altro detenuto si tolse la vita con le stesse modalità, altri due mesi e avrebbe riconquistato la libertà. Pare che l’uomo soffrisse di disturbi psichiatrici che in carcere non sarebbe stato possibile affrontare. A fine maggio i detenuti erano 54.771 su una capienza di 50.859 - Nel frattempo, cresce anche il sovraffollamento. Secondo i dati aggiornati a fine maggio, risulta un totale di 54.771 detenuti su una capienza ufficiale di 50.859 posti. Come si è sempre detto, i posti disponibili sono anche di meno, perché il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie tipo i posti inagibili oppure in via di rifacimento. In tutto ciò c’è da aggiungere l’alto tasso dei suicidi che riguarda anche quest’anno. Ma, finora, nessun intervento legislativo. Eppure, a fine marzo, la stessa ministra Cartabia, proprio durante un convegno organizzato dai garanti territoriali e la camera penale, ha annunciato che è tempo di operare. Proprio in quell’occasione, il garante regionale e portavoce di quelli territoriali Stefano Anastasìa ha anche offerto una via di uscita: “Tra i mille ristori che la comunità nazionale ha dovuto riconoscere a categorie economiche e gruppi sociali, non è possibile che non si riconosca che la detenzione in pandemia è stata enormemente più dura di quanto non sia normalmente. Questa maggiore sofferenza va riconosciuta con equità dalle istituzioni. Da un anno a questa parte diciamo “un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno passato in pandemia”. In Parlamento ci sono proposte per tornare alla liberazione anticipata speciale già sperimentata ai tempi della condanna europea per sovraffollamento. Sarà l’una, sarà l’altra, o una via di mezzo tra le due, ma non si può non riconoscere che circostanze eccezionali hanno costretto decine di migliaia di persone a pagare più del dovuto il loro debito nei confronti della giustizia. E la giustizia, se vuole essere tale, deve essere capace di riconoscerlo”. Ma nulla, tutto è rimasto immutato. Lo stesso sindacalista De Fazio della Uilpa ha osservato senza peli sulla lingua: “Più che le parole, le declamazioni di principio e le passerelle, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e al presidente del Consiglio, Mario Draghi, chiediamo fatti concreti, quale l’emanazione di un decreto-legge che affronti l’emergenza e crei le precondizioni per una riforma complessiva che ripensi il sistema d’esecuzione penale, rifondi il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e reingegnerizzi il Corpo di polizia penitenziaria”. Per ora, tutto è fermo nonostante mesi fa è stata depositata la relazione della commissione Ruotolo dove offre una rivisitazione complessiva del sistema penitenziario. Ma il tempo scade, e la prossima legislatura potrebbe non avere più tale sensibilità. Il populismo penale è più vivo che mai. Telefono casa, la piccola riforma che salva tutti di Alessandro Capriccioli Il Manifesto, 7 giugno 2022 In altri Paesi le persone detenute possono telefonare ai loro familiari ogni volta che vogliono, in alcuni casi gratuitamente. È una possibilità che contribuisce in modo significativo a ridurre la tensione all’interno delle strutture e al tempo stesso garantisce ai reclusi un trattamento più umano. Dieci minuti a settimana. Questo, regolamento penitenziario alla mano, è il tempo che ciascun detenuto (peraltro a proprie spese) può trascorrere al telefono coi propri familiari: un tempo che può essere aumentato dalle direzioni degli istituti in casi di particolare urgenza o in presenza di figli di età inferiore a dieci anni, ma che rimane in ogni caso fortemente contingentato. Si tratta di una regola inspiegabile (se si eccettua l’esigenza di evitare che i detenuti gestiscano dal carcere eventuali traffici illeciti, esigenza che peraltro con le attuali tecnologie sarebbe possibile soddisfare agevolmente in altro modo), che grava le persone detenute di una restrizione irrazionale e che contribuisce ad affliggerle ulteriormente. Come consigliere regionale del Lazio, avendo svolto un intenso lavoro ispettivo nelle carceri della mia regione, ho potuto toccare con mano gli effetti nefasti di questa limitazione, di cui il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella ha parlato sabato scorso su questo giornale insieme ad altre regole penitenziarie particolarmente “punitive”, sottolineando la necessità di modificarla per rispondere ai bisogni delle persone detenute e per tutelare il loro diritto alla vita familiare. Quando parlo di effetti nefasti non mi riferisco soltanto alla frustrazione dei detenuti per non poter sentire i propri cari ogni qual volta lo desiderano, ma anche a esiti molto più problematici: questa limitazione, ad esempio, è alla base delle (ormai frequentissime) introduzioni illecite di telefoni cellulari negli istituti penitenziari, che una volta scoperte possono essere sanzionate fino alla condanna a ulteriori anni di reclusione. Non si tratta, naturalmente, dell’unica regola ingiustamente afflittiva che vige nei nostri istituti penitenziari: ma io ritengo che sia emblematica di come in carcere si possano produrre conseguenze disastrose sulla vita delle persone a partire da elementi di cui si fa fatica a cogliere il senso. In altri Paesi le persone detenute possono telefonare ai loro familiari ogni volta che vogliono, in alcuni casi gratuitamente. È una possibilità che contribuisce in modo significativo a ridurre la tensione all’interno delle strutture e al tempo stesso garantisce ai reclusi un trattamento più umano e rispettoso dei loro diritti: una possibilità per la quale credo sia arrivato il momento di battersi con forza anche nel nostro Paese. Non sarebbe, come si dice, una rivoluzione, ma una riforma ragionevole e concreta che volendo si potrebbe attuare nel giro di poche settimane, senza alcuna controindicazione se non la (tristemente) nota argomentazione secondo la quale occorre continuare a fare così perché così si è sempre fatto: argomentazione che antepone la pura e semplice esistenza di una norma alla sua utilità, alla sua efficacia, perfino alla suo ratio. Iniziamo da qua, dice Patrizio Gonnella, citando quella vecchia pubblicità con Massimo Lopez il cui slogan era: “Una telefonata ti salva la vita”. Iniziamo da qua e proviamo a entrare nell’ottica di una realtà, quella carceraria, nella quale a salvare la vita delle persone sono spesso proprio le cose piccole, quelle che dall’esterno potrebbero sembrare marginali o addirittura insignificanti, quelle che sarebbe possibile realizzare con relativa facilità. Realizziamo subito questa piccola grande riforma. Liberalizziamole, queste telefonate. Sono certo che avrebbe un impatto molto positivo non soltanto sulla vita dei detenuti e delle loro famiglie, ma anche sulla serenità, e dunque sulla sicurezza, delle nostre strutture penitenziarie. Poi andiamo avanti a discutere di tutto il resto. Il miglior omaggio a Smuraglia? Far vivere la sua legge di Rita Bernardini Il Riformista, 7 giugno 2022 Per chi si occupa di esecuzione penale, il partigiano ed ex senatore appena scomparso è soprattutto il padre di una norma buona e giusta che prevede agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono persone detenute. Se fosse veramente utilizzata, contribuirebbe a far rispettare l’articolo 27. Partigiano, avvocato, accademico, Carlo Smuraglia, è stato senatore prima del PCI, poi del PD. Comunque la si pensi sui temi affrontati con passione nel corso della sua vita, è impossibile non riconoscergli un attaccamento viscerale ai principi della nostra Costituzione unito ad una grande intelligenza e lucidità di pensiero. Nell’archivio di Radio Radicale, per esempio, ritroviamo un suo intervento di un anno e mezzo fa, quando di anni il Presidente emerito dell’Anpi ne aveva 97, contro quello che definiva il referendum truffa sul taglio dei parlamentari. Lamentava soprattutto la mancanza di dibattito sui media, vitale se si vogliono portare i cittadini ad un voto consapevole. Ci risiamo oggi con il silenzio sui 5 referendum di prossima votazione per almeno avviare una improcrastinabile riforma della giustizia. Chi si occupa di esecuzione penale e di carcere, il nome di Carlo Smuraglia lo ha sentito pronunciare infinite volte quale padre della buona e giusta legge, la n. 193 del 2000, che prevede importanti agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono persone detenute. Una legge che, se fosse veramente utilizzata, contribuirebbe a far vivere e non languire (come accade oggi) l’art. 27 della Costituzione. “Cara Bernardini, a te che chiedi di raddoppiare i fondi della legge Smuraglia per incrementare il lavoro in carcere, rispondo che lo scorso anno non sono stati nemmeno spesi tutti quelli stanziati in bilancio!”. Rimasi basita quando l’ex capo del Dap Dino Petralia mi diede questa notizia rispondendo ad una delle tante sollecitazioni radicali volte a migliorare le drammatiche condizioni di detenzione. È incredibile, ma in Italia accade che le nostre imprese, pur in presenza di sgravi fiscali inimmaginabili soprattutto in un periodo di crisi economica come l’attuale, non approfittino dei vantaggi previsti dalla legge. Si dirà: i detenuti non hanno voglia di lavorare, non sono affidabili. Non è così! Ricordo quando incontrai l’ingegner Silvio Scaglia, ex AD di Fastweb, detenuto ingiustamente in carcere quale vittima di uno dei tanti processi finiti nel nulla con la completa assoluzione dell’imputato. Da imprenditore e dirigente d’azienda che di lavoro se ne intendeva, mi disse “qui, reclusi con me, scopro che ci sono tante potenzialità, tanti talenti, persone intelligenti e capaci: se si desse loro l’opportunità di lavorare anziché stare a disperarsi senza fare niente tutto il giorno, io credo che le condizioni di detenzione migliorerebbero molto e queste persone, una volta finito di scontare la pena, non tornerebbero a delinquere.” Silvio Scaglia, un uomo di successo internazionale che ha dovuto pagare il prezzo della ingiusta giustizia italiana, la pensava esattamente come il senatore Carlo Smuraglia. Un altro illuminato manager ha avuto un’idea brillantissima durante i due appena trascorsi anni di pandemia, anni che nelle carceri sono stati devastanti anche in termini di vite umane perse. Davide Rota, AD di Linkem (e da poco di Tiscali), durante il lockdown, con il blocco del commercio internazionale, aveva l’esigenza di rimpiazzare i modem rotti, necessari per i collegamenti veloci alla rete Internet. Trovò subito la disponibilità della bravissima direttrice del carcere di Lecce Rita Russo (ora promossa a Provveditore del Piemonte) e, mentre tutto era fermo, organizzarono la formazione di una ventina di detenuti per il riciclo dei modem. Al termine del corso, 15 di loro furono assunti con un regolare contratto di lavoro rivelandosi bravissimi. Ho avuto modo di vedere con i miei occhi cosa sono capaci di fare, dallo smontaggio, alla igienizzazione fino alla riprogrammazione e all’inscatolamento. Il fatto miracoloso è che ognuno dei 15 “ragazzi” è in grado di svolgere qualsiasi fase della lavorazione. Il “modello Lecce” è stato poi esportato in altri istituti italiani. Lavoro vero, spendibile una volta finita di scontare la pena. Ma allora, cos’è che blocca il lavoro esterno che le imprese o le cooperative potrebbero portare dentro gli istituti penitenziari? La fotografia ad oggi ci dice che circa duemila detenuti svolgono questo tipo di lavori qualificanti, cioè meno del 4% della popolazione ristretta. Perché? I motivi sono tantissimi, ma occorre tenere presente che ogni penitenziario è una repubblica a sé, nel senso che molto dipende dalla bravura e determinazione del direttore nel ricercare le collaborazioni esterne, dalla disponibilità della polizia penitenziaria e dall’impegno degli educatori. La carenza di personale in ogni settore delle professionalità certo non aiuta. Basti pensare che i direttori, cioè coloro che dovrebbero essere un po’ i manager del carcere, sono una categoria in via di estinzione: in Sardegna, su dieci istituti ci sono solo tre direttori titolari. Il primo scoglio da superare è però quello del sovraffollamento, con migliaia di detenuti vicinissimi al fine pena sui quali è difficile investire, visto che non lo si è fatto prima. Purtroppo, le proposte di Nessuno Tocchi Caino e del Partito Radicale non vengono nemmeno vagliate dalla politica istituzionale italiana. Basterebbe quella della liberazione anticipata speciale, già adottata all’epoca della sentenza Torreggiani, per far “respirare” gli istituti penitenziari e trovare gli spazi fisici necessari per insediare le lavorazioni. Infine, c’è il problema dei problemi in un’amministrazione che storicamente dimostra di non funzionare. Mi riferisco alla mai attuata parte dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 riguardante la costituzione presso ogni circondario di Tribunale dei “Consigli di aiuto sociale” che hanno (avrebbero) come finalità istituzionale proprio quella del reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta. Si tratterebbe di trovare nel tessuto economico locale gli imprenditori che, risparmiando, intendano investire sugli ultimi, i dimenticati. Tutti ne trarrebbero beneficio anche dal punto di vista della tanto sbandierata sicurezza sociale. Finora solo il Presidente del Tribunale di Palermo, il dott. Antonio Balsamo, ha risposto all’appello e il prossimo 20 giugno si terrà una riunione del costituito Consiglio di aiuto sociale dentro il carcere dell’Ucciardone, alla presenza delle persone detenute. Che sia la volta buona? Spes contra spem, rispondo. Per onorare - non solo a parole - l’indimenticabile senatore Carlo Smuraglia. Cartabia: “Mai più bambini in carcere” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 7 giugno 2022 “Mai più bambini in carcere”. Parole chiare quelle pronunciate ieri dalla ministra alla giustizia Marta Cartabia a margine di un evento a Firenze. Parlando della proposta di legge che punta a promuovere il modello delle case famiglia per le detenute madri affinché i loro figli possano crescere lontano dalle sbarre. Per la ministra di fronte al caso di “un bambino, innocente per definizione, che cresca e che veda come orizzonte di vita nei suoi primi anni quel tipo di ambiente, credo che tutti quanti comprendiamo che sia richiesto un passo di civiltà in avanti”. Parole che riaprono la discussione sull’Icam, l’istituto a custodia attenuata per detenute madri, il cui progetto toscano risale al 2010, quando venne firmata un’intesa tra ministero della Giustizia, Regione Toscana e il tribunale di Sorveglianza per realizzare su una palazzina della Madonnina del Grappa, a Rifredi, una casa famiglia sorvegliata per accogliere otto madri detenute con i loro figli. Un progetto che finalmente dovrebbe vedere la luce: “I lavori partiranno a settembre”, ha assicurato l’assessore al sociale Sara Funaro, che poi ha aggiunto: “Condividiamo in pieno le parole della ministra Cartabia, stiamo seguendo un cronoprogramma specifico per la realizzazione dell’Icam, non ci sono arrivati ad oggi input per fermarlo”. Leviamo la cazzuola a chi vuole nuove carceri di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 giugno 2022 Lo scontro a distanza tra Nicola Gratteri, che spera nella costruzione di altre celle per sbattere facilmente le persone in galera, e Vittorio Feltri per il quale le prigioni non devono essere mai posti di tortura. “Sono convinto che il primo provvedimento da attuare sia quello non solo di eliminare la carcerazione preventiva, ma anche quello di rendere le prigioni non posti di tortura bensì di soggiorno per gente privata della libertà, non della dignità che va garantita a qualunque essere umano” (Vittorio Feltri). “Investire nella costruzione di nuove carceri è il miglior modo per evitare richiami all’Italia”. (Nicola Gratteri). Metti una sera a cena, o in uno studio tv, un improbabile faccia a faccia tra due signori brillanti e famosi. Che si guardano, si studiano e faticano a capirsi. Infatti è consigliabile non farlo quell’invito, che comunque non verrebbe mai in mente nemmeno a quei conduttori che non disdegnano la presenza di ciascuno dei due, ma in ambito nettamente separato. In modo del tutto arbitrario abbiamo messo a tavola, o in un talk, l’uno di fronte all’altro, Nicola Gratteri e Vittorio Feltri. A parlare di carcere. Sempre per scelta soggettiva abbiamo buttato alle ortiche i titoli della Stampa che privilegiava nell’intervista al procuratore di Catanzaro il problema della presunzione di innocenza e il “bavaglio” ai magistrati, e quello di Libero all’editoriale del direttore che a nostro avviso era fuorviante. Perché trasformava Feltri in una specie di Gratteri, e lo poneva al suo fianco, tutti e due con la cazzuola in mano a costruire nuove carceri. Quando l’uomo di buon senso dice (nel titolo) “Chiudere le prigioni? No, sistemiamole”, si capisce benissimo che manca ancora solo un passettino per un certo approdo e che mai comunque il direttore di Libero vorrebbe avere nelle mani quella cazzuola. Mentre il procuratore pare più preoccupato per la propria, di libertà. Magari per poter continuare a spiegarci con le conferenze stampa la necessità di tenere agli arresti senza sentenze di condanna tipi come l’avvocato Giancarlo Pittelli, piuttosto che pensare a migliorare la situazione delle carceri. O magari ridurre al minimo la custodia cautelare in prigione. Tanto che, dopo aver definito con sprezzo la situazione del carcere di Bollate come “uno spot”, oggi, in versione buonista, lo porta ad esempio di istituto che sforna detenuti meno recidivi di quelli usciti dalle altre carceri. Ma si capisce che il problema sta più a cuore all’uomo di buon senso che non a quello di giustizia. Come se per lui fosse questione marginale, burocratica. Se lo “spot” di Bollate ha funzionato, va bene, costruiamone tante di carceri fatte così, con il lavoro che emancipa e alla fine produce meno recidiva. Ma intorno costruiamo alte e solide mura. Tutto scivola via, nel mondo delle toghe, come se non fossimo (o dovremmo essere, se la coltre del silenzio non stesse tentando di soverchiarci) nel pieno di un acceso dibattito sui cinque referendum-giustizia di domenica prossima. Come se l’uomo di giustizia e l’uomo del buon senso potessero sottrarsi, e parlare d’altro, della guerra o anche del caldo, non sentendo quello del carcere come un problema urgente. Come se tutti i pronunciamenti dei vari organi di giustizia europei non fossero sempre lì con il dito alzato a rimproverare l’Italia per le condizioni dei suoi istituti penitenziari, la lunghezza dei processi e di conseguenza della detenzione preventiva, la “tremendezza” delle sue pene. Come se non ci fosse questo referendum numero quattro a suggerire di arrestare di meno, soprattutto nei casi in cui si presume che l’indagato possa commettere in futuro lo stesso reato di cui non si sa neppure se lo abbia commesso oggi. Perché in assenza di condanne tutto è presunto: presunto reato e presunto colpevole. Ma reali manette. Il procuratore Gratteri chiarisce che non è che lui voglia costruire nuove carceri per riempirle di più. Perché: “Come cittadino, oltre che come magistrato sarei contentissimo di vivere in un Paese dove nessuno più commette reati, chi non sarebbe contento? Ma se così non è, il sovraffollamento non deve diventare un alibi”. Elementare, Watson. Voi non commettete più reati e io depongo la cazzuola. Diamo così per scontati due principi: che l’unica forma di pena è la detenzione in carcere e che non esiste quella crudele forma di tortura che si chiama custodia cautelare, ma che vuol dire una cosa sola, manette senza processo e senza condanna. Seduto di fronte al prestigioso magistrato, il direttore Vittorio Feltri ha un moto di rabbia, lo possiamo vedere da lontano, mentre gli si accendono per un attimo le gote in un breve sbuffo. “Facciamo notare al lettore”, dice (scrive) - e questo lettore potrebbe essere benissimo il procuratore Gratteri- “che parecchi prigionieri sono in attesa di giudizio, cioè non hanno subito alcuna condanna, pertanto dovrebbero essere ritenuti innocenti fino a prova contraria. E invece sono tenuti nel gabbio finché la burocrazia giudiziaria non si deciderà se assolvere o bastonare l’imputato. Questa è una vergogna che però non scandalizza nessuno, nemmeno l’uomo qualunque che davanti a un segregato non prova altro che disprezzo, e non immagina neppure lontanamente che pure a lui potrebbe toccare in sorte di essere rinchiuso ingiustamente”. Vengono alla memoria le parole dell’ultimo scritto di Gabriele Cagliari: per il magistrato, il detenuto è solo una pratica da sbrigare. Entriamo per un attimo nel faccia a faccia tra i nostri due illustri personaggi, la loro incomunicabilità, per ribadire, forse con un po’ di pedanteria, quanto sia fondamentale, sul piano dei principi, il quesito referendario numero quattro, quello che vuole abolire una delle condizioni necessarie al giudice per arrestare: il pericolo di reiterazione del reato. È importante proprio anche perché è l’appiglio preferito dai procuratori, quello più allarmante (rispetto al pericolo di fuga, che deve fondarsi su basi concrete o quello di inquinamento delle prove, che dopo un po’ di tempo evapora, diventa insensato), quello che si basa sul puro sospetto. Infatti è quello che lede maggiormente la dignità delle persone, quella dignità invocata nel suo editoriale da Vittorio Feltri. È l’accanimento usato nei reati di droga, cioè nei confronti di quegli indagati che, anche qualora finissero condannati, andrebbero a rappresentare quella metà dei prigionieri nelle carceri italiane che deve scontare meno di tre anni. Quelli che dovrebbero poter fruire da subito di misure alternative, senza quell’automatismo della presunta “pericolosità sociale” che spesso ti accompagna dalla culla alla bara. Cioè a partire da quell’arresto basato non solo sul sospetto che tu possa aver commesso un reato, ma che potresti compiere in futuro lo stesso delitto se non ti tolgo subito dalla circolazione, se non ti metto in cattività. Ma un’alternativa è possibile. Votare Sì domenica prossima al quesito numero 4 insieme agli altri, e togliere di mano la cazzuola ai procuratori come Nicola Gratteri. Carcere preventivo: meglio un Sì ignorante dei cittadini dell’inerzia sapiente del Parlamento di Alessandro Barbano Il Dubbio, 7 giugno 2022 Disporre delle manette senza giudicato, ed abusarne, vuol dire avvicinare la democrazia ai regimi. Contro questo rischio il 12 giugno non c’è altra scelta che un sì convinto. C’era un tempo in cui Enrico Letta invocava esperimenti di democrazia deliberativa, con l’estrazione a sorte dei cittadini chiamati a votare. Adesso dice no al referendum sulla giustizia, perché “riforme così complesse vanno fatte in Parlamento”. Gli fa eco uno stuolo di politici e intellettuali che mettono la democrazia diretta al bando, come una scorciatoia inadeguata a regolare, per esempio, l’uso o l’abuso della custodia cautelare. A costoro vorrei chiedere se esista una materia dove sia meglio legiferare con il referendum. Personalmente non la conosco. Forse che una migliore disciplina sull’eutanasia possa venire da un referendum? Chiunque abbia costruito la sua vita sullo studio e chiunque, come noi, abbia una predilezione per la democrazia indiretta, non può preferire la legge della piazza alla legge dei competenti. Il referendum è una garanzia per il cittadino, ma non è certamente lo strumento migliore per legiferare. La questione, però, mi pare un’altra: in che modo ha legiferato o piuttosto non ha legiferato il Parlamento. E in che modo le sue leggi sono state interpretate. Siamo o non siamo il Paese dove la giustizia cautelare svolge una surroga del lento rito ordinario, rispondendo, di fronte all’incertezza sull’an e sul quantum, della pena, ai bisogni emotivi di punizione della società? Consideriamo questo slittamento una compensazione provvidenziale o piuttosto una deriva illiberale? Una democrazia dove l’afflittività preceda la condanna, propriamente motivata, è ancora una democrazia? Credo che dobbiamo collegare questa riflessione a quella che abitualmente facciamo nel sostenere una giusta espansione dei diritti civili, che negli ultimi decenni si sono imposti alla consapevolezza pubblica. Non sono i diritti civili diritti di libertà? E non è il percorso che ha portato le società democratiche a riconoscerli e a tutelarli tutt’uno con la piena affermazione del diritto alla presunzione di innocenza? La libertà civile non nasce forse, nello spazio pubblico, da una presunzione di innocenza? Non a caso chi discrimina i gay o gli stranieri attribuisce indirettamente loro una sorta di supposta colpa d’autore, cioè una colpa fondata sul loro modo stesso di essere. Il percorso, lungo secoli, che va dal suddito al cittadino, iniziato con la Magna Carta, si compie attraverso una sempre maggiore affermazione del principio di presunzione di innocenza. Questo principio, che tutela la libertà degli individui dal potere autoritativo del re, è la matrice di tutte le altre libertà che il cammino della democrazia è andato costruendo. Senza innocenza, ab origine non si può concepire la tutela della vita e dell’integrità personale, l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto all’onore, alla riservatezza, alla libertà di espressione e di associazione, e, da ultimo, molto attuale di questi tempi, alla resistenza contro un’oppressione. È vero che questi diritti oggi sono riconosciuti, ancorché talvolta in forma attenuata, anche a chi è giudicato colpevole. Ma continuano a risultare logicamente incoerenti se non si collegano storicamente a una presunzione di innocenza. A conferma del rango primario di questo principio, per condannare occorre una prova al di là di ogni ragionevole dubbio, mentre per assolvere è sufficiente il solo dubbio sulla colpevolezza. Senonché per uno strano fenomeno di corporativizzazione dei diritti, il diritto matrice negli ultimi due o tre decenni non è cresciuto nelle democrazie liberali allo stesso modo dei diritti derivati. Perché, soprattutto in Italia, risulta intollerabile la discriminazione nei confronti delle libertà civili e si accetta invece che si comprima, fino a sovvertirla, la presunzione di innocenza? Che altro è l’arresto preventivo, se non esercizio di potere autoritativo, di pregiudizio, di sospetto, esattamente come la maggior parte delle discriminazioni di classe e di genere contro cui si leverebbe prontamente la coscienza pubblica? Il requisito del pericolo di recidiva, che il referendum si propone di abolire, è l’emblema di questo pregiudizio. Ti arresto per evitare che tu ripeta il reato. Vuol dire implicitamente dare per acquisito che tu il reato lo abbia commesso. Ma poiché non c’è prova di questo, vuol dire fondare una compressione della tua libertà, che è già una pena, sul mio sospetto. Mi si obietta che i gravi indizi di colpevolezza non sono propriamente un sospetto, ma piuttosto una verità relativa e parziale su cui poggia la giustizia fallibile degli uomini. Che si concreta in una valutazione razionale e motivata di un’alta probabilità di condanna. Ma un sistema penale dove in primo grado quasi un imputato su due viene assolto non la smentisce nella prassi? E se nei quattro anni, che in media intercorrono tra l’apertura delle indagini e il verdetto di assoluzione, all’imputato può accadere di finire agli arresti in una percentuale di casi abnorme rispetto al resto delle democrazie liberali, non sarà che l’azione penale ha ribaltato la presunzione di innocenza nel suo contrario? Cioè in un regime del sospetto in cui tutti siamo presunti colpevoli, e da cui ci può sottrarre solo il processo, non più rimedio eccezionale, ma regola ordinaria. Mi si obietta altresì che l’adozione delle misure cautelari è assistita da un presupposto garantista: il pericolo di recidiva deve essere attuale e concreto. Va desunto da specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla personalità dell’imputato, quale emerge da comportamenti e atti sintomatici e dai suoi precedenti penali. Senonché chiunque si occupi di cronaca giudiziaria sa che la condizione dell’attualità è costantemente elusa. In non pochi tribunali le richieste di custodia cautelare sono rimaste anche per uno o due anni sul tavolo del gip, che poi ha disposto il carcere o i domiciliari, assumendo l’attualità del pericolo ora per allora. Quanto al presupposto della concretezza, è spesso interpretato individuando i fattori sintomatici del rischio di ripetizione del reato non nelle condotte degli indagati, ma nella loro qualità o nel loro status professionale. Sospetto che tu abbia commesso la corruzione in qualità di sindaco, quindi ti arresto perché, continuando a fare il sindaco, potresti ripeterla. Qualcuno potrebbe negare che sia questo il ragionamento tipico del pm italiano? La recidiva opera come l’irredimibilità del male, riflessa nel sospetto. Non a caso, nell’ultimo decennio i cittadini in carcere in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, rispetto a una media europea del 22 per cento. Se pure nel biennio della pandemia la percentuale è scesa al 31, ci sono 12mila 583 persone, tante quanti gli abitanti di Isernia, che negli ultimi tre anni sono state assolte o prosciolte dopo essere finite in cella da innocenti. Sono una massa assai più cospicua di quei mille detenuti all’anno risarciti dallo Stato per ingiusta detenzione con 37 milioni di euro, otto dei quali pagati nel distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Nello stesso periodo si contano appena 64 procedimenti disciplinari a carico dei magistrati per abuso della custodia cautelare, e solo quattro censure. Disporre delle manette senza giudicato vuol dire preservare una enorme concentrazione di potere, a cui una parte della magistratura non intende rinunciare. Perché la carcerazione preventiva commina una condanna anticipata, pronunciabile in base a un paradigma moralistico che suona più o meno così: siccome i corrotti la fanno franca, gliela facciamo pagare subito. Qui si realizza una singolare sottrazione di potere da parte della magistratura inquirente, e del gip che in troppi casi ne rappresenta la protesi, a danno di quella giudicante: il carcere immediato riporta l’indagine preliminare al centro dell’accertamento penale, svalutando il processo che, quando si farà, avrà esaurito in partenza la sua funzione. Quanto strenua sia questa trincea lo si coglie dagli allarmi-fake che il marketing antireferendario lancia nella pubblica opinione. Come quello secondo cui, votando sì, s’impedirebbe l’uso delle misure cautelari nei confronti dei protagonisti di violenze domestiche e dei potenziali autori di femminicidi. Falsità sesquipedale, perché il quesito referendario non interviene sui reati di violenza e, tra questi, la Cassazione arriva a includere perfino l’abuso dei mezzi di correzione. Disporre delle manette senza giudicato, ed abusarne, vuol dire avvicinare la democrazia ai regimi. Contro questo rischio il 12 giugno non c’è altra scelta che un Sì convinto. Contrariamente a quanto pensino Letta e i suoi alleati, stavolta il voto ignorante dei cittadini vale assai di più dell’inerzia sapiente del Parlamento. 750 detenuti in lista di attesa per entrare in una Rems redattoresociale.it, 7 giugno 2022 “Adesso che è diventata definitiva l’ennesima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo contro lo Stato Italiano per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici si riaccendono i riflettori su un problema che è prima di tutto di civiltà”. Così il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria - S.PP. - Aldo Di Giacomo che aggiunge: “la condanna della Cedu (annunciata a gennaio scorso) è per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti. Questo accade mentre sono 750, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i detenuti in lista d’attesa per fare ingresso in una della trentina di Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza,) ma molti di più quanti hanno problemi psichici. Il tempo medio di attesa è di 304 giorni, con regioni come Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio in cui l’attesa arriva fino a 458 giorni. Le regioni con più detenuti in attesa sono la Sicilia con circa 140 detenuti, la Calabria con 120 e la Campania con 100. La percentuale più alta dei detenuti con disturbi psichiatrici soffre di nevrosi; il 30% di malattie psichiatriche collegate all’abuso di droghe e di alcool; il 15% di psicosi. Della gravità della situazione ne ha dato atto la stessa Corte costituzionale con la sentenza 22 del 27 gennaio scorso con la quale, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità sollevate, il cui accoglimento avrebbe creato un intollerabile vuoto di tutela, ha esortato il legislatore a intervenire con una riforma organica del sistema. I problemi - dice Di Giacomo - si sono dunque aggravati per responsabilità di politica e Parlamento che periodicamente annunciano impegni di riforma per poi disattenderli e rinviarli ad altri. Il risultato è che il personale penitenziario è lasciato solo a fronteggiare questa situazione e troppo spesso diventa oggetto su cui scaricare tensioni e malessere attraverso aggressioni. Inoltre, gli episodi di autolesionismo di detenuti con difficoltà psichiatriche sono circa dieci ogni giorno, quattro sono le aggressioni che quotidianamente i poliziotti penitenziari subiscono da detenuti con problemi psichiatrici e due in media sono i tentativi di suicidio che la polizia penitenziaria riesce ad evitare. È tempo che Ministero Grazia e Giustizia e Ministero alla Salute se ne occupino seriamente non delegando alla CEDU di occuparsene”. I referendum sulla giustizia spiegati in parole semplici: cosa prevedono e cosa cambiano di Ermes Antonucci La Stampa, 7 giugno 2022 Domenica prossima non si voterà soltanto per le amministrative in oltre 900 comuni, ma anche per il referendum sulla giustizia, abbastanza sparito dai radar non solo degli organi di informazione, ma anche delle forze politiche. Il referendum, promosso da Partito radicale e Lega, si compone di cinque quesiti abrogativi. Affinché la consultazione sia valida è necessario che si rechino alle urne metà degli aventi diritto al voto più uno (gli aventi diritto sono 51,5 milioni di italiani). In questo articolo cercheremo di spiegare, con parole semplici e il più possibile senza tecnicismi, il contenuto dei quesiti e l’impatto che avrebbero - se approvati - sul sistema giudiziario. Primo quesito (scheda rossa). Abolizione della legge Severino Il quesito abroga il decreto legislativo n. 235/2012 (la cosiddetta legge Severino), che disciplina i casi di incandidabilità, sospensione e decadenza dei politici dalle cariche elettive. L’obiettivo è quello di abrogare le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali, come presidenti di regione o sindaci, in seguito a sentenze di condanna anche soltanto di primo grado per alcuni reati gravi (come associazione mafiosa o reati contro la pubblica amministrazione). Si tratta norme paradossali, visto che secondo la nostra Costituzione (articolo 27) i cittadini sono innocenti fino a sentenza definitiva, eppure in passato queste norme hanno portato in diversi casi alla sospensione di amministratori locali in virtù di condanne soltanto di primo grado, poi annullate nei successivi gradi di giudizio, quando ormai il danno, dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni democratiche, era stato compiuto. Un elemento, tuttavia, va evidenziato: il quesito prevede l’abolizione dell’intera legge Severino, quindi anche delle parti che stabiliscono l’incandidabilità dei politici che sono stati condannati in via definitiva per gravi reati. Secondo quesito (scheda arancione). Limitazione delle misure cautelari Si tratta del quesito più complesso dal punto di vista tecnico. Esso mira a limitare i casi di applicazione delle misure cautelari (come carcerazione preventiva, arresti domiciliari, divieto di dimora ecc.). Secondo la normativa attuale il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può emettere una misura cautelare in tre casi: pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione del reato. Il quesito interviene su quest’ultimo aspetto. In breve, se il quesito venisse approvato sarebbe possibile procedere alla privazione della libertà per il rischio di “reiterazione del medesimo reato” solo per i delitti di criminalità organizzata, di eversione o per i reati commessi con uso di armi o altri mezzi di violenza personale. L’intento è nobile, soprattutto se si considera l’alto numero di cittadini incarcerati e privati della libertà prima del giudizio, e poi spesso prosciolti dalle accuse. Dall’altro lato, ad opinione di alcuni esperti, l’abrogazione della norma rischia di rendere le misure cautelari inapplicabili per una serie di delitti particolarmente sentiti a livello sociale, come il furto, la rapina e anche in alcuni casi di stalking, quando compiuti senza armi e senza mezzi di violenza personale. Terzo quesito (scheda gialla). Separazione delle funzioni Attualmente la normativa prevede che un magistrato possa passare nel corso della sua carriera dalla funzione di pubblico ministero, cioè di accusatore, a quello di giudice per un massimo di quattro volte. Il quesito mira ad azzerare queste possibilità: il magistrato dovrebbe scegliere all’inizio della carriera la propria funzione, requirente o giudicante, senza possibilità di cambiarla in seguito. L’approvazione del quesito avrebbe un effetto molto importante sul rafforzamento della terzietà e dell’imparzialità del giudice, che “nascerebbe” come giudice, senza avere alle spalle un passato da pubblico ministero e da accusatore. C’è da precisare che non siamo di fronte a una separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (per questo occorrerebbe un intervento a livello costituzionale): pm e giudici continuerebbero a essere reclutati attraverso il medesimo concorso, a rispondere al medesimo Consiglio superiore della magistratura e a seguire la medesima scuola di formazione. L’approvazione del quesito avrebbe un impatto significativo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm attualmente in esame in Parlamento. Quest’ultima prevede infatti la riduzione da quattro a uno della possibilità di passare di funzione (non un azzeramento). Di conseguenza, in caso di vittoria del “sì”, il testo andrebbe adeguato alla luce dell’esito del referendum. Quarto quesito (scheda grigia). Valutazione professionale dei magistrati Oggi i magistrati vengono valutati dai consigli giudiziari e soltanto dai propri colleghi magistrati (il Csm si limita a prendere atto dei pareri espressi dai consigli giudiziari). Il risultato di questa situazione è che oltre il 99% dei magistrati ottiene valutazioni di professionalità altamente positive e piene di frasi entusiastiche e laudative: in sostanza, la valutazione di professionalità delle toghe non esiste. Il quesito mira a rendere più equa la procedura di valutazione, permettendo anche ai rappresentanti dell’avvocatura e ai docenti universitari di partecipare nei consigli giudiziari alle discussioni e alle votazioni riguardanti le valutazioni professionali dei magistrati. Il testo di riforma dell’ordinamento giudiziario in discussione in Parlamento apre le procedure di valutazione dei magistrati alla partecipazione degli avvocati, ma non dei professori universitari. Di conseguenza, anche in questo caso, di fronte a una vittoria del “sì”, il testo andrebbe modificato venendo incontro alla volontà espressa dai cittadini con il referendum. Quinto quesito (scheda verde). Elezione dei componenti togati del Csm Il quesito prevede l’abrogazione di alcune norme che regolano l’elezione del Consiglio superiore della magistratura, organo di governo autonomo delle toghe. In particolare, il quesito abroga l’obbligo per un magistrato di raccogliere almeno 25 firme per presentare la propria candidatura al Csm. L’intento è quello di limitare il potere e il condizionamento delle correnti togate, finite nell’occhio del ciclone soprattutto dopo lo scandalo Palamara. C’è da dire, in realtà, che si è di fronte a un intervento piuttosto minimale, se si considera che raccogliere 25 firme non rappresenta una sfida così ardua per il magistrato e che le correnti fanno sentire il loro peso soprattutto nella fase successiva, cioè quando i candidati si ritrovano a dover raccogliere centinaia di voti necessari per essere eletti. L’approvazione del quesito avrebbe comunque un impatto positivo, soprattutto sul piano simbolico e politico. Il quesito sarebbe superato dall’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario in discussione in Parlamento, che già prevede l’eliminazione dell’obbligo di raccolta delle firme per la presentazione delle candidature dei magistrati alle elezioni del Csm. I referendum servono per sollecitare il Parlamento a modificare norme non più difendibili di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 7 giugno 2022 Qualche settimana fa in un convegno a Salerno l’onorevole Piero De Luca, nel contesto di un discorso molto puntuale sulla giustizia, ha detto che è necessario conservare un ruolo primario al Parlamento soprattutto in materia di giustizia perché riforme complesse e certamente “tecniche” come quelle sulla giustizia non possono essere lasciate alla decisione degli elettori che hanno una funzione fondamentale per la democrazia ma hanno difficoltà a cogliere il significato complesso dei quesiti referendari. Gli ho risposto che rispettavo il suo pensiero e anzi avvertivo una qualche nostalgia e forse una qual tenerezza perché oltre quarant’anni fa, in presenza del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, nella qualità di presidente della commissione Giustizia, avevo fatto lo stesso discorso, forse con le stesse parole! Ho capito fino in fondo lo spirito autentico di un parlamentare giovane che è animato dalla volontà di “fare” le riforme… il problema è che sono passati quarant’anni! Inutilmente! Il particolare da mettere in conto è che è appunto trascorso tanto tempo e nonostante l’impegno mio per il passato e di tanti colleghi ugualmente “animati”, non si sono fatte le riforme e la situazione è talmente peggiorata che assistiamo a un coro unanime di addetti ai lavori, di giuristi, di esperti, di cittadini comuni sulla crisi della giustizia e sulla denegata giustizia. Che fare? Se il Parlamento, nonostante quel referendum sulla responsabilità per i magistrati avesse dato una risposta positiva al 70%, non è stato in grado di tradurre con una legge adeguata quel largo consenso al quesito (non me ne rendo conto adesso, ma ero convinto anche quando ho votato l’unica legge possibile su quell’argomento) vuol dire che anche da parte mia è giusto invocare il giudizio degli elettori. E riconosciamo che il Parlamento non è stato in grado successivamente di aggiornare l’ordinamento giudiziario non più adeguato alla nuova realtà. L’ultimo tentativo di riforma, modesto ma significativo, della ministra Cartabia aspetta ancora il voto del Senato e il significato vero dei referendum, è quello di sollecitare il Parlamento a proseguire oltre le proposte della Cartabia e a modificare norme che non sono più difendibili. Ripeto un mio parere già espresso: la meraviglia è che i magistrati, salvo pochissime eccezioni, e l’Associazione nel suo complesso sono contrari al referendum anzi lo ritengono una lesa maestà, una sorta di punizione. Come mai persone che praticano tutti i giorni il “giure”, che dovrebbero avere il culto del diritto che, come dice il professor Cassese avvicina alla migliore musica di Bach, sono chiusi nel loro corporativismo e nella loro assoluta “autonomia” che in questo caso è il contrario dell’indipendenza. Meraviglia anche l’onorevole Violante che nell’ultimo periodo e nell’ultima intervista si dichiarava favorevole per alcuni quesiti ma ripete che la consultazione richiesta “sa di vendetta della politica contro la magistratura”. È questo grave equivoco che bisogna eliminare. In un precedente articolo mi ero riservato di spiegare le ragioni dei singoli referendum, e lo faccio tenendo conto anche dei pochissimi dibattiti che la televisione ci offre in ore improbabili, perché invece in ore opportune ci offre una filippica “contro”, come nelle frasi forzatamente spiritose e denigratorie della signora Litizzetto che non avrebbero alcuna rilevanza se non fossero autorizzate da un conduttore come Fazio a cui tutti riconoscono una dimensione culturale che in questo caso è compressa da logiche superiori. Il quesito più importante è quello delle separazioni delle funzioni tra giudice e pubblico ministero che è una cosa sacrosanta, avvertita da tutti cittadini, perché è un processo in tutto il mondo è fatto di una parte che accusa, una che difende e un terzo che giudica. Quest’ultimo deve essere al di sopra delle parti così come prescrive la Costituzione art. 111. Ognuna di questi tre elementi fa il suo mestiere che non è mutuabile cioè un giorno si svolge un ruolo e un altro si svolge un ruolo diverso. Sono anni che tentiamo di eliminare questa patologia del processo ma i magistrati sono compatti a difenderla questa anomalia tutta italiana. Non amo fare i paragoni con altri paesi ma l’anomalia italiana è unica rispetto ai paesi democratici e questo deve pur significare qualcosa. Se commemoriamo Falcone in questi giorni dobbiamo ricordare quello che disse più volte che “la regolamentazione delle funzioni delle stesse carriere dei magistrati dei pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diversi essendo le funzioni, e quindi attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi investigatore a tutti gli effetti il pm, arbitro della controversia il giudice. Altro quesito di eccezionale valore, e che non ha bisogno di sofisticati competenze tecniche per essere compreso, è quello di stabilire che il magistrato possa utilizzare la custodia cautelare in carcere solo per casi eccezionali come prescrive il codice. Ogni cittadino è a conoscenza del sistema arbitrario che il magistrato usa per la custodia cautelare come strumento di indagine, come pressione sull’indagato. E siccome il 50% circa degli indagati viene poi assolto con il successivo rimborso per il danno procurato da parte dello Stato, ognuno può rendersi conto dell’importanza del quesito. L’anticipazione della pena non è consentita in uno stato democratico. Sulla abrogazione del decreto legislativo numero 31/12/2012 N. 235 cosiddetta legge Severino, la situazione è un po’ più complessa ma in sostanza limpida e chiara. La legge aggrava irrazionalmente e in maniera non proporzionale pene per una serie di reati, che costituisce uno squilibrio nell’ordinamento penale e sarebbe lungo esaminare tutte le storture evidenziate da giuristi e da magistrati autorevoli. Voglio poi ricordare che è previsto nella legge il reato di “traffico di influenze” definizione stravagante conseguenza della cosiddetta “raccomandazione”. Si tratta di un reato senza una “fattispecie” precisa lasciando quindi davvero una delega completamente in bianco ai magistrati. Ne parlano in pochi di questo sgorbio giuridico ma basterebbe solo questo per sopprimere la legge. È stato detto che questa normativa introdotta nel 2012 è una barriera all’illegalità nella pubblica amministrazione, come se nel tradizionale e completo codice non ci fossero norme equilibrate proporzionali rispetto all’entità del reato, per regolare l’attività della pubblica amministrazione. Il qualunquismo giuridico è più pericoloso della demagogia! Ma c’è di più. La legge esaspera il problema della candidabilità per gli enti locali e per il Parlamento anche per chi non è condannato in maniera definitiva. Sono norme che vanno contro la Costituzione che prevede la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva e ora tradotte finalmente una norma legislativa e quindi precettiva. Anche su questo quesito non è necessaria la conoscenza di “pandette”, ma serve per fare mente locale ai tanti amministratori sospesi o non candidati che poi sono stati assolti!! Ma su questo quesito mi sento di dire una cosa importante che risponde allo “spirito” del referendum. Ad ascoltare i fautori del “no” sembra che tutto il paese abbia amministratori e parlamentari condannati. Non è assolutamente così rilevo che nessun condannato con sentenza definitiva è stato mai candidato. Queste cose non possono essere risolte dalla legge, non possono essere demandate ai magistrati ma debbono essere approvate dai partiti, da chi seleziona la classe dirigente che poi naturalmente rispondono al popolo. Questo è il messaggio principale da affidare ai cittadini. I quali hanno il grande privilegio di poter votare e hanno un obbligo morale di fare arrivare al parlamentare il messaggio chiaro. Sui referendum si mobilita l’avvocatura: occasione da non perdere di Simona Musco Il Dubbio, 7 giugno 2022 Masi (Cnf): “Il 12 giugno è importante andare a votare per recuperare fiducia nella giustizia”. Contro lo snobismo di fondo che vuole i cittadini incapaci di comprendere e mettere mano alla giustizia. Contro il silenzio assordante, forse figlio di una qualche regia politica. Contro una giustizia non giusta, nella quale i cittadini non credono più. L’avvocatura scende in campo per i referendum del 12 giugno, attraverso l’evento organizzato dall’Organismo congressuale forense, che ha realizzato un video per raccontare le ragioni del sì. L’evento, moderato da Rosa Colucci, si è aperto con l’intervento di Sergio Paparo, coordinatore Ocf, che ha denunciato la “cortina di silenzio calata sul referendum, quasi ci fosse un disegno politico per impedire che si discuta dei temi sulla giustizia connessi ai quesiti”. Quesiti che intercettano temi storici sui quali l’avvocatura “si è sempre impegnata e battuta”. Da qui le ragioni della mobilitazione, necessaria in un momento storico in cui l’iniziativa legislativa, ha evidenziato Paparo, viene “prevalentemente rimessa ai decreti legge di iniziativa del governo”, con una conseguente “lesione molto grave del dibattito parlamentare”. I referendum rappresentano, dunque, un “messaggio forte” al legislatore, ha evidenziato Carlo Nordio, presidente del Comitato “Sì per la libertà, sì per la giustizia”, circa la necessità “di una riforma copernicana e radicale della giustizia”. “Penso che la grande maggioranza degli italiani sia scontenta di questa giustizia penale - ha evidenziato -. Allora occorre andare a votare il referendum. Il rischio che il quorum non si raggiunga è reale ed è per quello che ci dobbiamo mobilitare affinché i cittadini vengano informati nel miglior modo possibile”. A preoccupare Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense, è soprattutto il rischio che proprio sui principi più cari all’avvocatura possano esserci difficoltà a far convergere il consenso. “La giustizia e soprattutto il delicato ma necessario equilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, pur normati dalla Costituzione, sono da tempo temi fortemente divisivi in Italia - ha sottolineato -. Il contenuto dei referendum ammessi li ripropone in parte e questa volta non in maniera particolarmente complessa e incomprensibile. Ma il contenuto dei quesiti referendari richiama sicuramente anche la declinazione dei principi di giusto processo, di cui l’avvocatura invoca l’attuazione da tempo”. Secondo Masi, il 12 giugno rappresenta un’occasione importante, sia per valorizzare lo strumento del referendum, sia “per dimostrare che i cittadini meritano fiducia”. La stessa che “hanno perso nei confronti delle istituzioni e della giustizia”. I quesiti referendari contribuiscono a focalizzare l’attenzione sulla necessità di un giusto processo, di un maggiore equilibrio dei procedimenti e nell’ordinamento giudiziario, ma, soprattutto, di un maggiore equilibrio nel rapporto tra funzioni e poteri. Proprio per tale motivo, “è importante andare a votare - ha concluso - per garantire maggiormente i diritti individuali attraverso una maggiore tutela anche dagli eccessi delle pubbliche autorità, una maggiore garanzia delle istanze individuali attraverso una giustizia più efficiente, più equa e più giusta. L’avvocatura c’è”. E c’è per portare avanti quella che per Vinicio Nardo, dell’ufficio di coordinamento di Ocf, “è una battaglia di giustizia”. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano ha smontato così una delle obiezioni principali contro i referendum, ovvero “che sulla materia della Giustizia non si può intervenire così”. Ma si tratta di un’obiezione “elitaria e antidemocratica”: non c’è motivo, infatti, “perché la giustizia - che entra nella vita delle persone e anche pesantemente - non sia considerata un tema sociale”. Tant’è, ha aggiunto, che i cittadini conoscono i temi referendari “molto di più di quanto quelli che vogliono imbavagliarli ritengono”. E di fronte alla “profonda sfiducia” nei confronti della magistratura, ha sottolineato Alberto Del Noce, vice presidente dell’Unione nazionale Camere civili, “il lavoro che stanno facendo gli avvocati serve anche a recuperare quella credibilità che fino a pochi anni fa aveva”. Non si tratta, ha infatti evidenziato Antonio De Simone, presidente dell’Unione italiana forense di Roma, di un voto contro i magistrati, “ma di una valorizzazione della funzione giurisdizionale”. E dal momento che la giustizia è amministrata in nome del popolo, ha sottolineato Giampaolo Di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense, il cittadino deve tornare al centro e sapere che “non può costantemente delegare determinate scelte e determinate decisioni”. “Gli avvocati sono difensori dei diritti e in circostanze come queste devono ergersi a baluardo dei cittadini e della libertà individuale - ha concluso Antonino La Lumia, presidente del Movimento Forense -. Andate a votare con coscienza, andate a votare Sì, ma non perché ve lo dicono gli avvocati, ma perché votando Sì avrete un ordinamento e una società più liberi”. Referendum, la passione di Zaia per la “giustizia giusta” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 giugno 2022 “La parola chiave, l’hashtag è: repressione. Dobbiamo essere consapevoli che l’educazione è importante, le politiche sociali pure, ma una certa soglia non può essere superata. Punto”. La colpa - secondo il presidente della Regione Veneto Luca Zaia che così parla in un’intervista al Corriere della Sera a proposito dei “molestatori sul treno” per Milano e non solo - è delle “leggi che sono da cambiare”. Per esempio? Ci vorrebbe “una notte in carcere subito” per chi fa “roba del genere”. “Che poi diventa una settimana e via aggravando”. Ora, il 54enne governatore leghista del Veneto sicuramente ha ancora abbastanza memoria per ricordare, non tanto di aver firmato il 4 luglio 2021 a Conegliano “i 6 referendum chiesti dalla Lega per una Giustizia equa ed efficiente”, come annunciò social et orbi a suon di fanfare; e neppure che appena tre mesi dopo proprio il Consiglio della sua Regione fu tra quei nove che presentarono la richiesta dei referendum in Cassazione per conto di Matteo Salvini. Ma almeno qualcuno dovrà avvisarlo che tra sei giorni gli italiani sono chiamati dal suo partito a votare, tra i cinque referendum ammessi, uno in particolare che chiede di abolire - avete letto bene - ogni misura cautelare, compresa la custodia, in caso il reo o supposto tale sia considerato a rischio di reiterazione del reato. Proposta che, in teoria, vorrebbe evitare il deplorevole fenomeno tutto italiano di un detenuto su tre in carcere senza condanna definitiva. Ebbene, che la Lega non abbia mai creduto davvero ad una “giustizia giusta” lo sapevamo. Ma Zaia, se proprio non riesce a liberarsi dall’ansia propagandistica, almeno per una settimana provi a concentrarsi su quel poco che ha imparato a memoria riguardo al carcere come extrema ratio. Poi, da lunedì, potrà riprendere a spararle grosse come prima. Pericolo censura e troppe storture: così la legge sulla presunzione di innocenza ignora la realtà di Giuseppe Pignatone La Stampa, 7 giugno 2022 Il decreto legislativo da poco in vigore va ben oltre le richieste dell’Europa. E rischia di limitare il diritto di cronaca. “Ce lo chiede l’Europa”. È il mantra ripetuto anche a sostegno del decreto legislativo 181/2021 che intende rafforzare la tutela della presunzione d’innocenza dettando regole sulla comunicazione degli uffici di Procura. Scopo dichiarato: porre fine alla “gogna mediatica”. Ma cosa ci chiede l’Europa? La direttiva 234/2016 raccomanda che “le dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’autorità non presentino la persona come colpevole” fino alla sentenza. Un principio del tutto evidente, già ribadito nelle circolari del Consiglio superiore della magistratura e che da tempo gli uffici giudiziari sono impegnati a rispettare. Su questo punto, quindi, la nuova normativa ribadisce quanto era già chiaro, fermo restando che sono gli operatori dell’informazione a scegliere se e come dare la notizia, se e come riportare quanto detto o scritto dai magistrati. Se poi ci sono stati e ci sono irregolarità e abusi, è giusto che siano sanzionati anche disciplinarmente. Ma il legislatore italiano è andato molto oltre, prevedendo che sia il Procuratore della Repubblica l’unico soggetto autorizzato a fornire informazioni su processi e indagini e solo quando “ricorrono specifiche ragioni di interesse pubblico”. Inoltre, la comunicazione può aver luogo solo mediante comunicati o, in casi eccezionali, con conferenze stampa. Le nuove norme hanno il merito di riconoscere con chiarezza il diritto e persino il dovere delle Procure di comunicare i risultati del loro lavoro, così sottoponendoli al giudizio dell’opinione pubblica. Un’affermazione ovvia, che però di recente è stata spesso contestata, pur se la dottrina più autorevole da tempo sottolinea che “l’accesso della pubblica opinione alla giustizia penale non si pone in termini di opportunità, ma di necessità politica”; in democrazia “è inconcepibile una giustizia segreta”, che rischierebbe di diventare “torbido strumento di affermazione di parte”, determinando una “gravissima involuzione civile e democratica” (Glauco Giostra). Ma se, come ha rilevato la Procura generale della Cassazione, il D.lgs. 181/21 correttamente non limita “la comunicazione che risponda all’interesse pubblico di conoscenza dell’attività dell’ufficio, del suo indirizzo generale, delle problematiche incontrate nell’espletamento delle sue funzioni”, resta però il problema dell’informazione sulle singole vicende processuali. In realtà, la tutela della presunzione di innocenza deve trovare un punto di equilibrio con altri principi costituzionali, tra cui il diritto di cronaca, espressione della libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Ed è sotto questo profilo che la nuova normativa pone delicate questioni. La prima riguarda l’attribuzione al solo Procuratore della Repubblica del compito di selezionare le notizie da diffondere sulla base di specifiche “ragioni di pubblico interesse”. Un criterio oggettivamente vago, ma che soprattutto costituisce l’attribuzione errata di una valutazione che ricade nella responsabilità degli operatori dell’informazione che hanno, ognuno, punti di vista e criteri diversi, così che il Procuratore rischia, sia pure in buona fede, di esercitare una qualche forma di censura. Secondo quello che peraltro è l’obiettivo dichiarato di alcuni sostenitori della legge per i quali qualsiasi notizia, per quanto correttamente data, costituisce “gogna mediatica”. La seconda questione è quella dell’accesso alle fonti. Come ha osservato Paolo Colonnello su questo giornale, “il diritto di cronaca è la possibilità di controllare direttamente una notizia, di poter fare domande ai protagonisti di un’inchiesta, siano essi indagati, magistrati o avvocati”, fonti, questi ultimi, non certo disinteressate, ma del tutto ignorate dalla nuova normativa. Il diritto di cronaca è però, prima ancora, diritto di accesso agli atti. Su questo punto, una legge del 2017 riconosce ai giornalisti la possibilità di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare e quindi, in modo implicito, il diritto di ottenerne copia. Sarebbe logico estendere questa possibilità a ogni atto processuale non più segreto, facendo così venir meno la ricerca di canali occulti, fuori da ogni responsabilità e controllo. Il D.lgs. 181/21 trascura tutto questo, come se l’unico problema fosse una presunta volontà manipolatoria dei Pm. Così come non si occupa di talk show e ricostruzioni mediatiche dei processi, né di intervenire sulla pubblicazione di atti e documenti, a cominciare dalle intercettazioni, che continueranno secondo le scelte e i criteri delle singole testate giornalistiche. L’informazione completa, corretta e rispettosa dei diritti dei cittadini dipende dalla responsabilità di ognuno dei protagonisti: magistrati, operatori di polizia, avvocati e giornalisti. Senza dimenticare che, in Italia più ancora che in altri Paesi, indagini e processi che investono grandi interessi ed equilibri politici, economici e finanziari, o anche la grande criminalità e i suoi collegamenti, sono sfruttati da decenni per alimentare polemiche feroci e persino contrasti politico-istituzionali. Dinamiche che prescindono del tutto dalla (necessaria e doverosa) sobrietà della comunicazione delle Procure. “Nessun bavaglio ai magistrati, basta con le sceneggiate da marketing giudiziario” di Grazia Longo La Stampa, 7 giugno 2022 Enrico Costa, vicesegretario di Azione, è il padre del provvedimento sulla presunzione d’innocenza, all’interno della riforma del sistema giudiziario. Per effetto di questa novità si limiterà la comunicazione dei magistrati ai giornalisti. Si profila un bavaglio alle toghe, non le pare? “Era tempo che finisse il Far west delle conferenze stampa delle procure in cui si spettacolarizzava un’inchiesta che esaltava solo la parte delle indagini e non quella della difesa. La conferenza stampa deve essere l’eccezione, esclusivamente per i casi di pubblica utilità, non la prassi con cui presunti innocenti vengono già dipinti come colpevoli. Eravamo arrivati al punto in cui la conferenza stampa era già una sentenza amplificata dai titoli dei giornali. Si dava spazio solo ad una campana, quella della pubblica accusa”. Eppure secondo il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri non si è mai visto un capo della procura parlare in conferenza stampa di un indagato come se fosse colpevole prima del processo… “E invece le cose andavano proprio in quella direzione: la conferenza stampa era basata su dinamiche per rafforzare l’inchiesta e le indagini. Io bollerei questa tendenza come marketing giudiziario, una forma del tutto illiberale e incivile che trasferisce le notizie come definitive. Per non parlare poi della pessima abitudine di etichettare le inchieste con dei nomi che evocassero colpevoli, tipo Mafia capitale, senza mai un dubbio di innocenza”. Ma ora non si rischia di dare troppo potere all’indagato, al suo avvocato che è libero di parlare senza vincoli? “Ma quando mai, le conferenze stampe della procura sono migliaia, quelle degli avvocati difensori, invece, pochissime. Occorre assolutamente evitare il protagonismo di certi magistrati e realizzare le conferenze stampa solo quando sono strettamente necessarie. Per il resto basta il comunicato stampa, che è un atto più ponderato e quindi meno rivolto alla spettacolarizzazione. Insomma bisogna evitare quello che io definisco il “gognometro”, l’indice cioè della gogna mediatica”. Proprio nessun dubbio? “No, perché mentre alla fase delle indagini preliminari vietata molto enfasi, anche sui giornali, è difficile che venga poi concesso tanto spazio all’assoluzione di chi per le procure era già un colpevole. Per non parlare poi del contatto diretto tra un singolo pm e i giornalisti: d’ora in poi le notizie devono passare dal comunicato stampa del procuratore”. In questo modo addio alla libertà d’informazione… “No, perché informare non vuol dire costruire un impianto accusatorio che viene trasferito ai cittadini come oro colato, il nostro Paese è pieno di persone accusate ingiustamente. Dal 1992 ad oggi si registrano 30 mila cittadini che hanno ricevuto un indennizzo per ingiusta detenzione e oltre 100 mila arrestati ingiustamente. Ogni anno ci sono 100 mila assoluzioni: se esponiamo queste persone non le recupereremo più”. A lezione da Carofiglio per rendere comprensibile il “giuridichese…” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 giugno 2022 Un corso di formazione organizzato dal Coa di Milano con lo scrittore ed ex magistrato: “Eliminare dai testi debolezze logiche e soprattutto inutili oscurità”. Quando si esamina un testo tratto dalla comune pratica giudiziaria, serve individuarne le “debolezze logiche”, gli “errori espositivi” e, soprattutto, le “inutili oscurità”. A dirlo è Gianrico Carofiglio, ex magistrato ed ex parlamentare del Pd, da diversi anni scrittore di molti romanzi di successo. Carofiglio è fra gli ideatori di un corso di “scrittura per giuristi”, il primo nel suo genere. L’evento formativo, aperto quindi ad avvocati, magistrati, cultori del diritto, si terrà il prossimo 15 giugno a Milano ed è già stato accreditato ai fini della formazione professionale continua dal locale Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Il principale obiettivo che il corso si propone di raggiungere, fanno sapere gli organizzatori, è quello di “sviluppare le abilità relative all’uso della lingua scritta, e parlata, nell’ambito della disciplina giuridica”, fornendo quindi agli operatori del diritto “un metodo” di lavoro. La giornata di studio, dopo il saluto del presidente del Coa, l’avvocato Vinicio Nardo, si aprirà con una sessione dedicata alla “riflessione sul linguaggio dei giuristi” al fine di evidenziarne “i difetti comunicativi maggiormente frequenti”. A seguire, un focus sulle “regole fondamentali per una buona scrittura giuridica nella dimensione argomentativa e narrativa”. Non verranno trascurati, poi, gli aspetti interdisciplinari relativi ai “mutamenti del linguaggio e pratiche comunicative contemporanee”. Una sessione, infine, sarà interamente dedicata al “dovere processuale di sinteticità degli atti del processo telematico”. La scrittura degli atti giudiziari è un argomento quanto mai attuale. Gli esiti non proprio esaltanti delle prove scritte dell’ultimo concorso per magistrati ordinari, con meno del 5 percento di idonei che non consentono nemmeno di coprire i posti banditi, hanno messo in luce molte lacune. Nel caso delle citate prove scritte, da svolgersi in quattro ore invece delle tradizionali otto, la difficoltà di sintesi da parte dei candidati è stata fra le principali cause della debacle. La sintesi è ormai un prerequisito fondamentale. Nel processo amministrativo già da diverso tempo vige la regola secondo la quale un ricorso non può superare un determinato numero pagine. Palazzo Spada, sul punto, ha anche fissato dei paletti sul tipo di carattere da utilizzare, le sue dimensioni, la spaziatura. Una forte accelerazione sul fronte della sinteticità dell’atto è stata determinata dall’avvio del processo telematico, inizialmente previsto nel civile, poi esteso agli altri riti. L’imprescindibilità della lettura “a video” dell’atto da parte del giudice ha dato il via ad una rivoluzione in un settore che per decenni non era stato interessato da cambiamenti significativi: è ben diverso, infatti, leggere su uno schermo un atto formato da una decina di pagine, rispetto ad un altro che di pagine ne ha un centinaio. Il tema è stato oggetto di accese discussioni e polemiche che in questi anni il Dubbio ha cercato di raccontare. Vedasi la questione delle copie di ‘cortesia’ richieste dai giudici agli avvocati. Tornando, invece, a Carofiglio, sempre a proposito di scrittura, vale la pena ricordare quando venne chiamato nel 2018 dall’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini per far parte del gruppo di lavoro per la stesura della delibera sulle “Linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”. Le “buone prassi” di Palazzo dei Marescialli, incentrate sulla trasparenza e sulla comprensibilità, possono essere considerate le antesignane delle recenti disposizioni in materia di “presunzione di non colpevolezza”: rileggendole, ad anni di distanza, si ritrovano molti dei concetti ribaditi nel ddl Cartabia. Come capita quasi sempre in caso di provvedimenti che non prevedono sanzioni in caso di inadempienza, la delibera è stata però totalmente disattesa da parte di alcuni loquacissimi procuratori e dei loro cronisti di riferimento. Cumulo giuridico, nodo interpretativo sulle violazioni della “stessa indole” di Dario Deotto e Luigi Lovecchio Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2022 Il cumulo giuridico, uno dei principi cardine del sistema sanzionatorio relativo alle violazioni tributarie, si applica dal 1° aprile 1998 (da quando è entrata in vigore la riforma del Dlgs 472/1997). Ma l’ambito di applicazione non risulta sempre chiaro: soprattutto in seguito ad alcune pronunce della Cassazione. L’ultima è la sentenza 11432/2022, secondo cui anche gli omessi versamenti dei tributi per più anni rientrerebbero nel cumulo giuridico (risultato molto favorevole per il contribuente). Vediamo di esaminare quanto dispone la norma (articolo 12 del Dlgs 472/1997). Concorso e progressione - Il primo comma dell’articolo 12 disciplina il concorso formale e materiale di violazioni. La figura del concorso formale ricorre quando con una sola azione o omissione si commettono diverse violazioni, anche relative a tributi diversi. Il concorso materiale, invece, si ha quando con più azioni o omissioni si commettono diverse violazioni formali della stessa disposizione (ad esempio, quelle relative al quadro RW). Il comma 2 dell’articolo 12 disciplina il principio della progressione. Afferma che alla “sanzione unica” soggiace chi, anche in tempi diversi, commette più violazioni che, nella loro progressione, pregiudicano o tendono a pregiudicare la determinazione dell’imponibile ovvero la liquidazione anche periodica del tributo. Tipico caso è quello dell’omessa fatturazione di operazioni imponibili, che determina l’ulteriore violazione dell’infedele dichiarazione Iva. Si noti che, in base alla norma, possono rientrare nella continuazione solo quelle violazioni che stanno “a monte” rispetto al versamento del tributo (quindi l’omesso versamento non risulta contemplato). Il comma 3 dell’articolo 12 prevede la sanzione unica, debitamente aumentata, nell’ipotesi di violazioni che rilevano ai fini di più tributi; mentre il comma 5 dispone l’estensione del cumulo giuridico in presenza di violazioni della “stessa indole” commesse in periodi d’imposta diversi. In questo modo, se le violazioni unificabili attraverso il cumulo giuridico sono oggetto di più atti di irrogazione, trattandosi di violazioni riferite a più periodi, in quelli successivi al primo l’ufficio deve (ri)determinare la penalità tenendo conto della sanzione “unica” complessiva, scomputando quella già irrogata nel precedente atto. Il concetto di “stessa indole” - Il primo problema che però si pone è quello relativo al concetto di “violazione della stessa indole”. Concetto previsto anche dall’articolo 7 del decreto a proposito della recidiva. Con la storica circolare 180/1998 fu precisato che sono da considerarsi tali, in relazione alla recidiva, quelle violazioni che presentano “profili di sostanziale identità per la natura dei fatti che le costituiscono e dei motivi che le determinano”. Ad esempio, venne affermato che sono violazioni della stessa indole l’infedele dichiarazione dei redditi perché si sono errati gli ammortamenti e l’infedele dichiarazione Iva (è evidente che ammortamenti e Iva non hanno alcun nesso). Violazioni in più anni - L’ulteriore questione interpretativa è se possa applicarsi il cumulo giuridico per violazioni commesse su più anni anche per ipotesi non previste dai precedenti commi dell’articolo 12, a prescindere cioè dal concorso e dalla progressione ex commi 1 e 2 (tra cui, come si è visto, non rientrano gli omessi versamenti del tributo). La Cassazione sembra propendere per questa possibilità, considerato il principio di diritto enunciato nella sentenza 11432/2022 (negli stessi termini Cassazione 21570/2016). Secondo la Corte, si applica il comma 5 dell’articolo 12 del Dlgs 472/1997 nel caso di omesso versamento dell’Ici per più anni, anche se viene fatto riferimento “allo stesso immobile”. Tuttavia, si è dell’opinione che nel concetto di violazioni della “stessa indole” rientrino solo quelle condotte che danno origine al concorso e alla progressione (commi 1 e 2 dell’articolo 12), senza necessariamente un legame tra loro, ma che presentino profili di sostanziale identità, come previsto per la recidiva. Con la conseguenza che, ad esempio, rientrano nel cumulo giuridico le sanzioni riferite a violazioni su più anni riguardanti ammortamenti e Iva, ma non quelle relative agli omessi versamenti. Torino. Dopo il “caso machete” il Comune vuole dare il taser ai vigili di Giulia Ricci Corriere della Sera, 7 giugno 2022 In Sala Rossa approvate le mozioni della Lega e del Pd. Lo Russo: “Torino non è ostaggio delle gang”. Il sindaco Stefano Lo Russo promette “un potenziamento del presidio del territorio, un’azione nei parchi, più pattuglie a piedi e più telecamere”. Ma poi sottolinea: “Ribadisco sia stata una scena intollerabile, ma rifiuto il racconto di Torino ostaggio di gang criminali”. E la maggioranza in Sala Rossa apre all’utilizzo dei taser (e si divide). Su richiesta di comunicazioni in merito a quanto accaduto in Barriera di Milano e Aurora, dove un uomo ha seminato il panico con un machete, il primo cittadino ha ribadito come serva sul tema della sicurezza “una strategia integrata basata su tre pilastri”: controllo del territorio, investimenti sul sociale e reintegro dopo il carcere. Sul primo punto ricorda come in Torino Nord arriveranno 33 telecamere, due in Borgo Vittoria, 13 in circoscrizione Sei, diciotto alla Sette. “Ma non sono soluzioni risolutive - continua Lo Russo - ecco perché l’amministrazione investirà 100 milioni di euro in quelle zone per combattere il degrado. E stiamo mettendo a punto una progettualità con il carcere, perché chi viene arrestato trovi il modo per reinserirsi nella società”. E se Torino non è ostaggio delle gang, il sindaco però ammette come la criminalità in quel territorio sia legata “soprattutto allo spaccio di droga, in mano a clan radicati con una manovalanza”. Gli stessi che si trovano in via Berthollet angolo via Belfiore, quella zona di San Salvario dove un cittadino è appena stato aggredito mentre rientrava a casa: “Si è rotta la regola d’oro di non toccare i residenti - sottolinea il leghista Fabrizio Ricca - serve una soluzione per tutta la città: abbandonate un’ideologia troppo di sinistra e valutate l’espulsione”. E se Giovanni Crosetto di FdI e Domenico Garcea di Fi propongono “il daspo urbano”, a citare San Salvario (su cui ad oggi non sono previsti nuovi provvedimenti) anche il grillino Andrea Russi, che sottolinea le differenze interne alla maggioranza. Differenze che si colgono sul tema taser. Il Consiglio, infatti, ha approvato due mozioni, una dell’onorevole leghista Elena Maccanti e l’altra della capogruppo dem Nadia Conticelli, che chiedono a giunta e Prefetto di valutare la dotazione dello strumento ai vigili. Su entrambi i documenti, il primo più incentrato sul taser e il secondo su un’azione integrata di sicurezza ed equità sociale, la maggioranza si è mossa in ordine sparso, con la contrarietà in particolare di Sinistra Ecologista. L’assessora Gianna Pentenero, però, di fatto ha già risposto: “Su questo siamo ancora in fase sperimentale, meglio concentrarci sugli strumenti che abbiamo”. Arezzo. Conferenza alla Feltrinelli: “Baby gang, la galera è un buon primo passo?” di Angela Baldi La Nazione, 7 giugno 2022 Baby gang, terreno fertile per emulare i cattivi, paura dei giovani ad uscire in centro, corto circuito tra famiglie e ragazzi. Sono temi sui cu riflettono i giovani. Come Francesco Simi, Lorenzo Franchi e Alessio Occhini intervenuti ieri nel corso della conferenza “Baby gang, la galera è un buon primo passo?” organizzata alla Feltrinelli. “In Italia il tasso di recidiva degli ex detenuti è al 70%, più di 2 persone su 3, una volta uscite dal carcere, commettono ulteriori crimini e devono scontare un’altra pena. Il dato aumenta man mano che l’età diminuisce e ci fa capire che il carcere non riesce a rieducare il detenuto e reinserirlo in società”. Ventenni aretini che intervengono su un tema che sta a cuore ai giovani, dopo l’arresto dei componenti della baby gang che dettava legge in città. Coetanei che parlano di altri coetanei protagonisti di episodi di violenza in centro, che chiedono alle istituzioni di non sottovalutare il problema pur dicendosi contrari alla galera. “Veniamo da diverse realtà politiche, Azione, Giovani democratici e Futuro aretino - dicono - siamo partiti domandandoci se la galera sia un buon primo passo per la baby gang e secondo noi no. Non per buonismo, siamo dalla parte di legalità e aggrediti, ma il problema va risolto alla radice. C’è uno studio della Bocconi che dice che quando una persona fa lavori socialmente utili la recidiva scende al 20%”. “Ad Arezzo vanno ripensati Spazio Famiglie e Casa delle culture. Il fenomeno baby gang non è solo aretino ma diffuso in Italia, col 20% dei minori che ha commesso almeno un atto vandalico”. Parlando della classifica sulla qualità della vita in cui Arezzo spicca alla voce bambini, i ragazzi dicono: “La città è al secondo posto per la qualità della vita dei piccoli, non è così per gli adolescenti. Il Comune dovr-ebbe parlare ai cittadini non mandarli in galera, gli atti delle baby gang si basano sul contesto sociale in cui i ragazzi sono cresciuti tra problemi economici e disagi familiari aumentati con la pandemia. Dall’amministrazione ci aspettiamo più servizi a supporto di ragazzi e famiglie. Il minore che sbaglia non va stigmatizzato e messo alla gogna social, ma recuperato. Un detenuto in media ci costa 150 euro al giorno, il doppio se recidivo, è un problema di tutti, vanno supportate famiglie, scuola, decenti e sviluppata l’educazione civica. Reclusione ed isolamento sono un circolo vizioso”. Per i giovani aretini mancano luoghi e occasioni di svago. “Molti dei nostri coetanei hanno paura di uscire, aumentano i gruppi di ragazzi pericolosi, è necessario intervenire sul disagio”. Salerno. Il verde della Cittadella sarà curato dai detenuti di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 7 giugno 2022 Dieci reclusi a Fuorni impegnati nella manutenzione dell’area di via Dalmazia. Dare la possibilità di un riscatto ai detenuti già durante l’espiazione della pena, ma anche fornire tutte le nozioni utili per trovare un lavoro come manutentore del verde quando la restrizione in carcere sarà finita. È l’obiettivo che si prefigge il progetto che vedrà impiegati oltre una decina di detenuti dell’istituto penitenziario di Fuorni in un corso di formazione e poi nella manutenzione del verde all’interno delle aree del carcere e all’esterno della Cittadella giudiziaria, lungo le strade circostanti e nell’area verde della struttura giudiziaria di via Dalmazia. In pratica i detenuti del carcere diventeranno “curatori” dell’area esterna del tribunale che, in diverse occasioni, ha comminato loro una pena. Ma quello relativo al verde non è l’unico progetto in corso nella casa circondariale guidata dalla direttrice Rita Romano per dare possibilità di riscatto (e un lavoro) ai detenuti: probabilmente, infatti, altri tre ospiti del carcere di via del Tonnazzo saranno impiegati con mansioni di addetto all’archivio del tribunale di Sorveglianza di Salerno. Sta prendendo forma, dunque, il progetto che vede collaborare diversi enti, dalla direzione della casa circondariale al Comune di Salerno, dai Giardini della Minerva alla Corte d’Appello di Salerno, al Tribunale di Sorveglianza di Salerno, alla Provincia di Salerno impegnati nella stipula di un protocollo di intesa per favorire i processi di rieducazione e di reinserimento in società delle persone in esecuzione di pena. Un protocollo che vede impegnati anche alle diverse associazioni di settore, come la Coldiretti, Confagricoltura e la Camera di Commercio. L’amministrazione comunale di Salerno, con una delibera della Giunta guidata dal sindaco Vincenzo Napoli, ha riconosciuto e intende sostenere l’importanza del progetto conferendo un indirizzo al dirigente dell’Settore Ambiente del Comune, Davide Pelosio, affinché adotti ogni provvedimento per agevolare la realizzazione dell’iniziativa e permettere così ai detenuti di iniziare il loro lavoro da manutentori del verde nell’area della Cittadella Giudiziaria. “Si tratta di un progetto che intende realmente offrire una possibilità ai detenuti di sentirsi utili alla società e nel contempo di acquisire quelle competenze che poi saranno certificate per diventare manutentori del verde”, sottolinea Rita Romano, direttrice del carcere di Salerno, fra le principali promotrici di quest’iniziativa. “Ad essere impiegati saranno ben oltre dieci unità che stanno seguendo un percorso di formazione già avviato all’interno della struttura carceraria”. La responsabile della struttura detentiva di Fuorni sottolinea l’importanza di queste attività avviate da tempo e che ora stanno trovando la loro concretizzazione: “Crediamo molto nella funzione di riabilitazione della pena ed anche istituti penitenziari con tante difficoltà possono assicurare delle opportunità di riscatto e di lavoro a chi rimane rinchiuso al suo interno”. La direttrice Romano punta anche sui percorsi di formazione come manutentori del verde attivati per i partecipanti al progetto che sono “strumento indispensabile per poi concretamente avere la possibilità di lavoro una volta tornati liberi. Insomma, il penitenziario di Fuorni è una struttura con problemi ma che assicura vuole essere anche un’occasione per cambiare vita, grazie alla collaborazione di vari enti pubblici ed associazioni”. Torino. I detenuti potranno sostenere gli esami per la certificazione della lingua inglese di Vincenzo Spinello quotidianopiemontese.it, 7 giugno 2022 I detenuti del carcere Lorusso Cotugno di Torino potranno sostenere gli esami per ottenere la certificazione Cambridge della lingua inglese. Infatti il Centro per l’istruzione degli adulti, Cpia1 Paulo Freire, aprirà, all’interno del carcere la sessione di esami giovedì 9 giugno. Prima del covid nel 2019 era già stata avviata una sperimentazione nello stesso carcere sempre dal Cpia1, diventando il primo caso in Italia. Nelle parole riportate dall’Ansa, Paolo Tazio, dirigente scolastico del Cpia1, afferma come: “Siamo lieti di continuare, dopo la pandemia, a offrire questa opportunità e confidiamo che questa iniziativa, di carattere sperimentale, possa avere un seguito anche in altre realtà del Paese”. E poi aggiunge: “Si tratta di un osservatorio significativo, se consideriamo che ogni anno sono iscritte presso le nostre strutture oltre 2.500 persone che vivono in città e che provengono da 97 Paesi. L’età va dai 16 agli 80 anni, con una media intorno ai 40”. Bologna. Tra Platone e Pasolini. Gli attori-detenuti all’Arena Orfeonica di Paola Gabrielli Corriere di Bologna, 7 giugno 2022 Tra “Il Simposio” di Platone e “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini. Sono queste le fonti ispiratrici del nuovo spettacolo dal titolo “Amuri” di Gruppo Elettrogeno. L’ambito è la sesta edizione de I Fiori Blu e andrà in scena all’Arena Orfeonica di via Broccaindosso il 13 e 14 giugno, un luogo che per la sua storia popolare è perfetto per accogliere un lavoro così coinvolgente, anche dalla parte dello spettatore (ore 21.15, biglietti su vivaticket). Riguardo a I Fiori Blu invece, va ricordato che parliamo di un percorso di formazione musicale e teatrale rivolto a persone che eseguono o hanno concluso una misura alternativa alla detenzione o alla pena, ma anche a operatori del settore socio-educativo, familiari, amici, artisti e a tutti gli interessati. La scelta di un titolo per una pièce recitata in dialetto siciliano per evocare con maggior forza la pluralità delle forme amorose, non è nata a caso. Dopo diversi mesi di laboratorio e un lavoro impegnativo tra musica e teatro che ha incluso anche un reading in collaborazione con il Tpo e il cantautore Pierpaolo Capovilla - “Finché galera non ci separi”, tratto dal libro di poesie dal titolo omonimo del detenuto Emidio Paolucci - gli interpreti della compagnia-comunità de i Fiori Blu mettono sul campo con i loro corpi tensioni, dolori e visioni amorose in dialogo tra loro e con le opere di Platone e Paolini. A spiegare il senso del progetto è Martina Palmieri di Gruppo Elettrogeno, che ha coordinato progetto e regia. “Tra i fini principali di questo percorso c’è quello di esplorare e valorizzare l’identità artistica di chi partecipa. Pratichiamo un teatro che dà valore a una comunità che lavora a una narrazione condivisa. Definirei gli stessi attori dei costruttori di ponti. Le narrazioni a cui danno corpo e voce i partecipanti sono pulsanti, spiazzanti. Mettono al centro le proprie istanze senza interferenze, e per questo spesso sono disarmanti. Sulla scena portano la loro vulnerabilità, e ciò dà vita a nuovi significati che contribuiscono a ridisegnare una diversa visione artistica”. Non solo parole (in siciliano) in scena. Anzi. Il corpo è protagonista almeno quanto il testo e più di ogni parola esprime il caleidoscopio delle emozioni e tutte le sfumature che girano intorno all’amore. Sono moltissime le persone in scena, di ogni età a provenienza. A queste si aggiungono i cori Euridice, Euridicinni, quello delle Voci Bianche della scuola di musica Capitanio di Ozzano, e davvero variegate sono state le guide teatrali e musicali. Il progetto I Fiori Blu invece è parte della rassegna Le Notti Orfeoniche diretta da Olga Durano, all’interno del cartellone di Bologna Estate. Operativo dal 2012, I Fiori Blu nasce da una collaborazione tra Gruppo Elettrogeno, l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) di Bologna, il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità (Ministero della Giustizia), e altri enti e istituzioni pubbliche e private. La colpa oscura della povertà di Paolo Griseri La Stampa, 7 giugno 2022 L’indigenza soffre da sempre di una concezione moralistica: ora subisce l’egemonia culturale dei populismi. Il lavoro frammentato e precario rende l’Italia un paese sempre meno vivibile, senza giustizia sociale. Un Paese in cui la povertà non ha diritto di cittadinanza. È quello descritto da Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio e nell’ultimo libro (La povertà in Italia, Il Mulino) che propone la radiografia italiana dello stato di indigenza. E la paragona, quasi sempre con esiti sconfortanti, con quanto accade negli altri Paesi europei. Una fotografia che tiene insieme la lunga storia dei redditi bassi italiani, dal 1992, anno della prima crisi segnata dalla svalutazione della moneta, al crollo seguito alla crisi finanziaria e industriale del primo passaggio di decennio del nuovo secolo, fino agli effetti della recente pandemia. Per scoprire che ancora oggi nel profondo della società italiana la povertà è considerata una colpa, il risultato di una scarsa propensione a darsi da fare, frutto dell’indolenza più che dell’indigenza. Concezione novecentesca, nata quando il lavoro non mancava ed era retribuito con continuità (anche se mai a livelli adeguati) e quella della povertà era considerata una questione da affidare all’assistenza, non certo un elemento di cui dovesse occuparsi la politica. Anche perché i partiti coprivano tutto lo spettro, dai redditi bassi delle barriere operaie ai vertici della scala sociale. Modo di pensare certamente legato a un mondo molto diverso, in cui lavoro e povertà non coesistevano mentre i dati riportati nel volume dimostrano che oggi è crescente il numero dei lavoratori poveri (poor workers, o come precisa meglio Saraceno, in-work poor). Ma anche una mentalità che sarebbe erroneo liquidare come frutto di concezioni superate. Perché è vero, come sottolineano gli autori della ricerca, che il giudizio negativo sulla povertà “è frutto di una concezione moralistica” ma è altrettanto vero che la categoria stessa di povertà come lente per l’analisi della società è scivolosa, soprattutto se messa in mano a una politica che subisce l’egemonia culturale dei populismi. Tant’è che né il modello simil peronista dei 5 stelle con il loro Reddito di cittadinanza, né quello sovranista-antieuropeo della Lega con il mito di Quota 100 hanno risolto il problema della povertà degli indigenti o del ricambio generazionale nei luoghi di lavoro incentivando l’aumento del reddito dei più giovani. Il fatto è che nella vecchia concezione novecentesca, quando alla categoria della povertà si preferiva quella di giustizia sociale, era il sistema dei partiti a farsi carico dei redditi più bassi in uno scambio esplicito tra consenso elettorale e difesa degli interessi di chi viveva alla base della piramide sociale. Oggi è tutto più complicato e semplice insieme: il consenso elettorale si scambia con una sceneggiata dal balcone di Palazzo Chigi. Eppure, nonostante questi evidenti limiti, è un fatto, riconoscono gli autori, che il Reddito di cittadinanza è il primo tentativo in Italia di protezione universale dei più poveri. Con quel provvedimento si è cominciato a colmare una lacuna vistosa rispetto ai sistemi di welfare degli altri Paesi europei. I dati riportati nella ricerca (Saraceno è presidente del comitato nominato dal ministro Orlando per la valutazione del Reddito di cittadinanza), dimostrano che prima della pandemia la misura aveva contribuito effettivamente ad alleviare, se pure molto parzialmente, le difficoltà degli indigenti. Poi, evidentemente, la diffusione del Covid ha rimescolato le carte in tavola. Tanto che c’è da chiedersi quanto sia ancora in grado di reggere il nostro attuale sistema di welfare, soprattutto se a tutti questi fattori si sommeranno le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina. Ma la riforma generale del sistema di ammortizzatori sociali, sul tavolo della politica e delle forze sociali da lungo tempo, non riuscirà a vedere la luce se non si risolve il problema di fondo che fino ad oggi ne ha praticamente impedito il varo: chi paga? Nel vecchio sistema novecentesco l’ammortizzatore principale, la cassa integrazione, era sostanzialmente pagato dai lavoratori e dalle imprese. È dalle loro buste paga e dai lori profitti che arrivavano i denari per gli assegni mensili in caso di fermo dell’attività produttiva. Certamente nei casi più difficili interveniva lo Stato finanziando la cassa integrazione in deroga. Ma di fronte a un mondo del lavoro frammentato e precario, chi pagherà gli ammortizzatori sociali? Nei momenti più difficili della pandemia, le casse pubbliche hanno pagato la cassa integrazione anche ai lavoratori autonomi. Un caso eccezionale, naturalmente. Ma se si volesse allargare la cassa in modo permanente anche a quella categoria di lavoratori, chi la pagherebbe? Ecco allora che il tema di fondo da cui era partita la ricerca degli autori del volume, torna nelle conclusioni: la lotta alla povertà non può prescindere dalla giustizia sociale. Il problema è lì, sul tavolo. I dati e le analisi della ricerca di Saraceno, Benassi e Morlicchio possono aiutare a risolverlo. La propaganda cancella le vittime delle molestie di Peschiera del Garda di Giulia Merlo Il Domani, 7 giugno 2022 I fatti avvenuti nella giornata del 2 giugno tra i comuni di Desenzano, Peschiera del Garda e Castelnuovo sono ancora da accertare. Per ora, le uniche informazioni frammentarie arrivano dai video sui social network - in particolare TikTok, da cui sarebbe partita l’organizzazione della giornata - i resoconti della polizia e le denunce di almeno cinque ragazze minorenni. Secondo le prime ricostruzioni, tutto è partito da un video dal titolo “L’Africa a Peschiera del Garda”, che dava appuntamento ai giovanissimi delle provincie lombarde e venete sulla spiaggia libera tra Peschiera e Castelnuovo per il giorno della festa della Repubblica. A riversarsi in spiaggia sarebbero stati, secondo le stime, circa duemila ragazzi tra i 16 e i 20 anni, molti dei quali immigrati di seconda generazione, nati in Italia da famiglie di origine africana. Dalle scene mostrate sui social, la situazione è presto degenerata con risse, passanti infastiditi e danneggiamenti ad aiuole e macchine parcheggiate. La polizia è intervenuta in assetto antisommossa. Alle 17, la folla ha iniziato a lasciare il lungo lago e si è riversata nella stazione dei treni di Peschiera. Qui sono avvenuti gli episodi di molestie denunciati da cinque ragazze a bordo di un treno regionale diretto a Milano: stavano rientrando a casa da una gita a Gardaland e hanno preso lo stesso treno di rientro dei ragazzi coinvolti nella rissa sulla spiaggia di Peschiera. La denuncia - Secondo quanto denunciato alla Polizia ferroviaria, che si sta ora occupando delle indagini, sul treno le ragazze sarebbero state molestate da ragazzi afrodiscendenti, che le avrebbero spaventate e avrebbero provato a impedire loro di scendere dalla carrozza. Solo l’intervento di un altro ragazzo avrebbe permesso alle cinque donne di allontanarsi dal vagone, caldissimo e pieno di gente, e di scendere alla stazione di Desenzano dove nel frattempo erano arrivati i genitori. Mentre erano a bordo, le ragazze hanno infatti telefonato a casa, il padre di una di loro ha provato ad allertare la polizia raccontando quello che stava accadendo a bordo del regionale. Poi, appena tornate a Milano, le giovani, con le rispettive famiglie, hanno sporto denuncia. Il numero di segnalazioni potrebbe anche essere più alto. Le indagini sono in corso per ricostruire i fatti. Innanzitutto andrà accertato chi sono i presunti autori delle molestie e se davvero sono gli stessi della rissa. Anche per questi fatti sono in corso indagini da parte della procura di Verona. Le ipotesi di reato sono rissa aggravata, danneggiamenti e tentata rapina. Le indagini milanesi avrebbero già individuato una trentina di ragazzi, ma andranno confrontate con attenzione le immagini delle telecamere della stazione con le descrizioni nella denuncia delle ragazze. Quanto ai reati, l’autorità giudiziaria sarebbe orientata a contestare il reato di molestie. In questo caso, si tratterebbe di una contravvenzione punita con una multa fino a 516 euro o con l’arresto fino a sei mesi. Se così fosse, i giovani potrebbero essere accusati solo di aver avuto comportamenti invasivi e molesti. Se invece venisse accertato che le giovani sono anche state toccate, potrebbe configurarsi il reato di violenza sessuale, che ha una pena molto più pesante che va dai sei ai 12 anni. La giurisprudenza recente, infatti, qualifica come violenza sessuale, e non come semplici molestie, qualsiasi “palpeggiamento”, “anche se sopra i vestiti”. Potrebbe essere riconosciuta anche l’aggravante del fatto avvenuto in gruppo. Altra variabile da accertare è l’età degli indagati. Se chi ha molestato le ragazze milanesi non fosse maggiorenne, allora il procedimento penale si sposterebbe al tribunale dei minorenni, che dovrà anzitutto valutare la capacità di intendere e di volere dei ragazzi. Sarà il giudice a valutare il tipo di sanzione, verranno attivati i servizi sociali e si esamineranno anche le condizioni personali, familiari, sociali e ambientali dei colpevoli. Nel caso estremo in cui si opti per le misure penali, e che venga accertato il fatto che gli autori sono minorenni, la pena si ridurrebbe fino alla metà rispetto al minimo previsto. Le reazioni politiche - Le reazioni più dure, anche prima di un completo accertamento dei fatti, sono arrivate dalla Lega. Il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, ha detto al Corriere della Sera che “le leggi sono da cambiare. In altri ordinamenti c’è la notte in carcere. Se l’impunità è garantita, il partecipare alle violenze diventa una medaglia”. Sulla stessa linea è intervenuto anche il segretario, Matteo Salvini, dicendo che “si tratta di baby gang straniere” e ha aggiunto che per alcuni reati gravi, come i reati sessuali, va abbassata l’età perché siano imputabili. Questo, secondo il leader leghista, servirebbe a contrastare “queste baby gang che sanno di non rischiare nulla perché sono minorenni”. A febbraio 2019, la Lega aveva presentato una proposta di legge che abbassa a da 14 a 12 l’età minima in cui si può procedere penalmente contro un minore e introduce l’aggravante dell’associazione per i reati commessi da minorenni. La risposta è arrivata dal Pd, con la senatrice Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio, che ha definito i fatti “gravissimi” ma ha parlato di “indignazione propagandistica della destra”, in particolare rispetto al connotato razziale. “L’immigrazione c’entra poco, la violenza contro le donne prescinde dal colore della pelle degli autori, lo sappiamo bene” e ha sfidato i partiti del centrodestra a votare il disegno di legge per istituire il reato di molestie sessuali, attualmente fermo nelle commissioni Giustizia e Lavoro al Senato. La violenza che cresce e quel che c’è da fare, prima che sia tardi di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 7 giugno 2022 Risse e molestie, ormai, non fanno più notizia. Ma se accettiamo tutto questo, prepariamoci a un futuro francese. Occorre educare alla convivenza: e farlo subito. Domenica sera, nel pronto soccorso dell’ospedale di Crema, i carabinieri tenevano divisi due ragazzi che s’ insultavano e volevano picchiarsi, dopo le botte che si erano già date e le ferite che si erano procurate. Il Commissariato di Crema in aprile ha indagato due minori di anni 15 per lesioni aggravate: avvicinavano i coetanei, li provocavano, li picchiavano, scappavano. In marzo tre ragazzi, in pieno centro, hanno aggredito alcuni coetanei con bastoni e bottiglie. Un diciottenne ha minacciato un compagno di classe con un coltello. L’elenco sarebbe più lungo. Spesso si tratta di ragazzi stranieri, molte le ragazze. Bel tempo, serate lunghe, risse per divertimento. Questo accade nella mia città, piena di sole e di giovani turisti che si scattano i selfie nella piazza dove hanno girato “Chiamami col tuo nome”. Crema è benestante, ben amministrata e tranquilla, secondo gli standard nazionali. Carabinieri e polizia fanno il loro lavoro. Eppure, nelle ultime settimane, è successo quello che ho scritto, anzi molto di più. Perché sono poche le famiglie che denunciano, temendo forse ritorsioni. Preferiscono lamentarsi sui social, privando le forze dell’ordine dello strumento che consentirebbe loro di agire. Quello che succede a Crema sta accadendo ovunque. Le notizie arrivano sui media nazionali solo quando gli episodi sono veramente gravi o particolarmente odiosi. L’inseguimento col machete per le strade di Torino (arrestato, già scarcerato); le molestie sessuali sui treni (domenica di ritorno da Gardaland, ma sui regionali le ragazze vengono infastidite continuamente); le botte come passatempo (durante il fine settimana scene di guerra sul Garda, ma risse anche a Jesolo, Treviso, Vittorio Veneto, Lucca, Firenze, Pesaro, Chieti, Trani, Foggia, Palermo e in chissà quanti altri posti). Ormai certe cose non fanno notizia. Ma se accettiamo questa orrenda consuetudine, prepariamoci a un futuro francese. Quartieri fuorilegge, città divise, società spaccata, disordini, estrema destra in ascesa. Accadrà, se non ne parliamo. Anzi: accadrà perché non ne parliamo. Solo la scuola e le forze dell’ordine sembrano aver capito cosa sta accadendo: ma non basta. Dov’ è la politica, dove sono i partiti, dove sono i leader? Offrire slogan dopo un episodio grave non serve a niente. Servono proposte sociali, nuove norme, sanzioni efficaci. Per quei ragazzi la denuncia è solo un fastidio, un prezzo ragionevole da pagare per la gloria sui social. Insegnanti, parrocchie, associazioni e società sportive provano a intercettarli e aiutarli: ma non basta, evidentemente. Le famiglie sembrano impotenti (spesso inconsapevoli, talvolta complici). Educare una nuova generazione alla convivenza italiana è un progetto enorme, ma indispensabile. L’alternativa? Pensare che tutto questo non ci riguardi. Finché - su un treno, in una strada, su una spiaggia - succederà qualcosa che non dovrebbe succedere, a noi o alle persone cui vogliamo bene. Allora capiremo, ma sarà tardi. “Mia figlia in trappola, io al telefono non potevo far nulla” di Cesare Giuzzi, Alfio Sciacca Corriere della Sera, 7 giugno 2022 Le violenze al rientro dal Garda, il racconto di uno dei genitori. “Ho chiamato le forze dell’ordine, ma sono arrivate quando lei era già scesa dal treno. È ancora sotto choc”. “Quando mi ha detto che era bloccata, che le stavano tutti addosso e non riusciva nemmeno a respirare sono impazzito… mia figlia era in balia di gente senza scrupoli e io ero a casa, impotente. Se non fosse riuscita a scendere a Desenzano quelli non so cosa le avrebbero fatto”. Alberto è il papà di una delle due ragazze del Pavese che hanno denunciato, assieme a altre tre minori di Milano, di essere state molestate sul treno, dopo una giornata a Gardaland. Quattro giorni dopo ricostruisce tutto così minuziosamente da farti rivivere la sua angoscia di padre. “Dal treno mi chiamava terrorizzata. Uno squillo, poche parole e cadeva la linea. Aveva paura che pensassero che stava chiamando la polizia. Parlava a monosillabi e riattaccava. Poi non rispondeva, quindi mandava un messaggio: “Papà siamo ammassati, non ci fanno scendere”. L’ho implorata di spostarsi in un altro vagone e scendere alla prima fermata. E lei: “non riesco neanche a girarmi”. A quel punto sono andato nel panico. Erano degli invasati e le potevano fare di tutto. Pensavo: magari saranno anche ubriachi... e se hanno dei coltelli...”. Ha avvisato le forze dell’ordine? “L’ho fatto ed è stato un altro incubo. Ho chiamato prima i numeri della polizia ferroviaria di Peschiera, ma non rispondeva nessuno. Quindi ho telefonato al 112, e mi hanno passato i carabinieri di Peschiera. Gli ho spiegato cosa stava succedendo e mi hanno detto che non era di loro competenza e avrebbero chiamato la polizia ferroviaria. Al che gli ho urlato: “ma è questo il modo di gestire un’emergenza?”. Cosa ha fatto? “Non mi è rimasto che mettermi in macchina. Mezz’ora dopo mi chiamano i carabinieri dicendomi che stavano mandando le pattuglie a Peschiera. Peccato che mia figlie intanto era già riuscita a scendere, ma a Desenzano”. Quindi erano già al sicuro? “Mi ha chiamato quando io ero ancora in strada. Al telefono piangeva. Gli ho detto: “Restate in gruppo, andate in un posto affollato”. Al mio arrivo le ho trovate tutte cinque in un bar. Tremavano ancora per la paura”. Cosa le hanno raccontato? “Che si sono sentite in trappola, braccate, senza l’aiuto di nessuno. Le toccavano, dicendo: “Donne bianche voi non potete stare qui… siete delle privilegiate”. Quando una di loro ha avuto l’attacco di panico ed è svenuta loro si sono tolti la maglietta per farle aria, intanto le si avvicinavano al viso dicendo “I love you”. Alla fine si sono salvate solo grazie a un ragazzo, anche lui di colore, che è riuscito a farsi largo tra la folla a spintoni consentendo alle ragazze di aprire le porte”. Lei è in collera anche con le Ferrovie... “Di più. In questa vicenda hanno una grossissima responsabilità. Era evidente quello che stava succedendo con quella gente che aveva già bloccato l’alta velocità. Erano tutti ubriachi e violenti. In quelle condizioni non dovevano assolutamente far partire quel treno fuori controllo”. Ma sua figlia perché è salita? “Mi ha detto che quando sono arrivate loro in stazione c’era casino, ma erano ancora in pochi. La marea umana è arrivata quando erano già a bordo e quindi sono rimaste intrappolate”. Come sta ora sua figlia? “È ancora traumatizzata, quando ne parla piange. Pensi: era la prima volta che andava in gita da sola con la sua amica, che come lei ha 17 anni. Appena l’ho riabbracciata la prima cosa che mi ha detto è stata: “In vita mia non prenderò mai più un treno”. Riconoscerebbe chi l’ha molestata? “Non lo so. Dice che parlavano italiano e racconta che erano così pigiati tra loro che sembravano tutti uguali”. Avete avuto qualche esitazione prima di denunciare? “Confesso che ci abbiamo pensato un po’ con gli altri genitori. Poi ci siamo detti: “Alle nostre figlie è andata bene, ma ad altre ragazze è andata o potrebbe andar peggio. È giusto che facciamo il nostro dovere di cittadini”. Non possiamo abbassare la testa. C’è anche bisogno che se ne parli per evitare che cose del genere, o anche più gravi, accadano ancora ad altre ragazze come mia figlia”. “Vanno arrestati fin dai 12 anni, solo così raddrizzeremo le schiene” di Stefano Bensa Corriere del Veneto, 7 giugno 2022 Da uno a dieci giorni in cella di sicurezza su disposizione del giudice di pace, al quale sarebbero assegnate anche competenze penali. E liberazione su pagamento di una cauzione, un po’ come accade negli Stati Uniti. La soluzione per tentare di arginare il fenomeno delle baby gang ma anche, ad esempio, dell’ubriachezza molesta e dei vandalismi - potrebbe essere una legge che punirebbe i minori fin dai 12 anni di età. Attribuendo pure maggior potere alle polizie locali e, di riflesso, ai Comuni. “Per impartire una vera lezione” esclama il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. La bozza c’è già, risale al 2017 ed il primo firmatario fu Andrea Causin, allora deputato di Area Popolare ed oggi senatore militante in Coraggio Italia, movimento presieduto proprio da Brugnaro. Quest’ultimo promette: “Ripresenteremo quel disegno di legge. Se qualcuno commette un atto violento va ammanettato e portato in cella. A Venezia ne abbiamo allestite già sette. Al secondo piano, il giudice di pace con poteri penali decreterebbe da uno a dieci giorni di reclusione con uscita su cauzione, senza passare per la giustizia ordinaria già oberata di lavoro”. Una “tolleranza zero”, insomma, “per raddrizzare davvero la schiena, ovviamente nel pieno rispetto dei diritti”. Brugnaro è convinto che sia questa la strada giusta: “Abbiamo già stroncato una baby gang, arrestandone il capo e causandone la dissoluzione. Nella banda c’era anche il figlio di un bancario, non solo ragazzi provenienti da situazioni disagiate. Non m’interessa l’estrazione sociale di chi delinque o commette vandalismi, può essere anche il partecipante ad una festa di laurea che si ubriaca: lo prendo e lo sbatto in cella”. Certo, in tutto questo servirebbero provvedimenti ad alto livello, come un piano carceri adeguato e il potenziamento degli organici delle forze dell’ordine (“continuo a chiedere uomini, ma spesso e volentieri siamo costretti a guardarci in faccia sconsolati”, puntualizza il sindaco e leader di Coraggio Italia). Per il resto, lo stesso Andrea Causin ritiene necessario riprendere la battaglia parlamentare: “C’è un vuoto di potere - sostiene il senatore veneziano - ed i sindaci hanno le mani legate. Bisogna dare l’esempio, altrimenti le baby gang diverranno una vera e propria scuola del crimine”. Di “punizioni esemplari”, relativamente alla maxi rissa sul Garda e alle molestie subite da un gruppo di ragazze in treno, parla anche il presidente della Regione Luca Zaia. “È stata una devastazione, sono stati atti delinquenziali che devono essere puniti senza se e senza ma”, sbotta Zaia. Secondo cui “non ci possono essere giustificazioni, è necessario abbassare la soglia di età per la punibilità evitando che l’italia diventi il Bengodi dell’impunibilità”. Le parole di Zaia seguono quelle del segretario della Lega Matteo Salvini. Che rilancia un altro provvedimento, stavolta a firma leghista e anch’esso in fase di stallo. “Da Nord a Sud - afferma Salvini l’escalation di violenza causata dalle baby gang non si arresta, eppure da tre anni una legge risolutiva della Lega è ferma in Parlamento. Chiediamo di abbassare l’età di imputabilità e di prevedere l’aggravante dell’associazione per i reati commessi da minorenni. È urgente che la politica affronti questa emergenza”. Un concetto ribadito dal capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari. Che va in pressing: “Si calendarizzi immediatamente la nostra proposta. Ogni giorno - dichiara Molinari - assistiamo a fenomeni di violenza e non possiamo accettare che tutto sia ancora fermo in commissione. Occorre quanto prima intervenire abbassando l’età imputabile da 14 a 12 anni ed eliminare le premialità previste per le condanne ai minori nei casi in cui scatti l’aggravante dell’associazione. Le istituzioni hanno il dovere di affrontare il problema, non rimandarlo”. “Ci avete ghettizzato, non stupitevi se chi non ha niente poi dà sfogo al suo disagio” di Karima Moual La Repubblica, 7 giugno 2022 Viaggio tra le seconde generazioni nate in Italia e mai integrate nel nostro Paese. Ragazze molestate, la rabbia dei figli degli immigrati: “Noi più africani che italiani, ma siete voi a farci sentire così”. “Quello che è successo è vergognoso, quelle molestie sono terribili, ma possibile che i riflettori si accendono solo quando scoppia il caos? Si svegliano solo adesso scoprendo la rabbia e la violenza che molti ragazzi stanno sfogando? Ma di noi non ha mai avuto pietà nessuno, dallo stesso momento in cui ci hanno sbattuti nei peggiori quartieri, possibilmente ammassando tutti insieme, per identificarci ancora meglio come immigrati, africani a vita. Alla fine, ce l’hanno fatta. Sono riusciti a farci credere di essere più africani che italiani. Non capisco quindi perché tutto ‘sto scandalo”. Così Hassan (nome di fantasia) da Milano, quartiere San Siro, spiega il disagio di una generazione di figli di immigrati. “Sì, mi sento africano, marocchino e non certo italiano. Non sono mica scemo. So come ci guardano gli italiani e, sinceramente, preferisco tenermi strette le mie origini”. Mentre si racconta, cerca di spiegare, la voce a volte trema, eppure non ha nessuna voglia di fermarsi ed è convinto di rientrare in una specie di figura, marocchina, immigrata, africana, che non è altro che qualcosa di immaginario e astratto. E basta vedere il volto dei genitori, sentirli parlare, per capire quanta distanza ci sia tra lui e il loro mondo. “Ma non ti guardi intorno sorella? Siamo solo la feccia per loro (inteso, gli italiani, ndr), e da dentro queste fatiscenti palazzine sono in pochi a permettersi di sognare. Fare piccole rapine, spacciare, per molti ragazzi è ormai normale”. Un disagio che esprime anche Farid, che ha appena 14 anni e vive a Vercelli, Mounir, diciottenne di Tor bella Monaca, estrema periferia est di Roma. Ragazzi che vivono in quartieri popolari e realtà diverse, ma sembrano tutti fatti con lo stampino: abbigliamento, gusti musicali, tanta rabbia e voglia di emergere, uscire dal “ghetto” a tutti i costi. “È un ghetto non solo di palazzine - spiega Fatma, 18 anni, tunisina - ma di percezioni, opportunità, parole, stigmatizzazione e pregiudizi che continuano ad imprigionarci, senza via di scampo. I rapper emergenti, come Sacky, Baby Gang, Neima Ezza un po’ danno sfogo al nostro disagio”. Dice Rashid, 20 anni, Barriera di Torino: “Io non sono una vittima. Semplicemente so che devo andare a prendere quello che mi spetta. Perché tanto qui non me lo darà nessuno. Sai quante volte mi hanno fermato le forze dell’ordine solo perché ho la faccia da maghrebino? Tanto vale fare il vero spacciatore”. Parole troppo grandi per ragazzi troppo giovani nati in Italia da genitori immigrati e dove “l’Africa” è in realtà la città o il villaggio dove sono nati i loro genitori. Eppure, quelle parole riescono a dirle leggeri. Quella che sembra accomunare una parte dei figli di immigrati. Basta parlarci, entrare un po’ nella loro testa e scardinare i miti che si sono costruiti per capire che sono, da una parte, al centro di un vero scontro generazionale con la cultura e le tradizioni dei genitori; dall’altra, in un conflitto identitario con il Paese dove sono nati e cresciuti. Uno scontro che, in ultima istanza, sfocia in rabbia e violenza, come quella avvenuta il 2 giugno sulle spiagge di Castelnuovo e Peschiera del Garda dove si sono riversati centinaia di ragazzi arrivati dalla Lombardia per un raduno trap chiamato “L’Africa a Peschiera”. Come si è riusciti, a portare una parte delle seconde generazioni di nuovi italiani a percepirsi “l’Africa” nel Paese in cui sono nati e cresciuti? E attenzione, a percepirsi “Africa” nell’accezione negativa, rispondendo al peggior pregiudizio razzista. Perché quello è stato: la devastazione fisica del luogo pubblico per finire nelle molestie orrende che hanno colpito, anche qui, come a Capodanno a Milano, ragazze inermi, magari coetanee, compagne di scuola, sorelle, amiche, che di colpo vengono disumanizzate, per diventare solo “bianche” da molestare. Un nichilismo estremo. Una semplificazione rozza e al limite che divide tra bianco e nero, quando anche il bianco e il nero in quel dato contesto in realtà non esiste, ma è sola una percezione che si è fatta realtà, nella più becera violenza, che ci indica come nei prossimi anni sarà complicato trovare la ricetta giusta per scardinare un incubo che si è avverato, per la gioia di chi ha tifato sempre affinché una integrazione non fosse possibile e non ha fatto nulla perché avvenga. La scelta di Fabio: “Lo Stato mi ignora, lasciatemi morire di fame e di sete” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 7 giugno 2022 Dalle Marche il grido del 46enne immobilizzato da 18 anni. “Ho diritto al suicidio assistito ma è tutto fermo, ora sedatemi”. È il terzo caso di un paziente che fa causa all’azienda sanitaria perché venga applicata la sentenza della Consulta sul Dj Fabo. Non avendo ricevuto risposta Fabio Ridolfi ha deciso di mettere fine alle proprie sofferenze interrompendo nutrizione e idratazione con la sedazione profonda. La sua morte sarà un durissimo atto di accusa allo Stato. Come fu quella di Piergiorgio Welby. Dopo aver a lungo lottato per ottenere il suicidio assistito, nonostante la sua condizione di sofferenza fosse ritenuta “insopportabile”, e le sue condizioni compatibili con quanto previsto dalla sentenza della Consulta su caso di Dj Fabo, Fabio Ridolfi, 46 anni, da 18 immobilizzato a letto, ha scelto di morire, invece, con la sedazione profonda. Così come prevede la legge sul biotestamento del 2017, ossia con la “desistenza” dei trattamenti vitali e non più con un atto volontario assistito medicalmente. La differenza è sostanziale: la sedazione profonda prevede alcuni giorni di agonia, pur con il dolore enormemente attenuato, nello strazio di chi vive accanto al paziente morente, il suicidio assistito è immediato. Fabio che vive a Fermignano, in provincia di Pesaro, affetto da una gravissima tetraparesi, ha annunciato la sua decisione attraverso il puntatore oculare con cui da anni daloga con gli altri. Ed è stata l’Associazione Luca Coscioni, che lo sta assistendo nella sua battaglia contro il servizio sanitario delle Marche per ottenere il suicidio assistito, a dare la notizia di questa amara scelta. Appassionato di musica e tifoso della Roma, venti giorni fa aveva già lanciato uno straziante appello: “Aiutatemi a morire”. La risposta era stata il silenzio. Così Fabio ha affidato a un video il suo testamento: “Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. Scelgo la sedazione profonda anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene”. “Una decisione - si legge in una nota dell’Associazione Coscioni - arrivata a seguito della mancata risposta da parte dell’Asur Marche che, dopo aver comunicato con 40 giorni di ritardo il parere del comitato etico con il via libera per l’aiuto medico alla morte volontaria, non ha mai indicato il parere sul farmaco e sulle modalità di somministrazione”. Per questo Fabio Ridolfi il 27 maggio scorso aveva anche diffidato formalmente l’Asur Marche a effettuare in tempi brevi le verifiche sul farmaco. Una diffida cui, però, non era seguita risposta. Fabio è il terzo caso, dopo Mario e Antonio, ad aver intrapreso un procedimento giudiziario nelle Marche per ottenere il suicidio assistito. “Fabio aveva un diritto, quello di poter scegliere l’aiuto medico alla morte volontaria, legalmente esercitabile sulla base della sentenza Consulta. Un diritto che gli è stato negato - spiegano Filomenta Gallo e Marco Cappato - a causa dell’ostruzionismo di uno Stato che gli impedisce di dire basta. Fabio merita rispetto, ogni giorno che passa è per lui un giorno di sofferenza in più, per questo ha deciso di non aspettare più”. Un addio annunciato nel silenzio assoluto della politica, fanno notate Gallo e Cappato “impegnata nell’insabbiamento al Senato del testo di legge sull’aiuto al suicidio”. Il fine vita di Fabio tortura di Stato di Maria Antonietta Farina Coscioni* La Stampa, 7 giugno 2022 Un paradosso tutto italico; ci sarebbe da sorriderne, pur a denti stretti, non fosse che ci sono persone che soffrono in modo atroce, che ci sono sentimenti crudelmente oltraggiati. Una vicenda kafkiana che neppure l’autore de “Il Castello” e delle “Metamorfosi” avrebbe saputo congegnare: c’è un diritto che si può esercitare, ma chi lo vuole esercitare non ne ha il diritto. Il caso è quello di Fabio Ridolfi, 46enne di Fermignano, in provincia di Pesaro; da ben 18 anni è immobilizzato, a causa di una tetraparesi. Fabio ha scelto di porre fine alle sue sofferenze tramite la sedazione profonda e continua. È una pratica consentita in Italia. Ne ha fatto ricorso, per esempio, Marina Ripa di Meana: voleva andare in Svizzera per porre fine a una sofferenza insopportabile e senza scampo; quando l’ho informata che aveva questa possibilità ha scelto questa strada che ignorava. Già questo è un primo problema: non tutti sono informati, sono a conoscenza di questa facoltà-diritto. Fabio vuole invece fare ricorso al suicidio medicalmente assistito. Desidera che la famiglia, gli amici, non debbano assistere e soffrire in attesa che la sedazione faccia il suo corso definitivo. Vuole fare subito, in pochi minuti, invece di attendere qualche giorno. Senza entrare nel merito della decisione, fatto è che dopo una lunga e penosa battaglia questo (suo) diritto gli viene riconosciuto. Qui entra in campo il paradosso kafkiano: può farlo, ma di fatto glielo si impedisce. Il Servizio sanitario regionale delle Marche comunica con oltre un mese di ritardo il parere del Comitato Etico con il via libera per l’aiuto medico alla morte volontaria; ma non indica il parere sul farmaco e le modalità di somministrazione. Il tempo passa e le miopie burocratiche rendono impraticabile il suicidio assistito. Fabio deve rinunciare alla via “breve” per porre fine alle sue sofferenze, e giocoforza far ricorso a quella più “lunga”. Perchè? Ipocrisia? Indifferenza verso chi soffre, malato e famiglia? Vocazione tutta italica al lezioso cavillo? Il voler a tutti i costi imporre una morale e un’etica al prossimo? Scegliete voi, la motivazione alla base di questa kafkiana situazione. Il fatto è che in Parlamento, al Senato giace il testo di legge approvato alla Camera dei deputati in tema di morte volontaria medicalmente assistita, certo perfettibile e con punti discutibili. Ma è almeno una base su cui confrontarsi e ragionare. Fermo, paralizzato; cosa si aspetta a procedere? Perché è considerato un intoccabile tabù? Questa colpevole inerzia condanna tantissimi Fabio a una sofferenza inutile, senza scopo. Possibile che non ci si renda conto dell’urgenza, al pensiero di un familiare, un amico, un conoscente, nelle condizioni del sofferente Fabio? A cosa si deve questa dolosa inerzia, questa paura ad affrontare le fondamentali questioni della vita e della morte che piaccia o no, riguardano tutti? È in Costituzione il diritto di ciascuno di dire, in scienza e coscienza, “basta!”. Nessuno, né i singoli né le Istituzioni hanno il diritto di aggiungere ai tanti Fabio che non hanno volto e voce, ulteriore sofferenza e tormento alle loro sofferenze e ai loro tormenti. Dignità e “pietas” sono diritti fondamentali che vanno tutelati e garantiti; e in Italia, purtroppo, ancora da conquistare. *Presidente Istituto Luca Coscioni Le dieci crisi umanitarie in Africa che il mondo ignora di Luca Attanasio Il Domani, 7 giugno 2022 Secondo l’autorevole report annuale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc), le dieci crisi di profughi più dimenticate al mondo sono - per la prima volta - tutte in Africa. Il dato è doppiamente allarmante. Da un lato evidenzia l’allargamento delle crisi umanitarie nel continente, dall’altra denuncia il pressoché totale disinteresse del mondo a contenerle. Il Nrc pubblica ogni anno una lista delle dieci crisi più dimenticate dalla comunità internazionale tenendo conto di tre criteri: la carenza di copertura mediatica, la mancanza di volontà politica a trovare soluzioni e, conseguenza ovvia, la penuria di finanziamenti per le emergenze. I paesi con le crisi più trascurate secondo il Nrc sono, nell’ordine, Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Sebbene lontano migliaia di chilometri, il conflitto ucraino arriva a far sentire i propri effetti anche in Africa. Fortezza inespugnabile - Alla cronica indifferenza verso il “continente nero”, infatti, si aggiunge lo spostamento massiccio di interesse del mondo occidentale verso la guerra che si combatte nell’est europeo. “Diversi paesi donatori - sostiene il segretario generale di Nrc Jan Egeland - stanno decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa per reindirizzare i fondi all’accoglienza di ucraini”. Nei primi tre mesi di guerra in Ucraina, sottolinea il Nrc riprendendo Meltwater, sono stati scritti in media 85mila articoli in inglese al giorno sulla crisi. In tutto il 2021, invece, solo per citare un esempio, gli articoli in inglese sulla questione degli sfollati in Burkina Faso, sono stati in totale 27mila. In Italia, il dato scende a livelli irrisori. Se pensiamo al rapporto che lega l’Europa all’Africa, lo vediamo ancora pieno zeppo di stereotipi e pensiero colonialista. Un caso clamoroso è la retorica delle migrazioni: l’Europa crede di essere cinta d’assedio da una massa informe di profughi africani che stanno per invaderci. La percezione, del tutto erronea, è alla base di decenni di strategie politiche che stanno rendendo il vecchio continente sempre più simile a una fortezza inaccessibile. La prova di questo sono i 1.000 chilometri di sbarramenti illegali eretti all’interno dell’Ue, in alcuni casi anche in area Schengen, tutti in funzione anti-migrante, dalla caduta del muro di Berlino a oggi. A completare l’opera di sterilizzazione europea, ci sono gli accordi dell’Italia con la Libia per contenere e intercettare i barconi di migranti che, dopo mesi o anni di concentrazione nei lager, tentano di arrivare in Europa, quelli della Ue con la Turchia che “accoglie” 3,7 milioni di migranti provenienti da oriente in cambio di sei miliardi di euro e le strategie di controllo di Frontex, la polizia di frontiera europea, alla ribalta della cronaca per possibili abusi. Il risultato raggiunto di un numero decisamente ridotto di ingressi di migranti forzati in Ue - 200mila nel 2021 (dati Frontex) di cui circa 50mila in Italia - è considerato da molti un successo. In realtà è il frutto di una politica lontana dalla realtà. Come evidenziano anche il rapporto di Nrc, la stragrande maggioranza dei profughi africani non pensa neanche lontanamente all’Europa come meta, ma a salvarsi la vita approdando in un luogo appena più sicuro del proprio, nel più breve e meno dispendioso metodo possibile. Dei circa 60 milioni di sfollati interni registrati nel 2021 nel mondo, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, l’80 per cento sono africani che, quindi, restano in Africa. Molti di quelli che sconfinano, vanno in paesi limitrofi. Oltre all’aiuto diretto, quindi, un fondamentale passo per cominciare ad affrontare in modo serio le tante crisi dimenticate nel mondo sarebbe quello di immaginare un’accoglienza di parte dei profughi legale e organizzata. Non è impossibile né difficile. La risposta ammirevole dell’Ue nel caso della guerra in Ucraina e il decreto del 4 marzo di attuazione alla direttiva sulla protezione temporanea agli sfollati (almeno un anno estendibile a tre, ndr) firmato in poche ore all’unanimità sono lì a testimoniarcelo. Libia. Suicidio nel centro di Ain Zara. Mediterraneo, sbarchi e soccorsi di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 giugno 2022 Mohamed Mahmoud Abdel Aziz aveva 19 anni ed era nato in Darfur, regione del Sudan occidentale martoriata da anni di conflitto. Domenica si è impiccato nel centro di prigionia di Ain Zara, a Tripoli. Era in Libia da tempo: i suoi amici raccontano che due anni fa era stato attaccato da un datore di lavoro che rifiutava di pagarlo. Da allora soffriva di ansia e attacchi di panico. Il primo ottobre scorso è stato arrestato con altri 4mila migranti durante il raid nel quartiere di Gargaresh e portato nella prigione di Al Mabani. Una settimana dopo ha partecipato alla fuga di massa e si è accampato davanti agli uffici dell’Unhcr, dove era registrato, prendendo parte alla protesta auto-organizzata dei rifugiati. È rimasto nel presidio fino all’ultimo giorno: il 10 gennaio 2022. Alla mezzanotte forze di polizia e miliziani libici hanno circondato le tende dei rifugiati. Insieme a circa 600 persone il ragazzo è stato portato ad Ain Zara. Al momento ci sarebbero circa 300 uomini, mentre vecchi, bambini e donne sono stati rilasciati nel corso dei mesi. I compagni di prigionia di Abdel Aziz dicono che il corpo è stato lasciato appeso molte ore prima dell’intervento delle guardie del centro. Intanto la finestra di bel tempo e mare calmo, che dovrebbe durare fino a mercoledì, ha riempito il Mediterraneo centrale di barche. 675 persone sono state catturate dalla sedicente “guardia costiera” libica la scorsa settimana. Tra domenica e lunedì oltre 800 sono arrivate in autonomia a Lampedusa (14 sbarchi: otto con provenienza libica e sei tunisina). “Una ragazza ne indicava un’altra e ripeteva: è incinta, non si può attraversare il mare così. Erano state sulla barca tre giorni. Hanno capito quanto era pericoloso solo dopo la partenza dalle coste libiche”, racconta Marta Barabino, che con il progetto Mediterranean Hope offre assistenza umanitaria al molo Favaloro. Altri 419 migranti sono a bordo delle Sea-Watch 3 (356) e Mare Jonio (69). “Nel primo soccorso i naufraghi erano terrorizzati dalla presenza della cosiddetta “guardia costiera” libica, che si è avvicinata pericolosamente - dice Vanessa Guidi, presidente di Mediterranea e capomissione - Nel secondo le persone avevano sintomi di disidratazione. Tra loro c’è un signore di 80 anni del Sudan. Viaggia da solo. Presentava episodi di vomito, capogiri e mal di testa”. Le due navi umanitarie stanno facendo rotta verso nord, mentre nella zona di ricerca e soccorso resta il veliero Imara e sta arrivando la ResQ People. Sono in navigazione anche le Aita Mari e Sea-Eye 4. Egitto. A digiuno per Alaa Abdel Fattah, staffetta in Italia per l’attivista prigioniero di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 giugno 2022 Dal 28 maggio già 75 persone - attivisti, sindacalisti, giornalisti - rinunciano al cibo per 24 ore in sostegno della battaglia dell’attivista egiziano in carcere. Un successo che non è estemporaneo ma che è il segno di una consapevolezza reale di cosa sia oggi l’Egitto di al-Sisi. Domenica sera su Twitter Mona Seif, attivista egiziana e sorella di Alaa Abdel Fattah, è stata chiara. Dalla prigione Alaa può uscire solo in tre modi: con una grazia (di cui la famiglia ha fatto regolare richiesta, già protocollata), con un’espulsione in Gran Bretagna (di cui è diventato di recente cittadino e rinunciando alla cittadinanza egiziana) o da morto. L’attivista e blogger egiziano è in sciopero della fame da 67 giorni. Una protesta che non è cessata nemmeno dopo il trasferimento, la scorsa settimana, nel nuovo carcere di Wadi al-Natrun. Lì ha ricevuto almeno libri, carta e penna, ma dorme in una stanza illuminata artificialmente per 24 ore al giorno e non ha ricevuto risposta in merito alle denunce mosse in questi mesi di abusi nei confronti suoi e di altri prigionieri politici. A sostegno della sua battaglia, del suo riprendere il controllo del proprio corpo con la scelta brutale del digiuno, dal 28 maggio si stanno spendendo in tanti in Italia: 75 persone, ma il numero cresce di giorno in giorno, rinunciano al cibo per 24 ore per attirare un po’ di attenzione sul più noto degli attivisti egiziani, uno che in galera ci ha trascorso nove degli ultimi dieci anni. “L’idea è venuta in contemporanea a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, e a me - ci spiega la giornalista Paola Caridi, curatrice del libro di Alaa Non siete stati ancora sconfitti - ed è stata dettata dall’urgenza, dall’empatia individuale. Ha poi trovato terreno fertile. Si andrà avanti fin quando le persone aderiranno. Ieri abbiamo toccato l’apice, con 15 persone a digiuno nello stesso momento”. Persone molto diverse tra loro, giornalisti, attori, arabisti, sindacalisti, attivisti (La lista completa e le modalità di adesione su invisiblearabs.com). Abdel Fattah nel suo libro dedica una riflessione alla necessità di riappropriazione del corpo, di sottrarlo a chi gode del monopolio della violenza e che in una prigione è quello che decide cosa il detenuto mangia, quando mangia, quando può andare in bagno, “gesti che noi compiamo quando ne abbiamo bisogno”. Lo sciopero della fame - come raccontato spesso da altri prigionieri che hanno fatto la stessa esperienza - è il solo modo, in cattività, per togliere allo Stato il dominio sul proprio corpo. “C’è una distinzione netta tra un digiuno fuori dall’urgenza, come quello religioso, e lo sciopero della fame che è nettamente politico, come per i detenuti palestinesi o quelli turchi e curdi morti in carcere - continua Caridi - Anche la pratica del digiuno gandhiano non è propria di Medio Oriente e Nord Africa ma non è nemmeno europea: l’unica esperienza simile fu quella dei detenuti irlandesi nelle carceri britanniche. Alaa, dopo il trasferimento a Wadi al-Natrun ha deciso di proseguire lo sciopero prendendo a modello i prigionieri palestinesi e decidendo di inserire 100 calorie, come nel modello gandhiano”. Il successo che la staffetta italiana sta registrando non è estemporaneo. Si inserisce all’interno di una nuova consapevolezza rispetto alla questione egiziana, con un’opinione pubblica ormai conscia di cosa sia il regime del presidente al-Sisi. “La sensibilità rispetto al suo sciopero della fame mostra quanto la questione egiziana vada oltre le vicende di Giulio Regeni e di Patrick Zaki, quanto sia una cosa che riguarda tutti. In particolare noi che ne abbiamo pagato il prezzo con un cittadino italiano rapito, torturato e ucciso e con un cittadino egiziano che studiava a Bologna e che non è ancora libero, ma in attesa di giudizio. È come se quello di Patrick fosse stato il secondo passaggio: l’empatia verso di lui, cittadino egiziano, sta consentendo oggi di essere solidali con una persona che non è cittadina italiana né lo diventerà. Alaa è il terzo passaggio dell’impegno politico italiano verso l’Egitto”.