“Incarcerare e buttare le chiavi? Un giustizialismo da imbecilli” di Antonio Mattone Il Mattino, 6 giugno 2022 L’analisi del cardinale Zuppi (Presidente Cei). “Umanità e carcere possono e devono andare d’accordo senza alcun compromesso. Anzi l’una aiuta l’altro in modo vicendevole”. È la posizione del cardinale Matteo nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, espressa a Bologna in occasione della presentazione del libro sulla figura di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, ucciso nel 1981 dalla Nco di Raffaele Cutolo. Sono parole che esprimono l’orientamento pastorale che guiderà l’azione e il pensiero dei vescovi italiani sul mondo penitenziario. L’arcivescovo di Bologna ha sottolineato che “carceri dove non c’è niente, ma solo reclusione e contenimento, fanno uscire le persone peggiori di come ne sono entrate”. È storia di quarant’anni fa come emerge nella vicenda di Mario Incarnato, il killer che sparò a Salvia, un contadino di Ponticelli che divenne camorrista proprio all’interno di quelle mura. Ma è anche cronaca di oggi. D’altra parte, lo stesso Cutolo costruì la sua fama e il suo clan all’interno delle patrie galere dove è stato rinchiuso per 56 anni. Chi è carcerato ed è sottoposto solo alle regole penitenziarie o a quelle della malavita che tanto spesso impongono gli stessi detenuti, difficilmente diventerà una persona migliore. In questi anni, le carceri sono state terreno fertile anche del radicalismo islamico. Diversi terroristi sono stati indottrinati durante la loro carcerazione e da qui hanno intrapreso la via eversiva. E allora se è vero che devono cambiare le persone, è altrettanto vero che devono cambiare gli istituti penitenziari. “Le carceri cambiano - ha affermato Zuppi - anche se intorno ad essi c’è una società civile sveglia. E tanto spesso è il mondo intorno che permette al carcere di migliorare”. Il volontariato e il lavoro rappresentano quei cardini fondamentali sui cui si deve innestare un processo di cambiamento. Ci sono degli esempi virtuosi di aziende che all’interno delle carceri fanno lavorare i detenuti, creando manufatti artigianali, prodotti dolciari e quanto altro. Realtà che devono moltiplicarsi e che possono scandire un altro ritmo alla vita quotidiana di chi è recluso e soprattutto insegnare un mestiere da spendere una volta usciti. E poi i volontari, coloro che ascoltano i drammi e le speranze di chi ha commesso errori e li sostengono nei momenti difficili senza giudicarli. La loro presenza può rappresentare quella mano amica che può suscitare il desiderio di compiere percorsi di cambiamento e di riscatto sociale. Il penitenziario di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, è stato per diversi anni quel carcere immobile, scuola di malavita e di violenza, operata da carcerati e talvolta da carcerieri, in cui si è formata la criminalità napoletana. Fa impressione che in una relazione del comandante scritta verso la fine degli anni 70 si rilevano alcune criticità presenti ancora oggi: il sovraffollamento con duemiladuecento detenuti, gli stessi presenti in questi giorni; la mancanza di personale sottoposto a turni massacranti, reparti fatiscenti, ritrovamenti di oggetti non consentiti (allora coltelli, oggi telefonini). Tuttavia, non possiamo dire che la situazione di allora sia la stessa di oggi. Dobbiamo riscontrare lo sforzo di chi opera all’interno di quelle mura con grande sacrificio e abnegazione. Ma se sta cambiando l’atmosfera a Poggioreale quello che è rimasto uguale è l’indifferenza della politica per questo mondo marginale che interessa a pochi. Probabilmente per il clima culturale di parte dell’opinione pubblica, come è stato sottolineato dalla dura presa di posizione del Presidente della Cei: “viviamo un giustizialismo da imbecilli, per cui si mette dentro qualcuno e si butta via la chiave pensando di risolvere così i problemi della sicurezza”. “E questo - ha continuato il Cardinale - è pericoloso per tutti perché così dal carcere si esce peggiori”. Piuttosto bisogna interrogarsi sulla trasformazione delle logiche delle mafie che, se non sono evidenti e sfacciate come ai tempi di Salvia, sono più subdole e temibili. Comprendere i tratti delle connivenze, acquisire consapevolezza sui nuovi metodi con cui agiscono i clan mafiosi, secondo Zuppi significa individuare gli strumenti per combatterli. E poi c’è il tema della riconciliazione. L’arcivescovo ricorda che la moglie e il figlio di Salvia vanno a servire al pranzo dei detenuti a Poggioreale. “Un gesto fatto senza sconti, buonismi o perdonismi ma con grade fierezza e fermezza, non facendosi catturare dalla logica della vendetta, dell’odio e dell’aggressività” che sembra prevalere nelle cronache di questi giorni. Giustizia riparativa, funzione rieducativa della pena, trattamento più umano anche per criminali del calibro di Cutolo sono le domande aperte su cui la chiesa si interroga e che lasciano intravedere una stagione di impegno e di slancio verso quel mondo di scartati che papa Francesco ha sempre visto come persone piuttosto che come coloro che commettono reati. Ecco la vera pena corporale, la galera uccide i cinque sensi di Isabella De Silvestro Il Domani, 6 giugno 2022 La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali. Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell’udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. Poi l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità. “Era rimasta senza grata una finestra. Sembrava un televisore, anche se dava su un paesaggio orripilante”. Una delle conseguenze della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione. Il primo rumore che si sente la mattina è quello insopportabile delle chiavi. Grandi chiavi appese alle cinture dei secondini che attraversano i corridoi e aprono le celle una a una. Il risveglio carcerario è fatto di rumori metallici, porte blindate che si aprono e si chiudono, battitura delle sbarre per accertarsi che i detenuti non le stiano segando per evadere. Si alza poco dopo il brusio televisivo o radiofonico, telegiornali, talk show, voci che si fondono con quelle dei residenti nelle celle. Richiami, cognomi gridati, “buongiorno appuntà!”. Sono i rumori della galera, sempre gli stessi, pochi ma costanti e pervasivi. “In carcere non c’è mai un vero silenzio: ci sarà sempre un generatore, un lamento, una televisione accesa che funge da anestetico. Quando entri fai caso a tutto in maniera ossessiva, ma dopo qualche tempo diventa solo rumore di fondo”, racconta un ex detenuto. Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell’udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. La reazione emotiva ai suoni si attenua quando l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità. Gusto - Sono le otto del mattino, il portavitto si avvicina con il suo carrello per distribuire la colazione. Al caffè sbiadito o al tè si aggiunge parecchio zucchero. Sul pane, spesso di bassa qualità, mal cotto e insapore, si spalma tutto ciò che si può per renderlo più saporito. Essendo uno dei pochi stimoli sensoriali che il detenuto può gestire in autonomia, il consumo di zucchero nelle celle è molto alto. “In una cella di due persone è facile che si faccia fuori un chilo di zucchero a settimana”, racconta un altro detenuto. “Per quanto riguarda il corpo, si hanno due atteggiamenti estremi: c’è chi si lascia del tutto andare e chi invece si cura ossessivamente. Chi smette di mangiare e chi si butta sul cibo cercando consolazione”. Quando l’alimentazione diventa uno strumento di compensazione psicologica non sono rare patologie come il diabete e l’ipertensione. Vista - D’altronde il movimento fisico garantito si riduce ai passi che si possono fare “all’aria”, ovvero i giri intorno a cortili spesso claustrofobici a cui si ha diritto per qualche ora al mattino e al pomeriggio. Il detenuto esce dalla cella di 8 metri quadrati che deve condividere con qualcun altro, dato l’affollamento delle carceri italiane che in alcune regioni raggiunge il 134 per cento della capienza, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Prima di uscire butta uno sguardo alla finestra per capire che tempo ci sia, se serva la giacca o basti il maglione. Ma la finestra non permette di vedere granché. Ci sono le sbarre, e oltre le sbarre una fitta grata metallica che chiude lo sguardo. Da qui la vertigine di cui molti ex detenuti parlano quando tornano a guardare fuori da finestre senza sbarre dopo la liberazione. In cella, oltre i fori di due centimetri, la vista è tagliata dalle alte mura di cemento che delimitano la struttura penitenziaria. Il detenuto infila la giacca e attraversa il lungo corridoio illuminato artificialmente. Scende le scale. Raggiunta l’aria si guarda intorno e ciò che vede è ancora cemento. A terra, a destra, a sinistra. In alto il cielo con le sue nuvole e forse qualche uccello. “Nel carcere di Cremona avevano messo le grate su tutte le finestre. Era rimasta senza grata una finestra in corridoio. Ci fermavamo lì dopo l’aria per guardare fuori a turno. Sembrava un televisore. Dava su un paesaggio orripilante ma ci sembrava una grandissima cosa. La gente diceva che se non avesse avuto la grata in cella sarebbe stata mezza giornata a guardare dalla finestra”. C’è uno sguardo lungo e uno sguardo corto. Lo sguardo del prigioniero è forzatamente accorciato e mutilato, scriveva Adriano Sofri dopo lunghi anni di esperienza detentiva. Una delle conseguenze più comuni e immediate della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione. L’oscurità delle celle non aiuta. Chi riesce cerca di fare qualche esercizio per la vista, ma gli stimoli rimangono scarsi. Olfatto - È ora di pranzo. Il detenuto cucina con il suo compagno di cella. Gli odori del cibo invadono la stanza impregnando le pareti, ma chi la abita li sente poco. Anche l’olfatto è regredito nel tempo. La galera è un luogo di odori grevi e compositi che ristagnano. Il ricambio d’aria è scarso, il cemento sigilla. Finito il pranzo la cella viene presto ripulita. L’alto livello di stress psicologico a cui i carcerati sono sottoposti genera spesso la necessità di esercitare un forte autocontrollo sulle poche attività su cui si ha libertà, tra cui la pulizia. Si fa largo uso di candeggina e detersivi per la sanificazione di quello spazio ristretto che ospita ogni funzione vitale e in cui molti detenuti passano più di venti ore al giorno. Gli odori chimici sono i più comuni e persistenti, si respirano per anni, fino a non sentirli più. Un detenuto racconta di essere passato da un carcere dove era permesso bruciare dell’incenso. Il profumo forte e penetrante era uno stimolo stupefacente, del tutto diverso dai soliti e ripetuti odori. Come quello della muffa che ricopre le pareti scrostate di strutture fatiscenti. In galera sono molto comuni le malattie respiratorie, aumentano i casi d’asma e si nota subito fra i reclusi un raffreddore costante dovuto al malfunzionamento del riscaldamento e alle infiltrazioni di umidità in cella. Tatto - Che cosa si tocca nel tempo in cui si sconta la pena? Di certo il cemento e il metallo. Per il resto poco altro, la plastica delle posate con cui si mangia, se si è fortunati la carta di un libro. Pochi i contatti con altri corpi, forse qualche stretta di mano. Addirittura la propria nudità diventa evento raro, dal momento che la doccia si fa rigorosamente in mutande e gli spazi privati non esistono. Anche per la percezione del proprio corpo c’è un declino evidente. L’orto è una delle attività più ambite perché permette di entrare in contatto con odori e consistenze dimenticate. Non è un caso che fra i detenuti siano frequenti le patologie dermatologiche: irritazioni, pruriti, scabbia. Tre coimputati raccontano di essere stati presi contemporaneamente da un prurito incessante e al quale i medici non riuscivano a trovare una spiegazione. Tutti e tre sono guariti pochi giorni dopo la scarcerazione. “Mi fa pensare che non fosse un problema solo fisico, forse eravamo entrati nello stesso loop tutti e tre, eravamo isolati insieme da 40 giorni”, ipotizza uno di loro. Malattie del corpo e della mente si confondono. I disturbi depressivi e d’ansia agiscono sulla sensorialità, estremizzandola o spegnendola. Quando i sensi sono così violentemente compressi la mente cerca di compensare: si viene assaliti da allucinazioni visive, auditive, tattili, del gusto e dell’olfatto; ne risentono i ritmi del sonno e della veglia, diventa difficoltosa la digestione, il sistema nervoso si deteriora in maniera costante e le difese immunitarie calano, ancora una volta per mancanza di stimoli. Ciò che i corpi dei detenuti ci raccontano è che il carcere è un luogo pensato per la loro gestione disciplinata in termini esclusivamente securitari, di isolamento e repressione. Questi corpi mangeranno qui, dormiranno qui, uno sopra l’altro, qui passeranno per andare all’aria, qui verranno guardati senza poter vedere. Tutti gli aspetti qualitativi della vita corporale che vanno oltre la sopravvivenza biologica saltano. Quest’idea, inscritta nell’architettura delle galere, rende difficile mettere in atto cambiamenti, anche quando le direzioni ne hanno l’intenzione. Per alcuni corsi e laboratori, che sarebbero di estrema importanza per il recupero e lo stimolo della sensorialità, non ci sono gli spazi. Se ci sono è probabile che siano pochi e quindi già occupati. Le pene corporali - La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali. Zaia: “Cambiamo le leggi: per chi si comporta male subito una notte in cella” di Marco Cremonesi Corriere del Veneto, 6 giugno 2022 Il governatore del Veneto: non è colpa dei giudici, serve più severità nelle norme e tolleranza zero verso i comportamenti violenti e incivili “No, ma ha visto i video? Ha visto le immagini? Come si fa a non farsi ribollire il sangue?”. Luca Zaia è irrefrenabile. Le violenze dell’altro giorno sul lago di Garda indignano il governatore veneto che si rivolge, in primo luogo, ai suoi colleghi, alla politica: “Inutile lamentarsi dei magistrati e di come interpretano le leggi. Qui sono le leggi che non devono lasciare scampo”. A farle rabbia non sarà che molti dei violenti sbandieravano le loro origini non italiane? “Si fermi… Si fermi qui. Non mi importa se questa gente era italiana, di prima o di ventesima generazione. Certo, la giornata di follia l’avevano chiamata “L’Africa in Italia” e i molestatori sul treno gridavano “le donne bianche qui non salgono”. Ma il punto è: questa roba, noi qui non la vogliamo. Non la accettiamo. Da nessuno e a prescindere dall’origine”. E quindi che si fa? “La parola chiave, l’hashtag è: repressione. Dobbiamo essere consapevoli che l’educazione è importante, le politiche sociali pure, ma una certa soglia non può essere superata. Punto. Ma lo sa la cosa che più mi ha colpito?” Prego… “I tizi con i telefonini che se ne stavano lì, belli tranquilli in quel manicomio, a riprendere tutto con i telefonini. Mentre la polizia caricava, questi filmavano. Per essere i primi a rilanciare la cosa sui social, immagino. Neanche c’è più la paura, quel che conta è dire “io c’ero”“. Che cosa intende dire quando parla di repressione? “Intendo dire che non possiamo assuefarci. Non possiamo giustificare. I responsabili delle violenze non sono persone con un’infanzia difficile, ma persone che vanno punite. Non voglio chiamare questa gente ragazzi, perché mi sembra già assolutorio: sono devastatori”. Eppure, il raduno era stato annunciato sui social. Non si poteva prevenire, oltre che punire? “Ma il punto è che non si punisce. Io me lo pongo il problema di un questore che deve mandare a manganellare dei ragazzi. Perché questa è gente che ha soltanto ecceduto un po’... Quali saranno le conseguenze? Nessuna. Questo è il Paese dell’impunità, e i responsabili di quella follia lo sanno. C’è chi tirerà fuori l’attenuante dell’età, il branco, la difficoltà a trovare personalmente i responsabili, il fatto che c’è stato solo un ferito, anche se forse sono di più. Sarà tutto derubricato e se ci saranno condanne, non saranno scontate. Ma la colpa non è dei magistrati. Ma di leggi che sono da cambiare”. Per esempio? “Il carcere. In altri ordinamenti c’è la notte in carcere. Che poi diventa una settimana e via aggravando. Se invece a chi fa robe del genere non succede niente, se l’impunità è garantita, il partecipare alle violenze diventa una medaglia da esibire. Il fatto è che oggi la legge non considera questi reati come gravi. Invece lo sono. Ci vengono a dire che l’incidenza della criminalità nei nostri territori è bassa, ma questo è un campanello d’allarme gravissimo. Ma pensi agli episodi in treno…”. L’aggressione alle ragazze? “Certo. Aggressioni gravissime, inaccettabili. E poi, la devastazione dei treni e delle stazioni… Ripeto: ci deve essere la forza della legge. Si deve sapere che non ci saranno scuse, che con certi comportamenti si finisce in carcere. Subito. Senza sconti. Senza sociologia, senza destra o sinistra. In Veneto, sogniamo di lasciare le chiavi di casa appese fuori dalla porta, non di chiuderci in casa e ci circondarci di inferriate. Se è così, vuol dire che i delinquenti hanno messo in gabbia noi”. Teme contraccolpi per il turismo? “Spero di no. Però, dobbiamo dirci anche questo: i nostri territori non valgono niente se avvengono queste cose. Inutile parlare di 5G e di fuga o rientro dei cervelli. La sicurezza è qualità della vita”. Referendum sulla giustizia al voto, l’ultima sfida alle riforme Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 6 giugno 2022 Domenica 12 giugno urne aperte dalle 7 alle 23 anche sui cinque quesiti proposti dai Radicali e dalla Lega. Ma tre giorni dopo il Senato sarà chiamato a dare l’ultimo via libera al nuovo Csm, firmato dalla Guardasigilli, che propone soluzioni diverse dai quesiti della consultazione. Per un intero anno le riforme della giustizia - penale, civile, del Csm - hanno corso parallele a un’altra “corsa”, quella dei referendum, anch’essi sulla giustizia, lanciati dai Radicali, e sottoscritti dalla Lega. Alla partenza erano sei, al traguardo del voto sono cinque, poiché la Consulta, come vedremo, ne ha tagliato fuori uno, di certo quello più popolare, sulla responsabilità civile “diretta” dei magistrati. Nel lontano 1987, ai tempi di Marco Pannella e sull’onda del caso Tortora, aveva fatto l’en plein con 80,21% dei sì. Ma adesso i cinque quesiti, stando ai sondaggi, arrancano penosamente per via del quorum, e rischiano di non raggiungere neppure quello necessario superando il 50% degli aventi diritto al voto. Chi li propone, Matteo Salvini in testa, accusa i media, parla di “censura e bavaglio”, chiede “aiuto” addirittura a Mario Draghi e Sergio Mattarella, accusa la sinistra di “nascondere” i referendum con l’obiettivo “di avere magistrati politicizzati con i quali provare a vincere se perdono le elezioni”. Uno scorcio di campagna referendaria del tutto sotto tono e per giunta alla fine avvelenata. Ma la “sfida” tra le tre riforme - sottoscritte dalla Guardasigilli Marta Cartabia e già votate dalla maggioranza Draghi alla Camera, Lega compresa - e i referendum adesso è giunta all’ultimo traguardo. Se ne conoscerà l’esito a distanza di soli tre giorni. Perché domenica 12 giugno - dalle 7 alle 23 - le urne non si aprono solo per le elezioni amministrative in 978 Comuni, ma anche per i cinque referendum. Mercoledì 15 giugno, invece, l’ultima delle tre riforme di Cartabia, quella del Csm che interviene su ben tre temi (carriere dei giudici, avvocati nei consigli giudiziari, firme per candidarsi a palazzo dei Marescialli), arriva in aula al Senato per il voto finale. Suspense esclusa. Perché il premier Draghi ha già ribadito più volte che il testo uscirà da Palazzo Madama con il voto finale. Pronto per entrare in vigore. Visto che il voto per rinnovare il Csm si approssima e sarà comunque necessario un rinvio rispetto alla scadenza di settembre. Più di un’indiscrezione conferma che si voterà a novembre per dare il tempo di “digerire” la riforma e il nuovo sistema elettorale (un maggioritario binominale, con una correzione proporzionale). Ma comunque la sfida sui quesiti referendari ci sarà lo stesso. E lo dimostra il fiorire dei gazebo Radical-leghisti in tutta Italia. Nonché lo sciopero della fame del leghista Roberto Calderoli, che si paragona a Pannella - “Il mio è un gesto estremo, ma Pannella ce lo ha insegnato: a mali estremi, estremi rimedi” - e protesta anche lui perché, a suo dire, i referendum sarebbero stati silenziati dai media e soprattutto dalla tv di Stato. Giusto ieri ha fatto sapere che, sulle sue orme, altre 160 persone sarebbero in sciopero della fame. La preoccupazione di Calderoli è il quorum. Ma un giurista come Nello Rossi, direttore della rivista promossa da Magistratura democratica, Questione giustizia, ha appena pubblicato oggi un articolo sostenendo che “nell’astenersi dal partecipare al voto referendario non si può scorgere solo inerzia, apatia politica o disinteresse, ma anche la volontà di non consentire, con il proprio attivo concorso, a un’iniziativa referendaria ritenuta superflua o dannosa”. Rossi scrive inoltre: “Non recarsi ai seggi (o rifiutarsi di ritirare le schede dei referendum nei Comuni dove si vota anche per le elezioni amministrative) è una opzione non solo libera, non solo legittima, ma pienamente rispondente alla logica propria del referendum abrogativo. La Costituzione, infatti, nel prevedere che il referendum è valido solo se partecipa alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto (il cosiddetto quorum strutturale) ha voluto che esso sia vivificato e validato da una effettiva partecipazione popolare.” Detto questo, nell’articolo lo stesso Rossi chiarisce che lui, come molti magistrati ed ex magistrati, si recherà comunque alle urne per dire un Sì o un No sui cinque quesiti. Ma questa scelta personale sarà “dettata, più che dalla razionalità giuridica, da motivi vagamente sentimentali: una generale propensione verso la partecipazione politica e, forse, la nostalgia di passati referendum vissuti con genuina passione civile”. Ecco, questo è un buon punto di partenza per affrontare nel merito i cinque referendum per altrettante schede multicolore. Eccole. La scheda rossa, per cancellare la legge Severino sull’incandidabilità dei condannati (e Silvio Berlusconi, per questa legge, il 27 novembre 2013 perse la poltrona di senatore dopo la condanna a 4 anni per frode fiscale). Quella arancione, per limitare la custodia cautelare durante le indagini preliminari. La gialla, per bloccare per sempre la possibilità che giudici e pm passino da una funzione all’altra. La grigia, per dare il diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari e nel consiglio direttivo della Cassazione. Infine la quinta, la scheda verde, per sopprimere le norme che impongono un minimo di 25 firme, quindi l’appoggio delle correnti della magistratura, per candidarsi al Csm. Politicamente, vediamo chi è a favore, chi è contro, e le posizioni dissidenti nei partiti rispetto a un input di squadra. Senza alcun dubbio sostengono i quesiti i partiti che li hanno proposti. Pieno sì dei Radicali e della Lega, con Matteo Salvini e la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno. Che, in uno spot su Twitter, chiede il Sì per la separazione delle funzioni “perché oggi è come se il giudice, cioè l’arbitro, indossasse la casacca di una delle due squadre... e questo non va bene. Per avere un giudice indipendente e imparziale bisogna votare sì alla scheda gialla”. Peccato che sia Salvini che Bongiorno, tre giorni dopo al Senato, voteranno la riforma dell’ordinamento giudiziario di Cartabia in cui è ammesso un solo passaggio da una funzione all’altra, da pm a giudice e viceversa, nei primi dieci anni di lavoro, e sempre il passaggio dei pm al civile. Ma tant’è, queste sono le contraddizioni della politica. Nel centrodestra fioccano i Sì, come quelli di Azione di Carlo Calenda ed Enrico Costa, e quelli di Forza Italia, con Antonio Tajani che parla di quesiti che servono “per completare la riforma Cartabia che stiamo sostenendo in Parlamento”. Peccato che, come abbiano visto, nel caso delle carriere dei giudici, la futura legge sostiene tutt’altro dal quesito referendario (la legge, un solo passaggio, il referendum nessun passaggio). Fratelli d’Italia boccia il quesito sulla custodia cautelare che con il Sì non sarebbe più possibile qualora ricorra il pericolo di ricadere nello stesso reato. A favore dei quesiti i renziani, anche se scettici sul raggiungimento del quorum perché i tre bocciati dalla Consulta (responsabilità civile diretta dei giudici, eutanasia, cannabis libera) sarebbero stati il vero traino. Nel Pd l’indicazione di Enrico Letta è votare No, perché i quesiti “creano più problemi di quanti ne risolvano” e soprattutto “non è con i referendum che si fa una riforma complessiva”. Tant’è che la sua responsabile Giustizia Anna Rossomando punta tutto sulla riforma Cartabia. Ma la battuta di Letta sul Pd che “non è una caserma” legittima comunque una dissidenza. Come quella di un gruppo garantista, dove spiccano i nomi di Marco Bentivogli, Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Michele Salvati, Giorgio Tonini, Claudia Mancina, Magda Negri. Convinti, come hanno scritto in un loro appello, che “una partecipazione consapevole dei cittadini nel referendum, raggiungendo il quorum o avvicinandosi ad esso, può aiutare il lavoro positivo che il Parlamento sta facendo in materia di giustizia”. Quindi Sì a tre referendum, sulla separazione delle funzioni, sugli avvocati nei consigli giudiziari, sulle firme necessarie ai giudici per candidarsi al Csm. Nessuno spiraglio sul No dal M5S. “Non pensiamo che a colpi di referendum si possa migliorare e accelerare soprattutto i tempi della giustizia” dice il presidente Giuseppe Conte, che definisce i quesiti “frammenti normativi che sembrano quasi una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. A questo punto, tra una settimana, il responso delle urne. Il quorum dirà subito se la pagina dei referendum è definitivamente chiusa per lasciare spazio al voto in Senato della riforma Cartabia. Quando il centrodestra voterà sì a quello che, in parte, con i referendum avrebbe voluto cancellare. Solo Iv conferma l’astensione già espressa alla Camera a fine aprile. I luoghi comuni per delegittimare i quesiti referendari di Valentina Stella Il Dubbio, 6 giugno 2022 Sono molti gli argomenti utilizzati in questi giorni per spingere i cittadini a disertare l’appuntamento referendario del 12 giugno sulla “giustizia giusta”, promosso da Lega e Partito radicale, o per votare No ai cinque quesiti. Vediamone alcuni e cerchiamo di capire se sono validi. Primo - Il Partito democratico continua a ripetere che “questi quesiti non hanno nulla a che fare con la riforma”. E invece proprio tre di loro si intrecciano perfettamente con la riforma di mediazione Cartabia ora in discussione al Senato. E sono quelli su: diritto di voto di avvocati e professori nei Consigli giudiziari, separazione delle funzioni, elezioni del Csm. Secondo - a parere di molti commentatori il Sì al quesito sull’abuso delle misure cautelari renderebbe difficile tutelare le vittime di violenza di genere, lasciando escluse dalla applicazione delle misure cautelari tutte quelle violenze di genere che vengono commesse in altro modo (dalla violenza fisica ndr) e che sono anche la maggior parte: le violenze psicologiche o economiche, i maltrattamenti in famiglia con minacce o gli atti persecutori come lo stalking. Come ha risposto su questo giornale qualche giorno fa l’avvocato Simona Viola, responsabile giustizia di +Europa, l’eventuale norma residuale non cancellerebbe la parte in cui la legge dice che le misure cautelari sarebbero previste se “sussiste il concreto e attuale pericolo che questi (indagato o imputato, ndr) commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”. L’ordinamento e la giurisprudenza “impongono già - ha scritto Viola - di estendere la misura anche a chi si teme non già che faccia uso di violenza fisica in senso stretto nei confronti delle donne, ma che possa usare altri mezzi di coartazione. Se nei confronti di una donna è stata usata violenza - e anche la violenza psicologica e i maltrattamenti sono violenza - la custodia cautelare continua ad essere applicabile “. “Non c’è bisogno di alzare le mani perché ci sia violenza”, ha ribadito l’avvocato in un dibattito organizzato da Base Italia, proprio sui referendum. Terzo - Sempre sul quesito delle misure cautelari Giorgia Meloni ha detto che la sua approvazione impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi del loro crimine. Come ha risposto il professor Giovanni Guzzetta dalle pagine di Libero “simili restrizioni non sparirebbero. Perché rimarrebbe sempre la misura cautelare nei casi in cui vi è un collegamento con organizzazioni di tipo criminale. E nella stragrande maggioranza dei casi lo spacciatore fa parte di un’organizzazione criminale. Per i pochi casi in cui questo non succede (il ragazzo che cede la droga a un amico, ad esempio), già oggi la prassi ci dice che la carcerazione non è applicata. Dunque, rispetto alle preoccupazioni della Meloni, il referendum è assolutamente ininfluente”. Quarto - L’obiezione che viene mossa al quesito che abrogherebbe il decreto Severino è che, come detto da alcuni partiti e Procuratori, “verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416 bis sia pure in primo grado”. Come ci spiega il professor Bartolomeo Romano, Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo, e vice presidente dell’Associazione ‘Sì per la libertà, sì per la giustizia”, “non si trovano decisioni nelle quali un giudice, nel caso di una condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso, non applichi la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Esiste una generalizzata applicazione della pena accessoria nei casi di 416-bis, ovviamente legata alla gravità del reato e alla prognosi che il condannato possa commettere in futuro ulteriori reati. Il problema quindi non esiste alla radice. Teniamo anche presente che la Consulta recentemente, su molti argomenti, ha dichiarato l’incostituzionalità degli automatismi in malam partem. Non solo, consideriamo anche che l’articolo 27 della Costituzione impone una personalizzazione della responsabilità penale, il che significa che l’automatismo generalizzato certamente confligge con la commisurazione in concreto della pena e delle conseguenze accessorie. Se così non fosse, non avremmo circa il 95% di pene discrezionali - capaci cioè di rispondere al principio di personalità della responsabilità penale - e non fisse”. Quinto - Riguardo al quesito sulla separazione delle funzioni tra magistratura requirente e giudicante si sostiene che la separazione disancora i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, li rende sostanzialmente dei poliziotti e dunque di fatto li riconduce nella sfera di influenza del potere esecutivo che è quello che si occupa della politica criminale. Non è così perché come ha spiegato sempre su questo giornale il professor Guzzetta “la Costituzione italiana impone alla legge di garantire, comunque, l’indipendenza del pubblico ministero (art. 108), affida a questo (e non all’esecutivo) la disponibilità diretta della polizia giudiziaria (art. 109) e prescrive l’obbligatorietà dell’azione penale (rt. 112)”. Sesto - Sul voto degli avvocati e dei professori nei Consigli giudiziari al momento della valutazione di professionalità dei magistrati, si partecipa l’idea che coinvolgere esterni alla magistratura potrebbe inficiare l’indipendenza di questa, lasciandola alla mercé di conflitti di interessi di legali e non togati. Come ci ha spiegato l’ex magistrato Paolo Borgna, favorevole al Sì, “sarebbe sufficiente rispondere che gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto”. E poi, si è chiesto Borgna, “perché i magistrati hanno paura dell’influenza del “grande avvocato”, che si potrebbe far portatore di interessi della sua potente committenza, e non invece del leader di una corrente della magistratura, che in concreto ha molta più possibilità di influenzare il consiglio superiore o il consiglio giudiziario?”. “Censura sui referendum”. La denuncia dei promotori di Francesco Boezi Il Giornale, 6 giugno 2022 Calderoli continua il digiuno: “C’è ancora un muro”. Sisto (Fi): “Invitare all’astensione vìola la Costituzione”. “Sono al quinto giorno di sciopero, per fortuna sto bene e non ho fame. Sarà l’influenza di Marco Pannella che mi guida dall’alto ma la cappa di silenzio che è scesa rimane davvero incredibile”. Il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli continua a digiunare - così come ha raccontato al Giornale - ma le iniziative dei promotori del referendum sulla Giustizia si sono scontrate, almeno sino a questo momento, con un “muro” che lo stesso Calderoli ha evidenziato per l’ennesima volta. Alla lettera inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed ai presidenti di Camera e Senato, del resto, ha risposto soltanto Maria Elisabetta Alberti Casellati, mentre il digiuno ad oltranza, sempre secondo la visione dei promotori, non ha smosso le coscienze di chi avrebbe il potere di modificare l’andazzo della copertura mediatica, e quindi informativa, da parte della Rai: “L’Agcom stessa ha certificato la situazione: parliamo dello 0.3% dell’informazione”, ha aggiunto il politico del Carroccio. Il tempo intanto trascorre veloce ed all’appuntamento elettorale manca ormai soltanto una settimana. Tuttavia l’ex ministro per le Riforme non ha alcuna intenzione di mollare la presa: “L’ho sempre detto: se siamo al 30% ed ognuno convince una o più persone ad andare a votare, che è un diritto-dovere, arriviamo al 60%. Poi, se le cose non cambiano, non ci si può più lamentare”. Il leader della Lega Matteo Salvini è tornato sull’argomento ieri, durante un comizio a Buccinasco, in provincia di Milano, dove i cittadini si recheranno alle urne pure per le amministrative: “Il 12 giugno - ha tuonato l’ex ministro dell’Interno - si vota anche per i referendum sulla giustizia, ma c’è una censura imbarazzante e vergognosa: i media non ne parlano e la sinistra li nasconde perché a qualcuno fa ancora comodo avere dei magistrati politicizzati che in tribunale fanno quello che vogliono e se perdono le elezioni poi provano a vincerle con le sentenze dei magistrati”. Poi Salvini ha rivolto un ulteriore appello alle istituzioni del Belpaese: “Continuo a sperare in un intervento del presidente Draghi e del presidente Mattarella”. E ancora: “...dicano qualcosa perché rubare democrazia, referendum e possibilità di cambiamento non è degno di un Paese come l’Italia”, ha chiosato il vertice della Lega. Francesco Paolo Sisto, sottosegretario del ministero della Giustizia ed esponente di Forza Italia, ha detto la sua in merito a Omnibus: “Intorno al referendum sulla giustizia c’è un silenzio per certi versi comprensibile, visti i grandi e gravi temi oggi all’ordine del giorno, ma non per questo il silenziatore è meno preoccupante: i quesiti sono stati ritenuti ammissibili - ha aggiunto il membro del partito guidato da Silvio Berlusconi - ed è doveroso parlarne. Incitare all’astensionismo, più o meno esplicitamente, è una sorta d’illecito costituzionale, tenuto conto dell’esercizio di democrazia diretta e popolare che sostiene la scelta referendaria”, ha osservato il sottosegretario. Anche la Costituzione è stata dunque tirata in ballo da Sisto. La “pasionaria” del Partito Radicale Irene Testa, che digiuna a sua volta, ha alzato i toni: “Sto bene - ha raccontato al Giornale -, ed inizia a stemperarsi l’urgenza di cibo ma dai palazzi e dall’informazione di Stato silenzio assoluto”. Poi la specificazione: “Il numero delle persone che ci accompagnano nello sciopero è in aumento. Non abbiamo ancora avuto dal presidente una risposta su qualcosa che riguarda lo stato della democrazia nel Paese e la giustizia. Le forze sono poche ma l’urgenza dell’ultima settimana è tanta”. Referendum giustizia, tutta la storia di una campagna fantasma di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2022 Dalle firme mai depositate al mutismo di Salvini (che ora grida al complotto). A una settimana dal voto il dibattito è asfittico, l’interesse pubblico ridotto al minimo, la consapevolezza dei temi in gioco quasi assente: nessuno, a partire dai promotori, spera nel raggiungimento del quorum. Ma l’iniziativa era nata male fin dalla scorsa estate, con lo smarcamento di Fratelli d’Italia: nel mezzo il fallimento dei gazebo, la rinuncia a depositare le firme in Cassazione e il verdetto della Consulta che ha dichiarato illegittimo il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Fino alla diserzione del Capitano e all’improbabile “sciopero della fame” di Calderoli. Forse si ricorderà come la campagna più in sordina di sempre. Ad appena una settimana dal voto il dibattito è asfittico, l’interesse pubblico ridotto al minimo, la consapevolezza dei temi in gioco quasi assente. Di manifestazioni di piazza, poi, nemmeno a parlarne. A conti fatti i cinque referendum sulla “giustizia giusta” lanciati da Lega e Partito radicale scontano soprattutto un handicap: nessuno, a partire dai promotori, crede possibile raggiungere il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto, necessario perché la consultazione abbia effetto. Lo escludono i sondaggi - l’ultimo, di Ipsos, dice che il 12 giugno voterà una quota compresa tra il 27% e il 31% - ma prima ancora il senso comune, in una fase segnata da astensionismo record e fenomeni devastanti come guerra, pandemia e carovita. Eppure, in passato, anche la giustizia è stata terreno di accesi derby politico-ideologici capaci di coinvolgere ampie fasce della popolazione. Stavolta, però, l’estrema tecnicità di tre quesiti su cinque (separazione delle funzioni, candidature al Csm e voto nei consigli giudiziari) e l’impopolarità degli altri due (abrogazione del decreto Severino e limiti alle misure cautelari), insieme alla bocciatura di quelli che avrebbero garantito l’effetto-traino (eutanasia, cannabis e responsabilità dei magistrati) e alla diserzione dalla causa di Matteo Salvini hanno proiettato l’iniziativa verso un flop quasi certo. Che forse - in parte - sarà contenuto nelle dimensioni solo grazie all’election day, che ha accorpato il voto a quello per le amministrative di 980 comuni. D’altra parte, che la missione non nascesse sotto una buona stella era chiaro già dall’esito della raccolta firme. A maggio 2021 Salvini lancia la campagna in grande stile: martellamento social, dichiarazioni quasi quotidiane e gazebo sparsi in tutta Italia. Sui manifesti il Capitano piazza il proprio volto accompagnato dallo slogan “Chi sbaglia paga!”, un riferimento alla responsabilità civile diretta dei magistrati: non porterà bene, visto che proprio quello sarà l’unico referendum - dei sei proposti - a cadere sotto la scure della Corte costituzionale, che lo dichiarerà inammissibile. I promotori poi incassano subito la defezione di Fratelli d’Italia, il maggiore partito del centrodestra: fiutando l’aria, Giorgia Meloni si sgancia dai quesiti su cautelari e Severino, “figli - dice - più della legittima cultura radicale che della destra nazionale”. Infatti, spiega, “la proposta sulla carcerazione preventiva impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni”, mentre abrogare la legge sui condannati in Parlamento sarebbe “un passo indietro nella lotta alla corruzione”. La campagna prosegue tutta l’estate e Salvini, tramite la stampa amica, propaganda numeri trionfali sulle adesioni: a Ferragosto dichiara di aver raggiunto le cinquecentomila firme necessarie per chiedere i referendum e di voler arrivare a un milione. A fine ottobre, quando scade il termine per depositare i moduli in Cassazione, dirà di averne raccolte “tra le 700 e le 750mila” per ogni quesito. Quelle sottoscrizioni, però, non le vedrà mai nessuno. Dopo un po’, infatti, il leader leghista comincia a battere una strada alternativa: domanda ai Consigli regionali “amici” (quelli a maggioranza di centrodestra) di votare i quesiti, in modo da raggiungere le cinque deliberazioni previste dalla Costituzione in alternativa alla richiesta popolare. Ne otterrà nove: la prima Regione ad adempiere è la Lombardia, a cui seguono Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. Così, messo al sicuro il risultato per via istituzionale, le presunte “700-750mila firme” non saranno mai consegnate all’Ufficio centrale per il referendum, provocando la rabbia del Partito radicale e lasciando il forte dubbio che siano mai esistite davvero. Ad azzoppare definitivamente le speranze dei referendari, a febbraio, arriverà il verdetto della Consulta che boccerà il quesito più “popolare” dei sei, quello che avrebbe introdotto la responsabilità diretta dei giudici. E soprattutto i due referendum promossi dall’Associazione Coscioni su eutanasia legale e cannabis, che - se votati nello stesso giorno - avrebbero fatto raggiungere quasi certamente il quorum. Da quel momento Salvini inizia gradualmente a distaccarsi dalla causa, fino a ignorarla del tutto. Da metà febbraio a inizio maggio l’ex vicepremier non dedica nemmeno un post sui social ai referendum, mentre partorisce decine di lanci d’agenzia ogni giorno sui temi più vari, dalla guerra al catasto alle telecamere negli asili al randagismo. Salvo poi di punto in bianco annunciare una “mobilitazione generale” (mai vista) e tuonare quasi ogni giorno contro una presunta “censura” dei quesiti sui media, dimenticando di non averne parlato per tre mesi. Accanto a lui l’ex ministro Roberto Calderoli che - riscopertosi convinto garantista - ha inaugurato addirittura uno sciopero della fame di pannelliana memoria, e dice di aver già perso quattro chili. Paradossalmente, chi ha fatto parlare di più dei referendum di recente è stata Luciana Littizzetto, che in uno dei suoi ultimi monologhi ha dato voce alla “pancia” di milioni di italiani: “Custodia cautelare, legge Severino, ancora ancora, ma elezione Csm, separazione delle carriere, elezione consigli giudiziari ma che cacchio ne so? Pensate che la mattina sul water leggiamo il manuale di diritto costituzionale?”. “Deve capire che ci sono cose che meritano più rispetto e meno risate”, ha commentato indignato il deputato di Forza Italia Andrea Ruggeri. Il 12 giugno si vedrà che ne pensano gli elettori. I nodi della giustizia a caccia del quorum di Melania Di Giacomo La Nuova Sardegna, 6 giugno 2022 I quesiti di Lega e Radicali. Riforma Cartabia in aula il 15 giugno. Un anno fa un’inedita coalizione composta dalla Lega e dai Radicali si era data appuntamento in Cassazione per depositare i quesiti di sei referendum sulla giustizia, “una dote” al governo li definì Matteo Salvini in vista della riforma del Csm, all’epoca ancora da mettere a punto. Ora, in una sola settimana, tutti i nodi andranno sciolti: il 12 giugno oltre 50 milioni di italiani sono chiamati ad esprimersi su 5 di quei referendum - quello sulla responsabilità civile dei magistrati non è stato ammesso dalla Consulta - e il 15, quando l’esito sarà ormai certo, il Senato esaminerà la riforma presentata dalla Guardasigilli Marta Cartabia e oggetto di una lunga trattativa. Due percorsi paralleli che ora si incrociano. Gli italiani sono chiamati ad esprimersi sulla legge Severino, le misure cautelari, la separazione delle carriere e le valutazioni dei magistrati, e le candidature per il Csm. Questi ultimi tre oggetto anche della riforma, ma non per questo secondo i promotori meno utili. Il risultato cui si guarda è soprattutto l’affluenza, perché il referendum abrogativo richiede la partecipazione del 50% più uno degli elettori. E ritenendo insufficiente lo spazio informativo la Lega e i Radicali protestano: “Noi oscurati”. Salvini ha parlato di “furto di democrazia”. “Per rompere il muro di silenzio, abbiamo deciso di mettere in atto un’iniziativa forte ma non violenta, uno sciopero della fame”, ha annunciato l’ex ministro Roberto Calderoli, che intende digiunare “finché resterò in piedi”. Nella tornata referendaria meno polarizzata degli ultimi anni sulle posizioni del Sì o del No, il Movimento Cinque Stelle si è chiamato fuori dal dibattito, ritenendo “il Parlamento la sede per la riforma della Giustizia”. “I cinque quesiti - secondo il presidente del M5s Giuseppe Conte - sembrano una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. Più variegata la posizione del Pd. Il segretario Enrico Letta ha annunciato che andrà a votare ed esprimerà 5 no: “Penso che questo referendum sia uno strumento sbagliato. Su alcuni degli argomenti si sta facendo la riforma nel Parlamento”. Qualche veterano invece ha annunciato pubblicamente due o tre sì. Mentre Matteo Renzi, che si asterrà sulla riforma del governo ritenendola troppo tiepida, ha sposato la battaglia della Lega e voterà sì a tutti i quesiti. Pur contraria in toto, l’Anm - che ha protestato con forza contro la riforma proclamando lo sciopero - ha scelto il silenzio. La convinzione è che “non sono referendum che porteranno ad un miglioramento del servizio giustizia”. La principale criticità viene individuata nella separazione delle carriere, i due binari distinti tra pm e giudice - secondo l’associazione, da sempre contraria - lederebbe il principio di autonomia e indipendenza: “Va in senso contrario a quello che vorremmo, un pm più giudice e meno poliziotto”, ha detto il presidente Giuseppe Santalucia. “Mi batto in prima linea: dai Sì verrà la rivoluzione della giustizia” di Errico Novi Il Dubbio, 6 giugno 2022 Ci vuole un bel coraggio. E Carlo Nordio ne ha. Ne ha sempre avuto. Da magistrato, per le scelte controcorrente che, quando necessario, ha compiuto dall’ufficio di Procura. E come opinion leader della giustizia, capace ora di trasformarsi in leader tour court, della campagna referendaria per la precisione. Perché l’ex procuratore aggiunto di Venezia ha accettato di dismettere gli affilatissimi ma meno scomodi strumenti degli editoriali, della critica su magistratura e regole del sistema, e si è messo in gioco come presidente del comitato “Sì per la libertà, Sì per la giustizia”, anima della battaglia per i 5 quesiti promossi da Partito radicale e Lega. Che poi, la battaglia è innanzitutto per il quorum, trasformato in una mission ai limiti dell’impossibile anche dalla data scelta dal governo per il voto, domenica prossima 12 giugno: un giorno solo, festivo, in un’estate sopraggiunta con anticipo e con ferocia. “Era naturale”, dice lui, smetterla con le “prediche inutili - ovvero i suoi seguitissimi interventi sul Messaggero - e che mi esponessi in prima persona”. Nordio ha un’altra forza: il realismo misto alla tenacia di chi guarda lontano, oltre le difficoltà e oltre dunque “la scarsa pubblicità data a questo referendum” che “può rendere difficile il raggiungimento del quorum”: in ogni caso, dice il magistrato, “sarebbe un errore, e una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti”. Sarà dunque importante “la conta finale dei Sì e dei No”. E sia che arrivi la vittoria piena, con l’abrogazione delle norme sottoposte agli elettori, sia che si ottenga comunque una larga partecipazione, Nordio ritiene che se ne dovrà ricavare “un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale”. Lei da anni è tra le voci critiche più ascoltate nel mondo della giustizia. Ma c’è un bel salto, nel passare dal contrappunto anche spietato nei confronti, per esempio, della magistratura associata, a una sfida in prima linea. Perché sul referendum ha voluto mettersi personalmente in gioco? Perché da 25 anni sostengo come l’introduzione del codice Vassalli, che voleva allinearci al sistema accusatorio garantista, anglosassone, liberale, sostituendo il codice Rocco, inquisitorio e fascista, avrebbe dovuto integrarsi con tutte le caratteristiche che lo fanno funzionare: discrezionalità dell’azione penale, separazione delle carriere, responsabilità dei pm, e via dicendo. Ma la nostra Anm è decisamente conservatrice, e non ha mai risposto a queste obiezioni di ordine tecnico. Quindi era naturale che concludessi queste prediche inutili esponendomi in prima persona, con l’avvertimento che non vi è alcun sottinteso politico. Io non sono iscritto a nessun partito e non mi candiderò mai a nessun tipo di elezioni. Il principale pregio di questi 5 referendum è nel “trauma” che infliggono ad alcune certezze consolidate della nostra giustizia? La si può vedere come una batteria di colpi diversificata e chirurgica, che non si concentra su un unico snodo critico ma colpisce il sistema su aspetti diversi? Sì, il significato del referendum va ben oltre il contenuto dei singoli quesiti. In realtà si tratta di un appello al popolo, se sia soddisfatto o meno di questa giustizia. Una sua vittoria, o anche solo una larga partecipazione, sarebbe un monito ineludibile per il Parlamento, se non questo il prossimo, per una rivoluzione copernicana, anche costituzionale. L’altro grande merito dell’iniziativa referendaria è coinvolgere finalmente i cittadini nelle scelte sulla giustizia in una forma completamente diversa dall’assembramento dei tifosi dei pm all’epoca di tangentopoli... Sì, anche se la disaffezione crescente dei cittadini alle urne in occasione delle elezioni politiche e amministrative, sommata alla scarsa pubblicità data a questo referendum, può rendere difficile il raggiungimento del quorum. Ma sarebbe un errore, e anche una scorrettezza, interpretare la diserzione alle urne come un No ai quesiti. Chi non vota in realtà si affida alla scelta dei votanti, e quindi sarà importante la conta finale dei Sì e dei No. Come si risponde alla critica sul quesito relativo alla legge Severino, secondo cui l’abrogazione tout court consentirebbe a persone condannate per mafia, una volta scontata la pena, di candidarsi per cariche locali? Si risponde che la legge Severino prevede che un sindaco possa esser sospeso dalla carica, cioè rimosso, dopo una sentenza di condanna di primo grado. Questo contrasta con la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione, ma soprattutto contrasta con il buon senso, perché gran parte di queste sentenze vengono poi annullate in Appello o in Cassazione, e quindi quella rimozione si è rivelata illegittima e iniqua. Ed è un danno irreparabile recato non solo all’amministratore revocato, ma ai cittadini che gli avevano dato fiducia. E cosa si può invece obiettare a chi ritiene che una vittoria del Sì al quesito sulla custodia cautelare renderebbe impossibile adottare misure nei confronti delle persone indagate per reati come lo stalking? Si risponde che il sistema della custodia cautelare va visto nella sua globalità, e di essa si abusa, e spesso se ne fa un uso strumentale per indurre l’imputato a confessare e collaborare. Ma il paradosso più lacerante è che da noi è tanto facile entrare in prigione prima del processo, da presunto innocente, quanto è facile uscirne dopo la condanna, da colpevole conclamato. Il referendum mira a limitare questi abusi, anche se, essendo abrogativo, non può introdurre soluzioni nuove, e la vittoria del Sì imporrebbe qualche correttivo: ad esempio nel caso dello stalking, evitando il carcere ma imponendo misure preventive. Ma in prospettiva la riforma più importante sarebbe quella di devolvere la competenza ad emettere l’ordinanza di custodia cautelare a un organo collegiale, distante anche topograficamente dal pm che ne ha fatto la richiesta. Penso a una sorta di chambre d’accusation presso la Corte d’Appello, sul tipo di quella francese. Si dice che separare le funzioni in modo drastico non basterebbe a stroncare le commistioni fra magistratura giudicante e requirente. E che la permanenza sotto il controllo di un unico Csm farebbe persistere uno “scambio di convenienze” fra magistrati dell’accusa e giudici. È così? O invece lo stop ai passaggi trasferirebbe comunque una certa idea di divaricazione, nella prospettiva dei magistrati, in modo da ridurre almeno in parte quell’eccessiva contiguità? La vittoria del Sì sarebbe vincolante per il legislatore verso la piena attuazione del sistema accusatorio anglosassone, dove le carriere sono separate. Basterebbe questo per chiudere la discussione, ma voglio aggiungere un particolare. Con il sistema attuale, i pm, cioè gli accusatori, che portano gli imputati a processo, poi si trovano a braccetto nelle correnti di appartenenza, dove si mercanteggiano le cariche, come si è visto nello scandalo Palamara. Non solo. I pm danno i voti ai giudici. Se gli imputati sapessero che i loro giudici sono poi valutati dai loro accusatori, non sarebbero tanto sereni. Per fortuna non lo sanno. Nei giorni scorsi il presidente emerito della Consulta Flick ha sostenuto che in generale i referendum sono troppo tecnici, non abbastanza comprensibili per gli elettori. Cosa si può rispondere? Che per la loro struttura abrogativa questi referendum sono in effetti incomprensibili alla lettura delle schede. Ma è sempre stato così. Quando si è votato pro o contro il divorzio o l’aborto i quesiti erano altrettanto oscuri. Ma se il cittadino si informa, poi capisce benissimo il senso della domanda. E nel nostro caso è assai semplice: se la giustizia penale attuale vi va bene così, andate pure al mare. Se non vi piace, votate sì. Raggiungere il quorum non sarà facile. Sulla scarsa informazione, si obietta che siamo in una fase “ingombra” di ben altre emergenze, a cominciare dalla guerra e dai suoi effetti collaterali. È davvero così? È da “frivoli” pensare alla giustizia in un contesto del genere? No, non è da frivoli. La tempesta perfetta di pandemia, crisi economica e guerra ha messo la giustizia in secondo piano. Ma il covid si sta esaurendo, e la guerra prima o poi finirà. Purtroppo i problemi della giustizia, sedimentatisi in decenni, si aggraveranno se non si interverrà con una riforma radicale. Un’ultima domanda, per tornare al suo rapporto col resto della magistratura: lei è probabilmente considerato un “nemico” dall’Anm. Ma quanti magistrati “invisibili” si riconoscono in lei, nelle sue critiche? Io mi sento magistrato al cento per cento, e ho rinunciato alla più lucrosa carriera di avvocato in un avviatissimo studio di famiglia per amministrare la Giustizia. Se tornassi indietro rifarei la stessa scelta. È proprio per questa altissima concezione che ho della Magistratura che già 25 anni fa mi son ribellato quando ho visto le distorsioni correntizie, gli abusi della custodia cautelare, il protagonismo e la discesa in politica di pm che sfruttavano la notorietà acquisita con le indagini, e tante altre anomalie. I probiviri dell’Anm nel 1997 hanno persino avuto l’ardire di chiamarmi a discolparmi per le mie idee. Naturalmente li ho mandati al diavolo, e si sono ritirati con la coda tra le gambe. Sabino Cassese: “Questa giustizia è a pezzi. Chi si astiene è complice” di Francesco Specchia Libero, 6 giugno 2022 Il giurista invita a votare per il referendum: “Partecipare è un dovere civico”. E la politica non si illuda: “Gli effetti delle urne si faranno sentire comunque”. Convinto probabilmente che - come diceva Lord Mansfield, tra i padri della common law, il diritto anglosassone - la giustizia in ritardo sia quella più ingiusta; persuaso che il Csm debba darsi una regolata; fermo nella convinzione che i quesiti al popolo siano uno strumento facilitatore, Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e faro della cosa pubblica, riguardo i prossimi referendum per la giustizia resta un ottimista con riserva. Caro professore, lei è sempre dell’idea che i referendum non siano lo strumento adatto per riformare la giustizia, ma restano comunque una scelta da condividere? “I referendum sono uno strumento semplificato di intervento nella normazione, sia perché sono soltanto di tipo abrogativo, e quindi possono solo creare vuoti nell’ordinamento, sia perché si prestano solo a due risposte, sì o no. Tuttavia, in questo caso, bisogna tener conto di due ulteriori aspetti. Uno è quello della scelta dei tempi. Il Senato dovrà pronunciarsi sulla riforma Cartabia immediatamente dopo lo svolgimento del referendum. Quindi, questa consultazione potrà avere una funzione sollecitatoria o, in caso di inerzia parlamentare, sostitutiva. In secondo luogo, al di là dei singoli quesiti, i referendum hanno anche una valenza di carattere più generale e possono prestarsi anche ad una sorta di dichiarazione di fiducia o sfiducia, come dimostrato dai due referendum più importanti, quello del 2006 e quello del 2016”. I quesiti proposti riguardano l’abrogazione della legge Severino, la limitazione della custodia cautelare, la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, la valutazione dei magistrati, quello sulle firme per candidarsi al Csm. Lei si ritrova d’accordo con tutti e cinque? Cosa poteva essere fatto meglio? “Credo che sia poco utile discutere ora della formulazione dei quesiti referendari. Bisogna ricordare che, in questo caso, democrazia rappresentativa e democrazia diretta sono andati di pari passo, nel senso che si stanno svolgendo procedure di riforma della giustizia in sede parlamentare, contemporaneamente alla procedura referendaria. Non è la prima volta che questo accade in Italia e l’alternarsi di decisioni popolari e di decisioni parlamentari può essere anche considerato un fatto positivo, che arricchisce la qualità e la ricchezza della democrazia italiana”. I promotori del “no” l’hanno attaccata per la sua idea sulla riforma del Csm e soprattutto sui Consigli giudiziari. In effetti lei detto che oggi i magistrati hanno “un’idea di giustizia non correlata alla domanda sociale”... “Che vi sia una scissione tra domanda e offerta di giustizia mi pare indubbio. Lo dimostrano i sei milioni di cause pendenti; i più di 7 anni necessari per concludere i tre gradi di giudizio in sede civile e i più di tre anni necessari per concludere una controversia in sede penale; la fiducia dei cittadini nella giustizia, in costante calo negli ultimi 20 anni; in generale, la lentezza della giustizia italiana e il ruolo assunto dalle procure come controllori della virtù e della morale invece che del diritto; le troppo frequenti manifestazioni di malcostume nell’ordine giudiziario”. L’Agcom ha decretato che, sui referendum, la Rai e i mezzi di stampa e tv spiccano per un silenzio imbarazzante, contrario al servizio pubblico, e così sanzionatile. Che ne pensa? Non trova strano, poi, che comici come la Littizzetto - che non sono esattamente membri della Consulta - spingano in diretta tv i cittadini “a andare al mare” come Craxi? “Due punti sono chiari. Il primo è che ciascuno è libero di esprimere il proprio giudizio, con un sì o con un no. Il secondo è che partecipare alla votazione è un dovere civico. Chi si lamenta della fragilità della democrazia italiana non può astenersi dal voto, perché collabora a renderla più fragile. La democrazia è innanzitutto partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive, specialmente se le decisioni collettive hanno tanta rilevanza come i prossimi referendum sulla giustizia e sulle modalità di esercizio del potere di ultima istanza, che è quello rimesso ai giudici: sono loro, infatti, che possono privare della proprietà e della libertà le persone”. D’altra parte non c’è forse - e continua ad esserci - un abuso dei referendum abrogativi? Negli ultimi 50 anni ne sono stati proposti ben 666, votati solo 73, come ribadito in un libro recente dal suo collega Andrea Morrone... “Non ho ancora letto questo recentissimo, importante libro di Morrone, professore di diritto costituzionale all’università di Bologna, dedicato all’analisi completa della vicenda referendaria nell’Italia repubblicana, intitolato, più precisamente La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946 - 2022) edito da Il Mulino. Tuttavia, la mia impressione è che il divario tra referendum proposti e referendum votati è anche un segno d’insoddisfazione della popolazione nei confronti dell’attività parlamentare: il Parlamento dovrebbe fare una riflessione e un bilancio dell’efficacia della sua funzione legislativa”. Per dirla tutta, professore: erano proprio necessari questi referendum con la riforma della Giustizia Cartabia “alle porte”; o servono proprio per dare una scossa ad una riforma - dicono in molti - annacquata? “Come le ho detto prima, la funzione sollecitatoria di questi referendum è particolarmente importante. Penso che gli stessi proponenti fossero convinti della necessità di procedere per via parlamentare, ma nello stesso tempo sfiduciati sulla possibilità di una decisione sollecita in quella sede”. Si raggiungerà il quorum? “Non ho capacità divinatorie e quindi non so risponderle. Tuttavia, penso che gli effetti di questo referendum si faranno sentire anche se non scattasse il quorum richiesto per la validità della consultazione. Infatti, il Parlamento non potrebbe non tener conto della partecipazione e degli orientamenti espressi, oltre ai moltissimi altri indizi che mostrano la necessità di una profonda revisione dell’assetto della giustizia in Italia”. Lei aveva previsto il fallimento dello sciopero dei magistrati e l’ha considerato “un atto suicida”. In effetti, da un rapporto del Consiglio d’Europa in Italia solo 1 cittadino su 3 ha fiducia nella magistratura. Dopo lo sciopero cosa può cambiare nel rapporto toghe-cittadini? “Lo sciopero è stato un atto di orgoglio di una larga minoranza dei magistrati, purtroppo convinti che l’ordine giudiziario sia uno Stato nello Stato e che debba autoregolarsi. Quindi, una sorta di rifiuto della capacità di rappresentanza del Parlamento”. Lei è anche considerato uno dei massimi esperti di pubblica amministrazione. Com’è lo stato dell’arte dei concorsi, delle assunzioni? Giulio Tremonti parla di “tre formidabili cerchi di burocrazia, dall’europeo a quello dello Stato e delle amministrazioni locali” che stanno bloccando tutto nonostante gli sforzi del Pnrr... “In Italia c’è un endemico rifiuto di procedure comparative e concorrenziali, dai concorsi per assumere persone nella funzione pubblica alle gare per l’esecuzione di lavori pubblici o l’acquisto di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione. Questo comporta la pretesa di mantenere per sempre le posizioni acquisite o di avere accessi privilegiati, il rifiuto del principio del merito, la sfiducia nell’imparzialità di chi è chiamato a selezionare. È l’immagine di un paese corporativo che rifiuta di accettare le comparazioni”. Siamo all’ennesimo tentativo di riproporre una nuova legge elettorale (anche Letta pare abbia lascito l’idea del maggioritario per il proporzionale, evitando l’abbraccio col M5S). È opportuno riparlarne adesso, specie in un periodo di guerra dove ci sono altre priorità? “Mi sembra un esercizio teorico, perché non vedo né tempi né maggioranze che possano portare ad una revisione nella formula elettorale vigente”. Lei, sul Corriere della Sera, ha massacrato il piccolo orizzonte elettorale dei partiti privi di ideologie, guida e rispettabilità. La presenza di un governo tecnico Draghi così forte (anche, dicono, forse, dopo le elezioni) dovrebbe essere da stimolo alla rivoluzione dei partiti da lei auspicata, o può diventarne un alibi per l’inerzia degli stessi? “È uno stimolo, per due motivi. In primo luogo, perché indica i problemi e le difficoltà da superare, mentre i partiti battibeccano. In secondo luogo, perché rappresenta una sfida alla capacità rappresentativa dei partiti”. Le sanzioni contro la Russia funzioneranno? Cosa ne pensa di questo forte filoputinismo che si sta formano in Italia, che ignora paradossalmente i principi stessi di libertà e stato di diritto? “Le sanzioni, che sarebbe meglio chiamare ritorsioni, o, secondo la terminologia dell’Organizzazione mondiale del commercio, “retaliatory measures”, stanno funzionando e funzioneranno ancora di più nei prossimi mesi. L’atteggiamento al quale lei fa riferimento è un misto di idee pacifiste e di egoismo nazionalistico. Dimentica quanti cittadini americani e inglesi hanno perduto la loro vita per liberare l’Italia dal nazismo e dal fascismo poco più di 70 anni fa”. Guzzetta: “Con il silenzio si vuole occultare lo stato tragico della giustizia” di Francesco Boezi Il Giornale, 6 giugno 2022 Il giurista: “Il referendum è scomodo, tocca argomenti che imbarazzano”. Il professor Giovanni Guzzetta, esponente di spicco del comitato promotore per il referendum, invita alla tenacia sui quesiti sulla giustizia. I palazzi sembrano sordi rispetto alle iniziative dei promotori... “Non mi sorprendo. La giustizia è un tema scottante, molto controverso. Il referendum è scomodo. Ed è anche imbarazzante. Perché la situazione della giustizia in Italia è drammatica. Siamo il Paese con più condanne per l’irragionevole durata dei processi. Dopo di noi c’è la Turchia, che però ne ha subite la metà. Siamo il Paese degli errori giudiziari, soprattutto nella carcerazione preventiva, con mille innocenti sottoposti a custodia cautelare ogni anno che si riveleranno del tutto innocenti ma dopo aver avuto la vita e la reputazione distrutta per un tempo lunghissimo. Il tasso di modifica delle sentenze tra primo grado e gradi successivi è altissimo, il che vuol dire che qualcosa non funziona e che, come minimo, per avere giustizia ci vogliono anni. Di fronte a tutto ciò, un dibattito ampio e ricco di informazione avrebbe aumentato l’imbarazzo e probabilmente indignato l’opinione pubblica che magari di queste non è al corrente. Meglio sorvolare. E meglio trincerarsi dietro l’alibi della complessità dei quesiti. Come se i cittadini, se informati, non siano in grado di farsi un’opinione”. Come si declina il suo impegno? “Di fronte alla constatazione generale della crisi della giustizia, denunciata persino dal presidente della Repubblica che ha usato parole drammatiche, paventando una generalizzata perdita di fiducia dei cittadini, è un dovere di tutti dare un proprio contributo. Di fronte a quello che sta accadendo, il contributo dev’essere innanzitutto di informazione, anche per smascherare alcune falsità che vengono diffuse da chi si oppone al cambiamento. Come quella di accusare i referendum di voler smantellare la custodia cautelare e lasciare andare in giro i violenti e gli spacciatori. Fandonie. Su questo aspetto il referendum non cambia nulla. Oppure insinuare il dubbio che si voglia attenuare la battaglia contro i corrotti, solo perché si contesta che sia legittimo sospendere dalla carica un sindaco ancor prima che ci sia stato un giudice, anche solo in primo grado, ad accertare la sua colpevolezza. Questa è la cosa che più mi ripugna. La verità è che aveva ragione Giovanni Falcone quando si schierò per la separazione delle carriere: gli oppositori avrebbero fatto di tutto per delegittimare i sostenitori di questa proposta. E quanto a delegittimazione, anche da parte di limitati settori della magistratura, purtroppo Falcone ne seppe qualcosa”. Resta ottimista? “Se questa campagna sarà servita a diffondere una maggiore consapevolezza sul fatto che i problemi della giustizia sono gravissimi e non riguardano solo lo scontro tra politica e magistratura, ma la vita di ogni cittadino, si potrà essere comunque soddisfatti. Sull’esito è difficile dire, perché a tutt’oggi sono in milioni a non sapere nemmeno che c’è una partita da giocare. Ma tant’è, mi pare che ci si diriga, con il compiacimento di molti, verso l’astensionismo per disinformazione”. Sulla Rai? “Basta guardare i dati del Garante per le comunicazioni: ai referendum, sinora, è stato riservato meno dell’1 per cento di tutto il tempo che la Rai ha dedicato a informazione e approfondimento”. Se il referendum fallisse? “La storia ci insegna che non esiste nulla di irriformabile. Prima o poi il cambiamento arriva. Certo più tardi arriva e più sono i danni accumulati nel frattempo. Per questo sono in tanti a difendere l’indifendibile. Non perché ignorino che il cambiamento è ineluttabile, ma perché sperano che accada il più tardi possibile. Dal loro punto di vista, ogni giorno guadagnato è un successo insperato. Il prolungamento delle proprie rendite”. Manca poco tempo... “Sulla carta, considerando la velocità a cui va il mondo, in una settimana può succedere di tutto. Gli strumenti per informare sono potentissimi. A meno che non si lavori perché ciò non accada. Io confido molto nella consapevolezza dei cittadini. Certo il presupposto è che essi sappiano che il 12 giugno è stato convocato un referendum. È surreale, ma sono ancora in tanti a non saperne nulla. Spero che chi ha a cuore il tema si attivi con il passaparola tra amici e conoscenti. Per il resto, come ho già detto, la virtù principale per chi vuole il cambiamento è la tenacia”. I Sì daranno la spinta decisiva per la riforma di Vinicio Nardo* Il Dubbio, 6 giugno 2022 Non stupisca se, per capire l’importanza della prossima tornata referendaria, suggerisco di partire dal meno rilevante dei quesiti, quello che mira a rimuovere le firme a sostegno delle candidature al Csm. Disposizione che già la Camera in prima lettura ha cancellato, approvando con ampio consenso la riforma dell’ordinamento giudiziario. Sicché, il 12 giugno si voterà per qualcosa che si otterrà, a prescindere dal referendum e per volontà di tutti. Ma allora, viene da chiedersi, perché alcuni partiti invitano a votare NO? Evidentemente, si vuole che il popolo “non disturbi il manovratore”. La scusa della materia “troppo tecnica” per essere affidata ai cittadini risulta falsa come lo sfondo di un vecchio film. Liberare le candidature dalle cordate (o dalle correnti) è uno schema che capisce chiunque perché vale per tutto: per il Csm come per l’assemblea di condominio. Chi oggi invita a disertare o votare NO appena ieri ha votato SI in Parlamento. A dimostrazione che il problema non sono tanto i quesiti quanto i chiamati a rispondere, ossia i cittadini. Il che sarebbe già grave se fosse solo un atteggiamento elitario, quindi antidemocratico; in realtà è anche peggio. Da sempre grava un divieto alla politica in tema di giustizia, che si vuole destinata esclusivamente alla “autoriforma”, sul presupposto che la giustizia è cosa dei magistrati. Quando la politica ci ha provato è stata respinta con perdite; vuoi per proclami in tv di procuratori “descamisados”, vuoi con lettere sottoscritte da intere Procure oppure a mezzo di interviste eclatanti. Sono stati paralizzati gli slanci riformatori non solo di ministri, ma anche di intere commissioni bicamerali di riforma costituzionale. Tra le varie vittime, Bozzi, De Mita, Conso, Biondi, Boato, D’Alema; è storia nota. La cosa strana è che, mentre è in atto il suo superamento (come testimonia la reazione dello sciopero indetto dall’Anm), il divieto sembra trasferirsi ai cittadini. Lo dimostra il velo di silenzio calato sulla tornata referendaria e i NO paradossali di cui si è detto. Insomma, cambiano i soggetti, ma la giustizia resta sempre “cosa loro”. Invece, basterebbe riflettere un attimo per capire che l’ostracismo verso il referendum del 12 giugno è un atto autolesivo della politica. Poiché il voto appartiene alla collettività (e non più solo ai suoi promotori), è interesse di tutti fare dei referendum un volano delle riforme. La vittoria dei SI non ostacolerà l’intento riformatore del governo e del Parlamento, anzi lo sosterrà. Votare, e votare SI, ai quesiti riguardanti l’ordinamento giudiziario (candidature al Csm, voto degli avvocati nei Consigli Giudiziari e separazione delle funzioni dei magistrati) significa confermare le scelte della riforma e agevolarne il percorso che comincerà in Senato il 14 giugno. Votare, e votare SI, all’abrogazione della legge Severino significa dare una spinta decisiva per avviare quella riforma delle incandidabilità che tutti dicono necessaria, ma poi invitano a votare NO perché sostengono - “la legge va cambiata in Parlamento”. Votare, e votare SI, al quesito sulla custodia cautelare significa avviare a soluzione, o almeno contenere, gli abusi che sono sotto gli occhi di tutti e finanche ripetutamente riconosciuti da esponenti di vertice della magistratura. Partito dal quesito meno rilevante (sebbene politicamente più illuminante), mi soffermo un attimo su questo che invece mi pare il più rilevante. L’articolo 274 del codice di procedura penale è stato oggetto negli anni di modifiche letterali, ricorrendo a sempre più pregnanti avverbi e aggettivazioni al fine di arginare gli abusi. Ma le formule sono state ogni volta aggirate e i risultati sempre deludenti. Limitare la custodia cautelare ai soli casi di vero pericolo per la collettività consentirà di rispettare la presunzione di innocenza e, cosa non meno importante, di sostenere un proposito tanto caro alla Ministra Cartabia: superare il carcere come soluzione elettiva. È quanto si sta tentando di fare con la riforma del sistema sanzionatorio penale e con l’introduzione della Giustizia Riparativa. Abbiamo la prova che il referendum non contrasta, ma aiuta la politica. La vittoria dei SI accenderà i riflettori sul potere legislativo e gli passerà il testimone. L’obiettivo di affidarsi al Parlamento, perseguito solo a parole da chi invita al NO, sarà - nei fatti servito su un piatto d’argento dai cittadini che voteranno SI. *Presidente Ordine degli Avvocati di Milano, componente Ufficio di Coordinamento dell’Organismo congressuale forense Sulle carriere dei magistrati la vera risposta per me è il modello inglese di Luca D’Auria* Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2022 Gli italiani sono chiamati a votare alcuni referendum abrogativi: questa volta i temi attengono alla giustizia ed in specie alla giustizia penale e all’ordinamento giudiziario. Intendo svolgere alcune considerazioni su due quesiti che investono direttamente lo svolgimento del processo e dunque l’esercizio della funzione giudiziaria nel suo momento più importante e decisivo. Si tratta della proposta di separare radicalmente e definitivamente le carriere tra magistrati d’accusa (i pubblici ministeri) e magistrati giudicanti (i giudici) e di quella di abrogare parte della norma che stabilisce i presupposti applicativi delle misure cautelari (con principale riferimento a quelle detentive). L’idea di separare le carriere dei magistrati è oggetto di polemica da anni. I magistrati difendono il diritto di poter essere destinati, nel corso della loro carriera, sia all’una che all’altra funzione. Anzi, costoro sostengono che questa opportunità sia una garanzia per loro e per il cittadino che deve essere giudicato in quanto, anche un magistrato accusatore, sarebbe portatore di quella che viene definita la “cultura della giurisdizione” (tipica del giudicante). Come dire, un magistrato dell’accusa, privato della “cultura della giurisdizione”, rischierebbe di essere solamente un “poliziotto cattivo”, seppure in toga. Sull’altro fronte si schierano da sempre le Camere Penali (l’associazionismo penale forense) e una parte della politica. Una premessa: i giovani magistrati scelgono sempre di più di specializzarsi e ritengo che abbiano ben assorbito lo spirito del “nuovo” modello processuale penale che tendenzialmente equipara la funzione del pubblico ministero a quella di un avvocato d’accusa e stacca il giudice dai contendenti. Ma credo sia decisiva una ulteriore considerazione: solamente in Francia (tra i Paesi con sistemi processuali avanzati) esiste una vera e propria separazione tra il “Parquet” (l’ufficio del pubblico ministero) che è addirittura una emanazione del Ministero dell’Interno, ed i giudici. I sistemi anglosassoni prevedono soluzioni assai diverse tra loro: negli Stati Uniti buona parte degli accusatori sono eletti e non sono magistrati di carriere (e dunque si può affermare, un po’ provocatoriamente, che il pubblico ministero è una funzione amministrativa e dunque come “mestiere” non esiste); in Inghilterra il sistema dei “barristers” (i giuristi d’aula di dibattimento, quelli con che indossano la parrucca settecentesca) sono la propalazione del medesimo ordine che unisce anche gli avvocati ed i giudici. Io ritengo che il modello inglese sia la vera risposta al timore espresso dalle Camere Penali con una vignetta spiritosa e maliziosa di qualche anno fa in cui era rappresentato un calciatore avvocato e un calciatore pubblico ministero in cui, il primo, dichiarava di aver portato il pallone e il secondo (il pubblico ministero) affermava di aver portato l’arbitro (cioè il giudice). La “cultura della giurisdizione”, se correttamente intesa (cioè rispetto assoluto delle norme di diritto sulla valutazione della prova e sulla logica giudiziaria) è un bene comune (anzi comunissimo) della difesa, dell’accusa e del giudice. Solamente con maggiore “cultura della giurisdizione” in tutti i componenti togati del processo potrebbe realizzarsi realmente il giusto processo richiamato dalla Costituzione all’articolo 111. Quanto al quesito sull’abrogazione di parte della normativa che funge da presupposto per l’applicazione delle misure cautelari, ritengo che si tratterebbe di un provvedimento di civiltà giuridica. Le carceri sono affollate e i processi sono, assai spesso, troppo lunghi. La misura cautelare diviene il modo per scontare parte della pena come “presofferto” e potersi avvantaggiare, dopo la condanna, di misure alternative. Peraltro, ritengo che una buona riforma della giustizia dovrebbe passare anche da una decisa e radicale depenalizzazione di molti reati minori. La giurisdizione penale deve essere un’operazione cognitiva riservata a questioni complesse e che meritano la massima attenzione, senza perdersi in giudizi del tutto improduttivi per la sua funzione decisiva e cioè quella identificata dal sociologo Durkheim tra Ottocento e Novecento: una terapia contro la malattia sociale costituita dal delitto. *Avvocato e docente di Diritto Abbiamo le prove della malagiustizia in Italia, manca solo il processo ai responsabili di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 6 giugno 2022 Ogni giorno assistiamo alla strage di diritti e di legalità senza che gli esecutori siano chiamati a renderne conto. Dagli innocenti nelle carceri al comportamento di alcuni magistrati che interferiscono nell’attività dei poteri legittimi. Com’è che diceva quello? “Io so. Ma non ho le prove”. Noi invece - oggi, ma non da oggi - le prove del crimine giudiziario le abbiamo. Non occorre provare che le carceri sono ricolme di innocenti. Non occorre provare che funzionari dello Stato, abusando del proprio potere, violentano le libertà private, distruggono l’immagine, i patrimoni, la vita altrui senza risponderne in nessun modo. Non occorre provare che l’esistenza di centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone è affidata al capriccio, all’arbitrio, alla noncuranza persecutoria di pubblici impiegati che fanno malgoverno della propria funzione riducendosi a sgherri di Stato, a teppisti di Stato, ad aguzzini di Stato. Non occorre provare che una parte, ovviamente non tutta ma una significativa parte, della cerchia giudiziaria è gravemente contaminata dalla presenza di malversatori che, protetti dal proprio potere irresponsabile, coltivano e difendono interessi particolari in plateale conflitto con quelli generali. Non occorre provare che fazioni influenti e aggressive del potere togato si sono costituite in una centrale di sistematico hackeraggio dell’organizzazione democratico-rappresentativa, un contro-governo di ammutinati che interferisce nell’attività dei poteri legittimi e pubblicamente li intimidisce, li ricatta, li minaccia. Non serve nessuna prova per documentare tutto questo, perché la prova di tutto questo è quotidianamente disponibile, quotidianamente squadernata sulla scena della giustizia italiana. Una diuturna strage di diritti e di legalità si compie e prosegue senza che i responsabili siano chiamati a renderne conto. Ma non mancano le prove. Manca il processo. Toscana. Un ponte di libri dal Mediterraneo per detenuti di lingua araba di Emiliano Moccia vita.it, 6 giugno 2022 Il progetto “Kutub Hurra. Libri a Porti Aperti” è promosso dall’ong Un Ponte per, in collaborazione con l’associazione tunisina Lina Ben Mhenn, con l’obiettivo di portare libri di narrativa e poesia in lingua araba da mettere a disposizione dei detenuti arabofoni nelle carceri italiane. Si parte dagli istituti di Livorno e Pisa. Brani di poesie che ricopiano nelle lettere che spediscono a casa. Perché per alcuni detenuti nelle carceri italiane scrivere ancora le lettere per mogli, genitori, figli è l’unico mezzo per tenersi in contatto, per raccontare un po’ di sé. Ed allora, alcune frasi prese dai libri di poesie che leggono diventano la loro “voce”, i loro pensieri, le parole esatte che avrebbero usato per trasmettere le loro emozioni. Anche per questo, il progetto “Kutub Hurra. Libri a Porti Aperti” assume una particolare rilevanza sociale e culturale. Perché punta a riempiere le biblioteche delle carceri italiane di libri in lingua araba per metterli a disposizione dei detenuti arabofoni, che rappresentano la comunità linguistica maggiore - dopo quella italofona - nelle nostre carceri, secondo i dati del XVIII° Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. L’iniziativa è promossa dall’organizzazione non governativa Un Ponte Per che può contare sul supporto dell’associazione Lina Ben Mhenn e sulla rete di realtà italiane che svolgono attività nei penitenziari. “In Italia il 30% della popolazione carceraria è arabofona. Eppure nelle nostre prigioni si registra una problematica molto importante, perché i libri in lingua araba sono davvero molto pochi” spiega Lodovico Mariani, referente del progetto per Un Ponte Per. “In un’ottica di cooperazione internazionale ci siano attivati attraverso l’associazione tunisina Lina Ben Mhenn che poteva mettere a disposizione tantissimi libri. Si tratta di un sodalizio nata in memoria di Lina Ben Mhenni, l’attivista protagonista della Rivoluzione dei Gelsomini che in Tunisia aveva raccolto moltissimi libri con l’obiettivo di portarli nelle carceri del Paese”. Con questo progetto, dunque, l’azione di Lina prosegue il suo disegno attraversando il Mediterraneo ed arrivando in Italia. “Il progetto “Kutub Hurra. Libri a Porti Aperti”“ prosegue Mariani “ha ridato una seconda vita a questi libri con un viaggio attraverso il Mediterraneo, un mare ridotto oggi ad un non-luogo di morte. L’iniziativa si prefigge di ripensare lo spazio mediterraneo come un luogo di connessione, scambio culturale e cooperazione per la pace dei popoli”. I primi cinquanta testi di narrativa e di poesia in lingua araba, quindi, sono arrivati nella biblioteca della Casa Circondariale “Le Sughere” di Livorno. Merito della convenzione siglata qualche giorno fa tra il Direttore delle carceri di Livorno e dell’Isola di Gorgona, il Garante delle persone private della libertà del Comune di Livorno, Un Ponte Per. All’intesa partecipano anche ARCI Livorno, Centro Servizi Donne Immigrate e le associazioni Mangwana e Controluce che “grazie alle attività educative che svolgono in carcere” evidenzia Mariani “daranno una seconda vita ai libri ed ai detenuti, proponendo attività culturali, di formazione, di lettura, dando il diritto anche a chi non parla l’italiano di avere opportunità di leggere e creare un clima carcerario inclusivo. Crediamo, inoltre, che i libri rappresentino il più grande tra gli strumenti di emancipazione a disposizione dell’umanità”. I libri donati dall’associazione Lina Ben Mhenn sono di narrativa e di poesia, ma “sono soprattutto i testi di poesia a catturare l’attenzione dei detenuti arabi, perché le utilizzano copiando pezzi di poesia che scrivono nelle lettere che inviano a casa”. Il libro, dunque, “diventa un grimaldello per favorire il dialogo culturale, per far conoscere le radici di chi vive lontano dal suo Paese e perché anche grazie al lavoro delle associazioni che faranno vivere questi libri, i detenuti si sentono persone riconosciute, che hanno la possibilità di poter far conoscere un pezzo di sé anche attraverso i volumi nelle loro lingua”. Dopo il primo approdo nelle carceri di Livorno e dell’Isola di Gorgona, altri istituti penitenziari hanno mostrato interesse per il progetto. Come quello di Pisa, dove arriveranno i primi 30 volumi richiesti, e di altre prigioni toscane in cui opera il Polo Universitario Penitenziario dell’Università degli Studi di Firenze, che patrocina l’iniziativa. Ma gli operatori di Un Ponte per sono stati già contattati da altri penitenziari: Padova, Roma, San Vittore, Napoli e tanti altri. “La speranza” conclude Mariani “è che il giro di richieste si allarghi sempre di più, potendo contare su tante associazioni che svolgono attività educative e formative negli istituti”. Il sogno di Un Ponte per è quello di trasportare nuovi carichi di libri con una traversata in barca a vela da Tunisi, attraccando in Italia in una serie di porti simbolicamente importanti per le migrazioni. Perché come recita l’ong “Costruiamo Ponti, Non Muri”. Cremona. Rivolta nel carcere, a sedarla è stata la direttrice di Mantova di Chiara Savignano Gazzetta di Mantova, 6 giugno 2022 Nella notte tra venerdì e sabato alcuni detenuti, per protestare contro la sospensione della somministrazione di un farmaco a tossicodipendenti e soggetti con disturbi psichiatrici, hanno dato fuoco ai materassi. Rivolta, nella notte tra venerdì e sabato scorsi, nel carcere di Cremona dove alcuni detenuti, per protestare contro la sospensione della somministrazione di un farmaco a tossicodipendenti e soggetti con disturbi psichiatrici, hanno dato fuoco ai materassi. Il fumo che rapidamente ha invaso molte celle ha costretto vigili del fuoco e polizia penitenziaria ad evacuare 80 detenuti per poi intervenire a spegnere le fiamme e mettere in sicurezza l’intero carcere. A gestire la rivolta è stata la direttrice del carcere di Mantova, Rossella Pasquini Peruzzi, chiamata in tutta fretta a Cremona in quanto la direttrice della casa circondariale, Rossella Padula, al momento dello scoppio dell’incendio, si trovava a Roma per un impegno istituzionale che l’ha bloccata nella capitale per tutta la giornata di venerdì. Va detto che la casa circondariale di Cremona, già nei giorni scorso era stata teatro di disordini provocati dai detenuti, con aggressioni alle guardie carcerarie e altre fiamme che avevano provocato intossicazioni tra i carcerati. Il problema sembra essere originato dalla sostituzione di un farmaco con un altro. Già da alcuni mesi, la sanità penitenziaria, ha deciso di sostituire il Lyrica - farmaco in compresse per il dolore neuropatico che i detenuti hanno imparato a scaldare per assumerlo in polvere sniffandolo come fosse cocaina, con gli stessi effetti - con un altro medicinale, il Gabapentin che ha le stesse indicazioni ma anche se non assunto correttamente non provoca alterazioni. Solo che nel carcere di Cremona è probabile che alcuni detenuti non avessero fatto la terapia a scalare prima di sospendere il Lyrica e così c’è stata la protesta sfociata negli incendi. “Questa circostanza è stata vissuta male dai detenuti che hanno inscenato la manifestazione violenta - ha spiegato a Radio24 Rossella Pasquini Peruzzi - Ora la situazione è sotto controllo. Già da aprile, mi ha detto il dirigente sanitario, si è iniziato a informare i detenuti che ci sarebbe stata questa sostituzione del farmaco e che avrebbero anche iniziato con una procedura a scalare”. Il problema del Lyrica, prosegue Pasquini Peruzzi, “è che viene assunto in compresse per bocca ma i detenuti ne fanno un uso inappropriato e, quindi, la sniffano con gli effetti tipici della cocaina, effetti altamente eccitanti”. Quella di sostituire il Lyrica “è stata una decisione presa proprio a tutela della salute dei detenuti, perché è un farmaco pericoloso nel caso in cui se ne fa un uso diverso da quello che deve essere fatto”, sottolinea la direttrice Pasquini Peruzzi. “Queste medicine non sempre vengono assunte dalle persone che ne sono destinatarie”. Cremona. Rivolta in carcere, Galletti (Pd): “Modello che va radicalmente riformato” cremonaoggi.it, 6 giugno 2022 Sulla rivolta scoppiata venerdì sera nel carcere di Cremona è intervenuto anche Roberto Galletti, vice segretario provinciale del Pd, preoccupato dall’”ennesimo caso di violenza e vandalismo da parte di alcuni detenuti ai danni di agenti di polizia e personale della casa circondariale di Cremona”. I detenuti hanno appiccato diversi incendi nelle loro celle e fiamme e fumo hanno coinvolto due sezioni della struttura, al secondo e terzo piano. Ottanta carcerati sono stati evacuati e spostati nei passeggi mentre i vigili del fuoco hanno spento i roghi e la polizia e i carabinieri hanno sorvegliato il perimetro del penitenziario. Alla base del gesto ci sarebbe la protesta per la decisione di non somministrare più uno psicofarmaco ai detenuti. “Solo grazie all’immediato intervento degli agenti e dei vigili del fuoco”, scrive Galletti, “si è evitato che l’episodio si trasformasse in una tragedia. Nell’esprimere la nostra massima vicinanza a tutti i lavoratori del carcere e ai loro soccorritori, denunciamo come il sovraffollamento delle carceri italiane sia un problema di urgenza assoluta, la cui soluzione non può più essere rimandata. Le gravi carenze strutturali, il sovraffollamento, l’insufficiente numero di educatori sono la manifestazione di un modello che va radicalmente riformato. Va tenuto in massima considerazione il fatto che alcune strutture, come quella di Cremona, accolgono una percentuale più alta della media di detenuti stranieri. Questa condizione richiede approcci mirati e l’implementazione di sistemi che coinvolgano competenze specifiche: dal rafforzamento dei progetti di mediazione culturale alla creazione di percorsi che aiutino a migliorare la convivenza in sicurezza con gli altri detenuti e il personale. Inoltre é significativa la presenza di detenuti tossicodipendenti, talvolta con problematiche psichiatriche che abbisognano di percorsi e cure attente. Come PD cremonese, riteniamo sia necessario ed urgente investire su un modello realmente rieducativo ed inclusivo che, senza tradire il dettato costituzionale, garantisca i diritti dei carcerati, dei lavoratori del comparto e la sicurezza di tutti”. Foggia. Medici nelle carceri, via al reclutamento d’urgenza Gazzetta del Mezzogiorno, 6 giugno 2022 Aumentano i casi di autolesionismo, avviso pubblico dell’Asl. Cercansi medici per tutti i Penitenziari foggiani. C’è carenza di personale sanitario anche negli istituti di pena, una difficoltà che si aggiunge alle ben note ristrettezze di personale tra la polizia penitenziaria denunciato da tempo dai sindacati di categoria. L’Asl di Foggia ha pubblicato un “avviso pubblico urgente” per reclutare il nuovo personale di profilo medico-sanitario. In particolare l’azienda sanitaria sottoscriverà contratti per “incarichi provvisori” della durata di 18 ore settimanali. Ma con alcune varianti: ad esempio occorrono medici Sias (Servizio Interno di Assistenza Sanitaria) per 24 ore settimanali; richiesti inoltre specialisti in Psichiatria e con esperienza nel settore delle tossicodipendenze. “Le domande - informa l’Asl - dovranno essere inviate, entro il 15 giugno 2022, all’indirizzo pec: aslfg@mailcert.aslfg.it”. La mancanza di medici, stando all’escalation di episodi segnalati negli ultimi tempi, avrebbe acuito lo stato di disagio dei detenuti nelle carceri foggiane in considerazione dei numerosi episodi di autolesionismo (anche suicidi) registrati nell’ultimo anno e mezzo. Un problema esploso il 9 marzo 2020 quando 72 detenuti evasero dalla Casa circondariale di Foggia dopo la fuga di notizie sui rischi di contagio Covid nelle strutture ristrette che allarmarono sia i ristretti che il personale interno dell’istituto (gli evasi furono poi tutti ripresi e in gran parte trasferiti in altri istituti). La cronaca purtroppo registra negli ultimi tempi ben due suicidi nella Casa circondariale alle Casermette: il 12 maggio un detenuto barese si tolse la vita impiccandosi con una corda rudimentale appesa alla finestra della sua stanza; il 23 aprile un altro detenuto si tolse la vita con le stesse modalità, altri due mesi e avrebbe riconquistato la libertà. Pare che l’uomo soffrisse di disturbi psichiatrici che in carcere non sarebbe stato possibile affrontare. Segnalazioni di questo tipo se ne susseguono da parte dei sindacati che denunciano la grave situazione di sovraffollamento del carcere di Foggia arrivato a più del 170% dei posti disponibili. Un’urgenza sottoscritta anche dall’Asl con il reclutamento d’urgenza di medici nelle strutture carcerarie di Foggia, San Severo, Lucera. “L’implementazione del personale sanitario all’interno degli istituti penitenziari rientra in un percorso finalizzato a migliorare il benessere complessivo delle persone detenute e degli operatori sanitari. Un percorso avviato già da tempo e che vede da mesi la Asl impegnata in una interlocuzione continua con le Direttrici delle Case Circondariali”. Reggio Emilia. Laboratorio Liberi Art, Borsellino commuove i detenuti Gazzetta di Reggio, 6 giugno 2022 Il fratello del magistrato ucciso dalla mafia ha visitato la Pulce. Nella giornata di mercoledì, in occasione del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, si è svolto negli istituti penali uno straordinario incontro alla presenza dell’ingegner Salvatore Borsellino con i detenuti del laboratorio Liberi Art e, con altri ospiti del carcere, oltre al personale penitenziario e gli invitati alla commemorazione. La toccante testimonianza di Salvatore Borsellino, nel ricordo di suo fratello, il giudice Paolo Borsellino, del giudice Giovanni Falcone e di tutte le vittime di mafia, ha commosso i presenti e in particolare i detenuti, coinvolti in un interessante dibattito sul valore della verità e della giustizia che Salvatore Borsellino continua a chiedere a distanza di 30 anni dalla strage di via D’Amelio. Il discorso di Salvatore Borsellino ha anche dato testimonianza dell’amore che ha unito i due magistrati nei confronti della loro Palermo, città ferita dalle mafie. Le emozioni, la sofferenza di Salvatore Borsellino nel raccontare la storia della sua famiglia, di suo fratello Paolo, hanno smosso le coscienze di chi lo ascoltava, in rigoroso silenzio con grande ammirazione e rispetto. Salvatore Borsellino, fondatore di Agende Rosse, è un instancabile attivista. Nel suo impegno coinvolge tutti, inclusi i carcerati nell’intento di rieducare alla legalità. L’evento è stato aperto dai saluti della direttrice degli istituti penali, Lucia Monastero, del comandante del Reparto, Rosa Cucca. A seguire, Anna Protopapa docente volontaria degli istituti penali, delegata della Gens Nova Odv Emilia-Romagna, ha presentato la mostra Liberi Art. La parità di genere non c’è. I dati ci dicono che la strada è ancora lunga di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 6 giugno 2022 La parità di genere non sta diventando realtà. Siamo disperatamente lenti. Lenti soprattutto nel capire la gravità della situazione. E guardate, non si tratta di vittimismo, nè di voler sottolineare a tutti i costi gli aspetti negativi. Dobbiamo fare i conti con la dura realtà, per essere più forti nella volontà e nella capacità di modificarla radicalmente. Questo fa una democrazia moderna che voglia vivificare i diritti di tutti e in questo caso delle donne. Questo fa una democrazia che voglia riconquistare la fiducia nel cambiamento di tanti cittadini e cittadine del Paese. La fiducia in un Paese migliore. Ne abbiamo discusso al Festival internazionale dell’economia a Torino con Daniela Del Boca, Alessandra Casarico, Aline Pennisi e Paola Piva al panel “Questioni di genere: disuguaglianze nel lavoro e nella famiglia”. Ne abbiamo discusso al Festival dell’economia a Trento al panel “La parità di genere sta diventando realtà. Ostacoli e obiettivi raggiunti” con Monica D’Ascenzo e Paola Villa. I numeri parlano. Meno di metà delle donne in Italia lavora secondo i dati Istat della media annua 2021 (49,4%). In Europa la percentuale è 63,4%. Stiamo 14 punti sotto l’Europa. Mi direte, ma il problema è il Sud! E invece no. Non è solo il Sud. Nel Mezzogiorno la situazione delle donne è tragica. Pensate, in Campania e in Sicilia il tasso di occupazione femminile è al 29,1%. Nel complesso del Mezzogiorno solo una donna su tre lavora. Ma non vi credete che il Nord del nostro Paese sia così avanti! Regioni come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, non hanno ancora raggiunto il 60% di tasso di occupazione femminile, che era obiettivo per l’Europa per il 2010. Stanno anche loro sotto la media europea. Ce la vogliamo dire tutta? Nessuna regione italiana raggiunge la media europea, tranne Bolzano con il 63,7%, poco al di sopra. E ci ha superato Malta, la Spagna, nel terzo trimestre del 2021 anche la Grecia. Il problema viene da lontano e non lo abbiamo affrontato seriamente in nessuna fase della nostra storia. È diventato un problema strutturale del Paese. Quando capiremo che siamo in emergenza e che non si può andare avanti con misure che solo indirettamente, forse, produrranno occupazione femminile, a condizione che vengano messe in atto in modo appropriato, forse risolveremo il problema. Quando si è insistito su transizione ecologica e digitale si è addirittura vincolato il Pnrr ad una quota precisa di investimenti da avviare. Ma guardiamoci negli occhi, abbiamo fatto altrettanto sulla questione del lavoro femminile e delle infrastrutture sociali? No. Pensiamo veramente che gli stanziamenti per l’imprenditoria femminile possano essere sufficienti? Stiamo parlando di milioni di euro non di miliardi di euro come per altre voci. Pensiamo veramente che l’introduzione della clausola di condizionalità per l’assunzione su progetti Pnrr di un 30% di donne o giovani possa essere una soluzione, quando sono possibili scappatoie, come dice la norma, se ben argomentate? Dubito. Pensate veramente che 10 giorni di congedo di paternità possano essere sufficienti ad affrontare il problema della condivisione delle responsabilità genitoriali? Non sto assolutamente sminuendo le azioni messe in atto. È importante l’inserimento dei LEP in finanziaria per garantire la copertura delle spese correnti per i nidi che verranno costruiti o ristrutturati sulla base del Pnrr. Così come lo è stato lo sblocco delle assunzioni nel settore pubblico che potrà portare nuova linfa femminile e giovanile all’interno della PA. Ma sulla parità di genere serve un piano di azioni di sistema che non c’è, con valutazione di impatto. È questo il vero nodo. È ora che la parità di genere diventi una vera priorità del Paese. Non a parole. La vergogna di Samos, tra migranti imprigionati o respinti a forza verso la Turchia di Erdogan di Elena Kaniadakis L’Espresso, 6 giugno 2022 Duemila profughi sono incriminati in Grecia solo per aver guidato battelli alla deriva. Ma molti altri sono stati intercettati allo sbarco e respinti a forza al limite delle acque territoriali. Nel silenzio dell’Europa. In un piccolo cimitero di Samos ombreggiato dai pini, alcune tombe non hanno nome, né foto. Solo un numero dipinto su un sasso e un fiore di plastica deposto sulla terra testimoniano che li è sepolta una persona di cui si ignora l’identità, morta affogata nel tentativo di raggiungere l’isola greca. Tra le pietre, numerate fino al 35, una lapide mostra il volto di Yahya, bambino di 5 anni annegato nel novembre di due anni fa al largo di Samos. Il padre, sopravvissuto allo stesso naufragio, lo scorso maggio è stato assolto dall’accusa di avere messo a repentaglio la vita del figlio, portandolo con sé in un viaggio pericoloso che dall’Afghanistan doveva condurlo in Europa. Se condannato, avrebbe scontato fino a dieci anni di carcere. Dimitris Choulis, avvocato cresciuto nell’isola, incaricato della difesa, ricorda di quando il padre era stato condotto in manette nella camera mortuaria dell’ospedale per riconoscere il corpo del figlio. “Eravamo convinti che sarebbe stato assolto: ma chi lo compenserà per ciò che ha dovuto subire? Così viene fatto passare il messaggio che anche se riuscirai a raggiungere la Grecia, verrai incriminato”. Negli ultimi mesi, sulla scrivania di Choulis si sono accumulati i documenti relativi a casi di migranti accusati di traffico di esseri umani, poiché avevano impugnato il timone della barca su cui viaggiavano. Secondo l’ong Bordeline Europe, quasi duemila persone sono detenute nelle carceri greche a seguito di questo tipo di accusa. “Parliamo di richiedenti asilo che cercano di governare la barca quando viene lasciata alla deriva. Da tempo Samos è diventata la fortezza d’Europa: non solo attraverso l’incriminazione di chi riesce a fare domanda d’asilo, ma ancora prima con i respingimenti illegali in mare”. Nel porto dell’isola, quando i caicchi rientrati dalla pesca dondolano ormeggiati, le navi di Frontex e della Guardia costiera sono le uniche a increspare il filo dell’acqua. Sui muri di alcuni edifici affacciati sul mare, scritte in bomboletta spray mettono in chiare lettere una parola che nell’isola non si pronuncia facilmente: “Pushback”. Basta con i respingimenti, si legge sugli abitati. In base a una pratica denunciata da ong come Amnesty international e Human rights watch, ma sempre negata dal governo greco, i migranti sbarcati nelle isole vengono arrestati da uomini con il volto coperto, picchiati, privati di documenti e cellulari e imbarcati a forza sulle navi della Guardia costiera greca. Una volta al confine con le acque turche, vengono abbandonati su gommoni di salvataggio. L’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati Filippo Grandi si è detto allarmato per “le testimonianze ricorrenti e consistenti” che provengono da questa zona di confine. Dall’inizio del 2020 l’Unhcr ha registrato 540 segnalazioni di respingimenti, illegali perché secondo il diritto internazionale nessuno può essere rimpatriato prima che abbia avuto la possibilità di fare domanda d’asilo. Nella costa sud-orientale di Samos, da cui si intravede la Turchia, le spiagge rocciose lasciano presto il posto alla boscaglia che si inerpica a perdita d’occhio. Un tempo, dopo lo sbarco, i migranti venivano scortati dalle autorità nel centro di identificazione, “mentre ora che i respingimenti sono sistematici, i richiedenti asilo si nascondono per giorni tra il bosco e gli scogli, e da lì contattano attivisti o amici nell’hotspot per documentare la loro presenza ed essere accompagnati al centro di registrazione”, spiega Choulis. “In questi casi ribadiamo ai migranti che le autorità sono le prime a dovere essere allertate, e comunichiamo per loro la posizione alla Guardia costiera”. Cosa avviene dopo, spesso nessuno è in grado di dirlo: “Talvolta le autorità affermano di essersi presentate sul posto e di non avere trovato nessuno. Altre volte gli operatori umanitari soccorrono migranti che testimoniano di essere sbarcati con molte più persone, di cui sull’isola, però, non c’è traccia”, commenta l’avvocato. Lo scorso 26 febbraio, la giornata era stata alquanto movimentata: in base alle segnalazioni, una barca con a bordo 12 richiedenti asilo palestinesi provenienti da Gaza era sbarcata sulla costa nord di Samos. I migranti si erano fotografati per attestare la loro presenza: le donne con in braccio tre bambini piccoli di fronte a una chiesetta dipinta in stile cicladico, bianca e blu, e tutto il gruppo di lato ai cartelli stradali che indicavano note località dell’isola. A ricevere le richieste d’aiuto, dall’altra parte dell’Europa, c’era Tommy Olsen. Fondatore della ong norvegese Aegean boat report, Olsen, come da prassi, aveva pubblicato sul sito dell’associazione le foto dei migranti, chiedendo ad attivisti e autorità locali di prestare soccorso. Dopo giorni di attesa, quando i contatti si erano ormai interrotti, nessun nuovo arrivo risultava registrato nell’hotspot di Samos. Nello stesso frangente, la Guardia costiera turca affermava di avere recuperato 12 migranti su una remota scogliera del territorio turco: alcuni volti nelle foto pubblicate dalle autorità, come denunciato dalla ong di Olsen, combaciano con quelli delle persone fotografate a Samos. Per Aegean boat report, si tratta dell’ennesimo respingimento illegale avvenuto nell’isola. “La Guardia costiera turca di per sé non è una fonte affidabile”, chiarisce Olsen: “Il mio lavoro si basa sulle foto inviate dai migranti che sono geolocalizzate a Samos: poi sui video e sulle testimonianze raccolte grazie al coordinamento con le associazioni per i diritti umani presenti sul posto”. Ma per il ministro greco dell’Immigrazione, Notis Mitarachis, si tratta di accuse infondate: “Propaganda della Turchia”, il Paese che, ha ricordato più volte, non si fa scrupoli nel ricattare l’Europa attraverso i profughi. A inizio anno lo stesso Mitarachis aveva conferito a Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, l’Agenzia deputata al controllo delle frontiere europee, un premio al merito per avere ridotto drasticamente il numero degli sbarchi in Grecia. Nell’aprile scorso, tuttavia, Leggeri ha presentato le proprie dimissioni. Decisiva l’indagine dell’Olaf, l’Ufficio europeo antifrode, su presunte irregolarità di condotta, il cui rapporto deve ancora essere pubblicato. Nei giorni precedenti alle dimissioni, un’inchiesta di Le Monde e Lighthouse reports accusava Frontex di avere coperto i rimpatri illegali dei migranti registrandoli come semplici “operazioni di prevenzione delle partenze eseguite in acque turche” e non in Grecia, come invece documentano le testimonianze. Nel frattempo, i trafficanti di esseri umani riorganizzano le proprie rotte. Secondo un rapporto della Commissione europea, gli sbarchi in Italia dei migranti partiti dalla Turchia sono triplicati l’anno scorso, passando da 2mila a 6mila. Un tempo, i richiedenti asilo avrebbero pagato circa mille euro per essere portati a Samos dai trafficanti. Ora invece, per evitare di essere respinti, in molti versano fino a 9mila euro per attraversare gli arcipelaghi greci e sbarcare in Italia. “Così gonfiamo le tasche delle bande criminali con più soldi, e rendiamo il viaggio molto più pericoloso”, spiega Choulis. Ma anche per chi riesce a farsi registrare negli hotspot greci, l’odissea è lontana dal concludersi. Nella piana dell’entroterra dove è situato il campo, inaugurato nel settembre scorso con il finanziamento dell’Unione europea, si sente solo il rumore del vento e gli annunci in più lingue diffusi dagli altoparlanti al suo interno. Qui la maggior parte degli attuali 400 residenti è somala, afghana, siriana. In tanti hanno aspettato due anni per conoscere l’esito della domanda d’asilo e ora la richiesta è stata rigettata. Dall’anno scorso, infatti, il sistema d’asilo greco considera la Turchia un “posto sicuro” dove chiedere protezione per i migranti in arrivo da Siria, Afghanistan, Somalia, Pakistan e Bangladesh che, complessivamente, rappresentano il 65 per cento dei richiedenti asilo in Grecia. Se i migranti di queste nazionalità non sono in grado di dimostrare che la loro vita è in pericolo in Turchia, la domanda non viene esaminata. All’ombra delle recinzioni con il filo spinato che circondano l’hotspot, Ahmed si presenta come il portavoce della comunità siriana. Sul suo cellulare scorrono le notizie di alcune ong impegnate a documentare la condizione dei rifugiati in Turchia: “Nei mesi scorsi a Smirne hanno dato fuoco a tre ragazzi siriani, in un attentato razzista. Non c’è futuro per noi in quel Paese. Vogliamo costruirne uno nuovo in Europa e non rimanere seppelliti qui in eterna attesa”. Nel piccolo cimitero di Samos le visite sono rare: solo i gatti randagi ciondolano tra le tombe. Choulis ricorda che il giorno prima del funerale del bambino, alcuni attivisti avevano raccolto un po’ di soldi per apporre una lapide. “Non che servisse a qualcosa, ma almeno potevamo scrivervi sopra di chi è la colpa”. Sulla pietra la scritta recita: “Non lo ha ucciso il mare, né il vento: lo hanno ucciso la paura e le scelte di chi fa politica”. Ucraina. È giusto processare i prigionieri di guerra durante la guerra? di Vitalba Azzollini* Il Domani, 6 giugno 2022 Al di là dei profili di diritto, ci si chiede se le istituzioni di un Paese che è parte di un conflitto atroce possano giudicare i prigionieri di guerra in modo equo e giusto, garantendo loro un processo regolare, nonostante il coinvolgimento emotivo. Il diritto internazionale non vieta i processi per crimini di guerra durante le ostilità. Anzi, la terza Convenzione di Ginevra afferma espressamente che “ogni istruzione giudiziaria contro un prigioniero di guerra” va condotta “al più presto possibile”. Non è corretto affermare che la competenza a giudicare i crimini commessi in guerra spetta esclusivamente alla Corte penale internazionale, in quanto istituzione super partes. La Corte giudica tali crimini solo se uno stato non vuole o non può farlo (principio di complementarità). Qualche giorno fa, il tribunale di Kiev ha condannato all’ergastolo un sergente russo per l’uccisione di un civile disarmato. Si è trattato del primo processo per crimini di guerra, dopo l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia. Successivamente, due soldati russi sono stati condannati a undici anni e mezzo di reclusione per aver per aver colpito con missili multipli due villaggi nella regione nordorientale di Kharkiv. Inoltre, secondo quanto riportato dal giornale britannico The Guardian, russi e le milizie filorusse nel Donbass, a loro volta, vogliono istituire un processo - ispirato a quello di Norimberga - per i presunti crimini di guerra commessi dagli ucraini nella regione, innanzitutto i componenti del Reggimento Azov. A fronte di queste iniziative, serve chiedersi se sia legittimo processare prigionieri di guerra nel corso della guerra stessa o, quanto meno, se ciò sia opportuno. La legittimità di un processo in guerra - Il diritto internazionale non vieta i processi per crimini di guerra che si svolgono durante le ostilità. Anzi, la terza Convenzione di Ginevra afferma espressamente che “ogni istruzione giudiziaria contro un prigioniero di guerra” va condotta “al più presto possibile”, “il più rapidamente”, tenuto conto delle circostanze. La Convenzione dispone una serie di diritti e garanzie processuali per il prigioniero di guerra. E, secondo lo Statuto di Roma del 1998, privare volontariamente il prigioniero del suo “diritto ad un equo e regolare processo” - ad esempio costringendolo alla confessione, rifiutandogli il diritto di appello o non consentendogli assistenza giudiziale - sarebbe esso stesso un crimine di guerra. Sia la Russia che l’Ucraina, firmatarie della Convenzione di Ginevra, sono tenute a rispettarla. L’Ucraina è anche vincolata all’osservanza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che pure contiene norme sul processo equo. Né è corretto sostenere che la competenza a giudicare crimini di guerra spetterebbe esclusivamente alla Corte penale internazionale (Cpi) - organo giurisdizionale che si occupa dei reati commessi da persone fisiche, non da Stati - o a tribunali speciali. Ai sensi del citato Statuto di Roma, i crimini sottoposti alla giurisdizione della Corte sono il genocidio, cioè ogni atto di violenza commesso “nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”; i crimini contro l’umanità, vale a dire atti di esteso o sistematico attacco compiuti consapevolmente contro popolazioni civili (omicidio, atti inumani diretti a provocare grandi sofferenze o gravi danni ecc.); i crimini di guerra, tra i quali “gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949” (omicidio volontario, tortura o trattamenti inumani, grandi sofferenze ecc.) e “altre gravi violazioni” del diritto internazionale (attacchi contro civili, missioni di soccorso umanitario, ospedali ecc.). La Cpi non potrebbe giudicare il crimine di aggressione, pure di sua competenza, poiché è necessario che entrambi gli stati coinvolti abbiano ratificato lo statuto di Roma, ma né Russia né Ucraina l’hanno fatto. Potrebbe essere istituito un tribunale speciale. Affermare che il processo sui crimini commessi in guerra competerebbe solo alla Cpi, come istituzione super partes, è sbagliato, perché la Corte giudica i crimini indicati dallo statuto solo se uno stato non vuole o non può farlo (principio di complementarità). Secondo lo statuto, infatti, “è dovere di ciascun stato esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili di crimini internazionali”, e ciò indipendentemente dalla nazionalità, dal paese di residenza o da qualsiasi altro collegamento di tali soggetti con lo stato che intraprende il processo (cosiddetta giurisdizione “universale”). Quindi, non sempre e non necessariamente i crimini compiuti in una guerra sono giudicati dalla Corte. Va anche detto che finora i processi della Cpi sono stati celebrati molti anni dopo i fatti. Basti pensare al caso di Ali Muhammad Ali Abd-Al-Rahman - ex comandante di una milizia filo-governativa in Darfur, ove tra il 2003 e il 2004 vi sono stati circa 400mila morti e milioni di sfollati - il cui processo per crimini di guerra è iniziato solo due mesi fa circa. Peraltro, lo svolgimento di un giudizio nell’immediatezza del reato rende più agevole raccogliere prove e trovare testimoni, oltre a soddisfare una diffusa istanza di giustizia. I dubbi su un processo in guerra - Dunque, non è illegittimo processare prigionieri di guerra nel corso della guerra. Tuttavia, al di là del fatto che i processi svolti in Ucraina espongono i prigionieri ucraini, a propria volta, al rischio di essere sottoposti alla giustizia russa, c’è qualcosa che non torna. Se ne trova espressione in uno dei commenti alla Quarta Convenzione di Ginevra da parte del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr), istituzione di carattere umanitario, la cui funzione - definita dalla Convenzione di Ginevra e dai protocolli aggiuntivi del 1977- è proteggere e assistere le vittime dei conflitti armati internazionali, dei disordini e della violenza interna. Il Comitato ha rilevato, riguardo ai giudizi per crimini di guerra che si svolgono durante la guerra stessa, che è difficile per un imputato “preparare la sua difesa durante le ostilità”. Il processo “non dovrebbe avvenire in un momento in cui è impossibile per lui fornire prove che potrebbero ridurre la sua responsabilità o confutarla”. C’è un altro elemento da rilevare: ai sensi della Terza Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra possono essere processati solo da tribunali militari, a meno che le leggi dello stato non consentano il giudizio a quelli civili. I tribunali militari, infatti, sono dotati della preparazione necessaria per esaminare i reati connessi alla guerra. I processi in Ucraina si stanno svolgendo dinanzi a tribunali civili, perché quelli militari sono stati aboliti nel 2010. Infine, la Terza Convenzione di Ginevra dispone che i prigionieri di guerra debbano essere protetti “contro gli atti di violenza e d’intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità”. Sulla base di tale norma, in passato il Cicr ha condannato le immagini di prigionieri in tv. Nel conflitto in corso questi ultimi sono spesso sugli schermi, e non solo per i processi. Si tratta, infatti, di un conflitto anche mediatico, e per le parti in causa è importante esporre pubblicamente quanto sta accadendo. Anche questo può incidere su un giudizio, e bilanciare le esigenze coinvolte può essere arduo. Sarà necessario leggere i dispositivi delle sentenze dei processi già effettuati per valutarne le motivazioni. Al di là dei profili di diritto, ci si chiede se le istituzioni di un paese che è parte di un conflitto atroce in corso di svolgimento possano giudicare serenamente i prigionieri, nonostante il coinvolgimento emotivo, garantendo loro di essere processati in modo equo e regolare. Durante una guerra, ove peraltro la comunicazione - anche mediante decisioni giudiziali - assume un ruolo rilevante, il dubbio sorge. *Giurista Ucraina. Ora l’esodo è quello del rientro: 2,1 milioni sono tornati a casa di Corrado Zunino La Repubblica, 6 giugno 2022 Un milione di uomini sono rientrati per combattere (ma non ci sono le armi), l’altra metà sono famiglie che vogliono ripopolare il Centro-Ovest, da settimane lontano dall’assedio. Il vero esodo, dopo cento giorni dall’inizio, è quello di rientro. L’Alto commissariato per i rifugiati ha contato 2,1 milioni di cittadini ucraini tornati in patria dalle quattro frontiere occidentali. La metà sono uomini che hanno offerto le loro braccia per combattere (ma non ci sono armi sufficenti per questo milione di riservisti). L’altra metà è fatta di madri e zie, bambini rumorosi e fidanzati abbracciati che sul bus che copre la tratta Chisinau (capitale della Moldavia) - Odessa (Ucraina sul Mare Nero) ti spiegano: “Vogliamo vivere nel nostro Paese”. Quel numero certificato al 3 giugno scorso - 2,1 milioni - a fronte di sette milioni che hanno lasciato l’Ucraina dal 24 febbraio, dice dello spirito nazionale (e nazionalista) di questo popolo. Sette milioni di ucraini scappati - un esodo biblico, peggiore delle peggiori previsioni, che erano degli americani e parlavano di 5 milioni di rifugiati dopo l’aggressione russa - sono una catastrofe umanitaria e un kalashnikov puntato da Vladimir Putin contro l’Europa ostile, ma oggi, con il Centro-Ovest relativamente in pace, il vero dato è quello del rientro. Odessa si è ripopolata, Leopoli ha quasi mezzo milione di abitanti in più, spesso di passaggio. I treni, sempre da Chisinau a Odessa, vanno prenotati con uno o due giorni di anticipo o non si trova posto. Leopoli, dicevamo. Ha conosciuto l’ultimo attacco l’8 aprile scorso: missili tra i condomini, sette morti tra cui un bambino e undici feriti. Ma la capitale culturale del Paese non ha mai perso il suo ruolo di riferimento della difesa ucraina, la città che ha ospitato spesso i ministri e le autorità d Kiev, soprattutto nela fase in cui la capitale è stato sotto assedio. Ancora, Leopoli ha nutrito i profughi dall’Est, sia quelli che volevano proseguire per la vicina Polonia che quelli, molti, che hanno scelto di tenere all’Ovest una residenza temporanea, di far seguire da Lviv le lezioni in remoto ai bambini e ai ragazzi bisognosi di non interrompere gli studi. Odessa non si è mai davvero spopolata. Le minacce dal Mar Nero non sono cessate per un giorno, ma le mine flottanti se da una parte hanno bloccato quasiasi tipo di navigazione mercantile, dall’altra hanno rappresentato una difesa naturale dallo sbarco dei russi. Oggi la città vive in una quotidianità in apnea: gli avvocati e gli immobiliaristi si sono trasformati in traduttori, autisti, fixer. Odessa, candidata all’Unesco come città patrimonio dell’umanità (nonostante le speculazioni edilizie concesse in centro dal sindaco Gennadiy Trukhanov), non è stata sfigurata dai missili Tochka né da quelli in dotazione ai sottomarini. Fin qui hanno colpito aree periferiche o depositi di carburanti. E la popolazione resta, arrangiandosi, provando a far circolare comunque un’economia moncata dall’assedio. Manca la benzina, per esempio, come in gran parte del Paese. Ogni sabato e ogni domenica, per dire della voglia di vita, nelle chiese ortodosse di Odessa si celebrano matrimoni. “Alle frontiere sono più gli ucraini che entrano che quelli che escono”, conferma l’ambasciata italiana, tornata a Kiev dopo un periodo di migrazione in un hotel di Leopoli (nella capitale sono cinquanta le ambasciate rientrate, dopo la prima fase dell’attacco). Persino in un avamposto dei combattimenti meridionali, quale è Mikolayiv, le persone resistono: i figli non abbandonano i padri, nonostante l’artiglieria pesante sia presente nelle aree di confine con Kherson e la città sia centrata con una raggelante continuità da razzi russi. L’economia della regione, sostiene il governatore Vitaly Kim, a sua volta sfuggito a un disastroso attacco missilistico il 29 marzo, viaggia al 20 per cento: “Molti imprenditori hanno dovuto sospendere ogni attività”. Karolina Lindholm Billing, rappresentante dell’Alto commissariato (Unhcr) in Ucraina, ha raccontato al rientro dal suo ultimo viaggio nelle aree in maggiore difficoltà che “alcuni ucraini dell’Est ritornano nelle loro case nella regione di Luhansk perché non possono permettersi le spese da sfollati”. Ci sono 13 milioni di cittadini (su 44 milioni di abitanti) che si sono spostati all’interno dell’Ucraina, ma non hanno lasciato il Paese. I centri di accoglienza Unhcr, qui, sono diventati 182. La sessantenne Iryna, fuggita da un rifugio di Kharkhiv con il marito, la figlia, il genero e due nipoti, ora vive nel dormitorio dell’Accademia statale di Educazione fisica e Sport. Non possono permettersi un appartamento in affitto. Spiega Iryna: “Tutti vogliamo tornare a casa, ma Kharkiv è ancora una zona pericolosa. Uno dei miei nipoti ha iniziato ad avere reazioni neurologiche allo stress: mostra tic nervosi che gli deformano il viso”. L’Unhcr sta potenziando i programmi che aiuteranno le persone a riparare tetti, finestre, porte e buchi nei muri delle case danneggiate. Negli oblast di Donetsk e Luhansk e in alcune zone intorno a Kiev ha fornito kit di emergenza a 24.300 famiglie per impedire alla pioggia di entrare dai tetti. Il segno del carattere ucraino, che spiega anche la resistenza militare in questa guerra difensiva, lo segnala il fatto che dal 24 febbraio al 3 giugno nel Paese sono nati 48.000 bambini. La maggior parte è stata registrata nelle regioni di Leopoli, Dnipropetrovsk e Odessa. Il sogno di Volodymyr Zelensky è quello di far ripartire il calcio nazionale - maschile e femminile - il prossimo agosto: ha appena dato il suo via libera al progetto della federazione calcio ucraina. Il suo presidente, Andriy Pavelko, ha spiegato di aver illustrato la questione ai vertici di Fifa e Uefa. Ucraina. “Parte delle armi destinate alla guerra possono finire alla criminalità” di Francesco Semprini La Stampa, 6 giugno 2022 L’allarme dell’Interpol e i casi del passato: “Plausibile aspettarsi un afflusso di armi in Europa e oltre. E i gruppi criminali cercano di sfruttare le situazioni caotiche”. Per l’Interpol esiste il rischio concreto che un congruo numero delle armi inviate in Ucraina sia destinato a finire nell’economia sommersa globale e nelle mani della malavita. A dirlo è il capo dell’organizzazione internazionale di polizia criminale Jürgen Stock, il quale afferma che una volta terminato il conflitto, un’ondata di armi più o meno pesanti inonderà il mercato internazionale. Pertanto, ha esortato gli Stati membri dell’Interpol, in particolare quelli che forniscono armi, a cooperare sulla ricerca delle armi. “Una volta che le armi tacciono una parte diventeranno illegali. Lo sappiamo da molti altri teatri di conflitto. Anche adesso, mentre parliamo, i criminali si stanno concentrando su di loro” ha spiegato Stock intervenendo all’Anglo-American Press Association di Parigi. “I gruppi criminali cercano di sfruttare le situazioni caotiche e la disponibilità di armi, anche quelle usate dai militari e comprese le armi pesanti. - prosegue il leader di Interpol - Nessun paese o regione può affrontare da solo tale rischio perché questi gruppi operano a livello globale”. Secondo Stock è plausibile “aspettarsi un afflusso di armi in Europa e oltre”. L’Interpol ha esortato i Paesi membri a utilizzare i loro database per aiutare a “tracciare e rintracciare” le armi. “Siamo in contatto con i con ognuno dei governi interessati per incoraggiarli a utilizzare questi strumenti. I criminali sono ricettivi a tutti i tipi di armi, praticamente tutte le armi che possono essere trasportate potrebbero essere utilizzate per scopi criminali”. Un allarme che assume rilievo specie alla luce degli ultimi invii fatti da Usa e alleati Europei verso Kiev. Si tratta del resto di un fenomeno noto, dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan nel 2021, al termine di una missione datata venti anni, enormi quantità di equipaggiamenti militari spesso altamente sofisticati sono stati lasciati indietro e sono finiti nelle mani dei talebani. Ancora prima, durante l’epopea dello Stato islamico, i jihadisti ricevevano approvvigionamenti dalla polveriera dei Balcani. E già ora, in base ad alcuni video circolati in rete, dalla Siria sono arrivati in Ucraina acquirenti potenziali agevolati nelle loro rotte dal passaggio in Turchia. “Negli ultimi trent’anni in Europa, gruppi criminali organizzati e strutture mafiose transnazionali, così come gruppi terroristici di diverse matrici ideologiche, si sono riforniti all’interno delle reti del mercato nero delle armi da fuoco ed esplosivi provenienti dalla guerra civile e dai conflitti secessionisti nell’ex-Jugoslavia, come emerso recentemente nella conferenza internazionale sul fenomeno tenutasi presso Europol” spiega il professor Arije Antinori, esperto europeo di comunicazione strategica, terrorismo e criminalità organizzata. “L’invasione militare russa dell’Ucraina ha ormai saturato l’informazione quotidiana. Si richiama spesso, quindi, la centralità del tema della sicurezza in Europa nel corso del conflitto e a seguito dell’auspicabile termine dello stesso - prosegue Antinori -. Tuttavia, il grande assente nel dibattito, tanto pubblico quanto istituzionale, è la minaccia costante delle entità asimmetriche ormai ampiamente presenti e sempre più transnazionali nel continente”. Per questo, lo scenario ucraino può rappresentare un enorme bacino di approvvigionamento militare nel cuore dell’Europa, tra l’altro con armamenti ben più efficaci rispetto a quelli tradizionalmente rinvenuti come AK 47, Uzi, AR15 e M12, per non parlare degli esplosivi di nuova generazione. “Occorre mantenere l’attenzione alta sui fenomeni criminali complessi che si sono resi protagonisti negli ultimi anni di numerosi attacchi negli Stati Membri, come quello di un jihadismo che attualmente appare in fase silente di riposizionamento e contaminazione ma che deve essere tenuto sotto osservazione” sottolinea Antinori. Uno sforzo in questa direzione è costituito dalla conferenza che si tiene oggi lunedì 6 giugno a Firenze dal titolo “Prevenzione della radicalizzazione e dialogo interreligioso. Per una società più sicura e inclusiva” presso la sede dell’Istituto Sangalli, in Piazza di San Firenze 3 a Firenze, ultimo atto del primo triennio del progetto “Formare per conoscere. Religioni e cittadinanza”. (https://www.istitutosangalli.it/wp-content/uploads/2022/06/Locandina-Prevenzione-radicalizzazione-e-dialogo.pdf). Un’intera giornata dedicata ai temi della prevenzione e del contrasto della radicalizzazione violenta, all’importanza del dialogo tra religioni e della conoscenza dei fondamenti delle fedi religiose, all’insegna dell’inclusione e della sicurezza sociale, con una particolare attenzione al rapporto con l’ambito delle carceri e con le forze dell’ordine, polizia e carabinieri in primis, altro punto qualificante della terza edizione del progetto co-finanziato da Fondazione CR Firenze, in collaborazione con l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia. Stati Uniti. Columbine non finisce mai di Carlo Lucarelli La Repubblica, 6 giugno 2022 Da oltre vent’anni si susseguono le stragi nelle scuole americane. Ma nulla cambia. La Tec 9 è una pistola semiautomatica prodotta negli Stati Uniti dalla Intratec su licenza di un brevetto svedese della Interdynamic AB. A parte un lungo caricatore frontale ha la forma proprio di una pistola, ed è poco più grande. Pesa meno di un chilo e mezzo, carica dai venti ai cinquanta colpi calibro 9 parabellum e ha la velocità di tiro di un mitra. La Hi-Point 995 è una pistola automatica dotata di calcio e canna lunga, e infatti è un po’ più grande. Spara anche lei munizioni calibro 9 parabellum in caricatori da cinque a venti colpi e pesa sui due chili e mezzo. Il Savage Springfield 67 modello H è un fucile a pompa calibro 12, di quelli che si usano per andare a caccia, mentre lo Stevens 311 modello D è una doppietta dello stesso calibro. Eric David Harris, detto Reb, è un ragazzino di diciotto anni con evidenti disturbi della personalità mal diagnosticati e mal curati, introverso, isolato e arrabbiato col mondo. Dylan Bennet Klebold, detto Vodka, è un ragazzino di diciotto anni con evidenti disturbi della personalità mal diagnosticati e mal curati, introverso, isolato e arrabbiato col mondo. Il 20 aprile del 1999 è un martedì, Eric e Dylan vanno a scuola. Prima mettono insieme fucili da caccia e pistole automatiche, caricatori, munizioni, coltelli ed esplosivi che si sono procurati facilmente attraverso amici e prestanome o che hanno trovato su internet. Li nascondono sotto un paio di impermeabili neri, entrano alla Columbine High School, che sta vicino a Denver, in Colorado, e in poco più di una ventina di minuti di fuoco ammazzano dodici studenti e un insegnante, feriscono altre ventiquattro persone e poi si fanno saltare la testa, Dylan con la Tec 9 ed Eric con il Savage-Springfield. È il massacro della Columbine, che non è certo il primo nel suo genere, ma contribuisce ad ispirare saggi, articoli documentari e film, come Bowling a Columbine di Michael Moore o l’agghiacciante e bellissimo Elephant di Gus Van Sant. E ispira un dibattito che continua ancora adesso, massacro dopo massacro, come quello appena avvenuto alla scuola elementare di Uvalde, in Texas. Massacro dopo massacro, dibattito dopo dibattito. Ma la cosa più assurda è che da quel 1999 in alcune zone degli Stati Uniti le armi in libera vendita sono diventate ancora più potenti. E le restrizioni al loro acquisto ancora più blande. Armi facili, negli Usa è in corso un assalto all’idea di dovere civico di Paul Krugman* La Stampa, 6 giugno 2022 È difficile dire quale sia la più deprecabile tra le reazioni dei repubblicani all’ultima strage con armi da fuoco. Il tremendo senatore Ted Cruz, su cui si può sempre contare, ha attirato grande attenzione sostenendo che la soluzione migliore sarebbe mettere guardie armate in tutte le scuole, e non importa se il sistema scolastico di Uvalde ha già un suo contingente di polizia e se sembra che gli agenti siano arrivati sulla scena del delitto subito dopo l’arrivo dell’assassino. Anche il supermercato di Buffalo - dove appena dieci giorni prima c’era stata un’altra strage - aveva un agente della sicurezza armato che è rimasto ucciso perché la sua pistola non è riuscita a perforare il giubbotto antiproiettile del killer. Se vi interessa la mia opinione, tuttavia, credo che la risposta peggiore e la più agghiacciante sia quella di Dan Patrick, vicegovernatore del Texas, che ha dichiarato che dovremmo “rendere più inespugnabili i bersagli, facendo sì che sia difficile entrarvi a eccezione di un unico accesso”. Una restrizione di questo tipo avrebbe interessanti ripercussioni nell’eventualità di un incendio. In ogni caso, comunque, proviamo a riflettere sulle parole di Patrick: in una nazione che si presume in pace, dovremmo considerare le scuole “bersagli” che dovrebbero essere resi “inespugnabili”. Che cosa implicherebbe questo per la pubblica istruzione, da molte generazioni una delle esperienze più caratterizzanti del fatto di crescere in America? Non vi preoccupate, dice qualcuno che scrive su The Federalist: le famiglie possono sempre tenere al sicuro i figli ricorrendo all’istruzione domiciliare. In verità, se si prendono alla lettera Cruz, Patrick e altri, le loro proposte equivalgono a un’esortazione a trasformare la terra della libertà in un enorme campo armato. In America ci sono circa 130mila scuole tra materne, elementari e medie; ci sono quasi 40mila supermercati; c’è un numero incalcolabile di locali che potrebbero essere presi di mira da chi spara indiscriminatamente. Insomma, proteggere tutti questi luoghi pubblici come suggeriscono i repubblicani richiederebbe la creazione di una forza difensiva dotata di armi pesanti e addestrata militarmente - armi pesanti per affrontare aggressori e killer dotati di giubbotti antiproiettile e armi semiautomatiche - grande più o meno come l’intero corpo dei Marine. Perché una cosa del genere dovrebbe essere mai necessaria? Le sparatorie e le stragi sono rare fuori dagli Stati Uniti. Perché da noi sono così frequenti? Non perché siamo una nazione dove un diciottenne disturbato può tranquillamente acquistare armi da combattimento e giubbotti antiproiettile, secondo la legge statunitense. No, dice Patrick: le stragi da noi ci sono perché “siamo una società grezza”. So che il mio tentativo è senza speranza, ma immaginate che reazioni scatenerebbe un illustre politico liberal se dichiarasse che il motivo per cui gli Stati Uniti hanno un grave problema sociale, inesistente altrove, è che gli americani sono un popolo empio: non ci sarebbe fine all’ondata di improperi. Se lo dice un repubblicano, invece, provoca solo qualche increspatura in superficie. Immagino di dover dire per la cronaca che, per quanto mi riguarda, non credo proprio che gli americani, come individui, siano peggiori di chiunque altro. Semmai, quando ritorno dai miei viaggi all’estero, resto sempre molto colpito dalla gentilezza e dal grande piacere che procura (o procurava) interagire con gli americani. A distinguerci è il fatto che, da noi, è estremamente facile per le persone che non sono cortesi armarsi fino ai denti. Va bene, penso che tutti si rendano conto che niente di quello che stanno dicendo i repubblicani su come reagire alle sparatorie di massa si tradurrà in proposte politiche concrete. Fanno fatica perfino a dire qualcosa di sensato. Piuttosto, stanno facendo un gran baccano per sovrastare il dibattito razionale fino a quando l’ennesimo episodio atroce non sparisce dai notiziari. La verità è che i conservatori considerano le sparatorie - e, per quel che conta, il tasso paurosamente alto di morti provocati da armi da fuoco nel complesso - come un prezzo accettabile da pagare pur di perseguire la loro ideologia. Ma di che ideologia si tratta? Direi che, pur non essendo del tutto sbagliato parlare di una cultura americana unica basata sulle armi, definirla tale in ogni caso è riduttivo. Ciò a cui stiamo assistendo è un assalto di vasta portata all’idea stessa di dovere civico, all’idea che le persone debbano seguire alcune regole, accettare restrizioni nel loro comportamento e proteggere le vite dei loro concittadini. In altri termini, dovremmo pensare alla violenta opposizione alla regolamentazione delle armi come a un fenomeno collegato da vicino alla violenta opposizione (assai di parte) all’obbligo di indossare la mascherina e vaccinarsi in presenza di una pandemia letale, alla violenta opposizione alle regole per la tutela dell’ambiente come la messa al bando dei fosfati nei detersivi e così via. Da dove arriva tutto questo odio nei confronti dell’idea di dovere civico? Senza dubbio in parte, come quasi tutto nella politica degli Stati Uniti, è collegato alla razza. Questo odio non riflette, invece, un’altra cosa: la nostra tradizione nazionale. Quando si sente parlare di istruzione domiciliare, è opportuno ricordare che gli Stati Uniti in sostanza hanno inventato l’istruzione pubblica universale. Le tutele ambientali un tempo erano una questione non di parte: il Clean Air Act fu approvato dal Senato nel 1970 senza neanche un voto contrario. E, mettendo in disparte la mitologia hollywoodiana, la maggior parte delle cittadine del Vecchio West aveva restrizioni molto più severe sul porto d’armi rispetto al Texas del governatore Greg Abbott. Come ho detto prima, non capisco davvero da dove provenga tutta questa ostilità nei confronti delle regole di base di una società civile. Quel che è chiaro, invece, è che quelle persone che invocano ad alta voce la libertà sono le stesse che stanno facendo del loro meglio per trasformare l’America in un incubo distopico alla Hunger Game, con checkpoint ovunque su cui incombono minacciosi uomini armati. *Traduzione di Anna Bissanti Tunisia. I magistrati si ribellano al presidente Saied di Youssef Siher Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2022 Sciopero di 7 giorni dopo la rimozione di 57 giudici. Scontri tra manifestanti e polizia. L’indizione dello sciopero da parte dell’Associazione dei magistrati arriva nello stesso giorno in cui si riunisce per la prima volta il Comitato consultivo per gli affari economici e sociali della Tunisia, parte del “Dialogo nazionale”, tenutasi sabato 4 giugno a Cartagine. Nei giorni scorsi erano state forti le proteste di partiti e sindacati per l’esclusione di alcune formazioni dai vertici. L’Associazione dei magistrati tunisini (Amt) ha annunciato uno sciopero di una settimana a partire da lunedì 6 giugno in segno di protesta contro la recente decisione del presidente Kais Saied di rimuovere 57 giudici dal loro incarico con l’accusa di “aver insabbiato casi di terrorismo, corruzione, molestie e collusione con partiti politici”. “Questa ingiustizia non passerà sotto silenzio. Le voci libere non saranno mai messe a tacere”, ha detto il presidente dell’Amt, Anas Hamaidi, spiegando che “l’attacco non è stato solo contro i giudici, ma anche contro la legge e le libertà”. Durante una sessione straordinaria della direzione, l’Amt ha inoltre affermato che le recenti decisioni del capo dello Stato “minacciano l’indipendenza della magistratura e violano i diritti dei giudici”, preannunciando ricorsi in tutte le sedi giurisdizionali possibili, anche internazionali. Hamaidi ha espresso la sua solidarietà ai giudici destituiti con il decreto presidenziale, dicendo che è la prima misura di questo tipo a livello mondiale. Da parte sua, il presidente del disciolto Consiglio superiore della magistratura Youssef Bouzakher ha invitato tutte le parti in causa a rispondere in modo adeguato ai provvedimenti presidenziali contro i giudici. L’indizione dello sciopero da parte dell’Associazione dei magistrati arriva nello stesso giorno in cui si riunisce per la prima volta il Comitato consultivo per gli affari economici e sociali della Tunisia, parte del “Dialogo nazionale”, tenutasi sabato 4 giugno a Cartagine. Parlando ai giornalisti, Sadok Belaid, coordinatore della Commissione consultiva nazionale per una nuova Repubblica incaricata di elaborare una bozza costituzionale da presentare al presidente Kais Saied entro il 20 giugno, ha detto: “Abbiamo invitato 42 personalità” che hanno partecipato tutte, nonostante le “pressioni”, preannunciando che il secondo incontro si terrà l’11 giugno “per concretizzare le proposte dei partecipanti”. E riguardo al rifiuto di partecipare al dialogo da parte del più grande sindacato del Paese, l’Ugtt, Belaid ha osservato che “l’assenza dell’organizzazione sindacale non ha influito sullo svolgimento del dialogo, a differenza di quanto riferito sul tema dai media”. “La porta è sempre aperta alla partecipazione dell’Ugtt e di altri partiti, purché abbiano le giuste intenzioni”, ha assicurato Belaid precisando che gli inviti sono stati inviati a personalità ed esperti nazionali, ovvero a organizzazioni della società civile e partiti politici, oltre che a 25 “intellettuali”. Sempre nella giornata di sabato sono scoppiati scontri tra la polizia tunisina e manifestanti che protestavano contro il presidente Kais Saied nella capitale Tunisi. Durante le proteste, organizzate da cinque piccoli partiti politici, le forze dell’ordine hanno bloccato i manifestanti mentre marciavano verso la sede del consiglio elettorale, il cui capo è stato sostituito da Saied il mese scorso con una mossa che gli esperti hanno giudicato utile al capo dello Stato per estendere il suo controllo sulle istituzioni statali. Rashid Ghannouchi, presidente del disciolto Parlamento tunisino, ha chiesto in una dichiarazione che “le forze nazionali, i partiti, la società civile, stiano al fianco dei giudici nella resistenza alla brutale dittatura per preservare una magistratura indipendente”. Saied da parte sua sta giustificando il suo operato riprendendo la narrativa populista secondo cui i problemi del Paese nordafricano sono colpa dei politici corrotti e della magistratura che li ha coperti. Il suo consenso popolare non sembra infatti diminuire. Secondo un sondaggio condotto da Emrhod Consulting, commissionato dai media Business News e Attessia tv, il presidente tunisino rimane in testa nelle intenzioni di voto per le presidenziali con il 70% delle preferenze degli elettori. L’ipotetico “partito di Saied”, nel caso in cui si dovesse formare, sarebbe il secondo partito tunisino secondo i sondaggi, con il 20% delle intenzioni di voto, dietro solo al Partito Desturiano Libero (Pdl) di Abir Moussi, al 33%. L’indice di gradimento dei tunisini del suo comportamento si attesta però al 57%, il più basso dalla sua presa di potere del 25 luglio 2021. Emirati Arabi. Finiscono di scontare la pena ma restano “trattenuti” in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2022 Le scintillanti immagini da cartolina che siamo abituati a ricevere dagli Emirati Arabi Uniti lasciano sempre in ombra un lato B tutto meno che moderno, fatto di repressione e di arbitrio. A marzo e aprile dieci prigionieri, arrestati nel 2012 durante uno dei consueti giri di vite contro il dissenso hanno terminato di scontare la pena. Eppure, sono ancora privati della libertà. I dieci fanno parte della cosiddetta “inchiesta sui 94”, attraverso la quale le autorità emiratine si sono sbarazzate, attraverso processi irregolari e confessioni estorte con la tortura, del movimento politico al-Islah, affiliato alla Fratellanza musulmana. Dei 94 indagati, 64 ricevettero condanne inappellabili. Ai sensi della legge antiterrorismo del 2014, l’ufficio della Procura federale può chiedere ai tribunali di trattenere “persone che hanno adottato idee estremiste o terroriste” anche dopo la fine della condanna. I detenuti vengono trasferiti nelle sezioni delle prigioni chiamate “strutture di consulenza”, le cui direzioni riferiscono ogni tre mesi sulle loro condizioni in vista di una possibile scarcerazione. Una pura formalità. Contro questa procedura arbitraria non c’è modo di fare ricorso. Dal 2017, secondo Amnesty International, sono 24 i detenuti rimasti in carcere dopo la fine della pena. Sette sono stati rilasciati nel corso degli anni successivi ma 17 sono ancora nella fase della “consulenza”. Tra detenuti in “consulenza” e altri che stanno ancora scontando la pena, oggi sono 32 gli emiratini in carcere solo per il pacifico esercizio dei loro diritti alla libertà di espressione o di associazione. *Portavoce di Amnesty International Italia