“Con la legge contro i bambini in carcere, il Parlamento dimostra di lottare per gli innocenti” di Paolo Siani* L’Espresso, 5 giugno 2022 “Ma ora serve fare presto in Senato per non sprecare tutto”. Il commento del deputato che ha firmato il pdl approvato alla Camera che cancella la possibilità per i bimbi di essere reclusi con le madri. Una battaglia portata avanti anche dall’Espresso. Quasi all’unanimità, con soli 7 voti contrari e due astenuti, il 30 maggio la Camera dei Deputati ha approvato in prima lettura la mia proposta di legge su mamme detenute e bambini, che disciplina l’istituzione delle case famiglia protette come unica scelta per far scontare la pena a una donna in stato di gravidanza o con un bambino fino a 6 anni di età. È previsto, infatti, l’obbligo per il ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee ad ospitare case famiglia protette, alternative agli istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM), ai quali si continuerà a fare ricorso soltanto laddove esistano esigenze cautelari di particolare rilevanza. L’ICAM, che è pur sempre un carcere, offre però una sistemazione più accogliente per il bambino, senza fare sconti di pena alla mamma detenuta. Inoltre, si stabilizza il fondo costituito dall’art. 1, comma 322, della legge n. 178 del 2020, al fine di contribuire all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia protette, prevedendo che i criteri individuati per il riparto delle risorse del fondo fra le regioni possano essere aggiornati con cadenza triennale. La proposta di legge vuole così superare le criticità emerse in sede di applicazione della legge n. 62 del 2011, che prevedeva già la realizzazione delle case famiglia protette senza oneri per lo Stato. In Italia ci sono attualmente 5 ICAM e solo due case famiglie protette, una a Roma e una a Milano. Adesso, come evidenziato in precedenza, il Ministero della Giustizia avrà l’obbligo di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee per realizzare case famiglia e i Comuni dovranno utilizzare a tale scopo prioritariamente immobili di loro proprietà, adottando i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne, una volta espiata la pena detentiva. Nessun bambino quindi varcherà più la soglia di un carcere. Non ci saranno più bambini nella sezione nido di Rebibbia, per esempio, lì dove nel 2018 una mamma reclusa uccise i suoi due figli di 6 e 18 mesi, scaraventandoli giù dalle scale e urlando “ora siete finalmente liberi”, o dove una donna la scorsa estate fu costretta a partorire in piena notte. La proposta di legge, in aggiunta, equipara alla condizione dell’ultrasettantenne - per il quale la custodia cautelare in carcere è consentita solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - quella dell’imputato unico genitore di una persona con disabilità grave e interviene sull’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena, che viene esteso anche al padre di un bambino che abbia meno di un anno (quando la madre sia deceduta o comunque impossibilitata a dare assistenza ai figli) e alla madre (o al padre) di un figlio con disabilità grave che abbia meno di 3 anni. Secondo il rapporto Space dell’ultimo Consiglio d’Europa, a gennaio 2020 nel Vecchio Continente c’erano 1608 bambini che convivevano con la madre in un istituto penale (dati di 37 amministrazioni). Alla luce della normativa vigente nei diversi Paesi europei, il limite massimo di età per la permanenza dei bambini in carcere è variabile tra le nazioni. In Inghilterra, circa il 60% delle donne detenute ha figli minori. Di queste, solo il 3% ha la possibilità di tenere presso di sé il bambino. Al bambino è consentito di vivere con la madre detenuta fino ad un massimo di 18 mesi di vita, ad eccezione di specifiche circostanze in cui i due possono risiedere nelle “Mother and Baby Units”. Il termine massimo di età è invece di 3 anni in Portogallo e in Spagna, mentre in Finlandia il bambino può vivere in carcere con la madre fino all’età di 2 anni. In Francia non è previsto un limite di età per il bambino ma l’età media dei bambini in carcere con le mamme è inferiore ad un anno di vita. Le medesime condizioni sono rispettate in Lussemburgo, dove la richiesta di ammissione del bambino viene analizzata a seconda del caso, insieme ad un Giudice del Tribunale dei Minori. La nostra proposta di legge, piuttosto avanzata rispetto agli altri Paesi europei, offre uno strumento giuridico per dimostrare che il Parlamento vuole lottare per tutti gli innocenti, iniziando proprio dai bambini. Ora bisognerà fare in modo che venga in fretta esaminata anche dal Senato prima che termini la Legislatura, per non rendere vano un lavoro lungo e difficile, durato oltre due anni. Molto resta ancora da fare per rendere le nostre carceri luogo di rieducazione così come stabilisce la Costituzione. Ma quello appena compiuto è un primo passo che tutela in via prioritaria i diritti dei bambini. *Vice Presidente Commissione parlamentare infanzia e adolescenza Gli Opg si superano limitando la reclusione di Giovanna Del Giudice* L’Espresso, 5 giugno 2022 In questi giorni alcuni interventi su organi di stampa e non ultimo il proscioglimento per vizio totale di mente da parte della corte d’Assise di Trieste di Alejandro Meran, che nell’ottobre 2019 nella questura di Trieste ha ucciso due poliziotti con una pistola sottratta ad uno di questi, riportano l’attenzione sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, sulle questioni ancora da affrontare. A 5 anni dalla chiusura degli Opg e dall’apertura delle Rems in tutte le regioni italiane il quadro che abbiamo di fronte presenta numerosi elementi di criticità, come sempre accade quando, avviato un cambiamento radicale, non si procede nel percorso, non si affrontano le contraddizioni successive, non si arriva alle questioni nodali: in questo caso la rivisitazione degli articoli 88 e 89 del Codice penale Rocco del 1930 sulla non imputabilità della persona con disturbo mentale autrice di reato. Con la chiusura degli Opg è come se si fossero “spenti i fari” della politica su un processo non ancora concluso. Solo a settembre del 2021, anche a seguito delle reiterate richieste da parte del Coordinamento nazionale salute mentale, il ministero della Salute ha attivato l’Organismo di coordinamento relativo al superamento degli Opg con esperti nominati dal ministero della Salute e dal ministero della Giustizia e rappresentanti delle Regioni, che ha il compito del “monitoraggio delle attività poste in essere dalle Regioni e Province autonome per garantire il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Infine il pronunciamento della Corte Costituzionale del febbraio scorso, a seguito del ricorso sulla non costituzionalità della legge 81/2014 posto dal Tribunale di Tivoli, ha riaperto il dibattito e riacceso l’attenzione tra i tecnici della magistratura e della salute, in particolare sul numero di posti di Rems, sulla lista di attesa per il ricovero in Rems, su alcune decine di persone che, in attesa di essere trasferite nelle Rems, permangono in carcere. Guardando da vicino le Rems, e dovremmo farlo a vario titolo rompendo la non attraversabilità delle stesse, vediamo che queste appaiono di norma come contenitori della miseria più che della pericolosità sociale, come peraltro erano i manicomi e gli Opg. Le crude fotografie de L’Espresso del 1° maggio scorso ci riportano tragicamente a questa realtà. La presenza nelle Rems di un numero non esiguo di internati per reati bagatellari, quali oltraggio a pubblico ufficiale, mostra che siamo lontani dall’applicazione della Legge 81/14 ove il ricovero in Rems è previsto come “misura residuale”. Appare evidente che parte della magistratura rimane ancorata a posizioni che si rifanno ad una psichiatria custodialistica che si vuole asservita alla giustizia; che i periti scelti sono troppo spesso espressione di questa cultura; che il rapporto tra magistrati e operatori dei servizi della salute mentale, pure quando questi hanno in carico la persona, è poco praticato, con spreco di tempo e di risorse per interventi che potrebbero trovare risposte immediate; che si ricorre alle Rems in maniera rilevante per misure di sicurezza provvisorie, per reati non gravi ma con finalità di controllo sociale. Vanno a questi nodi riportate a mio parere le liste di attesa e le detenzioni in carcere illegittime di persone con misure di sicurezza. Infine, ma non meno importante, è il grave abbandono attuato in questi ultimi anni - in termini culturali, di modelli organizzativi, di risorse dedicate - dei servizi della salute mentale e del welfare. Questo rappresenta un grave vulnus per l’applicazione della riforma di superamento degli Opg che fonda la sua applicabilità sul Dipartimento di salute mentale e più in generale sulla rete dei servizi del welfare di comunità. E veniamo al grande equivoco, condiviso pure da uomini di diritto, che vede le Rems come le strutture che hanno sostituito l’Opg, confermando così, e implementando, la cultura dell’internamento del malato di mente contro la logica di presa in carico della persona nel territorio sancita dalla legge 180/1978 e dalla legge 81/2014. Questione non da poco che produce richieste non accettabili di aumento delle Rems e in generale di residenze (i nuovi manicomi?) dove custodire e recludere. Ci pare importante in questo quadro della Salute e dal ministro della Giustizia al Parlamento del settembre 2014 “Sullo stato di attuazione delle iniziative per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari” indicava che sugli 846 internati negli Opg solo 1’8,5 per cento, circa 70 internati, conservava la condizione di “pericolosità sociale” connotandosi come “non dimissibile”. Un numero che doveva essere alla base della programmazione del numero dei posti di Rems visti come soluzione estrema. Va poi ribadito che il ricovero in Rems è considerato dalla legge 81/14 transitorio, fino al persistere della pericolosità sociale, da riesaminare ogni 6 mesi. Lascia quindi sconcertati la sentenza della corte d’Assise, di cui aspettiamo le motivazioni, nei confronti di Alejandro Meran, “condannato” a 30 anni di Rems. A quale norma fa riferimento, se il codice penale definisce la misura di sicurezza minima di 10 anni per il fatto reato che prevede l’ergastolo? È possibile poi, ai sensi della legge 180/1978 e della legge 81/2014, condannare una persona a 30 anni di reclusione in una struttura terapeutica riabilitativa? Dagli organi di stampa emerge infine che la procura di Trieste chiede che Meran venga assegnato ad una Rems in grado di far fronte alla sua pericolosità sociale, immaginando quindi una gradualità di capacità custodiate delle Rems certamente non prevista dalla legge 81/14. Oggi appare sempre più necessario ribadire alcuni punti fermi da cui ripartire per il completamento del processo di superamento degli Opg. Tenendo conto della sentenza della Corte Costituzionale 22/2022 e della Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, appare non prorogabile la rivisitazione dei articoli 88 e 89 del codice penale con l’affermazione della piena responsabilità della persona con disturbo mentale e del suo diritto al processo, come previsto dalla proposta di legge 2939/2021 a firma dell’onorevole Magi. *Psichiatra, tra i collaboratori di Franco Basaglia negli anni 70 a Trieste. È Presidente di Conferenza salute mentale Franco Basaglia e componente dell’Organismo di coordinamento relativo al superamento degli Opg presso il ministero della Salute. Arresti, incandidabili, Csm. I quesiti alla prova del quorum di Simone Alliva L’Espresso, 5 giugno 2022 La consultazione referendaria in materia di giustizia, porte girevoli per i magistrati, custodia cautelare e abolizione della Severino rischia il flop. I referendum sulla giustizia non hanno abbastanza appeal. Lo hanno capito soprattutto gli addetti ai lavori e basta fare un giro nelle procure italiane, attraversare quelle grigie stanze che odorano di vuote attese, di faldoni pieni di acari e burocrazia per capire che c’è scarsa la fiducia verso il 12 giugno, giorno in cui, dalle 7 di mattina alle 23, si voteranno i cinque quesiti promossi dal Partito radicale, sostenuti del leader della Lega Matteo Salvini. Per la validità della consultazione referendaria è necessario che l’affluenza superi il 50 per cento degli aventi diritto: in caso positivo, è la prevalenza dei “sì” o dei “no” a decretare la sorte dei singoli quesiti. Ci vorrebbe un influencer, una challenge su Tik Tok o forse un hashtag per far interessare gli elettori. Ma niente. La campagna referendaria non è mai entrata nel vivo: “Un fatto inedito”, sottolineano Partito Radicale e Associazione nazionale Lista Marco Pannella che hanno denunciato all’Agcom “le testate giornalistiche e gli approfondimenti informativi Rai relativamente alla pressoché totale assenza di informazione sui referendum, in violazione di ogni legge e regolamento elettorale referendario”. Oggi sono note le posizioni dei partiti: a favore di tutti i quesiti sono schierati Lega, Radicali, Fi, Iv e Azione. Fdi, invece, è a favore di quelli sui magistrati ma contrario a quelli sulla Severino e sulla custodia cautelare. Il Pd lascia libertà di voto, mentre il M5s è nettamente contrario a tutti. Meno noti agli elettori i contenuti dei quesiti, eccoli. Separazione delle carriere. Oggi, pubblico ministero e giudice condividono la stessa carriera e si distinguono solo per funzioni. Il referendum, invece, punta a rendere definitiva la scelta del magistrato all’inizio della carriera, di una o dell’altra funzione. E non potrà cambiare indirizzo. Abrogazione della legge Severino. Il quesito punta a cancellare la legge Severino, che ha introdotto i concetti di decadenza e incandidabilità dei condannati in via definitiva per reati gravi contro la Pubblica amministrazione, fissando inoltre un regime rigoroso per eletti e amministratori locali, non eleggibili o decaduti se condannati in primo grado. Con la vittoria dei sì, tornerebbe in vigore la legge precedente, che prevede l’interdizione dei pubblici uffici come pena accessoria decisa dal giudice. Misure cautelari. Cioè la detenzione degli indagati o imputati prima della sentenza definitiva. Con la vittoria dei sì, i presupposti che consentono di arrestare qualcuno (prima che sia riconosciuto colpevole) vengono ristretti ai casi di pericolo di fuga, inquinamento delle prove e rischio di commettere reati di particolare gravità, con anni o altri mezzi violenti. La custodia cautelare non sarà confermata per il reato di finanziamento pubblico dei partiti. Sistema di elezione del Csm. Il quesito riguarda le modalità con cui i magistrati interessati possono candidarsi al Csm. Al momento è necessario che ogni candidatura sia accompagnata da almeno 25 firme (e massimo 50) raccolte tra altri magistrati. La vittoria dei sì punta a far cancellare quest’obbligo. Secondo i promotori questo limiterebbe il peso delle correnti nel Consiglio superiore. Le pagelle ai magistrati. Gli avvocati potrebbero valutare la professionalità di pm e giudici. Attualmente, solo i membri togati partecipano attivamente al processo di valutazione dei magistrati, mentre i componenti laici sono esclusi. Il referendum chiede invece che anche i membri laici, ossia gli avvocati e i professori universitari, possano partecipare alle valutazioni. Giustizia, il “sì” per fermare gli eccessi della legge Severino di Filippo Facci Libero, 5 giugno 2022 Quinta e ultima puntata della mini-guida ai referendum che tutti gli italiani (ci auguriamo) andranno a votare il 12 giugno scrivendo o meglio barrando cinque “Si” chiari ed evidenti come la crisi strutturale della Giustizia italiana, per la quale, da qualche decennio, tutti invocano “riforme” e poi tranquilli se ne vanno a cena. La mancanza di incisività della nascente Riforma Cartabia e l’ormai scandaloso silenzio dei media sui referendum rendono ancora più urgente la necessità di correre alle urne anzitutto perché sia raggiunto il quorum che convalidi la consultazione (50 per cento più uno) e poi perché sia lanciato un segnale forte che nella sostanza, a margine dei parolami da talkshow, sembra proteso a lasciare le cose così come stanno. Referendum sull’abolizione del Decreto Severino. Come si evince, la volontà è quella di eliminare il decreto legislativo numero 235 del 31 dicembre 2012 (che fa parte della Legge 190, nota come Legge Severino, ministro guardasigilli durante il governo di Mario Monti) che è solo una parte di uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione legiferati nell’ultimo decennio. Ha una storia strana, perché il primo a metterci mano fu il premier Silvio Berlusconi, dopodichè, quando cambiò il governo, il decreto divenne uno strumento che sembrava disegnato ad personam contro di lui. Le stime sul costo della corruzione in Italia (elevate, ma assai sopravalutate) spinsero il governo Berlusconi e il suo ministro Guardasigilli Angelino Alfano a varare un disegno di legge con varie misure per la prevenzione e la repressione del fenomeno nell’amministrazione pubblica, ma l’iter di approvazione passò poi sotto il governo Monti che varò una serie di limiti severi che limitavano la presenza di persone che avevano commesso certi reati nel rivestire cariche elettive. In concreto: divieto di ricoprire incarichi di governo e incandidabilità (quindi ineleggibilità) per ogni tipo di elezioni, ed eventuale decadenza dalle cariche in caso di condanna in via definitiva per certi reati commessi anche prima dell’entrata in vigore del decreto. Se la condanna non fosse definitiva, la carica è comunque sospesa per un anno e mezzo. Vale per reati che prevedono condanne a più di due annidi carcere e quindi, tra queste, peculato, corruzione, concussione, mafia e terrorismo. Le ragioni del sì. Se il referendum passerà si tornerà a com’ era prima del 2012: il che non significa che qualsiasi condannato possa candidarsi e governare, ma che si toglierà un automatismo che non discrimina tra i singoli casi ma riporterà a lasciar decidere i giudici circa l’opportunità di aggiungere alla pena anche l’interdizione dai pubblici uffici. Non di rado è accaduto che l’automatismo (nel caso di alcuni sindaci, in particolare) abbia creato repentini vuoti di potere che con danni alle amministrazioni soprattutto nei casi di sospensioni di dirigenti poi rivelatisi innocenti, e quindi, sulla carta, con diritto di essere reintegrati. È tutto fuorchè un referendum contro la magistratura, perché l’intento è proprio rimettere nelle sue mani ogni valutazione discrezionale che riguardi l’interdizione dai pubblici uffici. Le ragioni del No. Chi si oppone usa lo stesso argomento, ma in negativo: la vittoria del “Sì” eviterebbe la sospensione automatica di sindaci e amministratori anche solo imputati (o condannati con sentenza non definitiva) e questo viene ritenuto inopportuno, benché contrasti col principio della presunzione di innocenza: non manca chi sostiene che la legge Severino sia infatti incostituzionale. Una parte dei contrari mantiene una linea più morbida e ritiene che la legge andrebbe solo modificata nella parte in cui prevede la sospensione in caso di sentenza non definitiva, mantenendo l’automatismo solo per i reati di mafia, terrorismo e reati contro la pubblica amministrazione: in pratica quasi tutti. Va detto che questo è uno dei due referendum per i quali Fdi ha indicato di votare “No”, perché “la legge Severino deve essere profondamente modificata per le sue evidenti storture”, ha detto Giorgia Meloni, “ma la sua totale abolizione significherebbe un passo indietro nella lotta alla corruzione, e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire”. La morale è amara. Che si tratti di condanne con annesso automatismo, oppure sia il giudice a esercitare la facoltà di prevedere l’interdizione dai pubblici uffici, le liste elettorali restano comunque in mano alla magistratura. Ermini: “Giusto consultare i cittadini sulla giustizia, ma serve dibattito parlamentare” di Davide Varì Il Dubbio, 5 giugno 2022 “Non dico cosa voto e non dico cosa mi auguro. Ma sulla riforma basta bandierine”, dice il vicepresidente del Csm. “In Italia le indagini sono sinonimo di colpevolezza, ma il nostro sistema è garantista”. “Non dico cosa voto e non dico cosa mi auguro. Penso che temi così importanti abbiano la necessità di un dibattito approfondito, molto tecnico, parlamentare. Dopodiché è ovvio che quando si dà la parola ai cittadini, chiamare i cittadini alla partecipazione, come previsto dalla Costituzione, è sempre un fatto positivo”. Lo dice il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, oggi al tribunale di Pescara, riferendosi ai quesiti referendari sulla giustizia che chiamano alle urne gli italiani domenica 12 giugno. Il vice del Csm è intervenuto nel convegno “Le indagini preliminari, le paure di ogni cittadino e la soluzione scritta dall’articolo 358 cpp”, incentrato sulla delicata fase delle indagini e degli accertamenti della persona indagata, da parte del magistrato inquirente, disciplinata dall’art. 358 del Codice di procedura penale. “Purtroppo in Italia abbiamo spesso confuso le indagini preliminari già con un’indicazione di colpevolezza. In realtà lo stesso avviso di garanzia dovrebbe essere semplicemente un avviso che dà una garanzia al cittadino sotto indagine affinché possa difendersi. Tutto rientra in questo concetto”, ha sottolineato Ermini. Rispondendo ai giornalisti sul titolo del convegno, Ermini ha evidenziato che “non è un problema di paura, è un problema di rispetto delle norme indicate dal codice di procedura penale. In Italia il pubblico ministero, che è un magistrato può chiedere il rinvio a giudizio o chiedere l’archiviazione. Le norme mi pare che siano chiare”. “Si tratta - prosegue Ermini - di trovare la mentalità collettiva tutti insieme, tutti gli operatori, sia quelli della giustizia sia dell’informazione. Tante volte anche in politica si usano le indagini a carico dell’avversario come fosse già una colpevolezza. Il nostro sistema è garantista, deve consentire al cittadino di portare elementi a suo discarico e il pubblico ministero li deve giustamente valutare”. Per quanto riguarda la riforma Cartabia, secondo Ermini in Italia c’è un “sistema dove il tema della giustizia sembra intoccabile. Anche in un momento in cui la maggioranza di Governo ha l’80% dei voti in Parlamento, il tema della giustizia riesce a essere sempre divisivo. O cogliamo questa occasione per fare qualcosa di positivo, oppure ho paura che la riforma della giustizia sia un alibi per continuare a non perdere le bandierine”. “Io credo - evidenzia il magistrato - che le banderine sui temi della giustizia non ci debbano essere, perché toccano tutti, di qualsiasi ceto, di qualsiasi colore, di qualsiasi pensiero. Allora - ha concluso - è giusto che lo Stato dia risposte che siano efficaci ed effettive, anche nel rispetto delle norme europee”. Riforma Csm, Manes: “Basta show, la cronaca rispetti l’indagato” di Liana Milella La Repubblica, 5 giugno 2022 L’avvocato e autore del libro “Giustizia mediatica” interviene sulle sanzioni ai pm che parlano con la stampa. Lei, Vittorio Manes, ha appena pubblicato un libro dal titolo inquietante per un giornalista: “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino). Ne deduco che sia un fan della direttiva sulla presunzione d’innocenza... “Sì perché è una garanzia primordiale e basilare in uno Stato di diritto, la più semplice e purtroppo la più disarmata, ed è la prima vittima della giustizia mediatica”. Lei è un avvocato di grido. Condivide la stretta sulla comunicazione? “Ne condivido profondamente lo spirito, al di là dei dettagli tecnici che sono sempre perfettibili. Essa richiama i primi attori istituzionali, magistrati e funzionari di polizia giudiziaria, a rispettare i diritti in gioco, e vieta di presentare in pubblico l’indagato come colpevole sino a quando non sarà giudicato tale da una decisione definitiva di condanna. È una norma di civiltà, della cui importanza si rende conto, purtroppo, solo chi ha la ventura di finire sotto processo, quando è troppo tardi”. Notizie solo se c’è “interesse pubblico”, così muore la cronaca giudiziaria... “È un tentativo di correggerne aspetti patologici, instradandola in una dimensione più rispettosa dei diritti in gioco. Alcune forme di narrazione giudiziaria non hanno nulla a che vedere con la cronaca, travolgono e distruggono i diritti fondamentali degli indagati e dei terzi anche solo marginalmente coinvolti nella vicenda, squadernando e saccheggiando le loro vite private. Inammissibile in una democrazia”. Non la preoccupa che un giornalista non potrà più chiedere a un pm perché ha arrestato un suo cliente, magari mettendo in evidenza errori commessi? “Potrà e dovrà farlo muovendo dalla comunicazione istituzionale che ha accompagnato quel processo, senza binari informali e privilegiati”. La cappa di piombo sulla stampa gioverà all’imputato? “Non vedo cappe. E sono convinto che solo un’informazione corretta giovi alla giustizia e ai giornalisti più seri e autorevoli. Ormai siamo abituati a considerare cronaca giudiziaria anche spettacoli di puro intrattenimento e talk show, o reportage ad alto impatto emotivo e a basso titolo di credibilità, che con la cronaca giudiziaria non hanno nulla a che fare. Distinguere il grano dalla gramigna è necessario e urgente”. Lei è un penalista di casa alla Consulta. Queste norme violano la libertà di stampa protetta dalla Costituzione? “La Corte ha dimostrato molta sensibilità per il diritto d’informare, bilanciando sempre questi diritti con quelli contrapposti, quale onore e reputazione, riservatezza e vita privata e familiare. L’auspicio è che manifesti lo stesso equilibrio anche verso la presunzione d’innocenza, riconoscendole la centralità che occupa nella Costituzione e nell’architettura dello Stato di diritto”. Cantone sulla presunzione d’innocenza: “Il mio ufficio è aperto a tutti. No alle sanzioni” di Liana Milella Il Dubbio, 5 giugno 2022 Il procuratore di Perugia: “Abbiamo trovato un equilibrio, diffondiamo ai giornalisti le ordinanze di custodia”. Raffale Cantone, procuratore a Perugia, tre giorni fa lei ha diffuso una circolare che autorizza i giornalisti a chiedere copia delle ordinanze. Non teme di violare la presunzione d’innocenza? “Assolutamente no. L’articolo 114 del codice di procedura penale, che disciplina il divieto di pubblicare atti e immagini e che ho richiamato, non è stato toccato dalla riforma sulla presunzione. Avevo già anticipato la mia intenzione quando ho pubblicato la direttiva precedente che metteva in pratica il testo sulla presunzione d’innocenza. Sia il Pg della Cassazione Salvi che quello di Perugia Sottani, nei loro atti, erano favorevoli”. Ai tempi di Berlusconi si parlava di “bavaglio”. Ora che la Guardasigilli è una ex presidente della Consulta come Cartabia l’espressione suona singolare. Ma quella direttiva sta chiudendo i palazzi di giustizia… “Non sono d’accordo sulla definizione di bavaglio. È una norma che ha anche aspetti positivi, ha reso tracciabili le notizie date alla stampa eliminando l’ipocrisia che consentiva ai giornalisti di scrivere di giudiziaria, senza stabilire da dove arrivassero le informazioni. L’irrigidimento c’è, ma può essere compensato con l’accesso ai provvedimenti giudiziari e soprattutto alle ordinanze cautelari. Strada già seguita da altre procure come Napoli e Potenza”. L’ex procuratore Melillo cita risultati positivi... “Ho parlato più volte con lui della sua esperienza e ne ho tenuto conto. Ci tengo a dire che prima di adottare la direttiva l’ho trasmessa all’Ordine degli avvocati di Perugia e all’Ordine dei giornalisti. E ho accolto dei rilievi dell’avvocatura”. Un conto però è avere le ordinanze, altro un confronto con i pm… “Al pm era già precluso parlare con i giornalisti dalla riforma Castelli-Mastella, e quella Cartabia lo ha confermato. La stretta significativa riguarda soprattutto i rapporti con le polizie perché prevede che le loro note debbano essere autorizzate dal procuratore. Qui abbiamo trovato un equilibrio, i comunicati vengono autorizzati in tempo quasi reale, e quasi mai sono stati respinti”. Da dicembre lei ha fatto entrare la stampa in procura? Perché qui si rischia di trovare i cancelli chiusi… “Da quando si è attenuato il Covid il mio ufficio è aperto a tutti, e non abbiamo mai impedito l’accesso ai giornalisti, anche se i perugini sanno che i pm non possono riferire nulla. Non credo che questa riforma finirà per danneggiare la magistratura, dipenderà dalla capacità di attuarla, perché il comunicato può evitare una serie di distorsioni del passato e migliorare l’immagine della giustizia evitando spettacolarizzazioni e toni non consoni alla fase delle indagini preliminari”. Come giudica l’illecito sulla presunzione d’innocenza? “Lo considero inutile ed eccessivo”. Quell’argine morale che i politici non fissano di Lirio Abbate L’Espresso, 5 giugno 2022 La delega in bianco alla magistratura non ha innalzato una diga. L’idea di abolire la Severino ne è una prova. E intanto condannati per reati di mafia ispirano le scelte di una classe dirigente che ha la pretesa di presentarsi come nuova. Sulla questione amorale si ripropone il vecchio tema del rapporto fra etica e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia mai trovato una soluzione definitiva. Si parla abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo. Si tratta in tutte queste diverse sfere dell’attività umana sempre dello stesso problema: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito da ciò che è moralmente illecito. Il problema dei rapporti fra etica e politica è più grave. Ed ha senso soltanto se si è d’accordo nel ritenere che esista una morale e in linea di massima su alcuni precetti che la definiscono. L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso sé stessi. Nel dibattito sul problema della morale in politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri. Come racconta in questo numero L’Espresso, il ritorno di condannati per reati di mafia come Salvatore Cuffaro e Marcello Dell’Utri tradisce l’inadeguatezza di alcuni politici che non sono riusciti a far argine con ciò che è lecito da quello che è immorale. E non è servita nemmeno la delega che sempre più spesso in questi anni è stata data alla magistratura, per legittimare una classe dirigente che si voleva presentare come nuova. Sulla classe politica scrive Massimo Cacciari e sottolinea un passaggio: “Qui non si discute la fondatezza né il valore etico e civile della contestazione di un ceto politico che si ripiega ormai sulla conservazione di sé stesso: se è una parte dell’amministrazione dello Stato a condurla, questa non potrà mai, fisiologicamente, portare a quella riforma istituzionale che la natura della crisi imporrebbe”. Dopo Tangentopoli sarebbe dovuto partire un processo di rinnovamento costituente. Ma questa è rimasta la favola della seconda Repubblica. E intanto ci avviamo anche verso il referendum del 12 giugno. Fra i quesiti che vengono posti non comprendo come si possa pensare di abolire l’intera legge Severino, che è stata la prima grande risposta alla corruzione. È la normativa introdotta nel 2012 come barriera all’illegalità nella pubblica amministrazione. Cancellarla completamente non mi sembra ragionevole. C’è un aspetto della legge su cui va fatta una riflessione e su cui sono state depositate proposte di modifica, e cioè la sospensione automatica dall’incarico di amministratore di chi è condannato con sentenza non in via definitiva. Ma se aboliamo integralmente la Severino, un condannato per reati gravi o gravissimi può restare in carica. Si possono fare miglioramenti, ma non stravolgendo tutto. E una buona notizia arriva proprio dalla Camera che ha approvato a larga maggioranza la proposta di legge del deputato del Pd Paolo Siani con la quale mette fine al carcere per i bambini, figli di madri detenute. Le avevamo chiamate le prigioni degli innocenti nella nostra copertina del 27 marzo scorso. Avevamo puntato l’attenzione sugli istituti di pena in cui vivono anche i piccoli con le loro mamme recluse. Una situazione che, come spiegava l’inchiesta di Pietro Mecarozzi, riguardava 16 bambini, costretti a passare i primi anni della loro vita dietro le sbarre per colpe che non hanno commesso. Come avevamo evidenziato allora, non è importante il numero dei piccoli costretti a stare dietro le sbarre, per noi è importante che nessuno di loro ci sia. In attesa dei passaggi al Senato e poi nuovamente alla Camera, si compie un ulteriore passo in quello che abbiamo sostenuto con il nostro lavoro: mai più bambini in carcere. Appello a Cartabia per salvare lo stato dai depistaggi sulla mafia di Enrico Deaglio Il Domani, 5 giugno 2022 Trent’anni dopo la morte di Falcone e Borsellino la giustizia non ha ancora ammesso le sue colpe. Serve un segnale politico forte e c’è solo una persona che può darlo. Non c’è più tempo da perdere. “Gentile ministra della Giustizia Marta Cartabia, non trovi strano che una lettera privata venga resa pubblica attraverso un giornale. C’è una ragione; tutti ricordano che fu proprio in seguito alla pubblicazione su Domani di un’inchiesta sui pestaggi di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che Lei - la prima volta per un ministro! - volle sincerarsi di persona degli abusi che erano stati commessi nelle carceri, di sua giurisdizione”. “Le scrivo in merito al “depistaggio Borsellino”, oggi ufficialmente chiamato “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”; parliamo di indagini inquinate fin dall’inizio, di un grottesco pentito dichiarato attendibile da una generazione di magistrati”. Gentile ministra della Giustizia Marta Cartabia, non trovi strano che una lettera privata venga resa pubblica attraverso un giornale. C’è una ragione; tutti ricordano che fu proprio in seguito alla pubblicazione su Domani di un’inchiesta sui pestaggi di detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che Lei - la prima volta per un ministro! - volle sincerarsi di persona degli abusi che erano stati commessi nelle carceri, di sua giurisdizione. Le scrivo in merito al “depistaggio Borsellino”, oggi ufficialmente chiamato “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”; parliamo di indagini inquinate fin dall’inizio, di un grottesco pentito dichiarato attendibile da una generazione di magistrati. Parliamo di illegalità, di intimidazione della stampa, di torture. Ora si comincia a sussurrare che tutta quell’impostura abbia favorito i veri colpevoli. Ma se ne intuisce anche la potenza: l’infamia è stata mostruosa e troppe persone sono state coinvolte. Si scopre quanto la giustizia non abbia voglia di essere disturbata; quanto la giustizia sia permalosa, se offesa; si scopre che la giustizia ha molto potere e che non conosce pentiti, né rimorsi. Credo, signora ministra, che questo “trentennale di celebrazioni” sia stato per Lei, come per tutti i cittadini divenuti consapevoli dei fatti, fonte di un profondo disagio. Mi occupo da trent’anni di questa vicenda, con libri, articoli, consulenze a commissioni antimafia e ho appena pubblicato il libro che le ho fatto avere. Non ho scoop da proporre, né notizie di grandi complotti; né frammenti di intercettazioni segrete. Ho solo messo insieme date e luoghi, persone e movimenti finanziari, per arrivare ad alcune conclusioni che qui sintetizzo: le stragi del 92-93 (a Palermo e in continente) sono state realizzate sul campo da Cosa Nostra con l’aiuto e l’antica expertise di una parte dei nostri servizi segreti. L’obiettivo era il solito: sovvertire il nostro ordinamento democratico. In questa operazione il “clan Graviano” (una sconosciuta famiglia mafiosa di Palermo) ha avuto un ruolo operativo decisivo, in cambio di una “favolosa protezione” delle loro persone e dei loro affari. Per quanto riguarda il “concorso di pezzi dello stato”, un altro ruolo importante lo ha avuto tale Antonino Gioè, nello stesso tempo mafioso e parà della Folgore diplomato in sabotaggi, arruolato dai servizi già a metà degli anni Ottanta per “allontanare” il giudice Falcone da Palermo. Gioè è sulla collinetta di Capaci il 23 maggio 1992 e viene trovato morto impiccato nel carcere di Rebibbia nel maggio 1993. (In trent’anni la figura di Gioè non ha mai destato interesse in alcuna procura). Falcone dimenticato - Giovanni Falcone ha cominciato a morire alla fine degli anni Settanta, quando il giudice ha intuito la straordinaria potenza economica e finanziaria di Cosa Nostra e che la Sicilia si stava trasformando in un “narcostato”: mafia, cemento e il monopolio del traffico internazionale dell’eroina muovevano il paese Italia, altro che la Fiat; politica e magistratura erano nelle mani di Cosa Nostra. Nel 1992, uccisi lui e Borsellino, il famoso “follow the money” che aveva permesso a Falcone di capire, è stato vistosamente abbandonato. Né la procura nazionale antimafia, né le procure distrettuali hanno seguito il suo insegnamento. A indagare sui loro omicidi, i governi hanno chiamato direttamente i servizi segreti e un oscuro sbirro cui vennero dati poteri illimitati. Per prima cosa è stato risolto il “caso Riina” - diventato scomodo per tutti; “la bestia di Corleone” è stata “consegnata” dalla mafia stessa, dopo un lungo negoziato (con grandi passaggi di denaro e di favori tra l’uno e l’altro schieramento). Gentile ministra, apprendere alcuni particolari di quella cattura la interesserà: sono stati i Graviano a gestirla, addirittura fornendo vitto e alloggio agli eroi che hanno messo in atto la più grottesca messa in scena del secolo. Sono stati i Graviano a fornire alla giustizia il famoso Balduccio di Maggio, sì, quello del bacio ad Andreotti…, che si è rivelata essere una bella polpetta avvelenata. Finita questa operazione, è iniziato il depistaggio Borsellino, i cui frutti marci sono ancora tra noi. In cerca di un segnale - Sono passati trent’anni. Certo, oggi viviamo in un’altra Italia, dove la mafia fa parte del paesaggio e non uccide più nessuno, perché non ne ha necessità. La città di Palermo, appena finito il trentennale, eleggerà tra pochi giorni il sindaco che le è stato clamorosamente consigliato da due illustri condannati per mafia, la famosa “offerta che non si può rifiutare”. In sostanza, i palermitani hanno perfettamente capito chi ha vinto. Gentile ministra, Le sarei grato mi rispondesse. Anche se dovesse dirmi, semplicemente, che il mio lavoro è senza senso, frutto di fantasia, o addirittura offensivo nei confronti di chi da trent’anni è in prima linea contro la mafia. Ma se invece lo considerasse un’utile lettura, sarei felice che, anche su questo argomento, lei scendesse in campo. Sì, capisco: l’enormità di questa vicenda necessita che si ponderino bene le parole e gli atti; ma confido in Lei. Grazie per aver letto. Gratteri: “Il bavaglio ai magistrati è un errore. Così le cosche puntano ai soldi del Pnrr” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 5 giugno 2022 Il procuratore: “Accorciare i tempi della giustizia con la tagliola dei termini è uno schiaffo alle vittime. Mai in politica perché non sono abituato a mediare. Io ministro? Non succederà, non mi interessa”. Nicola Gratteri è convinto che la riforma della presunzione d’innocenza sia completamente sbagliata. Secondo il procuratore di Catanzaro, “il rischio è che i magistrati non possano più spiegare ai cittadini le ragioni delle loro scelte”. C’è anche l’esigenza di evitare che l’opinione pubblica condanni un cittadino prima che lo faccia la giustizia, perché spesso ad avere più risonanza è il punto di vista dell’accusa. Non crede che la riforma sia nata per questo? “Il problema è che da una parte si è ribadito quanto previsto nella direttiva europea del 2016, sulla necessità di assicurare il diritto al riconoscimento della presunzione fino all’accertamento incontrovertibile della colpevolezza. E fin qui va bene. Ma poi si è introdotto un principio, non previsto nella direttiva, secondo cui è vietata ogni forma di comunicazione, da parte delle procure e degli organi di polizia, sull’attività giudiziaria. Da oggi in poi i procuratori parleranno solo per comunicati stampa. Così non sarà più lo Stato a informare, ma gli indagati, gli imputati e i loro avvocati. Che cosa c’entra questo con la presunzione di innocenza? E quando mai si è visto un procuratore della Repubblica affermare in una conferenza stampa che la persona oggetto di custodia cautelare fosse colpevole, prima del processo?”. Ammetterà che spesso, a fronte di errori giudiziari e processi lunghissimi, la reputazione di persone innocenti è stata distrutta per sempre... “Spiegare, in modo corretto e oggettivo, che cosa abbia fatto lo Stato, è importante per i cittadini. Si pensi agli imprenditori, vittime di estorsione, che decidono di collaborare. Illustrare questo tramite gli organi di stampa è importante per sollecitare le persone a fidarsi dello Stato. Francamente trovo molto strano che l’Ordine dei giornalisti, quando si stava discutendo l’approvazione, non abbia detto nulla”. Il governatore di Bankitalia Visco ha detto che il rischio principale del Pnrr al Sud è l’infiltrazione della criminalità organizzata. Cosa bisognava fare, secondo lei, che non si è fatto? “Penso che il rischio di infiltrazione non riguardi solo il Sud, ma l’intero Paese. Da tempo le mafie si sono radicate lontano dai territori d’origine e rischiano di rilevare, ancora di più a buon mercato, le imprese in difficoltà. Secondo me c’è stato un abbassamento di attenzione nella lotta alle mafie. Da quando hanno cominciato a centellinare la violenza, sono sparite dal dibattito politico. Purtroppo, per certe persone, le mafie esistono solo quando sparano, ma in realtà quando sono silenti sono ancora più pericolose. L’impatto economico delle mafie, per esempio, non consiste solo nel valore del loro fatturato, ma anche in quello derivante dalle distorsioni della spesa pubblica e dai condizionamenti che possono esercitare sugli appalti pubblici e nel saccheggio delle risorse destinate ai territori. Le distorsioni della concorrenza indeboliscono le imprese sane e creano il terreno di coltura ideale per garantire il radicamento delle mafie”. Ci sono segnali che la ‘ndrangheta sia interessata ai fondi europei? “Più che segnali ci sono certezze. Le mafie hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. Si stanno organizzando soprattutto nei Comuni, nelle Regioni, dove le risorse del Pnrr verranno spese. Servono più attenzione e più controlli. Bisogna tenere gli occhi sempre aperti”. Perché se ne parla sempre meno, tranne che per celebrare anniversari? “C’era chi sosteneva che bisognasse convivere con le mafie. Hanno sempre goduto di una lunga e colpevole legittimazione, anche da parte di chi avrebbe dovuto combatterle. Ce lo dice la storia del nostro Paese. Se hanno messo radici anche al Nord, le ragioni vanno principalmente ricercate in quegli ambienti politico-imprenditoriali che con le mafie hanno scelto di adottare logiche di pura convenienza”. Lei ha duramente criticato la riforma Cartabia, soprattutto sull’improcedibilità... “La politica non può pensare di accorciare i tempi della giustizia intervenendo con la tagliola dei termini che, si sa già, con questo sistema non potranno mai essere rispettati. È uno schiaffo alla gente onesta, alle vittime, che si aspettano risposte dalla giustizia e invece verranno mortificate nelle loro aspettative. Per accorciare i tempi ci voleva ben altro. Prima di tutto uomini (magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria) e mezzi adeguati rispetto a una mole di affari giudiziari elefantiaca”. E la riforma del Csm la convince? “Per nulla, non cambierà niente e il sistema delle “correnti” resterà inalterato”. Lei ha detto che davanti a quanto emerso a partire dal caso Palamara sarebbe stato necessario scioglierlo: perché non si è fatto? “Lo deve chiedere a chi aveva il potere di scioglierlo”. La valutazione dei magistrati è un sistema che può servire a risolvere alcuni mal funzionamenti? “Quello che prevede la riforma è una sorta di controllo “esterno” sul lavoro dei magistrati nelle valutazioni di professionalità, riconoscendo un diritto di voto ai membri laici, tra cui gli avvocati componenti del Consiglio Giudiziario. È inaccettabile sia perché non si comprende per quale ragione la nostra valutazione debba essere oggetto anche di una stima da parte di chi non fa parte della nostra categoria, ma soprattutto perché in questo modo si va a intaccare l’autonomia e la terzietà del magistrato. Insomma questa previsione, che chiarisco a scanso di equivoci non mi riguarda, credo abbia l’odore di una punizione. Ma la quasi totalità dei magistrati sono persone che lavorano tanto e bene e che questo “trattamento” proprio non se lo meritano”. La separazione delle carriere aiuta o danneggia? “Sono fermamente contrario, è una di quelle proposte che considero assolutamente pregiudizievoli per il sistema, oltre che incostituzionale. Il passaggio di funzione, che bisognerebbe incentivare e non limitare, rappresenta un arricchimento professionale e consente al magistrato di sviluppare una visione globale del procedimento. Questo è innegabile, ma pare non interessi a nessuno”. Esiste il diritto all’affettività di chi è in prigione? Le sue ultime dichiarazioni sembrano volerlo negare... “Il diritto all’affettività può anche esistere, ma bisogna renderlo compatibile con altri diritti e altre esigenze superiori, quale quella della pubblica incolumità che, ovviamente, riguarda solo i detenuti di alta sicurezza”. Ha detto più volte che servono nuove carceri: crede ci sia un abuso delle misure alternative? Non sono un modo per far sì che in carcere vada soprattutto chi rappresenta un pericolo per la società, evitando l’affollamento per il quale l’Italia è stata più volte richiamata anche a livello europeo? “Investire nella costruzione di nuove carceri è il miglior modo per evitare richiami all’Italia. Su questo punto però voglio chiarire: io non voglio più carceri per riempirle. Come cittadino, oltre che come magistrato sarei contentissimo di vivere in un Paese dove nessuno più commette reati, chi non sarebbe contento? Ma se così non è, il sovraffollamento non deve diventare un alibi. La creazione di nuove carceri e l’ampliamento di quelle già esistenti renderebbe molto più dignitosa la detenzione di tutti e questo è la prima cosa per assicurare la rieducazione del detenuto. Non è un caso se il carcere di Bollate è quello che ha meno recidivi. Non deve essere l’eccezione, ma la regola. Poi, bisogna investire in strutture per ospitare i tossicodipendenti, che vanno curati e aiutati; nella costruzione delle Rems, per i soggetti incapaci di intendere e di volere; assicurare spazi e locali per consentire a tutti i detenuti che vogliono di potere lavorare e imparare un mestiere”. Una delle cose che si dice spesso della ‘ndrangheta, è che ci siano pochissimi pentiti perché i legami sono di tipo familiare. È ancora così? “Ovviamente, resta l’organizzazione mafiosa più impermeabile, proprio a causa del vincolo di sangue che ne caratterizza la struttura. Negli ultimi tempi però abbiamo avuto decine di collaboratori di giustizia, tra cui anche i figli di alcuni potenti boss calabresi. Al processo Rinascita Scott ci sono quasi 60 collaboratori di giustizia. È un segnale incoraggiante”. Quando ha deciso che avrebbe fatto il magistrato? “Sono nato a Gerace e ho studiato a Locri. Alle scuole medie, al liceo, vedevo i figli dei mafiosi che facevano i prepotenti. Ho visto anche tanti morti ammazzati. Forse è nata in quegli anni l’idea di fare qualcosa per contribuire a liberare la mia terra dalla paura. È stato all’università che ho deciso di fare il magistrato. Mi sono laureato in quattro anni a Catania e due anni dopo ho vinto il concorso in magistratura. Nonostante avessi la possibilità di scegliere sedi fuori dalla Calabria, ho scelto di restarci. Sono stato a Locri, poi a Reggio e ora a Catanzaro. Sempre a indagare sulla ‘ndrangheta e sul narcotraffico. Se potessi resterei sempre in Calabria”. Crede che qualcuno, a livello politico, voglia ostacolare il lavoro dei magistrati antimafia? “Non saprei. Il manovratore solitamente non vuole essere disturbato. Non sono legato a correnti, ho fatto domanda per diventare procuratore di Reggio Calabria e procuratore nazionale antimafia e in entrambi i casi sono stato bocciato. Vivo sotto scorta da oltre 30 anni e non mi sono mai abbattuto. Guardo avanti. E non mi fermo, costi quel che costi”. C’è qualcosa che la notte la tiene sveglio? “Dormo poco, ma ho la coscienza a posto”. Lei ha una scorta sempre più imponente e immagino sia perché le minacce, negli anni, sono aumentate piuttosto che diminuire. Che rapporto ha con la paura? “Cerco di addomesticarla, senza farmi vincere dalla paura. Che è un sentimento umano”. E con il coraggio? “Penso di avere il coraggio della paura. Non c’è coraggio, senza paura”. Si candiderebbe mai? “No. Non sono abituato a mediare. In politica la mediazione è sempre un accordo al ribasso”. Lei per poco non è stato nominato ministro. Ha raccontato che Renzi gliel’aveva chiesto e che poi tutto è saltato. Spera che quell’occasione si ripresenti? “Non penso. E non mi interessa. È stata una pagina della mia vita che si è chiusa. Per chi ha curiosità su come è andata deve chiederlo a Renzi o a Napolitano, non a me. Io come ho detto tante volte sono un felice procuratore della Repubblica”. La mafia premia il merito, il Paese no. Per l’Italia perduta non c’è visione di Roberto Saviano* La Stampa, 5 giugno 2022 Le riflessioni dello scrittore al Festival dell’Economia di Torino: “I fondi europei sono un’occasione. I migranti possono rilanciare il Sud spopolato, ma in politica si preferisce fare la lotta allo Ius Soli”. “Cosa pensano le organizzazioni criminali dell’economia? Pensano sia la scienza di fottere gli altri. E hanno una grandissima e particolare visione dell’economia: nessun uomo d’onore prescinde da una visione economica. Al mondo puoi far parte di una di queste due categorie: fottere o essere fottuto, non c’è una terza strada. Allo stesso modo il mondo per loro si divide tra leggi e regole e si lega con l’economia criminale. Degli esempi? La legge ti indica come vincere un appalto: l’azienda, il curriculum, il bando. Vinci se sei chi ha offerto il giusto, in un tempo minore, con il progetto migliore. Questa è la legge. La regola: si vince se il 10% va all’assessore, se nella società ci sono persone che sanno come sarà il bando. Il concorso all’Università? Laurea, curriculum, comunicazioni, concorso. Questa è la legge. La regola: il concorso deve essere vestito su di te, il professore deve volerti. L’Italia è il Paese delle leggi e delle regole, è per questo che le mafie pensano che la legge sia roba per fessi, per chi non si può permettere nessuna forma di potere, e le regole sono come stanno le cose”. [...] Il merito - “Così le organizzazioni criminali diventano quelle che guardano più di tutti, in Italia, il merito. Cosa crea problemi agli italiani? Lavori molto, è difficile fare carriera, sembra impossibile guadagnare di più. Sembra che il lavoro non sia sufficiente a cambiare il tuo destino rispetto al rapporto personale, l’alleanza politica. Nelle organizzazioni criminali il merito, invece, è tutto. Ogni volta che non si dà un ruolo a chi lo merita, si sta distruggendo il Paese. Ogni volta che si fa sentire una persona sporca perché vuole fare più carriera, più responsabilità, più oneri, stai distruggendo la società civile”. [...] L’Italia perduta - “In tutto questo scenario io ci provo, anche se ormai non ho più fiducia: a un giovane se vorrà mantenere una famiglia e non ne ha una che gli copre le spalle, io dico “Scappa”. Ormai la situazione è quasi perduta. Nel Sud ci sono intere aree, pezzi di Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, dove non si sta fallendo nel progetto, si sono completamente dimenticati di farne uno. Qualche eroe, come preti, attivisti, ecologisti, si batte in nome di principi, ma si batte nel deserto. Resistono, mentre lì intorno c’è l’inferno. Ho vissuto il dramma di Mimmo Lucano in prima fila. Il sogno di Riace l’ho visto coi miei occhi, un miracolo simbolico. E poi l’ho visto distrutto. Mimmo Lucano è stato condannato a più anni di carcere di Luca Traini. Così la speranza si è congelata. A rimanere, invece, sono scenari come la Calafrica, la Califoggia: anche i nomi iniziano a cambiare per raccontare cos’è il Sud, dove pensi direttamente: io me ne vado, non c’è nessuna possibilità”. [...] La politica e il Sud - “L’Europa, invece, ha una possibilità di spesa enorme sul Sud Italia, ma la maggior parte dei soldi tornano indietro, non ci sono progetti verificabili. Milioni vengono stanziati, ma sistematicamente tornano indietro. E la politica non parla più del Sud perché la maggior parte dei meridionali o li compri con i voti o sono lontano da casa, a Roma, Milano, Firenze, Torino. E quindi i voti devi andare a prenderli lì. Non parli del “problema Foggia”, non fa la differenza. A Foggia, a Trapani e a Caserta i voti li compri. Voto per voto. Io stesso sono cresciuto in una realtà in cui si votava chi disprezzavi. Ti faceva schifo ma dava il posto in ospedale alla nonna, apriva la piscina del paese, dava il buono benzina, dava le magliette alla squadra”. [...] Il Pnrr nel Mezzogiorno - “Il Pnrr sono convinto che sia un’occasione. I soldi al Sud non vanno dati perché se li mangiano le mafie? Non è vero, le mafie non hanno bisogno di quei soldi, già li hanno col narcotraffico. Se non date quei soldi alle aziende oneste e sane se li mangeranno i criminali. Una parte di quei soldi può andare alle mafie? Certo, il rischio che li possano comunque prendere c’è. Ma nel Sud il problema è che manca una visione. Una città come Pompei poteva attirare tutte le università del mondo, con una strategia: per 5 anni non paghi le tasse se investi lì. Ma altrove nel mondo è stato fatto, qui no. Quei soldi sono necessari, ma non vedono l’orizzonte. Una ripartenza possibile per il Sud Italia? È svuotato, e qui cito Elon Musk che su Twitter ha detto “L’Italia non ha più vita”. La soluzione può essere portare un milione di immigrati all’anno. Con difficoltà, investimenti, contraddizioni, ma va fatto, per ripopolare certe zone. Ma in Italia non la vediamo così, facciamo la lotta allo Ius Soli”. [...] La Giustizia e Falcone - “Intanto la Giustizia in Italia è tra le peggiori al mondo. Gran parte del lavoro di Falcone è andato perso. Le garanzie sono distrutte, i processi sono utilizzati per delegittimare le persone. Falcone fu accusato di salvare i politici, ma in realtà era un uomo di grande prudenza investigativa, grande garanzia. Quella vocazione di quella magistratura, di quegli anni, si è perduta. Ma per lui vale la frase che negli anni è stata attribuita a tanti: “Credevate di seppellirci, non sapevate che siamo semi”. Questo è il destino degli uomini come Falcone e di quelli che racconto anche nel libro “Solo è il coraggio”: Seppelliti ma semi. Quel seme può gemmare se gli si dà la possibilità di crescere. Ognuno di noi nella sua individualità, che sembra fragilissima, fa ancora la differenza. Anche solo a difendere la possibilità di conoscenza vera”. [...] La “possibilità di capire” - “Vale la pena occuparsi ancora di mafia e questi argomenti? Me lo chiedo ancora, in un momento in cui non si parla più di questi temi scomparsi dai dibattiti pubblici. Ma mi sono reso conto che dentro i racconti e le parole c’è l’incredibile possibilità di capire come funzionano le cose. Ed è la priorità, per tutti”. *Estratti dal suo intervento al Festival dell’Economia di Torino Un’intercettazione riapre il caso della morte di Attilio Manca, il medico che visitò Provenzano di Laura Martellini Corriere della Sera, 5 giugno 2022 “Al medico va fatta una doccia”. Fabio Repici, legale della famiglia del medico la cui morte nel 2004 venne derubricata come suicidio: “Consegneremo alla Procura di Roma una denuncia con nuovi elementi che avvalorano la tesi dell’omicidio da parte della mafia con apparati statali deviati”. “Arriva - adesso - la pubblicazione di un’intercettazione nella quale si afferma che nel cerchio ristretto che accudiva il boss Bernardo Provenzano si discuteva della necessità di uccidere un medico (a quel medico “va fatta una doccia” dicono nell’intercettazione gli uomini di Provenzano). È la conferma alle rivelazioni già fatte da numerosi collaboratori di giustizia. E la conferma delle inspiegabili falle istituzionali che si sono verificate a protezione della latitanza di Provenzano”: parole all’Agi di Fabio Repici, legale della famiglia di Attilio Manca, l’urologo siciliano morto nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, la città in cui lavorava da meno di due anni. Una morte archiviata come suicidio, che però nel tempo è stata oggetto di numerosi dubbi. Mai approfondita la tesi, supportata da elementi di rilievo, per cui Attilio sarebbe stato ucciso perché avrebbe visitato Bernardo Provenzano per il suo tumore alla prostata, e soprattutto perché sarebbe stato un testimone scomodo della rete di protezione attorno al boss eretta da una parte deviata dello Stato. È un’ipotesi che ha preso sempre più piede in questi anni, nel 2013 oggetto di una relazione di una minoranza parlamentare. Nel corpo di Manca venne rilevata la presenza di alcol e barbiturici. Gli investigatori della prima ora puntarono immediatamente sulla tesi del suicidio, concentrandosi nel documentare i rapporti tra Attilio Manca e una donna romana con precedenti per droga, Monica Mileti, accusata in primo grado per aver ceduto sostanze a Manca. Poi assolta, però, “perché il fatto non sussiste”. La domanda è rimasta per tanti anni sospesa: Manca si rese conto che uomini dello Stato affiancavano la malavita? Nell’intercettazione ambientale, ora pubblicata dai giornalisti Tobias Follett e Antonella Beccaria, sei o sette uomini varie volte avrebbero ripetuto la condanna a morte, senza tuttavia pronunciare mai il nome del destinatario della minaccia, affermando che al medico “andava fatta una doccia”, ovvero doveva essere eliminato. “È esattamente quanto ha spiegato il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico. Nelle sue dichiarazioni sull’omicidio di Attilio Manca, recentemente dichiarate attendibili anche dalla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha condannato per associazione mafiosa Rosario Cattafi - commenta l’avvocato Repici - ha spiegato che l’assassinio dell’urologo barcellonese è un delitto compiuto in sinergia da Cosa Nostra e da apparati deviati dello Stato, in uno scenario tipicamente piduista. Lo stesso generale dei carabinieri tirato in ballo dal pentito D’Amico, se si guarda l’elenco dei soci onorari del circolo Corda Fratres, era uno dei più celebri affiliati alla loggia P2”. Il legale invoca: Ora non ci sono più alibi per la Procura di Roma. Nelle prossime settimane chiederemo un appuntamento al procuratore Lo Voi e consegneremo nelle sue mani una denuncia nella quale compariranno tutti gli elementi raccolti in questi ultimi tempi”. Il legale va all’attacco: “La verità sul caso Manca è nascosta anche fra le pieghe degli archivi giudiziari nei quali riposano sotto tonnellate di polvere i misteri sulla latitanza di Bernardo Provenzano, protetta da settori istituzionali. Bisogna solo dissotterrare le informazioni insabbiate per decenni. A partire da quelle riguardanti la presenza di Bernardo Provenzano in provincia di Messina”. Una ferita ancora aperta per Angela Gentile Manca, madre di Attilio: “Ho i brividi, come quando vidi le foto del cadavere di Attili o. Non ho potuto fare a meno di pensare all’Olocausto, quando gli ebrei internati, con la scusa di fare la doccia, venivano indirizzati alle camere a gas. Attilio fu vittima della stessa crudeltà. Il pensiero che questa intercettazione risalga al 2003 e che la Procura di Roma non ne abbia mai fatto uso mi toglie il sonno”. Lombardia. Dai detenuti incendiano le celle ai suicidi: l’inferno delle carceri di Stiben Mesa Paniagua milanotoday.it, 5 giugno 2022 Dopo il doppio suicidio a San Vittore, si parla ancora di carceri: a Cremona 80 persone sono state evacuate dopo una protesta incendiaria. Circa 80 detenuti sono stati evacuati da due reparti del carcere di Cremona a causa di focolai appiccati in alcune celle. “Verso le ore 22 di venerdì, alcuni detenuti della Casa Circondariale di Cremona, sembra per protestare a causa della mancata somministrazione di uno psicofarmaco, hanno appiccato il fuoco alle rispettive celle. Le fiamme si sono propagate coinvolgendo due sezioni detentive su due piani del fabbricato, il secondo e il terzo, e rendendo necessaria l’evacuazione di circa ottanta ristretti, che sono stati condotti ai passeggi. I vigili del fuoco, intervenuti a supporto della Polizia penitenziaria, avrebbero impiegato alcune ore per domare l’incendio. Il carcere è presidiato all’esterno dalle forze dell’ordine”. Lo riferisce Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. I suicidi a San Vittore - Proprio venerdì è emersa la notizia che a San Vittore due giovani detenuti, uno di 24 anni e uno di 21, si sono tolti la vita in pochi giorni nel settimo reparto della casa circondariale. A rivelarlo è stato l’Osservatorio carcere e territorio, di cui fa parte anche Caritas Ambrosiana, che sottolinea la crescente presenza nell’istituto milanese di persone affette da disturbi mentali. I Rems, le strutture sanitarie dedicate a queste persone, hanno infatti lunghe liste d’attesa. Uno dei due giovani, il 21enne che si è tolto la vita giovedì 2 giugno, era proprio in attesa del trasferimento in un Rems, e nelle settimane precedenti aveva già tentato due volte il suicidio. L’altro, il 24enne, si è invece tolto la vita nella notte di giovedì 26 maggio. Secondo l’Osservatorio, l’intervento di supporto psichiatrico in carcere “è totalmente insufficiente” perché i servizi per la salute mentale “non riescono a garantire continuità terapeutica”. L’Osservatorio ‘salva’ i centri diurni attivi all’interno degli istituti penitenziari, ma sarà difficile evitare questo tipo di tragedie “senza un’effettiva collaborazione con i servizi pubblici” che si occupano di salute mentale e “senza un potenziamento degli interventi di sanità all’interno degli istituti”, con più psicologi e psichiatri. Nelle carceri italiane, nei primi mesi del 2022 si sono tolte la vita quasi 30 persone, rispetto alle 54 del 2021 e alle oltre 60 del 2020. Numeri che potrebbero non essere precisi, perché a volte la morte in carcere non è facile da attribuire a questa o quella causa. L’inferno delle carceri - Dopo l’episodio nel carcere di Cremona, De Fazio sostiene che “nelle carceri da troppo tempo si vive l’inferno, talvolta, come nel caso di Cremona, non solo metaforico. Cambiano i capi del Dap, tre in due anni, ma non muta la disfatta dello Stato, che resta inerme di fronte allo sfacelo più totale. È evidente, come abbiamo sottolineato più volte, che la grave disfunzionalità del sistema non possa essere affrontata solo per via amministrativa, ma che occorrano gli interventi della politica, del ministero della Giustizia e del Governo”, aggiunge il sindacalista. “Ripetutamente abbiamo segnalato le gravissime criticità del carcere cremonese, che assomma a quelle comuni alla quasi totalità degli istituti penitenziari del Paese alcune difficoltà particolari, come quelle che derivano dal non avere assegnato un Comandante della polizia penitenziaria titolare da circa tre anni e da una gestione complessiva che si caratterizza per continui disordini”, spiega ancora De Fazio. “Quanto sta avvenendo in queste ore, sperando che si debba fare la conta di danni solo materiali, conferma che la grave emergenza penitenziaria è ancora in atto e che dalle rivolte e dai tredici morti del marzo 2020 la situazione non è affatto cambiata. Più che le parole, le declamazioni di principio e le passerelle, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e al presidente del Consiglio, Mario Draghi, chiediamo fatti concreti, quale l’emanazione di un decreto-legge che affronti l’emergenza e crei le precondizioni per una riforma complessiva che ripensi il sistema d’esecuzione penale, rifondi il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e reingegnerizzi il Corpo di polizia penitenziaria”. conclude. Milano. “Giacomo sia l’ultima vittima dietro le sbarre” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 5 giugno 2022 I genitori del 21enne suicida in carcere: questi ragazzi non sono criminali, aiutiamoli. “A certi ragazzi è come se mancasse la pelle. L’ipersensibilità non consente loro di gestire le emozioni e finiscono per farsi molto male, se non sono curati. Si chiama “disturbo borderline. “A certi ragazzi è come se mancasse la pelle. L’ipersensibilità non consente loro di gestire le emozioni e finiscono per farsi molto male, se non sono curati. Si chiama “disturbo borderline di personalità a basso funzionamento” ed è incompatibile con il carcere. Giacomo si è tolto la vita a 21 anni a San Vittore e nessuno ora se ne può stupire”. Parole dure quelle di Maurizio e Stefania, papà e mamma di Giacomo Trimarco che non c’è più. I genitori mostrano tutta la forza disperata di chi ha combattuto per tanti anni “contro” servizi di salute mentale che “fanno acqua da tutte le parti”, dentro il carcere e anche fuori, sul territorio. Hanno l’urgenza di dare un senso al loro dolore: “Ci impegneremo perché non capiti a nessun altro, mai più”, dicono. Sanno che c’è moltissimo da fare, per evitare che casi analoghi succedano ancora. Hanno aderito tempo fa ad una rete di genitori, “Ci siamo anche noi”, promossa da un’altra mamma, Maria Gorlani, e la sosterranno come meglio potranno. Giacomo si è suicidato con il gas dentro una cella del settimo reparto martedì a mezzanotte, a pochi giorni di distanza dalla morte violenta che si è procurato il ventiquattrenne Abou El Maati della cella vicina. “E noi lo abbiamo saputo solo mercoledì mattina, quando qualcuno ha avuto il pensiero di avvertirci”. Riavvolgere il nastro è doloroso. Erano i genitori attenti di due figli adottivi, ognuno problematico a proprio modo. Giacomo “pareva un angioletto. Era taciturno, anche troppo. Voleva la palla ma poi si sedeva a vedere giocare gli altri. Ad un certo punto si è come rotto un guscio. Ne è uscito un bambino più vero, ma esplosivo”. Una serie di malintesi hanno determinato il peggio: i piccoli reati, i servizi sociali che lo hanno collocato in comunità educative e non terapeutiche, l’autolesionismo, le sostanze. Lo scorso agosto, per il furto di un telefonino, dritto a San Vittore. A ottobre, perizie psichiatriche alla mano, la disposizione di trasferirlo in una Rems (Residenze subentrate nel 2014 alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ndr). Eppure il 31 maggio, a distanza di otto mesi e dopo altri tentativi di farla finita, Giacomo era ancora lì. ““Illegalmente” dentro, mentre doveva essere in una struttura di cura - piangono i genitori. Se può servire ad altri ragazzi, adiremo le vie legali”. E ancora: “Se i servizi di salute mentale facessero il loro dovere, questi ragazzi al carcere non arriverebbero neanche. Non sono criminali. Per le loro condizioni psichiche non sarebbero neanche in grado di progettare reati”. Non riescono a studiare o lavorare, non sono in grado di gestire i propri documenti, gli occhiali, le chiavi di casa. Non sono capaci di prendere la patente o rispettare un appuntamento qualunque. I servizi non li agganciano come dovrebbero. “Mancano le comunità terapeutiche per adolescenti, gli psichiatri e psicologi in carcere sono pochi, i giudici non hanno per legge il potere di ordinare l’ingresso nelle Rems che sono sottodimensionate rispetto al bisogno”. È stato fatto tutto, negli anni, perché quel ragazzo e la sua famiglia stessero un po’ meglio? La risposta dei genitori è un severissimo “no”. Torino. Con un “Trolley” pieno di sogni, il teatro entra in carcere Corriere di Torino, 5 giugno 2022 Il laboratorio ha coinvolto 30 detenuti sia nell’allestimento sia nella recitazione accanto ad attori professionisti. Cosa si può mettere in un trolley, in una bella giornata di sole, per andare al mare? Tutto il necessario, ma anche sogni, desideri, pensieri. E se di colpo si mette a diluviare cosa si fa di tutti quei sogni di vita, di quel trolley così pieno di cose, solo apparentemente inutilizzabili? È questo il fil rouge dello spettacolo Trolley, realizzato dai detenuti della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, con la regia di Claudio Montagna, in programma il da domani fino a giovedì (ingresso alle 20). Lo spettacolo è il risultato del laboratorio teatrale condotto dalla Compagnia Teatro e Società, con la Scuola sui Mestieri del Teatro nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, coordinato da Acri e sostenuto a Torino e a Genova dalla Compagnia di San Paolo. L’iniziativa, avviata a livello nazionale quattro anni fa col supporto di undici fondazioni, coinvolge in quattordici istituti di pena circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale sui mestieri del teatro. Il laboratorio, iniziato a settembre 2021, in collaborazione con gli Istituti Giulio e Plana, il Teatro Stabile, e il contributo della direzione e degli agenti di polizia penitenziaria, ha coinvolto trenta detenuti. Saranno loro, dopo aver collaborato all’allestimento, a salire sul palco a fianco di attori professionisti. “Questo è uno spettacolo unico, di grande forza, ancora più necessario in un periodo di distanze che rischiano di isolare sempre di più i detenuti - spiega il regista Claudio Montagna, da trent’anni attivo all’interno del carcere -. È uno spettacolo che parte dai pensieri e dalle emozioni dei detenuti per mettere al centro la persona. In scena con i suoi dubbi e riflessioni sulla condizione umana, senza giudizi e differenze, almeno per il tempo di uno spettacolo”. Lodi. Bimbi in carcere a giocare con papà di Cristina Vercellone Il Cittadino, 5 giugno 2022 Il 7 giugno, in via Cagnola, 10 genitori sfideranno i figli a biliardino. Bambini in carcere a Lodi per giocare con i loro papà. Il 7 giugno, per la prima volta, nella casa circondariale di via Cagnola, i papà detenuti avranno la possibilità di giocare con i loro figli. Sono 10 i genitori coinvolti. Padri e figli si sfideranno con il biliardino, i puzzle e altri giochi da tavola adatti per i bambini con un’età media tra i 3 e i 5anni. L’iniziativa, promossa dall’associazione Bambinisenzasbarre insieme a Loscarcere, consente ai papà di conoscere meglio i loro figli e ai bambini di recuperare l’affettività perduta. A rendere più brutte le sbarre, infatti, in questo periodo, ci ha pensato anche la pandemia. Abolire le prigioni forse non è possibile, ma sistemarle sì di Vittorio Feltri Libero, 5 giugno 2022 Un libro di Chiarelettere, firmato da vari intellettuali, tra cui Luigi Manconi, sostiene una tesi interessante: dato che il carcere genera crimine, quindi criminali, andrebbe abolito, sostituito da strutture rieducative. In effetti la galera è un luogo infame nel quale chi vi è recluso subisce trattamenti talmente incivili da risultare incompatibili con un minimo di spirito umanitario. Ma secondo me il problema non è quello di eliminare le celle senza sapere come sostituirle, a meno che non si voglia sostenere la tesi assurda che coloro i quali sono stati condannati per reati gravi non debbano scontare alcuna pena. Semmai bisogna riformare in modo radicale il sistema delle detenzioni, che oggi fa rabbrividire. Le prigioni sono una fabbrica di illegalità dove cioè si commettono delitti quasi sempre impuniti. Bisogna agire per ripulirle, bonificarle, renderle compatibili con la democrazia e la Costituzione, la quale prevede che i detenuti debbano emendarsi, ovvero ritrovare la via della legalità. Invece il nostro Parlamento si occupa di tutto tranne dei disgraziati privati della libertà, i quali sono considerati rifiuti della società, meritevoli di subire ogni angheria. Recentemente in una casa di pena si è registrato un fenomeno disgustoso, il personale di custodia ha malmenato nel modo più brutale un numero considerevole di “ospiti” e ancora non sappiamo che fine abbia fatto l’inchiesta sulle citate brutalità. Tra l’altro facciamo notare al lettore che parecchi prigionieri sono in attesa di giudizio, cioè non hanno subìto alcuna condanna, pertanto dovrebbero essere ritenuti innocenti fino a prova contraria. E invece sono tenuti nel gabbio finché la burocrazia giudiziaria non si deciderà se assolvere o bastonare l’imputato. Questa è una vergogna che però non scandalizza nessuno, nemmeno l’uomo qualunque che davanti a un segregato non prova altro che disprezzo, e non immagina neppure lontanamente che pure a lui potrebbe toccare in sorte di essere rinchiuso ingiustamente. Quando una persona viene arrestata il commento popolare è immancabilmente il seguente: se l’hanno blindata segno che qualcosa avrà commesso. Salvo poi scandalizzarsi quando si scopre che il detenuto, essendo incolpevole, è stato liberato. Sono convinto che il primo provvedimento da attuare sia quello non solo di eliminare la carcerazione preventiva, ma anche quello di rendere le prigioni non posti di tortura bensì di soggiorno per gente privata della libertà, non della dignità che va garantita a qualunque essere umano. Dall’omofobia al fine vita, quei diritti arenati in Parlamento di Giovanna Casadio La Repubblica, 5 giugno 2022 Le misure in discussione sono finite nel collo di bottiglia di fine legislatura tra veti incrociati, sgambetti e pioggia di emendamenti. Nel mese del Gay Pride, il ddl Zan contro l’omotransfobia è solo una chimera. Dovrebbe essere tirato fuori dai cassetti del Parlamento dopo le Amministrative: lo hanno promesso Pd e 5S per cancellare l’onta della bocciatura a ottobre scorso tra applausi e giubilo delle destre. Del resto, nell’agenda parlamentare ci sono anche lo Ius scholae, che è la legge sui nuovi italiani attesa da più di vent’anni. E c’è il provvedimento che depenalizza la coltivazione domestica di 4 piantine di cannabis. Proposte affogate dagli emendamenti di Lega e FdI, benché attese al voto dell’aula di Montecitorio a fine mese. Al Senato poi giacciono la legge sul suicidio assistito e quella sul doppio cognome. Sembra che neppure le sentenze della Consulta riescano a scuotere la deriva tutta italiana che vede i diritti civili ridotti a campo di battaglia elettorale. Così alla vigilia di fine legislatura, l’allargamento dei diritti di tutti resta impigliato nella rete dei cattolici conservatori e di veti incrociati. Sul doppio cognome ad esempio, la paralisi parlamentare può portare al caos, dal momento che la Corte costituzionale ha tolto l’automatismo dell’attribuzione del cognome paterno, ma una norma non c’è. E sul fine via, a dispetto del dolore, si gioca a braccio di ferro. Ancora nel cassetto il ddl Zan - Tutti in piazza nel mese del Gay Pride. Striscioni (anche quello di Repubblica) alle parate di giugno, l’11 a Roma, il 18 a Torino, il 25 a Bologna e il 2 luglio a Milano, oltre alle decine sparse in tutta Italia. Manifestazioni quindi, politici che non vogliono mancare. Però poi in Parlamento si tiene nel cassetto il ddl Zan. La legge contro l’omotransfobia, già affossata in Senato sei mesi fa tra l’esultanza scomposta del centrodestra, è stata ripresentata dopo sei mesi di “tagliola”, come previsto dal regolamento di Palazzo Madama. Il Pd così come i 5Stelle hanno promesso che si daranno da fare pur di farla approvare, nonostante sia countdown verso la fine della legislatura. I dem annunciano una iniziativa politica: dopo le amministrative convocheranno i partiti di maggioranza per vedere se un compromesso è possibile. Ostruzionismo sullo Ius Scholae - Lo stato dell’arte lo riassume Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera e relatore dello Ius scholae, la legge per dare la cittadinanza italiana a 850 mila ragazzi figli di immigrati nati in Italia e che qui hanno concluso un ciclo di studi. Il 24 giugno lo Ius scholae approda nell’aula di Montecitorio per essere votato. Dopo decenni di discussioni per superare lo Ius sanguinis (si è cittadini italiani per discendenza), scontri politici, un’approvazione definitiva della nuova cittadinanza sfiorata nella passata legislatura, ci risiamo. Salvini e Meloni si sono messi di traverso con una valanga di emendamenti molto fantasiosi, come la conoscenza delle sagre paesane o il massimo dei voti a scuola. L’esame in commissione dovrà concludersi entro il 22 giugno. Cannabis, la coltivazione in casa divide i partiti - Sembrava avere superato la metà del guado la legge che depenalizza la coltivazione domestica di 4 piantine di cannabis per uso personale. Ma l’esame in aula a Montecitorio è previsto per il 27 giugno e in commissione Giustizia restano ancora molti emendamenti da votare. Nel nome e nel ricordo di Walter De Benedetto, recentemente scomparso - il paziente che per 36 anni ha curato l’atrite reumatoide con la cannabis coltivata in casa (già processato e assolto) - il presidente della commissione Giustizia, il grillino Mario Perantoni ha giurato: “Noi andiamo avanti convinti che si tratti di una misura di civiltà. La legalizzazione della coltivazione domestica di quattro piante di cannabis non contrasta con nessun principio etico ma è uno strumento di buon senso”. Il suicidio assistito fermo in Senato - Approvata alla Camera nel marzo scorso, la legge sul suicidio assistito sollecitata dalla Corte costituzionale dopo la sentenza sul caso Cappato-Dj Fabo è nelle acque agitate di Palazzo Madama. L’esame è affidato a due commissioni congiunte, la commissione Sanità guidata dalla renziana Annamaria Parente e la Giustizia, il cui presidente è il leghista Andrea Ostellari. Un rallentamento dopo l’altro, a cominciare dalla scelta dei relatori. La Lega ha indicato e voluto Simone Pillon, cattolico integralista che ribadisce: “Io voglio approfondire il testo e ritengo che nessuno debba restare senza cure fino all’ultimo”. Le destre, e i centristi come Paola Binetti, denunciano le “derive eutanasiche” e agitano lo spauracchio dell’istigazione al suicidio. Ius scholae. Non siamo razzisti, ma... di Marco Grieco L’Espresso, 5 giugno 2022 A fine mese arriva alla camera la legge che riconosce la cittadinanza a chi ha studiato in Italia. diritto negato a un milione di minorenni nati o cresciuti nel nostro paese. In Italia la prossemica della politica parla di più delle dichiarazioni ufficiali. Lo scorso febbraio, per esempio, le calorose ovazioni dell’emiciclo di Montecitorio ai ringraziamenti nel discorso d’insediamento del presidente della Repubblica hanno lasciato il posto al silenzio quando Sergio Mattarella ha omaggiato le comunità straniere presenti Italia: “La loro affezione nei confronti del nostro Paese in cui hanno scelto di vivere e il loro apporto alla vita della nostra società sono preziosi”. La spontanea, eppure imbarazzante reazione dei membri delle Camere è stata eloquente. Non stupisce, quindi, che la strada che porterà il prossimo 24 giugno alla Camera lo Ius scholae, la proposta di legge che mira a prevedere l’acquisizione della cittadinanza per i minori nati e/o cresciuti in Italia da genitori stranieri, riformando metodi e tempi previsti trent’anni fa dalla legge 91/1992, sia piuttosto una corsa ad ostacoli, coi suoi 480 emendamenti. Ada Ugo Abara, 30enne nata in Nigeria e cresciuta in provincia di Treviso, ha la stessa età della legge, e vive sulla sua pelle i paradossi e dispositivi di blocco che le precludono la partecipazione a programmi di studio internazionali: “Con una laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali e diritti umani, non ho potuto fare l’Erasmus, perché non avevo la cittadinanza. Così, sogni come i tuoi coetanei ma poi pianifichi percorsi di vita che non puoi intraprendere”, ammette con amarezza. Oggi, come presidente dell’associazione Arising Africans, scardina i poli della narrazione sui figli di immigrati per costruire insieme un immaginario più concreto e reale: “La presenza africana in Italia non è ancora vista come strutturale al territorio. Ma essere socializzati significa guardare in faccia la normalità delle persone, e questo passa anche dal considerare la cittadinanza non più una concessione dello stato, bensì un diritto”. Secondo le ultime stime dell’Istat, i minorenni privi della cittadinanza sono oltre un milione e rappresentano il 15 per cento della popolazione under 18 (anno 2018). Era il 2008 quando Amir Issaa, il rapper nato a Roma da padre egiziano e madre italiana, polemizzava contro l’invisibilità delle seconde generazioni nei media: “Con la faccia da straniero nella mia nazione, se il futuro qui è la seconda generazione” (“Non sono un immigrato”). Oggi sono ancora loro, insieme a studenti della scuola italiana, docenti e dirigenti scolastici, che si stanno mobilitando per chiedere un cambio di passo: “Le nuove generazioni sono diverse da quella che rappresenta la classe politica attuale: vivono in classi interculturali, si approcciano alla sessualità in modo più sereno e spontaneo”, spiega Kwanza Musi Dos Santos, 29 anni, consulente di diversity management per le aziende. Cresciuta in una famiglia interculturale, è attivista e presidente di QuestaèRoma, l’associazione della capitale che promuove la rappresentanza degli italiani di origine straniera e lotta contro ogni tipo dì discriminazione, per superare la rappresentazione razzializzata di chi proviene da contesti interculturali: “La discriminazione ha molte facce, notavamo che il colore della nostra pelle influenzava il modo in cui affrontavamo le questioni e non riuscivamo a trovare un ambiente che fosse sicuro e immune da pregiudizi”, spiega. Spesso è il silenzio a rendere viziata l’aria dei diritti: “Basta davvero poco per sentirsi l’unica persona nera nella stanza”, spiega Marilucy Saltarin, 37 anni, diversity and inclusion professional in campo mediatico. Nata a Verona da padre italiano e madre brasiliana, vive bene la sua complessità “in cui convivono la feijoada e il salame”. Ma la sua è stata una conquista: “Ho frequentato una scuola blasonata, ho fatto la Bocconi, eppure a un certo punto della mia vita ho dovuto fare i conti con il mio non essere bianca e acquisire consapevolezza di me stessa: prima curi te stessa, poi ti accorgi del mondo che ti circonda”, ammette ricordando episodi di micro-aggressione: “L’Italia è un Paese razzista, che nega di esserlo. Ti dice “non sono razzista” e poi segue sempre un “ma”. A volte, anche l’ammirazione della gente per te, è solo stupore, perché nessuno avrebbe potuto immaginare che avresti potuto farcela”. Se il razzismo è un problema sistemico, “spiegare la discriminazione è mostrare come ci si sente quando qualcuno ti fa sentire una persona fortunata perché accedi in posti in cui nessuno, con il tuo aspetto, può ancora farlo”. Ne ha mostrato i risvolti drammatici Seid Visin, l’ex calciatore di origine etiope, suicidatosi a 20 anni in risposta non alla vita, che omaggia con la “maiuscola” nella sua straziante lettera di commiato, ma a chi la disprezzava discriminandolo in uno stillicidio quotidiano: “Era come se nella mia testa si fossero creati degli automatismi inconsci e per mezzo dei quali apparivo in pubblico, nella società diverso da quel che sono realmente; come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, che ero bianco”. Ma lo sport è anche il volto rigato di lacrime di gioia di Zaynab Dosso, record italiano sui 60 metri, che agli Europei di atletica leggera a Gavle ha pianto sulle note dell’inno italiano: “Quando ero piccola, cercavo di esporre meno me stessa e non apparire troppo nera. Poi ho deciso di mostrarmi per ciò che sono e, da quando l’ho accettato, ne vado fiera”. Agli episodi di razzismo si aggiunge il colorismo. Come spiegano Natasha Fernando, Nadeesha Uyangoda e Maria Catena Mancuso nel podcast “Sulla razza”, il termine - desunto dalla scrittrice premio Pulitzer Alice Walker - indica di un atteggiamento pregiudiziale e preferenziale delle persone basato sul colore della loro pelle: “Mentre il razzismo è un costrutto sociale, il colorismo è legato all’aspetto biologico”. I neri in Italia non vogliono sentirsi né vittime né vincitori, ma fare i conti con chi pretende di narrarli al posto loro. Lo ha spiegato bene la scrittrice 23enne Anna Osei. Mantovana, figlia di immigrati ghanesi, in collegamento live Instagram per i literary days di Vogue Italia, ha presentato il suo ultimo libro “Sotto lo stesso sole” come l’esito di una catarsi personale: “Parte di queste discriminazioni le ho vissute male, perché avevo una percezione totalmente sbagliata di me stessa”. Questo processo di autocoscienza s’intreccia con ciò che la femminista intersezionale Linda Martin Alcoff definisce “disfunzione cognitiva”, cioè l’incapacità dell’occidente bianco nel riconoscersi come oppressore né di comprendere quei tratti della società ancora espressione di una classe predominante. I suoi studi affondano le radici nell’“ignoranza bianca” teorizzata dal filosofo giamaicano Charles Wade Mills, cioè l’ammissione che la tendenza dei bianchi a dichiararsi estranei al razzismo significa sgravarsi delle proprie responsabilità di classe dominante. Lo spiega Denise Kongo, 26enne cooperatrice internazionale e attivista romana, quando si riferisce alla rappresentazione dei neri nei media italiani: “Si fa ancora tanta pornografia del dolore, che serve solo a impietosire gli spettatori bianchi. È facile dire che non si è razzisti, ma poi non informarsi sulle proprie responsabilità, oppure - peggio - rappresentare una persona nera integrata solo perché rientra in un modello sociale ritenuto buono perché bianco”. Andi Ngaso, medico di origine camerunese che vive in Italia da sedici anni, risponde provocatoriamente che essere neri non è un mestiere: “Siamo chiamati in tv solo per raccontare la nostra identità, ma abbiamo già i nostri corpi che parlano. La pretesa di stare continuamente nella lotta non è sana. Finché continueremo a scusarci con l’Italia, l’Italia non sarà mai pronta”. Molti, come la 25enne milanese Ariman Scriba, reagiscono ritagliandosi spazi sicuri: “Non intreccio relazioni senza sapere quale background ha la persona che ho davanti. Grazie ai social, mi circondo di persone che so che, con le loro parole, non mi faranno sentire in difetto”. Oggi per tutti loro, che siano riconosciuti come italiane e italiani di origine straniera o lasciati dallo Stato in una zona grigia, è doveroso cambiare: “La battaglia per la cittadinanza è uno dei nostri pilastri perché ostacola concretamente/ giuridicamente/sistematicamente i diritti di figlie/i di immigrati oppure dei miei coetanei”, spiega Kwanza: “Per studiare, per esempio, devi fare bene i conti per almeno i primi sei anni di studio, perché poi le tempistiche per richiedere la cittadinanza vengono automaticamente rallentate”. Le fa eco Ada: “L’iscrizione agli albi professionali è riservata ai cittadini italiani, chi non ce l’ha deve seguire altri percorsi. Quanti cittadini di origine straniera sono resi invisibili nel mercato del lavoro in Italia?”. È l’ennesima domanda di chi agogna un’Italia culturalmente diversa. Perché, mutuando la matematica e scrittrice Chiara Valerio, “il contesto è l’immaginazione di diritti che erodano i privilegi che, proprio come i diritti, sono culturali”. Se la natura vale come la pace di Alessandra Iannello La Stampa, 5 giugno 2022 La Giornata mondiale dell’ambiente che celebriamo oggi assume un valore particolare nel delicato momento storico che ci troviamo a vivere. La duplice situazione di emergenza, pandemica da inizio 2020 e da qualche mese anche bellica, sta infatti - e purtroppo - stemperando l’importanza della questione climatica e ambientale; mettendo in disparte il percorso verso un cambio di paradigma in chiave ecologica, che quantomeno in Europa pareva iniziare a configurarsi. Dico questo soprattutto alla luce di affermazioni pronunciate con crescente frequenza da politici e non negli ultimi mesi; che ci porterebbero a fare enormi passi indietro in alcuni ambiti estremamente strategici non solo per la transizione, ma anche per la nostra stessa sicurezza. Mi riferisco in special modo al riproporre l’uso del carbone per la produzione di energia e all’allentamento degli standard ambientali da rispettare nella produzione di cibo. Non a caso si tratta in entrambi i casi di ambiti che dipendono dall’uso di risorse naturali. Se ci pensiamo, d’altronde, il progetto d’integrazione comunitaria iniziò proprio nel 1952 con l’entrata in vigore del Ceca; l’accordo che metteva in comune il carbone e l’acciaio. Negli anni, però, anziché continuare a investire su questo obiettivo, per esempio attraverso la ricerca e implementazione su larga scala di energie rinnovabili, abbiamo ceduto gran parte della nostra sovranità a Paesi terzi e non democratici (vedi la Russia). Abbiamo erroneamente dato per scontato la disponibilità energetica, così come la pace. È così che, in un mondo in cui la concentrazione di CO2 in atmosfera non è mai stata così alta, ci troviamo ora a dover ricorrere a fonti energetiche estremamente climalteranti quali il carbonio. Analogo discorso vale per l’agricoltura, la cui strategicità per il territorio comunitario viene sancita formalmente nel 1962 con la prima “Pac” (politica agricola comune). A seguito di decenni di intensificazione, standardizzazione e finanziarizzazione del comparto agricolo, alcune recenti misure (eco-schemi, 25% delle terre coltivate a biologico, rotazione delle colture etc.), previste dalla nuova “Pac” e dalle strategie “Farm to Fork” e “Biodiversità 2030”, lasciavano ben sperare in un cambio di rotta a favore della tutela dell’ambiente (e della nostra salute) L’attuale preoccupazione per la sicurezza alimentare a livello globale, derivante dal conflitto in Ucraina, è però un’opportunità per le grandi lobby del cibo che sostengono che un’agricoltura attenta all’ambiente affamerà il mondo. È così che si ritorna a parlare di uso massiccio di input chimici di sintesi, di Ogm e di intensificazione delle monocolture. Mentre i veri rischi per l’alimentazione sono legati alle gravi conseguenze della crisi climatica che già si verificano con siccità e aumento di fenomeni meteorologici estremi. Alla desertificazione dei suoli dovute a pratiche agricole depauperanti. Alla dipendenza da fonti fossili per la produzione di fertilizzanti chimici e pesticidi, per l’utilizzo dei mezzi meccanici e per il funzionamento dei mercati globali. La disponibilità di cibo infatti dipende in primis dal mantenimento della biodiversità e dai servizi ecosistemici; che a loro volta dipendono dalla presenza di un ambiente sano e non degradato. Un obiettivo che non può essere perseguito mediante l’intensificazione della produzione, ma attraverso la diversificazione, la rilocalizzazione delle colture che sono alla base dell’alimentazione dei popoli, e mediante pratiche agricole rigenerative. Ecco perché penso che la Giornata mondiale dell’ambiente celebrata oggi abbia un valore particolare. Le recenti affermazioni in tema energetico e alimentare sono irrazionali e controproducenti, in quanto mancano di una visione complessiva e complessa dell’attualità. La pace, la sicurezza alimentare e persino la salvaguardia della salute di fronte all’insorgenza di malattie infettive non sono infatti disgiunti dalla cura che riponiamo nei confronti dell’ambiente. Noi essere umani, con le nostre società e le nostre economie, esistiamo all’interno della biosfera e dipendiamo, dunque, dai sistemi naturali e dalle risorse in essi presenti. Le guerre e i conflitti trovano un terreno fertile nella conquista di risorse naturali, nella loro scarsità o eccessivo sfruttamento. Così come le epidemie sono fortemente correlate all’alterazione antropica degli equilibri naturali: intervenendo sugli ecosistemi favoriamo la fuoriuscita dei virus e degli animali che possono esserne portatori. Ci troviamo in un momento storico di crisi, in cui il fitto reticolo di relazioni che reggono il sistema globale è messo a dura prova da ripetuti shock. Ma proprio per questo non dobbiamo diminuire l’attenzione verso clima e ambiente. Dobbiamo, invece, riconoscere la profonda interrelazione dei nostri sistemi naturali, sociali ed economici e riconoscere che il mantenimento di un ambiente sano è garanzia universale di pace, diritti e prosperità. Fermare, espellere, redistribuire: la via mediterranea all’immigrazione di Giansandro Merli Il Dubbio, 5 giugno 2022 I ministri dell’Interno degli Stati costieri preparano le richieste alla Commissione. Verso il nuovo patto su immigrazione e asilo, da sud un’unica voce per vincolare l’Europa. Se i vertici internazionali sulle politiche sanitarie non citassero i malati o quelli sulla scuola facessero altrettanto con gli studenti assomiglierebbero agli incontri dei ministri dell’Interno che discutono di immigrazione. Nella conferenza stampa finale del quarto appuntamento di Med5, conclusosi ieri a Venezia, nessun intervento ha fatto cenno ai migranti in quanto soggetti titolari di diritti. Al centro solo le esigenze degli Stati costieri di fermare le partenze, espellere gli irregolari e redistribuire tra gli altri paesi membri chi sbarca e ha diritto a rimanere. La richiesta è che, come per i profughi ucraini ma con esiti ben diversi, si stabilisca una responsabilità comune europea anche su chi arriva dal mare. Oltre alla titolare del Viminale Luciana Lamorgese erano presenti i quattro omologhi dell’Europa mediterranea: Fernando Grande-Marlaska Gómez (Spagna), Notis Mitarachi (Grecia), Byron Camilleri (Malta) e Nicos Nouris (Cipro). Ai lavori hanno partecipato anche i ministri dell’Interno francese Gérald Darmanin e quello ceco Vít Rakušan: i due paesi si daranno il cambio nella presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. Obiettivo di Med5 - riunitosi da marzo 2021 ad Atene, Malaga e in videoconferenza - è portare con un’unica voce le richieste dei paesi costieri nel negoziato per il Nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo, cioè il documento programmatico con cui la Commissione stabilisce le linee guida sulle politiche migratorie dei prossimi anni. Il primo testo è stato presentato il 23 settembre 2020. I cinque stati costieri, che significativamente si autodefiniscono la “linea del fronte” davanti al “problema strutturale dell’immigrazione”, puntano a riequilibrare le misure di responsabilità e solidarietà. Le prime, come le procedure d’asilo accelerate lungo le frontiere esterne o il controllo dei movimenti secondari, pesano maggiormente sui paesi di approdo. Le seconde non hanno nulla a che fare con i migranti: nel contesto delle politiche migratorie europee la parola “solidarietà” rimanda agli impegni reciproci a tutela degli interessi statali. Su questo la principale richiesta che viene dal Mediterraneo è creare meccanismi obbligatori di redistribuzione dei profughi. I cinque ministri hanno valutato positivamente le dimostrazioni di intenti della presidenza francese e il suo modello di negoziazione “step by step”, che prevede uguali passi in avanti sulle questioni legate alla responsabilità e su quelle di solidarietà. Unanimemente, però, chiedono impegni concreti e fatti. La strada è in salita. Da un lato il blocco principale alla redistribuzione è sempre venuto dai paesi di Visegrád, che in questa fase sono interessati da ben altri flussi migratori: milioni di ucraini in fuga dall’invasione di Putin. L’altro ieri l’ambasciatrice polacca in Italia ha detto che il suo paese accoglie 3,7 milioni di profughi. Recentemente Frontex ha rilevato una tendenza al controesodo, ma al momento è impossibile prevedere quanti resteranno all’estero e dove al termine del conflitto, ammesso che ciò avvenga in tempi rapidi. Da Est faranno pesare questo fatto nei negoziati. Altri ostacoli vengono dai paesi dell’Europa del centro e del nord: non sono interessati da sbarchi ma registrano alte richieste di asilo perché molti migranti si “ricollocano” autonomamente, semplicemente continuando il viaggio. Oltre un quarto delle 535 mila richieste di protezione presentate in Europa nel 2021 sono arrivate in Germania (148.200), seguita dalla Francia (103.800). Solo dopo si piazzano Spagna (62.100) e Italia (43.900), poco sopra la ben più piccola Austria (36.700). Dove più facile può essere l’accordo, almeno di principio, con gli altri Stati membri è su espulsioni e blocco delle partenze attraverso la cooperazione con i paesi di origine e transito. Rispetto ai primi, la ministra Lamorgese ha citato i casi di Bangladesh ed Egitto da cui provengono un terzo dei 20 mila migranti sbarcati in Italia nel 2022. Per il transito il ministro greco ha più volte sottolineato l’importanza del modello turco: pagare miliardi a un regime autoritario perché fermi le partenze. Poco importa che simili politiche restringano globalmente il diritto d’asilo e comportino lungo tutte le rotte migratorie violazioni dei diritti e terribili violenze. Come in Libia, dove i finanziamenti italiani ed europei sostengono un inferno fatto di intercettazioni in mare e detenzioni a terra. Nella realpolitik non c’è spazio per gli esseri umani. “Pace, anche se non giusta”. Letta prova a cambiare passo di Giuliano Santoro Il Manifesto, 5 giugno 2022 Effetto Ucraina. Il segretario dem apre uno spiraglio in vista della votazione in Parlamento del 21 giugno. Nel giorno in cui Matteo Salvini annuncia di aver rinunciato definitivamente alla sua missione moscovita, Enrico Letta segnala un cambiamento di toni sulla guerra in Ucraina. Lo fa citando Alija Izetbegovi?, presidente della Bosnia Erzegovina ai tempi della guerra in ex Jugoslavia. “Crediamo sia importante sostenere con l’unità di tutti i paesi europei e con l’unità del paese lo sforzo per bloccare l’invasione russa - premette il segretario del Partito democratico - Ma dobbiamo cercare di far sì che si arrivi ad una pace, anche se non è proprio la pace completamente giusta”. Dopo un paio d’ore. la precisazione via Twitter: Letta garantisce di voler continuare ad appoggiare l’Ucraina ma in qualche modo fa notare che anche che Izetbegovi? quando fece quella professione di pragmatismo si trovava alla testa di un paese aggredito. Il cambio di registro, insomma, sarebbe rilevante, anche perché il Pd fino a questo momento è stata la forza politica che con meno incertezza ha sostenuto la linea atlantista dell’appoggio militare all’Ucraina. “Se cadesse il governo adesso sarebbe brutta notizia - aggiunge Letta - Affronteremo il passaggio parlamentare consapevoli di questi rischi, siamo disponibili al confronto nel criterio generale della linearità con le scelte fatte finora e la solidarietà con i partner europei”. Segue attacco a Salvini, per aver “dato l’idea di un paese diviso” e scambio reciproco di promesse tra i leader dem e quello leghista: “Mai più al governo insieme”. Agli occhi del Movimento 5 Stelle, si tratterebbe del primo passo verso la convergenza in vista del voto in aula del 21 giugno prossimo in occasione delle comunicazioni di Mario Draghi in partenza per il Consiglio europeo. I vertici grillini considerano che fino a quella data le cose possano evolvere dal punto di vista sia diplomatico che militare, dunque che si possa ragionare con il resto della maggioranza, e soprattutto con i promessi alleati del Pd, di una svolta dal punto di vista dei negoziati. Se i 5 Stelle dovessero fare asse solo con la Lega si romperebbe lo schema del fronte progressista. Il contrario di quello che Giuseppe Conte auspica, come confermano anche le polemiche interne delle ultime ore. Il leader viene attaccato in alcune chat, rivela l’Adnkronos, per il fatto che nel corso del suo tour elettorale per le amministrative di domenica prossima starebbe scientificamente disertando i comuni in cui il M5S corre in solitaria. “Pur di non scalfire il rapporto col Pd trascuriamo i nostri candidati”, dicono alcuni eletti. Conte è accusato di andare nelle città in cui “il M5S è praticamente inesistente”, in alcuni casi non corre col suo simbolo, ma “non va a sostenere chi si è dato da fare in questi anni”. Tra pochi giorni, il 7 giugno, il tribunale di Napoli dovrà di esprimersi ancora sulla regolarità del voto su statuto e cariche. Se gli infortuni processuali dovessero proseguire fino a rendere inutilizzabile l’involucro legale del M5S, si passerebbe al Piano B di una vera e propria Lista Conte. Non sarebbe soltanto un espediente formale: ci sarebbero inevitabili ricadute politiche. Le guerre del cibo. Crisi alimentare e i profittatori della fame di Matteo Bortolon Il Manifesto, 5 giugno 2022 L’incertezza determinata dalla guerra è il terreno di coltura ideale per pratiche speculative, ed infatti nella prima settimana di marzo i fondi legati alle materie agricole hanno ricevuto 4,5 miliardi di investimenti. Gli ultimi avvenimenti della guerra attuale si intrecciano con le prospettive di una nuova crisi alimentare globale: Russia e Ucraina sono fra i maggiori esportatori di grano - secondo i dati Fao rispettivamente il primo e il quinto a livello mondiale - e tanto l’interruzione delle coltivazioni sul campo quanto il trasporto delle derrate già pronte subiscono le conseguenze del conflitto. Il porto di Odessa, l’unico importante rimasto a Kiev è bloccato, lo snodo logistico per il commercio di tale derrata è un obiettivo strategico per i russi quanto per gli ucraini; e senza un accordo fra le parti sarà difficile ripristinarne la funzionalità. I media occidentali hanno visto bene di inquadrare la situazione con titoli altisonanti quali Putin affama gli africani: la Federazione Russa ha dichiarato di accettare di collaborare per sbloccare la rotta a patto che gli Stati occidentali le tolgano le sanzioni. Per capire la questione occorre partire da un quadro più generale: secondo il recente 2022 Global Report on Food Crises - frutto della collaborazione dei maggiori organizzazioni internazionali, da Fao a Wfp, e simili - il numero di persone denutrite è aumentato tanto in termini assoluti che relativi dal 2016 (e quindi non può essere determinato dal semplice aumento demografico), soprattutto concentrati in un piccolo numero di paesi (soprattutto Siria, Afghanistan, Congo, Yemen, Etiopia, Sudan). Su questo scenario drammatico si innestano i problemi che la crisi del Covid ha visto per i problemi di approvvigionamento (l’incepparsi della famose catene globali del valore) e le risultanze della guerra in Ucraina, che secondo il report aumenterà il numero di affamati di 47 milioni. Quali sono le ragioni? Il meccanismo non è dissimile da quello visto per le materie prime di carattere energetico. L’interruzione della fornitura di grano - largamente prevedibile - da parte dei due paesi che assieme ne producono il 28% (20% Russia, 8% Ucraina) spinge in alto i prezzi. Ma lo squilibrio fra offerta (in diminuzione) e domanda produce un effetto prima che la carenza si faccia sentire nei fatti. Perché? Il mercato globale di cibo è un settore limitato rispetto alla totalità degli alimenti esistenti (la maggior parte degli alimenti viene prodotta e consumata nello stesso paese) ma in crescita costante e altamente innervato da processi tipicamente capitalistici sul piano dei diritti di proprietà intellettuale, produzione, commercializzazione ecc. Ma soprattutto è presente una forte componente di finanziarizzazione: il prezzo è fissato in borsa (la più famosa è quella di Chicago, dal 2019 denominata NYSE Chicago) e subisce tutte le classiche dinamiche speculative: la pressione sul prezzo per via delle aspettative di mercato, l’uso della materia prima come base per vari prodotti finanziari, e simili. Come nota un rapporto di McKinsey, i futures sul grano sono aumentati del 40% fra febbraio e marzo scorsi. Si tratta di contratti che fissano il prezzo per un acquisto futuro, e potevano essere usati nelle pratiche commerciali convenzionali per assicurarsi contro un rialzo imprevisto. Ma se vengono venduti prima che la stessa transazione si compia, la differenza fra il prezzo fissato e quello che si determina sulla merce reale portano a realizzare un profitto che prescinde dal bene reale. E quando gli acquirenti diventano molti, ciò incide sul prezzo di esso, il cui costo lievita (o scende) a prescindere dalla materia prima sottostante. L’incertezza determinata dalla guerra è il terreno di coltura ideale per tali pratiche, ed infatti nella prima settimana di marzo i fondi legati alle materie agricole hanno ricevuto 4,5 miliardi di investimenti. Tale è il risultato di non aver sufficientemente regolato tale settore dopo le disastrose risultanze di un decennio fa, anche per il lobbismo della International Swaps and Derivative Association, l’infingardo gruppo dei maggiori speculatori che ha fatto pressioni tanto sulle autorità statunitensi che europee, per cui il ruolo dello zar russo è nel migliore dei casi quello di una pallidissima comparsa. Libano, in fuga dalla carestia di Francesca Mannocchi La Stampa, 5 giugno 2022 Nella valle della Bekaa i libanesi allo stremo per il ricatto del grano vivono in competizione con i rifugiati siriani. “Siamo in ginocchio”. La sua famiglia è una delle più importanti nella Bekaa, la valle che confine con la Siria: vasti appezzamenti di terra, panifici, stazioni di benzina. Tutto quello che oggi, per l’effetto domino della guerra in Ucraina, è in ginocchio. Una famiglia ricca, un benessere così ingente da essere ostentato, le ville dei fratelli dominano la strada che da Zahle conduce ai monti che separano i due Paesi. Ma oggi la crisi è così profonda che Roger El Saker in casa non riesce più a dormire. Passa le notti nella baracca adiacente ai suoi terreni, sempre meno coltivati, sempre più aridi. D’inverno c’è l’acqua del fiume ma a partire da giugno il letto del fiume si asciuga e per estrarre l’acqua dal sottosuolo serve carburante che oggi costa quattro volte più di pochi mesi fa. Roger preferisce restare lì, nonostante tutto. Vicino alla terra di famiglia. Meglio dormire nei campi, dice, che in un’abitazione diventata altare di una stabilità che in Libano è stata sempre un’illusione. La moneta con cui era solito trattare non vale più niente, dal 2019 la lira ha perso il 95% del valore sul dollaro, i fornitori chiedono, viceversa, che le cose di cui gli agricoltori libanesi hanno bisogno - carburante, fertilizzanti, sementi - vadano pagate in dollari, ma nessuno ne ha. E se pure ne avessero, importare ai prezzi correnti significherebbe lavorare in perdita. Roger estrae due cipolle dal suo terreno: “Una cassetta di cipolle - dice - si vende all’equivalente di un dollaro. Per un agricoltore, invece, ai prezzi di oggi, ogni cassetta vuota costa un dollaro e mezzo”. A poche centinaia di metri dai suoi campi di patate e cipolle, suo fratello ha un forno dove produce pane. Gli sono rimaste scorte per tre giorni. Il governo non sta più distribuendo farina a prezzi calmierati. La poca che c’è, come il poco grano, è razionata. Il timore è che in tempo di crisi gli agricoltori vendano i prodotti finanziati dallo Stato al mercato nero in Siria anziché lavorarli per il mercato interno. El-Saker dice di non contrabbandare niente, mai. Ma dice anche che non biasima chi lo fa perché vivere nel ricatto del grano bloccato è impossibile. Il costo dei beni alimentari è aumentato del 392% in un anno con prezzi in ulteriore aumento dall’inizio della guerra il 24 febbraio. Il costo del pane è aumentato del 38% nell’ultimo mese e il prezzo dell’olio di girasole e dello zucchero è aumentato rispettivamente dell’88% e del 72%. Nei terreni della famiglia El Saker, tra le serre inutilizzate e la casa dei proprietari, c’è un gruppo di baracche. Teloni di plastica e pezzi di legno che da anni sono diventati casa per una trentina di rifugiati siriani. Quando c’era lavoro, in questa stagione, passavano le giornate chini sotto al sole a coltivare la terra, ora trascorrono quasi tutto il loro tempo nel caldo asfissiante delle tendopoli. La convivenza tra siriani in fuga dalla guerra e libanesi, negli ultimi dieci anni non è mai stata facile, ma oggi vive il suo momento più teso. Gli agricoltori impoveriti cercano un capro espiatorio alla loro frustrazione e nella guerra degli impoveriti contro i poveri, non tollerano più gli aiuti che i rifugiati ricevono dalle Nazioni Unite. Così famiglie come quella di El-Saker non solo continuano a chiedere un affitto ai rifugiati per dar loro la possibilità di vivere nelle baracche sui loro terreni, ma gli impediscono di ricevere gli aiuti alimentari. E loro si adeguano, per non essere cacciati via. “La guerra è finita di là, tornassero da dove sono venuti”, l’agricoltore scandisce le parole a voce alta abbastanza da essere udita dai bambini siriani che sistemano i sacchi di carbone nel capannone. Ieri sfruttati come lavoratori a basso costo e accusati di rubare il lavoro ai libanesi, oggi - che la povertà attraversa ogni strato della popolazione - forzati a non ricevere donazioni e consegnare i beni che hanno in cambio di un affitto che non possono pagare. Il Libano ha una popolazione di circa cinque milioni di persone e ospita un milione e mezzo di siriani che si aggiungono ai 250 mila palestinesi presenti nel Paese da decenni, numeri che lo rendono il Paese che ospita la più grande popolazione di rifugiati pro capite al mondo. Il Paese non ha mai firmato la convenzione di Ginevra, dunque non riconosce lo status di rifugiato e questa è la ragione per cui non ci sono campi profughi strutturati ma solo accampamenti informali più o meno tollerati dalle istituzioni e per cui i siriani non sono considerati profughi ma “ospiti”. Una definizione temporanea, un invito a non restare, che negli anni si sta trasformando in un invito ad andare via, cioè tornare in Siria. Torneranno a casa loro, pensavano tutti all’inizio della guerra, e continueranno a venire in Libano quando serve, per lavorare i campi, da braccianti stagionali. Gli eventi sono andati diversamente. Il regime di Bashar al-Assad, sostenuto dalle truppe russe di Putin, ha riconquistato la maggioranza dei territori in mano ai ribelli, e per le persone in fuga l’esistenza è diventata sinonimo di limbo e di esilio. Destino comune a due milioni di persone in Libano, tra cui mezzo milione di bambini. La metà è esclusa dal sistema educativo libanese. Non ci sono posti per tutti e anche se ci fossero le famiglie di “ospiti siriani” non potrebbero permettersi i costi di trasporto dalle baraccopoli ai villaggi. I dati più recenti delle Nazioni Unite stimano che più di 2 milioni di libanesi, circa il 57% della popolazione, vivono ora in situazioni vulnerabili. Tre famiglie su quattro non hanno soldi per sfamarsi. Per le famiglie siriane va peggio, il 99% non ha abbastanza soldi per comprare cibo. La valle della Bekaa è stata ed è il centro della crisi dei siriani in Libano, è qui che vive la metà dei siriani presenti in Libano. Famiglia come quella di Mahmoud che ha dieci anni e della Siria non ricorda niente perché è arrivato qui da Homs nove anni fa con sua madre. L’idea di casa per lui è una tenda soffocante, casa degli altri, quella vera, appartiene agli agricoltori che fino a qualche mese fa pagavano cinque dollari al giorno per farlo lavorare, oggi se va bene, se c’è lavoro, a fine giornata gli mettono in mano sessantamila lire libanesi che valgono più o meno due euro. Non ha un padre perché il suo è morto in guerra perciò la scuola per lui non è mai stata un’opzione. Non sa leggere né scrivere. Vorrebbe fare il dottore e arrossisce come è giusto fare a dieci anni mentre lo dice e il rossore è insieme vergogna della sua condizione e imbarazzo di pensare al futuro. Il presente, invece, fa di lui un bambino vittima già di troppe guerre: quella siriana al di là dei monti, quella tra poveri in Libano, e quella che indirettamente lo colpisce, la fame che arriva da lontano, dalla guerra d’Ucraina. Cina. Tienanmen, gli attivisti di Hong Kong ricordano il massacro. Sei i fermi di Gianluca Modolo La Repubblica, 5 giugno 2022 A Hong Kong il ricordo di questo capitolo sanguinoso della storia cinese aveva sempre resistito, ma la Cina ormai ha imposto il silenzio anche sull’Isola. Piccoli, grandi, gesti di disobbedienza. Hong Kong ha provato a sfidare il divieto di ricordare ciò che successe 33 anni fa a Tienanmen: c’è chi è andato a passeggio con una maglietta nera e una mascherina bianca con una x sulla bocca, chi portava tra le mani un fiore, chi accendeva le torce del telefonino o chi come il signor Chan che vicino al Victoria Park ha tirato fuori una candela a Led con la scritta “Mai dimenticare il 4 giugno”. La polizia lo ha perquisito per 20 minuti. “Hanno paura anche di una persona anziana”. Un ragazzo è stato fermato perché aveva tra le mani una scatola di Lego con dei carrarmatini. Qualche momento di tensione, qualcuno la polizia - dispiegata in massa per le strade dell’ex colonia britannica - se l’è portato via. Sei i fermi. Tienanmen è argomento tabù nella Cina continentale: qualsiasi contenuto online subito censurato, anche se ieri, a sfidare la censura più di qualcuno ci ha provato postando la frase “È mio dovere”. Sottinteso: ricordare. A Hong Kong, invece, il ricordo di questo capitolo sanguinoso della storia cinese ha sempre resistito, anche se con sempre più difficoltà. Per il terzo anno consecutivo infatti non c’è stata nessuna veglia a Victoria Park, tradizionale luogo di ritrovo per commemorare coloro che persero la vita tra il 3 e il 4 giugno del 1989 quando il Partito comunista mandò i carri armati per fermare la protesta di chi chiedeva democrazia e libertà nel cuore politico della capitale cinese. Una grande parte del parco era stata già chiusa venerdì: centinaia di poliziotti a pattugliare per evitare “assembramenti illegali”: si rischiano 5 anni di carcere. A Pechino, ovviamente, c’era più polizia del solito attorno a Tienanmen: già parecchio blindata anche durante il resto dell’anno. Hong Kong ha provato, come poteva, a non sottomettersi. Una delle idee più originali l’hanno avuta gli studenti della Chinese University: una caccia al tesoro. “È una ribellione. L’università ci ha rubato la statua, così abbiamo deciso di farne una nostra versione”. Hanno ricreato delle repliche in 3D della “Dea della democrazia” che lo scorso dicembre - dopo 11 anni - è stata rimossa dal campus. Hanno invitato i compagni a cercare le miniature, nascoste ai quattro angoli dell’ateneo. Accanto a ogni statuina un biglietto: “Congratulazioni per aver trovato questa piccola Dea! Portatela a casa e non dimenticate il significato che c’è dietro!”. Pechino aveva avvisato vari consolati di Paesi occidentali a Hong Kong dall’astenersi a compiere qualsiasi gesto. Messaggio ignorato. Quelli americano ed europeo hanno messo in bella mostra le candele alle finestre. “Nemmeno quest’anno il tentativo del Partito comunista di cancellare le sue atrocità avrà successo”, ci raccontava qualche giorno fa Ray Wong, attivista oggi rifugiato in Germania. “Molti di noi all’estero organizzeranno veglie. Non dimenticheremo mai il sacrificio che queste persone coraggiose hanno compiuto per resistere al regime autoritario cinese”. A Taipei, in piazza della Libertà, davanti a centinaia di persone, è stata svelata una nuova versione del “Pilastro della vergogna”, la statua che venne rimossa lo scorso anno dall’Università di Hong Kong. Cinquanta corpi ammassati, sofferenti: simbolo di chi 33 anni fa venne massacrato.