Il carcere genera crimine di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 4 giugno 2022 Dinanzi al fallimento della detenzione sul piano rieducativo, c’è chi chiede di abolire le prigioni. Nei giorni scorsi è passata, per ora solo alla Camera, la proposta di legge per impedire che siano costrette a stare in carcere mamme con bimbi di meno di 6 anni. Una norma di civiltà che dovremmo stupirci non sia mai stata finora adottata. Primo firmatario: Paolo Siani (Pd), fratello di Giancarlo, il giornalista assassinato dalla Camorra nel 1985. I figli non hanno colpe. E se, com’è giusto, i minori devono essere primariamente tutelati, è meglio che siano ospitati con le madri in case famiglie sorvegliate. Il caso dei “bambini detenuti” è esemplare di un atteggiamento storicamente diffuso nelle nostre società. La realtà delle carceri proprio non la vogliamo vedere. E continuamente rimossa dall’immaginario collettivo, nonostante fatti gravi come, per esempio, i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Incuranti del dettato costituzionale (articolo 27) che parla di umanità delle pene nella loro funzione rieducativa. Non raramente la detenzione ha aspetti di disumanità. Quasi sempre non è rieducativa. Anzi il carcere è il massimo produttore di recidive, specie quando si tratta di minori. E, dunque, Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta avanzano, con il titolo “Abolire il carcere” (Chiarelettere), quella che loro chiamano “una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”. Titolo e sottotitolo sembrano in aperta e stridente contraddizione. Ma, assicurano gli autori, il carcere “a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole per sempre”. Ricordano che non pochi tra i costituenti avevano avuto esperienza diretta della prigionia in epoca fascista, da lì la loro sensibilità al tema. La prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri era composta in gran parte da deputati e senatori ex reclusi. Bisogna aver visto era il titolo dell’editoriale della rivista “Il Ponte”, pubblicata nel 1949, con scritti di diversi padri della Patria (da Altiero Spinelli a Ernesto Rossi, da Gaetano Salvemini a Vittorio Foa, a Leone Ginzburg). Li sollecitò a intervenire - in un’Italia del dopoguerra con ben altre urgenze - Piero Calamandrei per il quale la pena detentiva doveva essere riservata solo a casi eccezionali e per periodi limitati. Questo affiato culturale abolizionista si è stemperato nel tempo. Il dibattito è rimasto confinato alla letteratura scientifica in materia. Nel confronto pubblico e politico si è consolidato - con rare eccezioni tra cui quella radicale - un vero e proprio tabù. Meglio non parlarne. Si perdono irrimediabilmente voti. A quei costituenti, alle citate figure simbolo della Repubblica, mai sarebbe venuto in mente di augurarsi che “qualcuno marcisse in galera, buttando via la chiave della cella”. Eppure avevano patito persecuzioni, torti e ingiustizie. Ma “se si conosce davvero la realtà del carcere risulta difficile augurarsi che altri ne facciano esperienza”. La differenza sta tutta qui. Noi non vogliamo immedesimarci, nemmeno per un attimo, nella condizione di un detenuto. Negli ultimi 22 anni ben 3.310 persone sono morte in carcere, un terzo delle quali per propria scelta. Il 70 per cento di chi ci entra è destinato a tornarci, una percentuale ancora più alta per i minori. Una comunità che li segue, li fa studiare, li può salvare. Il carcere li condanna, quasi sicuramente, a proseguire sulla via del crimine. Se il nostro grado di civiltà giuridica venisse valutato solo dall’angolo buio e controverso della realtà carceraria, l’Italia ne uscirebbe assai male. Soprattutto per il sovraffollamento solo parzialmente ridotto dalla pandemia. Ma che ha “carattere strutturale e sistemico” si legge nella sentenza della Corte europea dei diritti umani in cui l’Italia è stata condannata a risarcire il signor Mino Torreggiani e altre sei persone per le condizioni detentive al limite dell’umano. Il nostro Paese è stata a lungo inadempiente in tema di tortura. La convenzione di New York del 1984, adottata dall’Onu, è stata ratificata nel 1988, ma la legge relativa - che ha introdotto nel codice penale l’articolo 613 bis, sanzionando il reato di tortura - è del 2017. Un decreto legge del 2014 ha previsto risarcimenti per chi è risultato vittima di “trattamenti inumani o degradanti”. Nonostante diverse pronunce della Corte costituzionale (in particolare quella del 2021 sull’ergastolo ostativo), messaggi alle Camere (Napolitano nel 2013 sulla “stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia”), il dibattito è limitato e marginale. Su questo tema Marta Cartabia, come presidente della Consulta e oggi come ministro della Giustizia, ha espresso più volte serie preoccupazioni. Anche con toni indignati. La riforma che prende il suo nome (134/2021), riconoscono gli autori, costituisce un mutamento significativo del sistema penale e penitenziario. E introduce diverse sanzioni sostitutive. Un percorso che altri Paesi hanno intrapreso da tempo. Se in Italia la maggioranza dei condannati sconta la pena in carcere (il 55 per cento), in Germania si scende al 28. E l’indice di recidiva più basso in Europa si ottiene in Svezia, grazie alle pene non carcerarie e al lavoro all’esterno. Le attività rieducative sono poi finanziate, in alcuni Paesi come il Regno Unito, grazie all’emissione di social impact bond. Investire in progetti educativi ha un suo ritorno, non solo sociale. La Rand corporation ha calcolato che t5o mila dollari investiti in misure alternative per cento ipotetici detenuti fanno risparmiare un milione di dollari in tre anni di costi legati agli effetti della recidiva. Gli autori assicurano che le loro proposte soddisfano tanto la domanda di giustizia dei cittadini quanto il diritto del condannato al reinserimento. Nella relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (2006-8), presieduta da Giuliano Pisapia, si legge che “nulla come l’avvenuto recupero del condannato rafforza l’autorevolezza dei precetti penali”. E Gustavo Zagrebelsky, nella post fazione, condivide l’idea che si debba passare dal carcere come regola al carcere come eccezione. “Diciamo che la commissione di un crimine - scrive Zagrebelsky - fa sorgere nel colpevole il dovere di pagare il proprio debito alla società. Il carcere è un modo efficace di pagarlo? La risposta è no”. Non sappiamo sinceramente se vi sia anche la minima possibilità che la politica ne discuta seriamente. Abbiamo qualche fondato dubbio. Indulto e amnistia, per esempio, sono da anni istituti negletti. Lo sguardo compassionevole sul carcere e l’attenzione alla tutela dei diritti e della dignità delle persone prive di libertà non sono solo un banco di prova della nostra civiltà. Sono anche la misura del grado di umanità, in declino, cui ci stiamo lentamente abituando. Una telefonata che allunghi la vita di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 4 giugno 2022 Riforma penitenziaria. È trascorso quasi da un anno da quel 14 luglio in cui la ministra Marta Cartabia e il Presidente Mario Draghi tennero una conferenza stampa fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere per stigmatizzare le violenze brutali e di massa che erano avvenute in quell’istituto di pena nel 2020 in pieno lockdown. A Perugia il Gip ha ordinato alla procura di indagare sul perché i pubblici ministeri di Viterbo hanno archiviato una denuncia di tortura, che meritava, per la sua credibilità, un’adeguata investigazione. Un giovane egiziano, dopo essere stato presumibilmente torturato, si suicidò. Dunque, si rompe il muro corporativo e la magistratura indaga sulle proprie omissioni e inerzie. È trascorso quasi da un anno da quel 14 luglio in cui la ministra Marta Cartabia e il Presidente Mario Draghi tennero una conferenza stampa fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere per stigmatizzare le violenze brutali e di massa che erano avvenute in quell’istituto di pena nel 2020 in pieno lockdown. Una violenza che si contrasta con una rivoluzione culturale, con la formazione ma anche con nuove regole di vita penitenziaria, moderne e innovative. Il capo del Governo disse parole inequivocabili: “Le indagini in corso ovviamente stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Il Governo non ha intenzione di dimenticare”. E la stessa Ministra preannunciò imminenti riforme. Fu di parola e istituì una Commissione per l’innovazione penitenziaria affidandone i lavori alla guida del prof. Marco Ruotolo, costituzionalista da sempre attento alla questione carceraria. Lo scorso dicembre furono messi a disposizione del Governo tante proposte di riforma per via amministrativa, regolamentare e normativa. È arrivato il momento di approvarle. È arrivato il momento di portare in consiglio dei ministri e all’attenzione del parlamento e della presidenza della Repubblica il nuovo regolamento penitenziario. Esso deve includere norme che allarghino le opportunità di lavoro e di studio dentro e fuori le mura, riducano l’impatto del modello disciplinare, estendano le forme di custodia attenuata, liberalizzino la possibilità di telefonare e le videochiamate, favoriscano l’uso della rete e l’invio di mail, evitino che la permanenza in carcere coincida con una chiusura nella cella per quasi tutta la giornata, sburocratizzino la vita detentiva, tengano conto dei bisogni e dei diritti delle donne detenute, tutelino i diritti dei detenuti Lgbt+. Sono alcune delle cose che possono e debbano essere fatte ora, prima che l’estate con il caldo aumenti le tensioni. Dall’inizio dell’anno si sono suicidati ben ventisette detenuti. Ogni suicidio è una storia a sé. L’insieme dei suicidi segna una sconfitta da parte delle istituzioni che non riescono a prevenire e contrastare le intenzioni di morte. Suicidi e tensioni non si contrastano chiudendo le persone detenute nelle loro celle, ma umanizzando e modernizzando la vita in galera. Tutti ricorderanno uno spot pubblicitario della vecchia Sip con Massimo Lopez che riceve una telefonata mentre un plotone di esecuzione è pronto a fucilarlo. Una telefonata allunga la vita, recitava lo spot. Ecco lo slogan che deve accompagnare la riforma penitenziaria. Una telefonata, in un momento di disperazione, tristezza, di voglia di farla finita, può allungare la vita. Partiamo dalla liberalizzazione delle telefonate per una nuova vita penitenziaria che parta dai diritti e dai bisogni delle persone e non da indistinti e indimostrate ragioni di sicurezza. *Presidente di Antigone Legge Smuraglia, andrebbe migliorata e resa più agevole per le imprese di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 4 giugno 2022 A distanza di 20 anni la Legge Smuraglia appare ancora come l’ultima vera innovazione legislativa che ha contribuito ad aumentare i posti di lavoro per le persone detenute. Una legge che ho definito semplice ma rivoluzionaria in quanto utilizza l’unico vero strumento che lo Stato può adottare in maniera efficace: l’incentivo economico. Ciò che ha ostacolato maggiormente i benefici che può produrre tale iniziativa, oltre il limitato budget, è la poca informazione, pubblicità e visibilità che le è stata concessa nel mondo delle imprese, della consulenza del lavoro e dei dottori commercialisti. Appare importante quindi sfruttare questo spazio per informare nel dettaglio i nostri lettori sulle modalità di fruizione degli incentivi e della entità degli stessi. Il primo requisito necessario e obbligatorio per usufruire delle agevolazioni è l’assunzione del detenuto secondo regolare contratto CCNL per un minimo di 30 giorni. Nel caso in cui la persona sia internata o lavoratore esterno ai sensi dell’art. 21 ord. pen., lo sgravio fiscale è di € 520,00/ mese per un orario full time o altrimenti proporzionato alle ore lavorate. Tale sgravio lo si può richiedere per ogni persona detenuta assunta, fino ai 24 mesi successivi alla scarcerazione. Se invece la persona detenuta si trova in condizioni di semi- libertà, lo sgravio fiscale per un orario full- time è di € 300,00/ mese, che può essere richiesto fino ai 18 mesi successivi alla scarcerazione. Riguardo allo sgravio del 95 % dei contributi INPS, si fa riferimento, oltre alla condizione giuridica del detenuto; anche alla forma giuridica del datore di lavoro: mentre le cooperative sociali possono godere di tale sgravio sia per detenuti reclusi che per detenuti ammessi al lavoro esterno e semiliberi, le imprese private possono godere dello sgravio solamente per detenuti reclusi che lavorano all’interno della struttura penitenziaria. Anche in questo caso l’agevolazione può essere richiesta fino ai 18 mesi o 24 mesi successivi alla scarcerazione, a seconda che la persona detenuta si trovi in regime di semi-libertà o recluso. Tutto ciò è comunque subordinato ad una serie di passaggi burocratici ed autorizzativi. Innanzitutto, è fondamentale la firma di una convenzione tra impresa e direzione del carcere che regoli tali rapporti. Entro il 31 ottobre di ogni anno le aziende presentano le istanze, con l’ammontare complessivo del credito d’imposta di cui intendono usufruire l’anno successivo, alla direzione penitenziaria. Entro il 15 di novembre i provveditorati regionali comunicano le istanze al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, il quale determina l’importo massimo spettante ad ogni singolo soggetto entro il 15 dicembre. Per richiedere rimborso delle aliquote contributive bisogna invece presentare apposita rendicontazione all’INPS, il quale riconosce il rimborso in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande. Come si può vedere, ancora una volta la burocrazia potrebbe scoraggiare l’imprenditore ad avviare questi rapporti lavorativi e le differenze in base a forma giuridica dell’impresa o condizione giuridica della persona detenuta non aiutano ad avere un quadro chiaro e semplice dei benefici, condizione sempre più necessaria alle aziende per sviluppare le proprie strategie di crescita e di assunzione. Piuttosto che immaginare grandi riforme e sconvolgimenti dell’esecuzione penale, sarebbe già un grande, anche se piccolo, passo riprendere questa legge e migliorare alcuni aspetti per renderla più agevole al mondo delle imprese. Anche per rendere omaggio al grande uomo e giurista Carlo Smuraglia, scomparso pochi giorni fa. *Founder Economia Carceraria L’ignoranza sui referendum di Michele Ainis La Repubblica, 4 giugno 2022 Al voto il 12 giugno, ma i cinque quesiti sulla giustizia sembrano interessare pochi elettori. Manca una settimana al voto, ma dei referendum si parla ben poco. Tanto che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha richiamato la Rai, nonché gli altri operatori televisivi e radiofonici, esortandoli a una maggiore informazione sui cinque quesiti in materia di giustizia. Roberto Calderoli, che ne aveva curato la stesura per conto della Lega, si è spinto anche più in là: sciopero della fame. E con lui i Radicali, che in queste faccende vantano un’esperienza pluriennale. A tutti, però, ha risposto in tv Luciana Littizzetto: “Come potremmo mai documentarci su questioni così tecniche? Per chi ci avete preso, per 60 milioni di Perry Mason?”. Da qui un dubbio che investe la natura del referendum, il ruolo degli organi d’informazione, ma in ultimo i doveri di partecipazione che ogni democrazia reclama a carico dei propri cittadini. Perché delle due l’una: o il silenzio discende da un ordine di scuderia impartito dai politici, e da politici vigliacchi, cui manca il coraggio che nel 1991 sfoderò Bettino Craxi, invitando gli italiani ad “andare al mare” per impedire il successo del referendum sulla preferenza unica. I suoi tardi epigoni, al contrario, punterebbero sull’ignoranza degli elettori per far fallire il quorum, anziché spronarli a non votare. Oppure non c’è nessuna congiura del silenzio, c’è solo un vuoto d’interesse nella società italiana. D’altronde è dura appassionarsi al ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari, o al numero di firme necessarie per candidarsi al Csm. Sicché nessuna meraviglia se i referendum sono assenti dai talk show: farebbero crollare l’audience, insieme allo stipendio dei loro conduttori. Sta di fatto che per comprendere i quesiti servirebbe, più che una laurea in giurisprudenza, un dottorato in egittologia. Quello sulla separazione delle carriere, per esempio, s’allunga per 1068 parole, congiunte in un’unica frase senza punti. Colpa delle acrobazie linguistiche cui ci costringe il nostro ordinamento, dove il referendum è stato costruito per abrogare le regole in vigore, non per aggiungerne di nuove; e allora i promotori s’arrangiano cancellando un aggettivo di qua, una virgola di là, fino a cambiare il senso della proposizione normativa. Ma è colpa, altresì, delle tecnicalità della materia, che mal si prestano a una semplificazione. Da qui l’obiezione avanzata da alcuni giuristi: il referendum, con la sua logica binaria, non andrebbe mai usato sulle questioni più complesse, dove fra il “sì” e il “no” viaggiano mille sfumature. E andrebbe riservato alle grandi questioni di principio, non alle minuzie dettate da questa o quell’altra disciplina normativa. Giusto? No, sbagliato. L’elenco delle leggi sottratte a referendum si trova iscritto nell’articolo 75 della Costituzione, e non c’è bisogno di stirarlo ulteriormente. Altrimenti l’inammissibilità diverrebbe la regola, anziché l’eccezione. Del resto, per chi s’avventuri a proporre temi un po’ esoterici al corpo elettorale, i costituenti avevano già previsto una sanzione: il fallimento della consultazione popolare, che difficilmente in questi casi potrà superare il quorum dei votanti. E del resto il voto rappresenta un “dovere civico” (articolo 48 della Costituzione), ma non anche un obbligo giuridico. Se non hai voglia d’approfondire la riforma giudiziaria, o se il dibattito sulla nuova legge elettorale ti strappa uno sbadiglio, nessuno potrà metterti in castigo. La cittadinanza non è un servizio militare. E tuttavia c’è sempre un che di patologico quando i cittadini si disinteressano delle scelte di governo. E c’è paternalismo quando si dice che di certe questioni deve occuparsi il Parlamento, perché il popolo è immaturo. In una democrazia compiuta nessuna legge può sottrarsi alla volontà degli elettori. Significa, perciò, che sui governanti - e sui mezzi d’informazione pubblica e privata - grava il dovere di trasmetterne il significato. Ma significa altresì che sui governati grava il dovere d’informarsi, di documentarsi sul curriculum del candidato a sindaco o sul quesito referendario stampato sulla scheda elettorale. Dopo di che si può anche scegliere di disertare l’urna, ma a ragion veduta. L’ignoranza non è un delitto, però nemmeno una virtù. Referendum, ultimi giorni per salvare diritto e magistratura di Aldo Torchiaro Il Riformista, 4 giugno 2022 Al voto per i referendum per la Giustizia giusta manca una settimana. Una manciata di giorni appena, consumati nella distrazione da gran caldo di questo ponte di inizio estate, sotto alla catasta di notizie di grande presa su guerra, virus e carovita. Ma è clamoroso: i referendum sono spariti dal dibattito pubblico. Da quello televisivo in particolare, e - cosa ancor più grave - dall’informazione del servizio pubblico. Tutto è stato pensato per farli naufragare. I referendum sulla legalizzazione della cannabis e sul fine vita, pur avendo fatto il pieno di firme e assicurando un importante flusso di elettori, sono stati attentamente ricacciati. E si è giocato anche sul calendario: si è spesso dato alle consultazioni popolari, per chi non riesce a votare di domenica, il lunedì. Stavolta no. Si è concentrato l’impegno ai seggi per la domenica 12 giugno, nel week end che si preannuncia il più assolato della stagione, per assicurarsi la minor affluenza possibile. La Rai se ne sta occupando al minimo della decenza (e della legge): garantisce novanta secondi di spot istituzionale, la sera. Ricorda che è importante avere il certificato elettorale con una casella ancora vuota, altrimenti non si accede al seggio. Ma sulla materia, sulla sostanza dei cinque quesiti che puntano a riformare la giustizia, è calata la scure del silenzio. Non si ricordano talk show che ne abbiano dibattuto. Il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, Alberto Barachini, FI, sembra dello stesso avviso. Dice al Riformista: “Ho chiesto come ogni volta, in presenza delle consultazioni referendarie, massima copertura dei quesiti da parte del servizio pubblico anche negli approfondimenti e nei telegiornali Rai e negli orari di massima massimo ascolto. Ribadirò quest’invito perché non mi sembra che la copertura sia adeguata”. L’iniziativa politica, a sua volta distratta dalle elezioni amministrative nei comuni dove si vota, latita. Salvini, che dei referendum è tra i promotori iniziali, se ne è poi disamorato. Ieri però ha sbottato anche lui: “È in atto una vergognosa, infame, anti democratica, campagna di censura”. Di contrastarla si fa carico invece Roberto Calderoli, che ha iniziato uno sciopero della fame: “Abbiamo fame di Giustizia!”. L’obiettivo - spiega una nota della Lega - è abbattere il muro di silenzio”. Per Calderoli, vicepresidente del Senato, “Il nostro sciopero della fame serve per dare il giusto risalto al referendum e tutelare la democrazia perché i cittadini devono essere informati sui quesiti e messi nelle condizioni di decidere”. Insieme con lui, protesta rinunciando a mangiare anche Irene Testa, che coordina il comitato referendario: “Purtroppo ogni volta che si mette in discussione lo stato della giustizia in Italia, con iniziative che vadano appena un po’ più in là della denuncia della vergogna e dell’insostenibilità che essa rappresenta, per cercare di intervenire su un sistema che tiene stretto in pugno il Paese, ci si ritrova soli...”, si sfoga Irene Testa, che coordina. “Si continuano a perdere occasioni, ma non perdiamo la speranza. Anche questa giustizia è fatta da uomini associati in correnti che tutelano la propria insindacabilità e inviolabilità. Qualcuno diceva che tutto ciò che è fatto da uomini ha un inizio e una fine, e noi continuiamo e continueremo a gridare agli italiani di svegliarsi e aprire gli occhi”. Indignazione anche per qualche Dem. “Il silenzio mediatico sui referendum - ci dice Giorgio Tonini - è un fatto molto grave, in quanto mina alle fondamenta un istituto democratico di rilevanza costituzionale, ritenuto dai padri della Repubblica essenziale per l’equilibrio democratico. Si tratta di un effetto collaterale della degenerazione della regola del quorum in un contesto di elevata propensione all’astensionismo: una situazione che incentiva tutti i contrari al referendum a puntare sull’astensione (e al silenzio informativo che la favorisce), anziché su una trasparente campagna di informazione e mobilitazione per il No”. Per Umberto Ranieri “prevale una sorta di congiura del silenzio. Inaudito!”. Per Vincenzo Vita, che di problemi dell’informazione si occupa da sempre: “La legge n.28 del febbraio del 2000, la par condicio, è troppe volte violata. Sta succedendo anche sui referendum. Non bastano notizie brevi in qualche telegiornale o le tribune politiche sulla Rai. Si proponga di trattare il tema nei talk serali, che abbondano. Comunque la di pensi, conoscere è indispensabile per deliberare”. Da destra, Francesco Storace invita ad andare a votare come lui, 5 Sì: “Quelli che hanno bisogno delle toghe rosse stanno facendo di tutto per oscurare il referendum. È il popolo che deve reagire”. La senatrice Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd, prova a smorzare i toni: “Pur non essendo tra i promotori, io e diversi miei colleghi stiamo partecipando a tutti i dibattiti pubblici sui territori e sui media a cui veniamo invitati e il Pd ha dedicato una direzione ai referendum. Se dovessi ipotizzare il perché del poco interesse probabilmente penserei ai quesiti di difficile comprensione e al fatto che c’è già una riforma che interviene sui 3 dei 5 quesiti, a mio avviso in maniera decisamente migliore e preferibile, e che arriverà in aula tra dieci giorni al Senato per l’approvazione definitiva”. Dello stesso tenore Enrico Letta, che in un comizio vicino Siena ha detto che la miglior risposta all’eventuale naufragio dei referendum starà nell’iniziativa di riforma in Parlamento. Che però, come è noto, tocca i cinque quesiti solo in parte. Anche Mario Draghi ha posto l’accento sull’urgenza di approvare la riforma Cartabia. Chissà se ci sarebbe stata la stessa urgenza senza la spinta referendaria. Il referendum abrogativo è un’arma sbiadita: si ripensi la democrazia partecipativa di Guido Salvini* Il Dubbio, 4 giugno 2022 Non sono contrario all’istituto del referendum ma nemmeno un entusiasta sostenitore di quelli sulla giustizia per cui andremo a votare il 12 giugno. Un referendum dovrebbe porre ai cittadini un quesito che comporta una risposta semplice, un sì o un no, con conseguenze chiare della vittoria dell’uno o dell’altro. I referendum dovrebbero riguardare soprattutto temi civili e diritti di libertà di cui ciascuno ha avuto in qualche modo esperienza e sui quali può esprimere una scelta consapevole, anche indipendente dal suo schieramento politico. L’esempio che tutti ricordiamo è quello del referendum sul divorzio per il quale andò a votare, con convinzione, in un senso o nell’altro, la grande maggioranza dei cittadini. L’unico nell’ultimo gruppo di referendum che aveva questo carattere era quello sul fine vita e sul suicidio assistito, purtroppo e con una certa ipocrisia, dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. I referendum di oggi propongono quesiti complicati, con l’abrogazione di leggi o pezzi di leggi, difficili da capire nelle loro conseguenze anche per gli addetti ai lavori, toccano questioni che possono essere oggetto solo di elaborazioni e mediazioni legislative, anch’esse non semplici. E alla fine i quesiti non toccano il cuore degli elettori, non sono in grado di coinvolgerli. I referendum sulla giustizia del resto erano partiti male, frutto di una innaturale alleanza tra i Radicali e alcune associazioni di avvocati e la Lega, un partito quest’ultimo garantista o giustizialista a corrente alternata in base ai suoi interessi politici immediati. Il principale effetto positivo che si può riconoscere all’iniziativa referendaria è quello propulsivo, richiamare l’attenzione e accelerare, come è avvenuto, la discussione in Parlamento delle leggi in materia di riforma della giustizia. Infatti alcuni dei temi oggetto dei quesiti sono stati di fatto già superati dalla riforma del ministro Cartabia sulla giustizia vicina all’approvazione definitiva. Mi riferisco alla separazione delle funzioni tra giudici e Pubblici Ministeri, alla possibilità di intervento dell’avvocatura nelle valutazioni sui magistrati e al meccanismo elettorale del Csm, ove pure, anche se in modo a dir poco timido, la recente riforma è intervenuta rendendo inutile il quesito posto dal relativo referendum. Un altro referendum, se vincessero i sì, avrebbe effetti abbastanza rischiosi che il comune lettore non è certo in grado di calcolare. Si tratta di quello che propone, con l’abrogazione di buona parte dell’art. 274 lettera c) Codice di procedura penale, la netta riduzione delle ipotesi in cui sarebbe possibile applicare durante le indagini una misura cautelare. Tuttavia, per come è posto il quesito, nel caso fosse raggiunto il quorum e vincessero i sì, diverrebbe impossibile applicare la misura del carcere anche ad esempio nel caso di spaccio ripetuto di considerevoli quantità di sostanze stupefacenti e nel caso di rischio di ripetizione di altri gravi reati, e inoltre applicare altre misure, come il divieto di avvicinamento alla vittima, nel caso di reati contro le donne e in generale contro i soggetti deboli. Sarebbe un effetto che andrebbe ben oltre quello che gli stessi sostenitori del sì desiderano e immaginano come conseguenza della loro scelta, e comporterebbe in tempi rapidi un intervento di aggiustamento da parte del Parlamento. Difficilmente accadrà perché con ogni probabilità il 12 giugno il quorum non sarà raggiunto. Ma per evitare la disaffezione allo strumento del referendum che comunque è in grado su temi importanti di dare voce ai cittadini si potrebbe pensare in prospettiva ad un istituto del referendum concepito in modo diverso rispetto a quello previsto dalla Costituzione. Non un referendum abrogativo di una legge o di una parte di una legge, operazioni che richiedono l’intervento del legislatore e di esperti, ma un referendum in sostanza consultivo in cui si chiede ai cittadini di esprimere la loro posizione e le loro aspettative in merito ad un determinato tema con una domanda semplice, senza coinvolgerli nella modifica dello strumento tecnico. Ad esempio “Volete che le carriere dei giudici e dei Pubblici Ministeri siano separate?” oppure “Volete che il cittadino possa essere assistito quando decida, per malattia o altre gravi ragioni, di porre fine alla sua vita?”. Spetterebbe poi al Governo e al Parlamento con un adeguato studio e un intervento legislativo dare una risposta soddisfacente a quanto espresso dagli elettori. Sarebbe uno strumento di “democrazia partecipativa”, sul modello della polis ateniese, di cui si sente il bisogno e che esiste già in alcuni paesi quali la Svizzera, la Danimarca, Taiwan, la California e altri Stati degli Usa, ove, quando si pone mano ad un progetto di legge o anche ad un atto amministrativo importante, viene spesso indetto un referendum consultivo o propositivo tra tutti i cittadini interessati. Il 12 giugno andrò certamente a votare come ho sempre fatto, ma senza entusiasmo, per dovere civico, ma capisco anche perché, queste sono le previsioni, la grande maggioranza dei cittadini non lo farà. *Magistrato L’esclusione della custodia cautelare anche con il rischio che si ripeta il reato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 giugno 2022 Referendum, secondo quesito: l’obiettivo è mantenere il carcere preventivo solo per pericolo di fuga o inquinamento delle prove. Secondo l’articolo 274 del codice di procedura penale, la custodia cautelare di un indagato o di un imputato (cioè la detenzione in carcere o agli arresti domiciliari prima della sentenza di condanna) può essere ordinata dal giudice solo in presenza di almeno uno di tre requisiti: il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo (“concreto e attuale”) di fuga, il pericolo (sempre “concreto e attuale”) di reiterazione del reato “con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”. Il referendum numero 2 (scheda arancione) propone l’abrogazione delle ultime dieci parole, cioè la possibilità di arrestare quando c’è il rischio che la persona sotto indagine o sotto processo torni a commettere lo stesso reato, con una seria di ulteriori specificazioni e limitazioni derivanti dalla gravità del delitto. La volontà dei promotori è quella di ridurre drasticamente il ricorso alla carcerazione preventiva che in Italia è piuttosto frequente; attestati mediamente intorno al 30 per cento della popolazione detenuta, i reclusi in attesa di primo giudizio o con condanna non ancora definitiva registrano una tendenza alla diminuzione negli ultimi anni, ma sempre con percentuali rilevanti. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 30 aprile 2022 erano 15.715 su un totale di 54.959, cioè il 28,5 per cento del totale. Nonostante la tendenza al ribasso, l’Italia resta fra i Paesi europei che fa maggiormente ricorso alla custodia cautelare, e fra le motivazioni addotte dai giudici (quando accolgono le richieste avanzate dai pubblici ministeri) la più frequente è proprio la reiterazione del reato “della stessa specie”. Di qui la proposta di abolizione di quel requisito. L’effetto della vittoria dei Sì sarebbe di consentire la carcerazione preventiva solo per l’inquinamento delle prove (difficilmente sostenibile, ad esempio, dopo un arresto in flagranza o quando la responsabilità del delitto appare evidente), per il rischio di fuga (da dimostrare concretamente) o di commissione dei reati più gravi compresi nelle solite categorie: mafia, terrorismo oppure perpetrati con l’uso di armi o violenza. Resterebbero esclusi quelli contro la pubblica amministrazione (come la corruzione), contro il patrimonio, la libertà personale e persino sessuale in assenza di chiari indizi di violenza. Proprio per questa ragione Fratelli d’Italia, il partito più a destra dello schieramento parlamentare, che sulle questioni della giustizia si muove quasi sempre in sintonia con la Lega, Forza Italia e negli ultimi tempi con Italia Viva di Renzi, ha dato indicazione di votare No a questo quesito. Tra gli oppositori all’abrogazione c’è pure chi paventa l’impossibilità - in caso di abrogazione della norma - di applicare misure restrittive come il braccialetto elettronico o il divieto di avvicinamento agli stalker, ma fra i sostenitori prevale la volontà di contrastare una pratica che spesso sfocia nell’abuso, come dimostrerebbe anche un altro dato: l’aumento degli accoglimenti delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. “Ormai si finisce per togliere la libertà anche agli innocenti. Esistono alternative” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 giugno 2022 Referendum, perché Sì. Giampaolo Di Marco: si valutino le prove. La custodia cautelare in carcere non è la madre di tutte le misure. Giampaolo Di Marco è un civilista e presidente dell’Associazione nazionale Forense. Perché voterà sì? “Perché la reiterazione del reato è stato spesso il grimaldello per portare in carcere anche degli innocenti”. Che cosa intende? “L’inquinamento delle prove e il pericolo di fuga sono dati oggettivi, vanno dimostrati. La possibilità di reiterazione del reato può essere un criterio soggettivo. Questo porta a chiederla sempre, invece che in estrema ratio come si considerava nel codice dell’89”. Però esiste chi può tornare a compiere lo stesso reato? Come si tutelano le potenziali vittime? “Certo che esiste. Ma la fase serrata delle indagini preliminari consente di vedere il presunto reo con una lente ingrandita e valutare le prove”. E dunque? “Se uccido mia moglie e mi metti in carcere dovresti pensare che non posso reiterare quel reato”. Ma se la picchia? “La custodia cautelare è l’ultima delle misure da prendere. Ma non è l’unica. Il codice rosso ne prevede una serie ma presuppone che ci sia qualcuno che controlla”. Molti magistrati pensano che se passa il sì non potranno essere applicate neanche quelle perché esecuzione di misure cautelari. Lei? “Non è vero. La custodia in carcere non è la madre di tutte le misure”. Che cosa vuol dire? Come posso evitare che un rapinatore o un corrotto sia tentato dal compiere di nuovo lo stesso reato? “Ci sono strumenti legislativi. La revoca del porto d’armi, l’interdizione dai pubblici uffici”. E la violenza sessuale? “Non ragioniamo per suggestioni”. Suggestioni? “Certo. Se parlo di stupratori e rapinatori tutti vorrebbero sbatterli in galera e buttare la chiave”. Invece? “Bisogna riflettere. Parliamo di sottrazione della libertà in pendenza dell’accertamento del reato. È una misura che confligge con il principio della presunzione di innocenza. Infatti molti, alla fine, vengono assolti”. “Senza questa norma non si può intervenire nel 95% dei casi. Sarei preoccupato” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 giugno 2022 Referendum, perché No. Fabio Roia: sono coinvolti molti reati, dal furto allo spaccio, dalla violenza sessuale allo stalking. Fabio Roia, da presidente vicario del Tribunale di Milano e fondatore dell’Osservatorio sulla violenza sulle donne come vede il referendum sull’abolizione della custodia cautelare per reiterazione del reato? “Da magistrato continuerò ad applicare la legge. Ma da cittadino sarei preoccupato se passasse il sì”. Perché? “Perché il quesito elimina il presupposto per l’applicabilità non solo della custodia cautelare in carcere, ma di tutte le misure limitative della libertà personale”. Ovvero? “Il divieto di avvicinamento alla persona offesa, l’allontanamento dalla casa familiare, l’obbligo di dimora e gli arresti domiciliari”. Secondo gli avvocati non è così. “Ci sono tre presupposti per applicare queste misure. Il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Ma nel 95% dei casi la misura viene applicata in quest’ultimo caso. Se passa il sì sarà molto difficile”. Resteranno gli altri strumenti come il braccialetto elettronico? “No. Sono modalità di esecuzione. Non potendo dare la misura non posso dare neanche l’esecuzione”. Per quali reati più frequenti verrebbero meno queste misure? “C’è tutta una lista che va dai reati predatori, come il furto o la rapina; lo spaccio; e tutti quelli che riguardano la violenza contro le donne. Come lo stalking, la violenza sessuale, i maltrattamenti in famiglia. Se n’è accorta per prima, un anno fa un’avvocata e ha lanciato l’allarme sul fatto che veniva meno la tutela delle donne vittime di abusi e violenza”. Gli avvocati lamentano che il rischio di reiterazione del reato è stato usato per mandare in carcere anche chi era innocente. Non è così? “È un altro discorso. Per chi viene preso in flagranza di reato il processo non finisce con una assoluzione. Poi ha ragione chi dice che ci sono troppe custodie cautelari. Ma è un problema diverso. Va affrontato in un altro modo. Non facendo sì che, laddove ci sono le condizioni, non si possa più applicare il 95% delle misure cautelari”. Ma quale record di assolti: è falso di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2022 I promotori, per spingere a votare sì, parlano di detenzioni ingiuste. In realtà solo l’1,6% di chi finisce in cella vince il processo. Il pensiero subliminale che vuol far passare il quesito referendario sulla custodia cautelare è quello di voler scongiurare le manette facili, anche se i promotori vanno pure oltre: chiedono l’abolizione di qualsiasi misura cautelare, non solo il carcere, in caso di pericolo di reiterazione di reato, se l’accusa è di finanziamento illecito ai partiti o se la pena è sotto, al massimo, ai 4 anni, 5 se si va in carcere. Ma se alla propaganda del centrodestra (con al seguito “renziani e calendiani”) sui manettari si oppongono i dati, la realtà cambia. Nel 2021, secondo il ministero della Giustizia, le misure cautelari emesse per procedimenti iscritti e/o definiti nello stesso anno sono state 32.805. A proposito di chi grida alla persecuzione di migliaia di innocenti finiti in carcere, le assoluzioni definitive rappresentano solo l’1,6%, mentre gli assolti non definitivi sono il 5,6%. I proscioglimenti a vario titolo sono il 2,3%. In totale, solo 1 misura su 10 ha avuto come esito un’assoluzione definitiva/non definitiva o un proscioglimento a vario titolo. Le condanne definitive al carcere sono il 17,8% dei casi (5.449) mentre quelle con sospensione condizionale della pena sono il 6% (1.969). La maggior parte, il 58,2% delle misure cautelari, riguarda detenuti con condanne non definitive: in carcere (19.694). Quelle non definitive con sospensione condizionale della pena sono l’8,4% (2.761). Vuol dire che “3 misure su 4 - si legge - sono state emesse in un procedimento che ha avuto poi come esito la condanna (definitiva o non definitive senza sospensione della pena)”. Se a queste sommiamo anche le condanne con sospensione della pena “si deduce che 9 misure su 10 sono state emesse in un procedimento che ha avuto come esito la condanna”. Nella maggior parte dei casi, le misure cautelari riguardano procedimenti sia iscritti che definiti nel 2021. L’ispettorato generale, che ha analizzato i dati confluiti dai vari distretti, pensa che “verosimilmente i procedimenti, ove vengono emesse misure cautelari, hanno tempi di definizione molto ridotti, circostanza verosimilmente dovuta al fatto che già sussistono gravi indizi di colpevolezza…”. Domande di riparazione - Veniamo alle riparazioni per ingiusta detenzione. È bene chiarire che c’è una riparazione, ed è pure la più diffusa, per una valutazione del giudice ex post (articolo 314 cpp comma 1) in merito a una custodia. Vuol dire che solo alla luce di fatti sopravvenuti e che hanno portato al proscioglimento o all’assoluzione della persona interessata, la misura non andava presa. Quindi, nessuna persecuzione, nessun errore giudiziario. In base, però, agli orientamenti giurisprudenziali, della Consulta, della Corte europea per i diritti dell’uomo e della Cassazione, la persona che ha subito la misura cautelare, anche se non c’è stata violazione di legge, ha diritto a quello che formalmente è un indennizzo e non un risarcimento, che farebbe pensare a un abuso di potere. Ci sono però i casi, e sono meno, di ingiusta detenzione per violazione di legge (314 cpp, comma 2) a prescindere dalla condanna o dall’assoluzione. Qualche numero: nel 2021, su 1284 sono 490 le richieste di riparazione in merito a misure cautelari che sono state accolte definitivamente, una media del 33%, 191 in più rispetto al 2020. Di quelle 490 non più impugnabili e accolte, il 60% sono per valutazioni ex post, cioè non per violazione di legge e il 40% per “illegittimità dell’ordinanza di custodia cautelare”. I numeri più alti delle richieste accolte si registrano “a Reggio Calabria, Catania, Perugia, Bologna e Roma”. Rispetto al 2020, quanto alla spesa dello Stato, “si evidenzia una significativa riduzione dell’esborso complessivo passato da quasi 37 milioni di euro” nel 2020 a 24,5 milioni di euro nel 2021”. Responsabilità dei pm - Infine se si pensa alle strumentalizzazioni politiche sulla supposta necessità della responsabilità civile diretta dei magistrati, nella relazione si legge che “il sistema disciplinare consente di intercettare e sanzionare condotte censurabili molto prima e indipendentemente dalla verifica giudiziaria dei presupposti per il riconoscimento della riparazione da ingiusta detenzione” che, aggiungiamo, rappresenta pure la minoranza dei casi. Matteo Salvini, dopo essere stato in silenzio fino a pochi giorni fa, sapendo che è arduo raggiungere il quorum referendario, ieri si è appellato agli elettori: “Dateci una mano a togliere la politica dai tribunali, votate i 5 referendum che sono fondamentali”. Tanto i fatti non contano. E le chiacchiere volano come il vento. Calderoli: “Il mio Sì non è contro le toghe, ma oggi la magistratura è il potere” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 4 giugno 2022 Intervista al senatore leghista, in sciopero della fame da martedì scorso: “Chi già sa di andare a votare convinca qualcuno che vuole astenersi. E vedrete che raggiungiamo il quorum”. Roberto Calderoli, senatore della Lega, è in prima fila per l’approvazione dei quesiti referendari, tanto da aver iniziato qualche giorno fa uno sciopero della fame. Spiega di star bene ma di essere consapevole che più andrà avanti “e più la situazione peggiorerà”. E sul quesito riguardante le misure cautelari è netto: “Non può esistere - dice - un paese civile dove il 40 per cento della popolazione carceraria è in attesa di giudizio, un 20 per cento è in attesa di giudizio di primo grado, e mille innocenti vengono tenuti in ingiusta detenzione tanto che lo Stato spende 28 milioni e mezzo di euro in risarcimenti”. Senatore Calderoli, innanzitutto, come sta? Da un punto di vista fisico, ho perso tre chili. Al momento non sento per niente la fame, quindi per ora sto bene. Magari mi sta aiutando dall’alto anche il vecchio Marco Pannella, anche se lui avrebbe iniziato lo sciopero un mese fa. Poi è chiaro che più andrò avanti e più la situazione peggiorerà. Ho 66 anni e da 8 anni curo un tumore quindi devo fare più attenzione degli altri, ma per fortuna sono un medico e se qualcosa non va me ne accorgo subito. Andrà avanti fino a domenica prossima? Ho detto che sarei andato avanti finché non si fosse rotto il muro del silenzio. Questo è avvenuto, ma temo che se anche domani tutti parlassero di referendum si arriverebbe a un’informazione pari al minimo sindacale. Basti pensare che il richiamo dell’Agcom al servizio televisivo affinché ognuno faccia il proprio dovere è arrivato solo il 31 maggio. Insomma, non credo nei miracoli. Pensa che stia comunque aumentando l’informazione sui quesiti? Devo dire che lo sciopero della fame inizia a produrre degli effetti, quantomeno nel risultato. Nel senso che ho cominciato a fare interviste in Rai, a Mediaset e Sky, che prima erano totalmente assenti. Ho ricevuto anche la chiamata della presidente Casellati. Insomma qualcosa succede, poi però spunta la Littizzetto che fa il suo show per mistificare il referendum senza un contraddittorio e Gratteri che da Costanzo lancia l’anatema contro la riforma e i referendum, anche qui senza contraddittorio. Così non si fa. Ma non demordo e lancio un appello: chi già sa di andare a votare convinca qualcuno che vuole astenersi. E vedrete che raggiungiamo il quorum. Crede che oltre al problema dei media ci sia anche un problema di comprensibilità dei quesiti? Nei media siamo passati dallo zero virgola zero allo zero virgola qualcosa, ma siamo ben lontani anche dall’un per cento di visibilità. E non è solo un problema di quantità ma anche di qualità dell’informazione. Perché anche chi è intenzionato ad andare a votare, se segue le tribune politiche viene disincentivato. Sui quesiti, purtroppo non scelgo io i testi ma la Cassazione. E il cortocircuito è proprio questo: facciamo referendum sui magistrati e a decidere i quesiti sono gli stessi magistrati. L’ex procuratore Armando Spataro ieri ha parlato di “spinta populista” e di “ansia punitiva nei confronti della magistratura”. Cosa risponde? Sono felice dell’atteggiamento di Spataro, perché mi fa pensare di essere ancora più nel giusto. Io ho messo la faccia in questo referendum ma posso assicurare che non l’ho fatto contro la magistratura. Ritengo che la stragrande maggioranza dei magistrati siano competenti e indipendenti, ma sono gli stessi che non si fanno sentire perché lavorano tutti i giorni negli uffici. Poi c’è quella casta minoritaria legata al consociativismo che difende solo se stessa. Purtroppo si è rotto l’equilibrio dei poteri citato da Montesqueiu e oggi la magistratura non è uno dei poteri ma il Potere, con la p maiuscola. Come si è arrivati a questo punto? Grazie al controllo capillare dei magistrati sugli altri poteri dello Stato. Basti pensare che c’è una loro rappresentanza alla presidenza della Repubblica e anche a palazzo Chigi. Per fare un esempio concreto, riguardo alla legge sul rinnovo delle concessioni balneari era stato approvato un emendamento che stabiliva che le gare sarebbero ripartite nel 2033. Poi il Consiglio di Stato ha anticipato la data di dieci anni. Ma i magistrati dovrebbero applicare le leggi, non scriverle o inventarsele. Luciano Violante ha spiegato sul Dubbio che i quesiti “sanno di vendetta della politica contro la magistratura”, ma ha specificato che voterà sì a quello sulla Severino. Si aspettava questa presa di posizione? Fermo restando che ho il massimo rispetto di Violante, che è stato un grande presidente della Camera, va detto che anche lui era un magistrato. Detto questo mi chiedo: è un intento punitivo pretendere che i membri del Csm siano indipendenti e non legati alle correnti? Il fatto che ci sia una separazione delle funzioni da giudice a pm non credo abbia niente di punitivo. Lo sosteneva lo stesso Giovanni Falcone, figuriamoci. La valutazione dei magistrati affidata anche ad avvocati e professori di diritto è qualcosa di equo, non di punitivo. Oggi il 99,8 per cento dei magistrati ha la qualifica di eccellenza, perché si giudicano tra di loro. È chiaro che così la meritocrazia sparisce. Se poi mi dicono che può essere punitiva la limitazione all’abuso della custodia cautelare, questo non lo accetto. Perché non può esistere un paese civile dove il 40 per cento della popolazione carceraria è in attesa di giudizio, un 20 per cento è in attesa di giudizio di primo grado, e mille innocenti vengono tenuti in ingiusta detenzione tanto che lo Stato spende 28 milioni e mezzo di euro in risarcimenti. Sulla Severino, chi vota No, in primis il Pd, teme che con l’abrogazione si rischia di vedere i mafiosi candidarsi a cariche pubbliche. Cosa risponde? Rispondo che con l’abrogazione si aumenta addirittura il potere dei magistrati, verso i quali riponiamo fiducia. Chi viene condannato per mafia non si potrà mai più candidare. E comunque, per gli altri tipi di reati, una volta recuperata la propria posizione c’è l’obbligo di pubblicazione degli estratti dei casellari giudiziari. Dunque sarà l’elettore a decidere se punire o meno i fatti per cui qualcuno è stato condannato, dopo che ha espiato la propria pena. Se il mafioso potrà candidarsi sarà semplicemente perché qualche giudice ha preso la decisione sbagliata. Più volte lei ha detto che non si pente di aver condotto questa battaglia: come si sente a pochi giorni dal voto? Sono rammaricato del non accoglimento del quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati. Mi addolora moltissimo, perché è il quesito sul quale avevo lavorato di più. Credo sia giusto che quei 28 milioni e mezzo citati prima debbano essere posti a carico dei magistrati che hanno sbagliato e non dello Stato. Non capisco perché lo stesso quesito che nel 1987 è stato accolto e approvato, nel 2022 venga dichiarato irricevibile. Ma non posso che riscontrare che in un solo giorno sono stati rifiutati tre quesiti, che erano anche quelli più attrattivi per la popolazione. Testa: “Digiuno per la giustizia con cappuccini e succhi. Più voce ai referendum” di Francesco Boezi Il Giornale, 4 giugno 2022 La battaglia dell’esponente radicale: “Finora solo la Casellati ha risposto ai nostri appelli”. Irene Testa, pasionaria del Partito Radicale sulla giustizia, a tutto campo sul referendum. Continua la vostra battaglia per sollecitare le istituzioni? “Una lettera è stata inviata al presidente Sergio Mattarella, che non ha ancora risposto. Ma era stata inoltrata pure ai presidenti di Camera e Senato. A parte la missiva della Casellati, non è successo nulla a livello istituzionale”. Lo sciopero della fame ha avuto degli effetti? “Sono centoventi le persone che hanno aderito in breve tempo. Per la prima volta nella storia, un vicepresidente del Senato sta scioperando per chiedere che venga rispettato il diritto a conoscere. Calderoli ha messo in atto una lotta non-violenta per il diritto alla conoscenza”. Come sta andando il digiuno? “Non mangiamo. Beviamo tre cappuccini al giorno. Io poi, non bevendo il latte, prendo i succhi di frutta. Dal punto di vista fisico per ora sto bene e vado avanti. Ne ho fatti diversi di scioperi della fame, compreso uno di cinquanta giorni per le carceri. Sono i primi tre giorni ad essere quelli più duri. Poi la fame non si sente più”. La Rai non concede spazi? “Chiediamo che termini il silenzio sul referendum. La Littizzetto ha potuto parlarne in un programma che ha uno share considerevole, peraltro nell’ultima puntata di Che Tempo Che Fa: domandiamo che il medesimo spazio, nella stessa fascia oraria, venga concesso a noi promotori. Rai3 dovrebbe compensare con un contraddittorio”. Il tema più rilevante per voi è la custodia cautelare? “Non ci sono quesiti più importanti di altri. Certo, le persone in custodia cautelare, al momento, sono più di trentamila e oltre la metà di queste verrà poi riconosciuta innocente. È normale che ci si facciano domande sulla sussistenza di un abuso della carcerazione preventiva”. I contrari alla separazione della carriere parlano di Pm che diventerebbero “sceriffi”... “I Pm, nel nostro Paese, hanno già un potere assoluto: è l’unico potere nel nostro ordinamento a non essere sottoposto a controlli. Forse è l’unico al mondo. Ha il potere immenso di dirigere la polizia giudiziaria”. Sul Csm: il convitato di pietra restano le correnti... “I magistrati onesti esistono e, con ogni probabilità, non facendo parte delle correnti, non sostengono l’altra parte di magistratura che non ha la capacità di autoriformarsi dall’interno e che protesta. Il giudice non dovrebbe contestare le leggi ma applicarle. In questo caso, parliamo di associazioni private che si propongono come contropotere, sfidando il Parlamento, che è la sede delle libertà democratiche. In democrazia un potere dev’essere temperato da un altro potere. Altrimenti diventa una tirannia. Un po’ quello che sta accadendo con la magistratura”. Sullo stop alla Severino? “Ne Il fatto non sussiste racconto storie d’innocenti. Tra queste, molte sono di amministratori che sono stati costretti a dimettersi. Persone che fanno parte di tutti gli schieramenti, compresi il Pd e il M5S, che finiscono nel tritacarne della Giustizia e sui giornali perché accusati di chissà quale reato. Dietro a queste storie, oltre alle carriere rovinate, si nascondono i drammi familiari. La stessa Severino ha detto che era necessario rimettere mano alla sua legge”. Poi c’è l’“equa valutazione”, ma la responsabilità civile non è passata... “Nel 1986, la responsabilità civile era passata. Lo stesso quesito che abbiamo ripresentato, che però ai tempi era stato ammesso dalla Corte. Il Parlamento ha tradito quel quesito con la legge Vassalli, che ha previsto che a pagare fosse lo Stato. Adesso, forse, non sapevano cosa inventarsi”. Giustizia e informazione, la burocrazia non basta di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 4 giugno 2022 A sei mesi dalle norme sulla presunzione di innocenza è il momento di fare il punto sui problemi aperti, ormai depositata la polvere su accenti semplificatori e demagogici che avevano accompagnato il dibattito in Parlamento. L’attuazione della direttiva europea ha rilievo come richiamo di un principio spesso dimenticato, quando non apertamente contraddetto. La pretesa di intervenire sulle modalità della comunicazione con un approccio burocratico ha prodotto regole potenzialmente lesive degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica. “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Ma in democrazia l’interesse pubblico comporta un rovesciamento di prospettiva: l’informazione sui procedimenti penali deve essere la più ampia possibile, fatta salva la tutela delle esigenze di segretezza dell’indagine, che a sua volta deve essere ricondotta allo stretto necessario. I rapporti con gli organi di informazione del Procuratore della Repubblica si dovrebbero attuare “esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”; non basta poiché “La determinazione di procedere a conferenze stampa deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano”. Inutile spreco di carta. Immagino Procuratori che, ad evitare di perder tempo, hanno predisposto due modelli base di motivazione: a) caso di rilevante interesse nazionale per la gravità dei fatti o la novità delle questioni di diritto, b) caso destinato all’informazione locale, ma che tocca un problema rilevante per quella comunità, fosse di quartiere di una grande città o di un piccolo paese. Conosciamo comunicati stampa in buro-giuridichese, privi di ogni reale contenuto informativo e non rispettosi della presunzione di innocenza e, all’opposto, conferenze stampa ben gestite e rispettose del principio. La conferenza stampa non è comunicazione a senso unico, poiché non si esaurisce nella esposizione del Procuratore, ma è l’occasione nella quale i giornalisti, con domande ed eventuali contestazioni, esercitano il ruolo di “cani da guardia della democrazia” per usare l’espressione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo utilizzata per l’informazione sui casi giudiziari. Il disfavore per le conferenze stampa nasce dalla giusta riprovazione per il “protagonismo” e le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. Ma si dimentica che il “protagonismo”, che tanti danni provoca alla complessiva credibilità della giustizia, trova la sua ribalta soprattutto nei talk show. Abbiamo visto rapide ascese, parabole discendenti e presenze costanti, talora a talk show unificati, di magistrati che propongono la loro ricetta-definitiva- per- risolvere- i- problemi- della- giustizia (e non solo), senza offrire nessun contributo all’approfondimento di questioni complesse, ma con indubbio vantaggio per il narcisismo e per l’audience. L’informazione sulla giustizia non può essere ingessata nei due moduli: comunicato e conferenza stampa. Il tema viene affrontato nel recente documento della Procura Generale della Cassazione “Orientamenti in materia di comunicazione istituzionale su procedimenti penali”. Vale la pena di riportare alcuni passaggi che hanno il pregio di non eludere una questione insieme delicatissima e ineludibile nella pratica quotidiana “La comunicazione diretta con il giornalista è certamente lecita, e potrebbe anche configurarsi come doverosa, allorché corrisponda all’interesse pubblico di conoscenza dell’attività dell’ufficio, del suo indirizzo generale, delle problematiche incontrate nell’espletamento della funzione. Naturalmente questa comunicazione non deve trattare delle posizioni dei singoli indagati. Non sono da ritenersi lecite interviste, specialmente in esclusiva, volte alla trattazione di questioni inerenti singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali. Non costituiscono interviste le comunicazioni, anche dirette a singoli, volte a chiarire aspetti particolari della comunicazione pubblica già avvenuta e che abbiano determinato dubbi interpretativi o necessità di chiarimenti”. Nel 1973 a Torino il XV Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, intitolato “Giustizia e informazione”, si apre con gli interventi del Presidente dell’Anm e del Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana; la relazione di sintesi, affidata al giornalista Ferruccio Borio, capo cronista de La Stampa, si chiude con l’appello: “Magistrati e giornalisti hanno in mano strumenti pericolosi, Usiamoli ognuno per la sua parte nell’interesse esclusivo della società”. Seguendo l’approccio molto pratico della Procura Generale della Cassazione sarebbe utile oggi che Anm e Fnsi aprissero un tavolo di confronto che muova dalla ricognizione di prassi e problemi proposti nella quotidianità del rapporto tra magistrati e giornalisti. Riforma Csm, saranno puniti i pm che parlano con la stampa. Notizie solo in conferenza di Liana Milella La Repubblica, 4 giugno 2022 L’attuazione nelle procure della direttiva sulla presunzione d’innocenza limita il diritto dell’informazione. Poche righe. Ma destinate a cambiare il destino dei rapporti tra magistrati e giornalisti nelle procure di tutt’ Italia. Sono quelle che faranno punire il pm o il giudice che parla con la stampa, anche solo per smentire una notizia sbagliata. Un nuovo illecito disciplinare. Contenuto nella riforma del Csm che il Senato, salvo (improbabili) sorprese, approverà a metà giugno. Un illecito - contestato da tutta la magistratura - “figlio” della direttiva sulla presunzione d’innocenza. Entrata in vigore a dicembre, firmata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, espressamente richiesta da Enrico Costa di Azione che l’ha trasformata in un vessillo per l’avvocatura e per i garantisti. E che la difende: “Ci aspettavamo vari tentativi di far rientrare dalla finestra quello che la legge ha fatto uscire dalla porta. Ora toccherà alla ministra stoppare, anche attraverso l’ispettorato, ogni possibile elusione”. Il centrodestra l’ha sottoscritta, M5S e Pd l’hanno subita, senza troppe contestazioni. La stessa Fnsi l’ha presa sotto gamba, tant’è che ha dato forfait alla Camera pur chiamata per le audizioni. Ma ora siamo alle conseguenze della stretta, a quell’illecito disciplinare che, per auto protezione, farà chiudere le porte, la bocca, i telefoni dei magistrati. La direttiva chiede, esige, che i magistrati tacciano. Toghe autorevoli sostengono che la traduzione italiana della direttiva europea del 2016 sia “davvero pessima”. E che vi sia soprattutto una violazione contenuta in un avverbio. Quel “esclusivamente”, riferito ai contatti tra pm e giornalisti che potranno realizzarsi, per l’appunto, “esclusivamente” attraverso le conferenze stampa. Possibili però solo se esistono motivi “di interesse pubblico”. Solo a quel punto il procuratore - l’unico legittimato a parlare, perché per i pm vige l’assoluto silenzio - potrà decidere, motivandone per iscritto le ragioni, di fare una conferenza stampa. Regole che, ovviamente, dovranno essere seguite anche dalle forze di polizia. Che hanno già tagliato i rapporti con la stampa. Con un’unica, e rischiosa, conseguenza, notizie incontrollate che possono solo danneggiare gli stessi imputati. In compenso, a fronte di interpretazioni rigide, come quella della procuratrice di Torino Anna Maria Loreto del 25 maggio, che applica la direttiva Cartabia alla lettera, ecco l’apertura del procuratore di Perugia Raffaele Cantone sulle ordinanze di custodia cautelare. In una circolare del primo giugno Cantone autorizza “il rilascio ai giornalisti di copie degli atti processuali non più segreti”. Proprio come aveva fatto, a Napoli, il procuratore Gianni Melillo, oggi capo della Direzione nazionale antimafia. Anticipando di gran lunga la direttiva, tant’è che le prime aperture c’erano già state nel 2017, un anno dopo Melillo dà la possibilità di accedere agli atti. Come ha spiegato in più di un convegno, “una via trasparente”, che non ha portato né a lamentele, né tanto meno a critiche degli avvocati, i quali anzi, salutandolo in occasione del suo trasferimento a Roma, gli hanno dato atto dell’apertura. La solitudine delle donne vittime di stalking: 250 denunce e zero provvedimenti di Romina Marceca La Repubblica, 4 giugno 2022 La solitudine delle donne vittime di stalking: 250 denunce e zero provvedimenti. Testimonianze dalle associazioni che aiutano le persone in difficoltà. Troppo spesso gli strumenti giuridici si mostrano insufficienti. Waima, Marta e tutte le altre donne vittime di uomini violenti che continuano a chiedere aiuto e ricevono, in molti casi, risposte inadeguate dallo Stato. A Roma, nel solo III Municipio, ci sono 250 donne che negli ultimi 14 mesi hanno denunciato maltrattamenti, minacce e persecuzioni di mariti e compagni all’associazione Lucha Y Siesta. Ma, tra queste, in molte si sono ritrovate con l’ex sotto casa o che è stato sottoposto a una misura cautelare troppo blanda. “Un uomo che ti scrive “Ti ammazzo” prima o poi lo fa se non viene fermato. Dallo Stato ci aspettiamo risposte più grintose”, dice Bo Guerreschi, presidentessa di “bon’t worry”. Il clamore per il processo di Hollywood, in cui Johnny Depp ha ottenuto un risarcimento milionario dall’ex moglie Amber Hard, ci dice che il “Me too” non sempre è scontato. Ma è anche vero che le armi contro la violenza sulle donne sono ancora spuntate. Il Codice rosso da un lato ha accelerato i tempi di risposta alle vittime subito dopo la querela, dall’altro, come denunciano le associazioni che si occupano di violenze sulle donne, “non viene sempre rispettato soprattutto nei tempi dei processi”. E le donne restano schiacciate da un meccanismo che le rende ancora più vulnerabili. Duecento metri - Maria è una vittima di stalking, ha deciso di denunciare il suo ex che era diventato violento dopo un anno di relazione e si è affidata a “bon’t worry”. Abita a Roma. “Ti picchio”, ha iniziato a scrivergli lui su Whatsapp. Poi è passato ai pedinamenti, alle diffamazioni sui social, alle telefonate una dopo l’altra, alle minacce di morte. La denuncia e le sue integrazioni hanno avuto una risposta dopo sei mesi. Maria ha ottenuto finalmente il divieto di avvicinamento per il suo ex. Peccato che la distanza è veramente irrisoria: 200 metri. Il Codice rosso prevede anche l’applicazione del braccialetto elettronico. Ma per lo stalker di Maria il tribunale non lo ha disposto. “C’è una sottovalutazione dei fatti denunciati dalle donne - dice Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna - e anche se la misura cautelare arriva in tempi brevi, magari prevede una distanza di 100 metri da una donna che rischia la vita”. Tempi lunghi - Da Differenza Donna arriva un altro dato, seppur non numerico. “Le misure cautelari decise dal tribunale sono in numero inferiore rispetto alle richieste che presentiamo”, spiega Teresa Manente. Ma c’è di più. I tempi dei processi non sempre seguono quella corsia prioritaria stabilita dalla legge del Codice rosso. “La beffa - aggiunge l’avvocata Manente di Differenza donna - è che durante alcuni processi scadono i termini delle misure cautelari. E così l’uomo imputato non ha una libertà limitata mentre la salute della vittima viene sottovalutata”. Non sono stati brevi nemmeno i tempi di risposta per Waima Vitullo, la pornostar che ha denunciato dalle pagine di Repubblica la persecuzione dell’ex con 600 messaggi al giorno. Nei vocali l’ex le ha detto chiaramente che la ucciderà anche se lei ha denunciato. Waima ha atteso due mesi per vedere i poliziotti varcare la soglia della casa di lui e imporgli un allontanamento di due chilometri da lei, anche qui senza braccialetto. La risposta dello stalker? In un vocale a Waima dopo la notifica: “Tanto ti uccido lo stesso”. Vittime dello Stato - Se è vero che le donne vengono sentite dai magistrati a tre giorni dalla denuncia per effetto del Codice Rosso, è anche vero che spesso non vengono ascoltate le loro denunce. Come Giulia, residente nel III Municipio. “L’abbiamo accompagnata per tre volte a sporgere querela contro il compagno violento che le ha fratturato il naso - racconta Simona Ammerata di Lucha Y Siesta - e per tutta risposta le è stato detto che lui aveva la residenza nella sua stessa casa e non potevano mandarlo via. Una follia. Le donne sono vittime di uno Stato che per primo lascia inascoltate le loro grida d’aiuto”. “Il carcere per gli evasori non conviene, facciamoli lavorare per la collettività” di Francesco Grignetti La Stampa, 4 giugno 2022 Il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ruffini: “La riforma del Fisco? Funzionerà soltanto se semplifica le norme. Diciannove milioni di italiani hanno debiti con l’Erario: il problema non è individuarli, ma farli pagare”, “Sono 19 milioni le persone che hanno debiti con il fisco. Le abbiamo individuate, ma a chi conviene metterle tutte in cella?” Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, è al Festival Internazionale dell’Economia per presentare il suo libro, “Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1948 a oggi” edito da Feltrinelli. Ma proprio parlando della Costituzione sottolinea uno degli aspetti che gli sta più a cuore: sensibilizzare sulle ricadute negative che ci sono per tutti quando si sceglie di non pagare le tasse. L’Italia è il Paese europeo con la più alta evasione fiscale: 30 miliardi di euro all’anno. Perché? “Le tasse sono uno strumento per avere uno stato democratico. Pagare le tasse non fa piacere a nessuno e farle pagare fa ancora meno piacere, ma è la cartina di tornasole dell’inciviltà di un Paese perché si fanno pagare le tasse ad esempio per retribuire gli stipendi ai medici che ci salvano la vita. Lo Stato ha dovuto tagliare la spesa sanitaria perché non ci sono abbastanza risorse. Eppure, negli ultimi 20 anni, abbiamo un patrimonio di soldi non pagati di mille e cento miliardi. La scorciatoia è non rendersi conto che si sta segando il ramo su cui si è seduti. Dobbiamo essere consapevoli delle nostre scelte, invece si fa finta di nulla, negli anni con la complicità della politica”. Che si fa? Mandiamo tutti in carcere? “La pena detentiva per chi non paga le tasse non mi ha mai convinto. Preferiamo mettere in carcere l’evasore così poi fallisce l’attività o farlo lavorare finché non ripaga la collettività? Sono 19 milioni gli italiani che hanno cartelle esattoriali aperte, 16 milioni di persone fisiche e 3 milioni di società, ditte, partite iva. Li abbiamo individuati, il problema è la riscossione, non identificare gli evasori. Il mio sistema ideale è che i cittadini sappiano che chi non paga viene intercettato e deve per forza versare quanto non ha dato. Se così fosse, chi sarebbe così autolesionista da evadere?”. Nell’aumento del numero di inattivi si nasconde anche una crescita del lavoro nero? “Non so dare una risposta. Ho le mie idee ma non tocca a me dirlo”. Come giudica la riforma fiscale in discussione? “È una delega, aspettiamo di vedere la norma delegata per esprimere un giudizio. La cosa a cui tengo di più è la semplificazione delle norme. Prima bisogna fare ordine, poi si può vedere quali regole si possono cambiare. Altrimenti si fa altra confusione. Faccio un esempio: non si può ristrutturare casa senza prima svuotarla”. Come sta andando quest’anno con la dichiarazione dei redditi precompilata? “Non ho i dati aggiornati, ma va bene. Ogni anno abbiamo sorprese di come i cittadini acquisiscano familiarità con questo strumento”. L’Agenzia delle Entrate ha intrapreso un percorso di digitalizzazione. Quali saranno le prossime tappe? “Stiamo già precompilando i registri dei soggetti commerciali, l’anno prossimo partirà la precompilata Iva. Ogni anno, ogni mese siamo alle prese con i nuovi sistemi. Vediamo anche quali strumenti il legislatore ci permette di utilizzare”. Cosa state facendo per liberare il magazzino dei crediti che non si riesce a incassare? “In programma c’è l’attuazione degli istituti della rateizzazione e il completamento della rottamazione in corso. Riscuotiamo molto meno di quello che riceviamo da riscuotere. Comunque la macchina fiscale è tornata alla normalità, siamo pienamente operativi. Abbiamo sospeso la nostra attività tra il 2020 e il 2021. Poi ci è stato detto di ricominciare quindi abbiamo rimodulato l’attività in modo non improvviso, dividendo nel 2022 il pregresso, abbiamo decine di milioni di atti e stiamo procedendo”. Nel suo libro analizza anche il ruolo degli amministratori pubblici. Cosa vuol dire per lei fare politica? “Tutti noi siamo chiamati a fare politica e fare politica vuol dire essere classe dirigente del Paese”. Il “curriculum” non basta: servono fatti per tenere un uomo al 41 bis di Simona Musco Il Dubbio, 4 giugno 2022 Annullato il carcere duro per Bebè Pannunzi, l’ex broker del narcotraffico non è mai stato affiliato ad alcun clan. I magistrati: “Il solo spessore delinquenziale non basta a legittimare quel regime”. Non basta un curriculum eclatante per tenere un uomo al 41 bis. A dirlo è il Tribunale di Sorveglianza di Roma, che ha accolto l’istanza dell’avvocato Cosimo Albanese annullando il carcere duro per Roberto Pannunzi, alias “Bebè”, ritenuto il più grande broker del narcotraffico internazionale e sottoposto ininterrottamente al 41 bis sin dal 9 luglio 2013. “La pericolosità qualificata di Pannunzi - si legge nell’ordinanza - è fondata sulla sua biografia criminale e il solo spessore delinquenziale del detenuto non è sufficiente a legittimare il regime applicato”. Insomma: il Viminale non può limitarsi ad un copia-incolla per decidere di disporre o prorogare il 41 bis. Nel suo caso, “nei decreti (ministeriali, ndr) non si fa il minimo accenno all’operatività del sodalizio in parola, mentre ci si diffonde sulla vitalità delle cosche di ‘ndrangheta, precisando, però, che non risulta alcuna affiliazione del Pannunzi ad esse”. A ribadirlo anche una della Dda di Reggio Calabria nel maggio 2022, nella quale, nel fare riferimento a recenti operazioni investigative che hanno colpito cosche di ‘ndrangheta con le quali Pannunzi ha collaborato come broker del narcotraffico, “si afferma testualmente che non risulta “una sua formale affiliazione a nessuna di esse”“. Che l’associazione che un tempo gli valse l’accostamento a Pablo Escobar sia ancora in vita non c’è prova. E ciò “fa perdere rilievo al ruolo rivestito dal Pannunzi al momento dell’arresto in seno all’organizzazione criminale dedita al narcotraffico”, motivo per cui non si può parlare di “pericolosità qualificata”. Pannunzi si trova in carcere per espiare una pena residua di quasi 19 anni per associazione finalizzata al narcotraffico, diversi episodi di traffico di ingente quantità di stupefacente e per evasione dalla detenzione domiciliare. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma deriva da un annullamento con rinvio della Cassazione - a seguito del ricorso contro i decreti di proroga del regime di carcere duro emanati nel 2019 e nel 2021 - nel quale i giudici, commenta Albanese, avevano evidenziato “in maniera assolutamente incontrovertibile la consuetudine dell’Autorità governativa di sottoporre i detenuti ritenuti di elevata pericolosità sociale al regime del 41bis in maniera quasi automatica e senza però adeguatamente motivare i provvedimenti di rigore adottati, così come previsto dalla legislazione in materia, né accertare la sussistenza delle condizioni necessarie per tale estrema decisione”. Secondo la Cassazione, infatti, “la decisione di proroga, pure a fronte delle allegazioni difensive tese a dimostrare l’assenza di coinvolgimento del reclamante in fatti di reato riguardanti le cosche di ‘ndrangheta (posteriori al 2002 e sino al momento dell’arresto, avvenuto nel 2013), non affronta in modo chiaro il tema dei potenziali destinatari delle ipotetiche “comunicazioni verso l’esterno” dell’attuale ricorrente”. Il fatto di aver intrattenuto rapporti con esponenti dei clan allo scopo di trafficare droga, pur senza essere affiliato o aver agito per agevolare i clan, se da un lato dimostra “l’elevata caratura criminale di Pannunzi”, dall’altro “non pare consentire una deduzione in termini di “capacità” di tale soggetto di mantenere contatti operativi - da detenuto - con simili organizzazioni, non avendo il Pannunzi rivestito alcun ruolo all’interno delle medesime”. La decisione del Viminale, dunque, non chiarisce come, a distanza di così tanto tempo dai fatti, un soggetto estraneo ai clan “possa influenzare con ordini e direttive i comportamenti criminosi di soggetti affiliati a tale cosca, la cui perdurante operatività finisce - in tale quadro - con essere un elemento non influente. Né si chiarisce se il gruppo criminale dedito al traffico di stupefacenti sia ancora attivo e quale sia la sua composizione effettiva”. Per la difesa, il Viminale si era basato su “dati presuntivi e congetture”: Pannunzi, infatti, non ha precedenti per associazione mafiosa, “come erroneamente citato nel decreto, né condanne per reati aggravati ex art. 7 del dl n. 152 del 1991”. Dunque, non si è “consegnato all’associazione con quel giuramento di sangue che lo lega al sodalizio fino alla morte”, bensì ha commesso “il reato di associazione finalizzato al narcotraffico, per finalità personali economiche - come ha scritto il Tribunale di Locri nella sentenza che ha segnato la fine della storia giudiziaria del detenuto - ed il vincolo associativo” nel reato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti “ha carattere meramente temporaneo”. Per il Tribunale di Sorveglianza di Roma, dunque, “non si ravvisa la presenza di rilevanti parametri fondanti il regime detentivo applicato”. Una decisione di civiltà, secondo Albanese: “Proprio in un particolare momento storico di rilevante importanza per il tema giustizia, caratterizzato dall’imminente appuntamento referendario in cui gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su questioni peculiari inerenti la inviolabilità della libertà personale - conclude il legale -, il corretto funzionamento della macchina della giustizia e, più in generale, la concreta tenuta democratica della Nazione, giunge un provvedimento di portata pressoché epocale che chiarisce e delinea in maniera inconfutabile i limiti invalicabili che lo Stato, nelle sue più ampie rappresentazioni, non può e non deve in alcun modo oltrepassare”. Sottrazione di minori e maltrattamento, il punto della Cassazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2022 La VI Sezione penale, sentenza n. 21634 depositata oggi, ha parzialmente accolto il ricorso di una madre affermando che il vulnus sul minore sottratto o trattenuto all’estero non costituisce di per sé, per il principio del ne bis in idem, un’ulteriore offesa rilevante ai fini dell’articolo 572 del codice penale. La sottrazione di minore all’estero - in questo caso da parte della madre che aveva perso la potestà genitoriale - non costituisce di per sé un ulteriore offesa rilevante ai fini del reato di maltrattamenti in famiglia. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 21634 depositata oggi, accogliendo sotto questo profilo il ricorso di una donna condannata dalla Corte di appello di Brescia a cinque anni di reclusione per i reati di maltrattamenti in famiglia, di calunnia e di sottrazione all’estero di figli minorenni. In particolare, alla imputata era stato contestato il reato di cui agli artt. 572, 61-quinquies cod. pen. per aver maltrattato dall’agosto 2017 la figlia minore, nata nel 2011, costringendola a disegnare se stessa ed il padre in atteggiamenti sessuali, ripetendole ossessivamente che il padre e la nonna paterna compivano su di lei atti sessuali, conducendola in Romania, così da cagionarle una sindrome da alienazione parentale e alterando il suo normale sviluppo della sfera emotiva e sessuale (capo A). Del reato di cui agli artt. 81 e 368 cod. pen. per aver incolpato falsamente il padre della bambina (capo B). Nonché del reato di cui all’art. 574-bis cod. pen. per aver sottratto dall’ottobre 2018 con condotta perdurante le due figlie minori al padre, unico esercente la responsabilità genitoriale, conducendole contro la volontà di quest’ultimo in Romania (capo C). Proposto ricorso, l’imputata lamentava l’erronea applicazione della nuova e più grave disciplina sanzionatoria dell’art. 572 cod. pen. introdotta dalla novella della L. n. 69 del 2019, “perché si è qualificata come condotta maltrattante anche il trattenimento della bambina all’estero”. Tale condotta, secondo la ricorrente, era già sanzionata ai sensi dell’art. 574-bis cod. pen., e non poteva essere ritenuta di per sé una condotta di maltrattamento, senza accertare le conseguenze che la stessa ha avuto sulla minore. Motivo accolto dalla Suprema corte secondo cui erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che la sottrazione della minore e il suo trattenimento all’estero costituisse “una ulteriore condotta maltrattante di cui al capo A), protrattasi sino al 16 ottobre 2019, data dell’arresto dell’imputata in Romania”. Il giudice di secondo grado ha così ritenuto che andasse applicata la cornice sanzionatoria più severa prevista per il reato di maltrattamenti dalla legge n. 69 del 2019. Ed è partita da una pena base di tre anni e mesi sei di reclusione. “La decisione della Corte di appello - si legge nella decisione -, quanto alla protrazione del reato di maltrattamenti, non appare corretta”. Il reato di maltrattamenti in famiglia, spiega la Cassazione, “può concorrere con quello di cui all’art. 574-bis cod.pen., in quanto quest’ultimo reato, quandanche riguardi il medesimo minore, viene ad incriminare le specifiche condotte tipizzate di “abductio” e di trattenimento del minore al di fuori del territorio dello Stato, che determinino un impedimento all’esercizio della responsabilità genitoriale e costituiscano al contempo una preclusione per il figlio di mantenere la comunanza di vita con i genitori”. Il reato di cui all’art. 574-bis cod. pen. ha infatti natura plurioffensiva, in quanto offende le prerogative di colui che esercita sul minore la responsabilità genitoriale (il genitore o il tutore) e anche, attraverso l’impedimento delle relazioni con quest’ultimo e il suo allontanamento dall’ambiente di abituale dimora, il diritto del minore a vivere nel suo habitat naturale. “Quindi, il vulnus che la condotta descritta nel reato di cui all’art. 574-bis cod. pen. determina sul minore sottratto o trattenuto all’estero - come sopra indicato - di per sé, non può costituire, per il principio del ne bis in idem sostanziale, un’ulteriore offesa rilevante ai fini dell’art. 572 cod. pen.”. Ne consegue, conclude la Corte, che la sentenza impugnata deve essere annullata sul punto della determinazione del trattamento sanzionatorio, che dovrà essere oggetto di nuovo giudizio. Campania. Carceri, politici bacchettati: “Entrate, parlate con detenuti e agenti, basta passerelle” di Viviana Lanza Il Riformista, 4 giugno 2022 Garanti e politici a confronto. Lo ha voluto il Garante regionale Samuele Ciambriello nel tentativo di aprire uno spiraglio di luce nel buio dell’indifferenza che circonda il mondo penitenziario. “Ho ritenuto importante, d’intesa con la Conferenza dei garanti, organizzare questo evento a Napoli per avvicinare i due mondi: da una parte i garanti e il Terzo settore e dall’altra la politica. Una campagna di ascolto”, spiega illustrando il convegno dal titolo “La politica incontra il carcere” organizzato nei giorni scorsi nell’aula del Consiglio regionale della Campania. “La politica va incentivata ad occuparsi del carcere, dei suoi problemi, di tutte le difficoltà che giornalmente affrontano i diversi operatori del sistema penitenziario - aggiunge Ciambriello - . È importante che la politica metta in atto scelte precise per un cambiamento radicale del sistema penitenziario, per garantire la tutela della salute in carcere, per facilitare l’accesso alle misure alternative. Il carcere non può essere una risposta semplice a bisogni complessi”. Se come diceva Goethe, “parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte”, conoscere diventa una necessità e adottare iniziative deve diventare un impegno. Un impegno che deve assumersi la politica. “Siamo qui per parlare di carcere al tempo di una crisi sociale, sanitaria, una crisi mondiale. Non è possibile stare tutti zitti, ancora zitti. Se parlare fosse solo consolatorio già sarebbe un aspetto positivo. Noi garanti ci impegniamo quotidianamente nelle nostre strutture penitenziarie di riferimento, rinnoviamo la massima disponibilità a cooperare e a dialogare con le direzioni delle carceri, del mondo del Terzo settore, con la magistratura di sorveglianza, ma molte volte i tempi non coincidono. Molte volte i tempi, anche di coloro che operano in carcere, sono estremamente lunghi”. Quante volte abbiamo sentito dire che il carcere deve diventare un luogo più dignitoso e sicuro per chi ci vive e per chi ci lavora. Il passaggio dalle parole ai fatti è ancora lontano. “Allora chiediamoci, tutti insieme, alcune cose oggi - aggiunge Ciambriello - è possibile una funzione rieducativa della pena in questi spazi carcerari? (Vi potrei citare il carcere di Poggioreale, dove ci sono celle da 6/8 persone). È possibile una funzione rieducativa della pena e una inclusione sociale? (Si consideri che in moltissime carceri non ci sono spazi di socialità, spazi dell’intrattenimento, spazi culturali)”. Le risposte, con gli incisi che fa il garante, appaiono scontate: non è possibile affermare che le nostre carceri rispettino il dettato costituzionale. “Ad Ariano Irpino hanno costruito una sezione detentiva nuova sul campo da calcio, salvo poi dimenticare di costruire un nuovo spazio verde affianco”, ricorda Ciambriello. In carcere gli atti di autolesionismo sono in grande aumento, l’altro giorno un nuovo caso di suicidio in cella a Santa Maria Capua Vetere. “Quante altre cose ci sarebbero da dire, ma ritorniamo alle responsabilità della politica - aggiunge - Perché in questi anni, anche in piena crisi sanitaria, non sono state compiute scelte che mirassero alla centralità della persona? Perché non c’è stata una decisione, anche solo il minimo sindacale, sulla liberazione anticipata? Perché è stato anche solo scandaloso parlare di un indulto in Italia, visto che il Covid ha provocato nel mondo milioni di morti e miglia e miglia di morti in Italia, compresi agenti di Polizia penitenziaria e detenuti? Nella mia regione, 7 detenuti morti per Covid, 6 agenti, un dirigente sanitario. E la politica non dà una risposta a tutto questo? In tutta Europa 158mila detenuti sono usciti dal carcere. Il Portogallo ha fatto un’amnistia. Qui si ha paura, si indietreggia”. Il carcere deve diventare l’extrema ratio. Il garante chiama in campo la politica. “La politica non può rendersi attiva solo con riforme”, dice. “La politica può e deve potenziare il numero degli operatori socio-sanitari nelle carceri e stranare altre criticità. Per 25 anni non è stato bandito un concorso per direttori di carceri? Questo a Roma non lo sapevano? - chiede provocatoriamente Ciambriello - Non si sapeva che, nel breve tempo, sarebbero mancati educatori, vicedirettori, agenti? A capo del Dap abbiamo bisogno di un manager, non sempre di magistrati. A Roma non si sapeva che il 30% dei nostri detenuti sono stranieri e si fa un concorso per appena 64 mediatori culturali, ma non linguistici? La politica - conclude Ciambriello -, allora, deve ritornare a svolgere il suo ruolo originario: ascoltare le proposte di chi vive da anni l’esperienza del carcere. Gli operatori del Terzo settore, noi Garanti, i volontari tutti, hanno acquisito una grande competenza e vogliamo metterla a disposizione della politica”. Le proposte del garante regionale sono quelle di un piano per una formazione congiunta tra operatori dell’Amministrazione penitenziaria, magistrati di Sorveglianza, istituzione scolastica, istituzione sanitarie e Terzo Settore; iniziative per sostenere gli affetti dei detenuti, ricorrendo alla tecnologia per consentire i colloqui attraverso videochiamate (modalità sperimentata durante la pandemia); una mappa della giustizia riparativa per lavorare sulle esperienze positive e incrementarle. Inoltre, un intervento per garantire la territorialità della pena: “Ci sono 800 detenuti campani nelle carceri fuori regione. Come fanno a vivere la territorialità della pena che è un loro diritto? - dice il garante - Basterebbe cominciare da questo, assicurare ai detenuti la territorialità della pena con alcune eccezioni che pure possono esserci, ma si devono contare sulle dita di una mano, non è possibile che detenuti campani incensurati siano costretti a emigrare nelle carceri della Puglia, della Calabria”. Serve una svolta. “La politica - chiosa il garante - deve trovare il coraggio di entrare in carcere: ognuno ha la possibilità di farlo per visite o ispezioni, ma quanti hanno mai visitato un istituto di pena? Quanti prima di proporre o votare una riforma hanno pensato di andare ad ascoltare detenuti, agenti, operatori tutti? Esiste un noi e un loro. Ascoltare storie, esperienze, disagi, ingiustizie, fa accorciare le distanze, ridurre l’indifferenza verso chi vive in una condizione di privazione della libertà personale. Il carcere esiste e riguarda tutti noi. In relazione al carcere, noi crediamo di essere vittime, ma se si continua a rimanere inermi, si finirà inevitabilmente per diventare complici”. Cremona. Manca uno psicofarmaco, rivolta e celle a fuoco: trasferiti 80 detenuti di Lucia Landoni La Repubblica, 4 giugno 2022 La rivolta è scoppiata poco dopo le 22, decine di detenuti hanno dato fuoco a lenzuola e suppellettili nelle loro celle, facendo scattare l’allarme in tutto il carcere di Cremona. L’istituto di pena è circondato dalle forze dell’ordine dopo la direzione ha disposto l’evacuazione completa di due piani del carcere e il trasferimento di circa 80 detenuti. A far scatenare la protesta sarebbe stato il cambio, programmato ma scattato ieri, di uno psicofarmaco utilizzato per il trattamento dei detenuti tossicodipendenti e soggetti con disturbi della psiche. Un farmaco che però era diventato merce di scambio nelle dinamiche dei rapporti tra detenuti. “Verso le 22 di ieri sera, alcuni detenuti della Casa Circondariale - ha riferito Gennarino De Fazio, segretario del sindaco Uilpa - sembra per protestare a causa della mancata somministrazione di uno psicofarmaco, hanno appiccato il fuoco alle celle. Le fiamme si sono propagate coinvolgendo due sezioni detentive su due piani del fabbricato, il secondo e il terzo, rendendo necessaria l’evacuazione di circa ottanta ristretti, che sono stati condotti ai passeggi”. I vigili del fuoco e gli agenti della polizia penitenziaria hanno impiegato un paio d’ore per ristabilire condizioni di sicurezza. “Ripetutamente abbiamo segnalato le gravissime criticità del carcere cremonese - dice De Fazio - che assomma a quelle comuni alla quasi totalità degli istituti penitenziari del Paese alcune difficoltà particolari, come quelle che derivano dal non avere assegnato un comandante della Polizia penitenziaria titolare da circa tre anni e da una gestione complessiva che si caratterizza per continui disordini”. “Abbiamo spostato i detenuti nei cortili di passeggio, per evitare intossicazioni - racconta Sergio Gervasi, rappresentante Uilpa - al momento non abbiamo notizie di feriti tra i detenuti. Le fiamme sono state appiccate a lenzuola, materassi e olio. A scatenare la protesta incendiaria è stata la decisione dell’autorità sanitaria di sospendere la somministrazione di quel farmaco a tossicodipendenti e soggetti con disturbi psichiatrici per sostituirlo con un altro. Era stato annunciato e si é realizzato”. Bari. Semi di Vita, una serra nel carcere minorile di Emiliano Moccia vita.it, 4 giugno 2022 La cooperativa sociale Semi di Vita ha inaugurato la “Cardoncelleria Fornelli” all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni Fornelli di Bari. Nella serra lavorano due ragazzi provenienti dall’area penale. L’obiettivo è il riscatto sociale attraverso il lavoro. “Curare la terra, curando le persone”. Perché i Semi di Vita che danno il nome alla cooperativa sociale vogliono trasformarsi in “possibilità per i giovani provenienti dall’area penale di potersi riscattare attraverso il lavoro. Sono percorsi lunghi, che richiedono del tempo, ma l’importante è offrire questa opportunità ai ragazzi che hanno sbagliato e che anche loro siano questa possibilità”. Angelo Santoro è il presidente di Semi di Vita, la cooperativa sociale che su Bari attraverso attività di agricoltura sociale sta promuovendo percorsi di inclusione socio-lavorativa per i giovani che provengono dalla giustizia riparativa. Partiti dai 2 ettari di orto urbano sociale a Bari-Japigia, oggi Semi di Vita gestisce 26 ettari di terreni confiscati alla mafia a Valenzano e soprattutto, qualche giorno fa, ha preso finalmente il via il progetto “Cardoncelleria Fornelli”, la serra di 330 mq per la coltivazione di funghi cardoncelli e di un laboratorio di confezionamento di 70 mq partito all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni Fornelli di Bari. Merito di “(ri) Abilita - Agricoltura sociale per l’inserimento lavorativo di giovani dell’area penale”, il progetto sostenuto da Intesa Sanpaolo che ha permesso di coinvolgere nella fase iniziale “venti ragazzi in un percorso di formazione sui temi dell’agricoltura sociale. Del gruppo iniziale di giovani, tutti con difficili situazioni di vita alle spalle, in quattro hanno svolto sei mesi di inserimento lavorativo. Al termine, due di loro sono stati assunti dalla cooperativa” spiega Santoro. “Dopo il lavoro con i funghi, i due ragazzi assunti realizzeranno i telai per essiccare i pomodori, anche perché abbiamo messo in funzione l’orto presente nei 26 ettari confiscati alla criminalità organizzata che curiamo a Valenzano. I due neo-assunti, dunque, lavoreranno due giorni nella serra e tre giorni nell’orto”. Inoltre, insieme alla “Cardoncelleria Fornelli” è partita anche l’iniziativa di consegna a domicilio. “Il sistema organizzativo ed economico della cooperativa aziendale ruota intorno alla vendita dei prodotti coltivati sui terreni in gestione. L’intervento del Garante dei Minori della Regione Puglia, Ludovico Abbaticchio, ci ha sostenuto per implementare uno strumento con il quale riusciamo ad inserire nei nostri percorsi lavorativi altri ragazzi. Adesso, infatti, abbiamo il furgone per il trasporto merci che rispetta tutte le normative e la piattaforma per gestire gli acquisti. Grazie a questa nuova opportunità” prosegue Santoro “assumeremo un altro ragazzo proveniente sempre dall’area penale e aumenteremo le ore di lavoro del giovane che già opera sul terreno prendendosi cura dei prodotti ortofrutticoli”. Il lavoro, dunque, come forza riabilitante ed inclusiva per giovani in condizioni di fragilità e come scommessa per rigenerare i beni della collettività. Ed i Semi di Vita in questa fetta di Sud Italia continuano a fiorire. Gorizia. Seminario sui percorsi di sostegno alla creazione d’impresa rivolti ai detenuti nordest24.it, 4 giugno 2022 Il progetto S.I.S.S.I. 2.0 Imprenderò in FVG promuove lo sviluppo della cultura imprenditoriale e la creazione di impresa e di lavoro autonomo anche all’interno delle Case Circondariali del Friuli Venezia Giulia. L’obiettivo è quello di favorire l’integrazione sociale e lavorativa delle persone svantaggiate all’interno dei diversi contesti produttivi, giungendo all’inclusione attraverso un modello formativo e di accompagnamento al lavoro. Nell’ambito del progetto, sono stati sviluppati percorsi di accoglienza, di orientamento e di formazione, individuali o di gruppo, creati ad hoc per i detenuti in FVG secondo la metodologia BEST, dove le competenze imprenditoriali sono anzitutto strumenti di inserimento lavorativo, inclusione e integrazione. I primi corsi sono partiti nel Carcere di Pordenone, poi sono proseguiti in quello di Gorizia. E proprio nel capoluogo isontino se ne parlerà martedì 7 giugno, alle 10, nella Sala 2 Kinemax (in piazza Vittoria, 41 a Gorizia), durante il Seminario dal titolo “Sprigiona le tue idee! - Percorsi di sostegno alla creazione d’impresa e al lavoro autonomo rivolti ai detenuti delle Case Circondariali del Friuli Venezia Giulia”, organizzato da S.I.S.S.I. 2.0 Imprenderò in FVG, in collaborazione con O.I.KO.S. Onlus, l’associazione, fondata nel 2005 a Udine, che sostiene progetti di cooperazione internazionale, promuove e costruisce ponti di solidarietà e sviluppo. La parte introduttiva dell’incontro sarà curata da Alberto Quagliotto, direttore della Casa Circondariale di Gorizia, Alessandro Infanti, direttore Generale di Ad Formandum, capofila S.I.S.S.I. 2.0, Paolo Pittaro, garante regionale dei diritti della persona, Franco Corleone (in collegamento da remoto), garante dei detenuti del Comune di Udine, e un rappresentante della Direzione centrale lavoro, formazione e istruzione della Regione. A seguire, moderati da Paolo Mosanghini, condirettore del Messaggero Veneto, parteciperanno alla tavola rotonda con interventi dedicati: Nicola Boscoletto, presidente della nota cooperativa Giotto di Padova, Anna Paola Peratoner, di O.I.KO.S. Onlus, Andrea Fassina, detenuto a Pordenone e beneficiario del progetto SISSI FVG con una relazione dal titolo “Genesi di un’idea imprenditoriale”, e Margherita Venturoli, educatrice della Casa Circondariale di Gorizia. Dopo il dibattito e gli interventi - previsto quello di Stefania Toni, educatrice nel Carcere di Pordenone - , le conclusioni le trarrà il provveditorato triveneto dell’Amministrazione Penitenziaria, rappresentato dal mediatore culturale Matteo Cucinotta. Seguirà un aperitivo preparato dagli allievi di Ad Formandum. Sarà possibile seguire il seminario anche in diretta Facebook sul profilo SISSI 2 // Imprenderò in FVG. S.I.S.S.I. 2.0 - Sistema Integrato di Servizi per lo Sviluppo Imprenditoriale del FVG, è un progetto finalizzato alla promozione della cultura imprenditoriale e alla creazione di impresa e lavoro autonomo. Vuole informare in modo trasparente e semplificato i cittadini del territorio regionale sulle opportunità offerte da Imprenderò [in] FVG, sensibilizzandoli sul valore aggiunto della programmazione europea a sostegno dello sviluppo produttivo innovativo; coinvolgere e attivare in modo appassionato i giovani, le donne, gli studenti, i disoccupati e i professionisti, e altre categorie di lavoratori svantaggiati. Per maggiori informazioni: www.sissi.fvg.it. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Aperto canile in carcere: randagi affidati ai detenuti edizionecaserta.net, 4 giugno 2022 Un progetto sociale e sanitario di straordinaria importanza che ha messo attorno allo stesso tavolo il Ministero della Giustizia, il Comune di Santa Maria Capua Vetere, l’Agenzia del Demanio, l’Asl Caserta e l’Università degli Studi di Napoli Federico II per perseguire, ancora di più, l’obiettivo di mutualità tra carcere e territorio. La previsione è quella di realizzare attraverso contributi regionali un canile comunale dinamico di altissimo livello e un presidio sanitario veterinario dell’Asl nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, anche al fine di perseguire il più ampio obiettivo di una proficua reciprocità tra carcere e territorio nel pieno rispetto della finalità rieducativa della pena. Il tutto in un’ottica di progressiva “apertura” e sviluppo esterno della pena detentiva. Il protocollo di intesa, sottoscritto presso la Sala Giunta del Comune di Santa Maria Capua Vetere - tra il Sindaco Antonio Mirra, la Direttrice del carcere Donatella Rotundo - che da un lato permette ai detenuti di fare importantissime esperienze, affiancati da professionisti del settore qualificati, di inclusione sociale e volte anche ad una futura riammissione nel mondo del lavoro e, dall’altro, di rispondere alle esigenze del territorio in tema di randagismo. L’ulteriore obiettivo del protocollo è infatti quello di iscrivere tale canile comunale al registro regionale ai fini delle adozioni. “E’ un ulteriore e significativo passo nell’ambito di un “nuovo rapporto” instaurato tra la struttura penitenziaria e la nostra Città - hanno dichiarato il Sindaco Mirra e l’assessore De Riso - Un rapporto che va specificamente nella direzione della mutualità e dell’interscambio tra il carcere e il territorio cittadino, a lungo organismi separati che oggi invece diventano un unico corpo; e in tale ottica è da considerarsi anche l’importante svolta che ha permesso la realizzazione della condotta idrica, attesa fin dalla costruzione del carcere, che, da questa estate, consente di risolvere il drammatico problema della carenza di acqua all’intera popolazione carceraria”. “È un ulteriore progetto che unisce il carcere al territorio nell’ottica del reinserimento sociale dei detenuti - ha dichiarato la Direttrice Donatella Rotundo - È dovere dell’Amministrazione dare questa opportunità. Ogni detenuto che vuole lavorare deve poterlo fare. Perché solo così si fa vera prevenzione. E questo è un grande progetto perché oltre a dare una possibilità ai detenuti ci permette di dare una possibilità di adozione anche ai cani che verranno curati nel canile di prossima costruzione”. Cagliari. “Free Soul Band”, 10 detenuti in concerto a Uta ansa.it, 4 giugno 2022 Dopo il successo al debutto ora sognano un live esterno. Primo concerto la “Free Soul Band”: tutti i componenti del gruppo sono detenuti a Uta e solo pochi mesi fa non sapevano leggere le note. Martedì scorso, invece, si sono esibiti - spartito alla mano - con sassofoni, trombe, basso tuba, euphonium, batteria e percussioni che hanno imparato a suonare grazie al progetto “La musica va oltre”. Un’iniziativa avviata dal Cpia - la scuola che opera nella struttura con i percorsi per il conseguimento della licenza media, di alfabetizzazione dell’Italiano e per il completamento del biennio delle superiori - con la Banda musicale di Monastir che ha proposto un progetto unico nel suo genere che ha permesso, in pochissimi mesi, di portare gli allievi dal livello zero a un’esibizione degna di nota. Guidati dal maestro Alessandro Cabras, direttore artistico della banda musicale di Monastir, il gruppo ha debuttato nella biblioteca della casa circondariale Ettore Scalas e ora sogna di esibirsi anche all’esterno della struttura. “Io ero il Milanese”. Un podcast dedicato a chi sa ricominciare di Barbara Cottavoz La Stampa, 4 giugno 2022 È nato da un’idea che si è rivelata sbagliata mentre questa è giustissima. “Io ero il Milanese” è il podcast scritto e ideato per Raiplay Sound da Mauro Pescio, novarese, 47 anni, trasferito a Roma per lavorare come autore radiofonico e attore. Le 14 puntate raccontano la vita di Lorenzo S., rapinatore condannato a 57 anni di carcere poi liberato per un’improvvisa svolta: lui di sé dice che non è un eroe e che la sua è “la storia di tanti fallimenti e disastri che però a un certo punto sono stati riconosciuti tali”. E su questo ha puntato Pescio nella narrazione a due voci: “Molto più di una vicenda di crimine, dimostra come nella vita sia possibile toccare il fondo e risalire”. Come è cominciato “Io ero il Milanese”? “Nel 2017, grazie a contatti con la rivista “Ristretti Orizzonti” e la sua direttrice Ornella Favero sono entrato nel carcere di Padova per un progetto dedicato ai vizi capitali. Una volta lì, a contatto con i detenuti, mi sono reso conto che era un lavoro troppo intellettuale e meno importante rispetto alle persone che avevo davanti. Non mi ci riconoscevo più. Però qualche tempo dopo mi ha telefonato Favero e, in modo concitato, mi ha detto che qualcuno stava uscendo ed era un fatto clamoroso. Così sono andato a conoscere Lorenzo”. Com’è stato l’incontro? “Era fuori da 2 settimane, ha cominciato a raccontarmi la sua storia e ho subito capito che era molto particolare per la capacità di narrarsi e per la carica umana. Per tutto l’anno sono andato a Padova e abbiamo registrato ore e ore: ho lasciato a lui la scelta dei limiti da porre. È tutto reale, abbiamo solo indicato l’iniziale del cognome e cambiato nome dell’ex compagna”. Perché la sua storia è particolare? “Lorenzo è stato rapinatore con reati pesanti sulle spalle ma, ad un certo punto, ne ha preso coscienza ed è diventato punto di riferimento nel recupero dei detenuti. La sua storia travalica la cronaca e dimostra che nella vita pesano tanti fattori, come gli incontri o il caso, ma contano soprattutto l’impegno personale e la determinazione. Lorenzo, che è stato anche in carcere a Novara, lo dice: ha scelto quello che voleva essere, allora come ora. Si è risollevato dai “disastri” della sua vita e questo riguarda ognuno di noi. Ci indica che cambiare è sempre possibile”. Quando è stato registrato il podcast? “Ho proposto il progetto a Raiplay Sound in autunno e ho trovato terreno fertilissimo: è stata colta l’importanza sociale del racconto, da vero servizio pubblico. Con Lorenzo abbiamo ri-registrato quasi tutto mantenendo solo il 30% dell’originale che in alcune parti aveva più freschezza e immediatezza”. E il filo della narrazione? “Ho cercato di avvicinarmi al racconto di Lorenzo senza pregiudizi ma anche senza assecondare troppo quel fascino del crimine che può apparire. Ma che non c’è, come dice lui stesso: in vent’anni ha vissuto si è no tredici mesi fuori dal carcere”. Stati Uniti. La strage dei bambini come la guerra. L’impegno a combattere la disinformazione di Barbara Stefanelli La Stampa, 4 giugno 2022 Che sia la strage in Texas, la guerra in Ucraina, una storia di amanti famosi, la polvere si alza sempre. Poco dopo l’assalto alla scuola texana, c’era già chi scriveva: “Solo una messinscena”. Il tormento dei genitori. Esiste qualcosa di più terribile e definitivo della morte di un figlio o di una figlia, ammazzati a scuola, alle elementari? Qualcosa di più straziante dei corpi abbattuti da un colpo ravvicinato, alla testa, sparato da un ex studente appena maggiorenne? Di più inaccettabile del pensiero dei volti dei bambini resi irriconoscibili o della visione della fila di madri e padri costretti a elencare le magliette, le scarpe, se aveva o no gli occhiali, per completare la lista dei caduti? Eppure, come accade ormai per ogni notizia che entri nel flusso globale - che sia la strage in Texas, la guerra in Ucraina, una storia di amanti famosi - la polvere della disinformazione si è alzata già poche ore dopo l’assalto del 24 maggio alla Robb Elementary School di Uvalde. “Tutta una messinscena”. Quei genitori? Attori e attrici, neppure tanto bravi perché si capisce “che il loro coinvolgimento emotivo è basso”. Anche i due insegnanti uccisi, solo “comparse a pagamento”. Con quale obiettivo? “Sottrarre forze al pattugliamento dei confini dove corre il muro con il Messico”. “Permettere a trafficanti di droga e migranti di varcare indisturbati la frontiera”. Oppure un complotto, un’azione come altre in passato - “come a Sandy Hook nel 2012” - sceneggiata e diretta “dai lobbisti anti armi” se non dallo stesso governo federale degli Stati Uniti... Abbiamo imparato a chiamarle “fake news”, notizie false. Non abbiamo imparato a farcene una ragione. Hanno cominciato a rimbalzare tra decine di account su Twitter, Reddit, Telegram e altre piattaforme social, account che fanno capo all’estrema destra americana. Alcuni, tra i miliziani della menzogna, si sono dovuti arrendere all’evidenza dei bambini assassinati. Ma hanno cercato di rifarsi aggrappandosi all’identità del killer. “Un ragazzo transgender”. Uno che metteva vestiti da donna (e naturalmente sono subito comparsi fotomontaggi in gonna), uno che avrebbe perso il senno “a causa della terapia ormonale” che accompagna le transizioni. Una giovane transgender, di New York, ha supplicato di togliere alcune sue immagini postate e attribuite a Salvador Ramos, l’assassino. E se non bastava transgender, allora sicuramente si trattava di immigrato, un clandestino, nato fuori dagli Stati Uniti. Questa “verità alternativa” ha continuato a bucare gli schermi degli smartphone anche dopo le dichiarazioni delle autorità texane, che hanno confermato data e luogo di nascita di Ramos: 16 maggio 2004, in North Dakota. Il New York Times ha chiesto a tre sue firme di smontare queste ricostruzioni false, pezzo per pezzo, per sempre. Ma il seguito di massacri precedenti rivela che quel fiume non si fermerà. Madri e padri dei bimbi verranno inseguiti, a lungo nel tempo, dal serpente dei complottisti; verranno molestati uno per uno: li accuseranno di essere bugiardi, di non aver mai avuto figli, di essere stati pagati per suscitare choc e orrore. Li spingeranno a rendersi invisibili, a spegnere le loro identità digitali per non subire una seconda morte. Soprattutto cercheranno di indurre questi orfani dei propri figli, messaggeri dell’indicibile, a non unirsi alla protesta di chi, marciando su Washington, implora uno scudo che limiti la vendita e il possesso di armi negli Usa. Un gruppo di genitori di Uvalde è stato ripreso in un video mentre corre verso i cancelli della scuola: sono sfuocati, di spalle, piegati in avanti sulla strada. Provi a immaginarti quello che non si può immaginare. Quella manciata di metri e minuti che ti separano dalla lacerazione di ogni senso. Provi a immaginarti anche come torneranno a casa, schiacciati da un dolore che non si lascia attraversare, destinati al buio in cui verranno abbandonati dopo giornate di clamore e promesse. Fino alla prossima strage. La Repubblica Centrafricana dice addio alla pena di morte, anche lo Zambia pronto a seguirlo di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 4 giugno 2022 La settimana scorsa, l’Assemblea Nazionale della Repubblica Centrafricana ha abolito, per acclamazione, la pena di morte. Lo ha annunciato Simplice Mathieu Sarandji, Presidente dell’Assemblea. Ci sono voluti dieci anni per arrivare a questo successo. Era l’ottobre 2012 quando, in missione per conto di Nessuno tocchi Caino, con Sergio D’Elia e Marco Perduca sono andata a Bangui, la capitale, per sostenere la causa abolizionista. Ci accolse la notizia che il Consiglio dei Ministri aveva approvato, pochi giorni prima e proprio in vista del nostro arrivo, un disegno di legge per cancellare la pena capitale dal codice penale. Il testo, da lì a poco, sarebbe stato trasmesso all’Assemblea Nazionale. Intendevano così, ci disse con fierezza l’allora Ministro della Giustizia Jacques M’Bosso, esprimere la volontà di iscriversi a pieno titolo tra i protagonisti del processo abolizionista in corso nel mondo. Secondo una teoria di fatti d’impronta radicale, la RCA aveva istituito un Comitato di riflessione per l’abolizione della pena di morte - comprendeva magistrati, avvocati, direttori generali di ministeri ed esponenti delle tre principali confessioni religiose - dopo aver partecipato alla grande conferenza sulla pena di morte in Africa che Nessuno tocchi Caino organizzò, con il Presidente del Ruanda Paul Kagame e il sostegno dell’Unione Europea, l’anno prima a Kigali. Questo Comitato sostenne la nostra richiesta di voto a favore della Risoluzione delle Nazioni Unite sulla Moratoria Universale della pena di morte che il Governo espresse, per la prima volta, al Palazzo di Vetro nel 2012. Di lì a poco, una guerra civile avrebbe dilaniato il Paese, nel cuore più povero dell’Africa. Un cuore al centro esatto, geografico e simbolico, di un continente ricco di natura ma immiserito dallo sfruttamento coloniale e poi dallo sterminio per fame e per guerra. Come un virus letale il conflitto interno ha causato morte per tortura, stupri e altre inaudite violenze. Un male che, protratto nel tempo, avrebbe potuto cancellare ogni speranza per l’abolizione della pena di morte e legittimare reazioni punitive durissime. Invece, la storia ha preso un corso diverso, l’abolizione è stata acclamata dal Parlamento e ora la legge attende solo la promulgazione da parte del Presidente Faustin Archange Touadéra. Da questo Paese, secondo al mondo per povertà in base alle classifiche delle Nazioni Unite, emerge un senso di vitalità e di prosperità a cui dovremmo guardare con fiducia. È la prosperità e la vitalità che manifesta chi vuole essere parte della ricchezza costituita dai processi globali improntati allo sviluppo dei diritti umani universali e vuole definitivamente liberarsi dal retaggio di un passato di dolore. È un bisogno che attraversa l’intero continente. Tant’è che l’abolizione nella Repubblica Centrafricana è giunta dopo pochi giorni da un’altra importante notizia. Il 24 maggio, il Presidente dello Zambia Hakainde Hichilema ha annunciato di voler abolire la pena di morte. È particolarmente significativo che lo abbia detto in occasione dell’Africa Freedom Day. “Questa giornata” - ha dichiarato Hichilema - è un simbolo del nostro impegno collettivo per garantire un futuro migliore per tutti.” Per l’occasione il Presidente ha graziato 2.045 prigionieri, di cui 2.012 detenuti ordinari e 33 detenuti anziani e ha commutato le sentenze di altri 607. Secondo Ambrose Lifuna, Ministro ad interim degli Affari Interni, il governo ha già iniziato a metter mano al sovraffollamento degli istituti penitenziari. Vale così, anche per lo Zambia del Presidente Hichilema, la teoria di fatti per la quale il suo annuncio abolizionista si aggiunge al costante rifiuto di firmare i decreti di esecuzione e alla consuetudine di commutazioni di massa dei suoi predecessori negli ultimi vent’anni. Il primo in ordine di tempo a inaugurare questo ciclo virtuoso è stato il Presidente Levy Mwanawasa a cui Nessuno tocchi Caino conferì nel 2004 il Premio l’Abolizionista dell’Anno. “Le persone non possono essere mandate al macello come fossero polli e finché sarò Presidente non firmerò alcun ordine di esecuzione. Non voglio essere il capo dei boia!”, aveva detto il Presidente. Seguirono le sue orme i Presidenti Rupiah Banda, Michael Sata ed Edgar Lungu. Guardando l’Africa, il senso d’ansia, depressione e povertà - non solo materiale - insito nella malattia insidiosa della giustizia retributiva, di cui sembriamo tutti affetti, lascia spazio alla calma, all’energia e alla ricchezza propria di chi sa interrompere il circolo vizioso per cui il male va combattuto con altro male. Insomma, un invito a riabilitare la grazia.