“Referendum, garantire ai detenuti il diritto al voto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2022 “La partecipazione politica è il massimo segnale di partecipazione alla vita della società. Non può esservi reintegrazione sociale senza la garanzia dei diritti politici”, osservano la Conferenza dei Garanti territoriali e l’associazione Antigone, i quali hanno realizzato del materiale informativo volto a incentivare, in vista del prossimo 12 giugno, l’accesso al voto a tutte le persone detenute che mantengono tale diritto. Due locandine da distribuirsi nelle carceri - una per le elezioni amministrative e una per i referendum - che spiegano le procedure da seguire. Un breve video si rivolge a tutti coloro che dall’esterno possono contribuire alla diffusione dell’informazione rilevante. L’appello al Dap e ai Comuni di Antigone e della Conferenza dei garanti - Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, e Stefano Anastasìa, portavoce dei garanti territoriali, nel presentare la campagna informativa rivolgono un appello al Dipartimento di amministrazione penitenziaria e ai Comuni competenti affinché si adotti “ogni misura volta a facilitare l’iscrizione nelle liste elettorali e il voto dei detenuti”. Sottolineano che il suffragio universale è una conquista fondamentale delle liberaldemocrazie novecentesche. Il diritto internazionale riconosce il solo limite dell’età per accedere al diritto di voto, la cui universalità è affermata nell’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Corti nazionali e sovranazionali - prima tra tutte la Corte Costituzionale del Sud Africa con una sentenza del 1999 che è ormai una pietra miliare della giurisprudenza - ci hanno insegnato che il diritto di voto è ancorato al concetto di dignità umana e letteralmente significa che “everybody counts”, ognuno conta. Alle Europee del 2014 in carcere votò il 5,5% degli aventi diritto al voto - “Eppure di frequente il diritto di voto non è garantito alle persone condannate, sia per la presenza di pene accessorie sia per la mancata previsione del voto postale che impedisce il voto amministrativo a chi è detenuto in un carcere fuori dal Comune di residenza”, denuncia Antigone e la Conferenza dei garanti territoriali. Osservando che “troppo spesso il diritto di voto non è garantito alle persone che si trovano in carcere e che pur non hanno pene accessorie interdittive a causa della mancanza di informazione sulle procedure e di meri problemi di disorganizzazione. In competizioni elettorali del recente passato le percentuali di detenuti votanti sono risultate irrisorie (alle elezioni Europee del 2014, ad esempio, votò il 5,5% degli aventi diritto, laddove nel Paese l’affluenza fu pari al 66,43%)”. Per cui è compito dell’Amministrazione Penitenziaria assicurare un’informazione completa e tempestiva sulle procedure burocratiche per accedere al voto per la popolazione detenuta. Ed è compito dei Comuni procedere con solerzia alla produzione di tutti i documenti necessari. Nell’attesa di ripensare per via normativa le possibilità di accesso al voto delle persone condannate, si augurano che le autorità competenti facciano di tutto per garantire l’accesso alle urne ai potenziali elettori che si trovano oggi in carcere. Sergio Dall’Osto, rapinatore a 17 anni, graziato per meriti speciali dal Presidente della Repubblica, voterà per la prima volta a 92 anni - Nei prossimi giorni pubblicheranno la videointervista che hanno realizzato a Sergio Dall’Osto, rapinatore a 17 anni, organizzatore nelle carceri piemontesi della prima scuola in Italia di elettrotecnica industriale, graziato per meriti speciali dal Presidente della Repubblica. “Tutta la vita ha sofferto l’esclusione dal voto e ha cercato di ottenere la riabilitazione. Ha dovuto aspettare il 2021 per vedersi togliere la pena accessoria dell’interdizione. Voterà per la prima volta il prossimo 12 giugno, alla soglia dei 92 anni di età”, concludono Antigone e la Conferenza dei Garanti territoriali. Ma perché informare i detenuti? Lo spiega il garante regionale Stefano Anastasìa stesso all’agenzia Adnkronos: “La richiesta per accedere alla votazione da parte dei detenuti è una procedura piuttosto farraginosa, che rischia ogni volta di essere infruttuosa: in vista di consultazioni elettorali, serve non solo informare dell’opportunità di votare ma farlo tempestivamente”. Sempre il garante aggiunge: “Dalla tessera elettorale che spesso non hanno con sé all’accesso al voto, succede di frequente che i detenuti, seppure informati, non hanno il tempo di organizzarsi. Una trafila che andrebbe snellita perché altrimenti a vincere è la burocrazia a dispetto di un diritto fondamentale”. Anastasìa: “Ho visto funzionare molto bene l’ufficio elettorale di Regina Coeli” - Sempre riguardo alle informazioni sulla procedura di voto, “dipende poi - osserva il Garante dei detenuti del Lazio e portavoce della conferenza territoriale - anche dalla sensibilità degli operatori, dalla capacità organizzativa degli istituti: c’è disomogeneità, posti dove c’è più attenzione, sia da parte degli operatori che dei detenuti, e posti in cui ce n’è meno. Ho visto funzionare molto bene l’ufficio elettorale di Regina Coeli. È un carcere di primo ingresso, molte persone sono in custodia cautelare, l’istituto si è organizzato con l’ufficio elettorale centrale del Comune per garantire anche alle persone arrivate da pochi giorni di poter effettivamente esercitare il proprio diritto di voto”. Storia di una rivoluzione mai iniziata per i detenuti malati psichiatrici di Loredana Violi* Il Domani, 3 giugno 2022 Dopo 11 anni di annunci, l’Italia continua a non occuparsi come dovrebbe dei detenuti con malattie mentali. Le Residenze che dovrebbero ospitarli sono molto poche, le risorse insufficienti e la politica resta indifferente. È divenuta definitiva l’ennesima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti, annunciata a gennaio scorso. A finire sotto osservazione, stavolta, la tutela del diritto alla salute dei carcerati e, in particolare, il sistema delle Rems (acronimo delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), simbolo di una rivoluzione annunciata e mai realizzata. La Cedu ha condannato il nostro paese per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. Una storia che si ripete - Tutto ha inizio nel 2011, è il 16 marzo quando al Senato viene indetta una conferenza stampa per illustrare il lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino, presso i sei ospedali psichiatrici giudiziari nazionali. Il filmato, sconvolgente nella sua verità fatta di cinghie di contenzione e di celle maleodoranti (faceva eccezione solo la struttura di Castiglione delle Stiviere), scuote l’opinione pubblica riaprendo una pagina triste della storia del nostro paese che si pensava definitivamente superata con la legge 180 del 1978 che aveva chiuso i manicomi. A ben guardare, la svolta legislativa introdotta con la legge Basaglia non aveva inciso sugli ospedali psichiatrici giudiziari che di fatto presentavano, come si leggerà pochi mesi più tardi nella relazione finale, “un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale”. L’indignazione unanime, ben rappresentata dalle parole del capo dello stato, Giorgio Napolitano, che parlò di “estremo orrore”, costrinse la politica, da sempre indifferente alla questione, ad affrontare il problema dei manicomi criminali nei quali venivano trattenute a vario titolo 1.378 persone. Riforme a metà - Per dare un segnale forte e immediato all’opinione pubblica, la riforma fu inserita, seppur laconicamente, in uno dei primi decreti legge (211 del 2011), comunemente noti come “svuota carceri” perché volti a mitigare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, già diventato problema sovranazionale a seguito della sentenza di condanna della Cedu inflitta all’Italia nel 2009. La “rivoluzione gentile”, come la definì, ancora sull’onda dell’entusiasmo, il commissario straordinario nominato ad hoc, Franco Corleone, era destinata, sulla carta, a cambiare radicalmente. *Avvocato penalista “Bimbi dietro le sbarre, bene la legge ma saranno i giudici a valorizzarla” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2022 “La presenza dei bambini piccoli nelle carceri al seguito delle madri detenute, costretti a trascorrere i primi anni di vita all’interno degli istituti penitenziari, è sempre stato un paradosso del nostro sistema, a lungo dimenticato e lasciato irrisolto. Per questo l’approvazione alla Camera della Proposta di Legge Siani è una notizia straordinaria che ripaga l’impegno con cui da anni ci battiamo”, così, all’indomani del primo step verso l’approvazione definitiva, spiega in una nota Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva. La proposta di legge da poco licenziata dalla Camera recepisce molte richieste di Cittadinanzattiva, anzitutto riconoscendo finalmente centralità alla tutela della salute psico-fisica del minore come esigenza prioritaria rispetto a qualsiasi altra ragione o interesse pubblico, nella prospettiva indicata a più riprese dalla Corte Costituzionale e dalle convenzioni internazionali. E’ una legge che interviene con scelte decise, tra cui: il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere per le madri (o per i padri in via eccezionale) di bambini fino a 6 anni di età ed il ricorso alla custodia in Icam come soluzione del tutto residuale; gli interventi in materia di rinvio dell’esecuzione della pena; e, soprattutto, la promozione delle case famiglia come modello del tutto alternativo alla detenzione e come luoghi costruiti sulla tutela della salute dei minori e del rapporto genitoriale. Come si specifica nella nota di plauso, In questa stessa direzione si colloca la norma inserita nella legge di bilancio per il 2021, su iniziativa di Cittadinanzattiva e dell’associazione “A Roma insieme Leda Colombini”, che istituisce un fondo dedicato a finanziare l’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia. “Ora facciamo un appello al Senato - conclude Liberto - affinché l’iter parlamentare si completi entro la fine della legislatura per non vanificare questi tre anni di impegno ininterrotto e perché nessun bambino varchi più le soglie di un carcere”. La legge è di grande importanza, ma come ha messo in guardia Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone, questo si tratta del primo passo. Sì, perché non c’è alcun automatismo che “liberi” i bambini dalle sbarre. “Tutto ciò che la legge può fare è dare al giudice strumenti normativi per allocarla il più possibile fuori dal carcere. Ma sta poi al giudice utilizzarli con il massimo impegno e la massima solerzia per ottenere il risultato sperato di veder diminuire il più possibile la presenza dei bambini in cella”, ha osservato Susanna Marietti. Bambini in carcere, Marietti (Antigone): “Ora costruire case-famiglia protette” di Barbara Polidori vita.it, 3 giugno 2022 La norma che porta il nome del deputato dem Paolo Siani, passata alla Camera, vieta la detenzione dietro le sbarre di donne con bimbi sotto i tre anni. E adesso tocca al Senato. A oggi, 33 i figli nei penitenziari italiani. Il 14 giugno la Camera ha approvato la riforma del codice penale sui bambini figli di detenute, dando il via libera alla proposta di legge del deputato Siani che vieterebbe ai minori di vivere con le madri in carcere. Una legge di civiltà che, se passasse anche al Senato, è attesa ormai da quasi 50 anni. “Le forze politiche concordano all’unanimità sull’importanza di questa legge, ci aspettiamo sia approvata senza particolari problemi”, sostiene Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone. In effetti l’accoglimento della norma è stato piuttosto tortuoso. Diversi sono stati i tentativi con cui la giurisdizione italiana ha tentato di colmare fino a oggi il rapporto di continuità affettiva tra madri e minori nelle carceri italiani da un punto di vista legislativo. Il primo risale al 1975, con la legge n. 354 dal titolo “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della liberta?”. La Legge Siani, discussa a Montecitorio il 30 maggio e approvata solo pochi giorni fa con 241 voti favorevoli e 7 contrari, propone ora di colmare le lacune sui diritti infantili che prima la legge 354, poi la Legge Gozzini del 1986, a seguire la Simeone-Saraceni del 1998 e infine la legge n.62 del 2011 non sono riuscite ad affrontare. MaI più bambini in carcere - La legge del 2011 stabilisce che le madri detenute possano convivere con figli maggiori di 6 anni, contro i 3 previsti in precedenza. Secondo la legge italiana attualmente in vigore, i bambini con meno di 6 anni sono destinati invece agli Istituti a custodia attenuata per madri (Icam). Il valore aggiunto della Legge Siani rispetto ai testi passati è fornire un’alternativa sia per i minori sia per le donne proponendo invece il modello “casa famiglia”, per cui già nel 2021 furono stanziati 4,5 milioni tramite la Legge di Bilancio. Se la Legge Siani avesse l’ok definitivo nelle prossime settimane, donne e bambini potrebbero scontare quindi la pena presso le Case Famiglia protette, come soluzione possibile alle sezioni Nido delle carceri femminili. In questo modo sarebbe riconosciuto e normato il divieto assoluto della custodia cautelare in carcere in ogni accezione di maternità, anche per le donne incinte. In presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, però. sarebbe comunque previsto il ricorso agli istituti a custodia attenuata per le detenute madri. Oltre alle numerose leggi che proponevano di disciplinare la genitorialità femminile dietro le sbarre, a dicembre 2021 il Ministero della Giustizia si è mosso anche per il rinnovo di un protocollo d’intesa con l’Agia e Bambinisenzasbarre Onlus, per tutelare il diritto alla genitorialità. La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”, prima nel suo genere in Europa e in Italia, prevedeva per esempio che le autorità giudiziarie fossero sensibilizzate e invitate a una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni delle detenute. Per questo motivo l’accordo spronava a promuovere iniziative in materia di custodia cautelare, di luoghi di detenzione, di spazi bambini nelle sale d’attesa e di colloquio, di visite in giorni compatibili con la frequenza scolastica, di videochiamate, di formazione del personale carcerario che entra in contatto con i piccini, di informazioni, assistenza e supporto alla genitorialità. Detenzione al femminile - Stando all’Associazione Antigone, erano 2.250 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2021, pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta e, a giugno 2020, si contavano 33 bambini nelle carceri italiane. Oggi sono 20 le donne con figli su 54.618 detenuti senza tutela (fonte: Ministero della giustizia). “Oggi se la donna ha un figlio piccolo o il bambino non ha nessun’altro che lo tuteli, è scontato che l’unica alternativa per lui possibile sia il carcere accanto a sua madre” - spiega Susanna Marietti - “È una situazione che lede il diritto costituzionale ed è necessario minimizzare le ripercussioni che il fenomeno ha sulla vita dei bambini, proponendo misure cautelari diverse da quelle in carcere”. Il problema principale sulla destinazione dei figli delle detenute è che molte donne sottoposte a giudizio spesso non hanno un domicilio stabile dove scontare la pena o una residenza che risponda ai requisiti richiesti dai magistrati. Oggi in Italia infatti sono quattro le carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) mentre l’unico Icam non dipendente da un carcere ordinario si trova a Lauro. Gli altri Icam, affiliati al Ministero della Giustizia, sono 7: si trovano a Torino, nel carcere di Rebibbia a Roma, Salerno, Venezia, a Milano Bollate, Foggia e Lecce. “In questo caso dev’essere la magistratura di sorveglianza a intervenire ed evitare al minore periodi di detenzione il più brevi possibili” - prosegue Marietti - “Per questo riteniamo che una soluzione adeguata per far fronte al fenomeno sia la costruzione di case famiglie protette, perché altrimenti fino a ora il magistrato non era in grado di poter individuare un alloggio adeguato per le detenute. Resta il fatto che per noi questa legge doveva essere approvata almeno 15 anni fa, meglio tardi che mai”. Giustizia: trasparenza, un diritto conveniente di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 giugno 2022 Il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone in una circolare ricorda che dal 2017 è consentito ai giornalisti di pubblicare l’ordinanza che spiega i motivi di un arresto o di un sequestro. Da tre mesi tutti a brandire (a sproposito) il decreto sulla presunzione di innocenza per (provare a) silenziare qualunque (anche corretta) notizia giudiziaria, ma da 5 anni fanno tutti finta che non esista un’altra legge: quella che dal 2017 in teoria consente ai giornalisti di pubblicare, anziché riferire solo nel contenuto, l’ordinanza che spiega i motivi di un arresto o di un sequestro. Il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ora trae finalmente la logica che il legislatore del 2017 abbia “indirettamente ma inequivocabilmente riconosciuto al giornalista un interesse specifico” (quello dell’art. 116 c.p.p.) “a poterne ottenere copia”, se no “non si capirebbe come esercitare la facoltà di pubblicazione senza avere disponibilità dell’atto”. Il come, da 5 anni, è il solito clandestino rapporto con tutte le mai disinteressate fonti: dal pm all’avvocato, dal giudice al cancelliere, dal poliziotto al carcere, nell’opacità di un finto proibizionismo padre di sciatte approssimazioni, gravi errori o maramaldi falsi, i cui guasti sono misurabili solo da chi ci capiti in mezzo. I lettori sanno che qui dal 2006 si va perciò proponendo un accesso diretto e trasparente dei giornalisti agli atti non più segreti come misura di ecologia professionale e di riduzione del danno per le persone al centro di procedimenti di interesse pubblico (diverso dall’interesse del pubblico). È quanto Cantone, in un passo ulteriore rispetto all’apripista procuratore di Napoli Gianni Melillo, ammette con la circolare anticipata agli avvocati l’1 giugno, riservandosi il bilanciamento con la non lesione dei diritti delle vittime o dei terzi nei loro dati personali sensibili. Direzione giusta, ma che andrebbe integrata con gli atti successivi ad arresti e sequestri, come i Tribunali del Riesame che su ricorso della difesa li annullino o modifichino: perché l’accesso diretto è un disinfettante efficace solo se è un film di tutti i progressivi fotogrammi, e non solo il riflettore sul primo ciak inevitabilmente più tributario dell’accusa. Toghe e informazione, il bavaglio non esiste di Armando Spataro La Stampa, 3 giugno 2022 Il corretto rapporto tra giustizia e informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia, mentre la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il Csm ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi. Alcuni, a partire da Paolo Colonnello su La Stampa, hanno parlato di un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedimenti penali. Non si può ovviamente accettare alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. È innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte. Ma l’allarme - bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezioni motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentato la creazione di magistrati-icone, non a caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però anche eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici ed i giornalisti. È virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che - maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati - diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato. Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comune appartenenza partitica o per parentela e amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazioni inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti. Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo ed il diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i responsabili dei reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili. Infine, un’ultima domanda: si continua a denunciare il rischio di bavaglio alla informazione sulla giustizia, ma non rilevo affatto che, dall’entrata in vigore del decreto sulla presunzione di innocenza, tale informazione abbia patito penalizzazioni di qualsiasi tipo! O sbaglio? Riflettiamo tutti insieme, dunque, su informazione e giustizia, soprattutto tra magistrati, avvocati e giornalisti, cercando di risolvere ogni criticità, ma si eviti, per favore, di denunciare un inesistente bavaglio all’informazione come se vivessimo fuori da una democrazia. La televisione pubblica boicotta il referendum. I tg dedicano al voto lo 0,3% del tempo totale di Francesco Specchia Libero, 3 giugno 2022 I dati sono implacabili. E sono soltanto pulviscolo, nell’universo dei palinsesti e dei buoni propositi. Dal 7 aprile al 31 maggio scorsi, il tempo totale dedicato dai telegiornali e dagli “Extra tg” Rai all’informazione sui referendum sulla Giustizia sono rispettivamente 1 ora, 51 minuti e 22 secondi e 1 ora 21 minuti e 31 secondi. Che corrispondono, sempre rispettivamente allo 0,3% e allo 0,23% del tempo totale. Pulviscolo, appunto. L’Authority per le comunicazioni prima ha denunciato la sistematica “congiura del silenzio” sui rognosissimi quesiti referendari promossi da Radicali e Lega; poi ha fornito i dati. Gli stessi dati, per inciso, la cui latitanza, solo tre settimane fa, aveva sollecitato le lamentazioni del presidente della Camera Fico: “L’Agcom non ha consegnato i dati sul pluralismo dell’informazione e sul referendum il presidente Cardani sta creando uno scontro istituzionale con la vigilanza che non ha precedenti”. Bene, ora quei dati perduti ci sono. Ma non subentra nella classe politica alcuno scontro costituzionale, semmai imbarazzo. Imbarazzo non solo perché nella trasmissione di Fabio Fazio Che tempo che fa Luciana Littizzetto abbia dedicato un monologo all’inutilità (secondo lei) dei referendum stessi, consigliando ai cittadini, craxianamente e senza contraddittorio, di “andare al mare”. E imbarazzo, soprattutto, perché nel dettaglio del calcolo dei cosiddetti “tempo di parola e “tempo di notizia” della tv pubblica si sono registrai, sul suddetto tema dei cinque referendum, picchi d’ineguagliata “disinformatia” direbbero i russi: 0,08% e 0,07% tra il 24 e il 30 aprile, 0,28% dal 29 aprile al 7 maggio. Così, per dire. L’abbiamo già scritto: qua non si tratta di dar più spazio alle ragioni del sì o del no. Si tratta semplicemente di parlarne. Anche perché i quesiti sono già farraginosi e giuridicamente involuti di loro; e farne esegesi e la divulgazione alle masse diventa non solo un dovere morale ma, appunto, una prescrizione normativa. Non serve neanche capirli - dice il collega Filippo Facci - l’importante è votarli come atto di fede verso una giustizia più giusta invocando, banalmente i dettami dell’art. 111 della Costituzione. “Chiediamo che la Rai rispetti il richiamo dell’Agcom sull’adeguata copertura informativa e organizzi subito blocchi sul referendum nei talk show in prima serata su tutte le reti. Le tribune di Rai Parlamento - che richiedemmo in un atto di sindacato ispettivo in Vigilanza Rai - sono un primo passo, ma non abbastanza”, denunciano i membri della Vigilanza Rai Federico Mollicone e Daniela Santanché. La denuncia si aggiunge a quelle leghiste di Arrigoni, Ostellari, Ravetto. Anche se la protesta più efficace risulta quella dell’immarcescibile vicepresidente del Senato leghista Roberto Calderoli; il quale si butta, pannellianamente, sullo sciopero della fame: “Bene che l’Agcom indirettamente denunci la mancata informazione sui quesiti referendari, però l’Agcom mi sembra la bella addormentata nel bosco, perché tra dieci giorni si vota e se aspettava ancora un po’, per cui al posto che mandare un richiamo ci vorrebbe qualcosa di molto più forte”. E Calderoli evoca l’art. 75 della Costituzione (il popolo che con lo strumento del referendum può diventare legislatore). Sicché il vecchio soldato padano qui riceve ineffabili attestati di solidarietà. Riceve, Calderoli, meno proposte di co-digiuno e di sollevazioni di piazza. Non si può avere tutto. Alla luce di quest’inquieto silenzio della tv di Stato, qualche domanda sorge spontanea: “Chi ha paura dei referendum? Perché si sta cercando di boicottare indegnamente uno strumento di democrazia? Perché la stampa sta ignorando questa battaglia di civiltà? Si temono tanto i magistrati? Come mai non interviene il Presidente della Repubblica o il Presidente del Consiglio?”. Sono gli interrogativi che si pone Giacomo Francesco Saccomanno, Commissario regionale della Lega in Calabria; e che ribadisce Emma Bonino leader di +Europa che denuncia l’inerzia del Pd di letta e i boicottaggi del 5S che, con l’approvazione dei cinque referendum vedrebbe sgretolarsi definitivamente la stagione giustizialista della riforma Bonafede. D’altronde - bisogna essere onesti- la sinistra e le toghe non hanno mai fatto mistero dell’aspirazione di vedere fallita la consultazione. E lo fanno tramite l’informazione a bassissima frequenza per un conseguente “non raggiungimento del quorum”. Ad occhio, trattasi davvero della campagna referendaria più oscurata della storia repubblicana. Tutti gli inganni dei referendum di Domenico Gallo Il Manifesto, 3 giugno 2022 Il quesito sul decreto Severino serve alla classe politica per sfuggire al controllo di legalità. Quello sulla custodia cautelare smantella il contrasto alle attività criminali in corso. I quesiti non riguardano temi facilmente comprensibili, che incidono sulla vita delle persone, come potevano essere, per esempio, quelli sulla cannabis e sull’eutanasia. Per comprenderne il significato e gli effetti bisogna stare attenti a non farsi ingannare. Il rischio è che il voto sia influenzato da pregiudizi e slogan ingannevoli, a cominciare dal mito che attraverso le modifiche proposte dai referendum si operi una riforma della giustizia, rendendola più “giusta”. Per i lettori del manifesto Andrea Fabozzi ha già compiuto un primo screening descrivendo i caratteri essenziali di ciascun quesito e le conseguenze che produrrebbero. Tuttavia su alcuni aspetti è necessario un approfondimento per meglio chiarire il carattere malizioso e ingannevole che accompagna la divulgazione dei quesiti. In primo luogo occorre rilevare che il quesito sul decreto Severino, non ha nulla a che vedere con la giustizia ma riguarda la trasparenza e la dignità dell’esercizio delle cariche elettive e di governo. Per quanto riguarda il parlamento ed il governo, il decreto prevede l’incandidabilità e la decadenza dalla carica dei soggetti condannati con sentenza definitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione per delitti con colposi per i quali sia prevista una pena nel massimo superiore a quattro anni di reclusione. I referendari sostengono che corrotti e corruttori non avrebbero comunque la strada spianata in quanto, abrogando la Severino, “si restituisce ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici”. Niente di più falso, l’interdizione dai pubblici uffici non viene disposta dai giudici, di volta in volta, ma costituisce una conseguenza necessaria di determinate condanne. Ai sensi dell’articolo 29 del codice penale, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici è una conseguenza automatica nel caso venga inflitta una condanna per un tempo non inferiore a cinque anni. Nella generalità dei casi, tutte le persone condannate per fatti di corruzione e altri gravi reati (peculato, corruzione, concussione, riciclaggio, associazione per delinquere, porto e detenzione di armi da guerra) possono incorrere in pene inferiori ai cinque anni, e quindi non essere escluse dalla possibilità di ricoprire incarichi parlamentari o di governo, una volta cessati gli effetti della eventuale interdizione temporanea dai pubblici uffici. L’abrogazione del decreto Severino nuoce gravemente al corretto funzionamento delle istituzioni parlamentari. Questa richiesta esprime, in maniera del tutto palese, la forte insofferenza del ceto politico per le conseguenze negative del controllo di legalità, a dispetto della Costituzione che, all’articolo 54, secondo comma prevede che: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di esercitarle con disciplina ed onore”. Un altro quesito oggetto di propaganda ingannevole è quello che viene contrabbandato con l’etichetta “limiti agli abusi della custodia cautelare”. La Corte di Cassazione, Ufficio centrale per i referendum, ha correttamente modificato la denominazione in “limitazione delle misure cautelari” poiché il quesito non interviene sugli abusi della custodia cautelare, bensì travolge tutte le misure cautelari, sia quelle detentive (come la custodia in carcere o gli arresti domiciliari), sia quelle non detentive, come l’allontanamento del coniuge violento dalla casa familiare o il divieto per lo stalker di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Ciononostante i referendari continuano ad usare l’etichetta cancellata dalla Cassazione. Orbene, esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’abolizione, in tutti gli altri casi, delle misure cautelari, quando sussista un pericolo concreto ed attuale di reiterazione dei reati, avrebbe l’effetto di smantellare qualsiasi forma di contrasto alle attività criminali in itinere, esponendo le persone offese a rischi non altrimenti evitabili. Si pensi agli atti persecutori che possono durare all’infinito, se non viene posta nessuna limitazione alla libertà dello stalker di perseguitare la sua vittima. O meglio possono durare fino a quando non si usa la pistola o il coltello: in questo caso scatterebbe la possibilità di ricorso alle misure cautelari, ma potrebbe essere troppo tardi. Si pensi a reati particolarmente odiosi come i furti in abitazione che spesso sono posti in essere da bande che si dedicano a quest’attività in modo professionale. Contro questi soggetti, anche se arrestati in flagranza, non potrà essere emessa nessuna misura cautelare che ostacoli il prosieguo di quest’attività criminosa, che facilmente può trasmodare in atti di violenza alla persona. In realtà da questa trama di quesiti non emerge alcuna riforma del sistema giustizia né alcuna innovazione volta a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini. In definitiva, tutti i quesiti esprimono, con gradi diversi, diffidenza nei confronti dell’esercizio della giurisdizione e del controllo di legalità. Quel che è più grave, tendono a smantellare il contrasto alle attività criminali in corso ed a svincolare il ceto politico dagli effetti negativi del controllo di legalità. Referendum, perché votare No di Armando Spataro La Repubblica, 3 giugno 2022 L’istituto del referendum è da salvaguardare ma ciò non può impedire di denunciare le spinte populiste che talvolta danno origine ai quesiti che si sottopongono ai cittadini: ciò vale per quelli su cui si voterà il 12 giugno, caratterizzati da un’ansia punitiva nei confronti della magistratura, presentata come un’associazione criminale, e del Csm che ne costituirebbe una sorta di “cupola”. Bisogna dunque impegnarsi per il “NO” anche in questo caso, cercando di portare allo scoperto ciò che, anche per la incomprensibilità dei quesiti, costituisce il “nascosto” ed il “non detto. I primi tre quesiti sono rispettivamente dannosi per il corretto rapporto tra aspettative dei cittadini ed esercizio virtuoso delle cariche rappresentative, per l’efficacia della repressione dei reati e per la difesa del nostro ordinamento costituzionale. Gli ultimi due sono inutili e bizzarri. Con la cancellazione del decreto legislativo Severino, sarebbe intanto “offeso” il principio contenuto nell’art. 54 della Costituzione secondo cui i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di esercitarle con disciplina ed onore. Vorrei chiedere ai proponenti il referendum perché mai, anziché battersi perché i partiti non candidino pregiudicati definitivamente condannati a cariche elettive parlamentari e territoriali, comunque prevedendone nei codici etici la decadenza, chiedono ai cittadini - che hanno interesse al corretto funzionamento delle Istituzioni - di votare perché tutto ciò sia reso possibile. È giusto dunque prevedere incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, amministratori regionali, sindaci in caso di loro condanna con sentenza definitiva per specifici gravi reati. Il decreto Severino presenta semmai dei punti critici solo con riferimento alla sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano subito una condanna non definitiva per reati non gravi connessi ad eventuali abusi di potere. Tuttavia, i sostenitori del SI’, ignorando la necessità di specifica discussione sul punto in Parlamento, propongono l’abrogazione dell’intero decreto, secondo un’evidente logica di autoprotezione Con il secondo quesito si vuole la cancellazione - salvo per reati gravissimi - di una delle tre ragioni che, in presenza di gravi indizi di responsabilità, legittimano richiesta ed emissione di misure cautelari (non solo custodia in carcere, ma anche arresti domiciliari e misure interdittive varie), cioè il pericolo di reiterazione degli stessi reati per cui si procede (gli altri due sono il rischio di fuga e quello di inquinamento delle prove). Il “SI” viene auspicato anche con la diffusione di dati falsi come quelli secondo cui migliaia di cittadini sarebbero ogni anno arrestati in Italia e poi assolti. Deve essere ben chiaro che criticità esistono certamente anche in questo settore, ma un conto è esigere professionalità di pm e giudici ed attenzione nell’uso delle misure cautelari, altro è frantumare scopo e legittimità delle stesse, quando necessarie. Ove il “SI” si affermasse, l’effetto sarebbe quello di smantellare completamente il contrasto a gravi attività criminali come quelle oggetto di progressione criminosa (ad es. atti persecutori) e quelle normalmente seriali come i reati di corruzione, concussione, quelli dei cosiddetti “colletti bianchi” e finanziamento illecito dei partiti. È questo che si vuole per il nostro Paese? Ovvio comunque che, al primo caso di delinquente seriale tornato a delinquere, la colpa sarebbe attribuita ai magistrati. Il terzo quesito è forse il più pericoloso, comunque idoneo a scardinare l’assetto costituzionale della magistratura. Le norme vigenti in tema di passaggio dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudice (e viceversa), prevedono vari requisiti come il cambio della regione in cui si lavora e limitano il passaggio ad un massimo di quattro volte nella carriera (la riforma Cartabia in discussione ne prevede una). Ora si vuole escludere ogni possibilità di cambio sulla base di un’affermazione offensiva, di un’altra infondata e dell’ultima incolta. Saverio Borrelli la definiva “diffidenza plebea”, che - aggiungo - sembra ignorare persino le cronache quotidiane che dimostrano il contrario. Ma soprattutto - come hanno affermato anche insospettabili accademici e avvocati del livello di Franco Coppi e Giovanni Verde - si ignora che il valore tutelato dalla Costituzione (che non prevede affatto la separazione delle carriere, vero obiettivo del quesito) è quello della necessità di un’omogenea “cultura giurisdizionale” che deve accomunare pm e giudici. In concreto, ciò sta ad indicare il dovere per il pm ed il giudice di compiere lo stesso percorso per l’affermazione della verità. Le valutazioni possono alla fine divergere, ma i canoni della valutazione delle prove devono unirli: il p.m. dovrà valutarne la fondatezza solo in funzione della loro valenza nella fase del giudizio, senza appiattirsi su logiche di polizia ed essendo anche obbligato ad indagini a favore dell’imputato, nell’interesse esclusivo della verità. Che, invece, si fonda sulla parità processuali delle parti, con l’ulteriore precisazione che giustamente l’avvocato può anche sostenere la tesi dell’innocenza del suo assistito pur quando ne conosce la colpevolezza. Il ruolo delle parti, dunque, rimarrebbe in questo identico. Completamente incolta è poi la tesi secondo cui la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata. Ciò è totalmente privo di fondamento e ignora le radicali differenze tra il nostro ordinamento - per fortuna caratterizzato da indipendenza del p.m. e obbligatorietà dell’azione penale - e quelli di altri Stati europei. Studiandoli seriamente ci si accorgerebbe poi che ovunque la carriera del p.m. sia separata da quella del giudice, il p.m. stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo), un rischio che non possiamo permetterci. In più la comunità internazionale, già con la raccomandazione del 2000 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale” (in cui si auspicano “passerelle tra funzioni di giudice e pm” per meglio garantire i cittadini), ha mostrato di viaggiare proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni. La partecipazione degli avvocati membri dei consigli giudiziari ai pareri sulle valutazioni di professionalità dei magistrati è oggetto del quarto quesito. Si tratta di una prospettiva del tutto irrilevante ai fini del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, ma nettamente preferibile è la soluzione prevista nella riforma Cartabia secondo cui il voto degli avvocati deve comunque essere unanime e conforme alle valutazioni del Consiglio dell’Ordine forense competente. Del resto le decisioni sull’avanzamento in carriera dei magistrati spettano al Consiglio Superiore della Magistratura, che da sempre decide con la partecipazione dei membri laici. Con il quinto quesito si vuole eliminare la necessità di presentare almeno 25 firme di sostegno per candidarsi alle elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura è un’innovazione bizzarra poiché non serve certo a vincere le deviazioni inaccettabili del cosiddetto “correntismo”, essendo evidente che chi non riesce ad ottenere nemmeno l’appoggio di venticinque magistrati per la presentazione della sua candidatura non ha nessuna possibilità di essere eletto. Quest’innovazione non comporta alcuna riforma del Csm. Anche in questo caso, meglio concentrarsi sulla soluzione - sia pur di compromesso - recepita dalla proposta Cartabia. È certo che la Magistratura non può scegliere una chiusura corporativa ma i cittadini dovranno acquisire miglior conoscenza sull’oggetto dei quesiti e votare secondo ragione: se gli italiani voteranno per l’abrogazione delle previsioni citate, il sistema giustizia non migliorerà affatto e diminuiranno ulteriormente la sua efficacia e la fiducia dei cittadini. Votiamo Sì per fermare le porte girevoli dei magistrati di Filippo Facci Libero, 3 giugno 2022 Terza puntata della mini-guida ai referendum sulla giustizia, utile anche per via dell’incomprensibilità dei cinque testi che andrete a votare il 12 giugno. Il referendum che analizziamo oggi, peraltro, è il più complicato da leggere in assoluto: da solo consta in 7.300 battute (una pagina di Libero) e alla fine non si capisce assolutamente di che cosa abbia parlato: se di “separazione delle carriere” dei magistrati, se di “separazione delle funzioni” dei medesimi, oppure se si tratti di votare un loro “divieto di passare dalla funzione requirente alla funzione giudicante” ossia di poter passare liberamente dalla funzione di pubblico ministero (che rappresenta solo la parte dell’accusa, contrapposto alla parte della difesa assunta da un avvocato) alla funzione di giudice, che dovrebbe essere “terzo” (ed equanime) nel giudicare tra le due parti. Nel testo del referendum (tanto non lo leggerete mai) sappiate che ci sono indicazioni di norme contenute in cinque leggi diverse, peraltro da abrogare parzialmente. Come funziona oggi. In parole povere: oggi pm e giudici sono comunque magistrati (hanno fatto lo stesso concorso, sono vicini di ufficio, si conoscono un po’ tutti) e ciascuno, nel corso nella sua vita, può passare senza problemi da una funzione all’altra: al punto che un tizio, che è stato accusato da un pm, tempo dopo può ritrovarselo come giudice, una “parte”, cioè, frattanto è diventata improvvisamente “sopra le parti”. Ecco. Questa vicinanza, questa prossimità, così come è oggi, ripetiamo, così come è oggi, esiste solo in Italia. Nei paesi anglosassoni, giudici e pubblici ministeri fanno carriere separate, stanno in palazzi separati e anche un loro eventuale frequentarsi non è visto di buon occhio. Ma per un cambiamento così strutturale, in Italia, diciamo subito, non basterebbe certo un referendum: per questa e per altre cose occorrerebbe rimettere mano pesantemente alla Costituzione italiana, che in ogni caso assicura alla magistratura un assetto unico al mondo. Questa è la nostra opinione, ma andiamo abbastanza sul sicuro. La primogenitura dell’idea di separare le funzioni non è neppure di origine politica: negli anni Ottanta coincise con la formazione dell’Unione delle Camere penali, tempi in cui nessuno parlava ancora di “ledere l’indipendenza della magistratura” o “sottomettere il pm al potere esecutivo” (come in Francia e in altri paesi) e però insomma: alla fine non si è mai combinato niente. Referendum sulla separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati. Chi ha proposto il quesito punta a separare nettamente le due funzioni cosicché ogni magistrato, a inizio carriera, debba scegliere se vuole fare un mestiere o l’altro, accusare o giudicare, la requirente o la giudicante. Alla fine è tutto qui. Oggi i magistrati possono interscambiarsi tra una funzione e l’altra per ben quattro volte: pare troppo. In qualsiasi caso, se vincesse il “Si” e poi si rivelasse vero che anche solo una modifica del genere sarebbe incompatibile con la Costituzione (e dunque necessiterebbe di una sua modifica, nel Titolo IV) sarebbe una chiara indicazione della volontà popolare, sempre che conti ancora qualcosa. Il fronte del “No”. In realtà l’unico argomento serio di chi si oppone a questo referendum è valido anche per chi l’ha voluto: la necessità di rimettere mano alla Costituzione. Sciagura per alcuni, benedizione per altri. Il resto delle obiezioni, francamente, è una lagna di processi alle intenzioni. Vogliono a scardinare l’assetto costituzionale della magistratura (vero) o punire la magistratura (come se fosse una persona) o balle conclamate tipo “l’interscambiabilità dei ruoli è possibile quasi dovunque” (balle) o favolette pedagogiche tipo “lo scambio di esperienze aiuta ad interpretare il singolo ruolo” (ottimo: allora qualche mese di galera aiuterebbe a interpretare il ruolo dell’imputato) o ancora “separare le funzioni isolerebbe il pubblico ministero e nascerebbe cioè una cultura dell’indagine e dell’accusa troppo autonoma, sganciata da ogni vincolo”. Certo, e allora? Negli Usa non ci sono pm e avvocati: li chiamano avvocato dell’accusa e avvocato della difesa, per chiarire. Ma i peggiori sono quelli che vagheggiano che ci sarebbero opposte “tendenze internazionali” in un mondo dove, ripetiamo, nessun assetto della magistratura assomiglia al nostro, e nessuno ha così tanto potere e indipendenza: col singolare primato di funzionare anche male. Violante: “Voto Sì per abrogare la Severino, ma i referendum sanno di vendetta” di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2022 “Questi referendum appaiono una sorta di vendetta della politica contro la magistratura. Su una cosa, però, mi trovo d’accordo: tutto l’assetto giudiziario ha bisogno di una ristrutturazione”. L’ex presidente della Camera ed ex magistrato Luciano Violante è convinto che le soluzioni ai problemi del sistema giudiziario non stiano nel fondo dell’urna del 12 giugno. Ma non si sottrarrà al voto, anzi: nonostante il suo scetticismo sulla campagna referendaria, è convinto a votare sì al quesito che prevede l’abrogazione della legge Severino. “Certe responsabilità - spiega al Dubbio - spettano ai partiti. Non possiamo affidare alla magistratura compiti che non le competono”. Questi referendum per alcuni sono uno strumento di vendetta contro i magistrati. Lo pensa anche lei? L’idea che emerge è che siano ispirati da una ideologia punitiva. Certamente bisogna dare un nuovo statuto alla magistratura, ma questi referendum non hanno nessuna funzione ricostruttiva. Credo che abbia ragione chi ci vede un tentativo, forse inconsapevole, di destrutturare l’amministrazione della giustizia. Ma questo tentativo non può essere anche un modo per rompere gli schemi, vista la difficoltà dei partiti ad affrontare il tema giustizia con la necessaria tranquillità? I partiti che hanno raccolto le firme sono gli stessi che stanno in Parlamento. E la cosa singolare è che pochi giorni fa hanno votato cose che vanno in direzione diversa rispetto al referendum. Non è un gioco chiamare gli italiani a votare in modo difforme da come si è votato poco prima alla Camera; i partiti sono essenziali, ma perdono credibilità quelli che votano in Parlamento in un certo modo e poi vanno a votare diversamente un mese dopo. È un altro dei casi di instabilità permanente, difetto cruciale del nostro sistema politico. Il sistema giudiziario ha bisogno di modifiche ben più profonde per riacquisire legittimazione. Ma bisognerebbe mettere mano alla Costituzione, l’assetto della magistratura non può più essere quello della prima metà del secolo scorso. Questo tema non è stato affrontato con i referendum né nel dibattito parlamentare; all’interno della magistratura invece qualcuno comincia a porsi il problema. Quali modifiche servirebbero? Intanto vorrei dire che voterò a favore del referendum sull’abrogazione della legge Severino. Perché credo che la responsabilità di stabilire se un amministratore possa restare al proprio posto non spetta alla magistratura, ma alla politica. Con questa legge noi togliamo ai partiti una patata bollente ed affidiamo alla magistratura un ruolo che non le compete. La politica cede fette di sovranità ogni giorno, per poi lamentarsi del fatto che la magistratura la eserciti. Quante volte abbiamo visto giunte comunali cadere perché il sindaco è stato condannato in primo grado, per poi essere assolto nei gradi successivi? Intanto la giunta è caduta e si è rivotato. È questo che non va. Perché il principio di non colpevolezza vige per tutti, anche per coloro che hanno responsabilità politico amministrative. Quanto alle cose da fare: si vuole ridurre il peso delle correnti? Allora il vicepresidente del Csm deve essere nominato dal Presidente della Repubblica, non eletto dal Csm, perché altrimenti è ovvio che chi vuole essere eletto vada a trattare con le correnti. E questo condiziona tutti i quattro anni del Csm. L’elezione consente che siano le correnti a spadroneggiare. Però le correnti agiscono anche ad altri livelli, come le nomine dei direttivi... Penso che serva un’Alta Corte, composta come la Corte costituzionale per un terzo da magistrati eletti dalle diverse magistrature, per un terzo da eletti dal Parlamento e per un terzo nominati dal Capo dello Stato, che sia organo di ricorso contro le decisioni disciplinari e amministrative. Lì i giochi di potere non conterebbero più. E se si vuole eliminare il peso anomalo delle correnti bisogna spingere al massimo il sistema proporzionale, per frantumare la rappresentanza. Con un sistema sia pure parzialmente maggioritario, chi è maggioranza ha più legittimazione ad imporre i propri criteri “politici” rispetto a criteri di carattere oggettivo. Ed è il contrario di quello che vuole la Costituzione. Un’altra cosa si può fare subito: attualmente ci sono sette magistrati subentrati al Csm ad altri magistrati eletti quattro anni fa. La Costituzione dice che dopo quattro anni scadono i singoli componenti, non il Csm. Il che vuol dire che questa volta si potrebbero eleggere solo i membri scaduti, avviando una rotazione che romperebbe gli schemi. Basta applicare la Costituzione. Tornando al referendum, un altro punto discusso è quello della separazione delle funzioni... Non è vero che dappertutto ci sia una separazione: in Francia e in Germania è considerato un fatto positivo e qualificante aver esercitato diverse funzioni, perché si ritiene che ciò consente di acquisire una maturità professionale maggiore. Si dice che i giudici siano subalterni ai pm, ma se circa il 45% delle sentenze è di assoluzione o di proscioglimento come si fa a dirlo? Il punto è un po’ diverso: il pm è sempre più diventato un investigatore e la sua professionalità si è fortemente distinta da quella del giudice. Il pm deve trovare la prova, il giudice valutarla: le metodologie di lavoro sono molto diverse. Questo spiega perché negli ultimi tre anni su 10mila magistrati soltanto 80 hanno scelto il passaggio delle funzioni: nella magistratura è già chiara questa idea. Credo che la scelta della ministra Cartabia, con la limitazione ad un unico passaggio, sia tutto sommato condivisibile, perché è anche una garanzia per i cittadini consentire di poter cambiare a chi ritiene di aver fatto una scelta sbagliata. Eliminare del tutto questa possibilità mi sembra dannoso. Il quesito sulla custodia cautelare in carcere parte dalla convinzione che ci sia un abuso delle misure cautelari. Lei ritiene che questo possa risolvere il problema? Forse la questione è un po’ diversa: si dice che si usa il tema della reiterazione del reato per esagerare con la custodia cautelare. Ma è giusto o sbagliato disporre la custodia cautelare quando c’è il rischio di reiterazione del reato? Il cittadino è più difeso o meno difeso nei confronti di un criminale seriale? Con il referendum si vuole che il cittadino sia meno difeso e questo lo trovo sbagliato. Poi se ci sono degli abusi si denuncino, si stabilisca chi ha sbagliato e si chieda che venga perseguito. Ci sono gli strumenti: campagne di stampa, il Csm… ma non si può privare il cittadino di uno strumento di difesa. Ma questi abusi ci sono? Vedo che in molti casi di custodia cautelare ci sono delle assoluzioni. E quindi occorrerebbe una prudenza maggiore nella valutazione delle prove. Ma questo non spetta al pm, bensì al gip. Ma qui si torna alla questione del presunto appiattimento del gip sul pm… Noi non sappiamo quante richieste sono respinte. Mentre sappiamo bene qual è il tasso di assoluzioni e proscioglimenti, che è molto alto: è difficile fare una statistica. Abolire le firme per la candidatura al Csm aiuta a ridurre il peso delle correnti? È una banalità. È ovvio che il candidato di corrente verrà votato, chi si presenta senza sostegno no. Il diritto di voto nei Consigli giudiziari per avvocati e professori è utile? Credo che con la riforma la questione sia stata risolta in modo equilibrato, dando all’Ordine degli avvocati la possibilità di pronunciarsi. Però avendo su questo la Camera deciso qualche settimana fa e dovendo riprendere il 14 la discussione in Senato, non capisco perché mettere in discussione quello che gli stessi proponenti del referendum hanno approvato. Molti lamentano un certo silenzio attorno a questi referendum. Secondo lei si sta tentando di tenerlo nascosto? In realtà la vera questione è che non c’è un traino. Se si votasse in tutta Italia sarebbe più semplice, ma credo soprattutto che i referendum non abbiano alla base una proposta su un nuovo modello di magistrato. E per chi ha responsabilità politiche ho l’impressione che questa non sia la strada giusta: servono idee nuove. Per la valutazione dei magistrati in ballo le “pagelle” di avvocati e prof di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 giugno 2022 L’obiettivo del referendum sulla valutazione dei magistrati (scheda grigia) è di realizzare una piena partecipazione, estendendola al diritto di voto, dei membri “laici” del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari. Si chiede dunque di abrogare le norme che limitano il ruolo di avvocati e docenti universitari, inseriti negli organismi locali che esprimono pareri sulla professionalità di giudici e pubblici ministeri, equiparandoli ai componenti togati. Di norma ogni quattro anni i magistrati sono sottoposti a un giudizio sulla loro idoneità a proseguire e progredire nella carriera da parte del Consiglio superiore della magistratura, che a sua volta si avvale dei pareri espressi dal Direttivo della Cassazione per i magistrati di legittimità e dai Consigli giudiziari per chi si occupa del merito dei procedimenti, dalle indagini preliminari fino ai processi d’appello. Ma mentre nel Csm i consiglieri “laici”, pur essendo in minoranza, hanno lo stesso peso dei togati, negli altri due organismi il loro contributo è confinato a questioni organizzative, alla vigilanza sul funzionamento degli uffici giudiziari e altri profili minori. Già la riforma patrocinata dall’ex ministro della Giustizia grillino Alfonso Bonafede prevedeva “la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di assistere alle discussioni e deliberazioni” sulle valutazioni di professionalità dei magistrati; un “diritto di tribuna” che la proposta dalla Guardasigilli Marta Cartabia attualmente al vaglio del Senato (già approvata della Camera) ha esteso al diritto di voto per un rappresentante degli avvocati previa segnalazione del Consiglio dell’ordine sui magistrati sotto esame. “Non si tratta di dare le pagelle - ha spiegato la ministra - ma di offrire elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista. Magistrati e avvocati potranno collaborare più intensamente nei consigli giudiziari, come del resto già avviene nel Csm”. Il referendum esclude il passaggio intermedio del Consiglio dell’Ordine, introducendo il voto ai “laici” senza filtri; inoltre la riforma in discussione è una legge delega, per cui spetterebbe al governo decidere le modalità di partecipazione degli avvocati alla valutazione dei giudici, mentre la vittoria dei Sì la renderebbe automatica e diretta. Per promotori e sostenitori del quesito è un modo per rompere il guscio autoreferenziale in cui la casta togata si amministra e puntualmente si autopromuove e autoassolve: attualmente le “pagelle” sono positive nel 99 per cento dei casi. I fautori del No, prime fra tutti le stesse toghe, sostengono invece che il coinvolgimento delle controparti processuali rischierebbe di inquinare i giudizi, facendo pesare rapporti e interessi personali: un difensore potrebbe esprimere valutazioni viziate da ostilità o compiacenze legate a processi svolti con quel magistrato, così come le decisioni del magistrato potrebbero essere influenzate dal desiderio di favorire un difensore che sarà chiamato a giudicarlo o, al contrario, di vendicarsi per un giudizio negativo già espresso. Caiazza: “Escludere i legali è una scelta corporativa. Noi la controparte? Obiezione assurda” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 giugno 2022 Giandomenico Caiazza, presidente dei penalisti italiani: togliere autoreferenzialità ai magistrati che, ora per un motivo ora per un altro, non accettano valutazioni esterne. Domenica 12 giugno si potrà votare, insieme alle Amministrative, sì o no su cinque referendum centrati sulla giustizia. A promuoverli sono stati il Partito radicale e la Lega. Il via libera della Cassazione è arrivato il 29 ottobre scorso, quello della Corte costituzionale il 15 febbraio. I quesiti riguardano se abrogare parte della legge Severino; se abolire la raccolta delle firme per presentare la candidatura al Csm; se ridurre i reati per cui è previsto il carcere; se separare le carriere dei magistrati; se consentire ai non togati di valutare i magistrati. Questa è la prima di una serie di puntate per spiegare i quesiti e le diverse posizioni Giandomenico Caiazza, da presidente dei penalisti italiani, cosa voterà sul quarto quesito, quello sulle “pagelle” ai magistrati? “Voterò sì. Per abrogare la legge del 2006 e consentire anche ad avvocati e professori universitari che, peraltro già siedono nei Consigli giudiziari, di dare pareri sulla professionalità dei magistrati”. Perché? “Mi pare ovvio che ogni valutazione debba basarsi anche sul giudizio degli avvocati. Escluderli mi sembra il classico riflesso di una scelta corporativa che vede l’avvocato come ospite e non come protagonista della giustizia”. Più come ospiti siete visti come controparte. Non è così? “I magistrati lo dicono. Ma è una delle obiezioni più assurde”. Non potreste trovarvi a valutare il giudice che ha condannato un vostro cliente o che lo giudicherà? “Ma questa è una visione romanzesca. Pensiamo a Roma. Come si può pensare che tre avvocati chiamati a esprimere giudizi su centinaia di magistrati possano trovarsi valutare proprio quello con cui hanno avuto un processo?”. Forse a Roma no. Ma in provincia? “Se è per questo, il rischio è anche quello contrario”. Ovvero? “Di trovare un avvocato pavido che voglia ingraziarsi il giudice”. Cosa risolve questa riforma? “Toglie quell’elemento di autoreferenzialità ai magistrati che, ora per un motivo ora per un altro, non accettano valutazioni esterne”. Non c’è già nella riforma Cartabia in discussione al Senato? “Il quesito, che non è farina di noi penalisti, è stato scritto prima di quella riforma. Ma comunque, dato che la Cartabia è una legge delega, arriva prima il referendum. E quindi ben venga”. C’è il rischio del mancato quorum. Come lo vede? “Il referendum è una scadenza elettorale della democrazia diretta. Dovrebbe essere accompagnato da un’informazione capillare che spieghi anche questo: non andare votare ha peso equivalente a votare no”. Musolino: “Gli errori di Area e Mi hanno fuorviato l’Anm. I referendum non seducono” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 giugno 2022 Dai referendum alla riforma di mediazione Cartabia, passando per le prossime elezioni del Csm: dialogo con Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica. Roberto Calderoli, in una conferenza stampa organizzata col Partito radicale, ha annunciato lo sciopero della fame per abbattere il muro di silenzio sulla campagna referendaria. Che pensa dell’iniziativa? Che l’avrei riservata al sostegno di cause ben più rilevanti. Il problema non è la stampa che dà poco spazio alla campagna, ma l’assenza di un reale interesse pubblico per la notizia. Molti quesiti, ad esempio stabilire se un candidato al Csm debba avere o no 25 firme a sostegno, costituiscono un obiettivo logoramento dello strumento referendario. Questi quesiti non appassionano i cittadini, di conseguenza i media non gli dedicano spazio. Però il referendum è uno strumento garantito dalla Costituzione. Il cittadino va messo nelle condizioni di “Conoscere per deliberare”, lo diceva Einaudi... Che io sappia la Rai concede molti spazi. Quelli ulteriori andrebbero conquistati dall’interesse pubblico, che invece manca. Nell’ultimo mese la Rai ha dedicato al referendum meno di due ore... Guardi, io credo che potrebbe dedicare alla campagna anche 10 ore al giorno, ma permane un problema: lo scarso appeal della notizia. Il referendum è stato, tradizionalmente, lo strumento utilizzato da minoranze politiche, prive di rappresentanza parlamentare, per conseguire progressi autentici sul tema dei diritti fondamentali. Questi referendum invece sono sostenuti da forze politiche largamente rappresentate in Parlamento e al governo, si fondano su sterili slogan a sostegno di astrusi quesiti che occultano pessimi effetti. Una riflessione su un quesito su cui dovreste essere d’accordo: quello sul voto degli avvocati... Magistratura democratica sostiene la necessità di ampliare le fonti di conoscenza in sede di valutazione di professionalità, anche grazie al contributo del Foro. Ma il risultato dell’intervento ortopedico del referendum sulla norma non offre alcuna garanzia di una partecipazione dell’avvocatura sterilizzata da personalismi e faziosità. Benché avessimo preferito riconoscere all’avvocatura un diritto di tribuna, con diritto di parola, ritengo che il progetto di riforma Cartabia, sul punto, costituisca un saggio compromesso. A proposito di riforma, Ostellari (Lega) ha detto all’Anm: “Ci lasci lavorare serenamente. Garantirò un esame attento del ddl, per il bene di tutti gli italiani, compresi i magistrati”. Si sente rassicurato? Non sono tanto sereno, visto che la senatrice Bongiorno continua a sostenere che il testo vada modificato in una prospettiva, a nostro giudizio, peggiorativa per l’esercizio delle nostre funzioni. La Lega è tra i partiti che in maniera più evidente, anche per i toni usati e le modifiche sponsorizzate, immagina questa riforma come una sorta di rivincita della politica sulla magistratura. Però aspettiamo di vedere cosa accadrà nei prossimi giorni. Casomai ci ricrederemo. Comunque abbiamo spiegato più volte le criticità della riforma, e tengo ad aggiungere che in un confronto con l’avvocatura durante le assemblee organizzate a livello locale si è giunti a un’analisi condivisa. Quale? Abbiamo fatto comprendere che il magistrato burocrate ed efficientista, proposto dal riformatore, usando a questo scopo la leva del disciplinare e delle valutazioni di professionalità, rappresenta un pericolo per la qualità della giurisdizione, e quindi per la tutela efficace dei diritti. E a questo sono sensibili tutti i protagonisti della giurisdizione, compresi gli avvocati, perché sono in gioco gli interessi dei cittadini nel loro rapporto con il servizio giustizia che tutti abbiamo interesse a tutelare. Ci fa sempre piacere quando avvocatura e magistratura sono unite a tutela della giurisdizione... Anche io credo che un dialogo comune sia necessario, e infatti una delle critiche che abbiamo mosso come gruppo alla dirigenza dell’Anm ha riguardato proprio l’incapacità di costruire un confronto e delle sinergie con l’avvocatura. Sullo sciopero, lei è stato l’unico a parlare di “fallimento”. Altri suoi colleghi, a partire dal presidente Santalucia, rifiutano l’idea di un flop. In un’intervista con la vicepresidente Maddalena è emersa l’urgenza di ricostruire l’unità. Ma come farlo, se non si riconoscono il fallimento e le sue cause? Condivido la sua obiezione. Una classe dirigente responsabile, se vuole essere legittimata e autorevole, dovrebbe riconoscere gli errori che sono stati commessi e ammettere che lo sciopero è andato molto male. Ed è un vero peccato perché moltissimi non hanno scioperato, condividendo le ragioni dell’astensione ma non tempi e modi. Penso che un’iniziativa organizzata meglio avrebbe consentito di andare sopra il 70%. Vi è stato un errore di valutazione iniziale che non è stato, badi bene, della dirigenza Anm ma delle dirigenze di AreaDg e Magistratura indipendente che hanno spinto molto sullo sciopero per pure ragioni elettorali. La magistratura è un po’ diversa da come loro la immaginavano. Anche per questo non ho condiviso il documento di Area, dopo lo sciopero, in cui si è esaltata una divisione tra la magistratura bassa che avrebbe scioperato, al contrario di quella alta. In disparte la rozzezza dell’analisi, non è frazionando la magistratura e negando le responsabilità che si costruiscono prospettive proficue. Come si ricostruisce l’unità? Continuando a dialogare, come da noi proposto, dentro e fuori la magistratura, per costruire un discorso comune, a partire dai molti modi in cui si può fare questo lavoro. Quello che è successo, prima della proclamazione dello sciopero, è molto importante: la magistratura più giovane si è ribellata al modello di magistrato burocrate che la riforma Cartabia propone. Si tratta di mettere in dialogo questa parte della magistratura con quella che, pur condividendo le ragioni della protesta, non ne ha accettato il metodo. Interrogarsi e confrontarsi sul ruolo costituzionale della magistratura, a tutela dei diritti, significa intrecciare una trama narrativa con cui affrontare i temi posti dalla modernità, coltivando le diverse sensibilità in una prospettiva unitaria. Lei ha parlato di ragioni elettorali in vista del nuovo Csm. Discuterete di questo anche nel prossimo consiglio nazionale del 18 e 19 giugno. Risulta che correrete da soli e non sotto la bandiera di Area almeno per la quota dei giudici di merito, dove vigerà un sistema proporzionale. Si è detto che così si ufficializza il “divorzio” Md- Area. Ci spiega meglio? Per usare la sua espressione: il “divorzio” da Area, o come lo chiamiamo noi “il recupero di autonomia rappresentativa di Md”, è stato deliberato sin dal congresso di Firenze dell’anno scorso. In continuità con quel mandato congressuale, tuttavia, noi abbiamo proposto ad Area un’alleanza generale per il prossimo Csm, fondata su un programma condiviso minimo - poiché su alcune cose ci dividiamo, ad esempio sul ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari - per le sole quote maggioritarie riservate a Cassazione e pm. Poi abbiamo proposto di convergere solo sul candidato per il posto di legittimità. Ipotesi tutte respinte. Insomma, Area vi ha sbattuto la porta in faccia… L’espressione è un po’ forte, ma sintetizza efficacemente quello che è successo! Ho grande rispetto per le loro scelte, ma questo non ci impedirà certo di coltivare le nostre idee e i nostri programmi con i candidati che si riconoscono in una magistratura progressista plurale e aperta al confronto. Milano. Due suicidi a distanza di pochi giorni a San Vittore di Osservatorio carcere e territorio di Milano affaritaliani.it, 3 giugno 2022 Il problema: le lunghe liste di attesa per i detenuti con disturbi mentali prima di ricevere le cure specialistiche. C’è preoccupazione per i ripetuti suicidi, a distanza di pochi giorni, da parte dei detenuti del carcere milanese di San Vittore. Due giovani detenuti presso il settimo reparto della Casa Circondariale ‘Francesco De Cataldo’ San Vittore di Milano si sono tolti la vita a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, lo rende noto l’Osservatorio carcere e territorio di Milano. Abou El Maati, un giovane di 24 anni, cittadino italiano di famiglia egiziana, si è ucciso nella notte di giovedì 26 maggio. Giacomo Trimarco, 21 anni, ha deciso di farla finita ieri. Era in attesa di trasferimento in luogo di cura da mesi e destinatario di misura di sicurezza in REMS (una struttura sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza dedicata alle persone affette da disturbi mentali). Aveva già tentato due volte il suicidio nelle settimane precedenti. Carceri: 30 carcerati si sono tolti la vita dall’inizio del 2022 - “Il fenomeno dei suicidi in carcere è una delle grandi malattie del sistema carcerario italiano - spiega l’avvocato Antonella Calcaterra - Dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita in carcere già quasi 30 persone. I suicidi in cella sono stati almeno 54 nel corso del 2021, più di 60 nel 2020. Si tratta solo dei suicidi accertati: per molte morti in carcere la causa è difficile da attribuire con precisione. Sono numeri inaccettabili”. “Ci chiediamo - aggiunge - cosa stia succedendo a San Vittore con due giovanissimi che si sono tolti la vita in meno di una settimana. La presenza di persone con forme di sofferenza mentale, spesso con doppia diagnosi, nell’Istituto milanese ha raggiunto livelli molto preoccupanti e la condizione detentiva non fa che acuire il problema. Le REMS hanno lunghe liste di attesa e l’intervento psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente. I servizi territoriali per la salute mentale non riescono a garantire un intervento adeguato e la continuità terapeutica. Resta la positiva esperienza dei centri diurni attivi all’interno degli istituti penitenziari milanesi, ma senza una forte ed effettiva collaborazione con i servizi pubblici per la salute mentale e senza un potenziamento degli interventi della sanità all’interno degli istituti, con una maggiore e adeguata presenza di psicologi e psichiatri, non sarà possibile evitare tragedie come queste. Il nostro pensiero e il nostro abbraccio vanno alle famiglie di questi due ragazzi, che oggi piangono morti difficili da comprendere e accettare”. Milano. Il ragazzo suicida in cella che non doveva stare in carcere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 giugno 2022 Stavolta è ammesso tutto, pure le lacrime di coccodrillo, ma la finta meraviglia almeno no. Perché G.T., il 21enne detenuto uccisosi con inalazioni di gas nel carcere milanese di San Vittore, dove in una settimana anche il detenuto di 24 anni A.E.M. si era tolto la vita, non soltanto aveva già tentato 15 giorni fa il suicidio, ma soprattutto non sarebbe proprio dovuto stare in carcere. E questo perché la diagnosi delle sue condizioni mentali lo aveva destinato a una delle “Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, subentrate nel 2014 alla sacrosanta chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e però zavorrate da una lista d’attesa - dieci mesi la media - di persone “non imputabili” (e perciò poi non giudicabili nei processi per reati commessi in “incapacità di intendere e volere”), ma al contempo “socialmente pericolose” a motivo dei propri disturbi. Solo che le Regioni hanno tardato ad aprire le Rems (oggi sono 36), i posti (652) restano sottodimensionati, i servizi territoriali arrancano, i centri diurni dentro le carceri fanno quello che possono con la scarsità di psichiatri e psicologi, i giudici non hanno per legge il potere di ordinare l’ingresso del detenuto in una Rems, la lista d’attesa si gonfia. E se la Corte Costituzionale ha iniziato a farsi sentire a gennaio, sempre più spesso la Corte di Strasburgo, attivata dai legali più incisivi, intima all’Italia di mettersi in regola e l’Italia (come di recente in una offerta di risarcimento a un detenuto pur di schivare la condanna di Strasburgo) promette di rimediare ma intanto riconosce di stare violando l’articolo tre della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E ogni volta - al netto dei volonterosi tentativi di arrangiarsi, oggetto lunedì di un convegno di “Area” in Tribunale a Milano tra magistrati, avvocati e psichiatri - parte così un vorticoso carteggio tra Procure-Rems-ministeri-Regioni, ciascuno in cerca del pezzo di carta che formalmente lo esenti da responsabilità. Sia quando, nel limbo di 750 persone che restano in libertà benché dichiarate socialmente pericolose, qualcuno aggredisce un passante per strada; sia quando invece, nel limbo di 60 persone che in lista d’attesa restano tacitamente ma illegalmente in cella, qualcuno si uccide. Come il 21enne di San Vittore, che da ottobre 2021 a San Vittore non doveva stare. Milano. “Arrestatele anche se incinte”, circolare della procura alle forze dell’ordine di Francesca Galici Il Giornale, 3 giugno 2022 La procura di Milano ha modificato le disposizioni per le forze dell’ordine, che potranno procedere all’esecuzione degli ordini di carcerazione anche in presenza di casi da art 146 c.p. La procura di Milano ha fatto marcia indietro. Le recenti polemiche sui tanti casi di rom in stato interessante lasciate libere di delinquere proprio in virtù della gravidanza hanno portato a una parziale rivisitazione delle direttive fornite alle forze dell’ordine in caso di arresto. Quello delle borseggiatrici, che si muovono principalmente tra i mezzi pubblici sotterranei e di superficie, è un fenomeno in costante aumento in città, a discapito della percezione di sicurezza dei cittadini e dei turisti, per il quale è necessario trovare un argine. Sono numerosi i casi di rapinatrici e borseggiatrici seriali, con ampi fascicoli aperti a loro nome in procura, che in virtù del continuo stato interessante e della moltitudine di figli minori a loro carico non possono essere detenute in ottemperanza dell’articolo 146 del Codice penale. In base a questo dispositivo, l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, tra gli altri casi è differita “se deve aver luogo nei confronti di donna incinta; se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno”. Una recente circolare della procura di Milano specifica che le “recenti pronunce del tribunale di Sorveglianza di Milano hanno ritenuto che la disposizione prevista dall’articolo 146 c.p., sebbene obbligatoria, dev’essere intesa nel senso che il magistrato di Sorveglianza deve procedere al giudizio di bilanciamento tra tutela dei diritti del detenuto (e del minore) e la tutela delle esigenze della collettività”. Come specifica il procuratore firmatario della circolare, quindi, “il magistrato di Sorveglianza può adottare il differimento ‘secco’ ex articolo 146 c.p. ma può anche disporre la detenzione domiciliare c.d. umanitaria in domicilio idoneo o la detenzione domiciliare speciale (anche in istituto a custodia attenuata)”. La decisione è di competenza esclusiva del giudice di Sorveglianza, il che significa che le forze dell’ordine devono procedere all’esecuzione degli ordini di carcerazione emessi dalla procura di Milano “per sentenze di condanna definitiva, pur nelle ipotesi di possibile sussistenza di una causa oggettiva di rinvio obbligatorio (articolo 146 c.p.)”. Si tratta di una modifica importante per l’operato delle forze di polizia sul territorio, che va a sostituire la precedente circolare del 12 dicembre 2106 in cui si specificava che “gli operanti dovranno sospendere l’esecuzione, verbalizzare le circostanze della sospensione e trasmettere il verbale al magistrato assegnatario” nella circostanza degli ordini di esecuzione già emessi nei casi di differimento pena obbligatoria per l’articolo 146 del codice penale in presenza di sentenze definitive. Milano. Detenuti per la prima volta in Senato. La “visione” di uno psicologo di Cristina Calzecchi Onesti La Discussione, 3 giugno 2022 Rendere la pena “una palestra di coscienza e di responsabilità”. Con questa richiesta, per la prima volta in Senato, detenuti ed ex detenuti del Gruppo della Trasgressione provenienti dalle case di reclusione di Opera-Bollate hanno parlato delle loro esperienze nella devianza e del lungo percorso per uscirne, per cercare di individuare insieme alle istituzioni gli strumenti affinché la detenzione acquisti in pieno la sua funzione rieducativa, per migliorare i rapporti fra genitori detenuti e figli e prevenire le recidive. Sono reclusi speciali, che appartenevano alla criminalità organizzata ma da cui hanno preso le distanze grazie all’aiuto dello psicologo Angelo Aparo, che da 25 anni collabora con San Vittore. Tra gli obiettivi che persegue è far incontrare gli autori di reati, anche quelli socialmente più riprovevoli, coi cittadini, con le vittime e i loro familiari, con le istituzioni per un percorso “rieducativo” che restituisca ai detenuti la vera libertà. Non a caso l’incontro di oggi è stato intitolato: “Una mappa per la pena - ridurre la libertà per ampliarla”. Cambiare è possibile se c’è un progetto carcerario - I reclusi di lungo corso che partecipano al suo progetto spiegano ai giovani “finiti dentro” come non fare la loro fine: “L’obbiettivo - ha spiegato Aparo - è far provare ai ragazzi detenuti un viaggio nel futuro. Attraverso chi ci è passato entrano in contatto frontale con quello che potranno diventare se non cambieranno rotta, persone che a 50 anni ne hanno passati 30 in carcere”. Del Gruppo della Trasgressione anche il documentario “Lo Strappo” in cui Aparo, il magistrato Francesco Cajani, il giornalista Carlo Casoli e il criminologo Walter Vannini fanno emergere, intervistando ‘colpevoli’ e vittime, la lacerazione nella vita di chi compie un reato e di chi lo subisce, ma anche la possibilità di ricucire e i mille aghi sottili per farlo. Fortunatamente, infatti, le persone possono cambiare se gli si dà, ad esempio, l’opportunità di reinserirsi nel mondo del lavoro. “Bisogna metterli al centro di una progettualità - ha continuato lo psicologo - attraverso le relazioni umane e la maturazione di un senso di responsabilità”. Tra i partecipanti in Senato è arrivato anche Adriano Sannino, killer della camorra, più di 30 anni di carcere e ora uno che porta in giro la sua esperienza. “All’inizio mi guardano un po’ così ma poi quando gli spiego che sono stato uno stronzo e poi come sono cambiato, qual è il punto preciso in cui sono cambiato, mi fanno un sacco di domande. Cerco di essere all’altezza di una grande responsabilità”. Cartabia: “Puntiamo a una pluralità di risposte alla criminalità” - Scopo dell’incontro è stata la richiesta avanzata alla ministra Cartabia “di un centro studi sulla devianza e di prevedere, già subito dopo la prima condanna definitiva, un progetto e un percorso di evoluzione per far sì che le persone detenute diventino cittadini pienamente partecipi della società che hanno offeso”. “Ci stiamo battendo per diversificare le pene, abbiamo fatto una riforma che punta molto su una pluralità di risposte al crimine e continueremo a farlo”, ha risposto la ministra della Giustizia dopo aver a lungo ascoltato le testimonianze. “Allo stesso tempo - ha proseguito - ci stiamo impegnando in queste settime per sviluppare attività di lavoro, riprendere la formazione e potenziare una vita dentro il carcere che non sia aspettare che passi il tempo”, ma “tutto questo, dal lavoro alla salute, dall’igiene ai colloqui, deve essere focalizzato verso un punto ineludibile che è il lavoro su sé stessi. Così si innesca la possibilità di cambiamento”. Cagliari. I router di Tiscali saranno rigenerati da dodici detenuti del carcere di Uta di Guido Garau cagliaripad.it, 3 giugno 2022 “Ci sono molte strade che portano all’inferno, per uscirne pochissime. E se all’inferno ci sei nato, quasi nessuna. Faremo di tutto per costruire una strada con questi dodici ragazzi”. Davide Rota è amministratore delegato di Tiscali Spa da poco più di due settimane (ha sostituito Renato Soru, il fondatore, che dell’azienda rimane presidente). Come primo gesto, dal grande valore simbolico, oltre che pratico, Rota ha voluto mettere la firma su una convenzione con il carcere di Uta: all’interno del carcere apre un laboratorio per la rigenerazione dei router Tiscali. Da lunedì 6 giugno “dodici ragazzi diventeranno nostri colleghi”, scrive Rota nella sua pagina Linkedin. Il laboratorio per il recupero e la messa a nuova dei vecchi modem in carcere permetterà a dodici detenuti di specializzarsi nel recupero dei vecchi modem (rotti o da buttare) e di trovare un lavoro in carcere, trasformandolo in un posto di lavoro. Perché quei dodici ragazzi verranno assunti. L’attività di rigenerazione di vecchi router e modem ha una grossa valenza economica oltre che sociale, soprattutto in tempi di carenza di materie prime (silicio e chips): è un’iniziativa sociale che si sposa perfettamente con il business. Ci sarà una fase di formazione a cui seguirà una mansione manuale di riparazione degli apparati elettronici che servono per collegare le reti domestiche a Internet. I modem dopo il recupero verranno rilanciati sul mercato. Torino. Il teatro in carcere con “Trolley” di Claudio Montagna quotidianopiemontese.it, 3 giugno 2022 “Trolley£ è la nuova rappresentazione teatrale, per la regia di Claudio Montagna, in programma il 6-7-8-9 giugno ore 21.00 presso il teatro della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Lo spettacolo è il risultato del laboratorio teatrale condotto a Torino dalla Compagnia Teatro e Società, con la Scuola sui Mestieri del Teatro nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra, come ricon?gurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” coordinato da ACRI e sostenuto a Torino e a Genova dalla Fondazione Compagnia di San Paolo. L’iniziativa, avviata a livello nazionale 4 anni fa col supporto di 11 fondazioni, vede il coinvolgimento, in 14 istituti di pena, di circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale sui mestieri del teatro. Il laboratorio, iniziato a settembre 2021, con il sostegno organizzativo e la collaborazione dell’IIS Giulio, dell’IPIA Plana - Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino e del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, ha coinvolto un gruppo di 30 detenuti del Padiglione A e del padiglione C che saranno in scena per la rappresentazione, insieme ad attori professionisti. Un gruppo del Padiglione B ha collaborato alle attività per l’allestimento, realizzando le scenografie sotto la guida delle maestranze del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale. Anche l’edizione 2021/2022 del laboratorio è stata possibile grazie alla collaborazione della Direzione e degli Agenti di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” e all’impegno profuso dall’IPIA Plana, dall’IIS Giulio, dal Teatro Stabile e dalla Fondazione Compagina di San Paolo che hanno permesso di superare le numerose difficoltà, in particolare dovute al protrarsi del periodo pandemico. Intenso il messaggio dal palco dove i protagonisti si trovano ad affrontare una brutale bufera che non lascia altro scampo se non il guardare con coraggio la realtà. L’acqua è inarrestabile. Sale, sempre più su, proprio sulla cima della montagna: ormai, un’isola nella distesa oceanica. Soli. Qualche asse per una piccola zattera, ma niente remi. Nello sconforto, che fare? Bendarsi gli occhi e aspettare? E rimpiangere, e tentare di consolarsi condividendo il bagaglio di rimpianti, ricordi e sogni? È inutile, Il bagaglio si svuota e la salvezza non arriva. Ma, se fosse alzare lo sguardo e affrontare con coraggio la visione del mare infinito che li circonda? Una sola possibilità ma utile, forse, per trovare una via d’uscita grazie alla risposta di ciascuno al momento di estrema difficoltà e al confronto con gli altri. Il percorso è complesso, almeno quanto la realtà carceraria con le sue profonde contraddizioni e con quel bisogno fortissimo di condividere con la città, eccezionalmente ospitata al suo interno. “Un incontro unico, di grande forza comunicativa, ancora più necessario in un periodo di distanze che rischiano di isolare maggiormente la realtà carceraria dalla città - come sottolinea il regista Claudio Montagna che da trent’anni conduce i laboratori presso la Casa Circondariale di Torino insieme a Teatro e Società - TROLLEY partendo dai pensieri e dalle emozioni dei detenuti restituisce centralità alla persona, in scena con i suoi dubbi e riflessioni sulla condizione umana, senza giudizi e differenze, almeno per il tempo di uno spettacolo”. Con TROLLEY, il regista Claudio Montagna e Teatro e Società riaffermano la concezione di teatro nel contesto carcerario come presidio e punto d’incontro tra il luogo di detenzione e la sua città. Un atto autentico di relazione attraverso il linguaggio speciale e poetico del teatro e che, proprio per il “contenitore” che lo ospita, si arricchisce di un significato più profondo. “25 giorni”. Storia di Nino Rizzo, incarcerato dai “buoni”, salvato dai “cattivi” di Antonio Coniglio Il Riformista, 3 giugno 2022 Nino Rizzo è stato in prigione 25 giorni. Da medico affermato a matricola n. 60731. Ha conosciuto il dolore e i buoni sentimenti. E il caffè zuccherato. Sul caffè, Eduardo De Filippo, scrisse un monologo. Capace di resuscitare finanche Lazzaro, di salvare una vita. Nino Rizzo da Catania, medico con la passione della scrittura, il caffè lo prendeva amaro. Non sappiamo se per un omaggio al gusto o per un ossequio deontologico alla glicemia. Lo assaporava amaro, il suo caffè, fino alla mattina in cui una gazzella dei carabinieri lo ha accompagnato in carcere, da presunto innocente, in custodia cautelare, ristretto con la matricola 60731. “Lo gradisce un caffè?”, chiosò un agente. Nino lo assaporò, anche se quel caffè, per la prima volta nella sua vita, era zuccherato. Lo gustò, in un momento di sopraffazione, quando l’esistenza ti sembra franare addosso, e basta poco per sentirti, foss’anche per un attimo, nuovamente uomo. La giustizia, nel nostro Paese, soffoca, strozza, annichilisce il senso di umanità, a guisa di una rete fitta, all’interno della quale qualsiasi movimento aggrava il dolore e toglie la speranza. Nino Rizzo, in carcere, è rimasto 25 giorni. Ha conosciuto il “Niceto”, il “Simeto piano terra” e il “Simeto primo piano”. Non sono corsi d’acqua ma le sezioni della casa circondariale di Piazza Lanza a Catania. Un fiume di dolore e buoni sentimenti che racconta nel suo “25 giorni”: uno scritto che è omaggio ai suoi fratelli detenuti. Gli stessi - nella vulgata i cattivi - che gli hanno invece salvato la vita. Con quegli uomini, privati della libertà, ha condiviso ansie, speranze, delusioni, aneliti di futuro. Uno di loro gli ha cucinato un piatto da chef stellato Michelin; un altro, in una barberia organizzata alla buona, gli ha tagliato i capelli, riconsegnandogli perfino uno scampolo di giovinezza. C’è stato pure chi ha aperto il suo cuore, irretendolo nella sua struggente storia d’amore. Con loro, ha guardato anche Le avventure di Pinocchio di Comencini e ha festeggiato un compleanno in cella: un abbraccio, uno scambio di auguri autentico e anticonvenzionale che ti fa comprendere le vertigini interiori della vita. In uno di quei tanti giorni, nei quali la televisione è sempre accesa. Per non pensare, non misurare il tempo. Il caffè, Nino, ha continuato a prenderlo zuccherato. Da quell’attimo in cui i compagni di cella “te lo offrono e non puoi non accettare”. Perché, in quella pozione magica, che inonda del suo aroma quattro mura, in quel fondo di un bicchiere di plastica, c’è tutta la solidarietà, la benignità, di un mondo che un sistema giustizia infermo e una opinione pubblica fuorviata concepisce come il terreno del male. Di “male” in quei venticinque giorni Rizzo ne ha conosciuto, ma è la “banalità del male” di uno Stato che, nel nome delle ragioni di Abete, diviene esso stesso Caino. È una questione che va oltre l’essere ristretti da colpevoli o da innocenti. Che senso ha consegnarti, appena entrato, un cuscino di gomma piuma giallastro, ridurre la vita di un uomo a un “modulo 392”, una domandina per chiedere ciò che è scontato, frustrando la tua anima quotidianamente in una condizione di inferiorità? Che senso ha una illuminazione opprimente e inquietante, costringere l’essere umano nell’angustia di qualche metro quadrato, cucinare laddove vai’ in bagno, limitare i contatti con i tuoi familiari? Che senso ha in fondo il carcere stesso, una struttura anacronistica, fuori dalla storia, che ti spezza il fiato? Nel quale ci si ammala e, per prendere sonno, non bastano calmanti e ansiolitici? “25 giorni”, il libro di Rizzo, diventa allora una denuncia sociale. Quello che è “un colletto bianco”, un medico affermato della società catanese, comprende ciò che un tempo non poteva immaginare. Lui è un “detenuto per caso” e scrive un diario, a futura memoria, per quei ragazzi ristretti che “gli hanno voluto bene più di quello che lui ha potuto dimostrare loro”. Quelli che dispongono di una “buca” che non può superare i 20 chili al mese e la cui esistenza è soffocata dal “sopravvitto” e dagli “spesini”. Quelli che fanno “una particella’ per far passare un tempo che ti schiaccia come un macigno. Che attendono con ansia una lettera scritta a mano, a lume di candela, e tengono ancora una foto in bianco e nero per ricordarsi chi sono, per non consegnare la loro vita alla terribilità di un numero di matricola. Nino Rizzo scrive per loro, per coloro che, quando è andato via, lo hanno applaudito. Per quel “caffè galeotto” che è il più buono di sempre. L’unico caffè amaro è quello dello Stato. Abbiamo creato un sistema - quello carcerario - che è un luogo concepito per infliggere strutturalmente dolore e sofferenza Un grande lazzaretto, nel quale - privati di significativi contatti umani - si perdono i sensi umani fondamentali, si diventa muti, sordi, ciechi, si consumano le proprie esistenze, da sepolti vivi. L’unico caffè amaro è quello dello Stato. Che, nel nome della giustizia del taglione, dimentica le ragioni dell’uomo. Quando il lavoro non dà più dignità di chiara Saraceno La Stampa, 3 giugno 2022 Nella Repubblica fondata sul lavoro non esiste solo una grande questione salariale che rischia di diventare esplosiva con tassi di inflazione che si mangiano fette sempre più ampie di salari già troppo modesti. C’è anche la questione che per troppe persone, specie se giovani di ambo i sessi o donne di ogni età, il lavoro non è fonte, per quanto non esclusiva, di identità, una modalità positiva di collocazione di sé nel mondo e nelle relazioni sociali, di riconoscimento del proprio valore. Al contrario è fonte di squalificazione sociale a motivo delle condizioni di lavoro, della precarietà e dei bassi salari. È una condizione che riguarda lavoratori a bassa qualifica, ma anche lavoratori ad elevata specialità. Riguarda i rider alla mercé degli algoritmi delle piattaforme, i camerieri stagionali e non, molti occupati nel settore della logistica, specie se lavorano per una ditta collocata nell’ultimo anello della catena dei subappalti, o i muratori in condizioni analoghe, le commesse dei supermercati costrette ad un part time involontario. Ma riguarda anche le infermiere o le assistenti sociali assunte con contratti temporanei e orari di lavoro pesantissimi, molti lavoratori e lavoratrici che lavorano dietro le quinte nel settore della comunicazione e dello spettacolo o della moda o delle belle arti - tutti settori in cui i contratti di lavoro sono spesso temporanei, o non ci sono affatto, sotto la finzione della prestazione occasionale o della libera professione e le remunerazioni spesso basse, quando non bassissime, comunque non in relazione né alla qualità della prestazione né al tempo di lavoro richiesto. Riguarda anche molti giornalisti, se non fanno parte delle generazioni più vecchie. La precarietà sembra diventata la condizione di lavoro più diffusa per chi è entrato negli ultimi anni nel mercato del lavoro. Anche gli ultimi dati sul mercato del lavoro segnalano come la grande maggioranza dei nuovi contratti di lavoro riguarda posizioni a tempo, spesso brevissimo. La temporaneità, per altro, non caratterizza sono il periodo di ingresso, ma si cronicizza nel tempo, diventando una condizione semi-permanente, per altro anche poco protetta dagli ammortizzatori sociali esistenti, come è emerso in modo chiaro durante la pandemia, quando si è dovuto in qualche modo provvedere a fornire un qualche aiuto a categorie di lavoratori e lavoratrici altrimenti prive di ogni rete di protezione. Precarietà e squalificazione sociale riducono l’orizzonte rispetto al quale progettare la propria vita, perciò anche la libertà. Non ci può essere né sviluppo né coesione sociale se non si riconosce dignità a chi lavora, tramite rapporti di lavoro non sfruttatori o ricattatori e con compensi adeguati. Considerare i lavoratori, specie se giovani o donne, come “usa e getta”, non degni né di riconoscimento né di investimento, non solo è ingiusto di un paese che si vuole democratico e civile. È anche suicida nel medio-lungo periodo, per le imprese che operano in questo modo e per la società tutta. La politica dei bassi salari e della precarietà ad oltranza non sembra sia servita a rendere più competitive le aziende che la perseguono, al contrario. Il declino demografico e l’emorragia di giovani qualificati che cercano riconoscimento all’estero sono la spia di una perdita di fiducia nelle possibilità offerte in questo paese a chi vorrebbe investire nel futuro e/o provare le proprie capacità. Procure europee unite: sei Paesi fanno fronte per trovare e giudicare tutti i crimini di guerra di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 giugno 2022 Già al lavoro gli inquirenti di Polonia, Lituania, Estonia, Slovacchia, Lettonia e Ucraina. “C’è il fronte di guerra, il fronte diplomatico e poi c’è quello giudiziario, le aule di tribunale per noi sono importanti come i droni e i missili che ci danno gli alleati occidentali”, spiega Iryna Venediktova, procuratrice generale dell’Ucraina, salutando l’entrata di Estonia, Slovacchia e Lettonia nella piattaforma di cooperazione giudiziaria messa in piedi da Eurojust allo scopo di individuare e giudicare i crimini di guerra in Ucraina. Sono sei i paesi dell’Unione europea attivamente coinvolti nell’inchiesta con l’avallo della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) dove gli eventuali imputati verranno mandati a processo. Altri paesi investigano separatamente e poi invieranno anch’essi le conclusioni alla Cpi. “Questa collaborazione è essenziale e dovrà andare oltre il conflitto in Ucraina, è un modello per costruire e difendere la pace nel mondo intero”, dice il procuratore capo della Cpi Karim Khan per il quale la pur terribile guerra può trasformarsi in un’occasione per rafforzare la cooperazione comunitaria. Eurojust, che ha chiesto a Bruxelles uno stanziamento di 16 milioni di euro supplementari per i prossimi cinque anni, potrà allo stesso tempo studiare le documentazioni provenienti dalle diverse procure nazionali (almeno una ventina coinvolte), in particolare foto e video, con alcune restrizioni, come ad esempio il divieto di utilizzare i software di riconoscimento facciale.Su questo punto fra dieci giorni verrà votato un emendamento ad hoc dal Consiglio europeo per sospendere temporaneamente il divieto. Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti i presunti crimini commessi in Ucraina dall’esercito russo, alcuni dei quali a dire il vero sono già ampiamente documentati come i massacri di civili a Bucha, con le testimonianze dei sopravvissuti e le centinaia di immagini raccolte. Più confusa la situazione di Mariupol capitolata dopo tre mesi di furiose battaglie a martellata dall’artiglieria di Mosca. Bisognerà far luce su tanti episodi, il più clamoroso è il bombardamento del teatro avvenuto nei primi giorni di invasione che inizialmente i russi hanno negato. Si dovranno stabilire le responsabilità individuali come impone ogni processo penale, individuare la catena di comando e distinguere tra esecutori e mandanti. Difficilmente però, come sperano gli ucraini, verranno portati alla sbarra Vladimir Putin e i suoi ministri, che godono di immunità diplomatica. Discorso diverso per gli alti ufficiali e lo stato maggiore dell’esercito russo, potenzialmente processabili. Anche se l’armata di Mosca, che ha invaso un paese sovrano, bombardato città e ucciso migliaia di civili è chiaramente l’aggressore e responsabile della gran parte delle esazioni, Kahn ci tiene a sottolineare che la Cpi non è un organismo politico e non fa il “tifo” per l’Ucraina, raccoglie semplicemente le denunce e agirà in modo del tutto imparziale, analizzando le denunce sui crimini commessi “da entrambe le parti”, perché “non firmiamo assegni in bianco a nessuno”. Insomma, la Cpi ci tiene a ribadire la sua indipendenza dagli alleati e le sue inchieste giudiziarie sui crimini di guerra non sono parte di quella “risposta globale” dell’Occidente a Vladimir Putin come aveva invece tuonato il vice premier britannico Dominic Raab. Nella guerra la violenza dei crimini contro l’infanzia ucraina di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 3 giugno 2022 Diritto Internazionale dei Minori. “Vittima” non è solo il bimbo ucciso, ma anche violato nella salute, nello studio e nella sua serenità. E c’è la nuova componente: il traffico di bambini. A Putin serve espandere l’area russofona e russofila in territorio ucraino ed i bambini orfani di guerra o orfani tout court rappresentano il mezzo migliore per farlo. La guerra tra Russia ed Ucraina sta producendo fenomeni mostruosi e per certi versi tragicamente nuovi. Se le guerre infatti, da sempre, hanno delle costanti che le caratterizzano molto di più di ogni definizione sul piano del diritto internazionale, questa ha generato una aberrazione in più. Ora, per inquadrare il problema, dobbiamo dire che le prime vittime di un conflitto sono sempre i bambini. Nel corso della storia recente, diciamo dalla Prima Guerra Mondiale ad oggi, abbiamo assistito ad un palese rovesciamento nei numeri tra vittime militari e civili. Mentre sino alla Grande Guerra le prime erano prevalenti, già con la Seconda Guerra quelle civili sono divenute preponderanti e tra queste i bambini hanno progressivamente guadagnato le prime posizioni, specie nei cosiddetti conflitti asimmetrici, secondo una ben nota categoria introdotta già negli anni ‘60 del secolo scorso da Carl Schmitt. Ora, per il Diritto Internazionale dei Minori, la definizione di vittima non riguarda soltanto i bambini uccisi o feriti direttamente ma anche tutto quel vastissimo campo di violazione dei loro diritti fondamentali, quali la salute, lo studio e, più in generale, quello di avere una infanzia serena. Tra le tante componenti che caratterizzano le guerre della modernità in rapporto alla violazione dei Diritti dell’Infanzia c’è il traffico di bambini. In ogni situazione bellica, infatti, si assiste oramai da molti anni, alla pratica sistematica del rapimento in massa di soggetti vulnerabili. Perché? Qui entra in gioco quella che Foucault chiama biopolitica, e cioè il gioco della plusvalenza che si può ottenere dallo sfruttamento diretto della “nuda vita”. Rapire un bambino è, infatti, un grande affare: l’investimento iniziale è pressoché nullo mentre il profitto che se ne ricava è altissimo. Un bambino sottratto alla famiglia, o che non ne ha mai avuta una, è estremamente condizionabile ed i suoi usi sono molteplici: si va dai bambini soldato impiegati in tutti i conflitti asimmetrici, all’espianto di organi, alla prostituzione, all’utilizzo come corrieri per la droga e via enumerando. Durante l’invasione dell’Iraq scomparirono migliaia di bambini dagli orfanotrofi, poi in minima parte ritrovati in varie parti del mondo come guerriglieri, o jokey per le corse clandestine dei cammelli nelle petromonarchie. Anche in situazioni per così dire normali, ci sono bambini costantemente minacciati di traffico: nella sola città di Mumbay ogni anno scompaiono più di centomila minori, spesso dalle strade in cui sono costretti a vivere per via dell’estrema povertà. Ecco allora che quanto sta succedendo nelle zone dell’Ucraina controllate dalla Russia non è certo un fatto nuovo, anche se i media lo enfatizzano a giusta ragione. L’ukaze con il quale il Presidente Putin ha decretato la russificazione dei bambini delle zone controllate dall’esercito russo per farli diventare sudditi fedeli della Federazione, non è che un altro esempio della stessa macchina infernale che inghiotte l’infanzia in tante situazioni simili. Putin ha bisogno di espandere l’area russofona e russofila in territorio ucraino ed i bambini orfani di guerra o orfani tout court rappresentano il mezzo migliore per farlo. Dal campo riceviamo testimonianze di insegnanti che sono stati costretti a disfarsi dei propri libri di testo perché la storia andava riscritta in senso filo-russo. Ma quello che più preoccupa è il salto di qualità di questa particolare situazione, che nasce in primis dalla corsia preferenziale che Putin ha dato alle adozioni dei bambini ucraini da parte di famiglie russofone. Il cuore del provvedimento, però, è il supposto giuramento che i minori dovrebbero compiere nei confronti della Russia o delle Repubbliche autonome da essa controllate. Ora, per il Diritto Internazionale dei Minori, la minore età non li renderebbe soggetti giuridicamente in grado di farlo. E qui si apre un precedente inquietante: non è, infatti, il bambino che rende valido il giuramento ma è questo che, per così dire, imprime una accelerazione drammatica alla sua entrata nell’età legale, rendendolo, per ciò stesso, atto, ad esempio, ad essere coscritto nell’esercito. Ed è allora proprio il neonato istituto giuridico, per ora unico nel panorama globale delle violazioni che abbiamo descritto, a rappresentate il vulnus più profondo ed inaccettabile della vicenda. Se, infatti, il Diritto all’Infanzia è quello principale al quale tutti gli altri si collegano come corollario, la sua manomissione attraverso l’introduzione di un dispositivo giuridico che, per così dire, sancisce legalmente un passaggio innaturale dall’infanzia all’età adulta, cancellando così per via legislativa il campo dell’infanzia, codifica una aberrazione sulla quale il Tribunale Internazionale dell’Aja dovrebbe agire per crimini contro l’infanzia. Algeria. Morire in carcere per dei post pubblicati su Facebook di Domenico Guarino luce.lanazione.it, 3 giugno 2022 Hakim Debbazi è deceduto dietro le sbarre a fine aprile per aver sostenuto sui social Hirak, un movimento pro-democrazia. Decine di ong chiedono al governo algerino il rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali. #PasUnCrime: è questo il nome della campagna digitale indirizzata ad attirare l’attenzione sul modo in cui le autorità in Algeria cercano sempre più di soffocare le voci dissenzienti e la società civile indipendente. La campagna è stata lanciata da 38 organizzazioni algerine, regionali e internazionali, e si è conclusa il 28 maggio, giorno dell’anniversario della morte del difensore dei diritti umani Kamel Eddine Fekhar, deceduto in carcere nel 2019, dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, intrapreso per protestare contro la sua detenzione dovuta al fatto di aver espresso opinioni critiche nei confronti del governo. Fekhar era stato accusato di aver minato la sicurezza dello Stato e di aver incitato all’odio razziale. La situazione in Algeria è particolarmente delicata. Secondo Zaki Hannache, attivista impegnato nella difesa dei diritti umani, dall’inizio del 2022, al 17 aprile, almeno 300 persone sono state arrestate per aver esercitato la libertà di espressione, di riunione pacifica o di associazione, anche se alcune sono state poi rilasciate. Secondo la Lega algerina per la difesa dei diritti umani (LADDH), queste cifre rappresentano solo una parte della realtà, poiché molti casi non vengono denunciati per paura di rappresaglie. Emblematico il caso Hakim Debbazi, morto in carcere il 24 aprile, dopo una custodia cautelare iniziata il 22 febbraio 2022, per aver pubblicato dei post su Facebook a sostegno di Hirak, un movimento pro-democrazia. La richiesta della campagna è quella di “porre fine alla repressione dei diritti umani, di rilasciare immediatamente e senza condizioni le persone detenute solo per l’esercizio pacifico dei loro diritti umani e di permettere a tutti di godere liberamente dei propri diritti. I sospettati di essere responsabili di gravi violazioni dei diritti umani devono essere portati davanti alla giustizia in processi equi e le autorità devono garantire alle vittime l’accesso alla giustizia e a rimedi efficaci”. “Gli arresti e le condanne di attivisti pacifici, sindacalisti indipendenti, giornalisti e difensori dei diritti umani sono continuati senza sosta, anche dopo la fine del movimento di protesta. Scioperi della fame sono ripetutamente organizzati da prigionieri per reati di opinione - ad esempio El Hadi Lassouli dal 3 maggio - principalmente per protestare contro la loro detenzione arbitraria” denunciano gli organizzatori della campagna. Che sottolineano come, dalla fine alle proteste pro-democrazia “Hirak” siano aumentati i procedimenti giudiziari basati su accuse infondate di terrorismo, siano stati adottati controversi emendamenti al Codice penale, siano state intraprese azioni legali contro le organizzazioni della società civile e i partiti politici di opposizione, e si sia intensificata la repressione contro i difensori dei diritti umani e i media, mentre le autorità continuano a ostacolare la registrazione e l’attività dei sindacati indipendenti. Anche la comunità internazionale, sia pure in maniera ancora flebile, sta facendo sentire la propria voce. L’8 marzo 2022, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet, nel suo aggiornamento al Consiglio per i diritti umani, ha espresso preoccupazione per “le crescenti restrizioni alle libertà fondamentali” in Algeria e ha invitato il governo a “cambiare rotta”. “I medici boia in Cina: organi espiantati a detenuti vivi” di Paolo Salom Corriere della Sera, 3 giugno 2022 Uno studio ha analizzato 3 mila documenti in lingua cinese redatti dagli stessi medici che effettuavano le “operazioni”, nei quali si spiega come gli organi venissero espiantati da detenuti condannati a morte che ancora respiravano autonomamente. La questione non è nuova per quanto raccapricciante. Quello che ora è emerso, tuttavia, getta un inedito sguardo su una realtà agghiacciante: per 35 anni, dal 1980 al 2015, la Cina ha permesso l’espianto di organi, da destinare ai trapianti, da detenuti condannati a morte - con o senza il loro assenso. E - rivela uno studio pubblicato originariamente sulla rivista scientifica American Journal of Transplantation, e firmato dal chirurgo israeliano Jacob Lavee con il ricercatore australiano Matthew Robertson (che ne hanno scritto anche sul Wall Street Journal) - molto spesso la procedura medica aveva inizio prima ancora che il condannato fosse “giustiziato” secondo la procedura prevista dalla legge cinese. In altre parole: “Erano i medici stessi a togliere la vita al detenuto con i loro bisturi”. Gli autori hanno condotto la loro ricerca su 3 mila documenti in lingua cinese redatti dagli stessi medici che effettuavano le “operazioni”: oltre 300 professionisti che hanno portato a termine il loro compito in 56 differenti ospedali della Repubblica Popolare. I particolari emersi sono al limite del tollerabile, con descrizioni degli interventi redatte in termini scientifici e tuttavia rivelatori. “Spesso - scrivono Lavee e Robertson - sono i chirurghi stessi a spiegare come il paziente fosse ancora vivo al momento dell’intervento, e che era il distacco del cuore pulsante il motivo dell’immediato decesso”. Questo perché, viene spiegato, dal dettagliato rapporto medico si evince che l’uomo o la donna sul lettino “respirava autonomamente” prima dell’incisione con il bisturi. Come è noto, il giuramento di Ippocrate è molto chiaro sul fatto che un medico non può causare un danno “volontario” sul paziente. Inoltre, l’etica sugli espianti di organi, così come riconosciuta internazionalmente (e sottoscritta anche dalla Cina), impone rigide regole prima di consentire la procedura: una di queste stabilisce che il paziente non deve essere in grado di respirare da solo ma deve essere collegato a un ventilatore meccanico. La Cina ha affermato di aver vietato queste pratiche dal 2015. Ma, sostengono gli autori, “è altamente probabile che questo genere di operazioni, considerate le statistiche e i brevi tempi di attesa per i trapianti nella Repubblica Popolare, siano in realtà continuate clandestinamente”. E che, soprattutto, si siano concentrate su un particolare tipo di prigionieri, i membri della setta Falun Gong e gli uiguri dello Xinjiang, minoranza che da anni denuncia i tentativi di “genocidio” nei suoi confronti. L’Oms, peraltro, ha chiuso da tempo la pratica contro la Cina: l’Organizzazione mondiale della sanità ha al contrario fatto propri i “suggerimenti” di Pechino per contrastare il traffico clandestino di organi e, concludono Lavee e Robertson, “ha attaccato le nostre ricerche” sull’argomento. Ora, prove alla mano, sarà più difficile.