Accordo Stato-Regioni per il reinserimento sociale dei detenuti di Gianmarco Catone La Discussione, 30 giugno 2022 L’obiettivo generale del Protocollo di Intesa firmato dalla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Massimiliano Fedriga, e dal Presidente Cassa delle Ammende, Gherardo Colombo, prevede la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali per il reinserimento nella società delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale. Nello specifico il protocollo prevede: l’istituzione di una struttura di supporto, presieduta dal segretario generale della Cassa delle Ammende Sonia Specchia che - in collaborazione con il Segretario Generale della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome Alessia Grillo e il coordinatore della Commissione Politiche Sociali Tilde Minasi (della stessa Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) - svolgerà una funzione di raccordo tra le diverse istituzioni coinvolte per agevolare e monitorare le operazioni di realizzazione sul territorio; una relazione annuale sullo stato di attuazione dell’Accordo del 28 aprile da consegnare alla cabina di Regia nazionale. “L’obiettivo di questo protocollo - ha commentato la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia - è dare effettività a ciò che la Costituzione chiede all’esecuzione della pena, per un ritorno a pieno titolo dei condannati nella ‘società dei liberi’. Esiste uno stretto legame tra un’efficace esecuzione della pena, che necessita di adeguate politiche sociale di inclusione, e la riduzione della recidiva, quindi la prevenzione di nuovi reati. Per raggiungere questo traguardo occorre un fecondo contesto di leale collaborazione tra istituzioni della giustizia ed enti locali. Questo protocollo di sicuro lo favorisce”. Per il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Massimiliano Fedriga, “La priorità è una programmazione condivisa degli interventi per realizzare un nuovo modello di giustizia di comunità al fine di promuovere la coesione sociale e incidere così positivamente sulla sicurezza della cittadinanza, implementando i servizi di giustizia riparativa e soprattutto di assistenza alle vittime di reato”. È dunque fondamentale, sotto questo profilo, il “coordinamento interistituzionale, in attuazione dei principi di leale collaborazione tra le articolazioni territoriali del Ministero della Giustizia e le Regioni”. Un percorso avviato già con l’Accordo Conferenza delle Regioni - Cassa delle Ammende del 26 luglio 2018, poi rinnovato nel dicembre 2021. Non a caso - ha sottolineato Fedriga - l’accordo da cui prende le mosse il protocollo firmato oggi prevede due pilastri su cui fondare e rafforzare la governance e la collaborazione territoriale. Il primo è l’istituzione presso ogni Regione di una Cabina di Regia territoriale che ha l’obiettivo assicurare il coordinamento degli interventi e degli investimenti in una logica unitaria di sistema, compiendo sul territorio le scelte più efficaci. Il secondo è dato dal monitoraggio nazionale indispensabile per la diffusione delle migliori pratiche”. Fedriga ha espresso poi apprezzamento per “Un metodo che va al di là di una visione rigida delle competenze e che andrebbe esteso a tutti i ministeri”. “Mi piace tanto questo navigare all’interno della Costituzione. Spesso - ha sottolineato il Presidente di Cassa delle Ammende, Gherardo Colombo - non riusciamo a fare mente locale perché siamo presi dalla necessità di attuare, ma in effetti stiamo toccando tante parti della Costituzione con questa iniziativa. Sono molto contento, il mio è un ringraziamento collettivo. Credo che faremo delle belle cose: la Cassa delle Ammende ci metterà tutto quello che può. È un progetto importante, non soltanto sotto il profilo del recupero delle persone, del reinserimento e dell’aiuto. Ma anche sotto il profilo dell’indicazione di un metodo”. Sovraffollamento nelle carceri, Antigone: “Non si rispetta la Costituzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2022 Alessandro Stomeo: “Il carcere non è un’isola separata dal mondo esterno, ma una comunità fatta di storie, relazioni, problemi che dobbiamo sempre più mettere in relazione con la città”. “Il carcere, dopo la pandemia, si è ripresentato con tutte le sue problematiche, aggravate dalla dura prova rappresentata dalla emergenza sanitaria. Le violenze subite dai detenuti ad opera di appartenenti alle forze dell’ordine, in relazione alle quali si stanno celebrando processi, da una parte, e il sovrumano impegno e lavoro dei direttori e del sottodimensionato personale di sicurezza e di assistenza ai detenuti, dall’altra, sono le due facce di un sistema malato incapace di garantire una pena in linea con il dettato Costituzionale”. Così Alessandro Stomeo di Antigone, in una nota, alla vigilia dell’iniziativa dal titolo “Il carcere visto da dentro” organizzata dal Comune di Lecce che si svolgerà domani sera nel capoluogo salentino per la presentazione del XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, redatto da Antigone. “La piaga del sovraffollamento, che nelle strutture detentive pugliesi si attesta, come media, al 135% insieme alla inadeguatezza delle strutture, alla carenza di personale di sostegno e di sicurezza, genera una pena detentiva inumana”, prosegue, “la reclusione si sostanzia, così, in un inutile e passivo stato di limitazione della libertà che aggrava, anziché risolvere, i problemi di socializzazione del reo allontanandolo ancor di più da un modello comportamentale accettabile”. “Il carcere non è un’isola separata dal mondo esterno, ma una comunità fatta di storie, relazioni, problemi che dobbiamo sempre più mettere in relazione con la città”, sottolinea l’assessora al Welfare del Comune di Lecce Silvia Miglietta, “la presentazione del rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, redatto dall’associazione Antigone, ci offre l’occasione per affrontare in un dibattito pubblico e aperto a tutta la cittadinanza i temi della vita carceraria, che non sono diversi da quelli dell’esterno: inclusione, diritti, cooperazione, rappresentanza, per garantire alla comunità e ai singoli la possibilità di una piena e reale riabilitazione”. Anastasìa: “La pandemia ha stravolto il sistema penitenziario” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2022 Una vasta panoramica sulla gestione della pandemia da parte del sistema penitenziario, sull’impatto che ha avuto dal punto vista sociale e sanitario, ma anche su quali siano le azioni da mettere in campo per migliorare la situazione nelle carceri. Lunedì scorso, in due ore di audizione da parte della commissione speciale per l’emergenza Covid 19 del Consiglio regionale del Lazio, presieduta da Paolo Ciani, sono emersi diversi spunti di riflessione. Il primo intervento è stato quello di Antonella Tarantino, in rappresentanza della direzione regionale Sanità, che ha sottolineato il grande lavoro fatto dai responsabili delle 8 Asl a cui fanno riferimento i 14 penitenziari esistenti nel Lazio e la collaborazione continua con le altre istituzioni. “Dal nostro punto di vista - ha spiegato Tarantino - il momento più complesso è stata la gestione della campagna vaccinale, che abbiamo voluto fare in contemporanea in tutti gli istituti e che ha riguardato 5.500 detenuti e 4.000 lavoratori”. Dopodiché è intervenuto il garante regionale Stefano Anastasìa, sottolineando che il sistema penitenziario va ridisegnato, ridando a ogni istituto la sua fisionomia trattamentale. Per il garante, il Covid ha stravolto il sistema penitenziario. “A Regina Coeli - ha osservato il garante - per fare un esempio, benché sia una casa circondariale, ci sono 400 detenuti con sentenza definitiva e non solo - come sarebbe previsto - quelli in attesa della convalida dell’arresto o del processo”. Ma non solo. Secondo il garante regionale bisogna tornare ad usare le strutture più adeguate. “Restano problemi strutturali - ha sottolineato Anastasìa - che la pandemia ha messo ancora più in evidenza: ogni stanza dovrebbe avere la sua doccia, non è così. Serve maggior coordinamento fra le strutture penitenziarie i servizi sociali territoriali. Bisogna usare i fondi del Pnrr per usare la telemedicina, uno strumento importantissimo per garantire la salute dei detenuti”. Audito anche il direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del Prap di Lazio, Abruzzo e Molise, Fabio Vanni, il quale ha ricordato le difficoltà logistiche, sorte nel corso della pandemia dalla necessità di sottoporre a isolamento sanitario tutti i nuovi arrivati che ha portato a una rivoluzione nella gestione delle carceri. “La necessità di sottoporre a isolamento sanitario per 15 giorni tutti i nuovi arrivati - ha osservato Vanni - ha portato a una rivoluzione nella gestione delle carceri, abbiamo dovuto spesso indirizzare i detenuti a istituti diversi da quelli deputati per territorio, anche al di fuori della Regione. Importantissima, visto il blocco dei colloqui, la possibilità di usare collegamenti telematici. Sono stati comprati centinaia di smartphone”. Il direttore del Prap ha aggiunto: “E il videocolloquio dovrà essere usato anche al di fuori della pandemia. In un’ottica di umanizzazione delle carceri, rappresenta una possibilità importante per entrare in contatti con i propri familiari, soprattutto per gli stranieri. Così come importante è stata l’attivazione della didattica a distanza. Stiamo lavorando per collegare gli istituti con la fibra”. Nel corso dell’audizione sono intervenute le consigliere Chiara Colosimo (FdI) e Bonafoni che hanno posto una serie di domande, in particolare sui supporti psicologici adottati nel periodo di isolamento sanitario, e sulla ripresa delle attività delle associazioni di volontariato. Anastasìa, Tarantino e Vanni si sono soffermati sul tema della tutela della salute mentale. A conclusione dei lavori, il presidente Ciani ha ricordato la mozione approvata dal Consiglio regionale nel novembre 2020, presentata dalla consigliera Bonafoni e dal consigliere Alessandro Capriccioli (Radicali Più Europa), volta a favorire le iniziative per favorire l’attuazione delle misure straordinarie in materia di esecuzione penitenziaria connesse all’attuale fase di emergenza sanitaria. Lo scopo di questa audizione è quello di “rompere l’isolamento delle carceri”, ha detto Ciani il quale ha voluto anche ringraziare tutto il personale, sia sanitario che dell’amministrazione penitenziaria che “in questi due anni ha lavorato in condizioni ancora più difficili”. Cosima Buccoliero, madrina di libertà di Marta Bonini Donna Moderna, 30 giugno 2022 Così l’ha chiamata un ex detenuto, ringraziandola. Perché questa donna ha rivoluzionato le carceri di cui è stata direttrice. Trasformandole da luoghi di segregazione in spazi di incontro. Per offrire davvero un’altra possibilità Spiegare cos’è il carcere: è cupo, come i corridoi dove si affacciano le celle. È difficile. Perché è un luogo che non ha appartenenza, che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione, lo fuggiamo per paura o per inadeguatezza. O semplicemente perché ci disorienta. Ma lei lo fa con naturalezza, quasi con dolcezza, come se stesse parlando di casa sua. E, in effetti, è un po’ come se lo fosse. Perché Cosima Buccoliero, 54 anni, di Sava, in provincia di Taranto, due figli, è dal 1997 che ci lavora. “Nonostante siano passati così tanti anni, a volte ho ancora l’incubo di entrarci da detenuta” racconta, mentre risponde alle continue richieste degli agenti carcerari. “Ci si deve far pace, alla reclusione non ci si abitua mai. E forse va bene così”. Donna forte, carismatica ma dall’animo dolce, che capisci subito che sa accogliere il dolore e i tormenti degli altri, si è laureata in Diritto penitenziario nel 1992 a Bologna (“Perché è il diritto meno arido, più umano, empatico” spiega), scalando poi le gerarchie. Fino a diventare a Milano direttrice delle carceri di Bollate e Opera, poi del minorile Beccaria, e da gennaio di quest’anno reggente del circondariale Lorusso e Cotugno a Torino. Una vita, la sua, dedicata a un sistema fatto di regole ferree e cancelli, ma anche di persone, storie, emozioni. Un luogo che in parte Cosima Buccoliero negli anni è riuscita a rivoluzionare, come racconta nel suo libro “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” (Einuadi). “Perché il carcere non deve essere segregazione. Queste porte devono aprirsi per far entrare energia. E, al momento giusto, per dare un’altra possibilità” dice, mentre saluta con la mano un ex detenuto che è venuto a trovarla e a ringraziarla di avergli dato quell’altra possibilità. Qual è il suo primo ricordo del carcere, quando è diventata vicedirettrice a Cagliari? “Il grande isolamento. La sensazione di chiusura, sia all’interno sia verso l’esterno. Man mano che percorrevo i corridoi delle celle, lo spazio diminuiva, come un cuneo. E poi l’odore. Un miscuglio di umanità, cibo, cucina, pavimento mal lavato, disinfettante che cerca di coprire gli altri odori. Un odore persistente, che ti porti a casa. Un sentore di sofferenza che ti impregna”. Ha definito Bollate, di cui è stata direttrice per 2 anni, dal 2018 al 2020, un carcere “trasparente”. Cosa intende? “Il carcere deve sconfinare, superare le mura, fare in modo di essere trasparente. Deve consentire da un lato alla comunità di entrare, di guardarci dentro, dall’altro ai detenuti di uscire: permettere, cioè, quella contaminazione che è fondamentale per il reinserimento delle persone nella società. Il carcere da luogo di isolamento deve diventare luogo di incontro”. Gli ultimi dati dicono che questo modello funziona... “Sì. Il tasso di recidiva delle persone che escono da Bollate è del 20% rispetto al 70% della media nazionale. Secondo me non servono più carceri né più carcere. Serve un nuovo modello di carcere”. Quale dovrebbe essere questo modello? “Un sistema carcerario efficiente non è quello che aumenta le sbarre, al contrario è quello che ipotizza una carcerazione senza sbarre, in cui i detenuti possono muoversi da una sezione all’altra liberamente: perché, se la carcerazione è recupero e non afflizione, queste sbarre non hanno più ragione d’esistere. È un carcere dinamico, che guardi fuori, che crei comunità, che si prenda cura delle relazioni. È per questo che io ogni giorno cerco di attraversare i corridoi in modo che i detenuti possano parlarmi, sentire che ci sono”. Un carcere così, però, a una prima impressione potrebbe sembrare meno sicuro... “Se non garantiamo i diritti di chi è in prigione, non garantiamo neanche i diritti di chi è fuori. Se il carcere è coercizione e violenza, questa violenza si ribalterà nella società, rendendola violenta e insicura. La qualità della carcerazione non è una concessione “buonista”, come spesso sento obiettare: “Perché devono avere il teatro? Perché devono avere la scuola? Ma se lo meritano?”. Qui non si tratta però di merito o demerito, si tratta di rispettare la Costituzione e la legge. E si tratta di farlo a garanzia di tutti”. Sono tante le donne che in Italia dirigono carceri. Un bel cambiamento... “È un cambiamento che per fortuna va avanti da 20 anni. Già quando feci io il concorso, alla fine degli anni ‘90, eravamo candidate più donne che uomini. E tra i dirigenti penitenziari ne entrarono moltissime. Sicuramente noi abbiamo una marcia in più perché ci mettiamo il cuore, il coinvolgimento emotivo, la cura e l’attenzione”. A proposito di donne, sono quelle che in carcere soffrono di più... “È come se tutto si sovvertisse: la nostra capacità di adattamento qui diventa incapacità di tollerare. È come se non accettassimo nulla della nuova condizione e, in questa situazione costante di rifiuto, ci avvolgesse un malessere ancora più grande. Anche perché spesso le donne sono profondamente sole. Perché la famiglia o si è sbriciolata con la loro carcerazione o le ha respinte. E se di questa famiglia loro sono state il centro, la perdita le annichilisce. L’unico aspetto positivo è che le detenute in Italia sono una percentuale bassissima: soltanto il 4%”. È un lavoro faticosissimo il suo, ma credo ricco di gratificazioni. La più bella? “Sono tante. Il ristorante gestito dai detenuti, il vivaio, l’asilo nido Biobab, aperto al personale interno e anche ai figli delle detenute, il magazzino della Sesta Opera dove i detenuti e le detenute hanno la possibilità di trovare capi di abbigliamento. Uno spazio utile, che rappresenta anche un’iniezione di vitalità perché permette di prendersi cura del proprio aspetto, di interrompere la ripetitività delle giornate, di mostrarsi diversi. Ma, soprattutto, i sorrisi degli ex detenuti quando mi incontrano per strada e i loro messaggi. Perché se si ricordano di me e, attraverso di me, del carcere, vuol dire che qualcosa di buono per loro lo abbiamo fatto”. Prima di salutarci mi legge uno di questi messaggi, che ha appena ricevuto e che, nonostante tutto, la commuove. È di Francesco e recita così: “Lei è la madrina della mia libertà”. I nuovi illeciti disciplinari introdotti dalla riforma Cartabia per arginare lo strapotere dei pm di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 30 giugno 2022 Ottenuti i voti favorevoli del Senato, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la tanto attesa, quanto dirompente, Riforma Cartabia. Una riforma da più parti attesa che si pone l’obiettivo tra gli altri - di riequilibrare i pesi delle Parti processuali. Come sostenuto proprio da taluni magistrati requirenti, il Pm è ormai diventato il baricentro del Sistema giudiziario. Per tentare di ovviare allo sbilanciamento, la riforma ha sensibilmente innovato la materia degli illeciti disciplinari, la quale, originariamente disciplinata dalla legge Mastella del 2006, non aveva trovato significative innovazioni al catalogo degli stessi, sino ad oggi. Quest’ultimi, infatti, a fronte di condotte, prassi e costumi della magistratura fino ad oggi non sanzionabili, sono stati di necessità applicati estensivamente dalla giurisprudenza delle sezioni disciplinari della Corte di Cassazione, le quali dovendo fare i conti con tale rumoroso vuoto normativo si sono prodigate nell’enunciazione di soluzioni disciplinari “innovative”. Da accogliere con favore, dunque, l’introduzione di nuovi illeciti disciplinari i quali oltre ad apportare immediate modifiche ordinamentali si propongono, più in profondità, di apportare un rinnovamento ed una “rigenerazione morale” alla cultura della giurisdizione. Tra le novità sanzionatorie, due sono quelle particolarmente dirompenti nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo - ambizioso e di medio/ lungo termine - di cui sopra: la sanzionabilità delle condotte relative alla violazione dei divieti riguardo ai rapporti tra organi requirenti e organi di informazione e quelle in materia di tutela della presunzione di non colpevolezza, baluardo dell’ordinamento repubblicano italiano. Si aggiungono, poi, tipizzazioni disciplinari in materia di attività clientelari per l’accesso a posizioni dirigenziali (favorite - oggi - dall’appartenenza ad una corrente piuttosto che ad un’altra ovvero dal rilievo/ gradimento mediatico di cui gode il singolo Pubblico ministero) e sulla produttività dei magistrati: in quest’ultimo caso, in particolare, il mancato rispetto delle misure relative alla funzionalità degli uffici e allo smaltimento dell’arretrato diverrà disciplinarmente rilevante. Una riflessione particolare merita l’introduzione di quegli illeciti disciplinari a tutela della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza, peraltro recentemente riaffermata proprio con il recepimento della direttiva Ue in materia di “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”. Si segnala che, a tutela della presunzione di innocenza, costituirà illecito “l’avere indotto l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave e inescusabile, elementi rilevanti”. Su questo lo scrivente aveva già avuto occasione di complimentarsi, nelle medesime pagine, con il collega avvocato Enrico Costa, tra i primi a battersi sul riconoscimento della presunzione di non colpevolezza. Con questi nuovi illeciti disciplinari la riforma Cartabia mira a sradicare tanto nei confronti dei Procuratori Capo quanto nei confronti dei singoli Pubblici ministeri l’eccessiva mediatizzazione e spettacolarizzazione delle attività e dei risultati d’indagine a nocumento, in primis, dei diritti delle persone sottoposte ad indagini, colpevolizzate, soprattutto con dichiarazioni disinvolte da parte dei titolari dei fascicoli, ancor prima di una sentenza definitiva di condanna (si pensi alla fase cautelare, ad esempio). Fino ad ora tale prassi era del tutto priva di sanzioni disciplinari: tanto il Procuratore Capo che diffondeva comunicati o convocava conferenze stampa senza specifiche ragioni di interesse pubblico quanto i singoli Pubblici Ministeri che rilasciavano dichiarazioni o fornivano notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’Ufficio non erano sanzionabili poiché, come detto in esordio, mancava un illecito tipizzato che sanzionasse tali condotte. Quest’ultime rilevavano principalmente sulle valutazioni di professionalità, altro tema cardine della Riforma, le quali tuttavia per come sin qui concepite non influenzavano minimamente la carriera del magistrato requirente, vanificando qualsiasi efficacia deterrente - ancorché minima - in capo alle stesse. Un radicale cambio di passo, non privo di scetticismi da parte di una certa corrente della magistratura (che ritiene minata l’indipendenza dell’autorità giudiziaria), è quello adottato dalla riforma Cartabia che confeziona uno specifico “illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni” per tutti quei magistrati (Pm o Procuratori Capo) che porranno in essere le condotte di cui sopra, un tempo concesse. Le sanzioni, in un’ottica di gradualità e proporzionalità, andranno dall’ammonimento alla censura e dalla perdita di anzianità sino alle forme più gravi della sospensione dalle funzioni e della radiazione. Si assisterà, dunque, a un ritorno della centralità della Procura Generale presso la Corte di Cassazione che, in quanto titolare sostanziale (l’unico titolare esclusivo è il ministro della Giustizia) dell’azione disciplinare sarà chiamata, anche se solo in sede di preliminare contestazione, ad esercitare un ruolo primario nella delimitazione del perimetro di operatività di questi nuovi illeciti disciplinari. Appare, quindi, apprezzabile l’intervento riformatore anche su queste tematiche, talvolta neglette nella dialettica tra le Parti ma di estrema centralità nella prospettiva di ristabilire l’equilibrio “processuale” perduto. Il futuro ci dirà se quanto introdotto con la Riforma darà i suoi frutti; certamente è un primo e chiaro segnale del rinnovamento interno - prima di tutto culturale - che il legislatore si aspetta dalla magistratura, specialmente quella requirente. *Avvocato, Direttore Ispeg Ehi, dottor Salvi, perché tanti omissis? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 30 giugno 2022 Il numero uno della magistratura italiana dà addio al suo ruolo con una lunga chiacchierata con il Corriere che fa arrabbiare molti. Pronta la querela per diffamazione di Palamara. Chissà quale spiritello maligno avrà consigliato al procuratore generale Giovanni Salvi, a pochi giorni dalla pensione, un’uscita di scena così tragica, così negativa, così masochistica. Un vero boomerang, l’intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del Corriere. Che gli frutterà un bel processo penale, dopo la querela per diffamazione già annunciata da Luca Palamara, e soprattutto un bel faro acceso sulla sua attività di magistrato e sulla sua carriera fino al vertice di numero uno di tutti i pubblici ministeri italiani. Un ruolo cui lui teneva parecchio, secondo quanto scritto nel libro “Il Sistema”, tanto da percorrere la strada usuale, quella di tutti: un incontro con il “burattinaio” che teneva i fili delle carriere, secondo spartizioni correntizie, cioè politiche. Era stato il “caso”, con qualche forzatura, verso la fine del 2019 e dopo l’esplosione dello scandalo Palamara e l’apertura di quel vaso di pandora da cui erano uscite tutte le porcherie di piccoli uomini e piccole donne impegnati più alla propria scalata sociale e professionale che non all’amministrazione della giustizia, a portare Giovanni Salvi sullo scranno più alto nella graduatoria dei pubblici ministeri. Perché parliamo di forzatura? Perché nell’operazione chirurgica che porterà all’estromissione velocissima di Palamara e pochi altri e all’amnistia generalizzata per tutti gli altri complici del “Sistema”, finirà ingiustamente nella polvere il procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, indagato dalla procura di Perugia per rivelazione di atti d’ufficio e poi prosciolto. Ma intanto il posto si era liberato, con le sue dimissioni. E qualcuno si era subito mosso. Su quell’incontro a tavola tra Giovanni Salvi e Luca Palamara, forse il procuratore generale avrebbe fatto meglio a sorvolare, perché ora rischia di ritrovarsi davanti a un tribunale penale in cui dover spiegare non solo le circostanze di un pranzo, ma forse tutti i passaggi della sua carriera, a Catania, alla Corte d’appello di Roma e poi al vertice dei pubblici ministeri. Ha fatto parte o no anche sui del sistema di spartizione correntizia, cioè politica? Non è una domanda peregrina, visto che quasi un centinaio di magistrati avevano chiesto le sue dimissioni. “Io mi posso guardare allo specchio ogni mattina, spero lo possa fare anche lui riguardo a quel pranzo”, dice oggi Palamara, parafrasando il famoso messaggio di Enzo Tortora ai suoi giudici, “io sono innocente, sperso si possa dire altrettanto di voi”. Resta il fatto che una vera denuncia per diffamazione nei confronti degli autori del libro “Il Sistema” il procuratore Salvi non l’ha presentata. Forse ha agito in sede civile, come fanno sempre i magistrati, magari con la procedura di mediazione, si stacca un assegno e la cosa finisce lì. E pare poco credibile quel che racconta al suo cronista di riferimento, sul quotidiano di riferimento, su un incontro tra i due per parlare di questioni di scorta. Chi ha pagato il conto, avrebbe potuto chiedergli Bianconi. Forse un giudice vorrà saperlo, quando sarà il momento. Chi era davvero interessato a quel pranzo? Lui dice oggi che “il vero disegno” di Palamara e Sallusti con il libro fosse “delegittimare l’intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche”. Nessuno glielo dice, ma la gente la pensa proprio così, strano che il dottor Salvi non se ne sia accorto, e nemmeno il Corriere della sera. Se ci sarà quel processo (Palamara ci conta, lui ha ancora fiducia nella magistratura), si potrà anche verificare se veramente il pg abbia esercitato, dopo la vicenda dell’hotel Champagne e la scoperta delle spartizioni correntizie dei posti di potere tra toghe, “29 azioni disciplinari”, “20 rinvii a giudizio” e “14 condanne” dei magistrati che intrallazzavano come piccoli social climber. O se invece, come però precisa lo stesso ex “burattinaio”, “la montagna ha partorito il topolino, e questa intervista mostra grande nervosismo perché non tutto è andato come lui desiderava quando ha fatto la famosa roboante conferenza stampa del 25 giugno del 2020”. Quella in cui Salvi aveva giurato che avrebbe usato la massima severità. E poi si è invece molto impegnato a tutelare se stesso e gli altri con le circolari che amnistiavano le “autoraccomandazioni”. Ponendo anche quella sorta di segreto di Stato sulle motivazioni che hanno costellato le archiviazioni. C’è un caso però in cui non si è guardato in faccia nessuno. Lo denuncia il direttivo della camera penale di Catanzaro, che interviene sulla vicenda di due magistrati calabresi, Pietro Scuteri e Giuseppe Perri, attualmente in servizio presso la sezione civile della Corte d’appello di Catanzaro. Nei loro confronti è aperta una pratica di trasferimento in quanto avevano accettato un invito a cena a casa dell’avvocato Giancarlo Pittelli, da due anni e mezzo privato della libertà in quanto imputato nel mega-processo voluto dal procuratore Nicola Gratteri, dal titolo “Rinascita Scott”. La cena si era svolta in epoca precedente al famoso blitz del 19 dicembre 2019, quando avvenne la retata che coinvolse centinaia di persone tra cui il noto penalista. Che cosa c’entrano i due giudici in tutto ciò? Nulla. Come potevano sapere che tempo dopo il loro ospite sarebbe stato incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa? Però la pratica di trasferimento era stata comunque avviata. Massima severità, giusto. E poi, ciliegina sulla torta, benché la prima commissione del Csm avesse proposto l’archiviazione, non rinvenendo nel comportamento dei due giudici nulla che giustificasse il provvedimento punitivo, nel plenum era accaduto quel che non succede spesso quando si tratta di pratiche di tipo correntizio, che vengono accantonate e “silenziate”. Era accaduto che, su suggerimento del membro laico Benedetti, il plenum abbia deciso il ritorno in commissione per un approfondimento. Ben altro ci sarebbe da approfondire, e nei confronti di altri magistrati, cari condel Csm! Come mai per esempio due famosi procuratori hanno potuto dire di aver smarrito o buttato via il cellulare che conteneva prove di una conversazione rilevante per le indagini? “Io non sono stato così fortunato da perdere il cellulare”, commenta Luca Palamara, pensando alle sue migliaia di chat che gli hanno rovinato la vita, alla fine. Comunque è paradossale che nel caso calabrese si debbano muovere gli avvocati a difendere i giudici. Succede anche questo, quando i colleghi sono in altre faccende affaccendati. Per esempio il procuratore Gratteri è troppo impegnato con le interviste contro la riforma Cartabia. Così ci pensano quelli con la toga sbagliata. “I dottori Perri e Scuteri- dicono i membri del direttivo della Camera penale di Catanzarosono sempre stati magistrati liberi da qualsivoglia forma di influenza, fedeli alla Repubblica e alla Costituzione, che hanno onorato la toga indossandola con grande equilibrio e autentico spirito di servizio. Mai, in alcun modo, essi hanno appannato, né ieri né oggi, la loro immagine di magistrati irreprensibili”. Chissà se al Csm avranno tempo di ascoltarli. E se il nuovo procuratore generale Salvato darà un’occhiata alla pratica nel suo primo giorno di lavoro, il 10 luglio. Il dottor Salvi è ormai proiettato sul proprio futuro, l’intervista al Corriere è solo il primo passo. La Francia nega l’estradizione degli ex terroristi italiani per motivi umanitari di Valentina Stella Il Dubbio, 30 giugno 2022 La decisione della Corte d’appello si basa sugli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Calabresi: “Non ha senso mettere Petrostefani in carcere, è anziano e malato”. La Corte d’Appello di Parigi ha respinto le richieste di estradizione per i dieci ex terroristi italiani di estrema sinistra rifugiati nel Paese e condannati oltralpe a pesanti pene detentive per attentati terroristici negli anni 70 e 80. Tutti loro erano stati arrestati nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse” nell’aprile 2021. La decisione della Chambre de l’Instruction della Corte si è basata sugli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il primo articolo fa riferimento al diritto ad un equo processo, in particolare al fatto che i processi a loro carico si siano tenuti in contumacia, il secondo al rispetto della vita privata e familiare. I dieci italiani al centro della richiesta di estradizione erano Enzo Calvitti (pena: 18 anni, 7 mesi), Giovanni Alimonti (11 anni, 6 mesi), Roberta Cappelli (ergastolo), Marina Petrella (ergastolo) Sergio Tornaghi (ergastolo), tutti delle Brigate Rosse, ma anche Giorgio Pietrostefani (14 anni, 2 mesi) di Lotta Continua, Narciso Manenti (ergastolo) dei Nuclei Armati per il Contropotere territoriale, Maurizio Di Marzio (5 anni e 9 mesi), Raffaele Ventura dell’ex Formazioni Comuniste Combattenti (20 anni), Luigi Bergamin (16 anni e 11 mesi) ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo. Ad ascoltare la decisione della Chambre de l’Instruction c’erano tutti loro, ad eccezione del più anziano, Giorgio Pietrostefani, 78 anni. Da tempo malato per le conseguenze di un trapianto è spesso in ospedale e in condizioni che non gli hanno consentito di essere presente alla altre udienze che lo riguardavano. Durante le udienze, che si sono svolte tra il 23 marzo e il 15 giugno, gli ex attivisti, oggi tra i 61 e 78 anni, che hanno accettato di parlare hanno raccontato ai magistrati la loro vita in Francia negli ultimi decenni. Jean-Louis Chalanset, avvocato di Enzo Calvitti, ha dichiarato che “è stata un pò una sorpresa per tutti perché ci si aspettava un altro rinvio. Ma siamo molto contenti, è una decisione normale - ha aggiunto. Francia e Italia avevano una volontà comune, hanno fatto un accordo politico sull’estradizione di queste persone, ma la giustizia oggi ha dimostrato di essere indipendente dalla linea politica del governo”, ha concluso Chalanset. Ora solo la procura francese, e non il nostro Paese, potrà fare ricorso contro la decisione. E ha solo cinque giorni di tempo. “Rispetto le decisioni della magistratura francese, che agisce in piena indipendenza - ha commentato la Ministra della Giustizia Marta Cartabia. Aspetto di conoscere le motivazioni di una sentenza che nega indistintamente tutte le estradizioni. Si tratta di una sentenza a lungo attesa dalle vittime e dall’intero Paese, che riguarda una pagina drammatica e tuttora dolorosa della nostra storia. Resta tutta l’importanza della decisione di un anno fa con cui il Ministro Eric Dupond-Moretti ha rimosso un pluridecennale blocco politico: un gesto, il suo, che è segno della piena comprensione dei drammi vissuti nel nostro Paese durante gli anni di piombo e soprattutto della fiducia del Governo francese nei confronti dei magistrati e delle istituzioni italiane”. La Guardasigilli nell’ambito della cooperazione giudiziaria bilaterale e europea lo scorso anno aveva avuto due colloqui con il suo omonimo francese Eric Dupond Moretti, durante i quali aveva chiesto espressamente che gli ex terroristi fossero assicurati alla giustizia prima che intervenisse una nuova prescrizione. La Francia ruppe con la dottrina Mitterrand - che prevedeva la concessione di asilo politico ai militanti che accettavano di abbandonare la lotta armata - e rispose positivamente alla richiesta dell’Italia. Soddisfazione per gli arresti che seguirono era stata poi espressa anche dal premier Mario Draghi. Le reazioni - Il primo a reagire è stato il leader della Lega Matteo Salvini: “Altro che “solidarietà europea”, proteggere terroristi che hanno ucciso in Italia è una vergogna, uno schifo!”. Poi il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani: “Negare l’estradizione da parte della Francia ad un gruppo di terroristi rossi è un atto gravissimo che non ha nulla a che vedere con il garantismo e la libertà di espressione sempre difesi da Parigi. Qui si tratta di partecipazione attiva ad un progetto criminale ed eversivo”. Delusione per Maurizio Campagna, fratello di Andrea, per il cui omicidio fu condannato per concorso morale (pena prescritta) Luigi Bergamin: “dicono che è cambiato, è un altro uomo, sta facendo un’altra vita, un altro percorso. Certo, lui ha avuto la possibilità di fare la bella vita per 40 anni, mentre mio fratello è 40 anni che è dentro una tomba. Ecco perché secondo me un assassinio non dovrebbe mai andare in prescrizione”. A noi Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, ha ribadito il concetto espresso pochi giorni fa nella sua Relazione al Parlamento: “Articoli 6 e 8 della Cedu. Due elementi che hanno guidato la decisione della Corte d’Appello francese. Due elementi che ovviamente vengono fuori nel momento in cui si intendeva intervenire dopo 40 anni e più. Di intervenire, nei confronti di persone da anni radicate in Francia senza commettere alcun reato e ormai diverse da allora, non con la ricerca di un modo che tenesse insieme il riconoscimento di quanto compiuto e la necessità di ricostruire - in forme da pensare, costruire - un legame in positivo verso collettività e vittime, bensì con lo strumento dell’estradizione. Tornare in carcere qui: per cosa? Il rischio sarebbe stato quello di una pena meramente retributiva, distante dalla finalità assegnata dalla Costituzione alle pene”. Ex terroristi, no all’estradizione: il governo Draghi spiazzato, ma l’Italia ha le mani legate di Liana Milella La Repubblica, 30 giugno 2022 La delusione della ministra della giustizia Cartabia per il rifiuto in blocco dell’istanza italiana, senza distinzioni tra le diverse storie. La telefonata della guardasigilli con il collega francese. Delusione sì, ma soprattutto “sorpresa”. Sono questi i sentimenti che prova Marta Cartabia quando, poco dopo le 14, la sua portavoce Raffaella Calandra le si avvicina nel pieno di una riunione in via Arenula e le mostra le agenzie appena giunte da Parigi. E la Guardasigilli è certamente delusa, ma soprattutto “sorpresa” per quella decisione che, indistintamente, riguarda nello stesso modo tutti i terroristi italiani, senza distinzione né di singole storie, né di singoli processi. Una valutazione in blocco, che ha il senso del pregiudizio e il sapore dell’impunità. Il pregiudizio nei confronti della giustizia italiana - E poi, alla prima “sorpresa” se ne aggiunge una seconda, quel riferimento che emerge subito agli articoli 6 e 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Il primo, sul “diritto a un processo equo”; il secondo, sul “diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Quasi che la magistratura francese conservi ancora, nei confronti dell’Italia, il pregiudizio dei processi ingiusti, perché in contumacia, che è andato avanti per 40 anni. Ed è come se i due fantasmi - che da quando è arrivata in via Arenula Cartabia ha cercato di scacciare tuffandosi nel dossier sui terroristi italiani in Francia - si materializzassero ancora integri. Il primo su un’Italia che non avrebbe garantito processi equi; il secondo sulla vita che, in questi anni di latitanza, gli ormai ex terroristi si sarebbero ricostruiti chiudendo con il passato. Ma nel nostro Paese hanno avuto un processo giusto - Ma proprio nei lunghi colloqui con i francesi su due punti Cartabia ha sempre insistito. Innanzitutto, i processi svolti in Italia hanno sempre rispettato le regole. E poi, citando un filosofo che ama, Paul Ricoeur, “occorre una parola di giustizia... un’altra storia inizia qui”. Una nuova storia e una nuova vita non possono prescindere da una parola di giustizia. Cioè dall’accertamento delle responsabilità. Perché, come la stessa Cartabia ha ripetuto tante volte parlando di giustizia riparativa, “l’obiettivo non è la vendetta, ma serve una parola di giustizia”. È la stessa posizione di Gemma e Mario Calabresi che Cartabia condivide, come ha detto più volte, e ancora a Milano il 17 maggio, nel piccolo teatro Gerolamo dietro piazza Fontana, nel giorno in cui ricorrevano i 50 anni dell’omicidio del commissario Luigi. I giuristi: Roma stavolta non può fare nulla - Delusione e sorpresa per la Guardasigilli, ma subito dopo l’interrogarsi su cosa potrebbe accadere adesso. E anche qui è in agguato una nuova frustrazione. Perché i giuristi di via Arenula danno subito a Cartabia un’altra cattiva notizia. L’Italia, stavolta, non può proprio fare più nulla. La procedura le lega le mani. E già martedì, tra soli cinque giorni, scadrà il termine dato alla Procura generale di Parigi - perché questa, e solo questa, può ricorrere contro la sentenza - per contestare la decisione presa dai giudici. L’Italia non potrà metterci bocca in alcun modo. Se la procura dovesse decidere di non presentare un ricorso, la partita francese stavolta sarà definitivamente chiusa. L’avverbio “indistintamente” - E quando si tratta, inevitabilmente, di tradurre in una nota ufficiale la sua reazione, Cartabia è sobria, ma ferma quando scrive: “Rispetto le decisioni della magistratura francese, che agisce in piena indipendenza. Aspetto di conoscere le motivazioni di una sentenza che nega indistintamente tutte le estradizioni”. In quell’avverbio - “indistintamente” - c’è tutta la sua sorpresa. Ma poi c’è anche la stima e la gratitudine per il suo omologo francese, il ministro Eric Dupond-Moretti, con cui Cartabia ha subito stretto un forte legame. Tant’è che anche adesso gli dà atto di “aver rimosso un pluridecennale blocco politico: un gesto, il suo, che è segno della piena comprensione dei drammi vissuti nel nostro Paese durante gli anni di piombo e soprattutto della fiducia del governo francese nei confronti dei magistrati e delle istituzioni italiane”. La frase rivelatrice di Dupond-Moretti - E Dupond-Moretti la chiama quando sono le otto di sera. Cartabia non ha dimenticato le sue parole quando, visitando la stazione di Bologna, un anno fa aveva detto: “Ma noi avremmo accettato che uno dei terroristi del Bataclan se ne fosse andato a vivere per quarant’anni, tranquillamente, in Italia?” Ex terroristi ed estradizione, una lunga storia di ingiustizia, ambiguità e ipocrisie politiche di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 30 giugno 2022 Sono due le motivazioni per le quali la Corte d’Appello francese ha emesso parere sfavorevole alla procedura di estradizione di una decina di ex terroristi rossi, sulla scorta degli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: il primo è il diritto di ogni imputato a “un equo processo”; il secondo il diritto “al rispetto della vita privata” dell’imputato. Dunque, l’Italia sarebbe un Paese che non garantisce un giusto processo ai suoi cittadini e non ne rispetta la vita privata. Detta così, la giustizia francese emette una sentenza di condanna durissima del nostro Paese, trattato alla stregua di una sorta di repubblica delle banane, nel migliore dei casi, o nel peggiore, di una nazione autocratica, dove i diritti civili sono calpestati da tribunali politici. Ammesso, e per nulla concesso che sia così, ci si chiede come due Paesi fondatori dell’Unione europea possano convivere in un organismo sovranazionale che dovrebbe avere regole comuni e principi giuridici e democratici condivisi. È una vicenda che si trascina da molti anni, da quando entrò in vigore quella che fu chiamata dottrina Mitterrand. Negli anni 80 il presidente francese François Mitterrand, sulla scorta delle idee del consigliere del governo Louis Joinet e con il via libera del primo ministro italiano Bettino Craxi (che si liberava di un problema), offrì ospitalità e rifugio a cittadini italiani che erano stati condannati per atti di violenza “politica”, a patto che non avessero più legami con la lotta armata. Le ragioni alla base della “dottrina” erano diversi. La prima è che è vero che nel periodo degli anni 70 l’Italia con la “legislazione d’emergenza” varò alcune leggi discutibili, che prolungarono all’infinito le custodie cautelari e attribuirono un ruolo eccessivo alla parola dei pentiti. La seconda è che la Francia ha vissuto in maniera molto limitata il fenomeno del terrorismo interno. Il contesto culturale politico, con lo schieramento esplicito di molti intellettuali della gauche, ha fatto sì che i francesi abbiano considerato il fenomeno italiano non come terrorismo contro uno Stato democratico, ma come una vera e propria guerra civile. Non si trattava, secondo gli intellò, di una parte minuscola del Paese che cercava di sovvertire le istituzioni ma di uno scontro tra due fazioni, entrambe in qualche modo legittimate. Si tenevano, dunque, due convinzioni, che si rafforzavano a vicenda. Quella di uno Stato poco democratico, con una giustizia ingiusta che usava metodi repressivi, e quella di una lotta che era sì condotta con metodi terroristici ma che aveva una sua giustificazione politica. A nulla valeva l’obiezione che l’Italia avesse un solidissimo impianto giudiziario, autonomo dalla politica (il che non esclude, naturalmente, che ci siano state condanne sbagliate e processi fondati su teoremi), e che il Partito comunista fosse rimasto sempre completamente estraneo e ostile al terrorismo. La dottrina Mitterrand, in realtà, non è mai stata formalizzata. Si componeva di una serie di dichiarazioni del presidente, talvolta contraddittorie, mai scritte. Nel 1985, su Le Monde Mitterrand diceva: “… si trovano in Francia un certo numero di italiani, circa trecento. Un centinaio son venuti qui da prima del 1981. Hanno rotto in modo evidente con il terrorismo. Essi hanno messo su casa, ci vivono, si sono sposati, hanno fatto famiglia. La maggior parte di loro ha chiesto di essere naturalizzati… se non saranno fornite prove di una loro partecipazione diretta a crimini di sangue, non saranno estradati. I casi per i quali sarà dimostrata la responsabilità in crimini di sangue o quelli che si sottrarranno alla sorveglianza, si procederà all’estradizione”. In sostanza, Mitterrand non trasformava la Francia in terra d’asilo per terroristi, ma chiedeva “prove di una loro partecipazione diretta a crimini di sangue”. Sta qui la contraddizione, e l’ambiguità, di una dottrina che si sostanziava in una sfiducia conclamata verso la democraticità dell’Italia. Dopo l’estradizione di Paolo Persichetti, nel 2003 il Consiglio di Stato francese, il più alto tribunale amministrativo del paese, dichiarò la dottrina Mitterrand priva di valore giuridico. Poi, un anno fa, il cambio di rotta decisa, con il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond-Moretti, che paragonava gli ex terroristi italiani arrestati in Francia ai jihadisti del massacro del Bataclan. Ma i giudici francesi hanno proseguito per la loro strada. E così è arrivato il no della Corte d’Appello. No all’estradizione di persone che hanno storie giudiziarie molto diverse. Tra loro c’è per esempio, Giorgio Pietrostefani, 78 anni, che non è un ex brigatista (qui il profilo di Aldo Cazzullo). È tra i fondatori del movimento Lotta Continua e deve scontare una pena residua di 14 anni e 2 mesi per essere stato ritenuto mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto a Milano il 17 maggio 1972. Ognuno ha storie giudiziarie e anche condizioni personali diverse. Sono tutti molto anziani, alcuni in condizioni di salute critiche. Caduta la dottrina Mitterrand, è rimasta un’inconciliabilità di fondo tra i due sistemi giudiziari. Molti dei processi italiani si sono svolti con gli imputati in contumacia (perché fuggiti), un istituto giuridico sconosciuto alla Francia, dove un accusato può essere condannato solo in sua presenza. Per anni i governi italiani hanno fatto finta di niente, e gli ex terroristi italiani si sono rifatti una vita. Il paradosso è che la Francia ha trattato con una durezza incredibile la sua esigua pattuglia di terroristi interni, di Action Directe, condannandoli all’ergastolo grazie a un pentito, e spesso con anni di isolamento. Non proprio un piedistallo dal quale impartire lezioni all’Italia. Utile anche ricordare la vicenda di Cesare Battisti, diventato una sorta di scrittore-divo a Parigi, coccolato dagli intellettuali locali. La ricostruzione dell’Huffington Post, riletta oggi, risulta ancora agghiacciante, anche alla luce della successiva confessione piena di Battisti: “Il primo segretario del partito socialista François Hollande andò alla Santé a portare la solidarietà all’illustre detenuto. Il sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoë, gli concesse la cittadinanza onoraria. Gli intellettuali si schierano in massa con Battisti, da Daniel Pennac a Fred Vargas e Bernard-Henri Lévy. Si dileggiava l’Italia governata da Berlusconi come il paese che al fondo rimaneva “fascista” nelle istituzioni e condannava in contumacia i militanti dei movimenti di opposizione di massa degli anni 70. Battisti ebbe la libertà provvisoria, ma a sorpresa i giudici in primo grado e poi in appello, concessero l’estradizione, il Consiglio di Stato confermò, il premier ministre Raffarin firmò. Sennonché poche ore prima di essere arrestato, Battisti scomparve per riapparire mesi dopo in Brasile, dove era arrivato grazie a due passaporti falsi che gli erano stati forniti - secondo la sua confessione - dai servizi francesi”. Scriveva un anno fa Cesare Martinetti: “Dopo cinquant’anni dai fatti, come nel caso di Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio Calabresi, dopo quaranta per gli altri, che uomini e donne sono quelli che torneranno in Italia? Se la giustizia deve fare il suo corso, tutta questa storia lascia l’impressione di una lunga ingiustizia costellata di viltà politiche, equivoci culturali e colpevoli ritardi”. Franco Corleone, radicale storico che è stato sottosegretario alla Giustizia con i ministri Flick, Diliberto e Fassino, dice alla Rassegna che la richiesta di estradizione “è stata un grave errore”: “L’Italia avrebbe dovuto chiudere quella partita immaginando una soluzione politica. Non era impossibile trovare una chiusura di quella vicenda storica, in un modo che al tempo stesso riconoscesse le condanne e le responsabilità ma che prefigurasse una via d’uscita. Quando ero in Parlamento io c’inventammo la legge sulla dissociazione. Oggi qualcosa si poteva trovare. Invece si è preferito insistere con la richiesta di estradizione, con il bel risultato di vedersi sancito nero su bianco un giudizio del nostro Paese e del nostro sistema giudiziario, che viene condannato non sulla base della dottrina Mitterrand, ormai inesistente, ma in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La Francia è sempre la Francia, vige la Dottrina Mitterand di David Romoli Il Riformista, 30 giugno 2022 Per chi ha dimenticato i metodi con cui fu condotta, sul piano del diritto, la lotta contro il terrorismo in Italia negli anni Settanta e Ottanta arriva la sveglia dalla patria di Voltaire Per chi non abbia conosciuto o abbia dimenticato i metodi con cui fu condotta, sul piano del diritto, la lotta contro il terrorismo in Italia, tra la fine degli anni 70 e gli 80, può sembrare una bizzarria incomprensibile la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, quella che ha garantito a molti imputati e condannati per reati di terrorismo di non essere estradati e il cui spirito è stato confermato dalla sentenza di ieri. Non trattandosi di una legge ma di una ispirazione mai formalizzata è impossibile fissare una data precisa per l’introduzione di quella “dottrina”. Di solito e quasi per convenzione si fa risalire la sua enunciazione a un discorso dell’allora presidente francese del primo febbraio 1985 a Rennes. Il presidente disse allora” Mi rifiuto di considerare a priori come terroristi attivi e pericolosi uomini che ono arrivati in particolare dall’Italia che sono.... fuori dai giochi”. Mitterrand assicurò però che la Francia avrebbe negato ogni protezione al terrorismo “attivo, reale, sanguinario”. La parola chiave era in tutta evidenza quel ripetuto “attivo”. La condizione posta dalla Francia per concedere l’asilo era la rinuncia alla lotta armata. Il concetto fu chiarito alcuni mesi, il 21 aprile, di fronte al congresso della Lega dei diritti umani. Mitterrand parlò chiaramente dei “rifugiati italiani che hanno preso parte ad azioni terroristiche prima del 1981” e che “hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese”. Questi, concludeva il presidente socialista, “ho detto al governo italiano che erano al sicuro da qualsiasi sanzione di estradizione”. Questa periodizzazione è in realtà arbitraria. Mitterrand si era mosso in questa direzione da subito, appena eletto nel 1981. Il suo primo ministro Pierre Mauroy tracciò subito una linea di demarcazione molto precisa tra “gli irriducibili” e “i normalizzabili”. L’anno successivo il ministro della Giustizia Robert badinter varò una riforma del diritto d’asilo che andava già decisamente nella direzione poi enunciata dal presidente. La Francia era considerata dagli ex terroristi italiani un rifugio da ben prima che Mitterrand ufficializzasse quell’indirizzo, del resto sulla base di un lavoro a cui si erano dedicati alcuni giuristi, tra cui il consigliere dell’Eliseo Louis Joinet e l’avvocato Jean-Pierre Mignard più numerosi avvocati, ufficiali di polizia e magistrati, su mandato del presidente. Come si spiega dunque questa disposizione apparentemente incomprensibile dei vertici dello Stato francese? Con i metodi adoperati dall’Italia che scelsero di considerare lo Stato di diritto un optional al quale si poteva momentaneamente rinunciare pur di vincere la battaglia contro le formazioni armate. Il reato associativo fu allargato a dismisura, l’abuso della carcerazione preventiva diventò la norma, la contumacia non costituì ostacolo di sorta nei processi. Rirodava alcuni anni fa l’avvocato Mignard: procedure”I fascicoli giudiziari che il gruppo di lavoro esaminava rivelavano lacune nelle procedure, impossibilità fattuali, contraddizioni evidenti e persino affermazioni ideologiche da parte dei giudici italiani. Tutto ciò era talmente insolito, mal fatto, frettolosamente arrangiato, che i dossier giunti dall’Italia non potevano far fede”. Mignard nega che Mitterrand abbia mai escluso dalla protezione francese i colpevoli di reati di sangue: “Non vi fu alcuna selezione in base ai crimini e ai reati commessi”. In materia Mitterrand, dovendosi tenere in equilibrio tra la sua dottrina e la necessità di mantenere buoni rapporti con l’Italia mantenne in realtà alcuni margii di ambiguità, resi peraltro possibili proprio dal fatto che la sua dottrina era un’indicazione e un’ispirazione mai tradotta in norme cogenti. Circa 300 italiani hanno trovato rifugio in Francia grazie alla decisione di Mitterrand ed è opportuno segnalare che in nessun caso il patto con la Francia è stato tradito. Nessuno ha mai usato la Francia come retrovia per proseguire nell’attività terrorista. Nei decenni successivi, però, su quella norma mai formalizzata è stato ingaggiato in Francia un braccio di ferro permanente che ha tenuto in sospeso decine di persone ormai lontanissime dalle scelte che avevano fatto decenni prima. Il primo scacco alla dottrina Mitterrand arrivò nel 2002, quando, sotto la presidenza di Jacques Chirac, fu estradato l’ex br Paolo Persichetti. Due anni dopo, nel 2004, fu decisa l’estradizione di Cesare Battisti, che riparò in Brasile. Nel 2007, presidente Nicolas Sarkozy, fu accolta la richiesta di estradizione per la ex br Marina Petrella, che però non diventò esecutiva perché al caso della ex terrorista, in quel momento gravemente depressa, si interessò la moglie italiana del presidente, Carla Bruni. Gli arresti del 21 aprile 2021 sembrava dovessero chiudere per sempre la vicenda. La sentenza di ieri, implicitamente, ha confermato invece che non c’è emergenza tale da rendere lecita la devastazione dello Sato di diritto. Perché in fondo la differenza tra l’Italia degli anni di piombo e la Francia di Mitterrand era proprio questa. Calabresi: “Negata l’estradizione di Pietrostefani? Portarlo in carcere ora non avrebbe senso” di Maria Teresa Indellicati Corriere di Romagna, 30 giugno 2022 “Da tempo sono convinto, insieme a mia madre e ai miei fratelli, che mettere oggi in carcere Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio di mio padre, non abbia più molto senso, perché è passato mezzo secolo e perché si tratta di una persona anziana e molto malata”. Così Mario Calabresi nel giorno in cui la Francia ha negato l’estradizione per l’ex militante di Lotta Continua, condannato in Italia come uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Calabresi, è notizia di oggi: la Corte d’appello francese ha negato l’estradizione per 10 ex terroristi, fra cui Giorgio Pietrostefani, condannato in Italia come uno dei mandanti dell’omicidio di suo padre... “Sono sereno: è da tempo che con mia madre e i miei fratelli siamo convinti che portare in carcere oggi Pietrostefani non abbia senso: dopo cinquant’anni il mondo è cambiato, lui è anziano e malato, e che vada in carcere in Italia non cambierebbe le nostre vite. Varrebbe molto di più invece la verità: chi si è macchiato di reati gravissimi, oggi dovrebbe avere il coraggio di fare luce su quanto è accaduto, ammettendo le proprie responsabilità e chiarendo le zone d’ombra”. Si tratta di una decisione politica? “Non lo penso. È notevole però che dopo la decisione di Macron e del suo ministro della Giustizia di rivedere l’estradizione, un atto simbolico importante, la scelta di oggi non tenga conto neppure delle differenze fra i vari accusati… È un passo indietro, che garantisce l’impunità a chi si è macchiato di reati di sangue, ed è una costante nel sistema giuridico francese, che tende a trovare una giustificazione e una copertura storica a degli assassini”. Voi vi occuperete di voci dalla guerra: oggi, la notizia che Svezia e Finlandia entreranno nella Nato... “È la scelta di due paesi vicini alla Russia che, dopo quanto successo all’Ucraina, voglio mettersi sotto l’ombrello della Nato perché pensano possa proteggerli. È molto triste: parliamo di stati infatti che avevano fatto della neutralità una bandiera, e sono costretti a mettersi in un’alleanza militare…”. L’incontro di oggi però non riguarderà la geopolitica... “Si tende molto a tracciare scenari, strategie, numeri. Noi invece parleremo della sofferenza delle popolazioni civili, dei milioni che hanno dovuto lasciare il proprio paese e vagano in Europa, oppure di quelli che entrano in un supermercato e vengono uccisi dai missili. Questo mi sconvolge, che ci sia una guerra in Europa alla stessa distanza da Milano a cui si trova Reggio Calabria, una guerra che ci riguarda, perché riguarda tante persone che vivono fra noi. Il nostro contributo è raccontarla: con Chora e Altre/Storie, declinando temi di attualità attraverso le vicende di esseri umani, penso alla “storia degli eventi” di Bloch, di Simon Schama, da cui rimasi folgorato all’Università. Non possiamo ragionare solo di Putin o Zelenski: con razionalità, senza lasciarci travolgere dal sentimento, è nostro dovere indagare le conseguenze dei grandi fatti storici sulle persone, sul loro passato e sul loro futuro. Per comprendere meglio anche la grande storia”. Campagna: “Troppo facile dire: sono vecchi. Il male che hanno fatto resta” di Massimo Pisa La Repubblica, 30 giugno 2022 Maurizio Campagna è nel direttivo dell’Associazione vittime del terrorismo: suo fratello Andrea, poliziotto, venne ucciso dai Pac di Cesare Battisti. Luigi Bergamin era un loro militante. “Ormai con la Francia ci siamo abituati”. Maurizio Campagna è nel direttivo dell’Associazione vittime del terrorismo: suo fratello Andrea, poliziotto, venne ucciso dai Pac di Cesare Battisti. Luigi Bergamin era un loro militante. Abitudine amara, signor Campagna? “Ci siamo passati con Battisti. È la loro interpretazione della dottrina Mitterrand. Che però, all’inizio, intendeva accogliere chi non aveva commesso reati di sangue. Questi, invece sono terroristi, e non venitemi a parlare di ex. Non esistono le ex vittime”. Cosa le dispiace, di questa decisione? “Spiace per il nostro stato di diritto. La Francia mette il naso nelle nostre sentenze. Evidentemente il Soccorso Rosso è ancora attivo, ci sono coperture politiche di alto livello, intellettuali, scrittori. Lo avevamo visto con Carla Bruni, con Saviano. Eppure...”. Eppure? “Con il terrorismo interno lo Stato francese è stato meno tenero: le pene le ha fatto scontare tutte, e chi è stato beccato a riparlare di terrorismo è stato buttato di nuovo dentro. Non capisco tutta questa clemenza con gli italiani”. Altri parenti delle vittime hanno detto di non desiderare più il carcere per fatti così lontani... “Ognuno se la vede con la sua coscienza ed è giusto così. Ma quando sento parlare di persone cambiate, di fatti ormai vecchi, mi arrabbio. Sennò tutti i delinquenti potrebbero trascorrere quarant’anni sulla spiaggia di Copacabana, tornare e dire: sono cambiato. Spiace che qualcuno di loro sia vecchio e malato. Ma il male che hanno fatto resta”. Mezzo secolo è passato davvero... “Dicono che c’era una guerra. Ma lo Stato non aveva dichiarato guerra a loro. Erano giovani, come mio fratello, ucciso solo perché era stato inquadrato cinque secondi in tv. Sapevano cosa facevano: erano killer seriali”. La Cassazione dà ragione a Contrada: ha diritto al risarcimento per ingiusta detenzione di Paolo Comi Il Riformista, 30 giugno 2022 “Devo constatare con grande amarezza che ci sono alcuni magistrati i quali non vogliono accettare la pronuncia della Cedu secondo cui la condanna nei confronti di Bruno Contrada deve essere cancellata”. A dirlo al Riformista è il difensore di Contrada, l’avvocato Stefano Giordano, commentando la decisione della Cassazione di accogliere la scorsa settimana il ricorso contro l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo di rigettare la domanda di ingiusta detenzione per l’ex dirigente della polizia di Stato e dei Servizi. “L’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli - prosegue Giordano - ha sempre criticato le decisioni della Cedu, parlando di ‘diritto straniero’. Vorrei ricordare che l’Italia fa parte del Consiglio d’Europa ed ha ratificato la Convenzione dei diritti dell’uomo, quindi è tenuta al rispetto delle pronunce di Strasburgo”. L’alto funzionario del Ministero dell’interno, novantuno anni il prossimo settembre, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta proprio dell’allora procuratore Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, ad iniziare da Gaspare Mutolo, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti scontati in regime detentivo, per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’. Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata in quanto il reato contestato di concorso esterno era il risultato di “un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni ‘80 del ‘900”, e quindi non previsto da disposizioni di legge. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso, poi respinto, alla Grande Chambre contro tale pronuncia. Contrada aveva allora presentato istanza di revoca del provvedimento di destituzione emesso nei suoi confronti a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure in quiescienza, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. Per il primo aspetto, l’allora capo della Polizia Franco Gabrielli aveva dato subito corso alla richiesta di Contrada, ricostruendogli la carriera da prefetto, per il secondo, la Corte d’appello di Palermo nel 2020 gli aveva riconosciuto un risarcimento di 667 mila euro. La pronuncia della Corte d’Appello veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano, allora retta da Roberto Scarpinato. La Cassazione annullava la decisione della Corte palermitana, affermando che non vi era “alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”, disponendo un nuovo giudizio in quanto se la sentenza di condanna ed i suoi effetti dovevano essere annullati, Contrada aveva comunque commesso le condotte contestate e quindi non aveva diritto ad alcun risarcimento. La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio lo scorso gennaio sposò tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia con cui aveva fissato il risarcimento a Contrada. “A questo punto aspettiamo le motivazioni della sentenza”, prosegue Giordano, soddisfatto per la decisione di Piazza Cavour. “Il risarcimento di Contrada - aggiunge - è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto”. Il ‘problema’ sarà ora la composizione del collegio che dovrà pronunciarsi. In questa interminabile staffetta, molti giudici hanno esaminato il fascicolo divenendo così incompatibili. “Mi auguro solo, vista l’età di Contrada ed il suo precario stato di salute, che una volta lette le motivazioni la Corte d’Appello fissi quanto prima l’udienza”, continua Giordano. “Dopo questa pronuncia, mi aspetto però altro fango nei confronti di Contrada visto l’avvicinarsi della ricorrenza della strage in cui perse la via Paolo Borsellino”, conclude Giordano. Contrada, accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio, era stato uno dei pochi ad accorgersi del depistaggio posto in essere dal falso pentito Vincenzo Scarantino. Sicilia. Lavorare dal carcere? Ce la fa uno su 3. E 70 detenuti si iscrivono all’università di Claudio Reale La Repubblica, 30 giugno 2022 In Sicilia solo 2.029 reclusi su 5.972 hanno un impiego, spesso a tempo. E appena 122 sono stati assunti da aziende esterne. Ma il tribunale di Palermo dà vita a un organismo per cercare una soluzione: ne fanno parte sindacati, imprese e magistrati. Ce la fa uno su tre. E neanche per tutto l’anno. Nelle carceri siciliane appena 2.029 detenuti su 5.972 hanno un lavoro: e dire che c’è una legge che offre incentivi fiscali alle aziende che accolgono dipendenti in regime di semilibertà. “Una volta - ha constatato ieri mattina la presidente di Nessuno tocchi Caino, la storica leader radicale Rita Bernardini - ho chiesto l’aumento delle risorse a disposizione di quella legge. Ho scoperto che i soldi ci sono, ma sono le aziende a non chiederlo”. Il tema è stato il primo sollevato dal “Viaggio della giustizia negli istituti palermitani” che il presidente del tribunale Antonio Balsamo ha inaugurato ieri all’Ucciardone alla presenza fra gli altri di Bernardini, del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, del direttore del carcere Fabio Prestopino, del Garante dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca, della presidente del tribunale di sorveglianza Luisa Leone e della Camera penale Fabio Ferrara. L’occasione è la nascita del Consiglio di aiuto sociale, un organismo previsto dal 1975 ma al momento attivo solo a Palermo, dov’ è stato appena istituito da Balsamo: in quella sede magistrati e parti sociali - da Alessandro Albanese di Confindustria a Patrizia Di Dio di Confcommercio, da Nadia Lodato di Legacoop a Laura Di Martino della Cgil, anch’ essi presenti all’iniziativa con Enrico Foglia di Bip Consulting - si confrontano sulle soluzioni da adottare per aumentare la percentuale di occupati. “Fra i detenuti che lavorano all’esterno - avvisa Ferrara - meno di un quinto torna a delinquere”. Il problema è che quel numero, in Sicilia, è esiguo: appena 122 persone impiegate all’esterno, mentre gli altri lavorano (per altro solo per una porzione dell’anno) in servizi interni. E infatti la percentuale di persone che tornano in cella è altissima: secondo i dati di Nessuno tocchi Caino quasi un carcerato su due è alla seconda esperienza dietro le sbarre, uno su tre c’è stato più di due volte e appena il sei per cento è alla prima detenzione. “Ma negli ultimi 9 anni - annota Renoldi, che ha portato un saluto della ministra della Giustizia Marta Cartabia - abbiamo aumentato la percentuale di lavoratori”. Così, adesso, imprese e sindacati ragionano sulle soluzioni da adottare per risolvere il problema. Perché l’obiettivo dell’organismo fatto nascere da Balsamo è consentire un rapporto più serrato fra carcere e mondo del lavoro: “Per noi - osserva ad esempio Albanese - la congiuntura economica è particolare. Le imprese hanno un grande bisogno di dipendenti. A noi non importa che siano o no detenuti: a noi importa che non siano lagnusi, fannulloni”. Un’opportunità può venire dall’esperimento che sta conducendo Lodato, che oltre a essere la rappresentante di LegaCoop è la portabandiera di un esempio virtuoso di lavoro nelle carceri, “Cotti in fragranza”: “Stiamo mettendo a punto - dice - una profilazione e un bilancio delle competenze per abbinare i lavoratori ai giusti impieghi”. “Poi - rilancia Di Dio - noi possiamo mettere a disposizione il microcredito per agevolare l’autoimprenditorialità al termine della detenzione”. La Cgil, invece, punta ad aprire nelle carceri sportelli per i diritti: “Offrirà informazioni sul mercato del lavoro e sui diritti e doveri dei lavoratori - spiega Di Martino - e in collaborazione con l’Inca, il patronato della Cgil, fornirà assistenza previdenziale e a sostegno del reddito. Sarà anche possibile stilare curriculum”. In questo quadro in chiaroscuro, però, c’è anche una buona notizia a tutto tondo: l’esordio dei corsi a distanza istituiti dalle università di Catania, Palermo e Messina per i detenuti fanno segnare un numero inatteso di iscrizioni, 71 in totale. Il picco riguarda la città etnea, con 46 immatricolazioni, seguita da Palermo (15) e Messina (10). “Nei prossimi mesi - assicurano dall’ufficio del Garante dei detenuti - saranno istituiti altri corsi anche alla Kore di Enna. È un grande risultato: raggiunge la metà della platea potenziale”. Per un percorso di rinascita che passa dal lavoro. Un diritto che al momento non è ancora garantito. Lombardia. Carceri tra sovraffollamento e giustizia riparativa, la Regione fa il punto varesenews.it, 30 giugno 2022 Sono 7.900 i detenuti nelle carceri lombarde a fronte di 6146 posti. Nel biennio 2020-2021 finanziati progetti per 17 milioni finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti. Sostegno alle fragilità (povertà economica e culturale, disabilità, precarietà abitativa e difficili condizioni familiari), interventi di assistenza per disturbi mentali, soprattutto nei giovani detenuti, misure di contenimento della pandemia da Covid 19 e continuità degli interventi educativi e psicosociali: tante le sfide del welfare penitenziario affrontate da Regione Lombardia nel biennio pandemico 2020-2021. Il panorama degli interventi e la verifica della loro efficacia sono contenuti nella Relazione sull’attuazione della legge regionale n. 25/2017 - ‘Disposizioni per la tutela delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria’ - approvata all’unanimità dalla Commissione consiliare Sanità, presieduta da Emanuele Monti (Lega). Oltre 17 milioni di euro in due anni (2020 e 2021), le risorse - fondi europei, statali e regionali - investite in Lombardia per progetti che hanno per obiettivo la realizzazione di una “giustizia riparativa”, finalizzata alla rieducazione e all’inclusione sociale, attraverso piani personalizzati di presa in carico integrata con il coinvolgimento di istituzioni pubbliche e associazioni del Terzo Settore. La Commissione ha anche accolto due osservazioni proposte da Antonella Forattini (PD), Presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria, sulla salute mentale e sulla necessità di maggiori fondi per i progetti di reinserimento dei detenuti. “Regione Lombardia ha impegnato in questi anni un considerevole pacchetto di risorse proprie e derivanti da trasferimenti nazionali ed europei per il finanziamento di percorsi di presa in carico delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, volti per lo più ad un’inclusione sociale e lavorativa della persona - ha spiegato la relatrice Selene Pravettoni (Lega). La Lombardia si pone all’avanguardia per quanto riguarda i percorsi di welfare penale con progetti che riguardano il sostegno alla vulnerabilità dell’individuo ma anche della famiglia, con particolare attenzione alla sfera relazionale. Molto importanti anche i progetti di giustizia riparativa, l’attivazione di campagne di screening, i percorsi di telemedicina e telerefertazione, che durante il Covid-19 si sono dimostrati particolarmente efficaci. Regione Lombardia si è dimostrata molto attenta anche alla disabilità:il 63% dei detenuti ha un’invalidità fisica, il 33% sia fisica che psichica, il 4% solo psichica e circa il 30% ha un’età tra i 56 e i 65 anni”. Sempre attuale il tema del sovraffollamento delle carceri “su cui - precisa Pravettoni - Regione non ha alcuna competenza e per questo chiediamo un intervento urgente dello Stato centrale per ripristinare condizioni dignitose per i detenuti e per chi vi lavora”. I progetti e i finanziamenti Anno 2020 - 32 progetti di accompagnamento all’inclusione socio lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, le cui attività sono terminate il 31.12.2020. Risorse stanziate complessivamente euro 6.400.000. Stanziamento di € 1.360.000/Cassa delle Ammende per 2 progetti regionali finalizzati alla realizzazione di interventi rivolti a persone in situazione di fragilità, le cui attività sono terminate il 28 febbraio 2022 Stanziamento di €1.000.000/ FSE 2014-2020, per la realizzazione di programmi di giustizia riparativa in n. 8 Comuni, le cui attività sono terminate il 31 marzo 2022. Anno 2021 - Stanziamento di € 7.278.046/FSE 2014-2020 e su Bilancio regionale per n. 35 progetti finalizzati alla realizzazione degli interventi di accompagnamento sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e loro famiglie, le cui attività terminano il 30 giugno 2022. stanziamento di € 1.190.998/Cassa delle Ammende e Bilancio regionale per 1 progetto regionale per la realizzazione di programmi di giustizia riparativa e di assistenza vittime di reato in n. 12 Comuni. Le attività termineranno il 1° dicembre 2023. stanziamento di € 352.000/fondo Ministero di Giustizia per il progetto regionale per la realizzazione di sportelli di assistenza alle vittime di reato. Tale stanziamento è complementare a quello precedentemente indicato ed è rivolto ai 12 Comuni già operanti. Le attività terminano il 1° dicembre 2022. Lavoro: Gli interventi promossi da Regione Lombardia a sostegno dell’inclusione sociale e lavorativa hanno coinvolto 8.283 persone, per lo più disoccupati o in cerca di occupazione. Sono 486 i e destinatari di interventi giustizia riparativa, mentre le persone con fragilità all’interno delle carceri che hanno partecipato a progetti di assistenza sono 8.125, 5 i Centri diurni attivi all’interno degli istituti penitenziari di Brescia, Milano-Opera, San Vittore, Pavia, Vigevano e presso il SerD di Pavia e Cascina Cuccagna per le donne. Casa: I percorsi di accoglienza abitativa hanno permesso l’inserimento di circa 800 persone di cui l’1% di genere femminile. Ulteriori 81 persone sono state inserite grazie alle risorse di Cassa delle ammende messe a disposizione dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Negli ultimi mesi del 2021, sono state assegnate a Regione Lombardia risorse complessive pari a euro 247.815,00 per l’anno 2021, per l’accoglienza di genitori detenuti con bambini presso casa famiglie / nuclei mamma bambino. Ad oggi le attività si svolgono una realtà, sita sul territorio milanese, che, in convenzione con il Comune e con Provveditorato stesso, provvede a tale accoglienza. Famiglia: Di particolare importanza, l’allargamento dell’esperienza di “Sistema Spazio Giallo in rete”, che a partire dall’esperienza milanese si è andato ad implementare in altri territori (Bergamo, Brescia, Lodi e Varese) per rispondere all’esigenza di cura dei legami attraverso sistemi di accoglienza, attenzione e cura delle relazioni familiari in detenzione. I nuclei familiari complessivamente intercettati sono n. 2315 di cui circa il 30% nel percorso con i minori/giovani adulti. Disabilità: Sostegno alla fragilità e disabilità ha riguardato circa 200 persone nel biennio di intervento. Di questi il 63% ha un’invalidità fisica, il 33% sia fisica che psichica e il 4% solo psichica. Il 31% di loro ha un’età tra i 46 e i 55 anni e il 30% tra i 56 e i 65 anni. Tossicodipendenza: In Lombardia, al 31 dicembre 2020, erano presenti 3.023 detenuti con problemi di tossicodipendenza di cui stranieri 1.248 (Fonte DAP 2020). Nel biennio 2020/2021 sono state 7.506 le persone prese in carico dai Servizi per le Dipendenze. Per far fronte alle loro richieste in 8 Istituti penitenziari di Regione Lombardia sono presenti equipe stabili che svolgono la loro attività esclusivamente a favore dei soggetti detenuti. Nel 2021 sono state erogate oltre 100.000 prestazioni con una media di 20 prestazioni/anno per ciascun detenuto. Prevalgono i colloqui psicosociali e visite mediche. Le somministrazioni di farmaci agonisti degli oppiacei sono state oltre 15.000, garantendo la continuità terapeutica ai soggetti che hanno fatto ingresso negli Istituti con una forma di astinenza da oppiacei Sovraffollamento: La situazione negli istituti lombardi al 1° febbraio 2022, la popolazione negli istituti penitenziari lombardi ha raggiunto la cifra di 7.906 persone, a fronte di una capienza di 6146 posti (occupazione al 128,64%), con punte di 186 a Brescia, 162 a Bergamo, 160 a Busto Arsizio e 157 nel femminile di San Vittore. Per quanto riguarda la situazione giudiziaria delle persone ristrette, oltre 2.300 devono scontare pene da 1 a 5 anni; 954 da 10 a 20 anni e 294 sono gli ergastoli. Considerando, invece, la durata della pena residua, 3.600 persone sono in attesa di conclusione per pene da 1 a 4 anni. I motivi della detenzione riguardano reati contro il patrimonio (4.544 detenuti), contro la persona (3.627), droga (2.366) reati contro la P.A. (1.305) e per infrazione della Legge armi (1.065). Giustizia riparativa: La Relazione è stata anche l’occasione per fare il punto sull’attuazione della giustizia riparativa. Secondo i dati dell’Ufficio Interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna (Uiepe), al 31.12.2021 sono oltre 18.600 i soggetti in carico, di cui oltre 5.600 affidate a Misure alternative (affidamento in prova al servizio sociale - 3.951; Detenzione domiciliare - 1.592 e semilibertà - 67). Sardegna. Caligaris (Sdr): “Il sistema penitenziario sardo è fuori legge” linkoristano.it, 30 giugno 2022 Una lettera indirizzata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per denunciare ancora una volta le carenze del sistema carcerario sardo, a partire dall’assenza di un provveditore, di direttori, vice-direttori e di funzionari giuridici pedagogici, fino ad arrivare ai disagi dei detenuti e allo “spopolamento” delle case di reclusione all’aperto. A scriverla è stata la socia fondatrice di Socialismo Diritti Riforme, Maria Grazia Caligaris, da anni impegnata con un grande lavoro di volontariato nell’opera di aiuto alla popolazione carceraria e agli operatori del settore. “Il sistema penitenziario sardo”, evidenzia l’esponente di Sdr, “non è utile alla società, non è in grado di svolgere il ruolo che la Costituzione, l’ordinamento penitenziario e la sua riforma gli hanno assegnato. In Sardegna non c’è un provveditore da sei mesi, ci sono tre direttori stabili per 10 istituti (altri due sono a scavalco, uno arriva da Busto Arsizio; l’altra da Rebibbia), non ci sono vice-direttori, i funzionari giuridici pedagogici sono insufficienti (38 su 54) e nella casa circondariale di Cagliari, con una media di reclusi (compresi una cinquantina di alta sicurezza) pari a circa 550/600, sono soltanto cinque. Del tutto inadeguato negli istituti il numero di agenti e comandanti, senza contare che gli amministrativi sono agli sgoccioli e un unico ragioniere deve curare diversi istituti”. La missiva è stata consegnata brevi manu all’esponente del Governo Draghi da don Ettore Cannavera, durante l’incontro nella comunità “La Collina” di Serdiana. “Devo sottolineare che i detenuti sardi sono 1.000”, prosegue ancora Caligaris, “gli altri 1.000 provengono dalla Penisola, compresi detenuti di alta sicurezza non solo a Cagliari ma anche a Tempio, a Oristano, a Sassari e a Badu ‘e Carros. A Bancali 93 ristretti con il regime di massima sicurezza e poco meno di una decina a Nuoro. In Sardegna c’è un patrimonio paesaggistico-ambientale-culturale dato in prestito al Ministero della Giustizia per le case di reclusione all’aperto di Isili, Mamone-Onanì e Is Arenas. Oltre 6.000 ettari che, in teoria, sono destinati a ospitare e dare lavoro a 600 persone, ma attualmente sono impiegati solo 230 detenuti, la maggioranza stranieri. Uno spreco. Qualunque azienda in queste condizioni avrebbe già fallito da molto tempo. Il Ministero deve porre fine a questo scempio altrimenti interloquire con gli amministratori locali e promuovere e sostenere cooperative sociali in grado di accogliere i detenuti e costruire con loro un futuro”. “Nelle nostre carceri”, ricorda l’esponente di Sdr, “ci sono una trentina di donne o poco più. Private di tutto. Per loro non c’è formazione, non c’è lavoro di qualità, non c’è un futuro che possa aiutarle a ritrovare una strada sicura. La loro vita è segnata dalla rassegnazione e dalla prospettiva di ritornare a ciò che conoscono meglio: sopravvivere. Gli istituti sardi traboccano di persone con gravi disturbi psichici. L’unica Rems con 16 posti non basta ed è sempre occupata da detenuti di altre regioni. Nella casa circondariale di Cagliari, per esempio, ci sono tre persone tra i 33 e i 50 anni, dichiarate incompatibili, costrette a restare dietro le sbarre perché non ci sono posti nella Rems e neppure una casa protetta. Non è accettabile”, conclude Caligaris, “trattenere malati psichiatrici e/o tossicodipendenti in un luogo che non può offrire interventi personalizzati. I volontari che conoscono questo sistema non hanno strumenti oltre alla parola, ma il più delle volte non può bastare e purtroppo gli atti di autolesionismo sono quotidiani e talvolta portano alla tragedia. Confidiamo nella sua determinazione a lasciare un segno significativo”. Como. 38enne si toglie la vita in carcere, era stato arrestato a fine aprile di Paola Pioppi Il Giorno, 30 giugno 2022 Si è impiccato in cella, ieri mattina, mettendo fine alla sua vita e a tre mesi tormentatissimi che lo avevano condotto in carcere. La vittima è un uomo di 38 anni di Cantù, che era finito al Bassone a fine aprile con l’accusa di tentato omicidio. Caratterialmente problematico, pare avesse dimostrato una evidente pericolosità sociale e aggressività, sfociata nel gesto estremo che ha messo fine alla sua esistenza. Nessuno si è accorto e ha fatto in tempo a intervenire ieri mattina, quando il trentottenne ha deciso di compiere quel gesto, scoperto dai compagni di sezione e dalla polizia penitenziaria quando ormai non c’era più niente da fare. Ora il magistrato di turno della Procura di Como, Giuseppe Rose, che era anche titolare del fascicolo per tentato omicidio per il quale era stato arrestato, deciderà quali eventuali ulteriori accertamenti disporre, ma sulla dinamica di quanto accaduto, pare che fin da subito non ci siano stati dubbi. Dopo il suo arresto, il suo avvocato aveva chiesto che venissero svolti approfondimenti clinici sulla salute psicofisica del suo assistito, anche in considerazione del gesto fortemente aggressivo che aveva commesso. Accertamenti che erano tuttora in corso. Nel frattempo sono state dichiarate fuori pericolo le condizioni di un nordafricano di 28 anni, finito all’ospedale Sant’Anna martedì, e mantenuto in coma farmacologico, dopo una rissa che pare sia avvenuta in sezione, durante l’ora d’aria. Proveniente dal carcere di Lecco e trasferito da pochi giorni, il ventottenne avrebbe avuto una discussione con altri due detenuti, finita a botte. Ma la ricostruzione successiva, sta anche cercando di capire se non abbia avuto un malore durante la lite e aggressione, e quindi se le sue gravi condizioni, ora decisamente migliorante, siano la conseguenza di una crisi di altra natura più che delle botte. Roma. Carcere di Regina Coeli, muore suicida un detenuto italiano tusciatimes.eu, 30 giugno 2022 Comunicato dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria. “Nella serata di ieri invano è stato il tentativo di rianimare un detenuto italiano, che ha deciso attraverso impiccagione il suicidio. Dispiace del tragico fatto, non ci è dato sapere le motivazioni e le sue condizioni psicologiche che lo hanno portato a questo gesto estremo. Elevato anche il dato dei soggetti ritenuti con problemi psichiatrici che sono anche in attesa di collocamento alle Rems - Residenza Esecuzione Misure di Sicurezza, che hanno sostituito dal 2014 gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”. Firenze. Afa, in arrivo i ventilatori per le celle di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 giugno 2022 Dopo la denuncia del cappellano del carcere. La direttrice: “I problemi? Sì, ma siamo al lavoro”. Ottanta ventilatori in arrivo a Sollicciano per dare sollievo ai detenuti e agli agenti penitenziari che stanno affrontando il caldo torrido all’interno del carcere fiorentino. Ad annunciarlo è la direttrice del penitenziario Antonella Tuoni: “Alcuni ventilatori sono già in dotazione dell’istituto, ma almeno ottanta sono quelli che già da giorni abbiamo ordinato e che dovrebbero arrivare a breve, grazie a un lavoro fatto di concerto con il garante dei detenuti e il servizio sanitario della Regione”. Inoltre, ha aggiunto Tuoni, “per migliorare il clima, nelle ore più calde della giornata restano aperti i blindi delle celle, affinché ci possa essere maggior circolazione dell’aria e più refrigerio”. Un tema, quello del caldo a Sollicciano (con temperature che arrivano anche a 40 gradi nelle celle) che era stato sollevato nei giorni scorsi nel corso di una conferenza stampa in Palazzo Vecchio, indetta dal cappellano don Vincenzo Russo, da Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze, assieme a Dmitrij Palagi di Sinistra Progetto Comune. “Non mi voglio nascondere dietro un dito e negare i problemi di Sollicciano - ha detto la direttrice proprio in riferimento all’incontro stampa - I problemi esistono, ma vorrei ridimensionare il grido di dolore espresso perché i problemi li stiamo affrontando uno ad uno, e quindi questo grido di dolore non cade nel vuoto”. La direttrice sottolinea anche i progetti virtuosi in corso a Sollicciano: “Esiste un network istituzionale tra Comune di Firenze, Comune di Scandicci, Consiglio regionale per migliorare il carcere: questa estate ospiteremo due spettacoli dell’estate scandiccese, c’è poi un progetto di ampio respiro di rigenerazione urbanistica, alcuni detenuti sono impegnati in lavori di pubblica utilità, alcune opere degli Uffizi saranno esposte nel penitenziario. E non è un progetto autoreferenziale come sostiene qualcuno. Insomma - ha precisato Tuoni - noi stiamo seminando, poi è naturale che ci voglia un po’ di tempo per veder germogliare tutti i progetti”. Tra questi, anche la ristrutturazione di alcuni reparti che “prevede l’eliminazione delle infiltrazioni” di acqua piovana dal tetto. Quanto alle condizioni igienico sanitarie e alla presenza delle cimici, come sollevato nella conferenza stampa da don Vincenzo Russo, la direttrice ha detto: “Purtroppo il problema di alcuni parassiti esiste, l’anno scorso abbiamo speso 50mila euro per le disinfestazioni, ma l’ambiente non è dei migliori e il problema non è di facile risoluzione”. In ogni caso, “nei giorni scorsi gli ispettori della Asl sono venuti a Sollicciano e hanno certificato che le condizioni igienico sanitarie sono migliorate”. Secondo Tuoni, infine, “alcuni detenuti non fanno molto per tenere le celle in condizioni igieniche decorose”. Verona. I 50 anni della “Comunità dei Giovani”. Don Pighi e la casa per quei ragazzi allo sbando Corriere di Verona, 30 giugno 2022 Cinquant’anni. Tutto cominciava nell’estate del 1972 in via Rigaste San Zeno. Lì, nelle sette stanze della soffitta di un edificio di proprietà dei Salesiani, don Sergio Pighi prendeva ad accogliere i giovani senza dimora della città. Nasceva così la “Comunità dei Giovani”. Quella comunità che domani sera alle 20.30 organizza un momento di riflessione in via Rigaste e domenica - alle 9.30, nella chiesa di Albarè a Costermano, in Località Villa - celebra una messa “in ricordo di don Sergio e di tutti i volontari saliti in cielo”. È morto nell’ottobre 2020, don Pighi, prete e insegnante salesiano, già per anni cappellano del carcere di Verona. Tra i suoi tanti gesti concreti a favore degli altri, specie gli emarginati, c’è anche la comunità terapeutica per tossicodipendenti aperta nel 1979, prima a Brentino Belluno e poi ad Albarè. Scrisse Don Luigi Ciotti a proposito di lui: “Ricordo la nascita della sua prima comunità d’accoglienza nel 1972, in una soffitta di Via Rigaste San Zeno, a Verona. Don Sergio è stato per me un punto di riferimento e di stimolo. Ho sempre trovato in lui la capacità di saldare terra e cielo, nell’impegno per l’uguaglianza, i diritti, la libertà e dignità umana”. Da Albarè, dove ha sede la comunità, ricordano oggi la genesi di tutto. Era appunto il 2 luglio 1972, in via Rigaste San Zeno alcuni locali erano usati come deposito da “un gruppo di ragazzi con alcuni adulti dell’Operazione Mato Grosso, che lavoravano sodo per raccogliere stracci, ferro vecchio e carta per realizzare una scuola per bambini figli di lebbrosi in Brasile”. Durante la messa, quel giorno, “una persona pregò per i ragazzi che dormivano sulle panchine della Stazione. La risposta corale fu: “Falli venire qui e ci adatteremo”. Dopo alcune ore si presentarono in due, il giorno dopo tornarono in sette”. Una sorta di pronto intervento, per giovani senza fissa dimora, che si trasformò in alloggio e diede inizio a una lunga storia di aiuti. “Nel 1979 nasce la Comunità Terapeutica Agricola di Pian di Festa, nel Comune di Brentino-Belluno, trovando posto in una casa abbandonata da più di quindici anni. Nel 1987 la Comunità si trasferisce nell’attuale sede ad Albarè di Costermano trasformandosi in seguito in Cooperativa. E ad Albarè ha sede anche l’Associazione di volontariato “Comunità dei Giovani - Oltre il confine”. A presiedere oggi la comunità è don Paolo Bolognani, sacerdote salesiano, figlio spirituale di don Pighi: sarà lui a celebrare la messa di domenica. Como. Guide Equestri Ambientali, due corsi di formazione nel carcere di Tino Nicolosi Il Mio Cavallo, 30 giugno 2022 Un progetto ambizioso voluto da Engea nel carcere di Como per formare figure professionali che abbiano vere possibilità di inserimento nel lavoro una volta scontata la pena. Il sistema penitenziario nazionale da molti anni si occupa del reinserimento dei detenuti nel mondo lavorativo e quindi nel tessuto sociale. Scontata la pena, molti cittadini italiani (e non più etichettabili come detenuti) hanno difficoltà a rientrare nell’ambiente lavorativo. Il Ministero della Giustizia da anni dà la possibilità di formare i detenuti mentre scontano la loro pena, professionalizzandoli per il futuro inserimento nel mondo del lavoro. Il Ministero a novembre 2021 ha assegnato all’ente Nazionale Guide Equestri Ambientali due corsi di formazione presso la casa circondariale di Como. Le figure da preparare sono: Il Tecnico di Mascalcia ed il Tecnico di Scuderia, due settori di punta dell’ente. Progetto vincente - Come Engea abbiamo organizzato uno staff di docenti di altissimo livello, alla loro prima esperienza in questo contesto ma certamente motivati. I cavalli, che con la loro innata e terapeutica presenza hanno subito colpito l’interesse dei corsisti, sono entrati nella casa circondariale di Como per la prima volta. Maniscalchi, Veterinari, Dirigenti fiscali e amministrativi, Circoli ippici e personale di segreteria hanno portato avanti il loto lavoro da dicembre 2021 a maggio 2022. Dalle dichiarazioni raccolte vi è stato entusiasmo e voglia di collaborare poiché per la prima volta i corsisti non si sono dovuti cimentare con solo manuali, libri, calcoli o mezzi meccanici, ma hanno studiato materie come etologia, benessere animale, anatomia equina e fatto pratica con dei cavalli veri, messi a loro disposizione e sotto la supervisione dei nostri dirigenti. Indipendentemente dalle diverse realtà, religioni, status sociale ed etnie dei partecipanti abbiamo assistito a un uguale approccio alle materie trattate, con interesse, passione e determinazione. Indipendentemente dall’istruzione pregressa dei partecipanti e in alcuni casi assente, le classi si sono applicate in egual misura. Ad alcuni dei partecipanti è stata data la possibilità di ottenere ore di praticantato nei circoli ippici. Titolo europeo - Il Plus di questi corsi erogati con Engea non è solo quello di dare un titolo associazionistico, bensì un titolo professionale in linea con il quadro delle qualifiche europee (EQF) e non solo valido a livello sportivo e per le attività ludico ricreative. Negli anni abbiamo sempre più migliorato e implementato tutti i percorsi formativi puntando soprattutto alle nuove esigenze dei circoli ippici e alle nuove metodologie di insegnamento sperimentale. Mettere al servizio questo enorme bagaglio getta le basi per promuovere in qualità le future professioni di tecnici di scuderie e tecnici di mascalcia e non solo gli Accompagnatori Equituristici, Istruttori e Guide Equestri Ambientali. La formazione specialistica erogata nelle case circondariali può dare veramente un’opportunità in più ai detenuti a fine pena, sia per la particolarità del settore sia per il benessere psicofisico che il cavallo procura. Vi salutiamo con le parole di Jacopo, docente di mascalcia del corso: “Siamo qui per insegnarvi un Mestiere!”. Milano. Detenuti attori raccontano “il tempo” di Marianna Vazzana Il Giorno, 30 giugno 2022 Spettacolo a Opera per il Municipio 5. Lavori socialmente utili e concerto con i violini prodotti in carcere. “Il dramma della caverna”. È il titolo della rappresentazione teatrale messa in scena ieri dai detenuti di alta sicurezza del carcere di Opera davanti a una platea composta dai consiglieri di Municipio 5, che per la prima volta nella storia hanno organizzato un consiglio all’interno dell’istituto penitenziario (“con ingresso affacciato sul nostro territorio”, fa sapere il presidente Natale Carapellese”), gli agenti e tutto lo staff che ogni giorno si occupa di questa macchina gigantesca, “che deve funzionare nell’ottica di dare un’opportunità a 1.400 detenuti”, spiega il direttore Silvio Di Gregorio. “Le persone rimangono da noi per 10, 15 anni in media. Un periodo lungo. Quindi il sostegno deve essere totale: il detenuto viene accolto e guidato in un percorso che è prima di tutto introspettivo, per arrivare a un cambiamento reale”. Ha apprezzato lo spettacolo, attraverso il quale i reclusi “hanno mostrato le dinamiche del carcere di aver compreso la differenza tra chronos, il tempo che si misura, e kairos, quello di qualità, del fare”. Quanto alla presenza del Municipio 5: “È stata preziosa. Ci aiuterà a trasformare ancora di più il carcere in un’opportunità, visto che grazie a questa collaborazione alcuni detenuti svolgeranno lavori socialmente utili sul territorio, in un’ottica di riparazione del danno”. “Vogliamo sostenere - commenta Carapellese - il reinserimento di queste persone, rafforzando le relazioni con la comunità. Il rapporto con il carcere c’era già (per esempio con lo stanziamento di fondi per borse di studio destinate ai figli dei dipendenti della struttura) ma vogliamo continuare. Organizzeremo anche un concerto, fuori dal carcere, in cui dei musicisti suoneranno i violini prodotti proprio dai detenuti, con il legno delle barche dei migranti approdati a Lampedusa”. Bolzano. “Fuori!” finisce “dentro”. Il teatro è per tutti, anche per i detenuti di Massimiliano Boschi altoadigeinnovazione.it, 30 giugno 2022 La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia un carcere, eppure viene evocato a gran voce come soluzione rapida e definitiva di numerose questioni al grido di “In galera e buttate la chiave!” Come ricordano gli autori di “Abolire il carcere - una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” (Chiarelettere): “Nei paesi europei più avanzati il ricorso al carcere è sempre meno utilizzato, solo il 24 per cento dei condannati finisce in carcere in Francia e in Inghilterra. In Italia l’82 per cento. Nel nostro paese chi ruba in un supermercato si trova detenuto accanto a chi ha commesso crimini efferati. Il carcere è per tutti, in teoria. Ma non serve a nessuno”. Basterebbe questo per apprezzare la decisione del Teatro Stabile di Bolzano di chiudere la rassegna estiva “Fuori!” all’interno della casa circondariale del capoluogo altoatesino. “Fuori” è quindi finito “dentro” e l’ha fatto portando con sé, giornaliste e giornalisti, attori e attrici, nonché il sindaco di Bolzano Renzo Caramaschi e l’assessora comunale alla cultura Chiara Rabini. L’incontro si è tenuto nella cappella del carcere il 29 giugno e ha visto protagonisti Marco Zoppello e Michele Mori di “Stivalaccio Teatro” insieme ai detenuti che hanno partecipato al laboratorio tenutosi nei giorni precedenti. Un lavoro più facile a dirsi che a farsi, perché la distanza tra chi è “dentro” e chi è “fuori” è davvero molto più ampia di quel che si crede, una profonda frattura che non divide i “buoni” dai “cattivi”, ma piuttosto le rispettive priorità, abilità e competenze. Perché quelle richieste ai detenuti sono assolutamente necessarie per la loro sopravvivenza e chi vive all’esterno difficilmente riesce a comprenderle senza un contatto diretto in grado di ribaltare pregiudizi e ingenuità. Tornando al teatro, per questa speciale occasione, due detenuti hanno indossato le classiche maschere della commedia dell’arte per interpretare due sfidanti del “Gioco della molletta” che si basa essenzialmente su una regola: vince il primo che l’acchiappa. Un detenuto ha quindi interpretato l’85enne Pepe, l’altro l’84enne Robertino, giardiniere in pensione. La sfida, che si è decisa al “meglio dei tre set”, ha visto trionfare il secondo, ma, chiaramente, l’atmosfera “giocosa” non è riuscita a nascondere la realtà del carcere, nonostante la partecipazione attiva e divertita del pubblico dei detenuti. A causa della pessima acustica dalla sala e delle maschere indossate, infatti, non si comprendeva una sola parola di quanto pronunciato dagli improvvisati attori che, solo ripetendo ad alta voce le loro battute, sono riusciti a farsi sentire dal pubblico. Perfetta rappresentazione della mancanza di ascolto che ricevono le persone “senza voce” a cui si tende l’orecchio solo quando decidono di mettersi a urlare. Di seguito, Marco Zoppello e Michele Mori hanno messo in scena alcuni apprezzatissimi estratti del loro “Don Chisciotte”. Prima di chiudere, non si può non sottolineare la straordinaria risposta del giardiniere Robertino a Michele Mori che gli chiedeva che fiore avrebbe voluto regalare al suo avversario: “Un fiore verde”. Non un girasole, non una primula, ma una pianta monocromatica come il mondo di chi sopravvive dentro una cella. Bologna. Il Teatro del Pratello va in scena nelle chiese con i detenuti Corriere di Bologna, 30 giugno 2022 Quattro atti per quattro chiese. È “La scandalosa gratuità del perdono”, spettacolo itinerante scritto e diretto da Paolo Billi che vede in scena il 4 luglio per la prima volta tutti i protagonisti con cui il regista bolognese lavora da oltre vent’anni: i ragazzi dell’Istituto Penale minorile di Bologna, quelli in carico all’Ufficio Servizio Sociale Minorenni e le detenute della Casa Circondariale di Bologna riunite nella Compagnia delle Sibilline, a cui si aggiunge un gruppo di cittadini. Il testo si ispira alla parabola del Figliol prodigo e “il perdono - spiega Billi - non è concesso perché richiesto, ma è un atto gratuito, per questo è scandaloso”. In collaborazione con la Curia di Bologna si parte dalla Basilica di San Francesco, poi la seconda stazione alla Basilica di Santo Stefano, prosegue alla Chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano e si conclude a Santa Maria della Vita (Ore 20. Replica ore 21. Info 333/1739550. Gratuito, prenotazioni su Eventbrite.it). “Questa iniziativa rappresenta una speranza su cui fondare i processi rieducativi” commenta la presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna, Gabriella Tomai. Rovigo. Due serate per sensibilizzate la cittadinanza sul mondo dei detenuti rovigo.news, 30 giugno 2022 “Il carcere in piazza”. Due serate, venerdì 1 luglio in piazza Annonaria alle 21 e sabato 2 luglio in piazza Vittorio Emanuele II a Rovigo alle 21, dedicate alla condizione carceraria organizzate dall’Associazione Voci per la Libertà. Sensibilizzare la cittadinanza sul carcere e su chi vive all’interno della casa circondariale, è l’obiettivo dell’iniziativa “Il carcere in piazza”. Due serate, venerdì 1 luglio in piazza Annonaria alle 21 e sabato 2 luglio in piazza Vittorio Emanuele II alle 21, dedicate alla condizione carceraria organizzate dall’Associazione Voci per la Libertà all’interno del progetto “Carcere e comunità locale”, finanziato da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con Comune di Rovigo, il Manto di Martino e il coinvolgimento del Coordinamento Volontari della Casa Circondariale di Rovigo. L’evento è stato presentato oggi a palazzo Nodari. Il progetto, come ha spiegato l’assessore al Welfare Mirella Zambello, rientra nella finalità di facilitare le attività all’interno e all’esterno del carcere per sostenere il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti che hanno scontato la loro pena. Il Garante dei detenuti, Guido Pietropoli, ha sottolineato che il carcere con più di 200 detenuti, rappresenta un quartiere delle città, che la città non conosce. Dopo la chiusura della vecchia casa circondariale di via Verdi e l’apertura della nuova struttura in periferia della città, è ancora più importante non lasciare le persone ristrette, più isolate e con il rischio di diventare invisibili, ma far sentire che la città libera non si dimentica di quella reclusa. “Il Carcere in piazza”, realizzato per la prima volta nel 2007, è un evento dedicato a chi vive la difficile condizione di recluso, con lo sguardo rivolto non solo alla Casa Circondariale di Rovigo, ma dedicata a tutte le persone recluse e alle loro storie. E la volontà, come ha aggiunto Livio Ferrari di Voci per la libertà, è proprio di creare un ponte tra la città reclusa e la città libera. Un processo di coinvolgimento, favorito anche da Caritas che attraverso il suo braccio operativo, come ha spiegato Alessandro Sovera, Il Manto di Martino, ha accolto subito l’iniziativa. I dettagli delle due serate sono stati illustrati da Michele Lionello di Voci per la libertà. Dopo i due concerti realizzatisi all’interno del carcere di Rovigo martedì 21 giugno in occasione della giornata europea della musica con tre artisti del festival Elisa Erin Bonomo, Chiara Patronella e Michele Mud, ecco gli eventi aperti al pubblico volti a sensibilizzare la popolazione sulla condizione carceraria. Venerdì 1 luglio in Piazza Annonaria alle 21 la proiezione del documentario “Caine - Voci di donne dal carcere”, con la presenza della giornalista e autrice del documentario Amalia De Simone e una delle protagoniste, la cantautrice Assia Fiorillo. Il film documentario racconta la vita nelle carceri e conduce, attraverso le storie e le testimonianze, alla scrittura a più mani di una canzone condivisa. Amalia De Simone e Assia Fiorillo per mesi, hanno frequentato i penitenziari femminili di Fuorni - Salerno e Pozzuoli e hanno proposto un esperimento: la condivisione di storie e di ore di vita carceraria e la costruzione di una canzone scritta da tante mani che diventa il racconto autentico di una città controversa e appassionata, Napoli. Durante la serata la presentazione del progetto “Carcere e comunità locale” con la presenza delle autorità e delle associazioni convolte nella progettualità. Sabato 2 luglio sempre alle 21 ma in Piazza Vittorio Emanuele “Il carcere in Piazza - Voci per la Libertà in tour” con il concerto di Assia Fiorillo, vincitrice a Voci per la Libertà del premio “Il migliore per noi” nel 2020 e Tonino Carotone Unplugged Experience; un artista internazionale da sempre vicino ai temi del carcere per un concerto unico in una versione più intima, certo, ma non per questo meno energetica o sincera di se stesso, che egli ha pensato e studiato affinché richiamasse sonorità e tradizioni della sua terra. A condurre la serata Carmen Formenton di Voci per la Libertà, le letture di Alessio Papa del Tetro del Lemming e gli interventi di Mirella Zambello, assessore alla cultura del comune di Rovigo, Michele Lionello Direttore artistico di Voci per la Libertà, Rossella Magosso responsabile del Coordinamento dei Volontari della Casa Circondariale di Rovigo e Guido Pietropoli garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo. Assia Fiorillo nasce nel dicembre del 1985 a Napoli. Da sempre circondata dalla musica, all’età di 14 anni comincia studiare canto e frequenta un corso per cantautori dove compone i suoi primi brani. Dopo la laurea in psicologia, Assia decide di frequentare il conservatorio conseguendo a pieni voti la laurea specialistica in Musica Jazz. Collabora come interprete a diversi progetti inediti di musica jazz, cantautorale e non solo (Tra gli altri l’impegno con il collettivo Terroni Uniti e le Mujeres Creando, di cui è frontwoman). Con all’attivo 5 dischi incisi come interprete e coautrice, a gennaio 2022 pubblica il suo album Assia, un disco di dieci brani inediti di cui è autrice. Uno dei brani che anticipa il disco, uscito a luglio 2020, Io Sono Te, è la colonna sonora del documentario Caine di Amalia De Simone, andato in onda su Rai Tre e ora disponibile su Rai Play. I due singoli che hanno anticipato l’uscita del disco hanno ottenuto diversi riconoscimenti: Il Premio Gianmaria Testa, Il premio Acep/Unemia al Pierangelo Bertoli e il premio Il migliore per noi del concorso Voci per La Libertà di Amnesty International per “Io sono te” ed il secondo posto al Premio Lunezia per “Qualcosa è andato storto”. Antonio De La Cuesta in arte Tonino Carotone è un artista internazionale già di culto. Nasce a Burgos (Castiglia e León) e cresce in un sobborgo di Pamplona ascoltando la Radio e guardando la Tv. È da sempre innamorato della musica italiana. Si ispira a Fred Buscaglione da cui prende il look mentre a Renato Carosone per lo pseudonimo, con quest’ultimo ha l’onore di incidere una indimenticabile versione di “Tu vuò fa l’americano”. Arriva in Italia per la prima volta nel 1995 ma raggiunge il successo del grande pubblico solo nel 2000 con l’album “Mondo difficile” che diventa subito Disco d’Oro. Negli anni ha collaborato con Manu Chao, Eugene Hùtz (Gogol Bordello), Erriquez (Bandabardò), Pietra Montecorvino, Locomondo, Arpioni, Zibba, Vallanzaska, Piotta, Pietra Montecorvino, Roy Paci, Africa Unite e molti altri. Da sempre sensibile alle problematiche dei diritti umani e civili è stato uno dei primi renitenti alla leva nei Paesi Baschi, subendone purtroppo tutte le conseguenze anche penali. Nell’ottobre del 2018 a lui ed agli altri renitenti alla leva militare viene intitolato nel Parque de la Insumisión (“Parco dell’insubordinazione”), a Pamplona, il primo monumento al mondo che ricorda i non caduti in guerra, ma che hanno lottato per un ideale comune, la pace. Ius scholae e cannabis, alla Camera è subito scontro di Carlo Lania Il Manifesto, 30 giugno 2022 Lega e FdI attaccano i ddl. Salvini: “La sinistra vuol far saltare il governo”. Divisi sul territorio, Lega e Fratelli d’Italia si ricompattano alla Camera pur di fermare la riforma della cittadinanza e il disegno di legge sulla cannabis. I due provvedimenti sono arrivati ieri nell’aula di Montecitorio dopo il via libera delle commissioni e hanno avuto l’effetto di accendere subito lo scontro. Al punto che Matteo Salvini non si risparmia e arriva a parlare di “volgare provocazione che mette a rischio la maggioranza”, mentre Giorgia Meloni chiede che entrambi i ddl vengano cancellati dal calendario dei lavori. Ad agitarsi di più però sono i leghisti. Mentre l’aula si appresta nel pomeriggio ad avviare la discussione sul ddl Magi che legalizza la coltivazione in casa di quattro piantine di cannabis per uso personale, viene indetta una riunione straordinaria dei deputati del Carroccio alla quale partecipa lo stesso Salvini. Riunione il cui clima viene descritto come “molto teso” e nella quale parlamentari “furiosi” parlano di “inammissibile forzatura” da parte di Pd e M5s su ius scholae e cannabis. Non è mancato neanche chi, a proposito della riforma della cittadinanza, avrebbe affermato che “la metà dei reati commessi da minorenni sono in capo a immigrati”. “Così non si può andare avanti - si sfoga con i cronisti il capogruppo Riccardo Molinari - per noi sarebbe difficile spiegare ai cittadini che ci occupiamo di questo invece che dei rincari dei carburanti”. Anche i deputati di Forza Italia si riuniscono nel pomeriggio. La posizione del partito di Berlusconi è però più articolata. In commissione Affari costituzionali le due deputate presenti hanno votato in maniera opposta: mentre Renata Polverini ha sempre sostenuto il testo base messo a punto dal presidente Giuseppe Brescia, giunti martedì sera al dunque la collega Annamaria Calabria ha votato contro. Una divisione che attraversa Fi e che potrebbe farsi più evidente già da questa mattina con l’avvio della discussione in aula. Tutt’altro che rivoluzionaria, la riforma che introduce lo ius scholae prevede la possibilità per gli oltre 800 mila ragazzi nati in Italia da genitori stranieri o arrivati nel nostro Paese prima di ave compiuto 12 anni, di ottenere la cittadinanza italiana una volta terminato “positivamente” un ciclo scolastico di cinque anni, oppure al termine di corso professionale (un decreto del ministero del lavoro fisserà i criteri necessari). Ma anche la possibilità che a richiedere cittadinanza per il figlio minore sia uno solo dei genitori e non più entrambi come previsto in precedenza. Cancellato anche l’obbligo della residenza “ininterrotta” nel nostro paese. Norme che potrebbero tranquillamente essere considerate di buon senso, ma viste invece come fumo negli occhi da Lega e Fratelli d’Italia e che rischiano di aprire una crepa in Forza Italia. Con Antonio Tajani che prova a mediare: “Noi siamo favorevoli al principio dello ius scholae, ma chiediamo che ci siano regole chiare per concedere la cittadinanza italiana a chi non è italiano”, spiega il coordinatore del partito. “Quindi cinque anni più tre di scuola con certificazione oppure una qualificazione professionale di primo livello certificata”. Facile prevedere dal centrodestra una valanga di emendamenti per bloccare o quantomeno modificare il testo arrivato in aula. Sulla carta i numeri per approvare almeno lo ius scholae così com’è ci sarebbero. A favore della legge sono infatti Pd, Leu, M5S, Italia Viva, Autonomie con un’apertura anche da parte di Italia al Centro del governatore della Liguria Giovanni Toti. Sorprese non dovrebbero arrivare neanche da parte dei 51 deputati di Insieme per il futuro del ministro degli esteri Luigi Di Maio, anche se dal gruppo fanno sapere di doverne ancora discutere. I demaiani presenti in commissione Affari costituzionali si sono comunque espressi a favore della legge. “Mi sembra evidente la volontà della sinistra di far saltare il governo”, torna ad avvertire in serata Matteo Salvini. Al leader della Lega replica la capogruppo del Pd alla Camera Simona Malpezzi: “Moltissimi ragazzi aspettano una legge di civiltà che riconosca il loro diritto alla cittadinanza. Il parlamento deve dare una risposta a una richiesta ampiamente diffusa nella società che, anche in questo caso, è più avanti del legislatore”. Identica la posizione del relatore della legge, il grillino Giuseppe Brescia: “A me pare che la legge non tolga nulla a nessuno, a me pare anzi che si aggiunga qualcosa, qualcosa di importante alla nostra comunità”. Vite sospese, storie di ragazzi costretti a crescere senza la cittadinanza italiana di Flavia Amabile La Stampa, 30 giugno 2022 La corsa a ostacoli quotidiana: “Viviamo come clandestini, ora il Parlamento deve aiutarci”. Quattro storie di giovani costretti a crescere in Italia senza la cittadinanza italiana. Pamela, 18 anni - “Sfuggita alla mafia di El Salvador, sono una rifugiata e mi sento italiana”. Studia lingue all’istituto Giulio Natta e durante le vacanze estive fa la babysitter e la cameriera. “Sono in quarta, ho perso un anno perché quando sono arrivata in Italia ho dovuto prima imparare la lingua”. Ha 18 anni, è originaria di El Salvador, appartiene alla cosiddetta “seconda generazione” e non ha ancora la cittadinanza italiana. Si chiama Pamela Lisseth Espinal Avila. Un nome lungo come la sua storia. “Sono arrivata a Milano con i corridoi umanitari dieci anni fa” spiega. “I miei genitori erano perseguitati dalla mafia locale perché non volevano pagare il pizzo. Sono fuggiti per proteggere me e i miei fratelli”. Pamela comincia così la sua vita in Italia da rifugiata, sui banchi delle elementari. Crescendo scopre Milano: l’aperitivo all’Arco della Pace, le Colonne, il Parco Vetra, i giri in Duomo, lo shopping in via Torino. “Ho anche imparato il dialetto, ogni tanto mi esce l’accento”. Poi si fa seria: “Mi sento italiana, ma non lo sono nello Stato in cui vivo, studio e lavoro”. Le gite scolastiche, per esempio, sono un problema. “Fare esperienze all’estero è fondamentale se fai un linguistico, ma le mie sono un incubo. Una volta, di rientro da Parigi, mi hanno fermata chiedendomi il permesso di soggiorno e controllando che tutto fosse in regola. Mi sono sentita una clandestina”. E poi c’è la questione del voto: “Non posso esprimere la mia opinione. Faccio parte di un collettivo politico, ma quando partecipo a una manifestazione ho paura ad alzare troppo la voce perché eventuali denunce potrebbero pesare sulla mia richiesta di cittadinanza”. Con lo Ius Scholae, spiega, migliaia di giovani la avrebbero senza fare l’iter che sta affrontando lei: “Vivere in Italia per noi è come guardare film senza abbonamento Premium. Hai l’essenziale, ma non la libertà di scelta”. Omit, 28 anni - “Ho sofferto molto per la cittadinanza. Non ho viaggiato né lavorato all’estero”. Quando Omit Abdulrazak, due settimane fa, ha giurato sulla Costituzione di rispettare le leggi della Repubblica italiana, ha tirato un grande sospiro di sollievo: “Finalmente ho quello che mi spetta, da troppo tempo”, è stato il primo pensiero. Poi ha ricordato, con una punta di rabbia, tutte le porte chiuse che ha trovato sulla sua strada e le esperienze a cui ha dovuto rinunciare per la mancanza del passaporto italiano, lui che nel nostro Paese è cresciuto da quando ha 5 anni. Oggi ne ha 28 e riflette sull’assurdità di alcune leggi: “Se lo Ius Scholae fosse stato in vigore, avrei realizzato il mio sogno di un’esperienza di studio negli Stati Uniti o un viaggio a Istanbul. Quei desideri mi sono stati negati”, racconta. Nel 2001 è arrivato dall’Iraq con il padre, la madre e sei fratelli in un paese in provincia di Matera. In Basilicata ha frequentato elementari, medie e superiori, prima di trasferirsi per l’università a Torino, dove oggi lavora come sviluppatore informatico. Il suo documento di rifugiato politico lo ha fatto vivere come un cittadino di serie B: “Negli anni dell’università non ho potuto viaggiare fuori dall’area Schengen e la burocrazia infinita mi ha impedito di accettare offerte di lavoro in Olanda, Francia e Belgio”. A scuola e in paese i suoi amici erano convinti che avesse già la cittadinanza italiana: “Guardando agli altri Paesi europei ho sempre provato grande frustrazione - ricorda -. Mio fratello è andato a Stoccolma e dopo cinque anni era cittadino svedese”. Da noi, invece, il decreto Salvini gli ha messo i bastoni tra le ruote: “Lui e Meloni fanno politica sulla nostra pelle, ma sono convinto che in cuor loro sanno che ci stanno negando diritti che spettano a tutti”. Ottenuta la cittadinanza, ha subito richiesto il passaporto: “Finalmente potrò vedere Londra, un sogno di quando ero un bambino”. Great, 17 anni - “La maglia azzurra è ancora un miraggio, mi piacerebbe rappresentare l’Italia”. L’azzurro è un miraggio per Great Nnachi. Nata a Torino il 15 settembre del 2004 da genitori nigeriani, la saltatrice con l’asta continua a volare sempre più in alto nelle gare italiane, ma non può fare altrettanto in ambito internazionale. Pur risultando italiana per la Federazione internazionale di atletica, non lo è ancora per lo Stato, almeno fino a quando, compiendo la maggiore età, potrà presentare la sua documentazione. Un limbo che prosegue ormai da qualche anno, quando Great ha cominciato a ottenere misure che le avrebbero permesso di rappresentare i nostri colori in giro per il mondo. Lo scorso weekend, a Rieti, ha saltato 4,25 m, misura che le sarebbe valsa la chiamata per la rassegna iridata giovanile, in programma dal 1° al 6 agosto in Colombia, ma la situazione attuale le impedisce di essere convocata. “Continuo a sperare in un miracolo, ma le speranze sono ormai al lumicino - racconta Great -. Mi pesa non poter indossare la maglia azzurra, ma so che non sono l’unica con questo problema. La cosa più triste è vedere che tanti amici conosciuti in questi mesi andranno a gareggiare per il nostro Paese in ogni parte del mondo e, invece, io non ci potrò andare”. Un ostacolo non da poco, una carriera che deve viaggiare con il freno a mano per rispettare la legge, penalizzando le ambizioni sportive. Spiega: “Nell’ultima uscita agli Assoluti ho migliorato molto il mio personale e senza dubbio potermi confrontare con i miei coetanei di altre nazioni mi aiuterebbe tantissimo a crescere. Invece, mi tocca aspettare ancora. Il mio fratellino Mega, che ha 14 anni e gioca nella Juventus, viaggia più di me, perché nel calcio per sua fortuna funziona diversamente. Spero che presto potrò farlo anch’io: ho già imparato a memoria il calendario internazionale dell’anno prossimo e non voglio perdere altro tempo”. Noura, 27 anni - “Nata in Liguria e sposata a Genova, ma i certificati arrivano dal Marocco”. Non basta nascere in Italia, non basta vivere tra Genova e il savonese 27 anni, parlare con un marcato accento ligure e aver sposato un genovese. Per la legge italiana valgono molto di più 5 anni trascorsi in Marocco. Era una bimbetta Noura Ghazoui quando madre e figli tornarono in patria a imparare l’arabo. Era ancora una bimbetta quando tornarono in Liguria, stavolta per sempre. Giusto il tempo delle scuole elementari era stata via. “L’italiano era una lingua comunque viva per me, dopo il primo disorientamento mi sono messa al passo con gli studi”. Come se non fosse mai partita. Per le leggi italiane però non funziona così. Per chiedere la cittadinanza a 18 anni se si è nati e cresciuti in Italia bisogna avere una residenza continuativa. A lei mancava. Dagli 11 anni in poi per essere in regola ha dovuto chiedere un permesso di soggiorno. Il primo anno la questura stava per negarglielo, il codice fiscale fornito da Noura non corrispondeva a quello dell’Agenzia delle Entrate. Quello di Noura aveva il codice finale di chi è nato ad Albenga, quello delle Entrate aveva il codice di chi è nato in Marocco, anche se non era così. Chiarito l’equivoco, la questura le ha accordato il permesso, per un anno. L’anno seguente ha dovuto ripetere la domanda e chiarire di nuovo l’equivoco. Lo stesso alla maturità. Ormai aveva 18 anni, non poteva chiedere la cittadinanza, non poteva partecipare ai concorsi, iniziò a lavorare. Finalmente nel 2017 aveva i requisiti per il permesso di soggiorno illimitato. L’ha ottenuto in pochi mesi. Nel frattempo è entrata nell’ufficio amministrativo di una struttura per anziani a Genova, si è sposata, ha avuto un figlio. Le manca solo la cittadinanza italiana. Serve il certificato di nascita che, pur essendo nata ad Albenga, deve chiedere in Marocco. “La prossima primavera andrò”, assicura lei. Potrà presentare la domanda. E aspettare per anni la risposta. Cannabis, perché va legalizzata di Concita De Gregorio La Repubblica, 30 giugno 2022 Le ragioni della depenalizzazione quando inizia la discussione parlamentare. Se proibisco l’aborto le donne non smetteranno di abortire, se proibisco il fumo chi lo fa non smetterà di fumare: sarà solo più pericoloso, ci guadagnerà gente senza scrupoli, le condizioni per farlo e le sostanze usate potrebbero portarmi alla morte. Sarà più costoso perché illegale e dunque saranno, queste, possibilità legate al denaro, a chi ne ha di più. La sicurezza diventerà una questione di classe, un privilegio di chi può permettersela. Ma continueranno. Le donne ad abortire, i malati usare droghe che leniscano il dolore, chi fuma per il piacere di farlo lo farà ancora. Sono molte le analogie fra aborto e cannabis, di cui oggi si torna a parlare per il disegno di legge in discussione alla Camera. Anche l’uso della cannabis terapeutica infatti in Italia è lecito, come l’aborto, ma nella pratica è quasi impossibile esercitare quei diritti: gli obiettori, tra i medici, sono tali e tanti che in moltissime regioni d’Italia non si può abortire, la cannabis terapeutica è altamente insufficiente: la produce solo lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze che ne realizza circa 150 chili all’anno a fronte di una tonnellata di fabbisogno (dati 2020) che lo Stato acquista sul mercato estero nello stesso momento in cui, con l’altra mano, sequestra e distrugge ovunque coltivazioni illegali, appunto, della stessa sostanza. Sono diritti acquisiti sulla carta, negati o quasi nella pratica. Con la discussione che si incardina oggi 30 giugno alla Camera il tema della cannabis diventa un altro, tuttavia: per la prima volta la parola “lecito” è associata a questa sostanza che si potrà coltivare in casa fino a un massimo di quattro piante e non solo per uso terapeutico. Anche personale e ricreativo, per usare i termini burocratici. Ricreativo, in questo linguaggio, significa per il piacere di farlo. Per il desiderio di farlo. In cosa consista questo desiderio chi non lo sapesse può chiederlo al primo figlio, nipote, vicino di casa sotto i 35 anni che gli capiti sottomano: sono stati loro, gli under 35, a firmare in massa la richiesta di referendum il cui quesito è stato di recente bocciato dalla Corte Costituzionale. Il referendum che non si è fatto, e che avrebbe certo portato a votare molti più elettori di quanti non siano andati. Riassumo qui qualche spunto tra quelli raccolti fra i giovani che hanno partecipato giorni fa ai seminari e agli incontri della Repubblica delle idee a Bologna, che sempre o quasi, alla domanda cosa ti aspetti dalla politica, hanno risposto citando la depenalizzazione della cannabis. “Regolare il consumo e depenalizzare significa che i ragazzi non devono più andare a comprarla nei parchetti pericolosi”. “Significa che non arricchisci più le mafie dello spaccio”. “Se non è reato non c’è processo e magari la giustizia si occupa di cose più importanti, le carceri si svuotano”. “Pensa a quanta gente potrebbe coltivare legalmente, quindi creare un’impresa, insomma lavoro”. La sintesi è mia, il senso delle loro parole è questo. Certo, l’impresa è titanica: che la maggioranza che compone le Camere si sintonizzi con l’elettorato, specie se di giovane età, è cosa rara. Tuttavia esistono studi scientifici, pubblicazioni istituzionali, indagini sulla criminalità e poderosi atti di convegni che, in termini diversi, sostengono le stesse conclusioni. Proibire qualcosa che è di uso comune, pratica o necessità corrente, non significa abolirlo ma consegnarlo al mercato criminale. E però anche questa proposta di legge, presentata dal radicale di +Europa Riccardo Magi ormai nel 2019, ha impiegato tre anni ad arrivare in aula, centinaia di audizioni, e si scontra ora col fatto che in tutte le forze politiche, di destra e di sinistra, i proibizionisti sono numerosi. “Se in aula ci fosse la stessa maggioranza che si è data in commissione il disegno di legge passerebbe, ma non è mai la stessa cosa”, dice Magi. Al Senato, poi, è ancor più difficile per via dei numeri, e di manovre ostruzionistiche messe in pratica dalla Lega che ha presentato, in violazione dei regolamenti, un testo analogo a quello già depositato ma di natura del tutto diversa: “Droga zero”, si chiama. “Molto dipenderà dalla posizione di Italia Viva, al Senato”, aggiunge Magi. Ma certo: se in questo paese non è possibile procurare cannabis per lenire il dolore di malati terminali figuratevi che tipo di discussione - ideologica, di principio - può scatenare la liceità dell’uso ricreativo. Già la parola ricreazione, di per sé, si presta a far dire che “è finita”, a chi vuol concludere la frase battendo il pugno sul tavolo. Ci sono però testi divulgativi assai ben scritti, di facilissima consultazione, che potrebbe essere l’occasione per sfogliare: Le droghe, in sostanza, della collana Cose spiegate bene di Iperborea/IlPost, Legalizzala!, di People - una casa editrice questa molto popolare fra i ragazzi, che leggono, certo, se quel che trovano li interessa. Si parla per esempio della differenza fra droga e farmaco, che in inglese sono indicate dallo stesso vocabolo (nei drugstore si vendono anche medicine), ci sono dati sull’incredibile dipendenza da farmaci - una piaga, negli Stati Uniti, paese pure molto severo in tema di quelle che noi chiamiamo droghe. Se mi proibisci di usare droghe e vendi al supermercato farmaci che generano dipendenza, insomma, non sei andato molto lontano. In ogni caso, al di là delle posizioni politiche, dovrebbe valere sempre un principio di realtà. È vero che le leggi cambiano le cose, le cinture di sicurezza hanno diminuito il numero di morti per strada, ma è vero anche che le leggi devono partire dalle cose: tenere conto di quel che c’è, di quel che è, regolarlo e renderlo sicuro per se e per gli altri. Se mi impedisci di bere una birra in un locale dopo le otto di sera lo farò per strada, non smetterò di farlo. Se mi arresti perché bevo una birra intaserò la giustizia a vantaggio dei veri malfattori. Se smetti di produrre birra la comprerò al mercato illegale, e forse sarà avvelenata, e ci guadagnerà il criminale che me la vende. Ma questo lo sappiamo tutti. Si tratta di capire se anche chi abbiamo eletto a rappresentarci lo capisce, lo sa. Il governo lascia solo chi ha accolto i profughi ucraini di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2022 L’80% a carico di famiglie e associazioni. All’Italia solidale? Applausi e zero soldi. Oltre l’ottanta per cento dell’accoglienza dei profughi ucraini è ancora sulle spalle dei privati. A quattro mesi dall’inizio del conflitto, mentre gli arrivi registrati alle frontiere toccano quota 140 mila, in Italia le cose non funzionano. Lo denunciano comuni, parrocchie, famiglie e tanti enti del terzo settore che da subito si sono caricati dei costi dell’emergenza e che tuttora li sostengono senza ricevere un soldo dallo Stato, nonostante le promesse e i fondi messi in campo dal governo. “Le famiglie ospitali che hanno aperto le loro case ai profughi non hanno ancora avuto nulla, molte sono arrabbiate e si sentono abbandonate dalle istituzioni”, spiega Fabiana Musicco, fondatrice e direttrice di Refugees Welcome che segue l’accoglienza privata di 350 ucraini. Di cortocircuiti ce n’è più d’uno, a partire dal bando della Protezione civile sull’accoglienza diffusa scaduto ad aprile, rallentato da una burocrazia che spreca milioni di euro e frustra i profughi che spesso si rimettono in viaggio verso la Polonia, altri paesi Ue o la stessa Ucraina. Come non bastasse, dal bando sono stati esclusi i posti offerti dal terzo settore in Sicilia, Calabria e Basilicata, tuttora inaccessibili nonostante l’urgenza. “Ci sono comuni, parrocchie, famiglie che non riescono più a sostenere i costi dell’ospitalità offerta, che non possiamo sgravare perché nessuno ci autorizza a usare gli alloggi che pure già abbiamo a disposizione”, racconta Paolo Pesacane di Arci Basilicata, dove capita che gli enti paghino spese e affitto per alloggi che non possono assegnare. Col cerino in mano resta proprio quell’Italia solidale che nei mesi scorsi si è guadagnata il plauso di media e istituzioni, e che oggi si sente tradita. “Stiamo cercando di mettere a sistema questo spontaneismo”, andavano ripetendo i membri del governo a metà marzo, quando i profughi arrivati erano già 40 mila ed era chiaro a tutti che l’Italia non sarebbe stata in grado di fare la sua parte senza l’accoglienza messa in campo da amici e parenti ucraini già residenti e dalla solidarietà di molti italiani. Vista l’insufficienza dei posti nel Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) e nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS), il cui contributo ad oggi supera di poco le diecimila unità, l’Italia decide di adottare un modello in cui non ha mai davvero creduto, quello dell’accoglienza diffusa: alloggi indipendenti o presso famiglie private, finanziati dalla Protezione civile e gestiti dagli enti del Terzo settore che avrebbero erogato assistenza e servizi. Così, tra la febbrile ricerca di immobili da parte delle prefetture, il disordinato slancio dei comuni e le migliaia di persone sistemate negli alberghi, la palla passa alla Protezione civile che definisce regole e contributi. Il bando per i primi 15 mila posti scade il 22 aprile scorso e la risposta del terzo settore supera ampiamente le aspettative: in appena una settimana le associazioni individuano più di 24 mila posti. E’ la vera, buona notizia di questa storia, motivo d’orgoglio per chi ha sempre cercato di opporre all’approccio sicuritario un’idea più sostenibile e integrata - diffusa, appunto - dell’immigrazione: “Basti pensare che il sistema SAI ci ha messo vent’anni per dotarsi della stessa disponibilità numerica”, rivendica il responsabile nazionale immigrazione di Arci, Filippo Miraglia. Alle istituzioni non sprecare questo slancio. Dei 24 mila posti sono 17 mila quelli ammessi al bando e il 6 maggio viene resa pubblica la lista. Eppure solo in questi giorni iniziano ad essere firmate le prime convenzioni. Ma si tratta di poche centinaia di posti e siamo a luglio. A rallentare le cose ci ha pensato la burocrazia. Perché se le convenzioni vanno firmate con la Protezione civile, gli accordi vanno siglati con i comuni. L’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) pretende un preventivo accordo di partenariato tra le amministrazioni locali e gli enti capofila come Arci, Caritas, eccetera. “Un documento che poteva essere prodotto in seguito visto che i comuni avevano già espresso disponibilità e interesse ai progetti di accoglienza con la lettera di intenti necessaria per la partecipazione al bando”, spiega Miraglia. Che racconta: “Il passaggio si è rivelato il principale motivo di ritardo: c’è il comune commissariato, quello sotto elezioni amministrative, quello che deve ancora nominare l’assessore competente, solo per fare alcuni esempi”. Solo all’Arci, primo tra gli enti coinvolti per numero di disponibilità, la burocrazia congela più di 400 dei 2.326 posti ammessi al bando. E non saranno gli unici. Il bando per questa prima quota di accoglienza diffusa dà priorità allo spostamento di chi è alloggiato negli alberghi a spese della Protezione civile, che ancora oggi paga dai 60 ai 70 euro al giorno per il solo alloggio a fronte dei 33 previsti per chi alloggerà in accoglienza diffusa. La priorità determina la sospensione delle disponibilità offerte in Sicilia, Calabria e Basilicata, perché in quelle regioni la Protezione civile non ha persone sistemate nelle strutture alberghiere. Per l’Arci sono altri 491 posti congelati e inutilizzabili fino a nuovo ordine. “La sospensione delle disponibilità in Basilicata, Sicilia e Calabria è stata arbitraria e ottusa”, commenta il presidente di Arci Basilicata, Pesacane. E rilancia: “Non c’è gente negli alberghi? Ok, ma puoi pensare alle persone ospitate dai comuni o a quelle “altrimenti accolte” grazie alla solidarietà di famiglie e associazioni che non hanno ancora ricevuto alcun aiuto e non ce la fanno più”. Parrebbe semplice buon senso, e tuttavia rimane inascoltato. Chi non può più essere ospitato da privati deve rivolgersi prima alla Protezione civile regionale che attraverso comuni e prefetture verificherà la disponibilità di alloggi nel sistema SAI e in quello dei CAS. “Ma ad oggi in Basilicata non risulta un solo reinserimento nel sistema pubblico”, spiega Pesacane. La stessa cosa conferma Giuseppe Apostoliti, presidente di Arci in Calabria: “Nella provincia di Catanzaro, ad esempio, nemmeno una delle cooperative che gestiscono progetti SAI ha ricevuto inserimenti”. Apostoliti riferisce di decine di casi di accoglienza solidale, anche coordinata da piccoli e piccolissimi comuni, che fino ad oggi non hanno ricevuto sostegno economico né soluzioni alternative. “È così in tutta la regione: casi come quello di un convento di suore che su iniziativa del loro piccolo comune - appena 500 anime - ospita dieci persone. Stiamo dando una mano attraverso il Banco alimentare perché le spese sono diventate insostenibili per la piccola comunità di religiose”, racconta descrivendo un clima di generale confusione, “dove manca un tavolo regionale permanente per la gestione dell’emergenza e i comuni ancora aspettano i fondi dei bandi prefettizi siglati nelle prime settimane dell’emergenza”. E non è finita. Pesacane racconta che in Basilicata “il 22 marzo scorso la prefettura ci fece d’urgenza l’affidamento per 24 posti. Stiamo ancora pagando l’affitto e i costi, ma la prefettura non ci ha mai mandato nessuno. Né qualcuno ci autorizza a utilizzare gli alloggi”. Il circolo Arci Thomas Sankara di Messina ha messo a disposizione del bando della Protezione civile 34 posti, anche questi congelati. “Siccome il circolo è formato da molti stranieri e tra i soci ci sono anche ucraini residenti qui, subito dopo l’inizio della guerra abbiamo organizzato l’accoglienza con i privati che si sono fatti carico di tutti i costi”, racconta la vicepresidente Carmen Cordaro. Tra gli accolti, anche due famiglie che ora avrebbero bisogno di essere prese in carico dall’accoglienza pubblica e che invece non si riesce a far rientrare nemmeno nei 34 posti congelati del bando della Protezione civile, “perché si deve trattare di alloggi liberi e non già occupati”. Come nelle altre regioni “anche qui il reinserimento nel sistema pubblico non sta funzionando”. Cordaro spiega che in molti casi gli appartamenti offerti agli ucraini sono case che venivano messe a reddito, soprattutto per la stagione turistica: “Chi ha dato ospitalità convinto che si trattasse di un tempo limitato, quello necessario allo Stato per organizzarsi, adesso è in difficoltà e cerca risposte che non arrivano”. Nell’incertezza sono anche le famiglie ucraine e da ogni parte d’Italia arrivano testimonianze di persone che tra difficoltà linguistiche, mancata assistenza e problemi anche nell’accesso ai 300 euro del contributo di sostengo scelgono di rimettersi in viaggio. “Non senza gratitudine, ma se li facciamo sentire isolati molti preferiscono andare in Polonia e sentirsi più vicini al loro paese”, ragiona Cordaro. Se passiamo alle regioni del Nord le cose non cambiano. “Erano le amministrazioni pubbliche che ci chiamavano perché non sapevano dove metterli, e grazie ai fondi privati delle famiglie che si rendevano disponibili ad oggi abbiamo accolto più di 350 persone, per la maggior parte alloggiate a Milano”, racconta Musicco di Refugees Welcome, la cui piattaforma raccoglie tuttora iscrizioni di ucraini in cerca di sistemazione. “Ma non stiamo accogliendo altri profughi perché c’è totale incertezza, oltre a difficoltà di ogni genere: a Milano per lentezza burocratica facciamo fatica a dare il medico di famiglia perché in tanti non hanno ancora il codice fiscale e intanto noi paghiamo le visite mediche. Per lo stesso motivo ci sono persone che non possono lavorare né avere i famosi 300 euro che lo Stato eroga per un massimo di tre mesi”. L’effetto: “Le famiglie ospitali sono arrabbiate e vogliono sapere se i loro sforzi troveranno sostegno con il nuovo bando della Protezione civile”. Si tratta di altri 15 mila posti in accoglienza diffusa, già previsti e potenzialmente aperti a chi continua a sostenere da solo tutti i costi. “Ma operativamente va ancora tutto definito e implementato e siamo in attesa di un incontro tra Protezione civile e Anci per una procedura che si vuole coinvolga i comuni”, spiega Miraglia. Che visti i precedenti non immagina nulla di veloce: “Il rischio è che produca un meccanismo che sfiducerà la gente e disincentiverà l’ospitalità portando le persone a lasciar perdere o a continuare a tenersi i rifugiati a proprie spese”. E aggiunge: “Come Arci tra famiglie a cui diamo una mano e persone direttamente a nostro carico abbiamo un migliaio di profughi. Ma sto cominciando a dire ai nostri di accompagnare chi non ce la fa più dai comuni o dalle prefetture, perché in un modo o nell’altro se ne facciano carico, non ci è data alternativa”. Non rimane che fare due conti. Sono circa 10 mila gli ucraini ospitati nei CAS e appena 740 nel SAI, nonostante il governo abbia disposto l’attivazione di 3.530 posti con l’allargamento dei progetti esistenti e di altri mille per nuovi progetti SAI. Meno di novemila le persone alloggiate in alberghi, a quanto dichiarato dalla Protezione civile. In totale si tratta di 20 mila persone accolte a spese dello Stato. Per le altre continuano a pensarci i privati che, al netto di un nuovo bando ancora tutto da definire, al momento sono esclusi dall’accoglienza diffusa e trovano sbarrate le altre strade. “I centri di accoglienza sono stati tutti pagati, mentre gran parte del peso viene scaricato su famiglie che vengono abbandonate: la famiglia non è un centro di accoglienza, tutto il tempo perso fa danni”, commenta Musicco. Che domanda: “Possibile che lo Stato italiano sia così lento che le persone fanno in tempo a disilludersi e andarsene dall’Italia prima di essere prese in carico? L’attenzione è diminuita e l’afflato iniziale va scemando, e la risposta straordinaria della società civile rischia di venir meno a causa del limbo in cui la si abbandona” Il prezzo dell’allargamento della Nato: i curdi svenduti a Erdogan di Marco Bresolin La Stampa, 30 giugno 2022 L’ingresso nell’Alleanza atlantica di Svezia e Finlandia è un successo, ma ha un lato oscuro: Ankara continua ad avere il coltello dalla parte del manico. Sull’elenco stilato dal ministero della Giustizia ci sono già 33 nomi: 17 esponenti del Pkk curdo e 16 del movimento di Fethullah Gulen (che la Turchia chiama Feto, accusandolo di essere un’organizzazione terroristica responsabile del fallito golpe del 2016). Ankara è tornata a chiedere la loro estradizione alla Finlandia (che ne ospita 12) e alla Svezia (per i restanti 21), forte dell’accordo siglato martedì a Madrid per consentire l’ingresso dei due Paesi nella Nato. Si tratta di una delle tante contropartite imposte dal presidente Recep Tayyip Erdogan ai colleghi scandinavi per togliere il veto sulla loro adesione all’Alleanza Atlantica. Al centro congressi Ifema di Madrid, dove i leader si sono riuniti per un vertice certamente storico, ieri la soddisfazione per l’allargamento della Nato era palpabile, mentre il ministero degli Esteri russo ha definito la mossa come “destabilizzante”. Ma diversi capi di Stato e di governo hanno faticato non poco a celare l’imbarazzo per i termini di un’intesa che suscita parecchi interrogativi. Del resto era successo così anche nel 2016 in occasione dell’intesa sui migranti siglata dall’Unione europea con Erdogan, un “dittatore” di cui “si ha bisogno”, come lo aveva definito l’anno scorso Mario Draghi. E proprio il premier italiano, durante una pausa del summit, ha avuto una reazione d’istinto molto significativa: interpellato sulle concessioni fatte al “dittatore Erdogan”, sulle prime si è voltato e se n’è andato. Dopo aver fatto pochi passi, il premier è però tornato indietro e ha risposto così: “Siccome è un punto molto importante, è bene che questa domanda la facciate alla Svezia e alla Finlandia”. Magdalena Andersson, la premier svedese artefice dell’accordo, non ha dubbi: era la cosa giusta da fare. Ma a Stoccolma la attende un clima piuttosto acceso per le concessioni a Erdogan e per un accordo siglato “sulla pelle dei curdi”. Oltre a favorire le estradizioni, lei e il presidente finlandese Sauli Niinisto si sono impegnati a perseguire i membri del Pkk, ma anche a non sostenere la formazione curda siriana Ypg e al tempo stesso a togliere l’embargo sulle armi ad Ankara. “Ora dovremo armare Erdogan per sostenere la sua guerra di aggressione contro la Siria?” ha chiesto provocatoriamente Nooshi Dadgostar, leader della sinistra, secondo la quale “è pericoloso mettere la politica estera svedese nelle mani di Erdogan”. Anche la co-leader dei Verdi, Marta Stenevi, si è detta “molto preoccupata” per la rimozione dell’embargo sulle armi alla Turchia, ma l’intervento più significativo è stato quello di Amineh Kakabaveh. La deputata indipendente, di origini curdo-iraniane, tre settimane fa si è rivelata decisiva per salvare il governo: grazie alla sua astensione è stata bocciata per un solo voto la mozione di sfiducia che avrebbe fatto cadere l’esecutivo. Ora però è determinata a dare battaglia su questo fronte. Ha chiesto alla ministra degli Esteri Ann Linde di andare in Parlamento per spiegare i termini dell’accordo e ha minacciato una nuova mozione di sfiducia: “Questo è un giorno nero per la politica estera svedese. Stiamo svendendo i diritti fondamentali di cittadini che hanno ottenuto l’asilo”. Ma la premier ha assicurato che le estradizioni “dipenderanno dalle informazioni che avremo dalla Turchia” e che in ogni caso Stoccolma “seguirà il diritto internazionale e la Convenzione europea sulle estradizioni”. Magdalena Andersson non teme ripercussioni per il governo, anche perché a settembre sono già previste le elezioni. Più contenute le reazioni in Finlandia, dove prevale l’entusiasmo per il via libera all’ingresso nella Nato. L’esito dell’accordo è stato salutato dalla stampa filo-governativa turca come una vittoria di Erdogan “che ha ottenuto ciò che voleva”. Il presidente si è ritagliato un ruolo da protagonista a Madrid, dove ieri sera ha avuto un bilaterale con Joe Biden per discutere la consegna di 40 caccia F-16: l’americano lo ha ringraziato per l’impegno ad aprire i corridoi del grano ucraino e per l’intesa con Svezia e Finlandia. L’opposizione turca, invece, parla di un accordo “inconsistente” e senza sviluppi concreti. Effettivamente da parte dei due Paesi, per ora, c’è solo un impegno politico, ma il protocollo di adesione deve essere ratificato dai parlamenti di tutti gli Stati membri. Nei prossimi mesi la Turchia continuerà ad avere il coltello dalla parte del manico. Turchia. A Erdogan via libera al massacro dei curdi di Alberto Negri Il Manifesto, 30 giugno 2022 Doppio standard. Il Sultano della Nato ha stabilmente insediato le truppe e occupato il territorio di altri stati senza che nessuno osi alzare neppure il sopracciglio. È lui a decidere, con la nostra complicità, chi siamo noi, che cosa è davvero l’Alleanza atlantica e soprattutto anche il destino dei curdi, siriani e iracheni. I curdi iracheni erano intanto accorsi a difendere le loro postazioni. mentre dall’avanzata dell’Isis, ai curdi turchi, in conflitto perenne con Ankara, erano i jihadisti, sostenuti dai servizi turchi, a tagliare la gola. Allora i curdi erano i nostri eroi, acclamati come i difensori contro la barbarie, e ora, per far entrare Svezia e Finlandia nella Nato, abbiamo svenduto a Erdogan la loro sorte e i tanto conclamati valori occidentali. Perché di questo si tratta leggendo il memorandum firmato dai ministri degli esteri di Turchia, Svezia e Finlandia. Al punto 8 del documento si prevede, “sulla base delle informazioni fornite dalla Turchia”, l’estradizione di membri del Pkk, come presunti terroristi, ma anche degli appartenenti alle organizzazioni affiliate come l’Ypg curdo-siriano, le milizie che proteggono l’esistenza del Rojava, un esperimento politico laico, multi-etnico e multi-religioso che dovremmo preservare. In tutto questo non si fa minimamente cenno al fatto che la Turchia occupa parti del territorio siriano e iracheno, che bombarda sistematicamente non solo le milizie armate ma anche i civili, curdi, siriani, iracheni, compresi gli yezidi, proprio coloro che soffrirono di più delle stragi e degli stupri dei jihadisti. Finlandia e Svezia toglieranno anche il bando alla vendita di armi ad Ankara. In poche parole si tratta di un via libera su tutta la linea a Erdogan per fare quello che vuole nel nord della Siria, in Iraq e, ovviamente, anche nel Kurdistan turco dove in anni passati sono stati rase al suolo città come Cizre. Cnsiglio il documentario “Kurdbûn - Essere curdo”, diretto dal regista curdo-iraniano Fariborz Kamkari, da mesi nelle sale italiane. Si comprende che tra un Putin e un Erdogan non passa poi molta differenza. In compenso Erdogan per bombardare i curdi usa i nostri elicotteri Agusta (Leonardo) e ricatta l’Europa con i suoi tre milioni e mezzo di profughi siriani, per cui l’Unione europea versa 6 miliardi di euro perché li tenga ben lontani da noi. Si chiama, per i valori occidentali, “esternalizzazione delle frontiere” e degli esseri umani. Il Sultano della Nato ha stabilmente insediato le truppe e occupato il territorio di altri stati senza che nessuno osi alzare neppure il sopracciglio. È lui a decidere, con la nostra complicità, chi siamo noi, che cosa è davvero l’Alleanza atlantica e soprattutto anche il destino dei curdi, siriani e iracheni, da scambiare sul tavolo del negoziato per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Fanno sorridere amaramente alcuni titoli dei giornali italiani del genere: “Erdogan cede alle richieste degli alleati”. Casomai è il contrario. E se ne accorgerà presto anche il presidente del consiglio Draghi atteso in Turchia per uno scottante bilaterale. Noi, per quanto ci riguarda, abbiamo già ceduto alle richieste turche: chiediamo il permesso ad Ankara anche per esercitare con le navi dell’Eni il diritto acquisito di trivellare nella zona greca di Cipro, cosa che naturalmente ha fatto infuriare gli ellenici. Figuriamoci quando ci toccherà discutere sulla zona economica esclusiva tracciata tra Turchia e Libia da Erdogan nel 2019 che allora salvò il governo di Tripoli dalle truppe del generale Haftar alle porte della capitale. Ma l’Italia non ha molte carte da giocare se non chiedere al Sultano di aiutarci a mettere un po’ d’ordine tra le fazioni comandate anche dai turchi e a portare a casa qualche barile di petrolio e di gas libico, visto che all’ex colonia ci lega un gasdotto con una portata di 30 miliardi metri cubi, che sarebbero più di un terzo dei nostri consumi annuali. L’Italia, dalla caduta di Gheddafi nel 2011, è diventata in questi anni il Paese più esangue del Mediterraneo: va bene ricostruire l’Ucraina ma forse sarebbe più di nostra competenza avviare una sia pure timida azione di governo e diplomatica per una dignitosa ricollocazione del Paese dove è sempre stato geograficamente. In realtà stiamo dando al massacratore di curdi Erdogan tutte le soddisfazioni che vuole. Mentre il Sultano si potrà vantare di avere portato Svezia e Finlandia nella Nato _ rendendole ai suoi occhi alleati “ragionevoli” - allo stesso tempo è in trattative con Washington per una nuova partita di caccia F-16 e forse gli Stati uniti gli sbloccheranno pure gli F-35, se rinuncia ad altre forniture di batterie antimissile S-400 di Mosca. E così Erdogan, contando sull’acquiescienza nostra e di Washington, ci dà dentro con la “sua” guerra ai curdi. Che noi naturalmente, da meschini alchimisti del doppio standard, facciamo finta di non vedere. Gran Bretagna. La ministra dell’Interno riscrive illegalmente la definizione di rifugiato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 giugno 2022 La Legge sulla nazionalità e i confini, entrata in vigore il 28 giugno, renderà ancora più difficile chiedere asilo nel Regno Unito e allontanerà questo stato dagli impegni assunti nei confronti della Convenzione del 1951 sullo status di rifugiato. Secondo la nuova normativa, fortemente voluta dalla ministra dell’Interno Priti Patel, alcuni gruppi di rifugiati (tra cui coloro che chiedono protezione a causa della persecuzione subita per motivi di orientamento o identità sessuale) dovranno sottoporsi a prove aggiuntive e illegali; i rifugiati che entreranno senza autorizzazione nel Regno Unito potranno essere sottoposti a procedimenti penali, al carcere e all’esclusione dal diritto d’asilo col conseguente pericolo di essere rinviati negli stati d’origine. Sebbene la narrativa ufficiale presenti la Legge sulla nazionalità e i confini come una misura deterrente nei confronti delle bande criminali dedite al traffico di esseri umani, il risultato della sua applicazione sarà esattamente l’opposto: renderà le persone ancora più vulnerabili e le metterà nelle mani dei trafficanti. Altrettanto falsa è la narrativa secondo la quale il governo di Londra mette a disposizione percorsi legali e sicuri per chiedere asilo: le regole prevedono che una persona in fuga da conflitti e persecuzioni debba ottenere un visto d’ingresso, ma di fatto nessun documento del genere viene emesso in favore di chi intenda chiedere asilo nel Regno Unito. Infine, sempre secondo le autorità, la nuova legge allevierà un sistema messo sotto pressione. La realtà è che, seppur in aumento, le domande d’asilo sul suolo britannico restano relativamente poche rispetto a molti stati europei, come Francia e Germania. Grecia. Polizia sotto accusa: “Richiedenti asilo usati per fare il lavoro sporco” di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 30 giugno 2022 Un’inchiesta giornalistica svela l’operazione criminale al confine con la Turchia. Il traffico di “schiavi” parte da Istanbul e si snoda lungo il fiume Evros. Le denunce sono innumerevoli e si accumulano da anni: la polizia greca e agenti della Guardia Costiera non si accontentano di picchiare selvaggiamente i migranti intercettati nell’Egeo ma provvedono anche a derubarli prima di rispedirli in Turchia. Atene ha sempre steso un velo di silenzio, interrotto solo da brevi smentite di rito, di fatto continuando a dare carta bianca agli agenti di fare quello che vogliono. Ora si è rivelato uno scenario ancora più raccapricciante. Si è scoperto che da anni la polizia greca ha creato un meccanismo criminale in collaborazione con i trafficanti. I trasportatori attirano profughi e migranti da Istanbul. Una volta attraversato il confine sul fiume Evros, gli immigrati vengono arrestati e fatti diventare “schiavi” (come loro stessi si definiscono) dei poliziotti. Vengono pestati e poi rinchiusi nei magazzini dei commissariati di polizia, principalmente in quelli nei paesi Tycherò e Neo Chimonio in Tracia. Dopo un periodo di reclusione, sottoposti a minacce e violenze, i detenuti vengono reclutati per fare il lavoro sporco. I poliziotti li mandano a bordo delle barche che devono riportare sulle coste turche i migranti intercettati. Gli “schiavi” in cambio ottengono la possibilità di uscire dalla baracca e alla fine un permesso provvisorio di soggiorno. Già dall’anno scorso l’agenzia Onu per i rifugiati Unhcr aveva denunciato la sistematica pratica dei pushbacks da parte delle autorità greche, ma il meccanismo messo in piedi dalla polizia (considerata una delle più corrotte in Europa) era stato denunciato fin da aprile dall’organizzazione Human Rights Watch. Ora però uno pool di giornalisti europei (Der Spiegel, Guardian, Le Monde, Ard, Lighthouse Reports e il gruppo greco Reporters United) ha portato in avanti un’inchiesta giornalistica che rivela tutti i dettagli dell’operazione criminale. Gli “schiavi” che hanno dato la loro testimonianza ai giornalisti sono in tutto nove, provenienti dalla Siria e dal Marocco. Uno di questi testimoni è il rifugiato Basel M. che è stato trattenuto a Evros per tre mesi come “schiavo”. Alla fine del 2020, al decimo suo tentativo di superare il confine era stato trattenuto e picchiato per poi essere avvicinato da un poliziotto che lo ha convinto a collaborare minacciandolo altrimenti di farlo arrestare con l’accusa di essere un trafficante. Basel M. ha confessato ai giornalisti di aver colpito con il remo un gruppo di afghani che protestavano mentre venivano indirizzati verso le coste turche e ha aggiunto di aver personalmente assistito a molti annegamenti. Uno dei trafficanti che ha accettato di parlare con i giornalisti è un siriano che usa lo pseudonimo Mike. Già in patria, a Homs, si occupava di traffico di persone e di droga. Ora, anche se dispone di un appartamento a Parigi, vive in un container bianco vicino al passaggio di frontiera sul fiume Evros e arruola profughi schiavi a Istanbul per 5 mila euro a testa. L’inchiesta giornalistica ha rivelato anche che poliziotti, trafficanti e “schiavi” circolano liberamente nella zona e tutti gli abitanti sanno perfettamente cosa succede. La situazione ha assunto dimensioni talmente scandalose che molti agenti hanno accettato di parlare con i giornalisti e di denunciare la complicità degli alti gradi della polizia e del ministero dell’Ordine pubblico, che coprono regolarmente i traffici di frontiera. I giornalisti hanno verificato le denunce controllando gli edifici vicino ai commissariati interessati, date, nomi e fatti. Un lavoro investigativo preciso e dettagliato, che non lascia spazio ad alcuna smentita. La rivelazione degli organi di stampa europei è stata regolarmente ignorata dai media greci, totalmente al servizio della destra al governo, con pochissime eccezioni. Nessun commento da parte del ministro dell’Immigrazione Notis Mitarakis. Libia. Nelle carceri uomini e donne violentati per cibo e acqua di Fabio Bucciarelli agi.it, 30 giugno 2022 Rapporto shock delle Nazioni Unite redatto sulla base di testimonianze dirette. L’elenco dei presunti autori di queste atrocità rimane riservato. Omicidi, torture, schiavitù. I migranti detenuti in Libia sono vittime di atroci abusi, in particolare le donne che vengono violentate in cambio di cibo e acqua. La denuncia arriva dalle Nazioni Unite che hanno redatto un nuovo rapporto sullo stato dei migranti detenuti in Libia. Gli investigatori dell’Onu spiegano, nel rapporto, che i migranti che cercano di raggiungere l’Europa hanno subito violenze sessuali da parte di vari trafficanti, spesso con l’obiettivo di estorcere denaro alle famiglie rimaste nei paesi di origine. “La missione conoscitiva dell’Onu ha fondati motivi per ritenere che crimini contro l’umanità siano stati commessi contro migranti in Libia”. Il rapporto si basa su numerose testimonianze rese dagli stessi detenuti. Migliaia di migranti sono detenuti nei centri gestiti dalla Direzione per la lotta all’Immigrazione illegale (Dcim), in strutture controllate da gruppi armati non statali o tenuti prigionieri dagli stessi trafficanti. Detenuti in modo “arbitrario e sistematico”, sono vittime di “omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani”, si legge nel rapporto reso noto oggi a Ginevra. Le donne migranti, anche minori, sono soggette a violenza sessuale sistematica e affermano di essere state “costrette a fare sesso in cambio di cibo o altri prodotti essenziali”. Tra le vittime di violenza sessuale figurano anche molti uomini. Gli autori del rapporto, inoltre, spiegano che proprio per il rischio “noto” di violenze sessuali, alcune “donne e ragazze migranti si sono premunite attraverso impianti contraccettivi prima di intraprendere il viaggio verso la Libia per evitare gravidanze indesiderate”. Una donna migrante, tenuta prigioniera ad Ajdabiya, ha raccontato agli investigatori dell’Onu che i suoi rapitori le chiedevano sesso in cambio di acqua, acqua di cui aveva bisogno per il suo bambino malato di sei mesi. La missione conoscitiva, creata nel giugno 2020 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha il compito di documentare gli abusi commessi in Libia dal 2016. Il suo mandato sta finendo ma un gruppo di paesi africani ha depositato una bozza di risoluzione per prorogarlo di nove mesi. Se ne parlerà alla fine della prossima settimana. Lo scorso ottobre, gli investigatori hanno assicurato che crimini di guerra e crimini contro l’umanità sono stati commessi in Libia dal 2016, anche nelle carceri e contro i migranti. Tuttavia, l’elenco dei presunti autori di queste atrocità rimane riservato. I funzionari libici, intanto, si incontreranno questa settimana a Ginevra per discutere il progetto di quadro costituzionale per le elezioni in Libia, dove due governi si contendono il potere. La Libia è nel caos dalla caduta del regime del dittatore Muammar Gheddafi nel 2011.