La bufala sulle “casette dell’amore” è l’ennesima disinformazione dei media di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2022 Ha ragione Ornella Favero, direttrice della redazione Ristretti Orizzonti ad indignarsi dei giornalisti che non hanno verificato la falsa notizia dei 28 milioni stanziati per le “casette dell’amore”, tra l’altro rilanciata puntualmente dal magistrato Nicola Gratteri. Il 24 maggio scorso, Il Dubbio ha pubblicato un articolo rilevando che la proposta di legge sull’affettività è purtroppo ancora nel mondo dei sogni visto che la commissione Giustizia del Senato ancora non l’ha messa all’ordine del giorno, così come gli eventuali fondi serviranno in previsione di tale proposta rimasta nel limbo. Quando la politica diventa ostaggio della disinformazione - Dalle famose “scarcerazioni” durante il covid alle “casette dell’amore”, il tema carcere affrontato dai giornali si presta a numerose bufale per creare indignazioni e quindi con la conseguenza di regredire sempre di più. La politica diventa così ostaggio della disinformazione. Accade con altri temi dove le persone non possono avere sempre gli strumenti per capire. Basti pensare alle tesi sulle stragi di mafia. Quasi tutti i giornalisti, tranne questo giornale che tenta di approfondire e scavare a fondo, copiano e incollano le tesi evocate e si crea un danno enorme. Il ministero della Giustizia “non ha assunto alcuna iniziativa” - Ritornando al tema penitenziario, il gioco è ancora più facile perché si cavalca e si amplifica il cosiddetto populismo penale. Vale la pena riportare anche su Il Dubbio, ciò che ha denunciato Ornella Favero. La direttrice di Ristretti Orizzonti spiega come stanno le cose: la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge sull’affettività delle persone detenute (e anche la Regione Lazio) e, spiegano fonti del ministero della Giustizia in un comunicato, “nello scorso mese di marzo la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione”. I tecnici del ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento, ma il ministero della Giustizia “non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare”. La direttrice di Ristretti Orizzonti: “Possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche?” - A quel punto, la direttrice di Ristretti, giustamente si indigna e si domanda retoricamente: “È possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche di notizie, che apparivano veramente sconclusionate al limite del ridicolo? Il fatto è che siamo abituati, nel nostro Paese, a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, e riteniamo lecito dire qualsiasi schifezza in materia, a partire dalla solita definizione di “celle a luci rosse”, mentre negli altri Paesi, evidentemente più civili del nostro, si pensa a fare leggi sensate e si capisce che in carcere ci stanno persone, che come tali vanno trattate”. Ristretti Orizzonti si “candida” a gestire la comunicazione - Ornella Favero denuncia anche che il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non sono riusciti a fare una comunicazione attenta, tempestiva, precisa, esauriente su questa vicenda. “Ci candidiamo allora - scrive sempre Favero - con la nostra Rassegna Stampa quotidiana, Ristretti News, a fare noi questo lavoro, e magari a essere riconosciuti e sostenuti, perché sappiamo che tanta parte dell’Amministrazione Penitenziaria legge il nostro Notiziario, e sappiamo anche che per sopravvivere dobbiamo fare i salti mortali”. La redazione è composta da giornalisti detenuti “dilettanti” - Sottolinea che dirige Ristretti Orizzonti, un giornale di giornalisti detenuti “dilettanti”, e che per giunta, se sono finiti in carcere, “è perché spesso nella vita non si sono distinti per il rispetto delle regole, quindi gli dovrei poter portare come esempio i professionisti dell’informazione che fanno questo mestiere da anni, e invece spesso succede il contrario, che siamo noi che stiamo molto più attenti di loro alle parole, ai contenuti, al rispetto dei lettori”. E conclude: “Rispetto dei lettori significa rispetto dei lettori “liberi”, e noi lo abbiamo perché le persone in carcere sanno mettersi in discussione, confrontarsi con le vittime, assumersi le loro responsabilità, e rispetto dei lettori detenuti e delle loro famiglie, che in tutta questa storia si sono visti trattati con disprezzo, volgarità, miserabili bugie”. Carcere, finalmente fondi per le case-famiglia protette. Ma attenzione ai falsi slogan di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2022 Nelle scorse ore la Camera dei Deputati ha votato a stragrande maggioranza la proposta di legge in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, che vede come primo firmatario il deputato Pd Paolo Siani. Ci auguriamo che presto il testo venga definitivamente approvato anche dall’altro ramo del Parlamento. Il 1975 è l’anno in cui vide la luce l’ordinamento penitenziario, ovvero la legge fondamentale che regola lo svolgimento della vita in carcere. Il legislatore di allora scelse di lasciare alla madre detenuta la scelta se separarsi dal figlio oppure portarlo con sé in carcere qualora di età inferiore ai tre anni. Ovviamente non la obbliga a farlo: lascia a lei la libera scelta, nella consapevolezza che talvolta la non separazione, anche in circostanze così difficili, sia il male minore. Per tanti anni non si è più ritornati sulla questione. Fino al 2001, quando la legge che porta il nome di Anna Finocchiaro fu simbolicamente approvata l’8 di marzo. Al tempo i bambini sotto ai tre anni che vivevano in carcere con le loro madri erano oltre ottanta. La legge Finocchiaro poneva una serie di limiti all’utilizzo della custodia cautelare in carcere e della pena detentiva per imputate o condannate con figli piccoli. In particolare introduceva nell’ordinamento penitenziario una misura alternativa apposita, la detenzione domiciliare speciale per detenute madri. Tuttavia, tra i paletti che la legge fissava per la sua concessione vi era la possibilità di ripristinare all’esterno la convivenza tra la donna e i figli. In molti casi tale possibilità non c’era. Oppure il giudice non la valutava adeguata. A volte la donna non aveva un domicilio capace di accoglierla, altre volte l’abitazione delle donne rom non veniva considerata dal magistrato di sorveglianza come meritevole di considerazione. La detenzione domiciliare speciale venne dunque utilizzata ben meno di quanto si sarebbe sperato. Fu per questo che dieci anni dopo si decise di tornare sull’argomento. Nel 2011 venne approvata un’altra legge, con prima firma quella di Enrico Buemi. Anche qui si aggiungevano paletti all’uso del carcere per le madri, ma soprattutto si introducevano le case-famiglia protette, ovvero dei luoghi dove la madre priva di adeguato domicilio potesse andare a eseguire la misura della detenzione domiciliare. La legge era però del tutto priva di copertura finanziaria e di case-famiglia protette ne nacquero solamente due in tutta Italia. Il testo appena votato torna nuovamente sul tema. Finalmente stanzia dei fondi per la creazione di case-famiglia protette. Quando la norma sarà definitiva, questo aiuterà senz’altro la concessione di un numero maggiore di detenzioni domiciliari speciali. Era fondamentale metterci le risorse. Non era difficile da capire. Perché si sono aspettati tanti anni durante i quali non c’era nessuno che non si dicesse esterrefatto dalla presenza di bambini nelle carceri? Detto questo, non dobbiamo tuttavia raccontarci falsità. Che mai più un bambino varchi la porta di un carcere è un orizzonte di prospettiva verso il quale dobbiamo senz’altro tendere con ogni impegno, ma non può che essere semplicemente uno slogan. Nella realtà la legge Siani - così come la Finocchiaro e la Buemi prima di lei - non impedisce affatto l’ingresso in carcere dei bambini. Non è pensabile scrivere in una legge dello Stato che una donna con figli piccoli non può - a prescindere da tutto e in nessuna circostanza - andare in carcere. Si precostituirebbe una sacca di impunità che non reggerebbe al vaglio costituzionale di ogni banale principio di eguaglianza. La valutazione della magistratura ci sarà sempre nel decidere dove allocare quella madre imputata o condannata. Tutto ciò che la legge può fare è dare al giudice strumenti normativi per allocarla il più possibile fuori dal carcere. Ma sta poi al giudice utilizzarli con il massimo impegno e la massima solerzia per ottenere il risultato sperato di veder diminuire il più possibile la presenza dei bambini in cella. Molti di questi strumenti normativi ci sono già adesso, prima che auspicabilmente entri in vigore la nuova legge. Eppure negli anni passati molti bambini sono inutilmente transitati dal carcere. Basti vedere cosa è accaduto con l’avvento della pandemia, quando si è fatto urgente il pericolo del contagio e la difficoltà di tenere i piccoli in isolamento. Se alla fine del febbraio 2020 le carceri italiane ospitavano 59 bambini, alla fine di maggio erano scesi a 34. Quei 25 bambini in più erano figli di detenute pericolosissime o erano piuttosto figli di donne che potevano essere collocate in una qualche alternativa alla pena carceraria anche ben prima della crisi sanitaria? Per anni ci siamo stracciati le vesti per i bambini in carcere senza fare nulla di concreto. Adesso stiamo per mettere risorse per far funzionare delle leggi di civiltà e ragionevolezza. C’è voluto troppo tempo, ma finalmente sta per essere fatto. Ma questo è solo il primo passo. Le leggi di civiltà e ragionevolezza vanno applicate, altrimenti rimangono parole che non tolgono dalla galera nessun bambino. Non si può affermare che nessun bambino deve più entrare in carcere, perché tale generalizzazione non regge a una seria analisi normativa. Ma si può affermare che Marco, Giulia, Margot, Alexander, Lorenzo non devono entrarci. Ogni magistrato prenda in mano i fascicoli delle loro madri imputate o condannate e applichi al singolo caso gli strumenti normativi adeguati tra i molteplici che esistono. *Coordinatrice associazione Antigone Crescere i figli oltre le sbarre. Tra poco sarà possibile di Federica Olivo huffingtonpost.it, 2 giugno 2022 Primo sì della Camera alla proposta Siani, manca quello del Senato. I piccoli in carcere sono 20: “Apprendono il linguaggio dei reclusi”. Ci sono fondi per le strutture alternative. Le voci di chi conosce i penitenziari e la storia di 20 anni di tentativi falliti. Non i giardinetti con le giostrine, le mamme, i passeggini, ma quei pochi metri all’aria aperta, tra la cella e il mondo esterno. Non le primissime gite scolastiche con compagni, maestre e genitori, le feste di compleanno, i giochi in compagnia, ma incontri brevi, sotto lo sguardo dei sorveglianti, e solo con i parenti. E poi porte pesanti, che si chiudono a chiave e lasciano fuori libertà e quotidianità, per la madre detenuta, che si trova in carcere per scontare una pena o in attesa di giudizio, ma anche per i suoi figli piccoli, se ha deciso di tenerli con sé durante la carcerazione. Quella di non separarsi dai figli mentre si sconta la pena è una scelta, dice la legge attuale. In realtà, nella maggior parte dei casi, è una necessità. Perché la donna non sa a chi lasciare il proprio bambino. E se non ha una casa non le vengono concessi gli arresti domiciliari speciali, che pure esistono. Poco importa se siamo nelle sezioni nido di un carcere, dove le donne detenute possono tenere i loro figli fino a quando non compiono sei anni, o nei cosiddetti istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Nel secondo caso magari gli agenti non indossano le divise, c’è qualche gioco, qualche parete colorata e qualche servizio in più, ma il refrain è lo stesso: le sbarre, l’impossibilità di uscire e di scoprire il mondo. La solitudine, il silenzio. E un linguaggio diverso, fatto di parole che i coetanei, i bambini che vivono ‘fuori’, neanche conoscono. Come la parola ‘colloquio’, che sostituisce in carcere termine ‘incontro’. E poco importa se dall’altra parte c’è il papà. Nella percezione dei grandi e dei piccoli, in un ambiente fatto di porte blindate e di muri spessi che separano dalla città e dagli affetti, di colloquio, e non di incontro, si tratta. “Ho sentito dire a un bambino ospite dell’Icam frasi come ‘mamma, andiamo all’aria’, invece di ‘mamma andiamo a giocare in cortile?’“, racconta ad HuffPost Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti del Comune di Torino. Nel capoluogo piemontese, ad oggi, i bambini che vivono con le madri detenute sono due, entrambi molto piccoli. Sono diminuiti rispetto a qualche tempo fa, ma questa buona notizia ha un rovescio della medaglia: “Per i bambini significa meno socialità, soprattutto se le loro mamme non vanno d’accordo”. E allora succede che il bambino, dopo l’asilo, dopo il tempo con i volontari, si trova in una situazione innaturale. E lì resta, fino a quando non diventa più grande. O fino a quando la mamma non ha finito di scontare la pena. Parliamo al presente, perché a breve le cose potrebbero - finalmente - cambiare. Almeno per un buon numero di questi bambini. La Camera ha approvato una proposta di legge - a prima firma di Paolo Siani, deputato del Pd - che ha l’obiettivo di fare in modo che i bambini non si trovino a vivere in istituti di pena, con le mamme detenute. “Una questione di civiltà”: cosa prevede la legge - Il sì di Montecitorio - 241 favorevoli e solo 7 contrari - è arrivato nella serata del 30 maggio. Quando la legge passerà anche al Senato, le donne che devono scontare una pena o sono state poste in custodia cautelare, e hanno bambini molto piccoli, dovranno essere accolte in case famiglia protette. Il magistrato potrà derogare solo in casi molto particolari. Solo se ci sono “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” si potrà ricorrere agli Icam. La regola vale anche per i padri, se la madre è deceduta o è assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli. La Lega, nel corso della seduta ha rivendicato l’emendamento secondo cui, in ogni caso, è applicabile il “regime speciale” previsto dall’articolo 41-bis. Dopo il passaggio in Senato “le case protette saranno l’unica scelta per far scontare la pena a una donna in gravidanza o con un bambino fino a sei anni di età, salvo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - ha spiegato in dichiarazione di voto Paolo Siani -. Il Parlamento vuole lottare per tutte le persone innocenti, in primis i bambini. È una questione di civiltà”. Di “traguardo molto importante” ha parlato, poco prima del voto, anche Walter Verini, relatore del provvedimento. “Spero in un processo rapido - ha aggiunto con HuffPost Monica Cristina Gallo - e che le case famiglia che si andranno a costituire ospitino anche altri nuclei, oltre alla ‘categoria’ di madri detenute con figli”. Le case famiglia protette sorgeranno grazie a una convenzione tra il ministero della Giustizia e gli enti locali. I Comuni saranno tenuti a crearle, perché sarà principalmente in questi luoghi che le donne con bimbi piccoli dovranno scontare la pena. La novità rispetto alla normativa precedente è che gli enti locali non dovranno investire fondi propri. Un milione e mezzo di euro è, infatti, già disponibile per il triennio in corso. Come ci spiega Paolo Siani, lo stanziamento era già stato fatto con la legge di bilancio del 2021. Perché la possibilità di istituire case famiglia protette già esisteva, ma non aveva quasi visto attuazioni. Altri fondi, ci spiega ancora il parlamentare, potranno essere attinti dalla cassa ammende. I tentativi (falliti) del 2001 e 2011. Marietti (Antigone): “Questa volta ci sono i fondi per le case famiglia. Vedremo ancora bambini in carcere, ma speriamo siano molti di meno”. Una volta che sarà legge, il provvedimento proposto da Siani segnerà un passo in avanti per allontanare i bambini dalle carceri. C’erano già stati due tentativi negli ultimi vent’anni in questo senso. Ma avevano portato ben pochi frutti. “La vera novità di questa proposta di legge - spiega ad HuffPost Susanna Marietti dell’associazione Antigone - è che vengono destinati dei fondi per la nascita delle case famiglia protette”. Un tentativo di sottrarre i bimbi al carcere era già stato fatto nel 2001. E nel 2011 il legislatore aveva provato a correggere ancora il tiro. “Con la legge Finocchiaro del 2001 - ci spiega l’attivista di Antigone - era stata prevista una misura alternativa alla detenzione per le madri di bimbi piccoli detenute. Si dava al magistrato la possibilità di assegnare la detenzione domiciliare speciale. Poi, però, ci si era resi conto del fatto che molte volte la madre non aveva un domicilio, o che il domicilio non era idoneo. E allora, nel 2011, c’era stata l’istituzione delle case famiglia protette, oltre che degli Icam”. Piccolo problema: queste nuove case famiglia avrebbero dovuto sorgere a costo zero per lo Stato. Il tutto, quindi, era nelle mani dei Comuni e il risultato è stato che in dieci anni ne erano nate solo due: una a Roma e una a Milano che, però, non ha tutti i requisiti del caso. Il provvedimento voluto da Siani, invece, fa il salto che serve: garantisce i fondi. E non è poco. Marietti, però, tiene a fare una precisazione: “Dire che non entreranno più, in termini assoluti, bambini in carcere è una falsità. Con questa legge si dà al magistrato uno strumento in più: la possibilità di assegnare una misura alternativa. La discrezionalità, quindi, resta. Continueremo a vedere,quindi, in alcuni casi, bambini in carcere. La speranza è vederne molti meno di oggi”. La maggior parte in Lazio e Campania: quanti sono i bambini in carcere - In questo momento i bambini che si trovano in istituti di pena con le loro madri sono venti: la maggior parte tra l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, e la sezione nido del carcere femminile di Rebibbia, a Roma. Pochi altri sono a Torino e a Milano. Sono comunque tanti, ma c’è stato un tempo in cui erano ancora di più. Nel 2018, ad esempio, erano 62. Tutti piccolissimi, sei anni al massimo. Tutti costretti, a norma di legge a vivere la loro quotidianità in un penitenziario. Era una tragedia silenziosa, di cui non parlava nessuno. Quell’anno poi, un dramma ha fatto riaccendere all’improvviso i riflettori su questa situazione. Sul fatto che è in Italia è possibile che le donne in custodia cautelare, o condannate, vengano chiuse in carcere con i loro bambini. Era metà settembre, il tempo in cui i bimbi tornano a scuola, e a Rebibbia una donna - reclusa per una faccenda di spaccio - aveva fatto precipitare volutamente dalle scale i suoi due figli molto piccoli. I bambini erano morti, da quella vicenda era nato un processo. Ma quella storia, così cruda, ha portato all’accelerazione di un percorso - quello per portare i piccoli fuori dal carcere - che potrebbe concludersi, positivamente, a breve. Gli addetti ai lavori plaudono a questa nuova norma. Ma tengono a ricordare che non basta una legge a ribaltare la situazione: “Per me già dire detenute madri e minori in carcere è un ossimoro. Sapere che anche per loro è stata pensata un’alternativa, seppure solo il 5% dei detenuti italiani è di sesso femminile, è una notizia che fa tirare un sospiro di sollievo”, spiega in una nota Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Proprio perché nella sua regione in questo momento ci sono nove madri in un Icam con i loro bambini, conosce molto bene la situazione. E racconta una vicenda emblematica, che testimonia il fatto che se non si creano un tessuto sociale e una rete di servizi adeguati la casa famiglia, da sola, non è sufficiente: “A una detenuta dell’Istituto di custodia attenuata per detenute madri di Lauro e al suo bambino eravamo riusciti a trovare una sistemazione in una casa d’accoglienza, ma, dopo avermi ringraziato, mi ha comunicato che preferiva rimanere in Istituto, perché lì ha possibilità di lavorare e il figlio di frequentare l’asilo. Questa storia, a mio avviso, è emblematica, perché mi convince sempre più che, accanto alla civile abitazione, è fondamentale attuare servizi e garantire diritti”. Come funziona nel resto dell’Europa - Secondo Space, l’ultimo rapporto sulle carceri del Consiglio d’Europa, a gennaio 2020, nei paesi membri c’erano in tutto 1.608 bambini che convivevano con la madre in un istituto penale. Nei diversi paesi europei, il limite massimo di età per la permanenza dei bambini in carcere è variabile tra le nazioni. Nel Regno Unito, circa il 60% delle donne detenute ha figli minori, di cui solo il 3% ha la possibilità di tenere presso di sé il figlio. Il bambino può vivere con la madre detenuta fino ai 18 mesi di vita, ad eccezione di specifiche circostanze in cui i due possono risiedere nelle ‘mother and baby units’. Il termine massimo di età è invece di 3 anni in Portogallo e in Spagna, mentre in Finlandia il bimbo può vivere in carcere con la madre fino ai 2 anni. In Francia non è previsto un limite di età per il bambino ma l’età media è inferiore a un anno di vita. Stesse condizioni in Lussemburgo, dove la richiesta di ammissione del bambino viene analizzata a seconda del caso. I Garanti: “I detenuti devono poter votare” di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 giugno 2022 “Chi ha diritto a votare deve poter votare. Mettiamo i detenuti nelle condizioni di farlo, di esprimersi, di essere parte della comunità. I detenuti vanno informati. Non hanno internet. Vivono in una bolla pre-moderna. Dunque, aiutiamoli a esercitare i loro sacrosanti diritti politici”. A pochi giorni dal voto per le amministrative in alcune città e sui 5 referendum in materia di giustizia, la Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti e l’associazione Antigone hanno realizzato del materiale informativo da distribuire nelle carceri affinché l’esercizio di voto consapevole sia garantito anche ai reclusi. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, e Stefano Anastasia, portavoce dei garanti territoriali, nel presentare la campagna informativa rivolgono un appello al Dipartimento di amministrazione penitenziaria e ai Comuni competenti affinché si adotti “ogni misura volta a facilitare l’iscrizione nelle liste elettorali e il voto dei detenuti”. A cui spesso non è garantito questo diritto malgrado “corti nazionali e sovranazionali - prima tra tutte la Corte Costituzionale del Sud Africa con una sentenza del 1999 che è ormai una pietra miliare della giurisprudenza - ci hanno insegnato che il diritto di voto è ancorato al concetto di dignità umana e letteralmente significa che “everybody counts”, ognuno conta”. Dodici giugno, non è un voto contro la magistratura di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 2 giugno 2022 L’invito all’astensione, l’evocazione della complessità dei temi, l’allusione a disegni inconfessabili di cui i quesiti sarebbero solo l’esca per abbindolare gli “utili idioti”, calzano perfettamente per evitare di rimettere in discussione gli equilibri consolidati. Il referendum non viene visto come un tentativo, giusto o sbagliato che sia, di fronteggiare una crisi che tutti vedono e denunciano, ma come il redde rationem, la resa dei conti tra politica e potere giudiziario. Nel poco tempo che resta, sforziamoci per far capire che, ancora una volta, si finisce per votare un referendum senza che si sia potuto sviluppare il dibattito che il tema merita. Il silenzio oggettivamente colpevole dei mezzi di informazione, che hanno sinora dedicato lo “zero virgola” del tempo (dati Agcom) a questo appuntamento, concorre a schiacciare il dibattito sulle semplificazioni asfittiche delle quali siamo ormai tutti vittime da decenni. E così il referendum non viene più visto come un tentativo, giusto o sbagliato che sia, di fronteggiare una crisi che, dal Presidente della Repubblica in giù, tutti vedono e denunciano, ma come il redde rationem, la resa dei conti nel conflitto tra politica e magistratura. La questione diviene dunque quella di schierarsi non a favore o contro una proposta, ma a favore o contro un intero corpo, i magistrati. Dagli uni visti come l’avamposto millenaristico contro la corruzione di un mondo in mano alle forze oscure del male e, dagli altri, come un centro di potere fuori controllo corporativo, mascherato con le vesti del giustiziere. Del resto, nello “zero virgola” del tempo, c’è solo lo spazio per gli opposti schematismi. E così il fatto che ci sia un numero sorprendentemente alto di pubblici ministeri che si sono buttati a capofitto nella campagna per il NO (i giudici sono infinitamente di meno) costituisce una prova sia per gli uni che per gli altri delle proprie ragioni. Per gli uni, segno che la magistratura italiana è ormai in mano alle procure, che si schierano apertamente a difesa di interessi di casta presentati come interessi di tutti. Per gli altri, invece, segno del dovere morale e civile di impedire che ai cittadini sia sottratto lo strumento per tutelare interessi collettivi, altrimenti saccheggiati dalle forze oscure di cui sopra. Forze oscure che non esiterebbero a ridurre la protezione della sicurezza delle vittime dei reati più efferati (magari modificando le norme sulla custodia cautelare) pur di ottenere il conseguimento del vero obiettivo: mettere la museruola alla giustizia ripristinando il dominio della politica corrotta. La cosa grave non è solo che questo frontismo ideologico diventa, di fatto, un modo per eludere l’esame concreto delle questioni, che peraltro, sempre in quello “zero virgola” di tempo, difficilmente potrebbero essere approfondite. La cosa grave è che, in questo modo, i temi della giustizia appaiono ai cittadini, “cosa loro”, della politica e della magistratura, qualcosa che, in fin dei conti, non li riguarda. Del resto, si potrebbe dire, appartiene al buon senso di ciascuno affidarsi all’antico detto “male non fare, paura non avere”. Perché una persona per bene dovrebbe occuparsi della giustizia? Il problema però è proprio questo: la radice dell’attuale crisi è che, quel detto, è quotidianamente tradito. E per quanto possa apparire inconcepibile e contro natura che la giustizia possa produrre ingiustizia, per quanto sia tanto inconcepibile che la nostra mente, con un comprensibile riflesso psicologico, vuole negarlo, purtroppo accade. Lo dimostrano quei tre cittadini innocenti che ogni giorno vengono sottoposti a carcerazione preventiva. Se così non fosse, non ci sarebbe stato bisogno di millenni di riflessioni e di tentativi per ridurre il rischio di una giustizia “ingiusta”. La combinazione di questi due elementi (la riduzione dei problemi a “cosa loro” e la negazione istintiva della possibilità stessa dell’ingiustizia della giustizia per coloro che non l’abbiano sperimentato sulla propria pelle) rende molto efficace l’utilizzo di argomenti a effetto per dissuadere dal partecipare o per evocare minacce delle forze occulte, disposte persino a sacrificare la sicurezza dei cittadini per perseguire i propri obiettivi di potere. Così l’invito all’astensione, l’evocazione della complessità dei quesiti (perché, si sa, le cose complesse sono di per sé sospette), l’allusione a disegni inconfessabili di cui i referendum sarebbero solo l’esca per abbindolare gli “utili idioti” (i cittadini), calzano perfettamente per evitare di rimettere in discussione gli equilibri consolidati. Ci sono due risposte che si possono dare per arginare questa deriva. La prima è quella di continuare cocciutamente a cercare di discutere nel merito, disinnescando l’ipoteca ideologica e lasciando che ognuno si formi la propria opinione. Operazione difficilissima, ma che bisogna continuare a perseguire anche in quello “zero virgola” che si ha a disposizione. La seconda, invece, consiste nello smontare l’impalcatura ideologica, contestando in radice la premessa di partenza: che questo sia un referendum in cui si chiede di schierarsi pro o contro la magistratura. Per la semplice ragione, anch’essa però contrastata da una retorica tanto falsa quanto radicata, che non solo, com’è ovvio, ci sono magistrati e magistrati, successi ed errori, eccellenze e miserie nella magistratura, come in ogni campo dell’esperienza umana. Ma soprattutto che ci sono visioni diverse dei problemi e delle soluzioni dentro la stessa magistratura. E che l’unanimismo è una facciata che si può sgretolare (si veda l’insuccesso evidente, e presto dimenticato, dello sciopero dei magistrati), malgrado, in astratto, tra i rischi della corporativizzazione (dei magistrati, come di qualsiasi altra categoria) ci sia anche quello di un possibile conformismo strisciante, motivato dal quieto vivere. E invece bisogna non stancarsi di ricordare che l’immagine di unanimismo è, da sempre, un modo per banalizzare gli scontri e per praticare la logica - schiacciante e potente - di amico-nemico. La realtà però non è granitica, perché accanto ai Davigo che ieri sulle colonne de Il Fatto non esitava a definire “disgustoso” uno dei quesiti referendari e che in altre occasioni dichiarava che “il fatto di essere assolti non significa che siano tutti innocenti, anzi…”, ci sono anche altri magistrati, come Giovanni Falcone, il quale (lo ricordava il Dubbio di ieri pubblicando un testo da “La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia”) auspicava che si giungesse alla separazione funzionale tra pubblico ministero e giudice. Si tratta di differenze che non attengono solo ai singoli problemi, ma anche a visioni culturali dell’amministrazione della giustizia. Un magistrato come Falcone non avrebbe mai dichiarato che “il fatto di essere assolti non significa che siano tutti innocenti”, non perché sul piano empirico non possa accadere che un colpevole la faccia franca, ma perché la civiltà giuridica esclude che spetti al magistrato dichiarare o semplicemente alludere a una verità diversa da quella processuale. Anche quando ciò gli possa dare notorietà e successo di immagine e di pubblico. Il passaggio dal giudice del processo a giudice della verità è ciò che distingue due diverse visioni della giustizia. Visioni che si rispecchiano anche nel dibattito su questi referendum. Sono solo referendum, ma gli unici che abbiamo di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 2 giugno 2022 Aspettarsi la riforma fondamentale della giustizia, che gl’Italiani attendono da decenni, appare un pio desiderio. I referendum che andremo a votare il 12 giugno non risolveranno i mali, alcuni gravissimi, che affliggono l’amministrazione giudiziaria nel senso più ampio. Allora, perché votare? Perché il voto massivo, anche prescindendo dall’esito di ciascun referendum, costituirebbe quanto meno una dimostrazione d’interesse dei cittadini per le anomalie della funzione giurisdizionale. L’opinione pubblica, a riguardo, ha modo di esprimersi con i sondaggi e con i mezzi di comunicazione, ma senza ufficialità ed incisività. Non esistono le consultazioni generali sulla giustizia come sulla politica. Quindi bisogna votare se non altro per dimostrare, una volta per tutte, che i problemi della giustizia ci stanno davvero a cuore non meno dei tributi, dell’avvenire economico, della politica estera, e che, seppure divisi su questa o quella specifica norma sottoposta a referendum, intendiamo riaffermare che il popolo non si disinteressa della giustizia amministrata “in suo nome”. La partecipazione ai referendum costituisce un obbligo morale e politico proprio perché disertarli rappresenterebbe la prova a contrario dell’indifferenza e della sfiducia verso un’eguale giustizia rapida ed efficace, basilare nella società libera e democratica. Nella tornata referendaria che abbiamo davanti, l’obbligo è viepiù cogente perché i referendum sono intrecciati, sia quelli richiesti sia quelli ammessi, alla discussione parlamentare di proposte legislative del Governo con implicazioni europee dacché l’Ue ha sottoposto l’erogazione di una fetta del piano di rinascita alla condizione che la giustizia venga riformata in modo tale da avvicinarla ai migliori standard europei, quanto meno per la durata dei processi, attualmente insostenibile per il sistema politico e scoraggiante per chi debba ricorrervi o sottostarvi. Se in tutti i referendum vincessero i sì con il quorum di validità, sarebbe l’ottimo anche per i riflessi di tale esito sul corso delle riforme in Parlamento. Un secondo ottimo sarebbe in ogni caso l’affluenza elevata. Un quorum in una misura simile ai referendum sul divorzio e l’aborto darebbe la precisa e decisiva indicazione che l’elettorato considera prioritaria la riforma radicale della giustizia. Esistono tuttavia, in buona e cattiva fede, i partitanti che obiettano: “La riforma si fa in Parlamento”. Fosse vero! Quanto a questo, il Parlamento è dominato, si sa, da tre partiti: il partito dei magistrati, il partito degli amici dei magistrati, il partito degli intimoriti dai magistrati, il più numeroso ahimè. Tre partiti che costituiscono la tirannia dello status quo giudiziario, più o meno. Questi tre partiti sorreggono il tempio delle vestali della Costituzione, le quali ne fronteggiano i potenziali profanatori con l’opporre la pericolosità delle riforme che tendano o tentino di alterare il “modellino” dei Costituenti. Sennonché, a parte alcune disposizioni sacrosante, è proprio nell’impianto generale della giustizia delineato nella Carta del 1948 che scorgiamo la radice dei molti mali che affliggono la magistratura e la giurisdizione. L’aver optato per magistrati formanti un ordine burocratico che si auto-amministra corporativamente ha determinato uno stato di cose emendabile soltanto nell’inessenziale. Rendere giustizia dipende meno dalla legislazione che dalla estrazione del giudice, tanto nel senso di humus giuridico e culturale quanto di investitura. A tal riguardo, il giudice britannico risulta esemplare. I politici italiani afflitti dagli anglismi sono sempre lì a invocare le best practices, così le chiamano. Perché non importano qualcuno degli ottimi istituti della giustizia inglese, che sono il meglio in assoluto? Deve sapersi che i più alti giudici di Sua Maestà (pressappoco un migliaio soltanto, a fronte di circa ventiduemila giudici di pace!) sono “rigorosamente nominati dal Governo tra i più brillanti avvocati del Paese e che la nomina costituisce tuttora la massima aspirazione dei migliori avvocati con almeno quindici anni di attività professionale… nel sistema inglese esiste pertanto uno stretto legame ed una notevole affinità tra la magistratura e l’avvocatura… l’ufficio giudiziario non costituisce una carriera e l’assenza di un sistema di promozioni è ritenuta dai giudici come una salvaguardia fondamentale della propria indipendenza” (Francesco de Franchis, Law dictionary, Milano, 1984). Sapienza giuridica, equilibrio personale, probità morale fanno dunque scegliere dal Governo il giudice Oltremanica, non il concorso in magistratura all’italiana. Vero che, secondo Indro Montanelli, diventare britannici è impossibile. Soggiungeva, però, che provarcisi risulta utile comunque. Ciò premesso e considerato, i referendum sono cinque, così esposti in sintesi. Elezione dei membri “togati” del Csm. Se vincessero i sì decadrebbe l’obbligo della raccolta di firme e il singolo magistrato potrebbe presentare la propria candidatura in autonomia, liberamente, senza l’appoggio di altri magistrati e di loro “correnti politiche”. Valutazione della professionalità dei magistrati. Se vincessero i sì, avvocati e docenti avrebbero diritto di voto nel Consiglio direttivo della Cassazione e dei Consigli giudiziari in modo da rendere meno corporativi i giudizi sull’operato dei magistrati, oggi rimessi a loro stessi soltanto. Separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati. Se vincessero i sì, a inizio carriera il magistrato dovrebbe scegliere definitivamente tra la funzione giudicante e la funzione requirente. Non potrebbe più passare dall’una all’altra. Sarebbe così garantita la netta separazione tra accusatori e giudici. Limitazione delle misure cautelari. Se vincesse il sì, la custodia cautelare sarebbe limitata ai casi in cui l’imputato risulta effettivamente pericoloso. Infatti la restrizione della libertà motivata con la possibile reiterazione del reato è stata abusata dalla magistratura. Abolizione del “decreto Severino”. Se vincerà il sì anche ai condannati in via definitiva verrà concesso di candidarsi o di continuare il proprio mandato e verrà cancellato l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva. Come accadeva fino al 2012, prima dell’entrata in vigore del “decreto Severino”, torneranno a essere i giudici a decidere, caso per caso, se in caso di condanna sia necessario applicare o meno come pena accessoria anche l’interdizione dai pubblici uffici, che implica conseguenze analoghe a quelle del “decreto Severino”. In conclusione, nel presente contesto giudiziario la vittoria dei sì in ciascuno dei referendum, dove più dove meno, costituirebbe in ogni caso un passo avanti, un sicuro miglioramento. Gli scettici su tali quesiti, ma non indifferenti alla “questione giustizia”, dovrebbero nondimeno astenersi nel votare, non dal votare. Falso dire che il referendum sulla custodia cautelare lascerà le donne in balia dei loro aggressori di Simona Viola* Il Dubbio, 2 giugno 2022 La misura restrittiva continuerà ad agire per chiunque eserciti violenza di genere. È vero che l’accoglimento del referendum sulla custodia cautelare lascerebbe escluse dalla applicazione delle misure cautelari tutte quelle violenze di genere che vengono commesse in altro modo (dalla violenza fisica ndr) e che sono anche la maggior parte: le violenze psicologiche o economiche, i maltrattamenti in famiglia con minacce o gli atti persecutori come lo stalking ad esempio? Lo scrive Giulia Siviero nell’articolo “Uno dei referendum mette in pericolo le donne” pubblicato su L’Essenziale il 28 maggio 2022, e lo sostiene anche Walter Verini, responsabile giustizia del PD, sul Sole24ore del 31 maggio. Cercherò di chiarire perché non è vero. Occorre innanzitutto rileggere insieme gli effetti del quesito sull’art. 274 c. p. e dunque enucleare la normativa di risulta. Le misure cautelari sono disposte: “quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. E di seguito la parte oggetto del quesito abrogativo: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni”. E poi riprende: “Le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede” Dunque perché temere che le donne che subiscono la violenza (di genere) non saranno tutelate? La norma residuale non lascia la violenza di genere in balìa, così si legge, della valutazione interpretativa di ogni singolo giudice: al di là del fatto che qualunque misura giurisdizionale è frutto della libera interpretazione delle norme da parte del giudice, l’ordinamento e la giurisprudenza impongono già di estendere la misura anche a chi si teme non già che faccia uso di violenza fisica in senso stretto nei confronti delle donne, ma che possa usare altri mezzi di coartazione. Se nei confronti di una donna è stata usata violenza - e anche la violenza psicologica e i maltrattamenti sono violenza - la custodia cautelare continua ad essere applicabile. Nel diritto penale ogni forma, anche minima, di privazione della libertà di autodeterminazione è “violenza”: si pensi al delitto di violenza privata o alla giurisprudenza che integra la violenza sessuale nel caso di una pacca sulle natiche. La sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato la ammissibilità del referendum opportunamente ricorda che alla previsione che potrebbe residuare dall’eventuale abrogazione referendaria, poi, si correlerebbe, senza frizioni sistematiche, quello che costituisce effettivamente l’ultimo inciso della previsione in parola, secondo cui “le situazioni di concreto e attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”, una previsione di chiusura che lascia evidentemente all’interprete ampi margini di valutazione e operatività nei casi più critici. La Corte si è anche interrogata sul coordinamento tra la normativa di risulta e le altra norme del sistema, confermando analiticamente che il quesito non ha mancato di includere alcuna disposizione funzionalmente collegata a quella di cui si chiede l’abrogazione, sicché non vengono minate ne ´ la sua coerenza, ne ´ la sua completezza, in tal modo smentendo l’assunto della rottura di un equilibrio all’interno del codice penale. Chi lancia l’allarme, scrive anche di temere la problematicità della situazione in cui versano le procure e l’insufficiente consapevolezza della complessità della materia, ma così facendo opera una confusione di piani che è ingannevole: un conto sono le inadeguatezze culturali dei magistrati o le carenze amministrative, cui occorre ovviamente porre rimedio, altra faccenda sono le esigenze cautelari: non possiamo lasciare che 1.000 persone all’anno vengano ingiustamente detenute solo perché si teme che al magistrato non basti “il pericolo di commettere gravi delitti con la violenza personale” e gli occorra invece il ricorso alla recidiva specifica, per infliggere a chi abbia usato violenza su una donna una misura cautelare (oltretutto in un contesto, come quello italiano, in cui regna l’abuso per eccesso e non certo per difetto). In definitiva l’allarme muove da un presupposto sbagliato: ovvero che la violenza di genere possa essere compiuta anche senza mezzi di violenza personale. In realtà la violenza di genere è quasi sempre compiuta con mezzi che l’ordinamento e la giurisprudenza considerano già mezzi di violenza personale, e quando tale violenza non ci sia, occorre allora riconoscere che non c’è propriamente “violenza di genere” e soprattutto che non sussistono esigenze cautelari. La stessa rigorosa attenzione che doverosamente riserviamo alla libertà delle donne, che non deve essere coartata o incisa con alcun mezzo violento, dobbiamo infatti riconoscere anche all’indagato, che - se non vi è timore che usi mezzi violenti - merita di continuare a godere delle sue libertà personali fino a sentenza definitiva. *Responsabile Giustizia +Europa Conte: “Il referendum sulla giustizia è una vendetta politica contro i pm” di Liana Milella La Repubblica, 2 giugno 2022 Il presidente del Movimento 5 Stelle contro i quesiti proposti da Lega e Radicali per la consultazione del 12 giugno. Meloni: “I cittadini hanno diritto di esprimersi”. Serracchiani (Pd): “La riforma si deve fare in Parlamento, per questo voteremo no”. “I referendum, così come sono concepiti, sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. Queste le parole di Giuseppe Conte da Cuneo rispetto ai cinque quesiti referendari del 12 giugno sulla riforma della giustizia. “La magistratura - ha proseguito il leader del Movimento 5 Stelle - ha delle colpe, tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perchè noi siamo assolutamente contrari al referendum continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”. Di referendum ha parlato ancche Giorgia Meloni, secondo cui intorno alla consultazione del 12 giugno “c’è un silenzio dilagante. Le forze che si muovono contro la riforma della giustizia si stanno organizzando bene. Noi di Fdi siamo favorevoli al pronunciamento dei cittadini sulla giustizia, tema sul quale il Parlamento ha storicamente difficoltà a legiferare”. Diversa la posizione del Pd, ricordata dalla capogruppo dem alla Camera, Debora Serracchiani, a Mattino Cinque: “Ci siamo espressi per il no, pur lasciando libertà di scelta e chiedendo agli italiani di andare a votare, perché riteniamo che la riforma della giustizia si debba fare in Parlamento”. Del resto, prosegue, i quesiti referendari “non hanno nulla a che fare con la riforma, non risolvono i problemi della giustizia, primo tra tutti quello della durata ragionevole dei processi”. Parlando del salario minimo, Conte ha ribadito che si tratta di una battaglia dei 5S, “una bandierina di 4 milioni e mezzo di lavoratori che prendono paghe da fame: tre, quattro, cinque euro l’ora. Adesso - ha aggiunto - vediamo che c’è una maggiore sensibilità, iniziano a fioccare dichiarazioni di sostegno. C’è un progetto di legge al Senato, lo possiamo approvare in tempi brevi”. Poi un accenno alla guerra in Ucraina e alle nuove sanzioni varate dall’Ue contro Mosca. “Siamo favorevoli anche a questa nuova linea di sanzioni, ma dobbiamo lavorare perché il tutto si accompagni anche a una decisa sterzata verso i negoziati di pace. Non possiamo affidare tutto a una escalation militare”. “Separare le funzioni? Sì, ma è un primo passo per separare le carriere” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 giugno 2022 Il professor Alessio Lanzi è consigliere laico del Csm. Giunto quasi al termine della consiliatura traccia un bilancio della sua esperienza a Palazzo dei Marescialli ed espone il suo punto di vista su alcuni quesiti referendari. “Non sono d’accordo - dice al Dubbio - con chi afferma che questo è il peggior Csm degli ultimi anni. Questa non è stata l’unica consiliatura con problemi di correntismo” Consigliere Lanzi, il referendum sulla separazione delle funzioni dei magistrati sta suscitando un dibattito molto vivace. Cosa ne pensa e qual è il suo orientamento? Il mio orientamento è conosciutissimo da almeno dieci anni, quando sono andato in audizione parlamentare sul progetto costituzionale di riforma per la separazione delle carriere. Sono stato e sono tuttora favorevole alla separazione delle carriere. Nel quesito del referendum, è bene evidenziarlo, si parla di divisione delle funzioni. La divisione vera e propria delle carriere darebbe origine invece ad una questione di riassetto costituzionale. La Costituzione, in effetti, prevede un unico ruolo come magistratura e parla di funzioni. La separazione delle funzioni è costituzionalmente legittima ed io sono favorevole. Ma badiamo bene, si tratta di un primo passo. La vera riforma sarebbe quella della separazione delle carriere, il che significa prevedere anche diversi Csm. Uno per i pubblici ministeri, uno per i giudici. Un Csm doppio, ognuno con le sue garanzie. Il referendum è per abrogare le norme che consentono il passaggio dall’una all’altra funzione. Invece, il provvedimento legislativo, già approvato dalla Camera, prevede che soltanto una volta si possa cambiare funzione. Un altro quesito referendario delicato concerne la partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari… Il quesito che lei ha richiamato mi sta particolarmente a cuore. Sono stato nel Consiglio giudiziario della Corte d’appello di Milano per quattro anni. È un tema che sento molto. In linea di massima, potrei anche non essere favorevole a questo quesito. Le critiche che si fanno hanno qualche fondamento. Però, bisogna fare i conti con la situazione attuale. Nei Consigli giudiziari i pm partecipano a tutto e votano per i giudici. Gli avvocati, invece, sono estromessi dal Consiglio cosiddetto “ristretto” e non votano sulle valutazioni di professionalità. L’attuale sistema non mi convince perché non c’è parità. Se si arrivasse alla separazione delle carriere, il discorso sarebbe diverso. Gli ultimi due-tre anni sono stati caratterizzati da una maggiore dialettica, ma anche da maggiori tensioni tra avvocatura e magistratura? È difficile generalizzare. Parliamo prima di tutto di problemi fra le persone. Nella mia esperienza professionale (Lanzi è anche avvocato, nda) sono sempre andato d’accordo e ho rispettato i magistrati. Ho trovato quasi sempre delle persone molto aperte al dialogo. Mi riferisco sia ai pubblici ministeri che ai giudici. Quello che è più importante è che tutti remino nella stessa direzione: garantire il servizio giustizia. Alcuni, ma entriamo nella sfera caratteriali, si arroccano sulle proprie posizioni, senza accettare un dialogo liberale. Secondo me, si tratta di una situazione non legata ad un particolare periodo storico, ma di personalità degli uomini. Il Csm è stato scosso dal caso Palamara che ha travolto la magistratura. Una brutta pagina del nostro Paese? Il problema delle correnti e del correntismo o meglio la sua degenerazione è un fatto che, purtroppo, c’è da sempre. Questa volta è stato svelato per una serie di situazioni, di contingenze. C’è stato il trojan nel telefonino di Palamara. Sono state svelate e portate a conoscenza di tutti delle cose abbastanza risapute. Il fenomeno delle correnti che degenera in correntismo va combattuto anche perché ormai è conosciuto. In concreto però è difficile. L’esistenza delle correnti è fisiologica, probabilmente, perché ogni categoria professionale si aggrega per affinità di opinioni, di culture, di idee. Che si creino dei gruppi di persone che la pensano allo stesso modo è normale. Il problema sorge quando uno dei gruppi, una delle correnti prevarica sulle altre. Emargina coloro che non appartengono a nessuna corrente, tratta sottobanco. Si vedono dei tentativi, seppur timidi, di risolvere questo problema. Il referendum va in questa direzione. Il tema delle elezioni per collegi aggregati, portato dalla riforma Cartabia, potrebbe apportare qualche miglioramento. Ma il tema vero è un altro. Quale? Per evitare il fenomeno del correntismo bisognerebbe mettere dei limiti alle elezioni dei componenti togati del Csm. Se c’è un elettorato e c’è un eletto, ci sarà anche il riferimento dell’eletto rispetto al suo elettorato. Non parlo di un vincolo di mandato, ma, quando i soggetti sono pochi, è facile che l’elettorato controlli l’eletto. È stata avanzata l’ipotesi del sorteggio temperato, ma emergono problemi di costituzionalità. Secondo me, per incidere bisognerebbe intervenire a monte, sui meccanismi elettivi. Da tempo, inoltre, sostengo che nella nomina per gli incarichi direttivi e semi-direttivi il voto sia segreto e non palese. Con il voto segreto l’eletto si sentirebbe più libero di apparire al suo elettorato in un certo modo. Qual è il bilancio della sua esperienza nel Consiglio superiore della magistratura? È un’esperienza molto utile. Ho vissuto situazioni che dall’esterno non si percepiscono. Ho molto apprezzato il fatto che si lavori tanto, in una struttura al tempo stesso duttile. Ci sono tante esperienze e tante competenze che si confrontano in continuazione. Al tempo stesso constato un po’ di burocrazia. L’esperienza qui al Csm è molto interessante anche per la dialettica con tanti magistrati con i quali si possono avere opinioni diametralmente opposte, ma che sono utili al confronto. Dire che questo è il peggior Csm degli ultimi anni non risponde al vero. Ingiusta imputazione, un risarcimento per frenare la caccia alle streghe dei pm di Giovanni Varriale Il Riformista, 2 giugno 2022 La riforma del processo penale voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia è stata a lungo discussa, soprattutto in riferimento alla volontà di ridurre drasticamente i tempi del processo penale che, da molti operatori del diritto, viene considerato lesivo dei diritti costituzionali. A ben vedere, tutti gli ultimi interventi legislativi in tema di giustizia hanno avuto quale fine ultimo quello di ridurre il numero di processi nelle aule di giustizia senza però pregiudicare la tutela dei diritti dei cittadini. Proprio in quest’ottica, già con la riforma Orlando prima e con la riforma Bonafede poi, si era provato sia ad aumentare il numero dei reati procedibili a querela, così da subordinare l’azione penale alla volontà della persona offesa dal reato, sia a eliminare l’istituto della prescrizione, in modo da rendere praticamente sempre esigibile la eventuale pretesa di condanna da parte dello Stato. La riforma Cartabia, se possibile, cambia del tutto prospettiva. Infatti, se il fine ultimo resta quello di ridurre il carico di procedimenti pendenti nelle aule di giustizia, il modus agendi attraverso il quale ottenere tale risultato, è del tutto innovativo. Invero lo scopo della attuale riforma è quello di intervenire sin dalle fasi delle indagini preliminari, nel corso della quale, alle Procure viene chiesto un lavoro di accurata valutazione rispetto ai procedimenti per i quali richiedere il rinvio a giudizio. Infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, le Procure saranno chiamate a svolgere un vaglio tra quei procedimenti che, così come recita la norma, possano giungere ad una sentenza di condanna e quelli, invece, destinati a una archiviazione. È chiaro come la ratio non sia quella di affidarsi alle capacità indovine dei Pm né tanto meno quella di pretendere che si svuotino le aule di giustizia, bensì l’intento della riforma appare quello di evitare che le Procure possano, magari ingolosite dal risalto mediatico che potrebbe avere un determinato processo, intraprendere, come per altro spesso successo, una caccia alle streghe. Proprio, sulla scorta della necessità di responsabilizzare le Procure, viene introdotto un nuovo e rivoluzionario istituto, ovverosia quello della riparazione per ingiusta imputazione, che si affianca al già presente istituto della riparazione per ingiusta detenzione. L’introduzione del suddetto rimedio riparativo vede la sua essenza proprio nella necessità, percepita a buon diritto dal Legislatore, di tutelare coloro i quali si trovino ad affrontare ingiustamente un processo penale. Tale aspetto non può in alcun modo essere sottovalutato, poiché sono svariati i pregiudizi che un soggetto, seppur non detenuto, debba subire quando veste i panni dell’imputato. Infatti, si va dall’annoso problema del c.d. carico pendente che comporta una serie di limitazioni (non poter partecipare ad un concorso pubblico) o mere lungaggini burocratiche (es rilascio del passaporto), fino alla necessità di dover sopportare le annose spese legali. Finalmente il Legislatore sembra aver empatizzato con i cittadini che, con troppa facilità, loro malgrado, si trovano avviluppati nel turbinio delle maglie di una giustizia spesso veloce nelle fasi di rinvio a giudizio e lenta nei momenti successivi. Aver quindi previsto l’istituto della riparazione per ingiusta imputazione appare, a parere di chi scrive, essere non solo dimostrazione di grande civiltà ma anche dimostrazione concreta di effettivo garantismo. In conclusione, il progetto di riforma appare particolarmente ambizioso ma interessante e soprattutto innovativo poiché richiede un cambiamento di approccio da parte degli operatori del diritto sin dall’iscrizione della notizia di reato. Caro dottor Gratteri, se si suicidassero i tanti innocenti finiti in galera sarebbe una strage di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 2 giugno 2022 Venerdì scorso è stato sciolto il Consiglio comunale di Portigliola, un piccolo paese nel cuore della Locride. Dimenticate per un solo attimo il fatto che si tratta d’un piccolo Comune e riflettete sugli effetti che la catena di scioglimenti che ha riguardato la Locride e la Calabria intera, potrebbe avere sulla crescita e legittimazione della ‘ndrangheta in un territorio difficile. Il sindaco e i consiglieri comunali di Portigliola sono incensurati ma ciò in Calabria, come in ogni Stato di polizia che si rispetti, vale meno che niente. Ovviamente in Italia nessuno si accorgerà delle vicende di Portigliola e nella stessa Calabria la notizia non avrà risonanza alcuna. Gli amministratori del piccolo comune calabrese sono stati destituiti da un mandato ricevuto dal popolo, messi ai margini con “disonore” e senza dar loro alcuna possibilità di difendersi in un tribunale della Repubblica. Sanno che da questo momento in poi chiunque potrà dire di loro che sono “segnati” da una “misura di prevenzione” ledendo la loro dignità e il loro onore. Molti di loro si ritireranno della vita pubblica, altri non si riconosceranno più in questo Stato e coveranno rabbia e rancore verso i responsabili dello scioglimento del consiglio comunale nel quale erano stati democraticamente eletti. In qualche caso la rabbia diventerà ostilità verso lo Stato e quindi rivolta individuale che, in quanto tale, è destinata a formare l’humus necessario per fertilizzare il terreno in cui cresceranno le nuove leve della mafia. La ‘ndrangheta che cresce e si diffonde in Italia nasce in questa terra ed è figlia di tale meccanismo perverso che viene spacciato come lotta alla mafia. Sono certo che coloro che hanno promosso e decretato lo scioglimento non siano sciocchi perché sanno che il bersaglio è stato comunque colpito dal momento che la gente comune avrà la sensazione che la lotta alla “mafia” continua.... contro gli innocenti! Anticipo la possibile eccezione: perché la rivolta individuale non diventa collettiva e perché nessuno, o quasi, denuncia una tale situazione? Perché la Calabria è avvolta in una cappa di paura che diventa omertà e quindi altro concime per la ‘ndrangheta. Se avessi avuto la forza avrei voluto discutere di questi temi in occasione del trentesimo anniversario della strage di Capaci e sarebbe stato interessante domandare agli “esperti” perché la mafia è stata sconfitta mentre la ‘ ndrangheta è diventata più forte, più ricca, più “rispettata”, più temuta; ha fondato “colonie” in tutta Italia e in Europa, ha il monopolio del traffico di cocaina. Riina e soci hanno commesso l’errore di passare da una scellerata “alleanza” con gli apparati statali alla sfida allo Stato mentre la ‘ndrangheta si è acquatta alla sua ombra. Anzi, da anni la ‘ndrangheta non uccide più o quasi, ha messo fine alle faide di paese, punisce severamente chiunque si dovesse dimostrare irriguardoso o violento verso gli uomini dello Stato. Non c’è guerra allo Stato da parte della ‘ndrangheta mentre non ci vuole la zingara per capire che, molto spesso, mafia e “antimafia” combattono una guerra finta le cui vittime certe sono soprattutto gli ignari (ma non tanto) cittadini calabresi. A questo punto so che qualcuno si porrà la domanda: è possibile che la situazione sia questa? Mi pongo anch’io la stessa domanda: è possibile? Se ne avessi la possibilità chiederei un’inchiesta delle “gradi firme” del giornalismo italiano sulla situazione calabrese. Intanto cerco sinceramente di trovare delle risposte da parte di studiosi ed esperti. Il dottor Gratteri si è autodefinito uno dei massimi esperti al mondo in materia e io ho seguito con interesse il suo tour televisivo sperando che desse delle risposte ma, lo dico senza sarcasmo, quando va in televisione il procuratore di Catanzaro preferisce “ballare” da solo. Così, ad esempio, può dire che la ‘ndrangheta sfrutterà la guerra in Ucraina per rifornirsi d’armi, magari cannoni, carri armati e obici come se i mafiosi dovessero combattere una battaglia campale. I mafiosi non dispongono di combattenti ma di sicari che uccidono a tradimento, tendono imboscate, opprimono i deboli, non toccano i “forti”. E per la loro “guerra” hanno armi a sufficienza. Inoltre il procuratore di Catanzaro, come di consueto, ha attaccato con grande accortezza la “politica” mettendo in campo un’abile strategia comunicativa destinata a un sicuro ritorno di popolarità. Come sempre i “politici”, salvo qualche eccezione, non rispondono, un po’ per calcolo e un po’ per viltà così che Gratteri non ha bisogno di fare neanche un minimo di auto- critica. Per esempio, ha affermato che durante la stagione di “mani pulite” tanti politici si sono suicidati per un semplice avviso di garanzia mentre oggi hanno l’ardire di voler continuare a vivere e magari di dichiararsi innocenti perché sono innocenti. Non c’è più “religione”, signora mia. Ma sarebbe stato facile obiettare che se il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa indiziato di concorso esterno, Mario Oliverio, già presidente della Regione (confinato), o Mimmo Tallini, presidente del consiglio (arrestato) e soprattutto e innanzitutto le migliaia di persone “senza nome” che in Calabria sono finiti in galera senza colpa si fossero suicidati sarebbe stata una strage di innocenti da far invidia ad Erode. Ma chi farà mai queste domande pur poste con il dovuto rispetto e tutto il garbo del mondo? Giustizia, il nuovo bavaglio all’informazione di Paolo Colonnello La Stampa, 2 giugno 2022 Se è vero che la strada per l’Inferno è lastricata di buone intenzioni, allora la riforma Cartabia, in tema di libertà di stampa, equivale a un’autostrada la cui destinazione è il bavaglio dell’informazione. Sotto la voce di “presunzione d’innocenza” si rischia infatti non solo di rendere le Procure luoghi vietati ai giornalisti, come è già accaduto a Torino e in altre città d’Italia, ma di ingabbiare la cronaca nera e giudiziaria in una serie di sterili comunicati teleguidati da algidi procuratori con la reintroduzione del concetto delle “veline di regime”: in particolare dove si stabilisce che le notizie “autorizzate” veicolate alla stampa debbano avere “attinenza alle indagini” (e ci mancherebbe) e “un interesse pubblico”. Già nella scelta delle parole, cioè notizie “autorizzate” e di “interesse pubblico” non può che intravvedersi un’attribuzione impropria ai procuratori - che sono comunque delle parti del processo e quindi intrinsecamente privi di terzietà - di compiti di inevitabile censura, intollerabili in un Paese democratico. Se poi si considera che la norma prevede per la maggior parte dei casi “l’esclusivo” utilizzo dei comunicati stampa, si può ben capire che ai giornalisti viene vietato perfino di porre domande. Il diritto di cronaca non è un’invenzione dei giornalisti ma un principio garantito dall’articolo 21 della Costituzione, essendo l’esercizio della ricerca delle notizie e la loro pubblicazione uno dei pilastri delle società democratiche. Tutelati dalla Costituzione sono anche i diritti degli individui, compresa la presunzione d’innocenza. Far prevalere però con un articolo di legge uno dei due diritti, nella difficile e quasi quotidiana ricerca di equilibrio tra questi due capisaldi democratici, è come truccare la partita e apre la strada a un sogno sempre accarezzato da chi sta al potere: controllare l’informazione. Anche e soprattutto in tema di cronaca giudiziaria dove, com’è noto, spesso si consumano vicende sgradite al potere: dalla corruzione alle grandi scalate finanziarie, fino ai delitti di sangue che spesso si rivelano un formidabile termometro per la febbre del disagio sociale (non a caso la cronaca nera venne sostanzialmente vietata durante il fascismo). Impedire all’informazione di avere un libero accesso a possibili fonti e attribuire a un inquirente il potere di stabilire cosa sia di “pubblico interesse” e cosa no, è semplicemente un arbitrio che nulla ha a che fare con la presunzione d’innocenza. Nessuno nega che l’incontinenza verbale espressa in certi titoli o articoli non sia più accettabile e che il vezzo del processo mediatico sia francamente intollerabile e fuorviante. Ed è giusto che venga vietato agli inquirenti o alle forze dell’ordine di intitolare le loro inchieste con nomi suggestivi e inevitabilmente colpevolisti. Ma il diritto di cronaca è altro. È la possibilità di poter controllare direttamente una notizia, di poter fare domande ai protagonisti di un’inchiesta, siano essi indagati, avvocati o magistrati. È infine poter avere anche accesso agli atti, almeno quelli depositati e a disposizione delle parti, per non alimentare il mercato nero delle “carte” che ingrassa ogni volta che si pongono limiti cogenti. Si dice: “Ce lo chiede l’Europa”. Ma cosa ci chiede precisamente l’Europa? Che le persone “non vengano presentate come colpevoli” nelle pubbliche dichiarazioni. Imparino i magistrati e i procuratori un linguaggio nuovo allora e non si cerchi di mettere il bavaglio all’informazione. Targetti: “La verità in mano a 150 persone, il potere pubblico così mi inquieta” di Francesco Grignetti La Stampa, 2 giugno 2022 L’ex procuratore aggiunto di Milano: “Non c’è una regola su cosa meriti di essere diffuso. Garanzie giuste, ma i procuratori scelgono cosa si deve sapere e cosa no: non mi piace”. Davvero troppo facile, rifiutarsi di dare ogni notizia per evitare rogne. Riccardo Targetti, una carriera lunghissima in magistratura, culminata con i mesi di reggente alla Procura di Milano dopo l’uscita di Francesco Greco, non ha mai nascosto le sue perplessità attorno alla legge che limita le informazioni ai giornalisti in nome della presunzione d’innocenza, ma è ancora più critico quando sente che molti suoi ex colleghi si sono rifugiati nel manzoniano “troncare e sopire”. Sospira: “C’è un nodo di fondo”. Quale nodo? “Che la legge affida a 150 singole persone in Italia, i procuratori, il rubinetto dell’informazione. Spetta a loro decidere che cosa comunicare e che cosa no. Da cittadino mi sento di dire che è una scelta che mi inquieta. Non mi sembra troppo in linea con i principi democratici. E poi, come faccio, io magistrato, a stabilire che cosa è una notizia di pubblico interesse e che cosa no? Non è il mio mestiere”. E forse non è neanche il caso che lo sia. Anche se la legge parte da principi condivisibili, o no? “Sicuramente. Giusto richiamare tutti, magistrati avvocati e giornalisti, al rispetto delle persone e quindi a non sbattere il mostro in prima pagina. Altrettanto giusto far capire a che punto si è del grado di giudizio, fintanto che non è quello definitivo. Mi piace particolarmente, poi, il divieto di citare per nome e cognome il pubblico ministero che segue un’indagine: l’accusa va spersonalizzata, è lo Stato attraverso un ufficio che conduce un’inchiesta, non il singolo. Detto ciò, questa legge è andata oltre”. Lei, da procuratore facente funzioni di Milano, si è trovato a gestire la novità... “Ho fatto una circolare applicativa di una legge che pure mi suscitava molte perplessità, e di cui ho debitamente dato notizia attraverso una conferenza stampa alla Casa della stampa. Ho stabilito alcuni punti fermi: tutto ciò che è al di fuori dell’indagine penale non è soggetto ad alcun vincolo. Poi ci siamo regolati con una certa liberalità nei comunicati perché serviva una valvola di sfogo. Ne facevamo due al giorno. Da un certo momento ho anche delegato i miei aggiunti a fare i comunicati, perché Milano è una procura troppo vasta, non potevo passare tutto il mio tempo a scrivere io le notizie, né potevo avere seguito in dettaglio tutte le inchieste”. Il capo ha l’onere di decidere che cosa meriti di essere comunicato. Ovviamente si tratta di bilanciare interessi contrapposti. Lei come si regolava? “Il problema è tutto qui. Non c’è e non ci può essere una regola. Ci può essere il caso in cui è utile all’indagine diramare una certa notizia, per vedere l’effetto che fa negli ambienti dove sto indagando. E fin qui è facile. Ma quanto all’interesse pubblico, se pensiamo alla procura di un piccolo centro, allora anche piccoli reati possono essere di interesse pubblico. In grandi città, cambia la scala, ma può entrarci la gravità del reato e anche la notorietà della persona indagata, che può essere di tipo politico, sociale, culturale, e persino - perché no? - calcistica. È evidente che è una spirale incontrollabile”. Quando una persona viene arrestata, è su ordine motivato di un giudice. Possibile che l’opinione pubblica non ne venga informata e che una persona sia inghiottita dal carcere senza che nessuno possa controllare? “Guardi, sfonda una porta aperta”. A Torino come altrove, per evitare guai, i procuratori si sono chiusi a riccio... “Continuo a non capire come è possibile che si sia affidata ai procuratori la decisione su che cosa è di interesse pubblico. Mi sembra fuori dal mondo. In pratica il potere pubblico decide quello che l’opinione pubblica deve sapere. Scusate, ma non mi piace”. Lazio. Election day anche per i detenuti, ma sarà la solita “farraginosa trafila” adnkronos.com, 2 giugno 2022 Referendum e Amministrative, il 12 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne. Tra loro i detenuti elettori: anche se c’è d’aspettarsi (non una novità) una percentuale minima di chi eserciterà il proprio diritto al voto nelle carceri. In particolare, nel Lazio saranno 53 le amministrazioni comunali che si rinnoveranno. “La richiesta per accedere alla votazione da parte dei detenuti è una procedura piuttosto farraginosa, che rischia ogni volta di essere infruttuosa: in vista di consultazioni elettorali, serve non solo informare dell’opportunità di votare ma farlo tempestivamente”, spiega all’Adnkronos Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio e portavoce della Conferenza del Garanti territoriali. “Dalla tessera elettorale che spesso non hanno con sé all’accesso al voto, succede di frequente che i detenuti, seppure informati, non hanno il tempo di organizzarsi. Una trafila - sottolinea - che andrebbe snellita perché altrimenti a vincere è la burocrazia a dispetto di un diritto fondamentale”. “Il diritto di voto va garantito ai detenuti - rimarca - A mio avviso, peraltro, andrebbe consentito anche ai condannati con pene più alte”. Anastasìa fa poi notare che “alcuni dei quesiti referendari trattano questioni d’interesse per la popolazione detenuta. Sarebbe quindi auspicabile una larga partecipazione, ma siamo abituati a cifre irrisorie di detenuti votanti, con percentuali al di sotto del 10%”. È un tema che merita attenzione e “finora non c’è stata”, secondo il Garante. La procedura prevede che “i detenuti debbano fare materialmente richiesta per poter votare - ricorda Anastasìa - Un’operazione preliminare anche lunga se consideriamo che molti detenuti non sono residenti nel luogo dove sono ristretti. Per questo, le informazioni (assicurarle è compito dell’Amministrazione penitenziaria) devono essere date in tempo”. Sempre riguardo alle informazioni sulla procedura di voto, “dipende poi - continua il Garante dei detenuti del Lazio - anche dalla sensibilità degli operatori, dalla capacità organizzativa degli istituti: c’è disomogeneità, posti dove c’è più attenzione, sia da parte degli operatori che dei detenuti, e posti in cui ce n’è meno. Ho visto funzionare molto bene l’ufficio elettorale di Regina Coeli. È un carcere di primo ingresso, molte persone sono in custodia cautelare, l’istituto si è organizzato con l’ufficio elettorale centrale del Comune per garantire anche alle persone arrivate da pochi giorni di poter effettivamente esercitare il proprio diritto di voto”. Da parte sua, Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali, dice di essersi recato proprio ieri a Rebibbia nuovo complesso, che ospita più di mille detenuti: “la direzione mi ha spiegato che i detenuti sono stati informati sulla procedura per poter votare e alcuni hanno già inoltrato la domanda. Nei prossimi giorni mi recherò anche in altri istituti della regione per procedere alla stessa verifica”. Ma - osserva poi Capriccioli - quello del voto è soltanto uno dei diritti che viene esercitato con difficoltà, tutta la vita delle persone detenute è caratterizzata da procedure lente, arcaiche, farraginose e perciò penalizzanti: basti pensare ai tempi di attesa che talora sono necessari per affrontare le problematiche sanitarie, alla limitazione dei colloqui telefonici che causa l’introduzione illecita di cellulari nelle carceri e quindi è presupposto di sanzioni, al meccanismo delle ‘domandine’ scritte a mano che sono l’unico strumento per esprimere richieste e necessità”. Secondo il consigliere regionale occorre “una modernizzazione che consenta ai detenuti di far valere i propri diritti in modo più efficiente e veloce a tutti i livelli. Proprio per questo, grazie a un mio emendamento al bilancio, a dicembre 2020 la Regione Lazio ha stanziato 600mila euro destinati alla digitalizzazione degli istituti penitenziari della regione”. Secondo Paolo Ciani, capogruppo capitolino di Demos e consigliere regionale del Lazio, è arrivato il momento di aprire una riflessione non solo riguardo all’accesso al voto della popolazione detenuta. “Votare è un diritto fondamentale che non si dovrebbe perdere con la detenzione se non disposto da una sentenza del giudice (la cd. ‘interdizione’) - afferma Ciani - ma include molte pratiche civili che si complicano (nella migliore delle ipotesi) o si perdono del tutto con la detenzione. Mi riferisco ad alcuni percorsi per richiedere la carta identità, la residenza, il codice fiscale, per attivare le richieste legate ai diritti di cittadinanza, la pensione d’invalidità all’Inps. Il carcere è rimasto alla ‘domandina’ cartacea che parte dalla sezione detentiva, passa dal richiedente allo scrivano del reparto (detenuto lavorante), al capoposto (polizia penitenziaria) e arriva alla sorveglianza del carcere, per essere autorizzata e iniziare il viaggio di ritorno. Questo è l’iter per chiedere la telefonata, il colloquio, il ritiro della posta, senza considerare che con i trasferimenti da un carcere all’altro si recidono anche i fili della socializzazione e con le famiglie. Nel tempo della Pa digitale, il carcere è di fatto ‘isolato’ nella quotidianità”. Ricordando l’introduzione nelle carceri delle videochiamate, “che hanno di fatto permesso al sistema carcere di reggere” durante la pandemia, ora, riflette Ciani, “è fondamentale non tornare indietro, ma far sì che questo appuntamento politico - referendum e amministrative - sia un’occasione per tenere alta l’attenzione nei confronti delle persone e dei diritti della popolazione detenuta, parliamo di quasi 55mila persone in Italia e relative famiglie”. In vista del voto del 12 giugno, la Conferenza dei Garanti territoriali e l’associazione Antigone, da parte loro, hanno avviato una campagna informativa per incentivare l’accesso al voto a tutte le persone detenute che mantengono tale diritto. “Continuano ad essere affisse negli spazi comuni delle carceri due locandine - una per le elezioni amministrative e una per i referendum - dove i detenuti possono leggere le procedure da seguire per il voto”. Friuli Venezia Giulia. “Imprenderò” aiuta i detenuti a costruirsi un futuro ilfriuli.it, 2 giugno 2022 Se ne parlerà martedì 7 giugno, alle 10, a Gorizia, durante il Seminario dal titolo “Sprigiona le tue idee!”. Il progetto “Sissi 2.0 Imprenderò” in Fvg promuove lo sviluppo della cultura imprenditoriale e la creazione di impresa e di lavoro autonomo anche all’interno delle Case Circondariali del Friuli Venezia Giulia. L’obiettivo è quello di favorire l’integrazione sociale e lavorativa delle persone svantaggiate all’interno dei diversi contesti produttivi, giungendo all’inclusione attraverso un modello formativo e di accompagnamento al lavoro. Nell’ambito del progetto, sono stati sviluppati percorsi di accoglienza, di orientamento e di formazione, individuali o di gruppo, creati ad hoc per i detenuti in Fvg secondo la metodologia Best, dove le competenze imprenditoriali sono anzitutto strumenti di inserimento lavorativo, inclusione e integrazione. Se ne parlerà martedì 7 giugno, alle 10, nella Sala 2 Kinemax (in piazza Vittoria, 41) a Gorizia, durante il Seminario dal titolo “Sprigiona le tue idee! - Percorsi di sostegno alla creazione d’impresa e al lavoro autonomo rivolti ai detenuti delle Case Circondariali del Friuli Venezia Giulia”, organizzato da Sissi 2.0 Imprenderò in Fvg, in collaborazione con Oikos Onlus, l’associazione, fondata nel 2005 a Udine, che sostiene progetti di cooperazione internazionale, promuove e costruisce ponti di solidarietà e sviluppo. La parte introduttiva dell’incontro sarà curata da Alberto Quagliotto, direttore della Casa Circondariale di Gorizia, Alessandro Infanti, direttore Generale di Ad Formandum, capofila Sissi 2.0, Paolo Pittaro, garante regionale dei diritti della persona, Franco Corleone (in collegamento da remoto), garante dei detenuti del Comune di Udine, e un rappresentante della Direzione centrale lavoro, formazione e istruzione della Regione. A seguire, moderati da Paolo Mosanghini, condirettore del Messaggero Veneto, parteciperanno alla tavola rotonda con interventi dedicati: Nicola Boscoletto, presidente della nota cooperativa Giotto di Padova, Anna Paola Peratoner, di Oikos Onlus, Andrea Fassina, detenuto a Pordenone e beneficiario del progetto Sissi Fvg con una relazione dal titolo “Genesi di un’idea imprenditoriale”, e Margherita Venturoli, educatrice della Casa Circondariale di Gorizia. Dopo il dibattito, le conclusioni le trarrà il provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto. Seguirà un aperitivo preparato dagli allievi di AD Formandum. Sarà possibile seguire il seminario anche in diretta Facebook sul profilo Sissi 2 Imprenderò in Fvg. Sissi 2.0 - Sistema Integrato di Servizi per lo Sviluppo Imprenditoriale del Fvg, è un progetto finalizzato alla promozione della cultura imprenditoriale e alla creazione di impresa e lavoro autonomo. Vuole informare in modo trasparente e semplificato i cittadini del territorio regionale sulle opportunità offerte da Imprenderò [in] FVG, sensibilizzandoli sul valore aggiunto della programmazione europea a sostegno dello sviluppo produttivo innovativo; coinvolgere e attivare in modo appassionato i giovani, le donne, gli studenti, i disoccupati e i professionisti, e altre categorie di lavoratori svantaggiati. Per maggiori informazioni: www.sissi.fvg.it. Sardegna. Il ministero cerca per la quarta volta un provveditore alle carceri di Gabriele Serra quotidianosociale.it, 2 giugno 2022 Nel ministero della giustizia non c’è un solo dirigente interessato a guidare le carceri sarde. Lo fa sapere Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo diritti riforme (Sdr), che da anni si occupa della condizione carceraria nell’isola. “È la quarta volta che il ministero rivolge un interpello ai dirigenti per ricoprire l’incarico, mentre l’ufficio resta sotto il comando provvisorio di Maurizio Veneziano, che aveva già concluso il mandato. La mancanza di un provveditore condiziona l’organizzazione e l’efficienza delle strutture penitenziarie”, spiega Caligaris. “Se volta non verrà trovato sarà necessario un provvedimento straordinario per assegnare l’incarico” aggiunge l’attivista. Nei dieci istituti penitenziari sardi sono titolari stabili soltanto tre direttori, con più incarichi. La situazione ha dell’incredibile, soprattutto se si considerano i problemi del sovraffollamento e la prossima apertura di una nuova ala di sicurezza dedicata al 41bis a Cagliari-Uta, che avrà bisogno di essere amministrata. “È necessaria”, conclude la Caligaris, “una discussione pubblica che coinvolga anche il presidente della Regione e i parlamentari eletti nell’isola”. Firenze. Casa per madri detenute, primo sì alla Camera ma qui è tutto fermo di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 giugno 2022 Il voto alla Camera riapre il caso Icam, dal 2010 sempre annunciato e mai realizzato. La Camera dà il primo via libera alla proposta di legge sulle case per le detenute madri, per non avere più bambini che crescono dietro le sbarre. Nel 2010 Firenze si era candidata a fare da apripista, ma agli annunci non sono mai seguiti i lavori. E adesso quel progetto secondo il garante dei detenuti è già vecchio. Mai più bambini in carcere. La Camera dà il primo sì alla proposta di legge che punta a promuovere il modello delle case famiglia per le detenute madri affinché i loro figli possano crescere lontano dalle sbarre. Adesso la legge andrà in Senato. Una buona notizia anche per il carcere di Sollicciano, dove attualmente non ci sono bambini ma dove ciclicamente si trovano a vivere i figli di alcune detenute. Firenze si era candidata a fare da apripista sulle case per la madri detenute, con un protocollo firmato a gennaio 2010 da ministero della Giustizia, Regione (che stanziò 400 mila euro, poi diventati 700 mila), il tribunale di Sorveglianza, l’Istituto degli Innocenti e la Madonnina del Grappa, che aveva messo a disposizione una palazzina in via Fanfani. Dodici anni dopo, però, dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri, acronimo Icam, nemmeno l’ombra. La palazzina di via Fanfani che dovrebbe ospitarlo affonda nel degrado. E alcuni bambini hanno continuano a crescere a Sollicciano. Eppure, la realizzazione dell’Icam è stata più volte annunciata e rivendicata dalla politica. Nel 2013 fu l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, in visita al penitenziario di Sollicciano, a garantire che entro un anno la struttura per le detenute madri sarebbe stata inaugurata. “L’Icam è ormai in fase di realizzazione”. Parole d’orgoglio arrivarono anche dall’allora sindaco Matteo Renzi: “Noi siamo stati i primi in Italia ad aver fatto l’Icam”. Nel 2020 fu un altro ministro della giustizia, questa volta Alfonso Bonafede, a dire: “L’obiettivo principale resta la realizzazione degli Icam su tutto il territorio nazionale, quindi anche a Firenze”. Tra i tanti cavilli che hanno bloccato l’inizio dei lavori, sembra esserci stato quello di un errore tecnico nella gara d’appalto, che si è dovuta ripetere. Responsabile dei lavori è la Società della Salute. “Entro giugno - dice adesso Sara Funaro, assessora alle politiche sociali del Comune di Firenze e presidente della Società della Salute - sarà fatta la progettazione esecutiva della ristrutturazione, durante l’estate verrà fatta la gara d’appalto ed entro settembre partiranno i lavori”, che dovrebbero concludersi entro il 2024. E poi: “Bene l’approvazione della proposta di legge alla Camera, i bambini devono crescere fuori dal carcere”. Ad esprimere soddisfazione per il sì alla legge e per la prospettiva dell’inizio dei lavori è don Vicenzo Russo, presidente della Madonnina del Grappa e cappellano del penitenziario fiorentino: “Finora avevamo concesso la nostra palazzina a Rifredi per un progetto umanitario che non si è mai concretizzato. Adesso speriamo fortemente che questa struttura possa vedere finalmente la luce perché è una vergogna far crescere i bambini in carcere, e il fatto che anche il Parlamento si sia espresso su questo è un passo politico e umanitario importante da cui trarre conseguenze anche sui territori”. Ma c’è un’altra novità che potrebbe rimescolare le carte e mettere in discussione la nascita dell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri. Su impulso del ministero della Giustizia, la Regione Toscana sta attivando alcuni posti per detenute madri con bambini all’interno di case famiglia già esistenti che accolgono madri in difficoltà socioeconomica. Un’idea condivisa anche dal garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini: “Quella dell’Icam è un’idea superata perché le detenute madri devono essere inserite in case famiglie già esistenti, soltanto così si crea una vera inclusione, sarebbe importante riconvertire le risorse che originariamente erano destinati all’Icam nell’accoglienza nelle case famiglia già attive, oltre ad essere un progetto più inclusivo sarebbe anche meno dispendioso”. Salerno. Progetti per detenuti all’esterno della Cittadella Giudiziaria: ok del Comune di Alessandro Mazzaro salernotoday.it, 2 giugno 2022 La richiesta presentata dalla direzione del carcere di Fuorni prevede attività rieducative e sociali per i detenuti attraverso la manutenzione degli spazi verdi, con la collaborazione dei Giardini della Minerva. Via libera della giunta alla richiesta di concessione in uso delle aree esterne della Cittadella Giudiziaria di Salerno presentata dalla direzione della Casa circondariale di Salerno per “avviare attività rieducative e sociali per i detenuti attraverso la manutenzione degli spazi verdi, con la collaborazione dei Giardini della Minerva”. Il protocollo d’intesa - Dopo il via libera della giunta si procederà alla stipula di un protocollo d’intesa tra i Giardini della Minerva, la Corte d’Appello di Salerno, il Tribunale di Sorveglianza di Salerno, la Provincia di Salerno, diverse associazioni di settore (Coldiretti, Confagricoltura Camera di Commercio) e il Comune di Salerno. “Il Comune di Salerno - si legge nella delibera - riconosce il valore del progetto proposto e l’importanza di attività volte al sostegno del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e al miglioramento delle loro condizioni di vita”. Trieste. Agenti uccisi, gli psichiatri bocciano la sentenza su Meran di Laura Tonero Il Piccolo, 2 giugno 2022 Fra gli interrogativi: “Perché il Tribunale ha fatto prevalere il giudizio di un solo perito piuttosto che quello di un pool?”. “La libertà è terapeutica, ma anche la responsabilità è terapeutica: una persona va giudicata per quello che fa e non per quello che è”. La Conferenza per la salute mentale nel mondo Franco Basaglia, insieme alla Società della ragione e al Forum salute mentale, tornano sulla sentenza di assoluzione di Alejandro Augusto Meran, il giovane dominicano che ha ucciso gli agenti Pierluigi Rotta e Matteo Demenego. Lo fanno sostenendo la proposta di legge Magi che prevede l’eliminazione della non punibilità e della semi imputabilità per vizio di mente, con la conseguente abolizione delle misure di sicurezza correlate. “Pur restando in attesa delle motivazioni della sentenza - ha premesso mercoledì nel corso di una conferenza stampa la psichiatra Giovanna del Giudice - rispetto alla vicenda giudiziaria di Meran, poniamo alle istituzioni della città alcune domande: come ha fatto il Tribunale a far prevalere il giudizio di un solo perito su quello di un collegio peritale, che per più di nove mesi ha lavorato producendo un attento e scrupoloso dossier? Grazie a quale articolato di legge o ragionamento è possibile condannare una persona a trenta anni da scontare in una Rems, definita per legge una struttura transitoria finalizzata al recupero terapeutico della persona?”. Franco Corleone, garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive di Udine, ha evidenziato come “la soluzione inventata di trenta anni di Rems non esiste giuridicamente. In carcere il Dipartimento di salute mentale si deve occupare di tutti, e chi ha quelle condizioni di disabilità può chiedere una misura alternativa alla detenzione, in luoghi adeguati alla sua condizione. Se ci fosse stata la legge Magi, per l’omicidio dei due agenti ci sarebbero stati un giudizio, una pena e l’individuazione del luogo idoneo dove scontarla. Io so che ora il condannato a 30 anni di Rems, Meran - sostiene - non sanno dove metterlo”. Sulla perizia, lo psichiatra Franco Rotelli ha rilevato “non esista alcuna base scientifica che giustifichi la capacità di un perito di giudicare la totale incapacità di intendere e di volere di una persona a causa di una malattia mentale nel momento in cui ha commesso il fatto, fatto avvenuto due, sei, otto mesi prima. Quale è poi la base scientifica che consente al perito di stabilire che questa persona è pericolosa per sé e per gli altri? Ad un medico non andrebbero poste queste domande da stregone, bensì, una volta condannata una persona, andrebbe chiesto che percorso terapeutico viene raccomandato”. Gli fa eco lo psichiatra Peppe Dell’Acqua: “Se uno legge cento perizie psichiatriche, l’oggettività non c’è mai - ha affermato -. Esiste invece una tensione costante tra la soggettività, la cultura del perito, il mandato che fa il giudice, tra quelli che sono i rumori nell’organizzazione sociale e politica, e alla fine quella perizia diventa un compromesso che tutti accettano e diventa la verità assoluta”. L’illusione di portare pace con le armi di Michela Marzano La Stampa, 2 giugno 2022 Oggi si celebra la Giornata internazionale dei Peacekeeper, i “mantenitori della pace”, istituita dall’Onu nel 2003 in ricordo del 29 maggio del 1948, quando venne inaugurata la prima operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Palestina e nacque l’United Nations Truce Supervision Organization (Untso). Da allora, ogni 29 maggio, si rende omaggio a tutti coloro che si sono impegnati o continuano a impegnarsi, per salvaguardare la pace nel mondo. Oggi però, tre mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la celebrazione della giornata internazionale dei Peacekeeper assume un’importanza particolare. Anche perché sono stati molti i pacifisti italiani che, quando sono scoppiate le polemiche per l’invio delle armi in Ucraina, hanno invocato la necessità di ricorrere a una missione di peacekeeping. “L’unico intervento possibile è il peacekeeping”, ha dichiarato Francesco Vignarca, il coordinatore delle campagne di “Rete italiana Pace e Disarmo”, l’indomani della decisione presa dal Governo di inviare le armi agli ucraini. Subito prima di aggiungere: “Armare gli oppositori di Gheddafi ha portato la pace in Libia? E in Siria? In Afghanistan? E dovrebbe funzionare con Putin? Non solo è sbagliato eticamente, ma non ottiene il risultato voluto”. Ma le cose sono più complicate di quanto pensi Vignarca. Le azioni di peacekeeping dell’Onu, infatti, vengono decise dal Consiglio di sicurezza e la Russia, che ne è membro permanente, ha diritto di veto. E anche se è stata recentemente adottata una risoluzione che obbliga i membri permanenti a giustificare il proprio utilizzo del diritto di veto, si tratta pur sempre di una risoluzione non vincolante. Per non parlare poi del fatto che, subito prima dell’inizio della guerra, era stato Putin stesso a parlare di un’operazione di peacekeeping nel Donbass. Lo scopo dei “caschi blu”, come vengono chiamati i militari, gli agenti delle forze dell’ordine e i civili che partecipano alle missioni di mantenimento della pace, è quello di proteggere e promuovere i diritti umani attraverso una serie di interventi che vanno dalla prevenzione dei conflitti al mantenimento della pace, passando per l’assistenza umanitaria. E molti sono stati nel passato i successi di questo tipo di missioni, soprattutto alla fine della guerra fredda - basti pensare al raggiungimento della pace in Mozambico e in El Salvador. Ma in Ruanda e nell’ex-Jugoslavia, tanto per dare altri esempi, la presenza dei caschi blu non è servita. Anzi. Il genocidio ruandese del 1994 e il massacro di Srebrenica del 1995 hanno mostrato bene come le missioni di peacekeeping sono destinate a fallire. Bene, allora, celebrare la Giornata internazionale dei Peacekeeper. Ma è inutile illudersi che una missione di peacekeeping possa oggi risolvere il dramma in Ucraina. Ragioni e sentimenti sembrano ancora una volta opporsi. Tanto più che, una decina di giorni fa, l’ambasciatrice americana all’ONU ha escluso la possibilità di una partecipazione USA a un’eventuale missione. Gli Stati Uniti sono pronti a difendere i Paesi membri della Nato, ma non sono disposti a schierare le proprie truppe in Ucraina, nemmeno per un’operazione volta a ristabilire la pace. - Migranti. Zanotelli: “Accogliere tutti, non solo gli ucraini” di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 giugno 2022 Ieri il “digiuno di giustizia” in solidarietà ai profughi di ogni guerra. “Giuste le inchieste sui crimini di guerra in Ucraina, anche se andrebbero fatte dopo, ma bisogna aprirne altrettante per ciò che accade nel Mediterraneo, in Libia e lungo le rotte africane. Anche i finanziamenti alle milizie e ai centri di prigionia sono crimini contro l’umanità”. Padre Alex Zanotelli siede ai piedi del Pantheon davanti allo striscione “Digiuno di giustizia in solidarietà ai migranti”. È venuto da Napoli per portarlo a Montecitorio, ma al piccolo presidio non è stata data l’autorizzazione. “Non è giusto negarci il diritto costituzionale di manifestare sotto il parlamento italiano contro le criminali politiche migratorie del nostro governo e della Ue”, dice Zanotelli. Intorno a lui e alle altre digiunanti scorre l’ordinaria quotidianità del centro capitolino: selfie e turisti a passeggio. Fa caldo nel mezzo del secondo anticiclone subtropicale: “Scipione l’Africano” sta battendo “Hannibal” a colpi di gradi centigradi. Più che il sole, però, è il cambiamento climatico a preoccupare il padre comboniano. “Nel Sahel la desertificazione ha trasformato la terra in sabbia. Il pericolo più grande viene da questa crisi, maggiore di quella del grano. Molta gente non può coltivare più nulla. In quell’area, poi, c’è un grosso problema politico: si stanno creando le condizioni per un altro stato islamico”, continua. Il digiuno del primo mercoledì del mese è praticato contemporaneamente da laici e religiosi, nei monasteri e nelle famiglie. “È un atto di protesta contro le politiche criminali e discriminatorie nei confronti dei profughi provenienti dall’Asia e dall’Africa, che fuggono da guerre spaventose come in Iraq, Siria, Afghanistan, Yemen, ma anche da Etiopia, Sud Sudan, Sudan mentre la Ue e l’Italia hanno subito aperto i confini per chi fugge dalla guerra in Ucraina”, dicono gli organizzatori. Chiedono di investire in cooperazione, “quella vera”, e non in armi. Di smettere di finanziare milizie e governi per fermare i flussi migratori. Di soccorrere nel Mediterraneo e assegnare subito i porti, facendola finita con le inutili attese sulle navi delle Ong. “Quello che è successo con i profughi ucraini mostra che ci sono due umanità. Al confine polacco passavano i biondi con gli occhi azzurri e venivano fermati quelli con la pelle scura. In Italia nello stesso momento c’era chi veniva accolto a braccia aperte e chi tenuto sulle navi quarantena. Sono veramente fiero delle famiglie italiane che hanno dato ospitalità ai profughi ucraini, ma va fatto con tutti. Altrimenti è una forma di riconoscimento interna alla “tribù bianca”. Solo per chi ci assomiglia”. Commercio di strumenti di tortura: trattato Onu più vicino di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2022 Il 30 maggio un gruppo di esperti, nominato dalle Nazioni Unite un anno fa, ha reso pubblico un rapporto che potrebbe avviare il percorso verso la stesura e la successiva adozione di un trattato internazionale sul commercio di strumenti di tortura, a oggi completamente privo di regolamentazione. La situazione è paradossale: la tortura è stata messa al bando decenni fa, dall’apposita convenzione del 1984, eppure non c’è alcun accordo internazionale che vieti il commercio di strumenti che servono esattamente a torturare: manganelli acuminati, cinture elettriche, ceppi e altro ancora. Le aziende produttrici, come quelle cinesi, continuano a fare affari attraverso dolori e sofferenze inimmaginabili. Il gruppo di esperti propone dunque l’adozione di standard internazionali che vietino la produzione e il commercio di strumenti di tortura quale “misura preventiva per impedire violazioni dei diritti umani”. Ancora più apprezzabile è la raccomandazione del gruppo di esperti di applicare controlli sui prodotti destinati alle forze di sicurezza “laddove vi siano ragionevoli motivi per credere” che saranno usati per torturare. Questi controlli potrebbero estendersi dunque anche a prodotti - come gas lacrimogeni, proiettili di gomma, manette e manganelli - destinati a corpi dello stato noti per violare i diritti umani. In Europa siamo già abbastanza avanti. È giunto il momento che le Nazioni Unite adottino un Trattato su un commercio libero dalla tortura. “Qui in Libia aumentano violenza e razzismo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 giugno 2022 Tarik Lamloum, esperto di immigrazione: “Abbiamo chiesto a Italia e Ue di condizionare i finanziamenti a guardia costiera e autorità di Tripoli al rispetto dei diritti umani. Ci hanno sempre ignorati”. Tarik Lamloum è un esperto di immigrazione e attivista per i diritti umani. È nato e vive in Libia, ma nelle ultime settimane ha visitato diversi paesi europei. Fa parte di un’organizzazione, che preferisce non nominare per ragioni di sicurezza, che documenta le violazioni dei diritti di migranti e rifugiati nel paese nordafricano. Visita spesso i centri di detenzione ed è attiva nelle città di Tripoli, Zliten, Misurata e al confine tra Libia ed Egitto. Perché vuoi che l’organizzazione resti anonima? Fino a pochi anni fa non ci sarebbero stati problemi, ma negli ultimi tempi un’ondata di repressione ha colpito cittadini e attivisti, specialmente nell’ovest. È stata organizzata dalla “Commissione sulla società civile” di Tripoli insieme ad autorità e corpi di sicurezza, incluse alcune milizie. Per esempio adesso serve un’autorizzazione per parlare con organizzazioni straniere o corpi internazionali. Negli ultimi mesi, poi, sono stati arrestati molti difensori dei diritti umani, compresi quelli che lavorano con i migranti. Ciò è avvenuto soprattutto nella Libia occidentale, anche con il supporto del ministero per gli Affari religiosi che ha condotto varie campagne diffamatorie verso gli attivisti. Sostiene che lavorino contro i valori libici tradizionali. Per esempio promuovendo il femminismo. Fino al rinvio delle elezioni, previste per il 24 dicembre scorso, in Italia si è parlato molto di una “nuova Libia”. Secondo questa narrazione il paese era in via di stabilizzazione dal punto di vista economico-politico, delle possibilità di investimenti stranieri e anche da quello dei diritti umani. È così? È una narrazione completamente falsa. L’unico miglioramento che abbiamo visto in Libia è stato nei primi mesi dopo la rivoluzione del 2011 con alcune aperture per la società civile: più libertà di espressione, miglioramento delle condizioni di detenzione, meno arresti arbitrari. Poi tutto è peggiorato, sia politicamente che economicamente. In particolare dopo il 2014. Sono passati cinque anni dal memorandum italo-libico sui migranti. Com’è cambiata la situazione? Simili accordi di cooperazione dovrebbero fare gli interessi di tutte le parti coinvolte. Ma questo non avviene: migranti e rifugiati sono completamente ignorati dal memorandum e soffrono incredibili violazioni, che in questi cinque anni sono cresciute. L’accordo è funzionale solo agli interessi economici e politici dello Stato italiano e di quello libico. Ha finanziato la guardia costiera libica nonostante siano state ripetutamente documentate le sue violazioni dei diritti umani e i rapporti con milizie e gruppi armati. Abbiamo chiesto molte volte a Italia e Ue di condizionare i finanziamenti al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale. Ma questa richiesta è sempre stata ignorata. Le politiche anti-migranti di Italia e Ue hanno qualche effetto anche sulla situazione politica e sociale interna alla Libia? Questa cooperazione è usata dal governo libico per accreditarsi come fattore di stabilità. Gli stessi discorsi usati all’estero, con l’Europa, sono ripetuti anche all’interno. Sia nella competizione politica tra diverse forze che di fronte alla popolazione. Negli ultimi cinque anni, in parallelo con l’aumento delle intercettazioni in mare e dei migranti detenuti, in Libia sono cresciuti intolleranza, razzismo e violenza. Nei mesi scorsi c’è stata una lotta auto-organizzata dei rifugiati davanti agli uffici Unhcr di Tripoli. L’avete seguita? La nostra organizzazione è stata lì dal primo giorno. Abbiamo provato a supportare le circa 2mila persone che hanno dato il via alla mobilitazione. Ci siamo lamentati con l’Unhcr, sia localmente che a Ginevra. Siamo stati molto critici della posizione che ha assunto. L’Unhcr coopera ampiamente con le politiche migratorie italiane ed europee. Hanno rilasciato dei comunicati problematici e chiuso le porte ai rifugiati. Il capo della delegazione dell’Unione europea, invece, ha addirittura chiesto alla polizia libica di proteggere gli uffici, intervenendo. A breve l’Italia rivoterà il finanziamento della guardia costiera libica. Cosa direbbe ai parlamentari? Dipende da qual è l’indicatore per valutare l’accordo. Se fosse sostenere, difendere o almeno non violare i diritti umani potremmo discutere di come aiutare le autorità libiche pretendendo il rispetto di condizionalità legate ai diritti umani. Se invece l’unico indicatore che interessa ai politici italiani è la sicurezza delle frontiere allora è difficile discutere. Quel che è certo è che sostenere la guardia costiera libica come è stato fatto finora uccide le persone. In mare o a terra. Turchia. Processi farsa, autocensura e resistenza. La stretta di Erdogan sulla società di Futura D’Aprile Il Domani, 2 giugno 2022 “Ha saputo approfittare del conflitto in Ucraina per opprimere maggiormente la società e attaccare i curdi in Iraq e Rojava”. Quello di Gezi sembra un parco come tanti, un’area verde nel cuore di Istanbul in cui famiglie, gruppi di amici o lettori solitari possono trovare un po’ di tranquillità e godersi l’ombra degli alberi, a pochi metri di distanza dalla caotica Istiklal Cadesi, la via dello shopping affollata di turisti e vetrine ammiccanti. Gezi però non è sempre stato così tranquillo. Nel 2013 il parco è stato il cuore di un importante movimento di protesta nato per difendere l’area verde della città e trasformatosi in poco tempo in una contestazione di portata nazionale contro l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Il movimento è stato brutalmente represso dalla polizia, ma l’incubo di una nuova Gezi terrorizza tuttora il governo. Nove anni dopo, una parte del parco è ancora circondata da alte transenne su cui svetta il simbolo della polizia ed è facile imbattersi in una coppia di agenti passeggiando per i viali alberati. Lo stato di allerta è così alto che non appena una campagna di mobilitazione sui social inizia ad avere successo il parco viene immediatamente chiuso al pubblico per prevenire assembramenti. Il sistema giudiziario - Ma le conseguenze delle proteste del 2013 si fanno sentire soprattutto nelle aule di tribunale in cui giornalmente vanno in scena processi farsa ai danni di attivisti, giornalisti, accademici e avvocati. Le accuse spaziano dalla messa in pericolo dell’ordine pubblico al tentativo di sovvertire lo stato, fino al terrorismo, capo di imputazione usato in più del 50 percento dei casi. Da Gezi e ancora di più dopo il fallito golpe del 2016, il sistema giudiziario è usato come arma per mettere a tacere ogni forma di opposizione, segno dell’asservimento della magistratura ai desideri del governo. “In passato veniva quantomeno mantenuta una parvenza di rispetto delle leggi e della divisione dei poteri, ma adesso non è più così”, spiega Mümtaz Murat Kök, che con i suoi colleghi del Media and Law Studies Association monitora dal 2017 i processi contro la stampa. L’obiettivo è creare un clima di tensione costante ed impartire una lezione a coloro che osano sfidare Erdogan, per evitare che altri seguano il loro esempio. Così facendo, si cerca prima di tutto di spingere i giornalisti verso l’autocensura. “Come in ogni regime autocratico, gli attacchi contro la stampa servono a far sì che la gente non sia informata”, afferma Kök. Con conseguenze negative anche per la tenuta democratica del paese. A oggi sono 40 i giornalisti in carcere e altri 50 sono sotto processo, come riportato anche nei diversi fascicoli dalla copertina gialla e nera che l’attivista ha davanti a sé mentre parla. Di recente l’associazione ha anche iniziato a seguire i casi che riguardano la violazione della libertà di riunione, principio tutelato dalla costituzione ma fortemente limitato dalle leggi nazionali approvate negli ultimi anni. “Il governo può contenere l’opposizione in parlamento, ma ha paura di non riuscire a controllare i cittadini, per questo criminalizza le strade e mostra tolleranza zero verso chi si riunisce e manifesta”. In vista anche delle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, previste per il 2023. La questione curda - Ma giornalisti e attivisti non solo gli unici a dover fare i conti con l’atteggiamento sempre più repressivo del governo in carica. Ad essere finito del mirino della magistratura è anche il partito filo-curdo, che rischia la chiusura e la messa al bando dalla vita politica dei suoi cinquecento rappresentanti. Per i membri dell’Hdp gli attacchi da parte del governo non sono certo una novità, ma la pressione nei loro confronti è aumentata dopo il successo ottenuto nelle elezioni del 2019, quando 65 municipalità sono passate sotto la bandiera del Partito democratico dei popoli. Un successo che il governo ha subito provveduto a cancellare rimuovendo ben 45 sindaci e aprendo diverse causa legali contro i membri dell’Hdp. “Minacciano di arrestarci e di metterci sotto processo, mentre cancellano continuamente l’immunità dei nostri parlamentari”, spiega ?lknur Birol, co-presidente del distretto di Istanbul. “Anche le nostre sedi sono sotto attacco e persino i nostri dipendenti rischiano la vita, come dimostra l’omicidio di Deniz Poyraz a Smirne”. Il tutto nell’indifferenza della polizia, che invece non manca di filmare giorno e notte chiunque entra ed esca dalla sede dell’Hdp di Istanbul, in una evidente manifestazione del controllo a cui il partito filo-curdo è costantemente sottoposto. “La coalizione di governo non vuole perdere il potere, per questo è disposta a tutto pur di vincere le prossime elezioni, anche a chiudere il nostro partito”, spiega ancora Birol. L’Hdp ha buone possibilità di aumentare il numero dei suoi parlamentati nel 2023, ritagliandosi un ruolo di maggiore rilievo e riuscendo così a indirizzare le politiche del prossimo esecutivo. Riaprendo anche il dibattito sulla questione curda, argomento messo da parte dalla coalizione di governo ma che nemmeno i partiti di opposizione hanno intenzione di affrontare. Più in generale, l’obiettivo dell’Hdp è cambiare il sistema politico imposto negli anni da Erdogan e imprimere una svolta realmente democratica alla Turchia, ma intanto il partito filo curdo deve fare i conti con la realtà. “Erdogan ha saputo approfittare del conflitto in Ucraina per opprimere maggiormente la società e sta anche continuando ad attaccare i curdi in Iraq e Rojava nel silenzio della comunità internazionale. Vuole continuare su questa strada fatta di guerra e di violenza per vincere le elezioni, ma nemmeno lo scioglimento del partito basterà a fermarci”, assicura Birol, la bandiera dell’Hdp ben visibile alle spalle dalla poltrona su cui siede. Il movimento femminista - A rischiare la chiusura per via giudiziaria è anche il più importante movimento femminista della Turchia, noto con il nome inglese di We Will Stop Femicide Platform. L’accusa mossa dalla procura di Istanbul, che ieri ha rimandato la sua decisione sul futuro dell’associazione a ottobre, è di oltraggio alla moralità e di attacco alla famiglia, intesa in senso strettamente tradizionale. Un’interpretazione, quella offerta dalla procura, che rispecchia la visione del governo, i cui rappresentati hanno più volte ribadito come il ruolo della donna sia unicamente quello di moglie e madre. “Se la Piattaforma chiude non è un problema solo per noi che ne facciamo parte, ma anche per le altre ong e per tutte le donne del paese”, afferma Melek Önder, portavoce del movimento. “La minaccia alla nostra organizzazione è un messaggio a tutti coloro che si oppongono al governo e dimostra ancora una volta che le donne sono lasciate da sole ad affrontare le violenze di genere”. Nei primi quattro mesi del 2022 ci sono stati già 97 femminicidi, dopo i 280 del 2021 a cui si accompagnano altre 217 morti sospette. La piattaforma è nata nel 2010 proprio in segno di protesta contro l’omicidio di una ragazza di 17 anni e da quel momento monitora i casi di violenza contro le donne, offrendo assistenza e pubblicando mensilmente i dati sui femminicidi. Informazioni che le autorità hanno iniziato a raccogliere solo tre anni fa, colmando un vuoto che fornisce più di un indizio sul disinteresse del governo verso la violenza di genere. D’altronde solo un anno fa Erdogan ha ritirato il paese dalla Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. “Da quel momento abbiamo registrato un incremento dei casi di abusi ed è diventato più difficile far valere i nostri diritti, ma continuiamo con la nostra lotta. La violenza contro le donne è una questione che interessa tutta la collettività”, afferma Önder. Secondo la portavoce della piattaforma, il divario tra il governo e la società sul femminicidio così come su altre questioni è sempre più ampio. Mentre quest’ultima si sta evolvendo, i partiti di coalizione cercano di fermare il cambiamento in un’ottica di preservazione del potere che passa anche per il corpo delle donne. “Da anni facciamo pressioni sulle autorità e sempre più persone sono dalla nostra parte. Per questo non siamo gradite al governo”. Il lavoro della piattaforma mette in luce tutte le carenze della politica, che continua ad offrire scarsa protezione alle donne. “Hanno il potere e le risorse per intervenire, ma nel momento in cui decidono di non farlo compiono una scelta politica precisa. È un modo per dire che la nostra vita vale meno di quella degli uomini”, precisa Önder. Con l’avvicinarsi delle elezioni, la morsa del governo sulla società civile si fa sempre più stretta, ma la lotta contro la deriva autoritaria di Erdogan prosegue, seppur tra mille difficoltà. “La storia ci insegna che quando la democrazia e i diritti sono sotto attacco ci sarà sempre chi lotterà con successo per difendere l’uguaglianza e la libertà”, conclude la portavoce del movimento. Una frase che pronunciata da una panchina di Gezi park in un pomeriggio di maggio suona quasi come un monito per il futuro. “Mio marito è ostaggio dell’Iran. L’Italia ci aiuti a salvargli la vita” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 2 giugno 2022 Parla la moglie del ricercatore iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, condannato a morte per spionaggio. Djalali ha lavorato per due anni all’Università del Piemonte Orientale. “Ahmadreza è un ostaggio vero e proprio” dice la moglie Vida Mehrannia. Le agenzie di stampa di Teheran avevano annunciato che l’esecuzione del ricercatore iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, esperto di medicina dei disastri che ha lavorato per due anni all’Università del Piemonte Orientale, condannato a morte in Iran con l’accusa di spionaggio, sarebbe avvenuta entro il 21 maggio. La data è passata, la moglie teme che sia imminente. Gli attivisti sperano che la mobilitazione internazionale, a partire dai colleghi di Novara (che ha dato a Djalali la cittadinanza onoraria) possa salvargli la vita. La moglie di Djalali usa più volte la parola “ostaggio” nel corso di questa intervista con il Corriere della Sera. Non ci sono stati annunci ufficiali, ma l’esecuzione potrebbe essere stata posticipata “de facto”, secondo Mahmood Amiry-Moghaddam, che ha seguito il caso per “Iran Human Rights”, ong con sede a Oslo: lo porta a crederlo il fatto che la magistratura svedese ha annunciato che la sentenza di Hamid Nouri - detenuto iraniano sotto processo in Svezia con l’accusa di aver partecipato alle esecuzioni politiche in Iran negli anni Ottanta - arriverà il 14 luglio. “La Svezia non può interferire con l’esito del processo ma dopo il verdetto potrebbero scambiare i prigionieri. È evidente che Djalali viene trattato come un ostaggio e l’errore dei Paesi europei è non usare questo termine, come fecero gli americani con il personale della loro ambasciata a Teheran nel 1979-80”. Quando lo avete sentito l’ultima volta? “La scorsa settimana abbiamo parlato con lui indirettamente, attraverso i sui parenti in Iran. La magistratura ci ha vietato i contatti diretti. A parte il fatto che continua a preoccuparsi per me e i nostri bambini, sembra molto calmo. È innocente, è stato arrestato per aver rifiutato di cooperare con l’intelligence iraniana nell’Unione europea e adesso è senza alcun dubbio un ostaggio che il regime sta usando per ottenere la liberazione dei propri agenti in Belgio e in Svezia. Ma Ahmadreza sa anche che spesso i sequestratori uccidono i loro ostaggi se le autorità (nel suo caso, Belgio e Svezia) non accettano le loro richieste. Quindi si aspetta che sarà facile per un regime brutale uccidere un prigioniero innocente. Le sue condizioni di salute, fisica e psicologica, sono gravi. È sotto torture durissime, incredibili, da molto tempo”. Nei giorni scorsi la tv di Stato iraniana ha ritrasmesso la presunta confessione di Djalali. È accusato di aver passato a Israele informazioni per assassinare scienziati iraniani legati al programma nucleare... “Una confessione forzata - continua la moglie - un video pieno di tagli, un copia-incolla narrato in terza persona. Era stato torturato, gli agenti dell’intelligence avevano minacciato di fare del male alla sua famiglia e ai suoi figli e gli avevano fatto credere che sarebbe stato rilasciato subito dopo l’intervista. Peraltro non si sentono nemmeno le sue risposte, si sente solo la voce del narratore”. È possibile che ci sia uno scambio con Hamid Nouri? “Al momento le azioni della Svezia e probabilmente dell’Ue sono fallite e ci aspettiamo di sentire la notizia dell’esecuzione di Ahmadreza. Non so cosa sia successo nelle relazioni diplomatiche dell’Iran con la Svezia o il Belgio e l’Ue ma non ci sono stati risultati, al momento. Come ha detto anche Amnesty, Ahmadreza è un ostaggio vero e proprio e il regime iraniano ha cercato già di scambiarlo con Assadollah Asadi in Belgio (diplomatico iraniano condannato a 20 anni per aver progettato un attentato contro esuli, ndr) o con Nouri in Svezia. Non è semplice per noi sapere esattamente cosa accade nei corridoi della diplomazia. Ciò che io e i miei figli abbiamo chiesto all’Ue e in particolare alla Svezia, al Belgio e anche all’Italia e al Vaticano è questo: per favore impedite che un innocente venga ucciso, prima che sia troppo tardi aiutateci a liberare Ahmadreza. Avrebbe potuto cooperare con gli agenti iraniani (alcuni anni fa) e ora sarebbe con noi in Svezia, ma ha seguito principi etici e umanitari, ignorando offerte che avrebbero potuto mettere a rischio e uccidere cittadini europei. L’Italia ha rapporti molto buoni con l’Iran e le vostre autorità potrebbero risolvere questo caso”.