Cartabia insiste: “No al carcere per pene brevi”. Partiti già divisi di Valentina Stella Il Dubbio, 29 giugno 2022 Misure alternative per le condanne brevi, Pd e Italia viva dalla parte della ministra. M5S, dimaiani, Forza Italia e Lega più prudenti: “Evitiamo che diventi un liberi tutti”. “Non mi stancherò di ripetere che la Costituzione parla di pene, non di carcere. E per le condanne inferiori ai quattro anni, sarà il giudice, direttamente al momento della sentenza, a stabilire la pena opportuna”: negli ultimi giorni è questo il mantra della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Lo ha ripetuto lunedì, intervenendo alla cerimonia per i 205 anni della fondazione della polizia penitenziaria. Lo aveva annunciato la scorsa settimana rispondendo ad una interrogazione della deputata di Iv Lucia Annibali: “Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio - aveva detto Cartabia - che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere”. Sembra che la Guardasigilli abbia voluto rispondere indirettamente alle critiche a lei mosse dalle pagine del Fatto. È la seconda volta che la ministra replica a distanza alle critiche del giornale diretto da Travaglio: lo aveva fatto qualche mese fa per difendere la sua scelta di nominare Renoldi come responsabile a Largo Luigi Daga. “Sul nuovo capo del Dap aveva sottolineato - non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare e dopo ne riparliamo”. Ma la partita più difficile la ministra la dovrà giocare a luglio, quando lo schema di decreto legislativo sulla riforma del processo penale sarà sottoposto al vaglio di un Consiglio dei Ministri, per poi approdare nelle commissioni parlamentari di competenza per i pareri. Entro il 19 ottobre il testo definitivo deve essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Dunque bisogna marciare spediti senza creare strappi nella maggioranza già in bilico, ma soprattutto perché questo traguardo è uno degli obiettivi da raggiungere entro la fine dell’anno per ottenere i fondi del Pnrr. In teoria dovrebbe filare tutto liscio per due motivi. Primo: la Cartabia non ha detto nulla di nuovo, perché quella previsione è prevista nella legge delega che questo Parlamento ha approvato. Secondo: già oggi, secondo la legge 689/ 1981, il giudice nel pronunciare la sentenza di condanna, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con la semidetenzione, entro il limite di un anno con la libertà controllata, entro il limite di sei mesi con la pena pecuniaria. La riforma Cartabia prevede di innalzare da due a quattro anni il precedente limite. Inoltre, già secondo l’articolo 656 comma 5 cpp, di norma, per condanne inferiori ai quattro anni si può chiedere l’accesso alle misure alternative. Quello che la legge delega prevede di diverso è che anche in questo caso sia il giudice di cognizione a decidere, senza attendere i tempi, spesso lunghi, del Tribunale di Sorveglianza. La pena detentiva inflitta entro il limite di quattro anni potrà essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; quella inflitta entro il limite di tre anni anche con il lavoro di pubblica utilità; quella inflitta entro il limite di un anno altresì con la pena pecuniaria. Si badi bene che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi potranno essere applicate solo a discrezionalità del giudice, ossia quando ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Inoltre si prevede l’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità. Questo scenario, insieme alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e all’estensione dei casi di procedibilità a querela tra i reati contro la persona e il patrimonio, è tra gli interventi capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale. Inoltre eviterà l’entrata in carcere di migliaia di soggetti e farà loro scontare la pena sostitutiva ad una certa vicinanza dalla commissione del reato. Secondo i princìpi costituzionali e internazionali, la detenzione infatti è l’extrema ratio. Persino nei severissimi Stati Uniti il numero delle persone che sconta la pena attraverso misure alternative (probation/ parole) è maggiore di quelle detenute (67% contro 33%). In Italia non va diversamente: sono circa 54mila i reclusi, mentre quelli in esecuzione penale esterna circa 75 mila. Ma filerà tutto liscio? Il Partito Democratico e Italia Viva sicuramente staranno dalla parte della ministra. D’accordo, con riserva, anche Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in commissione giustizia: “Siamo sempre stati a favore delle misure alternative per contrastare il sovraffollamento carcerario, ma questa prospettiva deve viaggiare insieme a quella per la prevenzione del crimine. Quindi, ad esempio, mi auguro che venga potenziato l’uso dei braccialetti elettronici”. Più problemi per la Cartabia arriveranno dai 5Stelle: per l’onorevole Eugenio Saitta “dobbiamo valutare attentamente i dettagli della delega, casomai direttamente in un incontro con la ministra prima che porti il testo in Cdm”. Mentre per l’onorevole Gianfranco Di Sarno di Insieme per il Futuro “sicuramente il problema del sovraffollamento carcerario merita una attenta riflessione, soprattutto se 7 detenuti su 10 sono reclusi per pene molto basse. Attenzione però a non includere nella riforma reati che, seppur non gravi, sono ritenuti particolarmente odiosi per la società civile, ad esempio quelli legati alla droga o alla violenza sulle donne”. Molti dubbi li ha espressi anche il deputato della Lega Jacopo Morrone: “Il tema ci lascia molto perplessi. Non sottovalutiamo l’importanza, in casi ben definiti, delle misure alternative, ma, personalmente, non sono convinto che la scarcerazione di soggetti il cui reato è stato accertato in via definitiva sia una soluzione, per esempio per scongiurare il sovraffollamento degli Istituti. Siamo garantisti fino alla condanna definitiva, ma, una volta accertata la colpevolezza, crediamo che la pena debba essere certa, qualunque durata abbia. Non vorremmo che questa opzione, che riguarderebbe un terzo della popolazione carceraria italiana, fosse interpretata come un “liberi tutti” o passasse l’idea che si preclude ai cittadini il diritto ad ottenere giustizia. Nell’ultimo rapporto Eurispes, da cui il sistema della giustizia italiano esce alquanto ammaccato, fra le critiche ci sono la lentezza, la sensazione che la giustizia non sia uguale per tutti e, per il 13,6% degli intervistati, l’assenza della certezza della pena. Dati che ci devono comunque far riflettere”. Cosa vuole fare la riforma Cartabia sulle misure alternative al carcere di Luca Sofri ilpost.it, 29 giugno 2022 Ampliare la possibilità di accedere per esempio a semilibertà e detenzione domiciliare, cambiando anche come vengono decise. Sei gruppi di lavoro ministeriali composti da esperti stanno scrivendo i decreti legislativi attraverso i quali verrà messa in pratica quella parte della riforma della giustizia promossa dalla ministra Marta Cartabia che è contenuta nelle leggi delega, quelle con cui il Parlamento cede al governo la funzione legislativa, stabilendo principi e criteri generali ai quali lo stesso governo deve attenersi per disciplinare nel dettaglio una determinata materia. Tra ciò che i gruppi di lavoro stanno scrivendo nel dettaglio, una parte molto importante riguarda l’ampliamento della possibilità di accedere alle cosiddette pene sostitutive in alternativa al carcere: semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria. In particolare l’attuazione della legge delega del 2021 dovrebbe prevedere la possibilità, da parte del giudice, di decidere pene sostitutive al posto delle pene detentive brevi, che prevedono la reclusione fino a quattro anni. Questo per ottenere sia un deciso intervento sul problema di sovraffollamento delle carceri, sia uno snellimento dei procedimenti giudiziari. Il 27 settembre 2021 il Senato ha approvato in via definitiva la “Delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. L’attuazione della delega, e cioè il risultato dei gruppi di lavoro, dovrebbe essere esaminato e votato dal Consiglio dei ministri entro luglio per poi passare alle commissioni Giustizia di Camera e Senato. I decreti per l’attuazione devono essere adottati dal governo entro un anno dall’entrata in vigore della legge, che è avvenuta il 19 ottobre 2021. Ha detto Cartabia, a proposito della riforma che porta il suo nome: “Una delega contiene già un principio di normazione, ma sappiamo quanto sia nell’opera di scrittura e cesellatura dei decreti legislativi il lavoro più delicato da compiere con particolare attenzione, perché è lì che gli orientamenti vengono definiti in tutta la loro portata e concretezza”. Già oggi la normativa prevede per pene fino a quattro 4 anni la possibilità per il condannato di chiedere misure alternative. Ma questo può avvenire solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza (cioè una sentenza per cui non ci può più essere ricorso in Appello o in Cassazione). Inoltre, attualmente, la richiesta della misura alternativa deve essere rivolta al magistrato di sorveglianza. In attesa della decisione, il condannato non va in carcere, ma non inizia nemmeno a scontare la pena alternativa. È la condizione di quelli che vengono chiamati “liberi sospesi”. Con i decreti allo studio e richiesti dalla legge delega, le cose cambierebbero radicalmente. Per eliminare la figura dei “liberi sospesi” costretti in un limbo, e per snellire l’enorme mole di lavoro dei magistrati di sorveglianza, la riforma ha previsto la trasformazione delle misure alternative, attualmente di competenza del tribunale di sorveglianza, in “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, che possono essere direttamente stabilite dal giudice che emette la sentenza. In sostanza, chi viene condannato a pene sotto i quattro anni non deve più fare richiesta di pena alternativa al tribunale di sorveglianza, ma a decidere la sanzione sostitutiva può essere direttamente il giudice che stabilisce la pena. Conseguenze che rientrano in due dei principali obiettivi della riforma: aumentare l’efficienza della giustizia e velocizzare i processi. Entrando nel merito delle misure sostitutive, la semilibertà è la possibilità per il condannato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto di reclusione per partecipare ad attività lavorative, di istruzione o comunque utili al reinserimento sociale. La detenzione domiciliare prevede la possibilità di scontare la pena a casa propria, o in un altro domicilio privato indicato all’autorità giudiziaria o in un istituto di cura o recupero (da non confondere con gli arresti domiciliari, che sono una misura cautelare - adottata cioè prima di arrivare a una sentenza). Il lavoro di pubblica utilità è un lavoro non retribuito che viene svolto presso enti o organizzazioni di volontariato ma anche presso comuni, regioni o presso lo Stato. L’obiettivo della parte della riforma relativa alle pene sostitutive era cosa nota, già esplicitamente contenuta nella legge delega votata al Senato, precedentemente approvata dalla Camera e già pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Nella legge delega, contro cui votarono solo 20 senatori, era scritto esplicitamente: “Rivedere la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, da individuare nella semilibertà, nella detenzione domiciliare, nel lavoro di pubblica utilità, nella pena pecuniaria. Le nuove pene sostitutive, irrogabili entro il limite di quattro anni di pena inflitta, saranno direttamente applicate dal giudice della cognizione, sgravando in tal modo il carico dei giudizi di esecuzione”. Il giudice della cognizione è il giudice del processo, quello che decide la pena. I principi generali della riforma sono stati ricordati il 22 giugno dalla ministra Cartabia che ha risposto, alla Camera, a un’interrogazione parlamentare sul sovraffollamento carcerario presentata da Lucia Annibali, capogruppo di Italia Viva nella commissione Giustizia. La ministra ha anche ricordato che una parte importante dei decreti riguarda proprio le pene sostitutive: “L’attuazione della delega per il processo penale, i cui decreti legislativi sono in fase di elaborazione e saranno portati a breve al Consiglio dei ministri ha una parte importante che riguarda le pene sostitutive delle pene detentive brevi sino a 4 anni”. Queste parole hanno suscitato la reazione di alcuni giornali e siti che hanno parlato di una nuova misura “salvaladri”, rievocando l’espressione con cui ci si riferì, nel luglio 1994, a un decreto dell’allora ministro della Giustizia Alfredo Biondi: a inchiesta Mani Pulite ancora in corso, limitò l’utilizzo della custodia cautelare per alcuni reati come corruzione, peculato, concussione, abuso d’ufficio, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, truffa ai danni dello Stato e di enti pubblici. Per alcuni giornali la ministra Cartabia vuole scarcerare “un detenuto su tre”. È stato anche detto che molti parlamentari sono stati sorpresi dalle parole della ministra durante l’interrogazione parlamentare. Come detto in precedenza, però, la legge delega, con i suoi enunciati espliciti, è stata votata sia dalla Camera sia dal Senato. “È l’ennesima polemica di questo genere”, dice l’avvocato Davide Steccanella, autore del libro La giustizia degli uomini - Racconti di tribunale. “Si continua a commettere l’enorme errore di considerare il carcere l’unica vera pena possibile. Invece si chiamano pene sostitutive proprio perché sono comunque pene, non si tratta di impunità. Eppure in Italia si pensa che se uno non viene chiuso “in gabbia” la fa franca. Non è così, non può essere così. Sono 50 anni che le riforme della giustizia tentano di abbattere questo muro culturale, ma è molto difficile. E comunque parliamo di reati con pene fino a quattro anni, non di omicidi o altri reati di enorme gravità”. La stessa ministra Cartabia in audizione alla Camera nel marzo del 2021 aveva parlato di “superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato”. Per la ministra, “la “certezza della pena” non è la “certezza del carcere”, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocata quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali”. Rispondendo alla deputata Annibali, Cartabia, parlando delle pene sostitutive, ha anche detto: “Visto che le pene fino a 4 anni riguardano circa il 30% della popolazione carceraria, l’impatto di queste misure può essere molto significativo. Le pene alternative alle sanzioni detentive brevi potranno portare sollievo al sovraffollamento, così come altri interventi previsti nell’attuazione della delega, tra cui l’ampliamento della non punibilità per la particolare tenuità del fatto e della sospensione del procedimento con messa alla prova”. Questi due ultimi elementi sono previsti dall’ordinamento giudiziario, e la legge delega chiede che ne venga ampliato l’utilizzo. Con “non punibilità per la particolare tenuità del fatto” si intende che il reato sussiste, e quindi viene salvaguardata l’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione, ma è di gravità minima e quindi può essere “non punito”. La sospensione dei procedimenti con messa alla prova è prevista dall’attuale ordinamento e stabilisce che l’imputato per determinati reati possa chiedere di essere sottoposto a un periodo di prova con sospensione del procedimento. Attualmente è prevista per reati puniti con pena pecuniaria o con pene detentive non superiori a quattro anni. La riforma prevede l’innalzamento del limite a sei anni, in relazione a situazioni “che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto”. La messa alla prova potrà essere richiesta anche dal pubblico ministero, sempre che ci sia il consenso dell’indagato o dell’imputato. Dice ancora Steccanella: “Può accadere, e questo è un punto critico, che il giudice abbia perplessità ad applicare le misure alternative visto che il condannato in primo grado presenterà poi appello e quindi non si sa che cosa accadrà in seguito nel processo. D’altra parte, è possibile che una persona condannata a pene alternative rinunci a presentare appello, considerando soddisfacente l’esito del processo, snellendo così ulteriormente i procedimenti giudiziari”. In una relazione al Parlamento presentata il 20 giugno, Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà personale, aveva detto: “Ben 1.319 (detenuti, ndr) sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2.473 per una da uno a due. È superfluo chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto”. Nel corso della risposta ad Annibali, la ministra Cartabia ha anche spiegato che le persone in “misure di esecuzione esterna” superano di gran lunga quella dei detenuti: “Siamo quasi a 74 mila contro 54mila e per questo è stata autorizzata l’assunzione di unità di personale destinato agli Uepe nella misura di 1.092 unità e 11 dirigenti”. Gli Uepe sono gli Uffici per l’esecuzione penale esterna che saranno quindi potenziati nei prossimi mesi. Sono quelli che, incaricati dai tribunali di sorveglianza, gestiscono le misure alternative alla detenzione ma prima ancora svolgono inchieste per conoscere le situazioni familiari, sociali e relazionali delle persone per cui la misura alternativa verrà adottata. Lo scopo è stabilire quale sia la misura più adatta e che problemi possa comportare. C’è un ultimo punto sollevato dalla ministra Cartabia alla Camera che ha provocato alcune reazioni negative. È quello in cui la ministra ha parlato di “liberazione anticipata”, e cioè della possibilità che il detenuto esca dal carcere prima di quanto sarebbe in effetti stabilito dalla durata della pena. Ha detto Cartabia: “Se ne discute per valutare se innalzare la detrazione della pena, in particolare per i due anni di pandemia. In effetti in questi due anni il carcere è stato più duro e afflittivo, giustamente se ne discute”. Attualmente ogni detenuto a cui viene riconosciuta una buona condotta ha diritto a 45 giorni di sconto di pena ogni semestre di detenzione. I gruppi di lavoro del ministero della Giustizia stanno valutando come prevedere un incremento dello sconto relativamente al periodo della pandemia, anni che in carcere sono stati particolarmente pesanti con l’annullamento delle visite e il forte stress relativo al rischio di contagiarsi in un ambiente in cui l’isolamento è decisamente difficile. Reinserimento detenuti, sottoscritto il protocollo d’intesa romatoday.it, 29 giugno 2022 È stato sottoscritto ieri, a Roma, un importante protocollo d’intesa tra la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il presidente della Conferenza delle regioni, Massimiliano Fedriga, e il presidente della Cassa delle ammende, Gherardo Colombo, finalizzato a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Presente, nella sua veste di Coordinatrice Nazionale della Commissione Politiche Sociali della Conferenza delle Regioni, anche l’Assessore alle Politiche sociali della Calabria, Tilde Minasi. “Perché la pena possa realizzare il suo scopo rieducativo, come da Costituzione - ha detto il ministro Cartabia al momento della firma - non è sufficiente una illuminata gestione delle carceri che accompagni adeguatamente il detenuto nel suo percorso personale, ma serve anche partire dall’idea che quel pezzo di società chiuso dietro le sbarre è parte integrante del territorio, della società tutta, che deve poter tornare a esprimere potenzialità positive e, per far questo, è fondamentale la collaborazione di Regioni, Enti locali, aziende sanitarie, tessuto imprenditoriale, terzo settore, che possano preparare il terreno per riaccogliere chi ha sbagliato”. “Oggi - ha proseguito - creiamo una cabina di regia che mette a sistema questa cooperazione, consegnando a chi verrà dopo di noi una struttura organizzativa stabile che potrà finalmente portare a compimento l’obiettivo costituzionale dell’esecuzione della pena, agendo anche sotto l’aspetto della prevenzione, attraverso la predisposizione di un ambiente esterno idoneo a ospitare la nuova vita del detenuto”. Le ha fatto eco Massimiliano Fedriga, ricordando l’importante lavoro collettivo preparatorio del protocollo, anche in seno alla Commissione politiche sociali delle Regioni, e parlando dei tre pilastri su cui si fondano le linee guida del protocollo stesso: “Inclusione sociale, determinante per prevenire il reato, giustizia riparativa e assistenza alle vittime dei reati. Un percorso, quello segnato dal protocollo - ha sottolineato Fedriga - che va peraltro a tutela non solo del singolo detenuto, ma anche della collettività, preservandola dalla commissione di ulteriori reati”. “Ecco anche perché è così preziosa l’azione unitaria di tutti i soggetti coinvolti, a partire dai numerosi dipartimenti regionali interessati (politiche sociali, salute, lavoro e così via), azione che, proprio grazie alla partecipazione su base regionale, potrà e dovrà poi essere declinata in maniera differenziata sui territori, a seconda delle diverse esigenze e caratteristiche. Grazie quindi a chi ha consentito che tutto questo fosse possibile”. Un grazie sentito arriva anche dal presidente della Cassa delle ammende, Gherardo Colombo, a tutti i partner del progetto e in particolare “a chi sta lavorando all’interno della conferenza delle Regioni, in primis la dott.ssa Minasi e la dott.ssa Calenda. Stiamo lavorando bene, anche nella struttura che presiedo - ha detto - C’è tanto di democratico in questo operare tutti insieme e c’è l’attuazione di tante parti della Costituzione. Faremo grandi cose, anche sotto il profilo dell’indicazione di un metodo”. Chiude l’incontro l’intervento di Tilde Minasi, convinta assertrice, fin dal suo insediamento nell’assessorato calabrese e nella commissione nazionale Politiche sociali, dell’idea, ribadita anche dal Ministro, che le Politiche sociali tocchino trasversalmente tanti settori di azione e che, proprio per questo, richiedano “un raccordo tra tutte le Istituzioni che animano questo mondo per poter raggiungere gli obiettivi prefissati”, tra cui, in questo caso, il successo dell’esecuzione della pena. “Come commissione accogliamo con entusiasmo il protocollo - ha detto Minasi - che coinvolge più articolazioni statali. Si concretizza il concetto di inclusione. Come Istituzioni abbiamo il dovere di percorrere cammini sia verso la prevenzione, sia per il recupero e il reinserimento delle persone detenuta e la collaborazione è il motore trainante per dare risposte adeguate ed efficaci alla piena attuazione dei diritti. Essere parte attiva dell’iter, come Regioni, è un’eccellente occasione per realizzare i propositi e di questo ringrazio il Presidente Fedriga”. “Le linee di indirizzo e cooperazione che vengono sottoscritte oggi - ha concluso l’assessore regionale - possono davvero contribuire a perseguire la giustizia riparativa a cui il Ministro Cartabia guarda con tanta attenzione. Vedo nel Governo la volontà tangibile di farsi promotore del benessere sociale, linfa vitale del nostro Stato e anche di questo voglio ringraziarla”. “Dai magistrati risposte uniformi per recuperare la fiducia dei cittadini” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 giugno 2022 Intervista al pg della Cassazione Giovanni Salvi. Sul caso Palamara: “Abbiamo reagito. C’è un disegno politico per delegittimare la funzione giudiziaria”. Procuratore Giovanni Salvi, due anni e mezzo fa lei fu nominato procuratore generale della Cassazione nel pieno di una crisi di credibilità della magistratura che non appare superata. Qual è il suo bilancio nel momento in cui lascia la toga e l’incarico? “La mia generazione ha vissuto momenti di grande difficoltà. Il terrorismo sconvolse le nostre vite private; ricordo le aspre polemiche sui processi di mafia, le accuse di politicizzazione quando si toccavano i potenti. Sentivamo però la fiducia dei cittadini. Oggi invece pesa il disvalore del correntismo e il ruolo distorto delle correnti nel Csm, ma soprattutto credo che i cittadini siano colpiti dalla lentezza delle procedure giudiziarie e dall’incertezza degli esiti. Sull’efficienza del sistema più che le colpe dei magistrati hanno pesato scelte errate della politica”. Lei che iniziative ha preso per provare a trovare dei rimedi? “Si è cercato anzitutto di limitare la percezione che la risposta cambiasse a seconda della porta a cui si bussa. L’incertezza ha effetti gravi sui diritti delle persone e sul corretto funzionamento dell’economia. Le decisioni devono essere prevedibili, per quanto possibile. Per questo abbiamo adottato gli “orientamenti” che sono frutto non dell’autorità o della gerarchia ma di una lettura condivisa delle norme”. Con quali risultati? “Di grande rilievo. Pensate a cosa sarebbe potuto accadere durante la pandemia se si fossero moltiplicate le denunce ai medici o i fallimenti delle imprese. Gli orientamenti sulla colpa medica o sulla insolvenza da Covid hanno consentito di avere azioni uniformi e non avventate, così come sono cessati i sequestri generalizzati di interi lotti di vaccino. Abbiamo poi fatto di tutto per ridurre il sovraffollamento delle carceri, per tutelare la salute dei detenuti e del personale”. Ma non c’è il rischio di limitare in questo modo l’autonomia e l’indipendenza dei pm, e minare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, oggi criticato da più parti? “No, l’uniformità tendenziale dell’azione del pm non è in contrasto con il principio di obbligatorietà. Non c’è un rapporto gerarchico con le Procure, ma la Procura generale può operare per bilanciare l’obbligatorietà con l’esigenza di prevedibilità. E penso che rivedere l’obbligatorietà sarebbe un grave errore, perché è garanzia dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e dell’indipendenza del potere giudiziario, a sua volta strumentale al perseguimento dell’eguaglianza”. Rispetto al quadro “sconcertante e inaccettabile” denunciato dal presidente Mattarella nel giugno 2019 dopo il “caso Palamara”, quali contromisure ha preso il suo ufficio? “La determinazione nel perseguire gli illeciti disciplinari è stata netta. Contrariamente alla favola che abbia pagato solo Palamara, sono state fino a questo momento 29 le azioni esercitate, 20 i rinvii a giudizio e 14 le condanne, alcune definitive; altri procedimenti sono in corso o sospesi. Ricordo anche che il dottor Palamara rispondeva in sede disciplinare per le manovre sulla nomina del procuratore di Perugia, competente per i processi penali che pendevano a suo carico; un fatto enorme”. Però la sua direttiva sulla “irrilevanza disciplinare” delle autopromozioni per le nomine ha suscitato molte polemiche anche fra i magistrati… “Non è vero che si sia affermata l’irrilevanza della raccomandazione, per sé o per altri. La raccomandazione è riprovevole ma la giustizia disciplinare si basa sul principio di legalità, quindi sulla “tipizzazione” degli illeciti, e tra le fattispecie punibili non ce n’è una che riguardi specificamente queste condotte. Abbiamo quindi interpretato le norme esistenti nella maniera più rigorosa, considerando illeciti disciplinari i contatti con i consiglieri del Csm volti a condizionare le nomine, a denigrare i concorrenti, a imporre logiche di appartenenza. Altro che condono! Contatti di altra natura sono rilevanti per le molte e diverse attività del Csm e per 1’Anm che ha il suo Codice etico. Nessuna delle nostre archiviazioni è stata impugnata dai ministri che si sono succeduti”. A proposito delle archiviazioni, l’hanno accusata di mantenerle segrete, senza che nemmeno il magistrato inquisito o il Csm ne conoscano i motivi… “Abbiamo pubblicato le sintesi delle decisioni di archiviazione e ciò per mia scelta innovativa, proprio per cercare di illustrarne le ragioni. Ma le motivazioni non possono essere rese pubbliche per legge, come riconosciuto, ben prima che io assumessi la guida dell’ufficio, dal Tar e dal Consiglio di Stato in una vicenda originata proprio dal dottor Rosario Russo, condannato anche alle spese, e che oggi in alcuni esposti ripresi in qualche polemica sulla stampa sembra non ricordarlo”. C’è chi sospetta che lei si sia “autoassolto” per il famoso pranzo con Palamara, da lui rivelato, quando lei era candidato alla Procura generale già nel 2017. Come risponde? “È falso che io abbia mai chiesto a Palamara aiuto per me o per altri, in nessuna occasione. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque sia in buona fede: in 60.000 messaggi delle chat non c’è un solo scambio con me; i pochi che a me si riferiscono non mi sono certo favorevoli. Quanto all’incontro e al pranzo con Palamara, non nasceva da una mia esigenza ma da una legittima richiesta di Palamara relativa alla sua scorta, di competenza anche dell’ufficio che dirigevo allora. Nulla ho sollecitato, neppure in quella occasione, lontana peraltro sei mesi dalle votazioni... C’è stato un evidente tentativo di Palamara di trascinarmi in una artificiosa polemica con un incolpato ma ora, cessando dal mio incarico, potrò finalmente agire in sede giudiziaria contro queste falsità. In questi giorni ho promosso l’azione nei confronti di Palamara e Sallusti. Ma non mi pare si sia compreso il vero disegno sotteso ai loro libri”. Che sarebbe? “Delegittimare l’intera funzione giurisdizionale per creare il convincimento che certe decisioni di grande rilievo e risonanza derivassero da motivazioni politiche”. Come ha reagito il Csm al ciclone che l’ha investito? “Non c’è dubbio che in un primo momento il Csm sia rimasto sotto shock e abbia reagito con qualche ritardo. A questo si è aggiunta la circolazione dei cosiddetti verbali di Amara, in realtà fogli estratti da un computer che mai avrebbero dovuto entrare nel Csm in quella forma. Tuttavia, con qualche tensione di troppo che ha lasciato il segno, l’impegno del Csm è stato infine molto determinato”. Quale può essere la cura al male del “correntismo” nella magistratura? “Francamente non ho una ricetta. In passato l’Anm ha contribuito alla crescita culturale della magistratura e alla consapevolezza della sua necessaria indipendenza; ora si vuole tornare verso quel ruolo e mi auguro che ci si riesca, ma le radici del correntismo sono profonde”. Tornando alla sua gestione della Procura generale, quali sono le altre cose più importanti e rilevanti che ritiene di avere fatto? “Con la Direzione nazionale antimafia si lavora insieme alle Procure d’appello e di primo grado per superare questioni delicate, come gli archivi delle intercettazioni o le segnalazioni di operazioni finanziarie sospette. Il nuovo procuratore nazionale ha un compito non facile. Come abbiamo più volte segnalato, la minaccia mafiosa è mutata ma non è meno grave. Da procuratore di Catania compresi la trasformazione in corso e anche se essa non mutava la realtà di Cosa Nostra, occorreva adeguare le nostre indagini alle nuove sfide. Il Pnrr è una nuova occasione di predizione, su cui le mafie possono inserirsi, e su questo prosegue un lavoro comune tra Dna e Procura generale. Quanto al cosiddetto “ergastolo ostativo”, abbiamo detto con chiarezza che non è il principio affermato dalla Corte costituzionale che ci preoccupa, ma come esso verrà applicato. I rischi sono grandi: la collaborazione processuale è la via maestra ai benefici e va salvaguardata, il diavolo si nasconde nei dettagli”. Che messaggio si sente di dare alla magistratura italiana e in particolare ai pubblici ministeri italiani? “Non ho messaggi. Forse solo l’auspicio che non si ripetano errori del passato, che non si attribuisca alla giurisdizione il compito salvifico dell’etica. Ma i miei giovani colleghi sono spesso ben preparati, hanno passione e solide radici nella cultura dei diritti. Ora tocca a loro e spero non dimentichino quanto di buono è stato fatto, quanto siano costati i risultati straordinari che abbiamo ottenuto contro il terrorismo e le mafie e per affermare il valore della legalità”. Caro Salvato, da nuovo capo della Cassazione costruisca una casa di vetro di Tiziana Maiolo Il Riformista, 29 giugno 2022 Si scrolli di dosso la croce della continuità con Salvi che le hanno gettato addosso, scappi dalle circolari assolutorie del suo predecessore. Via il segreto sulle archiviazioni disciplinari. Trasparenza: l’ha invocata Mattarella per il Csm, è quel che i cittadini si aspettano. Si faccia carpentiere e costruisca la Casa di Vetro, dottor Luigi Salvato. È questo il suo compito, che dovrà svolgere dal prossimo 10 luglio, quando assumerà il ruolo di Procuratore Generale presso la corte di cassazione. È quel che le ha chiesto il Presidente della repubblica Sergio Mattarella, quando ha invocato la “trasparenza” del Csm. È quel che si aspettano i cittadini, se pur sfiduciati dalla precedente esperienza, quella ancora in corso. È quel che ci permettiamo, per nulla sommessamente, di suggerire noi, nell’augurarle buon lavoro, perché il suo lavoro sia veramente “buono”. Perché renda onore alla magistratura. Il primo orpello di cui dovrebbe liberarsi, illustre dottor Salvato, è quella reputazione di “continuità” con il lavoro del suo predecessore ancora per pochi giorni in carica, il procuratore generale Salvi. È una croce che le hanno tirato addosso alcuni organi di informazione che le vogliono male. La tratti con fastidio, quella croce. Anche se finora non ne è parso dispiaciuto, così come quando l’intero Comitato di presidenza del Csm le ha dato il voto in modo compatto. Non è stato un bel segnale, dal punto di vista di noi che aspiriamo a vederla carpentiere impegnato a costruire la Casa di Vetro, vedere lo squadrone del vice David Ermini, del primo presidente della cassazione Pietro Curzio e dello stesso pg Giovanni Salvi mettere in cassaforte i propri voti per lei, perché fossero al sicuro. Chissà perché, quel gesto, e il fatto stesso che colui di cui lei sarà il successore non si sia astenuto, ci ha riacceso una lampadina, il ricordo di quella sera all’hotel Champagne in cui tutto cominciò. E la sensazione che tutto sia ormai finito. Non “così, senza un vero perché”, come dice la canzone, ma con un perché molto chiaro, perché nulla cambi, dopo l’eliminazione di Luca Palamara, quasi fosse stato un corpo estraneo. Quello squadrone compatto, e il fatto stesso che nessuno abbia chiesto approfondimenti sui suoi comportamenti del passato all’interno del “Sistema”, benché il suo nome sia stato sfiorato dalle chat di Palamara, hanno fatto pensare a una certa fretta di chiudere quella pratica di due anni fa. Come se il marcio della mela sparisse d’incanto dopo aver eliminato il primo spicchio. È inutile spiegare a un magistrato esperto e accorto come Lei che tutte quelle chat registrate dallo smartphone erano ben di più della rivelazione di un sistema di spartizione di posti e promozione tra toghe. Prima di tutto perché disvelavano un clima da ballatoio, pieno di pettegolezzi, parolacce, intrighi e insulti tra colleghi. Un ambiente indegno di una magistratura che si rispetti. Ma anche, e questa è la cosa più grave, per il grave sospetto di una certa gestione dei processi, quelli politici prima di tutto. Lei, per esempio, non si è un po’ vergognato di sentire dei magistrati che, parlando tra loro, dicevano che Salvini aveva ragione ma che lo si doveva attaccare? Lei al posto del leader della Lega si sarebbe sentito a proprio agio a dover comparire davanti a un tribunale? Supponiamo quindi, dottor Salvato, che lei abbia sentito un certo formicolio, un certo fastidio, nel leggere che affronterà il suo nuovo compito dando “continuità” al lavoro del suo predecessore. Lei sa benissimo che dovrebbe, prima di tutto, demolire in qualche modo quel ballatoio delle oscenità. A meno che Lei non ritenga che il fatto di aver radiato dalla magistratura Luca Palamara e aver fatto sospendere dalle funzioni i cinque membri del Csm presenti quella sera all’hotel Champagne non abbia significato tagliare la testa al mostro e quindi ucciderlo. Non è così, il mostro è ancora lì tutto intero e il ballatoio si è semplicemente messo la tuta mimetica, per ora. Se ne è accorto il Presidente Mattarella, quando invoca la “trasparenza” del Csm. Ma dove è la Casa di Vetro della giustizia se colui che ha il potere di azione disciplinare nei confronti delle toghe e che aveva promesso il massimo di severità in una conferenza stampa dopo essere stato nominato come Procuratore generale, ha poi derogato al suo compito, intorbidando le acque con circolari assolutorie? Dove sono finite le azioni disciplinari promesse? Nei giorni scorsi abbiamo assistito all’ennesimo salvataggio persino dal trasferimento d’ufficio. Il Csm ha infatti stabilito che i messaggi inviati dalla dottoressa Anna Canepa, ex segretaria di Magistratura democratica e sostituto procuratore della Dna a Luca Palamara erano “inopportuni” ma non turbavano il suo ambiente di lavoro né la sua imparzialità. È quindi normale, e se vogliamo dirla tutta, anche molto educativo da parte di un magistrato “antimafia” definire come “banditi incapaci” due colleghi per poi proporre la promozione di un altro? Ma quale cultura, quale mentalità precedono quelle parole? Forse sono le stesse degli undici membri del Csm che hanno votato a favore della permanenza della dottoressa Canepa al suo posto. Forse un po’ di ballatoio c’è anche lì, nel Consiglio “rinnovato” dopo le dimissioni di quelli dell’hotel Champagne. Viene da rimpiangerli, almeno loro si occupavano di politica. La dottoressa Canepa, nei cui confronti il pg Salvi non aveva neppure promosso l’azione disciplinare, del resto è in buona compagnia. Della stessa sorte aveva infatti goduto un’altra magistrata di sinistra, quella Donatella Ferranti che era stata anche deputata del Pd e magistrato della corte di cassazione. Anche i suoi messaggi erano parsi al Csm forse inopportuni, o scorretti, o maleducati, ma non meritevoli di sanzione alcuna, né disciplinare né da punire con il trasferimento. Vien quasi da pensare che sarebbe stato come se Luca Palamara avesse sempre parlato e scritto e agito in un delirio di onnipotenza, totalmente da solo. Solo sul ballatoio. Lei si chiederà, a questo punto, esimio dottor Salvato, quali dovrebbero essere le sue prime azioni per disfarsi di quel ballatoio e poi farsi carpentiere e costruire la Casa di Vetro. Per spezzare quel filo rosso della continuità che, ne siamo certi, lei vive con un certo fastidio. Credevamo fosse chiaro. Prima di tutto deve scappare di qualche chilometro dalle circolari del procuratore Salvi. Deve allontanarsene perché il suo predecessore, nonché suo superiore, visto che Lei è ancora attualmente il suo numero due, ha commesso un atto veramente poco elegante nel salvare se stesso. Se è vero infatti, come scrive Palamara nel suo libro, che l’attuale pg della cassazione lo ha incontrato per ben due volte per impetrare quella nomina che poi arriverà, non è stato un po’ volgare definire legittima l’autopromozione? Così, una volta che colui che ne aveva il potere, aveva stabilito che non è illecito disciplinare farsi campagna elettorale con il pissi-pissi nell’orecchio di chi smistava le progressioni di carriera, era stato del tutto inutile e ingenuo persino che 97 magistrati ne chiedessero le dimissioni. Era diventato inamovibile, insieme a tutti gli altri del ballatoio. Ma il fatto più grave è stato quell’aver posto una sorta di segreto di Stato sulle archiviazioni disciplinari, in modo che cada un velo anche sulle denunce, una sorta di assoluzione generale. In modo che, dopo che erano stati buttati a mare Palamara e pochi altri, le acque si richiudano sopra le loro teste e tutto continui come prima. Ecco dunque che cosa potrebbe fare come prima cosa, dottor Salvato: tolga quel segreto, cerchi di eliminare quel ballatoio e poi costruisca la Casa di Vetro, come le ha chiesto il suo Presidente. Solo così darà dignità e onore alla magistratura italiana e alla giustizia. Lazio. “Le carceri ai tempi della pandemia”, audizione del Garante in commissione garantedetenutilazio.it, 29 giugno 2022 “Il sistema penitenziario va ridisegnato, ridando a ogni istituto la sua fisionomia trattamentale. Occorre consolidare la sperimentazione dei video colloqui che deve diventare una modalità ordinaria ed è necessario adeguare alle norme dell’Ordinamento penitenziario le strutture, sulle quali dovrà essere effettuata la vigilanza da parte delle Asl, così come prevede la legge”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, ascoltato oggi dalla Commissione consiliare speciale sull’emergenza Covid-19, presieduta da Paolo Ciani (Centro solidale Demos), in un’audizione sull’impatto della pandemia sugli Istituti penitenziari del Lazio e sulle Rems. “Occorre garantire una maggiore integrazione sociosanitaria - ha proseguito Anastasìa -, così come era stato suggerito in occasione dell’approntamento del Piano regolatore sociale della Regione. Inoltre, bisogna cogliere l’opportunità degli investimenti del Pnrr, affinché la telemedicina entri in tutti gli istituti, come alcune Asl hanno già iniziato a progettare”.Oltre al Garante Anastasìa sono stati ascoltati anche Antonella Tarantino, funzionaria preposta alla Sanità penitenziaria e alle Rems della Direzione regionale Salute e integrazione sociosanitaria e Fabio Vanni, direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria (Prap) di Lazio, Abruzzo, Molise. Antonella Tarantino ha sottolineato il grande lavoro svolto dai responsabili delle otto Asl a cui fanno riferimento istituti 14 penitenziari del Lazio, la collaborazione continua con le altre istituzioni, la gestione della campagna vaccinale, e il monitoraggio settimanale svolto dalla Direzione regionale Salute e integrazione sociosanitaria sulla diffusione del virus nelle carceri, i cui dati sono pubblicati puntualmente nel sito garantedetenutilazio.it Il direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del Prap di Lazio, Abruzzo e Molise, Fabio Vanni, ricordato le difficoltà logistiche, sorte nel corso della pandemia dalla necessità di sottoporre a isolamento sanitario tutti i nuovi arrivati che ha portato a una rivoluzione nella gestione delle carceri. Spesso è stato necessario indirizzare i detenuti a istituti diversi da quelli deputati per territorio, anche al di fuori della regione. Il blocco dei colloqui ha però aperto la strada alla possibilità di usare collegamenti telematici. L’amministrazione penitenziaria ha così acquistato centinaia di smartphone, mentre il videocolloquio dovrà essere usato anche al di fuori della pandemia, in un’ottica di umanizzazione delle carceri, perché rappresenta una possibilità importante per entrare in contatto con i propri familiari, soprattutto per gli stranieri, e di vedere scorci di casa e di vita familiare, attraverso la videocamera. Per Anastasìa, il Covid ha stravolto il sistema penitenziario: “a Regina Coeli, per fare un esempio, benché sia una casa circondariale, ci sono 400 detenuti con sentenza definitiva e non solo - come sarebbe previsto - quelli in attesa della convalida dell’arresto o del processo. Bisogna tornare ad usare le strutture più adeguate. Restano problemi strutturali, che la pandemia ha messo ancora più in evidenza: ogni stanza dovrebbe avere la sua doccia, non è così. Serve maggior coordinamento fra le strutture penitenziarie i servizi sociali territoriali. Bisogna usare i fondi del Pnrr per usare la telemedicina, uno strumento importantissimo per garantire la salute dei detenuti”. Nel corso dell’audizione sono intervenute le consigliere Chiara Colosimo (FdI) e Bonafoni che hanno posto una serie di domande, in particolare sui supporti psicologici adottati nel periodo di isolamento sanitario, e sulla ripresa delle attività delle associazioni di volontariato. Anastasìa, Tarantino e Vanni si sono soffermati sul tema della tutela della salute mentale. A conclusione dei lavori, il presidente Ciani ha ricordato la mozione approvata dal Consiglio regionale nel novembre 2020, presentata dalla consigliera Bonafoni e dal consigliere Alessandro Capriccioli (Radicali Più Europa), volta a favorire le iniziative per favorire l’attuazione delle misure straordinarie in materia di esecuzione penitenziaria connesse all’attuale fase di emergenza sanitaria. Lo scopo di questa audizione è quello di “rompere l’isolamento delle carceri”, ha detto Ciani il quale ha voluto anche ringraziare tutto il personale, sia sanitario che dell’amministrazione penitenziaria che “in questi due anni ha lavorato in condizioni ancora più difficili”. Toscana. Carceri, salute mentale e Rems: risoluzione approvata in Consiglio regionale inconsiglio.it, 29 giugno 2022 Salute mentale dei detenuti, sistema delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e completamento del sistema sanitario in carcere. Quanto già fatto in positivo deve essere monitorato e implementato. È quanto chiede la proposta di risoluzione approvata a maggioranza in Consiglio regionale con 22 voti a favore e 10 contrari redatta sulla base dell’attività svolta nel 2021 dal Garante regionale Giuseppe Fanfani. Nell’atto, illustrato dal presidente della commissione Affari istituzionali Giacomo Bugliani (Pd), si ribadisce anche l’impegno ad assicurare la finalità rieducativa della pena, il reinserimento sociale dei condannati, l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali, la rimozione degli ostacoli al godimento di tali diritti all’interno di tutte le strutture penitenziarie. “Condivido quanto scritto nella relazione sulla pandemia, in un momento eccezionale sono state fatte opportune scelte eccezionali - ha detto Il vicepresidente del Consiglio Marco Casucci (Lega) - poiché il sovraffollamento nel periodo Covid avrebbe potuto comportare rischi troppo alti. Va bene l’adozione di misure alternative sempre che siano viste come misure eccezionali”. Positivo per Casucci anche che “al 31 dicembre i detenuti fossero 3mila 28 rispetto ai 3mila 556 dell’anno precedente”; i soggetti a carico degli uffici di esecuzione penale esterna sono un numero alto, 9mila 274 e “non possiamo negarci le criticità che permangono per questi uffici in particolare per la carenza di personale, in quanto ad ogni operatore corrispondono 100 unità che hanno commesso un reato, un numero troppo alto”. Plauso da Casucci è arrivato ai medici di medicina penitenziaria e preoccupazione per un eventuale ricorso al 118. Critico, invece, sulle condizioni carcerarie dove prevale la malavita “inaccettabile che carceri siano luogo dove i più forti prevalgono”. “È vero che chi sbaglia deve pagare ma il carcere deve migliorare ed essere rieducativo” così Maurizio Sguanci (Italia Viva). “Occorre costruire un cammino che accompagni il sistema della detenzione” e il “rapporto bidirezionale tra carcere e città deve essere implementato su tutti i livelli sia dal punto di vista degli organi dello Stato ma anche come supporto alle realtà del volontariato civico e del terzo settore che potrebbero rappresentare quell’anello di congiunzione tra il dentro delle carceri e il fuori delle comunità”. Secondo Sguanci è “fondamentale il teatro nelle carceri che permette alle persone di stare in comunità, rieducarsi e avere un confronto con l’esterno”. Nell’ampio dibattito il presidente del gruppo di Fratelli d’Italia Francesco Torselli ha tenuto a sottolineare come non possa essere d’accordo sul fatto che “il carcere sia un luogo di sofferenza”. “Non è un luogo di villeggiatura - ha sottolineato- ma non dovrebbe mai essere un luogo di tortura. Il carcere è semplicemente un luogo dove si sconta il fatto di non avere rispettato le regole della società, ma siamo comunque contro ogni forma di lassismo e depenalizzazione. Così non si fa altro che fare il gioco di chi non vuole le regole e il rispetto della legge”. “Il problema del sovraffollamento nelle carceri toscane - ha aggiunto il capogruppo di Fratelli d’Italia - sembra non esistere, ma solamente perché tre metri quadri a detenuto vengono considerati uno spazio sufficiente per far vivere un essere umano. La funzione rieducativa esiste, peccato che non ci siano gli educatori o siano ridotti all’osso, e in questo modo una delle funzioni degli istituti di detenzione viene meno”. Torselli ha concluso sottolineando tre aspetti: “l’assurdità che gli agenti di polizia penitenziaria siano costretti a ricorrere al medico curante, trovandosi nelle condizioni di vedersi negato un cerotto mentre lavorano in carcere; l’assenza di strutture sanitarie nelle carceri che obbligano all’utilizzo delle scorte anche per permette a un detenuto di fare un semplice esame diagnostico e il tema della popolazione carceraria straniera, in media almeno pari al 50 per cento, che richiederebbe la chiusura di accordi bilaterali con i Paesi di provenienza”. La consigliera regionale del Movimento 5 Stelle Silvia Noferi ha aperto il suo intervento spiegando che secondo lei, e ascoltando alcuni colleghi, si ha come la sensazione “di dimenticarsi che si parla di persone”. “L’appellativo delinquenti” ha aggiunto “non riesco a condividerlo. Sono persone che hanno sbagliato e spesso sono anche irrecuperabili. Il compito è quello di rieducare, ma c’è una dignità da rispettare anche per chi compie i crimi più efferati. La loro dignità è la nostra. Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dal livello delle sue carceri”. Noferi ha aggiunto “di apprezzare la relazione del Garante quando sottolinea come il differente grado di umanità dipenda anche dalle dimensioni dell’istituto di detenzione. Più è grande meno c’è umanità. Chi ha sbagliato non deve soffrire, deve pagare il conto ma quando esce deve essere una persona migliore, altrimenti il rischio di recidive è troppo alto”. “Il problema delle strutture troppo grandi e fatiscenti - ha concluso - si trascina da anni e per questo va sollecitato il Governo nazionale a fare qualcosa”. Un intervento che ha portato alla replica del consigliere regionale di Fratelli d’Italia Diego Petrucci che rivolgendosi direttamente alla collega le ha chiesto se di queste questioni “ne abbia parlato direttamente nel suo partito, il Movimento 5 Stelle, che ha espresso il ministro delle carceri più famoso degli ultimi trent’anni. Un ministro, Alfonso Bonafede, che per tre anni alla guida del dicastero della Giustizia non ha fatto un intervento, uno almeno su un carcere, peggiorando una situazione già difficile”. Petrucci, durante il suo intervento, ha anche definito “ipocrita” l’atteggiamento del Garante Fanfani che “nella sua relazione ha messo insieme soprattutto tante fotocopie, senza occuparsi dell’unico tema su cui ha competenza la Regione, quello della gestione della sanità”. “Trovo assurdo - ha spiegato - che non esistano presidi sanitari nelle carceri, impegnando tre agenti di scorta per portare i detenuti per fare una visita specialistica o un esame. Se non ci sono ambulatori, infermieri o psicologi nelle carceri la colpa è della Regione”. Petrucci ha chiuso il suo annunciando il voto contrario del suo gruppo e auspicando una migliore distribuzione dei detenuti sulle isole di Pianosa e Gorgona. Per la consigliera del Partito democratico Valentina Mercanti “non c’è nessuna ipocrisia nella relazione del Garante che anzi prende delle posizioni molto forti. Va bene la polemica, ma è normale che chi si occupa di detenuti parli non solo degli aspetti che competono alla Regione, ma anche in una prospettiva nazionale”. Parlando poi delle visite dei consiglieri nelle carceri la consigliera ha spiegato come “sia giusto andare anche nelle strutture minorili, un percorso che andrà completato riaprendo così la discussione nei prossimi mesi, con l’idea di approvare un documento condiviso da maggioranza e opposizioni”. Marco Stella capogruppo di Forza Italia ha messo in discussione la figura del Garante che “non deve essere politica, ma tecnica. Le sottolineature politiche non ci interessano. È giusto che tutti abbiano condizioni dignitose in carcere, ma il Garante non ci deve dire come va il mondo, ci deve raccontare quali sono le condizioni negli istituti di detenzione”. “Il Movimento 5 Stelle - ha aggiunto - in tanti anni di Governo non ha cambiato le condizioni nelle carceri che sono piene di extracomunitari e per questo andrebbe fatta una discussione seria su culture e civiltà diverse”. Stella ha concluso il suo intervento auspicando l’accorpamento delle figure dei Garanti in Toscana e ha apprezzato l’iniziativa della commissione Affari istituzionali di andare a vedere come si vive nelle carceri. Durante le dichiarazioni di voto la consigliera Silvia Noferi ha preso la parola per difendere l’operato del ministro Bonafede spiegando come “con l’articolo 7 del decreto legge numero 135 del 14 dicembre 2018, diventato legge nel 2019, si siano previsti progetti e perizie per la ristrutturazione e la manutenzione, anche straordinaria, degli immobili in uso governativo con l’amministrazione penitenziaria, ma anche per la realizzazione di nuove carceri e alloggi di servizio per gli agenti”. Il vicepresidente del Consiglio Casucci ha voluto invece ribadire come “la responsabilità penale, secondo la Costituzione, sia personale e che le pene devono tendere alla rieducazione”. “Chi sbaglia non deve soffrire - ha concluso - ma deve pagare”. Parole che hanno portato all’intervento del consigliere di Italia Viva Maurizio Sguanci che ha voluto sottolineare come l’articolo 27 della Costituzione preveda che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, con l’obiettivo di far uscire dal carcere persone pronte a rientrare nella società”. A concludere le dichiarazioni di voto Massimiliano Pescini del Partito democratico che ha ringraziato tutti per l’dibattito ampio, aggiungendo “di avere preso in grande considerazione i rilievi delle opposizioni”. Pescini ha detto “di apprezzare il lavoro del Garante per la sua sensibilità e il suo impegno costante, caratteristiche che rendono Fanfani un punto di riferimento anche a livello nazionale”. Bari. In cella da poche ore, detenuto 30enne si impicca nella sezione psichiatrica di Cinzia Semeraro Corriere del Mezzogiorno, 29 giugno 2022 “Lo avevano messo nell’ex sezione femminile, la discarica per detenuti psichiatrici”. Era stato portato in carcere nella serata di ieri 27 giugno, il detenuto trentenne della provincia di Bari condannato per omicidio con fine pena 2042, con problemi psichiatrici che questa mattina si è impiccato alla finestra della propria stanza dopo aver annodate le lenzuola alle inferriate. Lo stesso era stato allocato nell’inferno del carcere di Bari che è diventata la sezione ex femminile chiusa per inagibilità, ma riaperta per l’emergenza Covid e poi diventata la discarica dei detenuti psichiatrici. Lo rende noto il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Federico Pilagatti. L’uomo, che aveva problemi psichiatrici, avrebbe finito di scontare la pena tra 20 anni. “Ormai - si legge in una nota - si inizia a perdere il conto dei detenuti suicidatisi nei penitenziari della regione Puglia, senza che ciò scuota la coscienza di alcuno”. Secondo Pilagatti, il detenuto era stato “allocato nell’inferno del carcere di Bari che è diventata la sezione ex femminile chiusa per inagibilità, ma riaperta per l’emergenza Covid e poi diventata la discarica dei detenuti psichiatrici”. Il Sappe “diffida l’amministrazione penitenziaria nel praticare il solito gioco di scarico di responsabilità per poi incolpare i poveri poliziotti costretti a lavorare in quel reparto in una situazione di emergenza sia per quando riguarda le condizioni igienico sanitarie, sia - conclude la nota - per la tipologia di detenuti abbandonati da tutti al loro destino, da soli”. Parma. Muore in attesa della semilibertà perduta per un errore giudiziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2022 Mario Serpa è morto in carcere a Parma, ergastolano da 40 anni. Dopo un lungo percorso di riabilitazione riconosciuta da giudici e operatori, aveva ottenuto la semilibertà nel 2006, tolta nel 2012 per un processo, assolto nel 2017 in appello ne aspettava il ripristino. È morto nel carcere di Parma, attendendo la semilibertà che doverosamente gli spettava perché precedentemente tolta a causa di un errore giudiziario. Recluso fin dall’83 con tanto di condanna all’ergastolo, dopo un lungo percorso trattamentale è riuscito ad ottenere i primi benefici e infine nel 2006 la semilibertà per poter lavorare. Una persona totalmente cambiata, così come riconosciuto dall’equipe del carcere e dai giudici stessi. Ma per una inchiesta giudiziaria nei suoi confronti si è visto azzerato tutto il suo percorso. Nonostante l’assoluzione piena e senza che la procura generale facesse ricorso in Cassazione, la magistratura di sorveglianza ha respinto la richiesta perché, in sostanza, doveva ricominciare da capo per riacquistare la fiducia. Dopo 6 anni di semilibertà un ingiusto provvedimento di custodia cautelare - Si chiamava Mario Serpa ed è morto lunedì sera, 28 giugno, all’età di 69 anni. Per capire le cause, bisogna attendere l’esito dell’autopsia. Durante l’arco temporale intercorrente dal 2006 al 2012 non si era registrata a carico di Serpa alcuna infrazione e il comportamento tenuto dallo stesso è stato più che retto. Non è stata colpa sua se, dopo 6 anni di semilibertà, è stato raggiunto da un ingiusto provvedimento di custodia cautelare, sfociato poi in una piena assoluzione. Mario Serpa fin dal 2012 è recluso in alta sorveglianza del carcere di Parma, senza che ce ne sia motivo visto che da tempo era stato declassificato grazie all’esito del suo percorso trattamentale. Vale la pena riportare l’ultima relazione di sintesi redatta proprio dal carcere parmense: “Comportamento assolutamente corretto, assenza di sanzioni, manifesta cortesia, disponibilità e interesse, relazioni rispettose, frequenza del laboratorio del riuso e svolgimento di attività a turnazione nella distribuzione dei pasti. I rapporti sono assidui con i tre figli, due dei quali affetti da handicap, La moglie del detenuto è morta di cancro nel 2001. Sulle vicende criminali, si evidenzia che, prima di esse, Serpa ha sempre lavorato, ma l’uccisione del padre per una vendetta trasversale nel 1979 ha segnato il punto di non ritorno e di inizio della caccia agli assassini del padre, poi sistematicamente uccisi”. Dalla relazione di sintesi si evince anche il motivo per il quale nel ‘ 79, all’età di 26 anni, finì nel vortice della violenza e dell’odio diventando così un appartenente alla ‘ndrangheta. Scriveva: dovrei ricominciare da zero nonostante l’errore giudiziario - Era cambiato, sostituendo l’odio e la rabbia con l’amore. Lo ha raccontato molto bene attraverso una struggente lettera che inviò nel 2020 all’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci. “Da quello che si desume dal ragionamento che ha fatto il Tribunale di Sorveglianza di Bologna nel concedermi o meno il beneficio che ho chiesto - ha scritto Mario Serpa - mi sembra di capire che io dovrei ricominciare da zero (come un detenuto che chiede per la prima volta questo beneficio) non tenendo conto né dell’errore che ha commesso la Procura, né del mio trascorso (prelevato e rinchiuso nella semilibertà senza aver commesso mai una sola infrazione). In altre parole, dovrei passare di nuovo nel crudele gioco delle “forche caudine”: ti sembra giusto?”. Nella lettera si è rivolto a Musumeci sottolineando che dai suoi buoni insegnamenti ne ha fatto tesoro e “seppur ancora oggi mi ritrovo a dover soffrire (per colpe non mie) non mi lascerò mai più guidare né dall’odio né dalla prepotenza, come quand’ero giovane”. Rispedito in Alta sorveglianza, ma la cassazione ha accolto il suo ricorso - Un percorso interrotto ingiustamente, tanto che era stato rispedito nel regime di alta sorveglianza. L’inchiesta giudiziaria era denominata “Tela del ragno” relativo all’indagine su dei clan della ‘ndrangheta attivi nella zona del tirreno cosentino e su decine di omicidi. Nel 2017 è stato assolto in appello e i Pm non hanno fatto ricorso. Assoluzione piena. Lui non aveva nulla a che fare con quella vicenda per la quale però altri sono stati condannati. Un dramma, perché la vicenda fa capire quanto sia stato fallimentare non solo il carcere, ma anche il sistema giudiziario che in un attimo ha distrutto tutto il lungo percorso che l’aveva portato al cambiamento. E questo, nonostante la Cassazione gli abbia dato ragione ritenendo fondato il suo ricorso sul mancato accoglimento da parte del tribunale di sorveglianza di Bologna ritenendolo affetto da “motivazione insufficiente e contraddittoria”. La Cassazione, infatti, è stata chiara sul punto. Pur senza voler negare lo spazio di apprezzamento discrezionale dei presupposti applicativi dell’istituto della semilibertà, che compete alla giurisdizione di sorveglianza, i giudici della Corte Suprema hanno rilevato che il Tribunale “non ha offerto logica e puntuale giustificazione delle ragioni per le quali il condannato, una volta mandato assolto dall’accusa penale che aveva comportato l’interruzione della pregressa esperienza in regime alternativo alla carcerazione senza fossero emersi elementi negativi di valutazione durante quel periodo e dopo il ripristino della detenzione, non possa esservi nuovamente e proficuamente ammesso”. La Cassazione, inoltre, ha sottolineato che il richiamo al principio di applicazione graduale dei benefici penitenziari, seppur corretto in linea di principio, “non risulta motivatamente applicato al caso di specie, se si considera che il percorso graduale di sperimentazione all’esterno del carcere nei confronti di Mario Serpa è già avvenuto per un periodo di svariati anni con esiti, ritenuti soddisfacenti a giudizio degli operatori penitenziari e dello stesso Tribunale”. Per la nuova valutazione chiesta dalla Cassazione l’udienza era per il 14 luglio - A quel punto il tribunale di sorveglianza ha dovuto, per ordine della Cassazione, rifare una nuova valutazione. Ma l’udienza, per un motivo e per un altro, è stata rinviata. La prossima udienza per decidere finalmente il ripristino della misura alternativa è stata fissata per il 14 luglio. Mario Serpa però è morto, non facendo più in tempo a vedersi ripristinata la semilibertà che aveva ottenuto con sudore e voglia di riscatto per un crimine commesso più di quaranta anni fa. Non solo. Era in attesa di altri permessi, l’ultimo - così ha appreso il garante regionale dell’Emilia Romagna Roberto Cavalieri - era per poter andare a trovare i due figli gravemente disabili. Nell’ultimo colloquio avuto con il Garante, Mario Serpa lamentava il fatto che il magistrato non gli avesse più concesso permessi. La nipote, da anni, gli è stato vicino, facendo anche da tutore legale. A pensare, che proprio a causa dell’inchiesta giudiziaria che colpì ingiustamente Serpa, anche lei e la sua famiglia ha subito problemi nonostante fossero incensurati. Sì, perché la clava giudiziaria inevitabilmente va a colpire anche chi è vicino alla persona attenzionata. Poco importa se tutto ciò provoca sofferenza materiale ed esistenziale. Resta il fatto che Mario Serpa, successivamente all’ingiusta revoca della semilibertà, era in attesa del ripristino a seguito della sentenza di assoluzione passata in giudicato nel processo che vedeva la causa della revoca del beneficio. Quel beneficio rigettato con motivazioni stigmatizzate dalla Cassazione con la sentenza decisa l’11 dicembre del 2020. Com’è detto, ancora è da accertare la causa della morte. Non aveva una patologia grave, ma la nipote dice amaramente a Il Dubbio: “Qualunque sia la causa, me l’hanno ammazzato loro!”. Sicuramente è anche vittima di una pena aggiuntiva e ingiusta, quella che colpisce allo spirito e quindi al cuore. Si può morire anche di dolore. Milano. Morte di Cosimo Di Lauro, indagine su carenza di assistenza medica in carcere di Nico Falco fanpage.it, 29 giugno 2022 La Procura di Milano indaga sull’assistenza medica fornita all’ex boss Cosimo Di Lauro, morto il 13 giugno in carcere: l’ipotesi è che non abbia ricevuto le cure adeguate. L’ex boss della camorra Cosimo Di Lauro, morto nel carcere milanese di Opera la notte del 13 giugno a 49 anni, potrebbe non avere ricevuto le cure necessarie per le patologie di cui soffriva mentre era affidato allo Stato. È questa l’ipotesi su cui indaga la Procura di Milano (fascicolo aperto dal pm Roberto Fontana), con accertamenti affidati alla Squadra Mobile; l’ipotesi di reato è di omicidio colposo. Nei giorni scorsi sono state ascoltate diverse persone, tra cui altri detenuti, anche loro nel regime del 41 bis, e operatori del carcere. Il pm dopo il decesso aveva disposto, oltre agli esami autoptici già effettuati, anche una consulenza medico legale e tossicologica per chiarire sia le cause della morte, sia quali fossero le condizioni di salute di Di Lauro, che già da anni aveva manifestato gravi sintomi, come deliri e allucinazioni, e un evidente tracollo fisico che lo aveva portato a perdere oltre trenta chili durante la detenzione. Cosimo Di Lauro, primogenito del superboss Paolo alias Ciruzzo il Milionario, era detenuto dal 2005, quando fu arrestato da latitante a Secondigliano. Era stato tra i protagonisti della prima Faida di Scampia: proprio le decisioni da lui prese durante la reggenza del clan avevano portato alla scissione dei Di Lauro, alla nascita del cartello degli Amato-Pagano e quindi alla sanguinosa guerra di camorra da decine di morti. Per i suoi avvocati già dal 2008 l’ormai ex boss aveva dato evidenti segni di squilibrio, tanto da non essere più in grado di sostenere i processi; tesi che non era stata però accettata dagli inquirenti. L’ultimo contatto risale al 2019, quando l’avvocato storico, Saverio Senese, lo ha raggiunto nel carcere milanese dopo aver ricevuto una lettera su cui non era stato scritto nulla. Il 13 giugno, la comunicazione del decesso. Di Lauro era stato trovato esanime, supino, nella sua cella. L’autopsia ha escluso una morte violenta e ferite autoinflitte ma proprio le condizioni del corpo hanno indotto la Procura di Milano a ipotizzare che la sua situazione di salute non fosse stata adeguatamente seguita in carcere. I funerali si sono tenuti il 21 giugno, in forma strettamente privato come disposto dalla Questore di Napoli. Firenze. “Nelle celle a 40 gradi. Sollicciano esplode, situazione inaccettabile” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 giugno 2022 Aumenta tra i detenuti l’utilizzo di psicofarmaci. Chiesto un tavolo tecnico a Comune e Prefettura: “Condizioni inaccettabili”. A Sollicciano è emergenza caldo, nelle celle in questi giorni si sono registrate temperature sui 40 gradi. I ventilatori c’erano, gli ultimi furono portati qualche anno fa. Adesso ne sono rimasti pochissimi: alcuni si sono usurati, altri sono stati spaccati dai detenuti. E il caldo, come ogni estate, torna a farsi sentire. Ma le associazioni denunciano anche un aumento dell’uso di psicofarmaci nei detenuti: “Situazione inaccettabile”. A Sollicciano è emergenza caldo. I ventilatori c’erano, gli ultimi furono portati qualche anno fa. Adesso ne sono rimasti pochissimi: alcuni si sono usurati, altri sono stati spaccati dai detenuti. E il caldo, come ogni estate, torna a farsi sentire. “L’afa - ha spiegato Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze - fa aumentare i casi di autolesionismo e il disturbo psichico dei detenuti, tanto che oggi quelli con problemi di salute mentale, come riportato dal recente rapporto dell’Agenzia regionale di sanità, ammontano al 49 per cento della popolazione totale del carcere, il 16 per cento in più rispetto alla percentuale del 2009, quando i reclusi con problemi psichici erano il 33 per cento”. Una situazione drammatica, quella descritta all’interno del penitenziario fiorentino, dove un detenuto su due fa uso di psicofarmaci e dove sono pochissimi i reclusi che svolgono un’attività lavorativa. “Gli psicofarmaci sono vissuti come unica soluzione per rendere tollerabile la vita quotidiana e sopportare i limiti di un carcere in cui è assente la funzione rieducativa. Così come è oggi Sollicciano è una discarica sociale”, ha aggiunto Lensi. La situazione del carcere fiorentino è stata analizzata nel corso di una conferenza stampa in Palazzo Vecchio alla quale ha partecipato anche il cappellano del penitenziario don Vincenzo Russo, che ha confermato il caldo torrido: “Sollicciano è un forno, a volte 40 gradi in cella, i detenuti vengono ai colloqui senza maglietta, dicono di essere allo stremo”. E poi il problema delle cimici: “I detenuti mi mostrano i loro copri martoriati dalle punture”. Secondo Russo, “è inaccettabile che in una città di arte e cultura come Firenze esista ancora un carcere in queste condizioni”. Quanto al progetto di portare gli Uffizi dentro Sollicciano, “è un’azione autoreferenziale, che non tiene conto della realtà della città. Bisogna organizzare visite nell’istituto penitenziario per vedere le opere più belle, che sono dentro le celle, coperte di ragnatele, cimici, scarafaggi e insetti. Opere abbandonate a sé stesse: la popolazione detenuta”. Per tutte queste ragioni, nel corso dell’incontro è stato chiesto un tavolo tecnico su Sollicciano al garante comunale dei detenuti, al Comune, alla Città metropolitana e alla prefettura, mentre lunedì in Consiglio comunale ci sarà il question time di Sinistra Progetto Comune: “Di carcere si parla solo dopo un episodio eclatante - ha detto il consigliere comunale Dmitrij Palagi - non si agisce in modo preventivo, forse perché parlare di istituti penitenziari non paga, se non per coltivare consenso elettorale in alcuni ambienti?”. E infine: “A noi interessa che le istituzioni rispettino i loro doveri. La popolazione detenuta non deve sparire dalla città. Abbiamo un Garante comunale, che già una volta è venuto in aula. Torni, insieme al cappellano, a spiegare che non servono relazioni privilegiate con i ministeri, o annunciando opere di cemento. Il tema è sociale, prioritario e non rimandabile”. Monza. “Celle al collasso, sfollate il carcere”: la richiesta della Uil-Pa monzatoday.it, 29 giugno 2022 Troppi detenuti, troppo stipati: così che la situazione già delicata e precaria potrebbe esplodere. Così come è successo nei giorni scorsi. Da qui l’ennesimo grido di allarme della Uilpa (Unione italiana lavoratori pubblica amministrazione) polizia penitenziaria. “A Monza c’è da anni un grave ‘sovraffollamento’ ed un’alta concentrazione di soggetti problematici - spiega Domenico Benemia, della Uilpa polizia penitenziaria. La casa circondariale di Monza è l’unico istituto del mondo occidentale ad avere i detenuti che dormono sulle brandine pieghevoli. Una sezione con 50 posti letto, viene trasformata in una sezione con capienza di 75. In alcune camere, sistematicamente vengono rilevate cimici da letto e ci sono chiusure di stanze per la disinfestazione, quindi mancano altri posti. Ogni giorno arrivano detenuti problematici da altre sedi regionali e dall’istituto di Monza si fa fatica a trasferire quei soggetti che creano problematiche all’ordine e alla sicurezza”. “Recentemente è stato aperto un nuovo padiglione con capienza di 80/90 posti letto ed attualmente ospita poco più di 10 detenuti, ed in istituto ci sono sezioni che scoppiano, con detenuti che dormono sulle brandine che per stare da soli preferiscono andare all’isolamento, così come è difficile gestire adeguatamente le sezioni 1^ accoglienza e sez. D in quanto ospitano detenuti fuori circuito”, prosegue. Una vera e propria polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro. “Il carcere è un ambiente che crea conflitto e ci permettiamo di dire che i conflitti potrebbero essere attenuati se l’amministrazione si impegnasse a creare quei luoghi non sovraffollati, strutturati adeguatamente per soggetti sempre più problematici (psichiatrici) e per i lavoratori di polizia penitenziaria ed operatori civili che sono stufi di fare da capo espiatorio e pagare per colpe non generate da loro ma dovute a mancanze da parte dell’amministrazione penitenziaria”, conclude. Da qui la richiesta choc di “attuare nell’immediato per l’istituto di Monza uno “sfollamento” di detenuti in modo che le sezioni possano ospitare il giusto numero e non avere persone costrette a dormire sulle brandine”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Carcere ancora senz’acqua corrente, lavori in ritardo di mesi di Antonio Tagliacozzi Edizione Caserta, 29 giugno 2022 Dopo 27 anni dalla sua costruzione il carcere di Santa Maria è ancora senza acqua corrente. Eppure erano tutti presenti, ma proprio tutti, quel sei aprile del 2021 alla cerimonia della posa della prima pietra per la costruzione dell’allacciamento alla rete idrica comunale della casa circondariale di massima sicurezza in località “Spartimento”. Il tempo massimo previsto per la conclusione dei lavori, era stabilito in trecento giorni lavorativi, ma è passato un anno e tre mesi e nulla è ancora avvenuto. L’opera non è conclusa ed i detenuti del carcere di massima sicurezza sono ancora senza acqua, ma l’amministrazione penitenziaria profonde risorse per la realizzazione di un canile all’interno della struttura. Si tratta di attendere ancora e poi, via le autobotti e i pozzi artesiani dal carcere e i detenuti potranno usufruire di acqua corrente a tutte le ore del giorno e della notte senza razionamento. Per la storia, diciamo che è la ditta Bemar srl di Roma, che ha vinto l’appalto per la realizzazione dell’opera fornendo un ribasso sulla base d’asta di ben il 35,78 per cento su un importo complessivo di un milione 159.685. Il netto contrattuale risulta così di 984.983 euro di cui 744.669 per lavori, 162.594 per oneri di sicurezza e 77 mila euro per smaltimento dei rifiuti. Sono state 19 le ditte o associazioni d’impresa che hanno partecipato al bando per i lavori per la realizzazione di una condotta idrica al servizio della casa circondariale e delle due aule bunker di santa Maria. L’importo a base d’asta è stato fissato in un milione e 400 mila euro e l’appalto è stato aggiudicato con il criterio dell’importo più conveniente. Quindi, dopo oltre ventisei anni di promesse e ritardi, ci si avvia alla conclusione di una questione che interessa la carenza idrica al carcere di massima sicurezza “Generale Uccella” che ospita circa 940 detenuti su una capienza massima di 833, 478 agenti di polizia penitenziaria e circa altre cento figure professionali. Il carcere non è senza acqua, ma non è attaccato alla rete idrica cittadina e questa “mancanza” crea qualche problema di approvvigionamento che risale alla sua costruzione e da allora si è andati avanti con pozzi artesiani, autobotti e… bottiglie di acqua minerale. La gara per l’affidamento del servizio di progettazione e di tutte le indagini connesse è stata aggiudicata al RTP (Raggruppamento temporaneo di persone) studio tecnico Colosimo ed altri che ha offerto un ribasso, sull’importo fissato in complessivi 96 mila euro e 600, del 39,25 per cento determinando l’importo netto di aggiudicazione in 58 mila 684 e 50 oltre Iva e cassa Previdenza per complessivi 15 mila 774,00 euro. È stato il primo atto concreto, questo, per la soluzione del problema che negli ultimi anni è stato più volte denunciato e al centro di vibrate proteste da parte dei detenuti e dei difensori dei loro diritti che hanno posto in essere una serie di iniziative che sono valse a smuovere la burocrazia e concretizzare tutte quelle iniziative necessarie per risolvere la questione. Il finanziamento dei lavori per l’allacciamento alla rete idrica comunale della casa di massima sicurezza e le due aule bunker è a carico della Regione che ha stanziato i soldi con una deliberazione dell’aprile del 2016 (un milione e quattro di euro) ed ora si è passati alla fase operativa per la eliminazione del problema. In questa vicenda, si inserisce, la completa demolizione del tratto di strada provinciale che da santa Maria porta alla località “Spartimento”. I lavori di interro della condotta hanno rovinato il piano stradale il che rappresenta un grave pericolo per gli automobilisti. Sarebbe il caso d’intervenire per evitare ulteriori disservizi. Bologna. Carcere, lavoro e misure alternative: 10 anni di FiD e l’inaugurazione di Casa Corticella di Liberi dentro - Eduradio liberidentro.home.blog, 29 giugno 2022 “Perché ne valga la pena. Esperienze di reinserimento” è il titolo del convegno, del 25 giugno scorso, tenuto nella casa circondariale di Bologna per celebrare i 10 anni di “Fare impresa in Dozza” (FiD) e l’inaugurazione della nuova Casa di accoglienza don Giuseppe Nozzi, situata a pochi passi dal carcere bolognese Rocco D’Amato di Bologna destinata a persone che rientrano nell’area penale: detenuti e messi alla prova. Fare impresa in Dozza (FID) è il progetto nato nell’omonima casa circondariale bolognese che offre una misura alternativa alla reclusione attraverso l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Nasce dall’unione di tre giganti del packaging - Gd, Ima e Marchesini Group, a cui negli ultimi anni si è aggiunta Faac - con l’obiettivo di fornire, attraverso la realizzazione di lavori di carpenteria, assemblaggio e montaggio di componenti meccanici, un’opportunità di lavoro stabile e duraturo. Non solo dentro il carcere, ma anche fuori. Al convegno sono intervenuti Rosa Alba Casella, direttrice del carcere, il cardinale Matteo Maria Zuppi, Maurizio Marchesini, presidente FiD, Alvise Sbraccia dell’Università di Bologna, padre Giovanni Mengoli, presidente del gruppo CEIS, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ed Emma Petitti presidente dell’Assemblea legislativa. Sono “dieci anni di un’esperienza molto positiva cha ha saputo resistere nel tempo” ha esordito la direttrice Rosa Alba Casella perché “sappiamo che i tempi del carcere non sono quelli di un’impresa. Fid ha consentito ai detenuti che in questi anni si sono avvicendati nei laboratori non soltanto di conseguire competenza tecniche, ma anche di abituarsi a lavorare in gruppo, a relazionarsi correttamente”. Non tutti i detenuti, però, possono prendervi parte: “normalmente - ha spiegato il presidente di Fid Maurizio Marchesini -, scegliamo persone con pene abbastanza lunghe, che poi spesso hanno dei benefici e quindi possono uscire in regime di semi-libertà prima della scadenza della pena. In questo momento abbiamo tra le 14 e le 15 persone. In tutto, dall’inizio abbiamo portato circa 50 persone al lavoro”. Numeri importanti, ma che da soli non possono bastare. “La strada è ancora lunga, perché, come ogni cambiamento, quello della riabilitazione dei detenuti attraverso l’attività professionale è un processo che richiede tempo e competenze (anche psicologiche) e perché alle difficoltà di natura comportamentale si aggiungono quelle oggettive relative al concreto reinserimento nella comunità: l’accesso all’abitazione, i contesti sociali di provenienza degli ex-detenuti, le barriere del pregiudizio e dell’indifferenza, il comprensibile disorientamento di fronte alla riconquistata autonomia materiale, sociale e relazionale e la mancanza di appositi percorsi di sostegno e di orientamento”. La pensa così anche l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro insieme a Mauro Palma, Garante azionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo Zuppi “ci sono troppe poche iniziative, non ci dovrebbe essere un solo detenuto che non abbia un progetto su di sé perché altrimenti il carcere è soltanto punitivo. La società civile deve permettere una funzionalità migliore del sistema carcerario. Fa parte di una responsabilità comune. Dobbiamo ricordarci che con poco possiamo fare molto e tutti dobbiamo fare qualcosa”. Il rischio di un carcere che semplicemente contiene le persone detenute ma non le rieduca è, secondo il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, quello di una pena fatta di “tempo sottratto e privo di significato. Un principio da tenere sempre presente che la pena è già la privazione della libertà personale, dunque non si va in carcere per essere puniti”. Dunque l’obiettivo di iniziative come queste, ha chiosato Emma Petitti, presidente dell’Assemblea legislativa della Regione, “è contrastare la discriminazione sociale e l’esclusione lavorativa delle persone che hanno vissuto un’esperienza detentiva, questo anche attraverso la formazione e il lavoro” che anche in carcere, è un diritto e un segno di civiltà. “Le imprese e le cooperative attive nelle carceri, numerose in Emilia-Romagna, hanno un ruolo determinante rispetto a questo orientamento, proprio per assicurarsi che i progetti di inclusione lavorativa e sociale possano portare a miglioramenti concreti nella vita delle persone recluse”. Infine un’ultima battuta sulla recidiva che, come ha ricordato padre Giovanni Mengoli, presidente del Gruppo Ceis, durante l’inaugurazione della Casa di accoglienza Don Giuseppe Nozzi in zona Corticella, per chi sconta la pena in misura alternativa si abbassa del16-20% contro il 66-70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere. Si tratta di dati che “dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza come questa”. Anche perché “con l’accoglienza in misura alternativa si ottiene una drastica riduzione dei costi, pari a circa due terzi rispetto alla detenzione”. All’inaugurazione c’era anche il sindaco Matteo Lepore: “Questo è un luogo di vita e di cittadinanza. Non offre solo un tetto alle persone ma la possibilità di incontrarsi e lavorare insieme. Grazie per questa realtà a cui date vita”. Lecce. Una start up carceraria per restituire dignità ai detenuti di Domenico Guarino luce.lanazione.it, 29 giugno 2022 Finanziato dal Pon inclusione servirà per produrre l’intero fabbisogno nazionale di arredi carcerari attraverso il lavoro degli stessi reclusi. È partito a Lecce il progetto M.I.L.I.A. dove modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale si fondano portando alla nascita di una vera e propria start up carceraria per la produzione di manufatti in legno che andranno a soddisfare, attraverso il lavoro degli stessi detenuti, l’intero fabbisogno nazionale di arredi carcerari. Il progetto è finanziato tramite il Pon Inclusione, per un valore complessivo di 750mila euro, e mette in rete gli istituti penitenziari di Lecce e Sulmona. Per la sua realizzazione, è stata sottoscritta apposita convenzione di sovvenzione tra la Direzione Generale per la Coesione del Ministero della Giustizia e la Regione Puglia. L’obbiettivo di ridurre la vulnerabilità dei soggetti che escono dal circuito carcerario e garantire continuità lavorativa al momento del ritorno in libertà. Dal riciclaggio del legno, dunque, al ‘riciclaggio’ di una vita, che può rinascere attraverso la formazione al lavoro. La sperimentazione di questi percorsi di inserimento lavorativo intramurario trova ispirazione nell’esperienza spagnola di C.I.R.E. (Centre d’Iniciatives para la Reinserciò). Il Ministero della Giustizia ha deciso di puntare sui settori delle produzioni agricole e delle falegnamerie, proprio per consentire ai detenuti di acquisire competenze “spendibili” al termine del periodo di detenzione. Un approccio sistemico e innovativo, mai attuato prima in Italia. I percorsi integrati coinvolgono infatti gli operatori territoriali dei servizi al lavoro, dei servizi di inclusione e dei servizi formativi Nei giorni scorsi, è stata completata la prima fase del progetto: un gruppo di operatori del Centro per l’Impiego di Lecce e dell’Ufficio coordinamento Servizi per l’Impiego dell’Ambito di Lecce di Arpal Puglia ha proceduto alla presa in carico globale di 127 detenuti attraverso colloqui individuali finalizzati a mettere in luce le esperienze pregresse, i profili psico-sociali e il potenziale di ciascuno di loro. Un’attività cruciale, che è alla base della successiva erogazione di specifica formazione nel settore della falegnameria. Dai colloqui con le persone sono emersi bisogni di formazione soprattutto tra i più giovani, non di rado approdati nella struttura di Borgo San Nicola direttamente dagli istituti penali minorili. L’attività effettuata dal personale Arpal, inoltre, ha permesso di rilevare un patrimonio di competenze specifiche e titoli già posseduti dai detenuti più adulti, un “saper fare” che - se messo a frutto - è importante punto di partenza per il loro futuro. Il lavoro dunque come fondamento della cittadinanza e strumento di affermazione della dignità dell’uomo: l’esperienza di Lecce si basa su questi principi costituzionali ed ha l’ambizione di fornire ai detenuti una formazione ed un’attitudine che possa essere un buon viatico per il reinserimento nella vita attiva una volta usciti dalle mura carcerarie. “L’obiettivo del progetto - spiega l’assessore alla Formazione e Lavoro della Regione Puglia - è il recupero e il rafforzamento delle competenze delle persone detenute, ma anche l’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro: è noto che il tasso di recidiva è di gran lunga inferiore tra chi, durante il periodo di esecuzione della pena, ha svolto attività formative e lavorative finalizzate al reinserimento nel tessuto produttivo. Incentivare la dimensione lavorativa diventa, così, non soltanto un elemento di rieducazione, ma anche un’alternativa per coltivare il riscatto sociale ed evitare che, successivamente, si ricorra al crimine come mezzo di sussistenza” Roma. Caso Rebibbia-gruppo Idee, presentata interrogazione alla Camera e al Senato romatoday.it, 29 giugno 2022 La senatrice Fattori e il deputato Fratoianni, di Sinistra italiana, sono intervenuti con una interrogazione alla ministra della Giustizia Cartabia dopo l’inchiesta di RomaToday sul Gruppo idee dell’ex Nar Ciavardini. La senatrice Elena Fattori e l’onorevole Nicola Fratoianni di Sinistra italiana hanno depositato oggi un’interrogazione parlamentare alla Camera e al Senato sulla vicenda dell’associazione Idee dell’ex Nar Luigi Ciavardini, raccontata la scorsa settimana dal Team Dossier di RomaToday. I due parlamentari hanno chiesto alla ministra della giustizia Marta Cartabia “se sono state avviate verifiche su quanto denunciato nell’inchiesta di RomaToday e quali eventuali provvedimenti siano stati assunti”. Fattori e Fratoianni nel testo dell’interrogazione spiegano di essere “convinti che la formazione dei carcerati e la loro reintroduzione nel tessuto sociale e produttivo sia una attività importante e delicata”, per poi aggiungere: “L’inchiesta di RomaToday suggerisce che nel carcere di Rebibbia non si siano svolti gli opportuni accertamenti affinché questa attività sia svolta in trasparenza e con l’attenzione che la questione merita delegando la selezione dei carcerati a una associazione che di fatto ha esautorato la competenza delle istituzioni carcerarie”. Il gruppo Idee ieri sulla pagina Facebook ha annunciato una querela nei confronti di RomaToday: tra i commenti al post sono apparsi i soliti slogan contro i giornalisti, chiamati “pennivendoli” e “terroristi”. Nessuna reazione, al momento, è arrivata dai gruppi del consiglio regionale del Lazio, che il 4 agosto dello scorso anno ha eletto Manuel Cartella, socio del figlio di Ciavardini e legato al gruppo Idee, come coadiutore del Garante regionale del Lazio per i detenuti Stefano Anastasia. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Educazione finanziaria in carcere, corsi per i detenuti bancaditalia.it, 29 giugno 2022 L’educazione finanziaria, oltre a fornire una cassetta degli attrezzi per una gestione più serena e consapevole delle proprie finanze, è un sorprendente strumento di inclusione. Essere in grado di fare le giuste scelte su pianificazione e risparmio o saperne di più sulle dinamiche dei prezzi dei prodotti che acquistiamo vuol dire vivere meglio in relazione col nostro mondo e sentirci più integrati e partecipi nella società. Questa riflessione è tanto più valida per le categorie di cittadini più vulnerabili; tra queste, per le detenute e i detenuti, per i quali il reinserimento nella società è un obiettivo di natura istituzionale. Un ruolo specifico, a questo scopo, lo hanno i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti che “assicurano l’istruzione alle persone detenute”, in collaborazione con i quali, già da anni, la Banca d’Italia conduce grazie alla propria rete territoriale iniziative anche all’interno delle carceri. Lo scorso 6 giugno, la Sede di Napoli ha curato una sessione formativa nell’ambito del percorso condotto dal Cpia di Caserta all’interno della struttura penitenziaria “F. Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Nell’affrontare alcune tematiche attinenti al campo dell’inclusione finanziaria, i formatori della banca centrale italiana hanno illustrato le caratteristiche di alcuni prodotti e attività - tra le quali il conto di base, il microcredito e i money transfer - che sono indispensabili per garantire l’inclusione finanziaria o più fruibili per quella platea di persone che, per svariati motivi, non ha facile accesso ai prodotti e servizi offerti dal canale bancario. Oltre che su materie specifiche quali le differenze di finalità e di funzionamento tra Centrale dei rischi, Centrale d’allarme interbancaria e registro dei protesti, i 40 partecipanti al corso, italiani e stranieri di età maggiore di 20 anni, si sono mostrati molto interessati anche ad approfondire il corretto utilizzo del conto corrente, dei conti di pagamento e le modalità per avere un fido o un mutuo. È stata un’occasione anche per sottolineare l’importanza di valutare con prudenza la propria capacità di indebitamento e per evitare le conseguenze negative della mancata restituzione dei prestiti. Infine, si è tornati più volte a sottolineare la necessità che i clienti bancari effettuino scelte consapevoli, anche sfruttando gli strumenti informativi e di tutela che l’ordinamento pone a disposizione della clientela. Questo evento, che si è svolto nel penitenziario diventato di recente teatro di fatti problematici, è stato fortemente voluto dalla nuova direzione dell’istituto carcerario. L’interesse suscitato tra i suoi destinatari ha alimentato il desiderio di ripetere al più presto iniziative dello stesso genere, assai significative non solo nella “rieducazione” del detenuto prevista dalla Costituzione, ma anche nel rafforzamento del legame di fiducia tra cittadini e istituzioni che è condizione per l’esistere della società civile. Cagliari. Chiesa e carcere, un dialogo che coinvolge tutta la comunità chiesadicagliari.it, 29 giugno 2022 Si è svolto questo pomeriggio, martedì 28 giugno, presso l’Aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari, il convegno promosso dall’Ufficio diocesano di Pastorale penitenziaria. Tema al centro dell’incontro “Chiesa e carcere in dialogo”. L’evento, che ha visto coinvolti diversi soggetti, impegnati in questo ambito sul territorio regionale, mirava a riflettere sulle strade da percorrere, in sinergia con le istituzioni e le comunità cristiane, per realizzare un progetto che sia efficace nella vita della persona detenuta, anche in prospettiva al reinserimento familiare, sociale ed ecclesiale. Con la nascita dell’Ufficio diocesano di Pastorale penitenziaria, lo scorso anno, il vescovo monsignor Giuseppe Baturi, ha inteso offrire un nuovo impulso al servizio finora svolto dai cappellani e dai volontari, nelle due case di detenzione situate sul territorio diocesano: la Casa circondariale di Uta e l’Istituto per minori di Quartucciu. Tra le principali tematiche trattate durante l’incontro emergono le sfide e i frutti di un servizio rivolto alle persone detenute, che spesso vivono ai margini del contesto sociale e alcune testimonianze sull’accoglienza dei detenuti o ex detenuti in comunità. Ampio spazio è stato dato inoltre alla realtà giovanile ed in particolare ai minori in regime di detenzione, riflettendo in particolare sulla possibilità di condividere un progetto comune in termini di prevenzione, formazione giovanile e sensibilizzazione. Da non trascurare infine l’importanza della partecipazione della comunità esterna e l’impegno della Caritas diocesana all’interno degli istituti di pena presenti sul territorio. Per l’arcivescovo di Cagliari monsignor Giuseppe Baturi “l’idea di istituire l’Ufficio per la pastorale penitenziaria è finalizzato a coinvolgere la comunità, in tutte le sue componenti, ma anche le istituzioni, non semplicemente per affrontare un “problema” ma per venire incontro alle esigenze dei fratelli detenuti. Un servizio - ha affermato - non solo per coloro che espiano una pena, ma anche per le necessità delle loro famiglie, del successivo reinserimento in un quartiere, nelle parrocchie di appartenenza, dove si può contare sulla conoscenza e sull’amicizia del parroco. L’operato della pastorale penitenziaria deve essere orientato a rendere possibile un vero cambiamento della vita. Non possiamo infatti lavorare in questo campo senza una stima, senza aver fiducia nella dignità dell’uomo che, sempre, può costruire un nuovo futuro. Un’azione concreta - conclude - affinché questi fratelli non siano solo destinatari di una buona azione ma protagonisti del proprio riscatto e del proprio futuro”. “Questo convegno - ha sottolineato don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei Cappellani delle carceri italiane - ci ha fatto ritrovare insieme, pastore e operatori delle carceri, volontari e uomini di buona volontà. Io stesso sono qui per rappresentare i 250 cappellani che operano nelle carceri di tutta l’Italia. Avviare un nuovo Ufficio di pastorale carceraria significa tenere vivo lo sguardo di tutta la diocesi su queste realtà di periferia esistenziale e esprimere vicinanza a coloro che vivono tale condizione di vita. Talvolta anche i cappellani si sentono un po’ soli. Il nostro servizio è un modo concreto per rendere più vicina la comunità, rendendola consapevole e partecipe del mondo di sofferenza e di emarginazione nel quale vive la Chiesa, tramite sacerdoti e volontari, annuncia il vangelo della misericordia. Nei reclusi si nasconde la misteriosa presenza del Signore: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”. Per questo motivo il carcere è una grande sfida pastorale e di evangelizzazione”. Il direttore della Casa circondariale di Uta, Marco Porcu, ha esordito citando “il titolo del convengo “Chiesa e carcere in dialogo”. Questo tema ci dice come sia fondamentale che l’istituzione penitenziaria abbia bisogno di dialogare con la società, e la Chiesa rappresenta per noi un interlocutore fondamentale. Come operatori penitenziari abbiamo bisogno di raccontare la nostra esperienza e anche le nostre difficoltà alla società esterna. È innegabile - ha evidenziato - che gli obiettivi dell’amministrazione penitenziaria e quelli della Chiesa cattolica sono convergenti. Pertanto, il dialogo con gli operatori pastorali, sacerdoti e volontari, è sempre autentico e collaborativo”. “Oggi le pene inflitte ai minorenni - ha affermato il direttore dell’Istituto di pena minorile di Quartucciu Enrico Zucca - prevedono diverse possibilità di espiazione, non necessariamente con la reclusione presso una struttura di reclusione. Pertanto, l’attenzione dell’Ufficio diocesano di pastorale penitenziaria dovrà essere rivolta anche ai numerosi ragazzi sottoposti a misure penali esterne. Inoltre, è fondamentale che si studino possibilità di intervento nei contesti locali che coinvolgano varie agenzie educative, compresi gli oratori, al fine di prevenire, affrontare e, possibilmente, cercare di risolvere i disagi sociali dei giovani, oggi resi ancora più gravi a causa della lunga pandemia”. Il long Covid delle diseguaglianze in istituzioni chiuse di Grazia Zuffa Il Manifesto, 29 giugno 2022 La pandemia è finita? Oppure no? A giudicare dalla latitanza dell’informazione istituzionale, il Covid sembra ormai alle spalle. In questa direzione può essere letta la quasi totale eliminazione dell’obbligo di mascherine e il rilancio alla grande dei raduni di massa (concerti, eventi sportivi, etc.). Anche i rari commenti sull’aumento dei contagi per la nuova variante Omicron 5 tendono all’ottimismo, sottolineando come non ci sia una pressione sugli ospedali e le terapie intensive. Permangono però le norme rigorose di isolamento per i positivi, con relativa necessità di documentare la ritrovata negatività al coronavirus per tornare a uscire. Sarebbe auspicabile che le istituzioni sanitarie spiegassero la ratio di questa contraddizione, fra la scarsa o nulla preoccupazione per la trasmissione del virus negli scambi sociali e il persistere di eccezionali misure di isolamento per i positivi. Ma ora mi interessa segnalare altro: il persistere dell’isolamento per i positivi, se può essere gestibile con limitato disagio da parte dei “normali” cittadini, diventa fonte di disagio estremo e sofferenza per particolari gruppi di cittadini, come i detenuti e le detenute. Lo ha denunciato il coordinamento dei garanti regionali dei detenuti, come anche il Garante Nazionale delle persone private della libertà. Nell’istituzione chiusa, governare i contagi significa trovare spazi dove tenere le persone positive e ridurre, se non eliminare, tutte le occasioni di contatto con i non contagiati. In pratica, ai detenuti saranno vietate le visite dei familiari e saranno sospese tutte le attività (di lavoro, di studio etc.) gestite dai volontari. Di più. Se l’uscita per il “passeggio” viene sospesa, si rischia di rimanere in cella ventiquattro ore su ventiquattro; per di più d’estate, stagione sempre difficile per chi è carcerato. E magari col blindo chiuso: mi riferisco a una direttiva reale, impartita dall’azienda sanitaria competente in un penitenziario del Nord Italia. Ce n’è abbastanza per una riflessione di carattere etico. Ancora una volta, si dimostra che la pandemia aumenta le diseguaglianze e che le politiche pubbliche non perseguono l’obiettivo di porvi rimedio, o almeno di mitigare tali diseguaglianze. Il Servizio Sanitario Nazionale (preposto alla salute in carcere) sembra gestire la pandemia secondo il classico e burocratico principio di “eguaglianza fra diseguali”, senza preoccuparsi del particolare impatto psicologico dell’isolamento pandemico su chi l’isolamento dalla società già lo vive come pena. Né tantomeno ci si preoccupa dei riflessi che l’aumento dei contagi può avere nella vita di alcuni gruppi cosiddetti “vulnerabili”, ben oltre il problema della pressione sugli ospedali. Ho detto dei detenuti, altrettanto si può dire degli anziani e anziane nelle Residenze Assistite-Rsa. In molte di queste, vige ancora la limitazione delle visite dei familiari. E molti ospiti continuano a morire in solitudine. Le denunce per i danni alla salute, psicologica e non solo, della protratta limitazione dei contatti con l’esterno per gli assistiti nelle Rsa non hanno turbato più di tanto la coscienza pubblica; né tantomeno hanno risvegliato un particolare impegno istituzionale. Detenuti e anziani (specie i non autosufficienti) sono accomunati dalla totale dipendenza, senza alcuna libertà di gestione della propria salute. Il che dovrebbe esaltare la responsabilità dell’istituzione che li governa, naturalmente: che consiste soprattutto nell’ascoltare le persone che da loro dipendono, sforzandosi di tenere presente il loro punto di vista; cercando di restituire ai “vulnerabili” l’autonomia perduta; per gli anziani, cercando di salvaguardare gli spazi di libertà restanti. Succede però il contrario: si esercita il massimo dell’imperio su chi, per la sua fragilità, non ha voce per farsi sentire. E si limita ancora di più la libertà a coloro che più l’hanno cara. L’estate calda dei diritti di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 29 giugno 2022 Dopo tante delusioni, il Parlamento può dare il via libera allo ius scholae: le nuove regole per la cittadinanza di 877 mila studenti. È la breve estate calda dei diritti. Sulle piaghe (Covid, guerra in Ucraina, inflazione, siccità, incendi, cavallette) si può passare un balsamo, che riscatti questa stagione e questa legislatura alla quale storici e costituzionalisti del futuro riserveranno considerazioni poco lusinghiere. La finestra da cui far entrare un’aria nuova resterà aperta per poco, ha già cominciato a chiudersi: il tempo è adesso. O è scaduto. Nessuno crede veramente che si possa arrivare alla battaglia più importante: quella sul fine vita. Altrettanto improbabile la riproposizione del disegno di legge Zan contro l’omotransfobia. Restano la legalizzazione dell’autoproduzione di cannabis e, ancor più importante, centrale, l’approvazione dello ius scholae, variante dello ius soli che concede la cittadinanza a richiesta al minore nato in Italia o entrato prima dei 12 anni che abbia frequentato per almeno 5 anni uno o più cicli scolastici. Questo Parlamento non è stato capace di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica; non ha espresso nessuno dei due premier; ha votato la fiducia a governi di rancorosa alleanza tra partiti che si erano avversati in campagna elettorale e dopo, sia stando all’opposizione, che insieme in maggioranza; ha fatto registrare un record di scissioni e cambi di casacca. Ha un’ultima opportunità per lasciare un segno prima di consegnarsi a una campagna elettorale bellicosa e presumibilmente venale poi all’oblio. Prima di congedarsi dalla pletora di rappresentanti e da se stesso. Un colpo d’ala. Qualcosa che resti. Ci penserà il governo Draghi a gestire le risorse del Pnrr, a scrivere la Finanziaria. Toccherà come sempre al deep state tenere una rotta, garantire che non si affondi. Alle aule degli eletti spetta guidare il processo di trasformazione della società nella direzione da essa stessa indicata. Recepire volontà, sentimenti, fatti compiuti. Sancirli e dare loro dignità di legge dello Stato. Il diritto di cittadinanza per chi qui nasce o qui studia, imparando la lingua, gli usi e la storia di questo Paese e ad essi conformandosi è una di queste situazioni. Interessa 877 mila studenti. Non sarebbe un’estensione indiscriminata, ma mirata: se il numero è alto è perché la realtà è estesa e non è mai stata affrontata. È vero che ci sono altri temi che entrano con più frequenza nei discorsi e nelle preoccupazioni delle persone. Riguardano l’economia, ma a scatenare il caro prezzi ed erodere i risparmi sono e sono sempre stati fattori non controllabili dal Parlamento di un singolo Paese, men che mai l’Italia. Se una farfalla batte le ali in Brasile provoca un tornado in Texas. Se Putin decide di invadere l’Ucraina schizza l’importo delle bollette in tutte le case italiane. Nessun Parlamento poteva prevenire il Covid o, da solo, combattere il cambiamento climatico che porta la siccità e le sue conseguenze. E se è vero che sono più interessati ai diritti quelli che hanno risolto i problemi economici lo è altrettanto che dove si liberalizza la società si mette in moto un virtuoso ciclo economico (l’esempio più noto è quello dell’Irlanda). L’ostruzionista contro le leggi sui diritti accampa che non erano previste nell’agenda del governo (infatti sono in quella del Parlamento), che potrebbero produrre tensioni nella maggioranza (come dire: inclinazioni nella Torre di Pisa), che non interessano al Paese reale. Ogni volta che a destra invocano il Paese reale si ha l’impressione che lo pensino come Silvio Berlusconi descriveva il pubblico televisivo: “Evoluto come un ragazzino che fa la seconda media e non siede neppure nei primi banchi”. Dicendo di rispettarlo perché lo si ascolta gli si fa invece un torto giudicandolo incapace di interessi che non siano contenuti nelle sue tasche. Sui diritti questa strana entità è stata spesso più avanti dei suoi rappresentanti, a prescindere dalle scelte di voto. Lo ius scholae è uno di questi argomenti e dovrebbe essere discusso e votato con libertà di coscienza e senza presunti tornaconti elettorali. In caso poi, questa sì potrebbe essere materia di un referendum a cui appassionare il Paese reale svelandone il volto. Ius Scholae, un dovere morale di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 29 giugno 2022 C’è una legge su cui si combatte da anni che sancisce un principio tanto semplice quanto inoffensivo: se sei un bambino e vivi in Italia da molto tempo, se frequenti le nostre scuole, se magari sei nato qui da genitori arrivati da lontano, per avere la cittadinanza italiana ti basta fare una richiesta al tuo Comune. E nessuno troverà strani motivi per non concedertela. Viste da chi vive nel mondo reale, quello in cui i nostri figli hanno compagni di classe filippini, cingalesi, rumeni, ucraini, russi, cinesi, le ragioni di chi si oppone a questa legge, che nella sua nuova versione si chiama “ius scholae”, ma è già stata “ius culturae” e prima ancora “ius soli temperato”, sono incomprensibili. Ci sono un milione e mezzo di ragazzi nati o cresciuti in Italia che aspettano la cittadinanza. Di questi, 877mila sono studenti. Magari non hanno le gambe lunghissime, non volano nei 100 metri, non sono star di Tik Tok, ma a quella cittadinanza avrebbero diritto perché non si tratta di un premio. “Devi maturarla”, ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini mentre il suo partito faceva di tutto per ostacolare la legge alla Camera. “Bisogna aspettare i 18 anni per richiederla, come adesso”, ha spiegato più volte. E peccato che quelle richieste siano spesso evase con molta lentezza, almeno due anni, quando non mancano documenti, continuità abitativa e chissà che altro. È un percorso tardivo, lungo, a ostacoli. “Cosa cambia?”, chiede sempre chi non capisce cosa sia una discriminazione. Cambia che se sei un campione e vuoi correre con la maglia dell’Italia, il Paese di cui ti senti parte, non puoi. Ma cambia anche che se sei un ragazzo normale, hai finito gli studi e vuoi fare un concorso pubblico, ti è vietato l’accesso. Cambia che tu sei uguale, ma la burocrazia di uno Stato cieco ti legge diverso. E se anche hai le stesse passioni, lo stesso dialetto, gli stessi interessi del ragazzino figlio di italiani che ti siede accanto sui banchi di scuola, ci sarà qualcuno - in un ufficio pubblico, mentre invii un documento, fai una gara o un concorso - che ti dirà no, non lo sei. In tutte le rilevazioni recenti, almeno il 60 per cento degli italiani si dichiara favorevole alla cittadinanza per i bambini figli di immigrati. Perché nessuno, neanche chi vi si oppone, è in grado di negare una verità incontrovertibile: maggiori diritti portano maggiore integrazione. Se sono i contrasti sociali quelli che si temono, è ampliando la sfera dell’accoglienza che li si combatte, non restringendola. E così, lo Ius scholae diventa il perfetto terreno di incontro tra diritti civili e diritti sociali. E ha come luogo di elezione la scuola, l’istituzione che per antonomasia è il luogo di emancipazione di ogni cittadino. Perché deputata, da sempre, a costruire possibilità, ad abbattere diseguaglianze. Fallire adesso su una legge che consente a chi è nato qui da genitori stranieri, o è arrivato da piccolo e ha concluso un ciclo scolastico, di diventare italiano, sancirebbe - ancora una volta - il distacco del Parlamento dal Paese reale. Come per il fine vita. Come per il ddl Zan. A chi dice “non serve”, basta ricordare cos’è successo a Lodi solo cinque anni fa. Quando l’amministrazione leghista della città decise che per consentire ai figli di immigrati di accedere alle mense e ai pulmini scolastici a prezzo agevolato, come per tutte le persone con redditi bassi, serviva qualcosa in più. Una “certificazione relativa al patrimonio di beni immobili rilasciata dagli Stati di origine e corredata di traduzione in italiano legalizzata dall’Autorità consolare italiana”. Era un documento difficilissimo da reperire. Ed era, a tutti gli effetti, una trappola. Un modo per praticare una discriminazione. Su dei bambini. Costringendoli a tornare a casa per pranzo o a mangiare panini da soli in classe. Si sono mossi i comitati cittadini e l’Asgi, l’associazione Studi Giuridici. Il comune è stato condannato dal tribunale di Milano, in primo grado e in appello, per pratiche discriminatorie. Ma la discriminazione arriva facilmente, dove mancano i diritti. L’Italia non può avere una legge sulla cittadinanza che risale al 1992, perché è cambiato tutto: il 10,3 per cento dei bambini che frequentano le nostre scuole non hanno la cittadinanza italiana. Di questi, il 57,4 per cento è nel primo ciclo: sono i più piccoli. A chi può far paura dar loro nuovi diritti? Come hanno potuto, i parlamentari di Lega e Fratelli d’Italia, presentare emendamenti ostruzionistici per mesi senza neanche avere il coraggio di entrare nel merito della questione? O chiedendo che ai bambini figli di stranieri si facciano test sulle sagre paesane o si chieda il massimo dei voti? In un Parlamento preda delle sue battaglie ideologiche, ed evidentemente scollato dalla vita reale, l’approvazione dello Ius scholae sarebbe un miracolo. Un piccolo segnale di speranza. Ue, richieste di asilo aumentate di un terzo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 giugno 2022 Il rapporto dell’Agenzia europea per l’Asilo. Bielorussia, Ucraina, e Afghanistan, le crisi internazionali che hanno spinto la crescita. La crisi provocata dal regime bielorusso ammassando migranti al confine con la Polonia, la presa dell’Afghanistan da parte dei talebani e, quest’anno, l’invasione russa dell’Ucrana. Sono i tre eventi internazionali che hanno fatto crescere di un terzo le richieste di asilo nell’Unione europea fino a toccare quota 648 mila, numero che non si registrava da prima della pandemia. Il dato è contenuto nel rapporto sull’Asilo 2022 illustrato ieri dalla direttrice esecutiva dell’Agenzia dell’Ue per l’asilo (Euaa), Nina Gregori. Nei primi mesi di quest’anno - ha spiegato - “abbiamo registrato il più alto numero di richieste mensili dalla crisi dei rifugiati nel 2015- 2016”, una crescita dovuta proprio a “tre principali fattori”: “la strumentalizzazione dei migranti da parte del regime bielorusso, la presa di potere dei talebani in Afghanistan l’estate scorsa e la guerra in Ucraina”. Secondo l’Agenzia per l’Asilo le rotte tradizionali dell’immigrazione che da sempre hanno avuto l’impatto maggiore per l’Europa varranno sempre meno. Nessuno dei tre fattori citati, ha proseguito infatti Gregori, “ha portato direttamente ad un aumento delle richieste negli Stati membri del Sud, mentre ha avuto un impatto sull’Est”. Il riconoscimento di questa realtà, in particolare a livello politico, sarà significativo per il futuro del sistema europeo di asilo”, ha aggiunto. Sempre l’Agenzia rileva inoltre come il 2021 abbia registrato il numero più alto di minori non accompagnati in cerca di rifugio nei Paesi Ue e dell’area Schengen dal 2017, con 23.600 domande e una percentuale stabile intorno al 4%. In forte aumento il numero di domande da parte di minori provenienti da Afghanistan e Siria. Nel dettaglio, la maggior parte delle domande di minori non accompagnati sono state presentate da afghani (53%), seguiti a una certa distanza da siriani (16%), bengalesi (6%) e somali (5%). Circa i due terzi dei minori non accompagnati richiedenti asilo aveva un’età compresa tra i 16 e i 17 anni. Le bambine rappresentavano solo il 6%. Il rapporto mette in evidenza anche il numero di attraversamenti illegali delle frontiere Ue rilevati nel 2021, che è stato di poco inferiore a 200.000, valore più alto 2017. Sulla base delle segnalazioni di Frontex, sono state rilevate “fluttuazioni nel numero di attraversamenti lungo diverse rotte migratorie, alcune delle quali hanno registrato aumenti significativi, mentre altre hanno osservato flussi relativamente stabili rispetto al 2020”. Per quanto riguarda i Paesi che hanno ricevuto il maggior numero di decisioni sulle richieste di asilo avanzate, anche quest’anno in testa figura l’Italia, paese di primo approdo, seguita da Germania e Grecia. Nel complesso, lo scorso anno sono state emesse 114.300 decisioni in risposta alle richieste avanzate nell’ambito della procedura Dublino, in aumento di un quinto rispetto al 2020, ma al di sotto dei livelli pre pandemia. Ius soli “onorario” ai minori stranieri. La mossa di Bologna irrita Lega e FdI di Olivio Romanini Corriere della Sera, 29 giugno 2022 Ma Forza Italia si astiene. Il sindaco Lepore: “Il nostro non è affatto solo un atto simbolico, è un atto politico”. Oggi in aula alla Camera lo ius scholae. Se rimarrà solo un’iniziativa velleitaria o se è il primo passo storico dal basso per provare ad ottenere una legge nazionale lo dirà il tempo ma di sicuro il sindaco di Bologna Matteo Lepore e i suoi hanno preso la cosa molto sul serio. Lunedì il Consiglio comunale di Bologna ha votato una delibera per inserire lo ius soli nello statuto del Comune: l’amministrazione conferirà la cittadinanza, puramente simbolica, ai minori nati in Italia da genitori regolarmente soggiornanti in città o nati all’estero ma che hanno completato almeno un ciclo scolastico. La delibera di Bologna è la prima in Italia e riguarderà complessivamente circa 11 mila ragazzi e ragazze che riceveranno la cittadinanza simbolica. Il voto in aula si è trascinato fino a tarda sera per l’ostruzionismo del centrodestra ma alla fine della battaglia consigliare Lepore ha potuto cantare vittoria: “Lo ius soli - ha detto a caldo - da oggi è nello statuto del Comune. Il consiglio ha appena votato, è un voto storico. Chi nasce o studia a Bologna da oggi potrà essere cittadino onorario bolognese”. Non è una grande novità in questi giorni ma sul voto il centrodestra bolognese si è diviso: Fratelli d’Italia e Lega hanno dato battaglia in aula e hanno votato contro mentre Forza Italia si è astenuta. Nelle file della giunta e del Pd locale forse pensavano e speravano che la scelta di Palazzo d’Accursio potesse avere un’eco maggiore fuori dalle mura della città ma c’è ancora tempo per questo. Anche perché oggi torna in aula alla Camera lo ius scholae (il diritto di cittadinanza per i figli di immigrati che hanno completato almeno un ciclo di studi) sponsorizzato dal leader del Pd Enrico Letta. Ieri il sindaco di Bologna è tornato sul tema collegando le due partite: “Il nostro - ha detto Lepore - non è affatto solo un atto simbolico, è un atto politico perché arriva il momento nel Parlamento di discutere lo ius scholae. La modifica dello statuto di una città progressista e democratica come la nostra, chiede ad altre città di fare lo stesso, chiede al Parlamento di riconoscere a queste persone che vivono, studiano e lavorano nel nostro Paese, di avere riconosciuto un principio liberale, il più importante, che non c’è nessuna tassazione senza la rappresentanza”. Non sarà di certo un percorso facile quello dello ius scholae perché i tempi sono stretti e perché soprattutto al Senato i numeri sono ballerini ma sicuramente il tema rientra nell’agenda politica dalla porta principale. A Bologna questa storia di arrivare per primi, soprattutto sul tema dei diritti, piace molto. Quando la città fu governata da Sergio Cofferati l’allora sindaco non mancava occasione per ricordare che, con il Liber Paradisus, Bologna fu la prima città ad approvare un atto che aboliva la servitù. Correva il 1257 e in quel caso, per tornare al paragone di oggi, non fu un atto velleitario. Via libera alla sorveglianza totale dell’Europol di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 29 giugno 2022 Da oggi il coordinamento fra le 27 polizie europee potrà acquisire e conservare i dati delle persone. Non solo quelli relativi a chi è sospettato di aver commesso un reato ma di tutti. Ignorate le preoccupazioni delle associazioni per i diritti civili. Critiche dal Garante europeo dei dati personali: “Un ampliamento di poteri a dismisura senza alcuna garanzia”. Polizie che possono archiviare tutto, qualsiasi dato. Di chiunque. Anche di chi non ha fatto nulla. Polizie che si auto-assolvono per gli abusi, per gli “eccessi” che pure ammettono di aver commesso. Polizie che possono fare a meno delle decisioni dei giudici. Avviene oggi, in Europa, nel vecchio continente, quello che fino a pochi anni fa varava le norme più avanzate in difesa della privacy, del diritto alla riservatezza. Ma non è tutto: perché in qualche modo Bruxelles ha stabilito un nuovo record. Un record negativo. Ha scritto una norma - un regolamento ad essere precisi - che nel giorno stesso della sua pubblicazione è stata “bocciata” da chi dovrebbe controllarla. Contestata, criticata da chi istituzionalmente dovrebbe accertarsi che sia in sintonia con le leggi precedenti. Ma esattamente come è avvenuto in tutta questa vicenda, il consiglio d’Europa ha semplicemente ignorato tutte le osservazioni, le critiche, i più piccoli accorgimenti. E’ andato avanti per la sua strada e così il 28 giugno sulla Gazzetta ufficiale europea è stato pubblicato il nuovo regolamento per l’Europol, il coordinamento fra le polizie dei ventisette paesi. E come c’è scritto alla fine di quelle 45 pagine firmate da Roberta Metsola, presidente del Parlamento, “il testo è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli Stati membri conformemente ai trattati”. Nei fatti significa che da subito il coordinamento fra le polizie potrà acquisire e conservare i dati delle persone. Non solo quelli relativi a chi è sospettato di aver commesso un reato ma di tutti. Perché l’Europa ha esattamente autorizzato l’agenzia delle ventisette polizie ad archiviare e registrare le informazioni che riguardano qualsiasi persona. Di chiunque, di chi magari è semplicemente nell’elenco telefonico di un sospettato, o che per caso abita nella stessa strada di un fermato. O magari ha comprato qualcosa in un negozio che è tenuto sotto controllo. O anche solo può aver ricevuto un’email da un utente “sbagliato”. Oppure ha la “colpa” di aver provato ad entrare in Europa, scappando da una guerra. L’Europol potrà conservare tutto, tutti questi dati. E farci quel che vuole. Sì, perché il nuovo regolamento autorizza anche l’Europol ad utilizzare questi immensi data-base per testare nuove tecniche, nuovi standard investigativi. C’è bisogno di tradurre queste affermazioni? Significa che l’Europol potrà far esercitare l’intelligenza artificiale su questi data-base per creare quella che si chiama “la polizia predittiva”. Quella che decide che se si abita in un quartiere periferico di Bruxelles, composto per lo più da migranti, si è già subito sospettati di far parte di cellule islamiche. “Polizia predittiva” che così potrà essere testata quando ancora sono in discussione al parlamento europeo le norme che dovrebbero “governare” le applicazioni dell’intelligenza artificiale. Discussione che è iniziata con un bel testo, pieno di accorgimenti e di suggerimenti, pieno di belle parole per evitare che i software possano discriminare le persone, selezionare le storie personali. Ma intanto l’Europol potrà andare per la sua strada. Così come potrà andare avanti tranquillamente a chiedere dati, nomi, informazioni ai grandi gruppi che gestiscono i social, nel caso di “urgenza”, anche senza passare per la normale trafila, cioè per un’autorizzazione dei giudici. Cose che del resto il coordinamento delle polizie europee ha sempre fatto. E questa non è una denuncia “politica”: appena sei mesi fa Wojciech Wiewiórowski, il supervisore di European Data Protection, il garante dei dati insomma, dopo un’indagine ha condannato l’agenzia e le ha ordinato di cancellare tutti i dati raccolti negli anni scorsi. Aveva imposto di farlo entro un breve arco di tempo, aveva ordinato che fossero cancellati quattro petabyte di nomi, volti, indirizzi (per capire: dati che riempirebbero tre milioni di vecchi cd-rom), riferiti a persone che nulla hanno mai avuto a che fare con indagini. L’Europol ha preso tempo, ha risposto all’ordine del garante inventandosi mille ostacoli tecnici, improbabili blocchi investigativi, spiegando le difficoltà burocratiche, eccetera, eccetera. In realtà aspettando quel che è avvenuto: che l’Europa gli concedesse una sorta di immunità retroattiva. Nel nuovo regolamento, infatti, all’Europol è permesso di conservare anche i dati raccolti negli anni scorsi, in violazione alle leggi europee esistenti (Gdpr). Autoassoluzione, si diceva. Perché nella stesura del testo, il Consiglio europeo ha incontrato sempre e soltanto le autorità di polizia dei vari Stati, rifiutando poi di discuterne con le associazioni per i diritti digitali. Ce n’è abbastanza, insomma, perché Wiewiórowski a poche ore di distanza dalla pubblicazione sulla Gazzetta abbia reso pubblico, con una nota ufficiale, il suo dissenso. Totale dissenso. Innanzitutto contestando la “legittimità di un’autorizzazione retroattiva” ma entrando soprattutto nel merito. Spiegando che il regolamento amplia “a dismisura” i poteri dell’agenzia di polizia. “Senza più alcuna garanzia” per “lo scambio di informazioni personali con soggetti privati, per l’uso dell’intelligenza artificiale e il trattamento di grandi set di dati”. Regolamento bocciato, dunque. Senza appello. Con un’ulteriore aggravante, però: che quella di Wiewiórowski fino ad ora è stata l’unica voce che ha provato ad opporsi. Tace la politica, tace la sinistra. Strage di Melilla, l’Onu vuole un’indagine indipendente di Marco Santopadre Il Manifesto, 29 giugno 2022 Il Comitato per la protezione dei lavoratori migranti delle Nazioni unite ha chiesto a Spagna e Marocco di scoprire la causa esatta di morte delle 37 vittime. Ieri anche il Comitato dell’Onu per la Protezione dei Lavoratori Migranti ha chiesto a Spagna e Marocco di indagare, in forma immediata ed esaustiva, sulla strage di Melilla di venerdì, quando nel tentativo di penetrare nell’enclave spagnola in Marocco hanno perso la vita almeno 37 migranti, per lo più sudanesi. L’organismo delle Nazioni Unite ha sottolineato l’urgenza di stabilire se le vittime siano decedute a causa dell’azione dei militari che si sono adoperati per respingerli, utilizzando bastoni, lacrimogeni e pietre. Il Comitato ha chiesto anche all’Ue di assicurare ai migranti “condizioni sicure e ordinate per poter accedere al continente”, “garantendo i diritti delle persone a cercare e ottenere asilo” e “rispettando i diritti umani, il diritto alla vita e alla dignità”. Anche i soci di governo di Unidas Podemos, partiti che con i loro voti hanno finora permesso a Sánchez di governare - dagli indipendentisti baschi e catalani a forze regionali come Compromis - ed altri di opposizione non cessano di rimproverare al premier un’assoluta mancanza di empatia ed umanità rispetto alla tragedia. Da più parti si è chiesta a gran voce l’apertura di un’inchiesta indipendente sulla brutalità della gendarmeria marocchina elogiata invece sia dal leader socialista sia da alcuni ministri, da quello degli Interni Marlaska alla titolare della Difesa Robles. Ma l’esecutivo ha tentato a lungo di schivare un’inchiesta effettiva e rapida, mentre le autorità marocchine sembrano impegnate a far scomparire il prima possibile le prove dell’orrore. Nel tentativo di trarsi d’impaccio Sánchez aveva scelto di affidare l’indagine al Defensor del Pueblo, una sorta di Difensore Civico che però non ha né gli strumenti per condurre un’inchiesta seria e tempestiva né l’interesse, visto che la carica è ricoperta da Ángel Gabilondo, ex dirigente di punta del Psoe. Nel pomeriggio, finalmente, la Procuratrice Generale dello Stato Dolores Delgado ha ordinato l’apertura di un’inchiesta della magistratura. Ma le polemiche non si placano e gli elogi all’operato della polizia marocchina potrebbero costare al leader socialista un prezzo politico più alto del previsto. La sua difesa sperticata della strategia di Rabat, denunciano in molti, risponde alla volontà di non mettere in discussione l’alleanza recentemente stipulata con il regime di Mohammed VI, alle cui forze di polizia la Spagna ha di fatto demandato - costi quel che costi - la difesa dei confini di Ceuta e Melilla. Per masse crescenti di diseredati in fuga da conflitti, regimi e catastrofi climatiche però. le due città incastonate in territorio marocchino, retaggio del passato coloniale spagnolo, rappresentano delle fondamentali porte d’ingresso nel continente europeo, le uniche a disposizione via terra nel continente africano. Per questo, avvisano sinistre e associazionismo, la strage di Melilla non sarà l’ultima se la Spagna e l’Unione Europea non cambieranno le proprie politiche migratorie. Dopo le decine di proteste realizzate domenica scorsa, numerose organizzazioni per la difesa dei migranti hanno convocato altre iniziative diffuse per venerdì prossimo. Da parte sua, invece, il Ministro degli Esteri Albares ci ha tenuto a sottolineare che anche la Procura di Rabat ha aperto una sua inchiesta - in realtà non sulle morti, ma contro decine di migranti arrestati con l’accusa di vari reati, per i quali verranno processati dal prossimo 23 luglio - non mancando di segnalare la necessità di rafforzare ulteriormente la collaborazione con il regno alawita che invece accusa il governo algerino di aver favorito l’assalto alle recinzioni che “proteggono” Melilla. Secondo l’Ambasciata del Marocco a Madrid, sarebbero stati dei “miliziani esperti” infiltratisi dalla frontiera algerina a guidare un manipolo di migranti violenti e addestrati, armati di bastoni, coltelli, machete e pietre. Sulla base di questa interessata versione dei fatti, inizialmente le autorità di Rabat avevano parlato di alcuni morti e feriti gravi tra i gendarmi che hanno difeso la frontiera spagnola, ma poi il bilancio è stato ridimensionato ad alcune decine di contusi e a un solo poliziotto ricoverato in ospedale. Texas, 46 migranti morti nel retro di un tir: sognavano l’America, li ha uccisi (forse) il caldo di Irene Soave Corriere della Sera, 29 giugno 2022 La peggiore tragedia al confine tra Usa e Messico degli ultimi anni: altri 16 sono stati portati in ospedale, e tra loro ci sono dei bambini. Il ritrovamento lunedì sera, dopo l’allarme di un operaio. Morti nel rimorchio di un tir, poco dopo il confine tra Messico e Stati Uniti che erano riusciti a passare, già in Texas. Le forze dell’ordine di San Antonio, nel Sud dello Stato, li hanno trovati “caldi al tocco” cioè morti per colpo di calore, disidratazione, inedia. Altre 16 persone che erano nascoste nel rimorchio del camion, in teoria refrigerato ma il cui impianto di raffreddamento era rotto, o spento, ne sono stati estratti vivi e sono stati portati in ospedale. Tra loro ci sono bambini. Non è ancora chiaro da quanto tempo fossero lì - e da quanto i loro compagni di viaggio sono morti. Il camion, abbandonato in una radura a circa 225 km dal confine, è stato trovato lunedì sera. A dare l’allarme un operaio di un vicino stabilimento: ha sentito urla di aiuto e si è messo in cerca di persone da salvare. Poco dopo ha trovato il camion, abbandonato. Le porte del rimorchio erano forzate e parzialmente aperte. Una persona era riuscita a uscire, e gridava. Poi l’arrivo delle autorità. Polizia, vigili del fuoco, il sindaco di San Antonio che parla di “orrenda tragedia umana”. A ora tre persone sono state fermate, e non è chiaro se tra loro ci sia il conducente del camion. Il camion di San Antonio si è rapidamente trasformato in una battaglia politica: il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, aveva pubblicato proprio ieri mattina, prima del ritrovamento, le statistiche degli arresti di migranti illegali nello Stato, grazie alla sua amministrazione. E poco dopo l’incidente ha invitato i cittadini “a dare la colpa di queste morti a Biden, e alla sua irresponsabile politica delle frontiere aperte”. Quella di San Antonio è tra le peggiori tragedie di confine. Lo scorso agosto morirono in dieci, con venti feriti, in un incidente del camioncino che li trasportava, nella stessa regione; a marzo 2021 un camioncino stipato di migranti nascosti ebbe un frontale con un Tir in California del Sud, con tredici morti; e così via all’indietro, con cadenze quasi semestrali. Solo nel 2017 si ricorda un precedente lontanamente simile: un tir con duecento migranti a bordo fu fermato nel pieno di un’ondata di caldo. A bordo già dieci erano morti, in trenta finirono in ospedale, per l’autotrasportatore che li portava fu deciso l’ergastolo. Ora il nuovo record di San Antonio e un’estate tragica in vista: le autorità si aspettano che il caldo e la crisi economica spingeranno a partire un numero senza precedenti di disperati. Colombia. Tentativo di evasione dal carcere si trasforma in tragedia, almeno 52 detenuti morti rainews.it, 29 giugno 2022 Ad appiccare il fuoco nel carcere di Tuluà sono stati gli stessi detenuti per facilitare il tentativo di fuga. Almeno 52 detenuti sono morti a causa di un incendio scoppiato durante una rivolta nel carcere di Tuluá, città della Colombia a ovest della Capitale Bogotà. Altri trenta detenuti sono stati feriti e portati in ospedale. Il generale a capo dell’agenzia carceraria del paese, Tito Castellanos, ha dichiarato che è stata avviata un’indagine per chiarire quanto accaduto, ma ha anticipato che l’incendio è scoppiato dopo che i detenuti hanno dato fuoco ad alcuni materassi, di loro iniziativa, per impedire alle guardie di fermare una protesta. La prigione di Tuluá contiene 1.267 detenuti e il blocco dove si è verificato l’incendio ne ospitava 180. Le carceri colombiane hanno un grave problema di sovraffollamento: ci sono 81 mila posti, ma le persone presenti sono circa 97 mila, secondo i dati ufficiali. Il presidente colombiano uscente Iván Duque, in visita in Portogallo, ha scritto su Twitter di essere “solidale con le famiglie delle vittime” e di aver “dato istruzioni” per portare avanti le indagini che permetteranno “di chiarire questa terribile situazione”. Il presidente eletto Gustavo Petro - progressista di sinistra che ha vinto le elezioni dello scorso giugno e che entrerà in carica il prossimo agosto - ha scritto che lo stato colombiano ha pensato al carcere come a un luogo “di vendetta e non di riabilitazione” e che quanto accaduto a Tuluá “obbliga a un completo ripensamento della politica carceraria” affinché venga messa al centro la “dignità del detenuto”.