Misure alternative entro i 4 anni? Già nella Riforma Cartabia. Ma Il Fatto se ne accorge ora di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2022 L’allargamento delle pene alternative citato dalla ministra nel question time è nella legge delega approvata. Per il quotidiano alcuni parlamentari non saprebbero dei gruppi di lavoro per i decreti. Ma non c’è alcun segreto. “Ideona Cartabia: mettere fuori un condannato su 3”, è il titolo de Il Fatto Quotidiano sparato in prima pagina per creare appositamente la solita indignazione ogni qual volta un governo tenta di fare passi in avanti sul carcere per rendere il nostro Paese più vicino possibile ai principi della nostra Costituzione. Il problema è che sembra una novità, mentre invece tale proposta - ovvero l’estensione delle misure alternative per chi è condannato a pene di 4 anni - è già contemplata nel d.d.l. AS 2353, intitolato “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. Non è vero che la misura sarebbe una novità - Quindi non è vero che la misura citata durante il question time dalla ministra sarebbe una novità, tanto che - così rivela Il Fatto - ad alcuni deputati di diversi partiti della maggioranza non è piaciuto, perché non avrebbero la più pallida idea di cosa ci sia nei testi in via di definizione. Ma quindi alcuni deputati, soprattutto i grillini, non sarebbero stati informati del lavoro dei 6 gruppi di lavoro che si stanno occupando dei testi dei decreti legislativi? Appare molto difficile visto che non è un segreto di Stato essendo reso pubblico il lavoro. Se fosse come dice Il Fatto, i deputati in questione apparirebbero come persone incompetenti e che non sanno nemmeno cosa accade in Parlamento. Vogliamo sperare che non sia così, altrimenti dobbiamo immaginare che il livello dell’attuale classe politica sia così basso, tanto da decidere in base alle varie fake news che alcuni giornali riportano. Lo stanziamento dei fondi per le casette dell’amore in carcere era fake news - Un fatto analogo c’è appena stato: l’aver creduto che il governo abbia stanziato fondi per le casette dell’amore in carcere. Alcuni parlamentari non si erano accorti che non c’è stato nulla di tutto questo, anche perché la proposta di legge sull’affettività in carcere ancora è nel cassetto della commissione Giustizia.Ma ritorniamo all’estensione delle misure alternative. Il ridimensionamento del ruolo della pena detentiva è un obiettivo perseguito già dalla Commissione Lattanzi, istituita a marzo 2021 con il compito, fra l’altro, di “elaborare proposte di riforma in materia… di sistema sanzionatorio penale”. Un compito che la Commissione ha soddisfatto attraverso proposte che riguardano largamente le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Ciò è approdato nella Riforma Cartabia, votata poi dalla maggioranza. Quindi dagli stessi parlamentari che oggi, secondo Il Fatto, si lamenterebbero. Semilibertà e detenzione domiciliare nella gamma delle sanzioni sostitutive - Nella Riforma Cartabia, la fascia più alta nella gamma delle sanzioni sostitutive è occupata dalla semilibertà e dalla detenzione domiciliare: c’è un articolo che delega infatti il governo a prevedere che il giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna o la sentenza di patteggiamento, “quando ritenga di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, possa sostituire tale pena con quelle della semilibertà o della detenzione domiciliare”. Le nuove pene sostitutive - come prevede la legge delega - saranno assoggettate alla disciplina sostanziale e processuale, in quanto compatibile, prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario per le omonime misure alternative alla detenzione. La ministra Cartabia ha ribadito: “La certezza della pena non è la certezza del carcere” - Quindi nulla di nuovo. La guardasigilli ha ricordato, rispondendo a una interrogazione parlamentare posta da alcuni deputati di Italia Viva, quello che già era prefissato e approvato in Parlamento. Tutto ciò, d’altronde, va proprio in direzione di quello che la ministra Cartabia stessa annunciò in commissione Giustizia: “Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere”. E aggiunse che la detenzione in carcere “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata come extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere”. Stigmatizzare in prima pagina tale obiettivo, non è informazione, ma perseguimento di un ideale perfino peggiore del codice fascista Rocco. Però il tempo passa e si rischia di non riuscire ad approvare i decreti attuativi, ed è quello che l’articolo de Il Fatto Quotidiano auspica. Scrollatevi di dosso l’ossessione del carcere di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 giugno 2022 Ci sono parole che ti riempiono la bocca prima ancora che tu riesca ad assaporarle. Per Marco Travaglio quella che dà più soddisfazione è “salvaladri”, tanto che ora ha coniato anche quella “d’estate”. Che sarebbe la stagione in cui, forse perché molti sono disattenti, si può randellare a piacere la ministra Marta Cartabia. Che è la sua preferita, quella che lo fa andare letteralmente fuori di testa. Perché è una donna, e conosciamo la misoginia di Marcolino, e anche perché è inattaccabile. Anche se sul Fatto siamo riusciti a sentir dire che l’ex Presidente della Consulta prepara bozze di legge fuori dal recinto della costituzionalità. Così ieri, mentre tutti si affannavano a interpretare le ultime sulla guerra e, in sede nazionale, i risultati delle elezioni amministrative, pare che la notizia più rilevante per il Fatto quotidiano fosse l’“Ideona Cartabia: mettere fuori un condannato su 3”. Dove quel “mettere fuori” dava la sensazione di riempire la bocca degli indignati, proprio come il concetto di “salvaladri”. Il che dà l’idea di una visione di società. Quella in cui non si deve “salvare” l’altro, ma piuttosto dargli uno spintone, quella in cui non si devono aprire le porte, ma piuttosto sprangarle, dopo aver catturato i prigionieri. “Per Cartabia dunque - scrive la cronista del Fatto - in carcere non ci deve andare quasi nessuno”. Intendendo con quel “quasi nessuno”, quel 30% della popolazione ristretta (cui potremmo aggiungere i tanti innocenti non ancora processati) che hanno subito condanne inferiori a quattro anni. Sono i tanti inutilmente parcheggiati a riempire le giornate di noia e di inerzia, ma anche di lugubri pensieri e di attesa, che vanno a riempire le statistiche solo quando qualcuno non ce la fa più e mette fine ai suoi giorni. Sono quelli di cui ha riferito pochi giorni fa al Parlamento il Garante delle persone private della libertà. I numeri spiegano il perché di un sistema penitenziario italiano perennemente in affanno con il sovraffollamento e le inutili reprimende degli organismi europei. Che cosa stanno a fare dentro le prigioni 1.319 persone che devono scontare meno di un anno di pena, e altre 2.473 condannate alla reclusione per un periodo che sta tra uno e due anni? Possibile che lo stesso concetto di “pena” debba forzatamente coincidere con la privazione della libertà? Può sembrare stravagante, ma dopo i referendum, uno dei quali riguardava anche la custodia cautelare, e dopo la “riforma Cartabia”, di carcere si continua a parlare. Il tema non è stato accantonato, anche perché la ministra pare instancabile. E forse è proprio per questo che Marco Travaglio ha voluto lanciare l’allarme sui decreti attuativi della riforma e la possibilità che prevedano misure alternative al carcere per pene brevi, cioè fino a quattro anni, con l’applicazione di semilibertà, detenzione domiciliare o il lavoro di pubblica utilità. Tutti sistemi adottati negli altri Paesi, compresi i rigorosi Stati Uniti, senza che destino scandalo alcuno. Nei giorni scorsi ha un po’ messo le mani avanti sul Corriere Aldo Cazzullo il quale, rispondendo a una lettera, ha invocato che si costruiscano nuove carceri, possibilmente lontano dai centri abitati, ma moderne e dignitose. Usando l’equidistanza tra “rigoristi” e “garantisti” (offensiva per i secondi, che semplicemente chiedono l’effettiva applicazione dei principi costituzionali), Cazzullo finisce per considerare tutti i detenuti come socialmente pericolosi. Come se i reati consistessero solo in stragi e omicidi, come se le prigioni non fossero piene invece di quelle migliaia di persone, spesso giovani e stranieri, che sono state condannate a pene lievi per reati contro il patrimonio e non contro le persone. Scrollarsi di dosso l’ossessione del carcere, per i reazionari tagliagole come Travaglio e i suoi cronisti, ma anche i sinceri aspiranti riformatori come Cazzullo (o anche Enrico Bellavia, che sull’Espresso si dice favorevole alle pene alternative purché si butti via la chiave che ha rinchiuso i mafiosi non pentiti), sarebbe una bella opera di igiene democratica. Un passettino per volta, Cartabia ce la farà. Cartabia: “Celle vivibili con pene alternative” Il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2022 “Benefici” per le carceri italiane “potranno arrivare dall’applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, una volta che saranno approvati i decreti delegati della riforma del processo penale, di cui tanto abbiamo discusso con le forze politiche”. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, torna sull’intenzione di applicare “sanzioni sostitutive delle pene brevi”, grazie alle quali saranno scarcerati un detenuto su tre. Lo ha fatto intervenendo ai 205 anni della fondazione della polizia penitenziaria. “Non mi stancherò di ripetere - ha detto - che la Costituzione parla di pene, non di carcere. E per le condanne inferiori ai quattro anni, sarà il giudice, direttamente al momento della sentenza, a stabilire la pena opportuna”. Csm, si vota il 18 e 19 settembre. “Ma questa legge salva il Sistema” di Simona Musco Il Dubbio, 28 giugno 2022 Correnti alla ricerca di un “antidoto” per smorzare gli effetti della riforma: “I gruppi più forti continueranno a comandare”. Parte il toto nomi: Gratteri tra i papabili. Sono previste per il 18 e il 19 settembre le elezioni del nuovo Consiglio superiore della magistratura. A deciderlo è stato il Presidente della Repubblica e del Csm, Sergio Mattarella, che dopo l’ufficializzazione dei collegi ha dunque fissato la data di scadenza della consiliatura più difficile di sempre, falcidiata dallo scandalo dell’Hotel Champagne e destabilizzata dalle dichiarazioni di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. Degenerazioni alle quali la ministra Marta Cartabia ha provato a mettere mano con una riforma mal digerita dalle toghe, che hanno tentato di far sentire la loro voce con uno sciopero al quale ha partecipato il 48,4% dei magistrati. Ma niente da fare: lo scorso 16 giugno la riforma è stata approvata, garantendo così un rinnovo dei membri del Csm con nuove regole, nella speranza di spazzare via il “Sistema” descritto da Luca Palamara. E a cambiare sono anche i numeri: saranno 30 i consiglieri che siederanno a Palazzo dei Marescialli, dei quali 10 laici, per la cui elezione Mattarella ha contestualmente invitato i presidenti di Camera e Senato a convocare il Parlamento in seduta comune. La nuova legge elettorale prevede un sistema maggioritario con correttivo proporzionale, mal visto dai membri dell’attuale Csm, che avevano proposto a maggioranza un sistema proporzionale. Ma a criticare la nuova norma è anche l’ex zar delle nomine Palamara, secondo cui “anche con questa riforma le correnti avranno il totale controllo del sistema”, ha dichiarato all’Espresso. Stessa opinione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, secondo cui “questa riforma ha rafforzato le correnti, creando due grandi poli di destra e sinistra”. Il nome di Gratteri è tra quelli in ballo per il rinnovo del Csm: corteggiato da Autonomia & Indipendenza, la corrente fondata da Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, il procuratore calabrese starebbe ora valutando il da farsi, anche in vista della scadenza del suo mandato a Catanzaro, prevista nel 2024. Ma sono tanti i nomi in gioco e i dubbi che attanagliano le correnti, che ora cercano di mettere al riparo le proprie squadre da possibili fenomeni (e accuse) di lottizzazione. “Sin dalla prima bozza della riforma abbiamo sottolineato che questo sistema elettorale altro non è se non il vecchio camuffato. Non incide in nessun modo sulle dinamiche deteriori create dal vecchio sistema, cioè la concentrazione nelle mani dei gruppi associativi del potere di designare, prima ancora delle elezioni, i componenti del consiglio - spiega al Dubbio Eugenio Albamonte, segretario di Area -. L’accorpamento dei collegi cambia poco, perché tendenzialmente le correnti, soprattutto quelle più forti, hanno una distribuzione di consensi, sul territorio nazionale, più o meno omogenea”. L’intenzione di Area è quella di affidare ancora una volta la scelta dei candidati alle primarie, da svolgere probabilmente la prossima settimana, “in modo tale che gli stessi siano decisi non dalla dirigenza della corrente, ma dagli iscritti al gruppo. Un sistema per bilanciare una legge che, purtroppo, siamo costretti ad utilizzare”. Unicost ha invece approvato una mozione per definire il profilo del candidato ideale, favorendo “l’individuazione di colleghi che non siano percepiti come “professionisti’ dell’attività associativa o di corrente, o come accumulatori seriali di incarichi”, bensì magistrati “che abbiano dedicato la loro vita professionale all’attività giudiziaria e che siano di elevata professionalità e stima indiscussa tra i colleghi”. Anche secondo Rossella Marro, presidente nazionale di Unicost, la nuova legge elettorale non spazza via il correntismo: “La norma richiede uno sforzo organizzativo nella campagna elettorale che agevola i gruppi organizzati - spiega. La quota maggioritaria agevola i gruppi più grandi e non consente a quelli più piccoli e agli emergenti di affermarsi e avere una rappresentanza. Rispetto alle degenerazioni, si reagisce soltanto individuando candidati che, pur espressi dalle correnti, siano molto autorevoli, indipendenti e autonomi”. Unicost sta ora raccogliendo le disponibilità per le candidature, mentre alcune delle sezioni locali si sono già mosse con le primarie. Allo stato i candidati certi sono il pm della Dda di Catania Marco Bisogni, noto per aver denunciato il “Sistema Siracusa”, il pm Maurizio Arcuri, della procura di Roma, Milena Falaschi, giudice di Cassazione, il giudice Roberto D’Auria, del distretto di Napoli, Giuseppe Battista, ex presidente della Ges di Bari, Antonino Laganà, giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria e Paola Ortolan, giudice presso il Tribunale dei minori di Milano. Magistratura Indipendente ha invece già deliberato nel corso dell’assemblea generale i nomi dei candidati. Attualmente si tratta di Paola D’Ovidio per la legittimità, i pubblici ministeri di Palermo, Dario Scaletta, e di Firenze, Eligio Paolini; Bernadette Nicotra (giudice a Roma), Luisa Mazzola (giudice a Bergamo) e Edoardo Cilenti (consigliere appello a Napoli) quali giudici di merito. “Dimaiani garantisti? Non basta dichiararlo per esserlo” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2022 Il deputato di Azione Enrico Costa sull’Ipotesi campo-largo: “Io vorrei allearmi con coloro che la pensano come me. Il Pd, invece, non si pone questo problema”. Qualche giorno fa il deputato Enrico Costa, vice-segretario e responsabile giustizia di Azione, ha scritto questo tweet: “Il Foglio “Dietro l’uscita di Di Maio da M5S c’è anche la scoperta del garantismo (almeno a parole). Il Dubbio “Sta a vedere che grazie a Di Maio finisce l’era manettara”. Il Riformista “Giggino garantista, chissà se poi è vero”. Vi scongiuro, non abboccate, non siate ingenui…”. Abbiamo voluto capire perché le nostre speranze sono mal riposte. Onorevole, quindi lei non crede nella catarsi del ministro degli Esteri? Non penso che basti dire “no ai populismi” o autodefinirsi garantisti per esserlo. Il panorama politico è colmo di sedicenti garantisti, ma ciò che conta sono i fatti. E cosa dicono i fatti per Di Maio? Mettiamoli in fila. Il Movimento cinque stelle nel corso degli anni ha contagiato col giustizialismo tutti coloro che gli andavano a braccetto. Prima, nel Governo giallo verde, il M5S ha portato la Lega ad approvare la Spazzacorrotti, poi nel Conte bis ha portato il Partito democratico a difendere il fine processo mai di Bonafede, benché il Pd avesse votato contro la legge. E non dimentichiamo tutte le prese di posizione dei pentastellati ogni volta che qualcuno è stato raggiunto da un avviso di garanzia. Però Di Maio è quello che ha posto le scuse all’ex sindaco Uggetti... Non basta una lettera al Foglio per dimostrare la catarsi di cui parla lei. Di queste dichiarazioni sono pieni gli archivi. Abbiamo visto anche la Lega raccogliere le firme per i referendum promossi con il Partito radicale ma ciò non significa che sia una forza politica garantista. La Lega è stata quella del “buttate le chiavi - marciscano in galera”. La raccolta firme è stata una mossa di convenienza politica e non di convinzione sui principi. I radicali le hanno appaltato la raccolta firme perché ha una struttura sul territorio, ma delegare in esclusiva la campagna a chi crede a singhiozzo in certi principi ha comportato, tra le varie altre ragioni, l’esito infausto dell’iniziativa. Quindi c’è continuità tra il M5S e i dimaiani? Già lo si vede nel contrasto ai decreti attuativi sul penale, in quella parte in cui, come ha spiegato la ministra della Giustizia Marta Cartabia Cartabia, si prevedono misure alternative al carcere per pene sotto i 4 anni. Certamente la frattura maggiore sarà quella dei contiani, ma anche i fuoriusciti non staranno a guardare. Siamo nel campo delle ipotesi. Noi non possiamo dimostrare la catarsi, lei non può mettere la mano sul fuoco per il futuro... E allora lancio una sfida a Di Maio sui contenuti. Faccio alcuni esempi. Nei cassetti della Commissione Affari costituzionali della Camera, dove ci sono quattro esponenti di Insieme per il Futuro, giace la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione Camere penali sulla separazione delle carriere. Ad opporsi alla discussione il Pd e il M5S. Allora chiedo a Di Maio che posizione vuole assumere su questo tema: vuole prendere le distanze dal Pd? Se decidono di votarla, ci sono i numeri per farla passare. Cosa ne pensa del fatto che il 30% dei detenuti non ha una condanna definitiva, dell’abuso di custodia cautelare, della responsabilità civile, dell’uso smodato del trojan, del traffico di influenze, dell’eliminazione dell’avversario politico per via giudiziaria? La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina però ci ha detto che si ricomincia contro la gogna e prestando più attenzione al carcere. Forse bisogna dare tempo a IpF di cristallizzare una nuova identità politica... Loro hanno soffiato sul fuoco giustizialista perché quello portava voti e consensi. Ma non è che all’improvviso ti togli uno stampino dalla fronte e te ne metti un altro, soprattutto se fino a qualche giorno fa eri scettico sulla piena affermazione di principi costituzionali, come quello sulla presunzione di innocenza. Quella di Di Maio è stata una semplice mossa parlamentare senza una concreta identità politica. Il dem Walter Verini in un’intervista ci ha detto: “Sto leggendo cosa pensano Calenda e Renzi di Di Maio: chi vuole escludere preventivamente qualcuno rischia di costruire alleanze molto ridotte e non competitive”... Io vorrei allearmi con coloro che la pensano come me. Il Pd, invece, non si pone questo problema ma fa una operazione meramente matematica. Bonafede e Costa la pensano in modo diametralmente opposto sulla giustizia. Il Pd insiste nel voler trovare una sintesi: ma non è così che si fa la politica. Dire tutto e il contrario di tutto in tema di giustizia è sbagliato. Una coalizione non può essere una aspirapolvere che digerisce qualunque contraddizione. Quindi sulla giustizia è impossibile mettere insieme determinate forze politiche? Ma non solo sulla giustizia. Il Pd ha dato un nome a questa area: “campo largo” ma senza dare contenuti. Loro non vogliono vedere le differenze, pensano che allearsi col Pd lavi tutti i peccati, ma non è così. Aspettano idee da chiunque voglia farne parte al di là delle sigle... Sono solo chiacchiere. Volete mettere Conte e Calenda insieme? Vedo impossibile trovare una sintesi sui temi della giustizia. O i 5Stelle sono delle banderuole e pur di allearsi cambiano idea oppure se mantengono le posizioni è impossibile stare tutti insieme. Mentre il Pd deve scegliere da che parte stare, senza più ambiguità a partire dalla giustizia. “Basta giudici che abbandonano il processo”, Ucpi in rivolta di Lorenzo Zilletti* Il Dubbio, 28 giugno 2022 Da oggi la due giorni di astensione dalle udienze, domani la manifestazione dei penalisti a Roma: il nodo sono le conseguenze della “Bajrami”, con le sentenze quasi mai emesse dallo stesso giudice che ha raccolto la prova. La quadriglia: ecco quale sembianza hanno assunto, in molti tribunali italiani, i processi penali dopo l’avvento della sentenza n. 41736/2019, meglio nota come Sezioni Unite Bajrami. Scongiurato - di fatto - il rischio che la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di mutamento del giudice, determini la nullità della sentenza, gli avvicendamenti di toghe si susseguono sempre più disinvolti e frenetici, da un’udienza all’altra e per i motivi più disparati. Quando si svolga in plurime udienze (praticamente sempre), il dibattimento è ormai celebrato da molteplici officianti e chi prende la deliberazione finale troppo spesso non coincide con chi ha assunto la prova. Un efficientismo mascherato da nomofilachia ha cancellato il principio di immediatezza e oralità, stabilito dall’art. 111 comma 3 Costituzione e dal combinato disposto degli artt. 525 comma 2, 526 comma 1 e 511 Cpp; nonché scaricato sugli imputati il costo dell’inettitudine del sistema a garantire che la decisione sia proprio di quel giudice dinanzi al quale la prova si è formata nel contraddittorio delle parti. La fascinazione, tutta inquisitoria, per i verbali e il processo di carta, ha prevalso sulla naturale aspirazione di essere giudicati da chi, anziché aver scorso righe d’inchiostro, abbia guardato in faccia persone vive. La rinnovazione è osteggiata come inutile perdita di tempo, quasi non contassero - per valutare l’attendibilità di una deposizione - i suoi tratti prosodici e paralinguistici; in parole povere, il contegno espressivo dell’interrogato. Un’ostilità che racconta la distanza astrale che separa la concezione di ruolo diffusa all’interno della nostra magistratura dall’idea del giudicare come “dolorosa necessità”, come “continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio”, tanto per citare un autore il cui appena trascorso centenario di nascita ha fatto riempire bocca e penna a diversi esponenti dell’ordine giudiziario. C’è di più: la “regola” Bajrami, come la definirebbero gli zelanti estimatori del formante giurisprudenziale, si pone in stridente contrasto con il principio di legalità processuale, affermato dagli articoli 101 comma 2 e 111 comma 1 Costituzione. Siamo, in effetti, dinanzi a un caso paradigmatico di creazione giudiziaria della norma di procedura, ben lontana da una fisiologica attività interpretativa rispettosa della cornice del testo. Le Sezioni Unite si son fatte legislatore, giocando d’anticipo su quest’ultimo nello sfruttare il formidabile assist anti immediatezza che la Corte costituzionale, con la decisione 132/2019, aveva solo pochi mesi prima servito su un piatto d’argento. Non può scordarsi, infatti, che la prima picconata al diritto alla rinnovazione della prova fu sferrata proprio dalla Consulta, con un provvedimento di inammissibilità inopinatamente condito da suggerimenti (videoregistrazione) volti a (s)bilanciare quel diritto difensivo con il principio di durata ragionevole, comunque letto in chiave efficientista (guardando alla composizione del collegio che deliberò la 132, non sorprende che la legge delega di riforma del processo penale abbia ricalcato quella soluzione). Lascia ammutoliti constatare come né Corte costituzionale né Supremo Collegio abbiano accennato alle cause determinanti il mutamento del giudice: fino ai perversi effetti da bomba libero tutti della “regola” Bajrami, fuori da rare iatture ed eventi calamitosi, o da limiti di permanenza ultradecennale, i componenti di un tribunale -magistrati costituzionalmente inamovibili- cambiavano perché volontariamente traslati ad altre funzioni o sedi. Data la premessa, può un simulacro di efficienza del sistema esser garantito scaricando sugli imputati le conseguenze di (pur legittime) scelte di carriera dei giudicanti? Non è comprimendo il principio di immediatezza-oralità che si rimedia all’incapacità della macchina di funzionare come imporrebbe la legge (art. 477 commi 1 e 2 C.p.p.). Si stabilisca, piuttosto, nell’interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, che il magistrato, prima di aver esaurito il proprio ruolo, non possa abbandonare il lavoro iniziato: l’identità tra giudice della decisione e quello dell’assunzione della prova verrebbe così salvaguardata al pari della durata ragionevole dei processi. Conclusivamente: lasciamo la quadriglia alle feste popolari perché, come ben sanno i penalisti in astensione da ieri dalle udienze, la folie non giova al giusto processo. Per approfondire maggiormente la questione domani nella Capitale, dalle 9.30 al Centro congressi Roma eventi, ci sarà una manifestazione di confronto da avvocatura e studiosi del processo organizzata appunto dell’Unione Camere Penali. *Responsabile Centro studi “Aldo Marongiu” dell’Ucpi L’efficienza non può piegare il principio dell’immediatezza di Vittorio Manes Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2022 Per quali ragioni l’associazione rappresentativa dell’avvocatura penalistica italiana ha indetto l’astensione dalle udienze per i prossimi 27 e 28 giugno? Perché uno dei cardini del processo penale accusatorio - il principio di immediatezza - è stato svilito in buona parte sterilizzato da una lettura interpretativa avallata dalle Sezioni Unite (41736/19, Bajrami), con una scelta poi confermata nelle prassi organizzative degli uffici giudiziari, olimpicamente indifferenti al dissenso di autorevoli voci dottrinali. E proprio a questo regresso inquisitorio gli avvocati si oppongono strenuamente, in linea con la propria funzione che li chiama a difendere il diritto, prima e più in alto che a difendere cause o persone. Gli architravi del sistema accusatorio sono edificate sui principi di oralità, immediatezza e concentrazione, e gravitano tutte - con una chiara convergenza assiologica - attorno a principio-fulcro del contraddittorio nella formazione della prova. In particolare, il principio di immediatezza - in sinergia indissolubile con l’oralità e il contraddittorio - esige che vi sia una relazione diretta tra il giudice dibattimentale incaricato della decisione sulla responsabilità penale dell’imputato e le fonti di prova, ed in specie con i testimoni sottoposti a esame e controesame in funzione probatoria. A giudicare deve essere chi ha assistito direttamente all’escussione dei testi, ne ha ascoltato la viva voce, ne ha verificato l’attendibilità attraverso i cosiddetti tratti prosodici del suo dire, scrutando l’esitazione nelle risposte, il ritmo e le pause nel replicare, il tono della voce, appunto, ma anche il rossore del volto, il movimento del corpo, e tutti gli aspetti extralinguistici che concorrono alla migliore valutazione della credibilità del dichiarante. Questo contatto diretto non può passare attraverso la mediazione della lettura delle trascrizioni delle udienze dibattimentali, come oggi vorrebbe l’interpretazione accolta nella giurisprudenza di legittimità, che consente appunto il mutamento del collegio facendo salva la possibilità per il difensore di chiedere - e non perciò solo ottenere - la rinnovazione di prove assunte dal giudice diversamente composto solo ove specificamente motivata da profili di novità, “ferma restando la valutazione del giudice [...] anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa” e la possibilità di utilizzare, in caso di rigetto della richiesta, le dichiarazioni trascritte già presenti al fascicolo, comunque utilizzabili anche in caso di rinnovazione impossibile o di reiterazione di prova già assunta. In sostanza, l’immutabilità del giudice viene così sacrificata a pretese ragioni di efficienza e ciò che dovrebbe essere regola si trasforma in eccezione, perché in caso di mutamento del giudice l’utilizzo dei verbali assurge a modalità ordinaria, se non privilegiata. Sennonché, la mediazione dei verbali riduce l’immediatezza a un simulacro, se non ad una farsa, perché altera la genuinità delle impressioni che solo il contatto diretto con la fonte può assicurare. Chi si azzarderebbe ad assimilare la lettura della sceneggiatura di un film alla sua visione effettiva? Proprio per questo, la formulazione letterale dell’articolo 525, comma 2, del Codice di procedura penale, si era premurata di prevedere espressamente - a pena di nullità assoluta - che la decisione di merito debba essere assunta dagli “stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”; e non è un caso che la Costituzione garantisca all’imputato il diritto di confrontarsi con l’autore delle accuse a suo carico non davanti ad un qualsiasi giudice, bensì al medesimo giudice investito della decisione finale. Del resto, per analoghe ragioni di garanzia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha preteso la nuova audizione dei testi rilevanti in appello nel caso in cui si intenda rovesciare la sentenza di assoluzione, imponendo al giudice di procedere ad una fresh hearing, senza che possa decidere per l’overturning sulla sola base della sola lettura dei verbali. E per le medesime ragioni nei sistemi accusatori - come il processo statunitense - la sostituzione di un membro della giuria popolare a processo in corso è garantita attraverso un sistema di supplenti che hanno parimenti assistito all’intera istruttoria, e l’indisponibilità sopravvenuta di una key figure determina - di regola - il vizio di mistrial. Basterebbe questo a spiegare le profonde ragioni alla base di questo principio, il cui valore vero si comprende, in controluce, nello sguardo incredulo degli imputati quando prendono atto che saranno giudicati da un giudice che non ha partecipato al dibattimento: uno sguardo dal quale emerge, spesso, la costa del terrore. Nessuna ragione di efficienza organizzativa può giustificare un simile arretramento. Specie quando l’efficienza organizzativa potrebbe essere assicurata con una organizzazione degli uffici e dei processi più efficiente. La memoria e l’impegno nel 42mo anniversario della Strage di Ustica di Daria Bonfietti Il Manifesto, 28 giugno 2022 27 giugno 1980. Ricordare un anniversario non può mai essere un fatto retorico ma deve essere insieme consapevolezza e impegno. E allora siamo ben consapevoli che non si possa aspettare più a lungo la verità definitiva per la strage di Ustica: dobbiamo sapere chi ha effettivamente spezzato la vita a 81 innocenti cittadini. Chi ha colpito la dignità di un Paese. Chi ha potuto abbattere un aereo civile in tempo di pace! Aspettiamo questa risposta dalla Magistratura, dalla Procura della Repubblica di Roma che ha riaperto le indagini nel 2008, dopo le dichiarazioni di Francesco Cossiga, che indicavano i francesi come autori materiali, consci delle difficolta, delle omertà, del muro di silenzio che circonda questa vicenda, profondamente inserita in un contesto di guerra fredda aggravata dall’emergere di nuovi contrasti nel Mediterraneo. Andiamo per un attimo nel ricordo a quel 27 giugno 1980; il DC9 Itavia, stava volando tranquillamente da Bologna a Palermo. Possiamo riascoltare le voci dei piloti in volo, tutto è tranquillo, si scherza perfino. La registrazione termina però con un “Guarda!”. A terra intanto, nei siti radar militari, cresce l’allarme: si è preoccupati per aerei militari che si vedono “razzolare” attorno al Dc9, si cerca una portaerei da cui partono tracce e il tutto si conclude con una concitata ricerca di un contatto con l’ambasciata americana. In cielo “Guarda!”, a terra si cerca l’Ambasciata e un tracciato radar, sopravvissuto alla distruzione totale di ogni documentazione, che racconta degli stessi attimi, mostrando una evidente manovra d’attacco al DC9. Null’altro: questa è la strage di Ustica, perdono la vita 81 cittadini innocenti. Dopo pochi giorni sulla vicenda scende un vergognoso silenzio: si parla di un cedimento strutturale, la tragica ovvietà che gli aerei cadono. Non c’è nulla da indagare: ognuno rimane solo con il proprio lancinante dolore. Così passano gli anni, solo nel ‘86 il Comitato per la verità su Ustica, presidente Francesco Paolo Bonifacio, comincerà a risvegliare le coscienze, il sottosegretario Giuliano Amato stanzia i fondi per permettere alla Giustizia di operare, recuperando i resti dell’aereo, nasce l’Associazione dei parenti delle vittime. Finalmente si riparla della strage di Ustica: politica e società civile si interessano, il mondo dell’arte, della cultura, dello spettacolo diventa protagonista e arriva, la strada è ben lunga, il 1999. La Sentenza-ordinanza del giudice Priore ci consegna la verità sulle cause dell’evento: il DC9 è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea. E poi, siamo arrivati al 2008, il presidente emerito Cossiga apertamente incolpa dell’abbattimento i francesi nel corso di un’operazione contro il leader libico Gheddafi. Si riaprono quelle indagini di cui consapevolmente oggi dobbiamo chiedere gli esiti. E l’impegno? Proprio in questi giorni vengono depositati all’Archivio centrale dello Stato, quindi sono pubblici, tutti quei documenti sui quali si è fatta in questi anni una colpevole attività di disinformazione. I sostenitori della bomba sul DC9 (Giovanardi, Gen. Tricarico) e il partito delle piste terroristiche arabe per Ustica e Bologna ci hanno parlato di verità nascoste, di documenti segretati: falsità e depistaggi evidenti. Oggi tutto è pubblico, la Magistratura ha visionato, i documenti sono a disposizione degli storici. Posso ben dire - ringraziando il Segretario della Presidenza del Consiglio Roberto Chieppa- che si è dato un piccolo contributo alla verità, anche grazie all’impegno continuo dell’Associazione di Ustica nella attuazione della direttiva Renzi-Draghi. Mi piace anche ricordare che, più in generale, l’Associazione è impegnata in collaborazione con l’Università di Bologna e l’Istituto Parri nel campo della ricerca storica, per cui può salutare con soddisfazione la decisione del Sindaco di Bologna Lepore, che rispondendo alle nostra richieste di pensare assieme al futuro del Museo per la Memoria di Ustica, ha messo in moto la possibilità della realizzare di una Fondazione attorno a Museo: una Fondazione che darà certamente vigore alla ricerca storica stessa, alla diffusione del messaggio artistico, all’editoria, alle esperienze di didattica coi giovani, in stretta collaborazione con il Ministero dell’Istruzione. Quindi ricordiamo un Anniversario e 81 vittime innocenti, esprimiamo la consapevolezza della assoluta necessità di una verità definitiva e l’impegno a continuare a fare Memoria e a fare ricerca, per le giovani generazioni e per vedere ristabiliti valori irrinunciabili come la verità e la giustizia. Roma. Troppi detenuti, troppi morti. Tutti i dati sulle carceri cittadine di Gabriele D’Angelo romatoday.it, 28 giugno 2022 Sovraffollati anche in pandemia, con più detenute rispetto al resto d’Italia e “un numero impressionante” di morti dietro le sbarre da inizio 2022. Il ritratto dei penitenziari della capitale nei numeri di Dap e Antigone. Sovraffollate nonostante la pandemia, con più detenute rispetto al resto d’Italia e “un numero impressionante” di morti avvenute dietro le sbarre da inizio 2022. È il ritratto delle carceri romane che emerge dai dati del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap) e dell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, pubblicato il 28 aprile. Una serie di cifre e numeri che evidenziano tutte le criticità del sistema penitenziario della Capitale: “Mancano gli educatori, i direttori, i mediatori culturali, e di conseguenza mancano anche le attività trattamentali per i detenuti. Assistiamo anche a uno stravolgimento degli istituti penitenziari, con centinaia di condannati in via definitiva reclusi in case circondariali come Regina Coeli, dove non dovrebbero stare. E poi c’è il sovraffollamento, che rimane una costante. Fino a poco tempo fa avevamo i commissariati pieni di persone in attesa di essere portate in carcere, dove non c’era posto”, racconta Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma. Pochi posti, troppi detenuti - Nell’area metropolitana di Roma sono presenti otto istituti penitenziari: i quattro di Rebibbia (la casa circondariale “Raffaele Cinotti”, il carcere femminile “Germana Stefanini”, l’istituto a custodia attenuata “Rebibbia terza casa” e la casa di reclusione) e la casa circondariale di Regina Coeli a Roma, due a Civitavecchia (la casa circondariale “Nuovo complesso” e la casa di reclusione “Giuseppe Passerini”) e uno a Velletri. Secondo gli ultimi dati del Dap, aggiornati al 31 maggio, cinque di queste carceri sono sovraffollate e ospitano quindi molti più detenuti del dovuto. Regina Coeli, ad esempio, avrebbe posto per 615 detenuti, ma ne ospita ben 943, con un tasso di affollamento pari al 153,3%. Nella maggior parte degli istituti i posti realmente disponibili sono inoltre molti meno di quelli previsti dalla capienza regolamentare. Come nel carcere di Civitavecchia, dove al momento della rilevazione i posti effettivi erano 311, contro i 357 “ufficiali” e soprattutto i 454 detenuti presenti. Una differenza dovuta a lavori di manutenzione o altre problematiche che incide ancora di più sul sovraffollamento. Un’occasione mancata - La pandemia e la relativa necessità di svuotare le carceri per garantire il distanziamento sociale offrivano in teoria una buona opportunità per provare a risolvere il problema. Nella pratica, i dati mostrano che l’occasione è stata colta solo in parte. Secondo i monitoraggi del Dap il 31 marzo 2020 il carcere femminile di Rebibbia ospitava 351 detenute. Poco più di due anni dopo, il 31 maggio 2022, ce n’erano 339, appena il 3,5% in meno. Il carcere femminile più grande d’Europa - Incrociando i report di Antigone e dipartimento di amministrazione penitenziaria emergono anche alcuni dati interessanti sul genere dei detenuti. I numeri raccolti rivelano che il Lazio è tra le regioni italiane con più donne detenute (364) rispetto al totale. La maggior parte si trova proprio nella casa circondariale “Germana Stefanini” di Rebibbia, che con le sue 339 ospiti è anche il carcere femminile più grande d’Europa. Sempre a Rebibbia, ma nella casa circondariale Cinotti, sono detenute anche 15 persone transgender (tutte donne). Quasi un quarto di quelle attualmente in 12 istituti penitenziari italiani. Morire di carcere - Nelle 43 pagine che riassumono l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione c’è anche un dato che la stessa Antigone definisce “impressionante”. È quello sulle morti in carcere, nello specifico quelle avvenute dietro le sbarre di Regina Coeli. Qui da inizio 2022 sono decedute ben quattro persone, due per suicidio e due per cause ancora da accertare, a cui vanno aggiunte altre due morti negli ultimi mesi del 2021. Il blocco dei trasferimenti imposto dalla pandemia e l’isolamento linguistico potrebbero aver spinto questi detenuti a suicidarsi: “Di solito gli ospiti delle case circondariali vengono spostati in carceri vicine alla loro dimora, ma con il Covid questo è stato impossibile. Molti di loro si sono ritrovati soli, lontani da casa, in un carcere dove nessuno parlava la loro lingua”, Spiega Maria Grazia Carnevale, responsabile dello sportello legale di Regina Coeli. Aggiungendo anche il suicidio di un 44enne guineano, registrato a Rebibbia lo scorso 17 febbraio, da inizio anno nelle carceri romane sono morte già 6 persone, oltre il 4% del totale di tutte le carceri italiane (68). Milano. Donne incinte e bimbi in carcere per 24 ore, i penalisti: “Assurdo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2022 Garante e Camera penale contro l’ordine della procura meneghina: “La scelta soddisferà le pulsioni dell’opinione pubblica che vuole scelte a effetto ma non ci pare che vada incontro ad alcuna esigenza meritevole di tutela, né di giustizia, né di efficienza, né di umanità”. Avvocati e Garante dei detenuti uniti contro la decisione della Procura di Milano di rendere obbligatorio l’ingresso negli istituti di pena delle donne incinte o con bimbi di meno di un anno di età in presenza dell’ordine di esecuzione di un arresto. Un soggiorno “breve”, di solito non più di 24 ore, in attesa che il Tribunale di Sorveglianza prenda atto delle condizioni che ne impediscono la permanenza, come previsto dal codice penale. “È un atteggiamento che non comprendiamo - commenta la Camera Penale - considerato che il breve tempo che una madre e soprattutto il suo neonato trascorrono in carcere non serve ad alcun fine se non a violare il diritto all’infanzia, oltre a creare un’assurda spendita di risorse per le pratiche di immatricolazione e per creare posti letto in istituti già sovraffollati”. Era dal 2016 che non si vedevano fuori dagli istituti di pena milanesi, come sta accadendo in questi giorni, donne incinte o con figli piccolissimi mettersi in coda per entrare in carcere. Nella quasi totalità dei casi, sono donne rom accusate di furti. Il cambio di rotta risale al 30 maggio quando la Procura ha comunicato di aver modificato il precedente orientamento. La Camera penale ha reagito scrivendo una mail al procuratore Marcello Viola e all’aggiunto Maurizio Romanelli in cui chiedeva di rivedere il provvedimento considerato “un passo indietro proprio nell’epoca in cui il tema dei bambini in carcere è tornato all’attenzione dell’opinione pubblica per l’approvazione alla Camera del disegno di legge Siani che finalmente evita il carcere alle donne con figli minori di sei anni a favore della casa famiglia”. La risposta di Romanelli, datata 22 giugno, è che “l’Ufficio ritiene di non poter intervenire anticipatamente nella materia riservata in via esclusiva dal legislatore alla magistratura di Sorveglianza”. Anche nell’ambiente penitenziario c’è malessere perché - come riporta l’agenzia Agi, “nel momento in cui le donne coi bimbi entrano in carcere si ha il dovere di custodirli ma non siamo attrezzati con servizi medici adeguati in casi come, per esempio, il rischio di un aborto”. Inoltre, l’immatricolazione è un costo ritenuto “inutile” visto che queste madri non resteranno negli istituti di pena. “La scelta della Procura - è la riflessione della Camera Penale - soddisferà le pulsioni dell’opinione pubblica che vuole scelte a effetto ma non ci pare che vada incontro ad alcuna esigenza meritevole di tutela, né di giustizia, né di efficienza, né di umanità”. Anche il Garante Francesco Maisto, appena rinominato in questa funzione dal Comune di Milano, definisce “sbagliato” il nuovo approccio della Procura condividendo le argomentazioni degli avvocati. Torino. Al carcere Lorusso e Cutugno chiusa un’altra sezione criticata di Luca Sofri ilpost.it, 28 giugno 2022 Era quella in cui venivano controllati i detenuti sospettati di aver ingerito ovuli di sostanze stupefacenti, definita “inguardabile” dalla ministra Cartabia. È stata chiusa la cosiddetta sezione “filtro” della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, destinata alle persone sospettate di aver ingerito ovuli contenenti stupefacenti e che da anni era sia criticata per le condizioni in cui dovevano vivere i detenuti, sia oggetto di proteste da parte degli agenti della polizia penitenziaria. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, che aveva effettuato un sopralluogo nel carcere di Torino pochi mesi fa, aveva descritto così la sezione: “Inguardabile per la disumanità, tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti”. La chiusura della sezione segue quella dello scorso novembre del Sestante, reparto del carcere torinese in cui erano detenute le persone in osservazione psichiatrica e in cui erano stati segnalati abusi. A determinare invece la chiusura della sezione “filtro” è stata ufficialmente la rottura di un macchinario, quello per le operazioni di raccolta delle feci e per l’individuazione e il recupero degli eventuali ovuli, involucri sferici in lattice o plastica inghiottiti per nascondere piccoli quantitativi di droga, e poi recuperati, per l’appunto, espellendoli con la defecazione. La decisione è stata presa da Rita Russo, capo del Prap, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte. Già da alcuni anni era stata chiesta la chiusura della sezione. Nel 2017 Monica Gallo, garante dei detenuti a Torino, aveva descritto così la situazione in una relazione: “Un ambiente gelido, sporco e maleodorante, le persone sedute a terra con una coperta addosso, costrette a dormire senza brande e senza materassi e a passare le giornate in cinque o sei assieme in una stanza di otto metri quadrati, guardando attraverso le sbarre la televisione sulla scrivania degli agenti”. Il Lorusso e Cutugno era l’unico carcere in Italia dotato di una sezione apposita per i detenuti sospettati di aver ingerito ovuli di stupefacenti. Le celle della sezione erano totalmente spoglie per impedire ai detenuti di nascondere gli ovuli, e in una prima fase mancavano anche i letti che erano stati poi aggiunti in un secondo momento. Nelle celle della sezione filtro non c’erano servizi igienici e docce: tutti dovevano usare un particolare wc in cui venivano raccolti gli eventuali involucri, il cui contenuto veniva poi sottoposto a un test chimico. A occuparsi della raccolta degli ovuli doveva essere esclusivamente personale sanitario con apposite protezioni, ma poi con il tempo la mansione era passata totalmente alla gestione degli agenti della polizia penitenziaria che per questo avevano più volte protestato. La decisione di inaugurare a livello sperimentale la sezione filtro, nel 2009, era stata accolta come un miglioramento della sicurezza in carcere. C’erano state infatti alcune morti per overdose di detenuti che, una volta usciti per permessi o per altre ragioni, erano tornati in carcere dopo aver inghiottito gli ovuli di droga, che però si erano rotti nello stomaco provocando gravi complicanze. Erano stati registrati anche casi di persone che si erano fatte arrestare apposta per poter introdurre in carcere la droga da vendere. La sezione era stata dotata del macchinario apposito che era stato presentato alla stampa: un video fu anche pubblicato dal sito del quotidiano Repubblica. Rita Russo, capo del Provveditorato, ha detto parlando con Repubblica: “Se da una parte è legittimo recuperare un corpo del reato, questo non può avvenire in quelle condizioni. Abbiamo già avviato un dialogo costruttivo con la procura per superare questa situazione”. Ora, come accade nelle altre parti d’Italia, i detenuti sospettati di aver ingerito ovuli saranno portati in ospedale: al CTO di Torino ci sono locali appositi che sono stati però finora utilizzati pochissimo. A novembre è stato chiuso il Sestante, reparto di Articolazione per la tutela della salute mentale: un reparto cioè dove venivano inviati i detenuti in osservazione psichiatrica. La chiusura era stata decisa anche in quel caso dopo molte denunce in cui erano state segnalate le condizioni di degrado del reparto. In particolare l’associazione Antigone aveva denunciato prima del novembre 2021 la situazione di un detenuto rinchiuso per mesi al Sestante, dove invece la permanenza avrebbe dovuto essere al massimo di 30 giorni. Il detenuto era rinchiuso in una cella cosiddetta “liscia”, cioè priva di arredi, e lasciato per giorni senza acqua tanto da essere costretto a bere dal water. Sulle condizioni in cui erano costretti a vivere i detenuti del Sestante la Procura di Torino ha aperto un’indagine. Anche il reparto di osservazione psichiatrica, così come la sezione “filtro”, era un progetto sperimentale. Le Articolazioni per la tutela della salute mentale, all’interno delle carceri, sono luoghi istituiti per accertare l’esistenza o meno di patologie psichiatriche: servono in pratica ad assicurarsi che il detenuto non stia simulando. Il Sestante, ma reparti simili sono in tutta Italia, era invece diventato uno spazio dove veniva “gestita” la fase acuta della patologia, in cui è più alta la possibilità di autolesionismo o aggressività. Passata la fase acuta, i detenuti venivano rimandati da dove venivano senza che, nella maggior parte dei casi, venissero avviati veri percorsi di cura. Airola (Bn): “Spostare detenuti che creano eventi critici da un carcere all’altro non serve” ottopagine.it, 28 giugno 2022 Ciambriello: “Serve programma educativo che abbia un fine”. Il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, interviene sull’episodio di violenza accaduto nell’Istituto minorile di Airola, in provincia di Benevento. Un giovane detenuto straniero avrebbe scatenato una rivolta, picchiando un altro ristretto e così innescando una zuffa. Lo stesso era stato, da poco, trasferito dal carcere di Treviso, dove ha danneggiato alcune aree dell’Istituto. Sull’evento critico interviene il Garante campano che dichiara: “Ipotizzare un nuovo trasferimento del detenuto presso un altro Istituto di pena minorile non può rappresentare una risoluzione. Qui si tratta di un problema educativo: se una persona vive un disagio, cova rabbia e rancore, manifesta violenza contro sé stesso e contro gli altri, ovunque lo si manda continuerà a creare disordini. È necessario, piuttosto, intervenire con un programma educativo che abbia un fine più preciso. Non è un’agenda ricca di attività all’interno del carcere che rende efficace il trattamento rieducativo e riabilitativo - rimarca Ciambriello. Ad Airola ci sono tante attività, forse troppe: i ragazzi sono sempre impegnativi in attività ricreative, ma sarebbero necessari più progetti dedicati all’ascolto e al supporto psicologico degli stessi. Il mio Ufficio, a tal proposito, con tanta fatica, ha messo a disposizione figure professionali, in particolare psicologi, criminologi e assistenti sociali, che hanno realizzato il progetto “Ascoltiamoci”, proprio nel carcere minorile di Airola, finalizzato a instaurare con i giovani un dialogo, che li portasse ad una riflessione su se stessi e sul mondo esterno, rendendoli maggiormente consapevoli e responsabili del reato commesso”. Episodi messi in risalto anche da un sindacato di polizia. “Di eventi critici ne sono piene tutte le carceri d’Italia. Bisogna rafforzare - conclude il Garante campano - il concetto espresso nel nuovo motto degli agenti penitenziari: non più “vigilare per redimere”, ma “vigilare per infondere speranza”. Non si può pensare che i trasferimenti da un carcere all’altro risolvano i problemi, anzi io direi che li creano. E questo è un fallimento per tutti noi”. Attualmente, nelle 17 carceri minorili d’Italia, sono 264 i giovani ristretti. In Campania, 35 detenuti si trovano nell’Istituto di Airola e 45 in quello di Nisida. Cagliari. Per la riabilitazione dei detenuti serve il lavoro di Romeo De Angelis La Discussione, 28 giugno 2022 Il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha visitato il carcere di Uta, in provincia di Cagliari, per il progetto di reinserimento lavorativo dedicato ai detenuti. “La prima cosa da sottolineare è la mobilitazione di tanti soggetti in un settore decisivo come l’innovazione tecnologica. Poi c’è il valore simbolico di questa scelta. Il lavoro è decisivo per il volto costituzionale della pena, che secondo l’articolo 27 della Costituzione deve essere rieducativa”. “C’è un compito molto gravoso per l’amministrazione penitenziaria, ovvero garantire opportunità di lavoro per tutti - ha detto ancora il ministro - Questa non è un’occupazione qualsiasi, o un semplice riempimento delle ore. È un lavoro vero e proprio, con adeguata retribuzione e formazione. Consente ai detenuti di essere assunti con contratti in regola. L’aver lavorato per aziende così importanti può fare la differenza al momento dell’uscita e della ricerca di un’altra occupazione. C’è un lavoro interno con il ricondizionamento dei modem e un lavoro esterno con la posa della fibra ottica”. E ha concluso: “Questo richiederà un impegno importante e ringrazio l’amministrazione penitenziaria. Dove il carcere funziona è sempre grazie alla collaborazione con il territorio. È un progetto che mi da un’enorme fiducia, perché parte con condizioni di estrema sostenibilità”. Bologna. Case accoglienza per detenuti in misura alternativa grazie al terzo settore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2022 Come ha osservato il Garante nazionale Mauro Palma, ben 1.319 persone sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno, e altre 2.473 per una condanna da uno a due anni. Significa che 3.792 reclusi potrebbero scontare la pena al di là delle sbarre dietro cui si trovano attualmente, senza nemmeno varcare la soglia del carcere. Ma tanti di loro non hanno una dimora o altri strumenti per accedervi. Cosa fare? Si può prendere esempio, magari estendendolo in tutta Italia attraverso il coinvolgimento di tutte le regioni, della Casa di accoglienza “Don Giuseppe Nozzi”, che si trova Bologna, in via del Tuscolano. Si tratta di una struttura per detenuti in misura alternativa al carcere, dove opera personale del Ceis (Centro di Solidarietà), in collaborazione con la “Fraternità Tuscolano 99”. È attivo da alcuni mesi, ma due giorni fa è stata ufficializzata la sua apertura. Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato, tra gli altri, il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, l’arcivescovo della città e presidente Cei, cardinale Matteo Zuppi, e per il Ceis padre Giovanni Mengoli, presidente del gruppo, affiancato da padre Giuliano Stenico, presidente Fondazione Ceis. “Questa casa di accoglienza è anche bella, insisto su questo aspetto. Un luogo bello rende più bello chi lo abita”, ha detto Zuppi. Per padre Mengoli “le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva del reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16- 20% contro il 66- 70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza atte a favorire la concessione di misure alternative. La Regione - ha sottolineato ancora - dovrebbe dare la possibilità di inserire nel sistema dei servizi sociali e sanitari realtà come Casa Don Nozzi”. Inizialmente la gestione dell’accoglienza sarà parzialmente sovvenzionata attraverso i fondi Faac e da un contributo della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, avendo poi come obiettivo di intercettare finanziamenti pubblici e privati per la sua gestione futura. La struttura può accogliere 8 persone in regime residenziale e, considerata la vicinanza con il carcere della Dozza, ulteriori posti in regime non residenziali possono essere a disposizione per accoglienze brevi di permanenze di detenuti in permesso premio, o nella fascia diurna per carcerati in semilibertà. Non è l’unica realtà ovviamente. Di strutture simili operano anche altrove, ma sempre tramite il cosiddetto terzo settore e senza una “responsabilizzazione” dello Stato (così come invece ora avverrà con le case famiglie per detenute madri. Inizialmente, questa idea di valorizzare le case di accoglienza, era contemplata dalla riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario, poi approvata a metà quando si instaurò il governo legastellato. L’idea era incentrata proprio per dare la possibilità ai detenuti più “vulnerabili” a causa della marginalità sociale, di usufruire il beneficio penitenziario. Milano. Due giorni di incontri e dibattiti sulla legalizzazione della cannabis milanotoday.it, 28 giugno 2022 Parte da Milano un’iniziativa a supporto della legalizzazione della cannabis in Italia. Lunedì 27 giugno, in aula a Palazzo Marino, Daniele Nahum (consigliere comunale del Pd, vice presidente della sottocommissione carceri) ha annunciato gli ‘stati generali sulla cannabis’: due giorni di dibattiti e testimonianze sull’argomento, che si svolgeranno l’8 e il 9 luglio in via Senato o in streaming. I principali aspetti che saranno affrontati negli stati generali saranno il rapporto tra cannabis e mafia, il sovraffollamento delle carceri, l’aspetto terapeutico, le ricadute economiche. I lavori saranno aperti con una ‘maratona oratoria’ di rappresentanti del mondo politico e della società civile. Ai dibattiti parteciperanno tra gli altri i direttori delle carceri di Opera, San Vittore e Bollate, ma anche Peppe Provenzano, vice segretario del Pd. “Qualche mese fa accesi uno spinello davanti a Palazzo Marino - dichiara Nahum - per contestare le folli politiche in materie di droghe che vigono nel nostro paese e per sostenere la legge in discussione in commissione giustizia della Camera dei Deputati che permetterebbe la coltivazione domestica di cannabis fino a quattro piantine. In quell’occasione dissi che andavano fatti gli stati generali della cannabis, oggi sono qui ad annunciarli”. 16mila detenuti per reati di cannabis - “Sono 16mila - continua Nahum - i detenuti nelle nostre carceri per reati connessi alla cannabis, le mafie guadagnano 7 miliardi ogni anno grazie al proibizionismo, e noi vogliamo sottrargli questo guadagno e permettere che si sviluppi un sano comparto economico legale che farebbe bene al Paese e che creerebbe dei nuovi imprenditori e sarebbe anche un’ottima opportunità per la nostra agricoltura. Il 30% dei detenuti nelle nostre carceri è dentro per consumo di stupefacenti. In questo evento evidenzieremo la follia del proibizionismo e ragioneremo su come in futuro dovremo legalizzare questa sostanza e sui benefici che potremmo trarne. Lo facciamo già con il vino non vedo perché non potremmo farlo con la cannabis”. Lecce. “Il carcere visto da dentro”, il 30 giugno Comune e Antigone presentano il rapporto portadimare.it, 28 giugno 2022 Giovedì 30 giugno 2022, alle 19, nel Chiostro degli Agostiniani, si terrà l’iniziativa “Il carcere visto da dentro”, organizzato da Comune di Lecce - Assessorato al Welfare e associazione Antigone. Nel corso dell’incontro, moderato dal giornalista Erasmo Marinazzo, sarà presentato il XVIII rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane redatto da Antigone, si parlerà del carcere e delle sue alternative, della collaborazione tra istituzioni per garantire percorsi di pena riabilitanti. All’incontro prenderanno parte Silvia Miglietta, assessora al Welfare del Comune di Lecce, Alessandro Stomeo, avvocato dell’associazione Antigone Lecce, Mariateresa Susca, direttrice della Casa Circondariale di Lecce, Giuseppe Mastropasqua, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, e Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà della città di Lecce. “Il carcere non è un’isola separata dal mondo esterno, ma una comunità - dichiara l’assessora al Welfare del Comune di Lecce Silvia Miglietta - fatta di storie, relazioni, problemi che dobbiamo sempre più mettere in relazione con la città. La presentazione del rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, redatto dall’associazione Antigone, ci offre l’occasione per affrontare in un dibattito pubblico e aperto a tutta la cittadinanza i temi della vita carceraria, che non sono diversi da quelli dell’esterno: inclusione, diritti, cooperazione, rappresentanza, per garantire alla comunità e ai singoli la possibilità di una piena e reale riabilitazione”. “Il carcere, dopo la pandemia, si è ripresentato con tutte le sue problematiche, aggravate dalla dura prova - commenta Alessandro Stomeo di Antigone - rappresentata dalla emergenza sanitaria. Le violenze subite dai detenuti ad opera di appartenenti alle Forze dell’Ordine, in relazione alle quali si stanno celebrando processi, da una parte, e il sovrumano impegno e lavoro dei Direttori e del sottodimensionato personale di sicurezza e di assistenza ai detenuti, dall’altra, sono le due facce di un sistema “malato”, incapace di garantire una pena in linea con il dettato Costituzionale. La piaga del sovraffollamento, che nelle strutture detentive pugliesi si attesta, come media, al 135% insieme alla inadeguatezza delle strutture, alla carenza di personale di sostegno e di sicurezza, genera una pena detentiva inumana. La reclusione si sostanzia, così, in un inutile e passivo stato di limitazione della libertà che aggrava, anziché risolvere, i problemi di socializzazione del reo allontanandolo ancor di più da un modello comportamentale accettabile”. Rovigo. Il carcere in piazza. Voci per la libertà in tour vociperlaliberta.it, 28 giugno 2022 A Rovigo due serate dedicate alla condizione carceraria organizzate dall’Associazione Voci per la Libertà all’interno del progetto “Carcere e comunità locale” finanziato da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con Comune di Rovigo, il Manto di Martino e il coinvolgimento del Coordinamento Volontari della Casa Circondariale di Rovigo. Dopo i due concerti realizzatisi all’interno del carcere di Rovigo martedì 21 giugno in occasione della giornata europea della musica con tre artisti del festival Elisa Erin Bonomo, Chiara Patronella e Michele Mud, ecco gli eventi aperti al pubblico volti a sensibilizzare la popolazione sulla condizione carceraria. Venerdì 1 luglio in Piazza Annonaria alle 21.00 la proiezione del documentario “Caine - Voci di donne dal carcere”, con la presenza della giornalista e autrice del documentario Amalia De Simone e una delle protagoniste, la cantautrice Assia Fiorillo. Il film documentario racconta la vita nelle carceri e conduce, attraverso le storie e le testimonianze, alla scrittura a più mani di una canzone condivisa. Amalia De Simone e Assia Fiorillo per mesi, hanno frequentato i penitenziari femminili di Fuorni - Salerno e Pozzuoli e hanno proposto un esperimento: la condivisione di storie e di ore di vita carceraria e la costruzione di una canzone scritta da tante mani che diventa il racconto autentico di una città controversa e appassionata, Napoli. Durante la serata la presentazione del progetto “Carcere e comunità locale” con la presenza delle autorità e delle associazioni convolte nella progettualità. Sabato 2 luglio sempre alle 21.00 ma in Piazza Vittorio Emanuele “Il carcere in Piazza - Voci per la Libertà in tour” con il concerto di Assia Fiorillo, vincitrice a Voci per la Libertà del premio “Il migliore per noi” nel 2020 e Tonino Carotone Unplugged Experience; un artista internazionale da sempre vicino ai temi del carcere per un concerto unico in una versione più intima, certo, ma non per questo meno energetica o sincera di se stesso, che egli ha pensato e studiato affinché richiamasse sonorità e tradizioni della sua terra. A condurre la serata Carmen Formenton di Voci per la Libertà, le letture di Alessio Papa del Tetro del Lemming e gli interventi di Mirella Zambello, assessore alla cultura del comune di Rovigo, Michele Lionello Direttore artistico di Voci per la Libertà, Rossella Magosso responsabile del Coordinamento dei Volontari della Casa Circondariale di Rovigo e Guido Pietropoli garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo. Vercelli. In carcere “La partita con papà” di Giorgio Morera lasesia.it, 28 giugno 2022 I detenuti della casa circondariale di Billiemme hanno giocato alla presenza dei figli. Una bella mattinata di sport e condivisione è stata vissuta quest’oggi, lunedì 27 giugno, all’interno della casa circondariale di Vercelli con “La partita con papà”, un incontro ludico-sportivo che, nel contesto della campagna annuale “Carceri aperte”, ha visto protagonisti alcuni detenuti, alla presenza dei loro figli. Dopo due anni di stop forzato a causa delle restrizioni sanitarie, è comprensibile come tale iniziativa si sia svolta con grande entusiasmo e partecipazione. Nel campo di calcio della struttura cittadina, dunque, si è disputata un’avvincente partita che ha visto contrapposte due squadre: una formata da detenuti-papà e l’altra da detenuti senza figli. A organizzare il match a livello nazionale, in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è stata l’associazione “Bambinisenzasbarre” onlus che, con lo slogan “I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini”, è impegnata a curare la relazioni familiari dei più piccoli durante il periodo di detenzione di uno o di entrambi i genitori, cercando di dare continuità al legame affettivo e, al tempo stesso, di sensibilizzare le istituzioni e la società civile. I sorrisi, gli abbracci e la spensieratezza del paio d’ore trascorse tra padri e figli è sicuramente il risultato più bello, che va ben oltre le prestazioni sportive delle due formazioni. “La partita con il papà”, lanciata nel 2015 con l’adesione di soli 12 istituti penitenziari, è progressivamente cresciuta come apprezzamento fino ad arrivare al 2019, prima della pandemia, con ben 68 istituti sul territorio italiano. La riproposizione in questo 2022 può essere un nuovo inizio sempre nel solco di una maggiore inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini, corrispondendo così agli obiettivi della campagna europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna” del network Cope (Children of prisoners Europe), alla quale è legata la campagna italiana “Carceri aperte” e, pertanto, anche “La partita con papà”. Palermo. Scacchi per tutti, si conclude il corso per detenuti a Termini Imerese palermotoday.it, 28 giugno 2022 Un percorso che ha avuto come obiettivo quello di far emergere in coloro che stanno scontando una pena la voglia di reinserirsi nel modo migliore nella società. Gli scacchi, antico e nobile gioco, anzi per meglio dire sport della mente, richiedono poco spazio e molto tempo libero: uno sport adatto anche al carcere. Ed è quello che succede da qualche anno, grazie al Cpia Palermo 2 di Termini Imerese, diretto dal dirigente scolastico Giorgio Cavadi, precisamente presso il Punto di Erogazione della Casa Circondariale “A.Burrafato” ex Cavallacci. Fondamentale per la riuscita del corso è stata come sempre, la disponibilità del carcere, in particolare dell’Area Dirigenziale ed Educativa nonché degli Agenti della Polizia penitenziaria per il sostegno che garantiscono e offrono quotidianamente alle attività scolastiche in genere. Il Cpia tra i vari progetti extra curriculari erogati all’istituto penitenziario (FAMI e PON), grazie al fondo d’istituto (FIS), anche quest’anno ha realizzato il corso “Scacchi X Tutti”, volto all’alfabetizzazione dei detenuti a questo gioco, e già attuata in alcuni penitenziari italiani, con ottimi risultati. Gli scacchi infatti, come affermano studi scientifici a livello mondiale, hanno un positivo impatto a livello pedagogico. Giocare a scacchi in maniera costante, allena a controllare l’impulsività, fa riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, insegna a raggiungere gli obiettivi seguendo le regole senza prevaricazioni o scorciatoie: un vero strumento di riabilitazione sia nel mondo della scuola, sia in quello carcerario. Un percorso ludico-formativo che si è chiuso con un torneo finale durante il quale i giocatori-detenuti si sono confrontati tra loro con agonismo ma in amicizia. Il tutto attraverso un percorso che ha avuto come obiettivo quello di far emergere in coloro che stanno scontando una pena la voglia di reinserirsi nel modo migliore nella società. “L’esperienza mi è stata di grande beneficio - ha dichiarato uno dei corsisti - sia come momento di evasione mentale che di riflessione. Gli scacchi ci hanno aiutato a migliorare l’autocontrollo, a pensare sempre quale sia la migliore mossa, quali siano benefici e svantaggi di ogni decisione e ad agire quando abbiamo la sicurezza di avere dei buoni risultati”. Promotore e responsabile del corso è stato Pietro Fiorentino, docente dello stesso Cpia Palermo 2, nonché Istruttore della FSI presso la Scuola di Scacchi “Pedoni Uniti “di Bagheria, che a fine anno scolastico ha consegnato ai neofiti scacchisti a ricordo dell’impegno profuso, gli attestati di partecipazione personalizzati. Forlì. La comunità islamica dona indumenti estivi ai carcerati di Forlì di Piero Ghetti forlitoday.it, 28 giugno 2022 A comunicare il gesto caritativo, compiuto venerdì scorso presso la Casa circondariale, è il presidente della moschea di via Masetti, Mohamed Ballouk. La comunità islamica di Forlì dona indumenti estivi ai carcerati di via Della Rocca. A comunicare il gesto caritativo, compiuto venerdì scorso presso la Casa circondariale, è il presidente della moschea di via Masetti, Mohamed Ballouk. Nella bolla di consegna del vestiario, rigorosamente nuovo e appositamente comprato da un grossista di Bologna, compaiono 100 magliette mezze maniche, 60 canottiere, 40 “short” e circa 200 paia di slip. “È un dono - dichiara lo stesso Ballouk - della comunità islamica forlivese a tutti i detenuti, nessuno escluso”. Alla trasmissione del materiale erano presenti la direttrice del carcere dr.ssa Palma Mercurio e il cappellano don Enzo Zannoni. Il gesto di venerdì scorso è solo l’ultimo atto di un cammino di relazioni, avviato e condotto da alcuni anni dal responsabile del Centro diocesano per il dialogo ecumenico e interreligioso, don Enrico Casadio. “Gli incontri interreligiosi di preghiera per la pace che si sono svolti negli ultimi mesi sul sagrato di San Mercuriale - dichiara il sacerdote, che dal novembre scorso è parroco a Meldola dopo 10 anni trascorsi alla guida pastorale della centralissima abbazia di piazza Saffi - hanno portato un frutto concreto di collaborazione. Circa 10 giorni fa, il nostro centro ha organizzato un incontro del vescovo di Forlì - Bertinoro mons. Livio Corazza, del direttore della Caritas diocesana Filippo Monari e del responsabile dell’Ufficio Migrantes Walter Neri, con alcuni membri del nuovo consiglio direttivo dell’associazione islamica di Forlì, che ha la sede presso la moschea di via Masetti. Tutto nasce dal fatto che il nuovo presidente dell’associazione Mohamed Ballouk, marocchino, mi aveva espresso il desiderio di collaborare, in particolare a favore dei carcerati”. Nella Casa circondariale di via della Rocca si trovano cristiani, mussulmani, ma anche persone non appartenenti ad alcuna comunità religiosa. La settimana scorsa, presso il centro islamico di via Masetti, don Enzo Zannoni ha incontrato Ballouk, che ha così disposto l’acquisto degli indumenti, poi recapitati venerdì. La moschea di Villa Selva, cui si aggiungono gli altri luoghi di culto mussulmani presenti a Forlì, a cominciare da quello di via Fabbretti, è aperta per la preghiera personale (salat), che deve essere recitata cinque volte al giorno (all’alba, a mezzogiorno, al pomeriggio, al tramonto, alla sera). Anche per il mussulmano forlivese, il giorno più importante della settimana è il venerdì, con la preghiera comune che deve essere recitata a mezzogiorno, subito dopo il sermone sulla vita del Profeta, che in via Masetti è tenuto dall’imam Faiz Abdelkabir. “Quando ci siamo tutti - precisa Ballouk - al venerdì arriviamo ad essere anche tre, quattrocento persone. Il sabato e la domenica, prima dell’ultima preghiera è prevista anche la lezione sulla storia del Profeta”. “Questa consegna di vestiario a tutti i carcerati è importante - conclude don Enrico Casadio - essendo l’inizio di un rapporto concreto di collaborazione e amicizia, che confidiamo possa favorire, in un momento internazionale così difficile, non solo la convivenza e l’integrazione, ma anche il superamento di tante tensioni e difficoltà nello spirito dell’enciclica ‘Fratelli Tutti’ di papa Francesco”. “Una giustizia alta e altra. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali”, di Maria Martello recensione di Pasquale Almirante tecnicadellascuola.it, 28 giugno 2022 L’arte della mediazione è la politica, ma perché essa, la mediazione, non può entrare anche nei tribunali e dunque essere il perno attraverso cui la giustizia riesce ad appianare i conflitti, piuttosto che acuirli, separando e dividendo, spezzando e scomponendo? A entrare in questo universo, poco esplorato in vero, il libro di Maria Martello, docente di Psicologia dei rapporti interpersonali, mediatrice e giudice onorario presso la Corte d’Appello di Milano, col suo recente libro, pubblicato dalle Edizioni Paoline, 16,00 Euro, dal titolo, “Una giustizia alta e altra. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali”, con prefazione di Cristina Simonelli. Nel testo, l’autrice pone in primo piano il ruolo e le competenze del mediatore, e dunque le modalità del suo intervento, mentre l’obiettivo della mediazione è quello di trasformare le dinamiche che hanno generato il conflitto, entrando nel punto di vista della controparte e manifestando la propria, e precisando gli obiettivi reali e le motivazioni per trovare vie d’uscita onorevoli per i contendenti. Il perno di questo discorso starebbe, secondo Martello, nel recupero di quella tradizione umanistica e culturale attenta ai valori della persona; e a quell’altra socratica della maieutica per rendere le parti protagoniste del processo di mediazione. “Una opportunità - scrive l’autrice- per imparare ad affrontare il conflitto, a conoscere meglio se stessi, a migliorare in poche parole il proprio livello di umanità aprendosi al dialogo con l’altro, il diverso da noi senza considerarlo un nemico da abbattere”. Il giudice, dunque, e il relativo giudizio, non avrebbe motivo di esserci, se il mediatore riesce a tirare fuori dai contendenti le proprie ragioni, aiutando, con discrezione, le parti a riaprire il dialogo interrotto dal conflitto stesso. Da qui pure, ma essenziale, la robusta preparazione del mediatore dei conflitti, con forti competenze relazionali, notevoli doti di equilibrio interiore. Un nuovo senso insomma del giudicare nei tribunali e nella vita, così come la Ministra Cartabbia ha dichiarato: “C’è modo e modo per risolvere il conflitto: quando lo si risolve con la spada resta sempre una cicatrice che fatica a ricomporsi, ma quando si ricorre alla mediazione possiamo avere un effetto rigenerativo…” Un testo che, come sottolinea Martello, si pone in linea con la riforma della giustizia in approvazione al Parlamento, e nella quale vengono superati le consuete procedure, aprendosi a un rinnovamento sostanziale del diritto. “C’è bisogno di una giustizia altra - scrive ancora Martello. È giunto il tempo per incarnare il messaggio che Rembrandt bene celebra nella sua opera Il figlio prodigo. Così dobbiamo volere e adoperarci perché la nostra società abbia una nuova opportunità per risolvere un conflitto, divenuto contenzioso, con regole diverse da quelle giuridiche”. L’estremismo delle democrazie bloccate di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 giugno 2022 Aborto. Intervista al presidente della Corte costituzionale italiana sulla decisione della Corte suprema che ha cancellato la tutela federale al diritto di interruzione della gravidanza: “Gli Stati uniti sono il prototipo dei sistemi in crisi dove o non si riesce a far nulla o si procede per radicalismi. Biden non ha avuto la forza di spostarsi su una legge di tipo europeo”. Parlando della sentenza con cui la Corte suprema degli Stati uniti ha abolito il diritto all’aborto a livello federale, il presidente della Corte costituzionale italiana Giuliano Amato ricorda la profezia di Stephen G. Beryer, giudice della corte suprema che tre anni fa aveva affidato a una dissenting opinion (l’istituto che consente ai componenti del collegio di mettere nero su bianco un parere opposto a quello della maggioranza) la sue preoccupazioni per la sorte della sentenza Roe vs Wade, il precedente che fino a venerdì scorso tutelava il diritto all’aborto negli Usa. “Nel 2019 - ricorda Amato, nel suo studio al palazzo della Consulta - si trattava di decidere una questione relativa alle tasse in California che avrebbe dovuto pagare la Hyatt, la multinazionale degli alberghi. La Corte suprema, rovesciando una sua precedente sentenza del 1979, stabilì che gli Stati hanno un’immunità sovrana sulle cause civili sollevate da altri Stati. Vale a dire che possono essere citati in giudizio solo con il loro consenso. Beryer, che non era d’accordo con quella decisione, scrisse allora che la Corte era arrivata troppo facilmente all’overulling, la modifica di una precedente decisione, e con argomenti non sufficientemente solidi. Scrisse esplicitamente: “Non vorrei che questo preparasse un cambiamento sulla Roe vs Wade”“. È andata proprio così. La Corte ha smentito clamorosamente se stessa e lo ha fatto definendo la sua precedente sentenza “sbagliata in maniera eclatante, in rotta di collisione con la Costituzione fin dal primo momento”. Decisione inconsueta anche nel linguaggio, non trova presidente? La decisione è stata molto drastica anche nei toni. Ma L’overulling non è così infrequente, ha diverse centinaia di precedenti nella storia della Corte. Molti dei quali celebrati dai progressisti, perché i cambiamenti di opinione della Corte negli Stati uniti hanno seguito il filo dell’irrobustimento dei poteri del Congresso federale, dal New Deal in avanti. Sono stati proprio gli overulling a creare lo spazio costituzionale per i cambiamenti che intervenivano nella società e nella politica. L’attuale maggioranza conservatrice della Corte, invece, negli ultimi anni ha invertito la tendenza storica all’allargamento delle competenze federali, rafforzando gli Stati, anche con quest’ultima sentenza. Che però dietro lo schermo di una questione di competenza colpisce a fondo un diritto delle donne... Questo accade perché il clima negli Stati uniti nel frattempo è assai cambiato. È stata proprio Ruth Bader Ginsburg, la più celebre giurista liberal, qualche anno fa a domandarsi se fosse stato un bene aver provocato l’azione sulla Roe vs Wade. Si domandava se non sarebbe stato meglio continuare a combattere per l’aborto in sede politica, stato per stato, per ottenere maggioranze favorevoli. Un’analisi a mio modo di vedere ineccepibile: la radicalizzazione andava evitata. Roe vs Wade ha precluso a lungo una legislazione sull’aborto più equilibrata, come quella che c’è in diversi paesi europei. Quella sentenza andava soprattutto difesa dagli assalti pro life, non è così? La difesa non poteva che avvenire a livello politico. Ripensiamo a cosa è successo in questi ultimi anni. Mentre negli Stati a maggioranza repubblicana si portavano avanti tentativi capziosi di aggirare Roe vs Wade, rendendo di fatto impossibile abortire, due anni fa veniva eletto un presidente della Repubblica democratico. Un presidente che per una breve stagione ha anche avuto a disposizione la maggioranza nel Congresso per portare avanti una legge federale sull’interruzione di gravidanza - a quel punto lui sapeva che l’aborto era sotto scacco alla Corte suprema. Ma Biden non ha avuto la forza di spostarsi su una legge di tipo europeo e sostanzialmente non ha fatto niente, lasciando il campo ai giudici. Il Congresso però, anche su questo tema, è bloccato dall’ostruzionismo della destra... Sì, certamente, ma la proposta dei democratici è stata quella di una legge ricalcata sulla Roe vs Wade, per consentire l’aborto fino alla ventiquattresima settimana. Sarebbe stato possibile trovare quindici, magari anche solo cinque senatori repubblicani disposti a convergere su una legge di tipo europeo, come la nostra 194 che prevede cautele maggiori per l’aborto dopo il 90 giorno dalla fecondazione? Non lo so, ma nessuno ci ha provato. Gli Stati uniti sono ormai il prototipo delle democrazie in crisi dove prevalgono le posizioni estreme. Sistemi in cui o non si riesce a far nulla o si fanno le cose estreme. In Polonia la decisione estrema sull’aborto l’ha presa il legislatore, con effetti aberranti al punto che nessun medico interviene più per interrompere la gravidanza, neanche quando la donna muore a causa del suo essere incinta. Negli Stati uniti la decisione estrema l’ha presa la Corte suprema. Presidente, lei dice: doveva occuparsene il legislatore. Lo dice però anche il giudice che ha scritto la sentenza, Alito, quando invita a riportare l’aborto sul terreno della rappresentanza politica. La giustizia costituzionale può arretrare di fronte alla tutela dei diritti? Io non dico quello che dice Alito. Penso al contrario che lui abbia torto e che abbia ragione il presidente della Corte suprema, John Roberts: il collegio non aveva alcuna ragione di contestare la competenza federale sull’aborto. Roberts contestava le 24 settimane. L’interruzione di gravidanza ha bisogno di una disciplina articolata che tocca al legislatore. Nelle nostre mani di giudici costituzionali italiani sarebbe stato il classico caso in cui avremmo detto: “Così non va, ma non siamo noi che possiamo decidere. Tocca al legislatore stabilire i tempi e i modi per accrescere le cautele con il passare delle settimane di gestazione”. Sarebbe stata una delle ormai frequenti decisioni con le quali chiamiamo in causa il Parlamento. La cosa veramente grave, dopo questa sentenza americana, è che è stato messo in dubbio il potere del Congresso di legiferare, in futuro, sull’aborto. Nella dissenting opinion, i tre giudici di minoranza rivolgendosi agli altri sei che hanno condiviso la sentenza scrivono: state invertendo la rotta di questa Corte per la sola ragione che adesso avete la maggioranza per farlo. È corretto, secondo lei, che anche la parte liberal veda ormai la Corte come un organo schiettamente politico? È un fatto. Ricordiamoci che è stata la Corte suprema ad assegnare nel 2000 la vittoria a W. Bush contro Gore con il voto decisivo del giudice Antonin Scalia. Un giudice profondamente conservatore, ma mai così brutalmente politico come sembrano essere i giudici oggi. Perché oggi è il clima attorno alla Corte a essere determinante. Il giudice Clarence Thomas è stato per trent’anni silenziosamente conservatore, solo di recente lui, e sua moglie, si sono scatenati a favore di Trump e della lobby delle armi. Oggi (ieri, ndr) Sabino Cassese scrive sul Corriere che il mandato a vita dei giudici supremi è un problema. Un altro problema è che i presidenti degli Stati uniti che indicano i giudici non sono più quelli di una volta, con Trump sono ormai gli interpreti di questa America polarizzata. È stato proprio il giudice Thomas a scrivere nella sua opinione concorrente che la stessa sorte, adesso, toccherà ad altri diritti civili. Le pare probabile? Il rischio c’è, Thomas ha citato le sentenze Griswold del 1965 sulla contraccezione, Lawrence del 2003 sulla omosessualità e Obergefell del 2015 sui matrimoni omosessuali. Del resto, se si afferma la dottrina dell’originalismo in base alla quale sono costituzionalmente tutelate solo le libertà menzionate nella Costituzione, allora è chiaro che l’emendamento che riconosce il diritto ad armarsi c’è, quello sull’aborto non c’è. Vedere la Corte suprema al centro della polarizzazione politica, bersaglio quotidiano delle manifestazioni di protesta, le suscita qualche pensiero preoccupato? Può accadere anche da noi? La situazione è assai diversa, la Corte suprema è da sempre una protagonista della scena americana. Alcuni anni fa girava con successo un testo teatrale che vedeva due attori nei panni di Scalia e Bader Ginsburg. In quel sistema le dissenting opinion su questioni cruciali danno una visibilità ai giudici che qui non conosciamo. No, direi che in Italia almeno al momento siamo piuttosto lontani da una situazione del genere, anzi noi giudici costituzionali ci siamo trovati con il problema di rendere nota la nostra esistenza… Anche da noi però c’è chi vorrebbe introdurre la dissenting opinion... Io stesso sono stato favorevole. Nel 1963, rientrando dagli Stati uniti con tutto l’entusiasmo di aver studiato quel sistema, contribuii a un libretto di Mortati favorevole all’introduzione della dissenting. Con gli argomenti che conosciamo: prepara il cambiamento per il futuro, fornisce le basi per la correzione di una decisione sbagliata… Tutto corretto, per carità, ma da quando ho condiviso dall’interno l’esperienza del giudizio costituzionale mi sono convinto che i costi possono superare i benefici. In particolare se ci sono propensioni personalistiche all’interno della Corte. Per esempio, se mi accorgessi di essere in minoranza su un argomento ghiotto per l’opinione pubblica, invece di intervenire per cercare di far cambiare idea ai miei colleghi potrei starmene zitto e preparare una dissenting che mi dia grande visibilità esterna. Meglio di no. Ho cambiato idea, è il mio personale overulling. Migranti. Di Giacomo (Oim): “Gli allarmi sugli sbarchi infondati e strumentali” di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 giugno 2022 Il portavoce per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) smonta attraverso i numeri la retorica allarmistica sugli arrivi via mare. Dice al manifesto: “Gli aumenti rispetto al 2021 sono contenuti e non c’è alcuna evidenza che siano legati alla crisi del grano. Le Ong? Assegnare i porti più rapidamente” “Vogliamo entrare in Italia, siamo in fuga da crisi politiche e assenza di diritti umani”, ha scritto un ragazzo che con altri 58 naufraghi attende un porto sulla Louise Michel. Dieci le richieste di porto senza risposta. Intanto altri 304 migranti sono stati una settimana sulla Sea-Watch 4 e 156 si trovano a bordo della Ocean Viking. Numeri piccoli che sommati a quelli degli sbarchi non configurano alcuna emergenza, come spiega Flavio Di Giacomo. Il portavoce per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) dice: “Attese in mare e politiche emergenziali devono finire, la crisi Ucraina mostra che le migrazioni si possono gestire in un altro modo”. In Italia c’è un allarme sbarchi? No, a oggi gli arrivi via mare sono 26.652 rispetto ai 19.794 del 27 giugno 2021. Nel periodo 2014-2017 gli sbarchi sono stati tra 120 e 180mila l’anno. Neanche allora c’era un’emergenza: la percentuale sulla popolazione italiana era dello 0,3%. In più quest’anno abbiamo visto che 8 milioni di persone sono fuggite dall’Ucraina in quattro mesi. Questo è un flusso imponente. In Italia dal 24 febbraio sono arrivati 135mila ucraini: cinque volte gli sbarchi, ma nessuno ha parlato di emergenza. La vera emergenza? I 724 morti in mare. Rispetto al 2021 gli sbarchi sono aumentati del 28%. È l’effetto della crisi del grano? L’aumento è su numeri molto bassi e non c’è alcuna evidenza che sia legato al grano. In ogni caso se ci saranno problemi di approvvigionamento alimentare dovremmo concentrarci sulle persone che muoiono di fame, non sul fatto che migrano. Mi pare si stia cercando una narrazione emergenziale sugli arrivi via mare che non ha alcun legame con la realtà. Ogni anno si annunciano 400mila sbarchi, ma poi non si verificano. Bisogna allontanarsi da una visione eurocentrica secondo cui i migranti vogliono venire tutti in Europa: l’80% restano in Africa. Se non c’è un’emergenza perché l’hotspot di Lampedusa è in difficoltà? Ha una capienza ridotta rispetto a quando è stato aperto. Poi gli sbarchi vanno a folate: aumentano e si ingolfa, diminuiscono e si svuota. C’è un problema di velocità di trasferimenti, perché non è facile trovare i posti nei centri di accoglienza. È quello il collo di bottiglia? A livello italiano ed europeo bisognerebbe guardare agli sbarchi come a un fenomeno strutturale. L’Italia negli anni scorsi era veloce nello smistamento dei migranti. Il Covid-19 ha complicato le cose, ma adesso la situazione è cambiata. Abbiamo visto lunghe attese per le Ong a causa della mancanza di posti sulle navi quarantena. Queste però non ci sono più. Le attese però continuano: in mezzo a quest’ondata di afa 304 persone sono state lasciate per una settimana sulla Sea-Watch 4. È accettabile? Va assolutamente velocizzata l’assegnazione dei porti. I migranti salvati in mare da Ong, Guardia costiera o navi commerciali sono traumatizzati dal viaggio e dall’esperienza in Libia, dove nulla migliora. Bisogna garantire protezione a tutti loro per ciò che hanno sofferto in un paese di transito come la Libia. In questi casi la distinzione tra migranti economici e rifugiati non regge. Fare aspettare queste persone in mare non è accettabile. Il 26 gennaio e poi il 19 giugno 2019, quando al Viminale c’era Salvini, l’Oim ha pubblicato due comunicati, uno firmato anche da Unhcr e Unicef, per chiedere lo sbarco di 47 e 43 persone che erano sulla Sea-Watch 3 da sette giorni. Perché adesso nessuno alza la voce? Da parte nostra e di altre organizzazioni i richiami continuano, ma per altri canali. Nei mesi scorsi c’era una difficoltà oggettiva a trovare spazio sulle navi quarantena. Ma adesso quella situazione è finita. Se le attese dovessero aumentare sarebbe giusto fare appelli congiunti per chiedere che finiscano. Venerdì tra 23 e 37 persone sono morte per entrare a Melilla. Cosa dice questa strage? Nel 2022 a Melilla sono arrivate 1.087 persone. In Spagna 13.869 in totale, comprese le Canarie. Né a Ceuta, né a Melilla c’è una massa di gente pronta a invadere l’Europa. Bisogna chiarire tutte le responsabilità su quei morti. Non è la prima volta che accade. Le barriere lunghe chilometri creano una dinamica pericolosa. Come Oim, al pari di Unhcr, chiediamo di aumentare i canali di ingresso legale. Al momento non ce n’è quasi nessuno. Questo aiuta i trafficanti. Migranti. Cpr di Caltanissetta: protesta sui tetti della struttura di Valeria Casolaro lindipendente.online, 28 giugno 2022 Sabato 25 giugno nel Centro di Permanenza e Rimpatrio (Cpr) di Caltanissetta i detenuti hanno messo in atto una protesta sui tetti della struttura per denunciare la grave carenza di assistenza sanitaria e i pestaggi della polizia. La protesta aveva come obiettivo di sollevare l’attenzione dei rappresentanti del Consolato tunisino, affinché si recassero sul posto a constatare la situazione di violenza e degrado cui sono costretti a vivere i migranti all’interno del Cpr. Nel corso delle proteste i detenuti hanno anche denunciato di aver subito violenze da parte della polizia: un giovane tunisino sarebbe infatti stato trascinato dietro le telecamere e brutalmente picchiato da alcuni agenti. A denunciare quanto accaduto è l’ONG LasciateCIEntrare, contattata dagli stessi migranti che intendevano denunciare la mancanza di assistenza sanitaria all’interno della struttura, a fronte di situazioni di necessità anche gravi. Nemmeno a seguito del pestaggio del giovane tunisino da parte degli agenti, denunciano i migranti, è intervenuto il medico a prestare soccorso. A dare ulteriore conferma di tale situazione è un operatore del 118, il quale avrebbe riferito a LaciateCIEntrare che le ripetute chiamate effettuate dai migranti al pronto soccorso di Caltanissetta, per denunciare situazioni di necessità anche gravi, venivano bloccate dalla polizia con la motivazione che la struttura disponeva già di un medico. L’ambulanza, riferisce il comunicato di LasciateCIEntrare, è riuscita a entrare nella struttura solamente alle 18.30. A fronte di tali abusi, i migranti sono saliti sul tetto della struttura per chiedere un ai rappresentanti del Consolato tunisino di recarsi a verificare con i propri occhi le condizioni di reclusione all’interno del CPR. D’altronde, le gravi carenze gestionali dei Centri di Permanenza e Rimpatrio sono oggetto di diversi report e denunce da parte delle autorità da tempo. La Relazione al Parlamento 2022 riguardante la situazione delle carceri italiane, presentata pochi giorni fa dal Garante dei diritti dei detenuti - nella quale i CPR rientrano a pieno titolo perché veri e propri centri di detenzione amministrativa -, ha sottolineato come l’utilizzo di tali strutture non contribuisca ad aumentare o velocizzare i rimpatri, questione che “apre la questione della legittimità di tale trattenimento quando sia già a priori chiaro che il rimpatrio verso quel determinato Paese non sarà possibile”. Come sottolineato nel rapporto, il problema migratorio “continua ad essere affrontato, nei suoi miglioramenti e nelle persistenti problematicità, in termini emergenziali e non strutturali”, fattore che non contribuisce a trovare soluzioni reali alle problematiche esistenti. Migranti. Orrore e morte a Melilla, se l’Occidente dimentica i dieci conflitti africani di Francesca Mannocchi La Stampa, 28 giugno 2022 Decine di migranti sono morti negli scorsi giorni nel tentativo di raggiungere l’enclave spagnola. L’Occidente si accorge dei destini degli uomini e delle donne in fuga dal continente africano quando si presentano ai confini. O vivi, chiedendo accoglienza, o morti nel tentativo di varcare la Fortezza Europa. È successo così anche tre giorni fa, quando decine di persone sono morte nel tentativo di entrare a Melilla, enclave spagnola in Nord Africa. Il Marocco parla ufficialmente di 23 morti, le organizzazioni non governative sostengono che le vittime sono 37 e che i feriti sono trecento, tra cui 49 membri della Guardia Civile Spagnola e 57 migranti che sono riusciti ad entrare a Melilla. Secondo un portavoce dell’ufficio del governo spagnolo a Melilla, venerdì scorso duemila migranti si sono avvicinati alle recinzioni per assaltarle e cinquecento sono riusciti ad a entrare in un’area di controllo del confine provocando violenti scontri. Le organizzazioni per i diritti umani accusano le forze di sicurezza dell’uso indiscriminato della forza, e hanno diffuso due video (confermati dalla geolocalizzazione): il primo mostra decine di corpi e feriti accatastati uno sopra l’altro lungo la recinzione di confine, circondati da agenti di sicurezza marocchini in tenuta antisommossa. Il secondo mostra un soldato marocchino picchiare con un manganello un gruppo di migranti visibilmente feriti, con gli abiti strappati, stesi a terra mentre si contorcono di dolore. Melilla e Ceuta, l’altra piccola enclave spagnola in Nord Africa, sono gli unici confini terrestri dell’Europa con l’Africa, condizione che ha reso le due cittadine meta di consistenti flussi migratori negli ultimi anni. Le persone in fuga da guerre, fame e povertà, cercano di raggiungere il confine di 12 chilometri tra Melilla e il Marocco e il confine di otto chilometri di Ceuta - territori protetti da recinzioni fortificate con filo spinato, telecamere e torri di avvistamento - nella speranza di scavalcare le recinzioni e raggiungere l’Europa continentale. Per arginare i flussi migratori e tenere le persone migranti lontano dal confine, la Spagna si affida da anni alle autorità marocchine i cui abusi sono denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani, come gli abusi della Guardia Civile Spagnola che si compie respingimenti di massa, proibiti dal diritto internazionale. Amnesty International ieri ha chiesto un’indagine indipendente sui fatti di venerdì e sulle violazioni da entrambi i lati della frontiera, ma tutto lascia pensare che le decine di cadaveri senza nome e nazionalità resteranno prive di giustizia nei cimiteri di Sidi Salem, alla periferia della cittadina marocchina di Nador, al confine con Melilla, che stanno preparando lo spazio per la loro sepoltura. Sabato, dopo che sono state diffuse le immagini della strage, il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, ha descritto il tentativo dei migranti di entrare a Melilla come un attacco all’”integrità territoriale” della Spagna e ha aggiunto che “se c’è un responsabile di quanto è accaduto alla frontiera, sono le mafie che controllano il traffico di esseri umani”. Per l’organizzazione marocchina per i diritti umani Amdh, però, le morti sono una diretta conseguenza della recente intesa marocchino-spagnola, poche settimane dopo che le due parti hanno risolto una spaccatura diplomatica durata un anno. Quella di venerdì scorso, infatti, è stata la prima incursione di massa da quando la Spagna ha dichiarato di sostenere il piano di autonomia del Marocco per la regione contesa del Sahara occidentale, eliminando la sua posizione di neutralità decennale. Ma per capire cosa sia accaduto a Melilla è necessario fare un passo indietro alla primavera del 2021. La lite era iniziata quando ad aprile del 2021 la Spagna ha permesso a Brahim Ghali, il leader del Fronte Polisario per l’indipendenza del Sahara occidentale, di ricevere le cure anti-Covid in un ospedale spagnolo. Gesto assai mal visto da Rabat, che chiede che il Sahara occidentale abbia uno status autonomo ma sotto la sovranità marocchina e rifiuta il referendum sull’autodeterminazione che chiede il Fronte Polisario. Un mese dopo la notizia che il leader Ghali era in Spagna, diecimila migranti si sono riversati a Ceuta dal confine marocchino, di fronte alle guardie di frontiera di Rabat che si sono voltate dall’altra parte in quello che è stato interpretato come un atto ritorsivo verso il governo di Madrid. Come controrisposta, la Spagna ha approvato un finanziamento da 30 milioni di euro, in aiuti al Marocco per la polizia di frontiera. Un accordo sulla falsariga di quello stretto tra l’Unione Europea e la Turchia, pagata per arginare l’ondata di migranti sulle coste europee dopo crisi migratoria del 2015, o quello stretto dal governo Gentiloni con la Libia per finanziare centri di detenzione e guardia costiera. Dopo i finanziamenti al Marocco gli arrivi sono calati del 70%, secondo i dati del governo. A marzo di quest’anno, la Spagna si è ulteriormente avvicinata a Rabat, ribaltando la sua posizione sul Sahara, e sostenendo il piano marocchino per risolvere il conflitto nel Sahara occidentale. Accordo che potrebbe rivelarsi effimero - come dimostra la strage di venerdì - perché, nonostante il Marocco abbia già ricevuto, a partire dal 2007, 13 miliardi di euro in fondi di sviluppo dall’Unione europea in cambio del controllo delle frontiere, è sempre più chiaro che stia cercando di ottenere altro denaro. A marzo, dopo la firma degli accordi tra Madrid e Rabat, l’Ecfr, European Council on Foreign Relations, ha pubblicato un’analisi dal titolo: “Concessioni infinite: l’inclinazione della Spagna verso il Marocco”. Scrivono gli autori che “mentre l’Europa lavora per difendere l’ordine internazionale contro l’invasione totale dell’Ucraina da parte della Russia, è particolarmente pericoloso per la Spagna sostenere le rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale, che ha annesso illegalmente nel 1976. In tal modo, Madrid si espone alle accuse di doppio standard”. La settimana scorsa Jan Egeland, il segretario generale del Norwegian Refugee Council, ha diffuso l’annuale rapporto dell’organizzazione che rappresenta sulle prime dieci crisi più trascurate al mondo, comunità la cui sofferenza raramente fa notizia, popolazioni che ricevono aiuti inadeguati e che non sono al centro degli sforzi della diplomazia internazionale. Quest’anno, per la prima volta da quando il rapporto viene pubblicato, le dieci crisi sono tutte nel Continente africano. Congo, Camerun, Nigeria, Sud Sudan, Paesi attraversati da crisi croniche o guerre decennali che scontano la stanchezza dei donatori e il limitato interesse geopolitico dei governi occidentali. Nonostante un’antica disattenzione su quest’area del mondo “raramente la selettività degli aiuti è stata più sorprendente di quest’anno - scrive Egeland - quando dieci crisi africane si sono confrontate con la reazione allo scoppio della guerra in Ucraina”. L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti mostrato al mondo il divario tra ciò che si può ottenere quando la comunità internazionale si mobilita e la vulnerabilità di milioni di persone che vivono in Paesi attraversati da crisi alimentari e climatiche combinate alle guerre. Scrive ancora il segretario del Norwegian Refugee Council che di fronte alla guerra in ucraina, le nazioni donatrici e i privati hanno contribuito alla massiccia operazione di soccorso, così generosamente che gli appelli delle Nazioni Unite sono stati finanziati quasi per intero lo stesso giorno in cui sono stati lanciati. Per fare un paragone, l’appello lanciato dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sull’emergenza alimentare afghana pari a 4 miliardi di dollari non ha raggiunto - in sette mesi - nemmeno la metà dell’importo. Lo stesso vale per l’azione politica. Per la prima volta nella sua storia una direttiva dell’Unione Europea da febbraio concede la protezione temporanea di un anno a tutte le persone in fuga dall’invasione russa. L’annosa distrazione occidentale al continente africano e l’abitudine a concentrarsi su un’emergenza alla volta, senza unire i punti della storia e i flussi migratori sulle mappe dell’atlante, però, generano un deterioramento delle persone che da mesi vivono nelle crisi in ombra. È la teoria dei vasi comunicanti. Quanti più fondi vengono destinati dai Paesi donatori alla crisi dell’Europa orientale, tanti meno ne sono destinati alle crisi nell’ombra. Togliere fondi alle crisi africane, a quella afghana, significa rendere le persone vulnerabili ancora più fragili, ancora più esposte al rischio di viaggi pericolosi, all’abuso del traffico di uomini, alla morte di fronte alle frontiere europee, di fronte alle nazioni che invece di trovare soluzioni condivise, si affidano a Paesi terzi per difendersi. Una storia che tristemente si ripete: subappaltare il controllo dei confini in cambio di legittimazione politica e denaro, cedendo a Paesi terzi il potere di fare pressione sui governi europei che si espongono così a una ricattabilità potenzialmente infinita. E lo strumento, a ogni angolo del pianeta, sono sempre gli esseri umani in fuga. Spesso, come nel caso di Melilla, da quelle dieci crisi tutte africane, che l’Occidente sta dimenticando, finanziando il controllo delle frontiere invece di finanziare sviluppo e assistenza umanitaria.