Carceri, anatomia di un fallimento di Mario Consani Il Giorno, 27 giugno 2022 Affollamento di detenuti, emergenza casi psichiatrici. Presenze fuori capienza dell’8% in Italia, in Lombardia media al 30%. Picco a Lodi: 72%. Il Garante milanese Maisto: degrado e igiene disastrosi. L’ultima volta è di due giorni fa a Monza. Un detenuto ha dato fuoco al suo materasso, e per aver respirato troppo fumo un passaggio in ospedale è toccato all’agente che ha spento le fiamme. A Cremona, un mese fa, era andata anche peggio: fuoco in alcune celle con necessaria evacuazione di un’ottantina di detenuti. A Bergamo, la settimana scorsa, altro agente ferito da un ospite del carcere, stavolta con una lametta, mentre due giorni prima un suo collega era stato colpito con un punteruolo nel penitenziario di Busto Arsizio. E poi i suicidi in cella: quattro dall’inizio dell’anno tra Milano, Cremona e Pavia. A San Vittore, a maggio, due ventenni si sono tolti la vita nel giro di sette giorni. Un disastro spiegabile, le carceri lombarde. Basti partire dal sovraffollamento. In Italia (dati del Ministero) a fine maggio c’erano quasi 55 mila detenuti per meno di 51 mila posti: tasso di affollamento del 108%. In Lombardia, però, la media sale al 130% di posti occupati e con picchi notevoli. A Lodi 172% (75 detenuti per 45 posti), a Canton Mombello di Brescia 170% (316 detenuti per 189 posti regolamentari), 170% anche a Busto Arsizio (401 in 240 posti), appena un po’ meno a Como (160%: 372 detenuti invece dei 240 previsti) e a Monza con il suo 150% (621 ospiti per 411 posti). Di tutti e 18 gli Istituti di pena lombardi, ad ogni modo, non ce n’è uno che non sia sovraffollato almeno un po’, neppure Bollate. È su una situazione del genere che si è abbattuto il virus, due anni fa. “L’emergenza della pandemia ha gettato un potente faro di luce sulle questioni lasciate in sospeso: il diffuso degrado strutturale e igienico in alcune aree detentive, la debolezza del servizio sanitario e la densità della popolazione detenuta”, ha riassunto nella sua relazione finale Francesco Maisto, Garante per le persone private della libertà del Comune di Milano, riconfermato nei giorni scorsi dal sindaco Beppe Sala anche per i prossimi tre anni. “La maggiore criticità attuale in tutte le nostre carceri - aggiunge Maisto - è rappresentata dalla grave carenza di assistenza psichiatrica. In relazione a ciò abbiamo segnalato all’Assessorato regionale alla Sanità il problema della presenza di tanti casi fragili presso gli Istituti penitenziari”. Fra l’altro, degli oltre 500 casi trattati dal Garante milanese in base alle segnalazioni ricevute in questi tre anni, uno su quattro riguardavano proprio problemi di salute tra le sbarre. Se a ciò si aggiunge la presenza, nei penitenziari della Regione, di un certo numero di detenuti non capaci di intendere e di volere destinati alle Rems (le residenze che hanno istituito gli ospedali psichiatrici) che però sono sempre piene, si comprende meglio l’esplosiva realtà delle celle. Un segnale di speranza - è emerso dal recente convegno milanese sul tema organizzato dall’associazione Italia Stato di Diritto - dovrebbe arrivare in tempi brevi dalla conclusione dei lavori delle commissioni insediate dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. “La visione che li caratterizza è ridare una funzione realmente rieducativa alla sanzione penale, il ruolo che gli assegna la Costituzione”, osserva l’avvocato Guido Camera, presidente dell’associazione. “Verrà valorizzata la cosiddetta giustizia riparativa, che premia percorsi risocializzanti fondati sulla riparazione dei danni, sia in favore della vittima, sia della comunità. Una visione positiva in cui al centro c’è l’individuo, sia autore del reato, sia vittima, e i loro diritti”. E che potrebbe riguardare molti di quei detenuti che, ha ricordato il Garante nazionale Mauro Palma, si trovano in carcere dovendo scontare pene spesso inferiori ai due anni. Adesso Cartabia vuole scarcerare un condannato su tre di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2022 La ministra della Giustizia prepara i decreti della “riforma” penitenziaria: niente carcere sotto i 4 anni (“il 30% dei detenuti”). Come spesso accade, la ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha fatto partecipi le forze di maggioranza sulle riforme che intende varare. Vale anche per il lavoro di 6 gruppi ministeriali che stanno preparando i testi sulle deleghe ricevute dal Parlamento per alcuni punti della riforma del processo penale, approvata nell’autunno scorso. Tra quelle deleghe ce n’è una che riguarda l’ammorbidimento delle pene detentive “brevi”, che prevede di allargare, di molto, la possibilità di tramutarle in “pene sostitutive”. Inoltre, la ministra auspica pure che si possa calcolare la libertà anticipata dei detenuti in maniera più elastica, con la scusa della pandemia. A seguito di un question time della deputata renziana Lucia Annibali, Cartabia ha fatto sapere che “i decreti legislativi sono in fase di elaborazione e saranno perfezionati a breve e portati in Consiglio dei ministri”. Ma quel “a breve” non è piaciuto ad alcuni deputati di diversi partiti della maggioranza, perché non hanno la più pallida idea di cosa ci sia nei testi in via di definizione. Il M5s, al netto degli scissionisti dimaiani, risulta che abbia anche intenzione di far sapere alla ministra che non può inviare un testo last minute alle forze di maggioranza, costringendo i ministri in Cdm a votare al buio, come già successo. Al momento, però, i testi delle deleghe, compreso quello che consente di aprire le maglie del carcere, non ci sono ancora, anche se la ministra punta a presentare l’intero pacchetto entro fine luglio in Cdm. Quindi, prima, volendo, potrebbe confrontarsi con le forze di maggioranza. Dopo il Cdm, le commissioni Giustizia di Camera e Senato dovranno dare il loro parere, entro il 19 dicembre. La ministra, rispondendo al question time alla Camera, ha ricordato che il pacchetto, frutto delle deleghe, “ha una parte importante che riguarda le pene sostitutive delle pene detentive brevi, fino a 4 anni” e ha ricordato che “per queste pene si prevedono (come da delega, ndr) la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità; e viene confermata la pena pecuniaria”. Nel concreto, le persone condannate fino a 4 anni, e che si ritrovano in carcere, nonostante una pena ridotta, sono detenute perché, per esempio, ritenute socialmente pericolose. Le pene sostitutive al carcere finora possono essere inflitte dai giudici della “cognizione” quando si ritiene “nel pronunciare sentenza di condanna di dover determinare la pena detentiva entro il limite di 2 anni”. Con la riforma, invece, si passa a 4 anni. Nella riforma approvata dal Parlamento, in merito alla “revisione del sistema sanzionatorio”, si legge: “Rivedere la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, da individuare nella semilibertà, nella detenzione domiciliare, nel lavoro di pubblica utilità, nella pena pecuniaria, ampliandone l’ambito di applicazione. Le nuove pene sostitutive, irrogabili entro il limite di 4 anni di pena inflitta, saranno direttamente applicate dal giudice della cognizione, sgravando in tal modo il carico dei giudici di esecuzione”. Per Cartabia, dunque, in carcere non ci deve andare quasi nessuno, in nome del “fine rieducativo della pena” e l’obiettivo del “reinserimento sociale” (che però presuppongono una pena). E aggiunge: “Le pene fino a 4 anni riguardano circa il 30% della popolazione carceraria, quindi è un impatto che può essere molto significativo, unitamente ad altri interventi previsti nell’attuazione della delega, come l’ampliamento della non punibilità per la particolare tenuità del fatto”. Ma Cartabia è andata oltre le deleghe e sempre alla Camera ha concluso che sta pensando anche a una libertà anticipata più lasca: “Se ne discute per valutare se innalzare la detrazione della pena, in particolare per i due anni di pandemia. In effetti in questi due anni il carcere è stato più duro e afflittivo, giustamente se ne discute”. La condanna a poter scegliere solo tra castità e omosessualità di Luigi Mastrodonato Il Domani, 27 giugno 2022 La negazione del diritto alla sessualità manda i carcerati fuori di testa. Quasi un terzo viene spinto all’omosessualità “indotta”. E si parla di tremila stupri all’anno e molti suicidi. Che le istituzioni ignorano. La vita solitaria diventa un tormento perché si ha bisogno di toccare, ma toccare sé stessi a un certo punto non è più soddisfacente e sufficiente. Allora si comincia a rubare con occhiate furtive le nudità dei compagni di cella mentre si spogliano o si vestono. Inizia il corteggiamento, il gesto affettuoso, la parola affettuosa, il resto è un epilogo scontato”. A parlare è un detenuto delle carceri italiane, la sua testimonianza è raccolta dal medico Francesco Ceraudo, da decenni punto di riferimento della medicina penitenziaria, nel suo libro La sessualità in carcere. La sessualità in cella è da sempre negata dalle istituzioni, è una forma supplementare della pena che si vuole raccontare abbia smesso di essere corporale ma che in realtà continua a esserlo. Per affettività e sesso non c’è spazio in prigione e se questo incide sulla percezione sensoriale del detenuto, in particolare quella tattile con lunghi anni che scorrono senza toccare alcun corpo, può portare anche a percorsi di destrutturazione della propria identità individuale e sociale che portano, in certi casi, alla cosiddetta “omosessualità coatta”. Un’espressione della sessualità del tutto naturale in un contesto normale può innescare spirali di svilimento e disperazione personale in un luogo come il carcere dove non c’è la libertà di scelta. Tanto che può sfociare anche in violenza. Sono migliaia gli stupri che occorrono ogni anno in cella ma le autorità continuano a chiudere gli occhi: non esistono numeri ufficiali al riguardo, solo quelli raccolti dal caparbio lavoro delle ong. Il sesso come diritto - Da qualche settimana in Italia si riparla di sessualità in carcere, dopo che la commissione Bilancio del Senato ha realizzato uno studio di fattibilità su una proposta di legge presentata prima dal Consiglio regionale della Toscana e poi da quello del Lazio a proposito, tra le altre cose, della creazione di spazi ad hoc dove permettere ai detenuti di esercitare il proprio diritto umano universale all’affettività e al sesso. Della creazione di questi spazi si parla da decenni. Nel 2012 persino la Corte costituzionale si è pronunciata, sottolineando come l’astinenza sessuale imposta in carcere si scontri con i princìpî costituzionali e costituisca “un trattamento contrario al senso di umanità”. Sono molti i paesi dove questo diritto è riconosciuto, dalla Francia all’Olanda, passando per i più insospettabili Russia, India e Messico. In Italia non si riesce a superare lo scoglio politico e questo fa sì che oltre 54mila persone, il numero attuale di detenuti in Italia a cui vanno aggiunti i loro partner all’esterno, siano costretti alla castità di stato, tranne nei rari casi in cui possono beneficiare dei permessi premio. Come sottolinea Ceraudo, “la mancanza di sesso in carcere è mutilazione fisica, violenza, disperazione, crudeltà, brutalità. L’astinenza dal sesso è la pena nella pena”. Una limitazione della libertà personale che non si esaurisce in sé stessa, ma che con il passare del tempo comporta, come ha spiegato il sociologo Donald Clemmer, lo sviluppo di tutta una serie di “anormalità sessuali” - intese come deviazioni dalla propria identità e abitudine - che da una parte possono garantire la sopravvivenza fisiologica temporanea e dall’altra amplificare il ciclo della sofferenza individuale. I detenuti sono trattati alla stregua di ragazzini, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa attraverso quella che proprio in gergo infantile viene chiamata “domandina”. E l’erosione progressiva dell’autodeterminazione finisce per abbracciare anche la sfera erotica, con l’astinenza sessuale indotta che può condurre a forme di masturbazione di tipo adolescenziale - a metà tra ossessione e paura di essere scoperti. “In carcere non hai momenti di intimità, paradossalmente gli unici che riuscivo a ricavarmi erano quando mi punivano nelle celle di isolamento”, spiega Carmelo Musumeci, che in cella ci è stato per 25 lunghi anni prima di ottenere la semilibertà. “A quel punto potevo viaggiare con la fantasia senza essere osservato dai compagni o con la paura dei controlli delle guardie, che aprono lo spioncino e verificano spesso cosa stai facendo riducendo la libertà di azione. Tra le tante cose che mancano in carcere c’è proprio la riservatezza”. Musumeci in cella è riuscito ad aggrapparsi ai ricordi della sua compagna che lo aspettava fuori e che a sua volta, pur senza aver commesso alcun crimine, era stata condannata dallo stato alla castità. “Fantasticavo di baciarla e accarezzarla”, continua, “in carcere si fanno lunghi viaggi di fantasia, non si ha altra scelta che usare i ricordi, che però con il passare degli anni si affievoliscono. Questo può portare a uno stato di menomazione”. Una condizione in cui alcuni riescono a resistere. Ma c’è chi non ce la fa perché, come scrivono diversi detenuti nel libro “L’amore a tempo di galera”, “il sesso solo pensato mutila, inibisce e disadatta”, causando “nocive ricadute stressanti di ordine sia fisico che psicologico”. Da qui si finisce per elaborare nuovi piani di fuga dalla soppressione affettiva e sessuale, compresa la ricerca dei corpi dei propri compagni di prigionia, in modo più o meno volontario e consensuale. Secondo uno studio sulle carceri francesi dello psicoanalista J. Lesage de la Haye, realizzato quando nel paese ancora non erano state introdotte le stanze dell’amore, almeno un terzo dei detenuti uomini ha avuto rapporti omosessuali regolari o occasionali durante la prigionia. In Italia l’ultimo documento sul tema è un questionario del 1989, in cui il 30 per cento dei rispondenti ha dichiarato di aver desiderato rapporti omosessuali durante la detenzione. La pulsione sessuale all’inizio resta sopita, poi possono emergere stati di sovraeccitazione che portano a quella masturbazione compulsiva che Ceraudo definisce “la vera regina della sessualità carceraria”. L’insoddisfazione a lungo andare può portare allo sgretolamento di nuove barriere, a un adattamento della sessualità all’ambiente in cui si è costretti a vivere. Vengono così a crearsi relazioni tra i detenuti in quella che anche la Corte costituzionale nella pronuncia del 2012 definisce “omosessualità ricercata o imposta” e che altri chiamano “temporanea”. Meglio che niente - “In carcere capitano rapporti che vanno al di là dei confini dell’amicizia, sia tra i detenuti uomini che nelle sezioni femminili. Nelle sezioni di alta sicurezza questi fenomeni sono più rari mentre altrove capitano più di frequente”, racconta Musumeci. Sandro Bonvissuto, scrittore che conosce bene il mondo carcerario, spiega che “l’omosessualità in carcere può essere una strategia di sopravvivenza, che non riguarda tutti. Di fronte all’astinenza sessuale imposta c’è chi la sopporta, chi torna all’onanismo adolescenziale, chi ripensa le proprie scelte sessuali e chi arriva direttamente a sperimentare l’amore omosessuale. È una terra di nessuno in cui ognuno se la sbriga come riesce e dove a monte c’è il rifiuto istituzionale di comprendere un’esigenza fisiologica come quella sessuale”. Secondo le testimonianze dirette la ricerca va spesso verso chi nei lineamenti, negli odori, nelle sensazioni può richiamare in qualche modo figure a cui si era legati all’esterno del carcere e che il tempo e le sbarre hanno provveduto a rimuovere dalla memoria, ma non dall’inconscio. “Con fatica cerchiamo nel corpo di un altro uomo la donna”, racconta un detenuto dichiaratosi eterosessuale che è arrivato ad avere esperienze omosessuali in carcere. Un percorso difficoltoso, che può rilevare nuovi lati della propria sessualità o che si traduce in processi di profonda spersonalizzazione e di ridefinizione violenta della propria individualità. “L’omosessualità in carcere è così diffusa perché è compensatoria, ma non si può pensare che non abbia conseguenze sul piano psicologico”, spiega Ceraudo, “per una persona eterosessuale forzarsi a un comportamento omosessuale costituisce una violenza, una frustrazione e una caduta di autostima, in fondo un’umiliazione, che induce spesso pesanti sensi di colpa”. Se in molti casi quella dei rapporti omosessuali è una scelta fittiziamente consapevole e consensuale, in altri assume le forme dell’abuso e della sopraffazione esplicita, con detenuti costretti ad avere rapporti con compagni più potenti nelle gerarchie penitenziarie anche in modo continuativo e regolare. Secondo l’ultimo studio condotto sul tema, che però non a caso risale a oltre dieci anni fa, nelle prigioni italiane si verificano circa 3mila stupri all’anno e proprio queste violenze e la schiavitù sessuale sono all’origine del 40 per cento dei suicidi penitenziari. L’amore fa paura - Numeri che si potrebbero ridurre offrendo ai detenuti la possibilità di vivere liberamente e consapevolmente la propria sessualità. Ma a prevalere restano il bigottismo cattolico di un paese che considera il sesso un tabù anche nel mondo di fuori, e lo spirito vendicativo di una società che vede nell’azzeramento di tutti i diritti un elemento imprescindibile della condanna. “Il carcere ha paura dell’amore”, chiosa Musumeci. “Per i detenuti il mantenimento delle relazioni affettive e sessuali può incentivare il cambiamento, la rieducazione, e a beneficiarne sarebbero tutti. Per la mentalità comune però se hai commesso un reato non hai diritto neanche a una carezza”. Giustizia e riforme, considerazioni sui passi fatti (non sempre avanti) di Matteo Bonelli Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2022 Il 16 giugno il Senato ha definitivamente approvato la legge di riforma sull’ordinamento giudiziario, che era l’ultima tappa delle riforme sulla giustizia indicate dal Pnrr. Ritengo che le riforme della giustizia approvate l’anno scorso siano sostanzialmente deludenti. Tuttavia dietro quest’ultima curva s’intravede forse una luce: sebbene la riforma dell’ordinamento giudiziario non incida sul funzionamento dei processi, potrebbe al tempo stesso rivelarsi decisiva per la messa a punto di ulteriori riforme per la risoluzione di criticità che, a mio giudizio, non sono state risolte dalle riforme precedenti. Gli aspetti più visibili della riforma mirano a risolvere un problema che gli addetti conoscono da tempo ma è diventato di dominio pubblico con il caso Palamara, vale a dire l’influenza delle correnti nelle nomine dei consiglieri togati del CSM e degli incarichi direttivi e semidirettivi della magistratura. ? difficile prevedere se i correttivi introdotti dalla riforma basteranno a risolvere questo problema, che tuttavia ha suscitato un’indignazione forse anche superiore alla sua gravità. Un altro problema la cui gravità è stata forse esagerata è quello dell’assenza di separazione delle funzioni giudicanti da quelle requirenti, in relazione alla quale la riforma ha previsto la possibilità di un solo passaggio, che tutto sommato sembra una soluzione equilibrata. Gli aspetti della riforma che potrebbero però essere destinati a produrre (auspicabilmente) gli effetti più profondi si riferiscono a problemi meno conosciuti ma che, a mio avviso, sono ben più gravi, quali l’eccessivo tasso di ‘ribaltamento’ delle sentenze, in relazione al quale la riforma propone di premiare i magistrati non solo in ragione della produttività ma anche della tenuta dei provvedimenti. Un problema forse ancor più grave è l’eccessiva influenza dei magistrati negli uffici legislativi, in relazione al quale la riforma mira a disincentivare il passaggio dei magistrati a ruoli apicali nelle pubbliche amministrazioni: speriamo che funzioni, dato che in un sistema corporativo come il nostro è impensabile che esponenti di qualsiasi corporazione - e non solo, sia chiaro, quella dei magistrati - possano risolvere i problemi che la riguardano. Ci sono anche aspetti della riforma che destano qualche perplessità, quali la riduzione dei requisiti necessari per partecipare al concorso in magistratura. Sarebbe stato preferibile il contrario, per esempio imponendo ai candidati un periodo minimo di esercizio di una professione legale, per aiutarli a comprendere una realtà che dovrebbe costituire il presupposto imprescindibile di ogni giudizio: troppo spesso, infatti, i giudizi discendono da valutazioni astratte e lontane dalla realtà. La strada per allineare il nostro sistema di giustizia a quello dei paesi più efficienti e virtuosi appare ancora lunga. Ci vorrà dunque ancora molto tempo per arrivare a festeggiare e ringraziare, ma cominciare dall’eliminazione di qualche tacchino dall’organizzazione del giorno di ringraziamento è un buon inizio. I magistrati onorari: “Noi sotto ricatto” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2022 AssoGot ha scritto alla ministra Cartabia, ponendo una serie di domande sul futuro della categoria. Nel silenzio generale, oggi scadrà il termine ultimo entro il quale i magistrati onorari in servizio da oltre venti anni devono presentare la domanda di partecipazione alla procedura valutativa per continuare a lavorare. Chi non rispetterà tale termine cesserà immediatamente dalle funzioni, che per i più sono l’unica fonte di sostentamento. Il tutto è previsto da un emendamento alla legge di bilancio 2022 che prevede la prosecuzione del sistema di pagamento a cottimo e comporta l’automatica rinuncia a ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto di lavoro pregresso, ultraventennale e notoriamente sprovvisto di qualsiasi tutela, così come comprovato anche dall’apertura di una procedura d’infrazione europea contro l’Italia. Dalla categoria tale emendamento è stato considerato una vera “estorsione di Stato”. A completare il quadro, c’è l’assoluta incertezza circa il trattamento lavorativo, economico e previdenziale che verrà offerto a coloro che supereranno la procedura valutativa. Si sa a cosa si rinuncia, ossia tutto il pregresso, ma non si conosce la contropartita. Per tutto questo il Direttivo di AssoGot ha inviato una lettera alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia: “Dopo aver dedicato la nostra vita alla giurisdizione, spesso non godendo di alcun diritto, con enorme sacrificio della sfera familiare, la Giustizia ci tratta come estranei, anzi come intrusi, ponendoci un gravoso ultimatum e abbandonandoci, senza alcun riguardo, ad un destino incerto. È trascorso un anno e mezzo dalla Sua nomina, ma è mancata, nel volgere di questi mesi, qualsiasi occasione di ascolto e di confronto. Abbiamo appreso delle nostre sorti da occasionali frammenti di intervista, da norme approvate nottetempo (senza alcun dibattito parlamentare), da algide circolari del Dicastero”. Nella missiva poi si pongono una serie di domande alla Guardasigilli: “Sottoporre a un’ennesima prova valutativa magistrati, sia pur onorari, reclutati con concorso per titoli e già sottoposti a verifiche periodiche, non le sembra una scelta mortificante e inopportuna, specie se si considera che tali figure decidono da anni oltre il 50% delle cause civili e penali e rappresentano la pubblica accusa nel 90% dei giudizi monocratici?”. E ancora, la rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso “alla luce dei principi giuslavoristici recepiti dal nostro ordinamento, non Le sembra un odioso e inammissibile ricatto?”. Poi i membri di AssoGot chiedono alla responsabile di Via Arenula se “i magistrati onorari che supereranno la procedura valutativa saranno considerati lavoratori dipendenti con trattamento commisurato a tale status e con stipula di un vero contratto di lavoro, o continueranno a prestare attività come ‘funzionari onorari’ privi di qualsiasi diritto? Ai magistrati onorari che supereranno la procedura valutativa il ministero pagherà i contributi previdenziali e assistenziali?”. Noi ci chiediamo: la ministra risponderà a queste più che legittime domande? “Più aggressioni di gruppo dopo i lockdown. C’è sommerso, i ragazzi denuncino” di Andrea Tundo Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2022 Criminalità minorile. Il capo della Procura per i minorenni di Milano Cascone: “In molti casi vittime scelte in maniera casuale. La rapina è spesso strumentale. Baby gang? No, soprattutto gruppi fluidi, tipo associazione temporanea d’impresa”. E allontana l’emergenza legata agli italiani di seconda generazione: “Una nostra barriera psicologica. I ragazzi si vedono come tali e basta. Dobbiamo investire sul loro futuro, non basta la repressione”. L’ultimo intervento sono stati i 5 arresti per l’omicidio di Simone Stucchi, il 21enne ucciso durante uno scontro tra bande a Pessano con Bornago. I colpi, secondo la ricostruzione dei suoi uffici, sono stati sferrati da un ragazzo di appena 17 anni. Poi ci sono le aggressioni personali, le maxi-risse, le rapine: un mare di piccoli reati che si concentra attorno alle zone della movida, dove giovani e giovanissimi si riuniscono. Spuntano coltelli, tirapugni, bastoni. I moventi? Futili in tanti casi, inesistenti in altri. Il dito spesso puntato contro gli italiani di seconda generazione. Un concetto che Ciro Cascone, capo della Procura per i minorenni di Milano, respinge: “Troviamo spesso gruppi composti da ragazzi di origine nordafricana, lombarda, siciliana e così via. Non ne farei una questione di stranieri, italiani e italiani di seconda generazione. Questa è una nostra barriera psicologica. I ragazzi si vedono come tali e basta”, chiarisce subito. Quello che non nega è che dentro le stanze di via Giacomo Leopardi ci sia da lavorare, sempre più duro. C’è un aumento di reati compiuti da minori o è solo una percezione? Una doverosa premessa: sono quindici anni che si parla di emergenza educativa a causa della devianza adolescenziale, questo tasso è costante. In seguito alla pandemia, tuttavia, abbiamo avuto anche noi la percezione di un aumento. Dopo il Covid sono cresciute le aggressioni e le rapine, soprattutto di gruppo. È principalmente cambiata la modalità: oggi si agisce con maggiore frequenza in branco, spesso numeroso. Un modus operandi che, nell’ottica di chi è protagonista di atti di violenza, diluisce le responsabilità. Ma vorrei chiarire un aspetto: in molti casi non si tratta di vere e proprie baby gang. In che senso? Sono gruppi liquidi e fluidi che si strutturano e destrutturano: ragazzi, tipicamente tra i 16 e i 22 anni, che oggi stanno insieme e domani si separano ricostruendo nuove bande. Potremmo definirle delle Ati, le associazioni temporanee d’impresa. E chiamarle baby gang vuol dire in un certo senso dare loro una legittimazione. Un altro tratto tipico è il consumo sempre più smodato di alcol e droga che, abbassando l’autocontrollo, diventa uno stimolo al commettere reati. Di che tipologie di reati stiamo parlando? Principalmente rapine, ma negli ultimi tempi si stanno moltiplicando le aggressioni. In alcuni casi l’elemento predatorio è strumentale, quasi una scusa, il trofeo di guerra. Il vero obiettivo è invece l’aggressione personale, spesso innescata da pregressi screzi tra le bande. In altri casi si tratta di pura sopraffazione, con vittime scelte in maniera casuale. E sono in crescita anche i casi di resistenza a pubblico ufficiale, a volte per banali controlli dei documenti che vengono vissuti come soprusi. C’è un’insofferenza che diventa violenza e un grande effetto emulativo. Credete che ci sia un sommerso di violenze non denunciate? Chiaramente dal nostro punto di osservazioni vediamo ciò che viene denunciato, ma sappiamo da fonti informali che esiste un grande bacino di vittime che resta in silenzio per timore di ritorsione o perché esplicitamente minacciato. A volte è anche questione di sfiducia e per questo voglio che i ragazzi sappiano che la nostra reazione è sempre commisurata all’accaduto. Le denunce, oltretutto, ci aiutano e creano le condizioni di intervento, anche perché spesso si tratta di reati ‘seriali’ quindi da una denuncia riusciamo a ricostruire diversi episodi. Il Covid ha cambiato lo scenario? Ha sicuramente inciso sulla vita di questi ragazzi con le restrizioni che ne sono seguite. Possiamo dire con ragionevole certezza che una porzione dei comportamenti devianti osservati oggi non sarebbero esistiti senza la pandemia. Penso soprattutto a fenomeni come le risse e quella che chiamiamo malamovida. I lockdown si sono chiaramente innestati su malessere, isolamento e assenze familiari già esistenti in alcuni contesti sociali. La rabbia ha trovato la propria via d’uscita in due modi: interiore, con un aumento dei problemi psicologici; esteriore, con l’aumento della violenza verso i coetanei. Del resto parliamo di adolescenti che hanno vissuto per un anno al chiuso, con la scuola in Dad, senza occasioni di socialità - dalla palestra agli oratori fino alle discoteche - in cui dare sfogo alle proprie insoddisfazioni e alla propria esuberanza. Così oggi cavalcano ogni occasione che hanno a disposizione. È una lettura soddisfacente? Solo in parte. Non dobbiamo accontentarci e insistere sulla prevenzione, altrimenti abbiamo fallito: la procura è l’ultimo approdo, non dobbiamo essere l’unico argine. Noi siamo la terapia sintomatica, oggi serve un antibiotico. Tra le cause inserisce anche i social? Li ritengo più un mezzo catalizzatore e amplificatore. A volte addirittura il fine. I ragazzi sono invisibili agli occhi degli adulti: non ci rendiamo conto che delle loro esigenze e così la platea virtuale diventa un palcoscenico dove esibirsi, dove avere riconoscimento sociale. Ecco perché oggi chi commette un reato in età adolescenziale ha quasi l’urgenza di farlo sapere. Per questo sempre più spesso rintracciamo foto in stile Gomorra, con armi e soldi. Nel caso di Peschiera del Garda, TikTok ha funzionato anche da piattaforma organizzativa... Era già successo nella maxi-rissa di Gallarate nell’aprile 2021. Parte il tam-tam e diventa una specie di richiamo della foresta, dove i ruoli non sono definiti: io vado perché vanno tutti, magari parto con l’intenzione di guardare e finisco per partecipare. In molti casi si tratta di azioni improvvisate e nell’improvvisazione può accadere l’imprevedibile. Spesso sul banco degli imputati, con un ruolo d’istigazione, sono finiti anche i cantanti trap... La musica è un altro strumento formidabile per trasmettere messaggi, attorno alla quale si coagula chi vive situazioni simili a quelle narrate. Durante un processo, un ragazzo che faceva musica trap, rispondendo sul contenuto dei suoi pezzi che inneggiavano a violenza e sopraffazione, ha sostenuto che quella fosse cultura. Questa lettura vale però solo per chi lancia il messaggio e racconta, chi riceve il messaggio può interpretare diversamente. La risposta tuttavia non è censurare, ma fornire modelli alternativi e positivi perché spesso di tratta di persone che hanno situazioni di solitudine familiare. Sembra suggerire che non esista solo il lato repressivo... Assolutamente no. Dobbiamo ingaggiarli in un percorso educativo, soprattutto nelle periferie. Accompagnarli investendo in politiche sociali e giovanili. Ogni ragazzo che recuperiamo in quell’età è un adulto in meno che prenderà una strada sbagliata. Ma non spetta a noi risolvere i problemi: la procura interviene quando c’è un reato. Al massimo possiamo allargare le maglie e intervenire con strumenti “educativi rafforzati”. Ad esempio abbiamo convenuto con la questura che in casi particolari si può usare il Daspo urbano anche per i minorenni, grazie a una lettura ampia della norma. E cominceremo ad applicarli: a prescindere dalla commissione del reato, di fronte alla “confusione” è possibile un ordine di allontanamento del questore da quella zona. Ma vorrei ripetere un concetto. Prego... Serve soprattutto prevenzione generale, fatta di interventi educativi. Serve intervenire con azioni collaterali e convergenti, coinvolgendo diversi attori. È come la ricerca scientifica: investire oggi per raccogliere domani, altrimenti poi i vaccini vanno comprati all’estero. E non parlo solo di risorse scarse internamente alla procura, ma anche nei servizi sociali che sono la nostra prima stampella. Senza soldi non si canta messa e noi dobbiamo bruciare i tempi degli interventi. Anche perché altrimenti si innesca un senso di impunità? Quello è un aspetto che ritengo più legato alle mancate denunce. È anche così si costruiscono i bulli di quartiere: compiono i loro reati, minacciano e vedono che l’unica reazione delle vittime è abbassare lo sguardo. Bologna. In 10 anni 50 detenuti del carcere hanno trovato un lavoro con “Fare impresa in Dozza” di Francesco Betrò Corriere della Sera, 27 giugno 2022 Presentato l’esito del progetto che con il coinvolgimento dei colossi della meccanica Gd, Marchesini, Ima e della Faac aiuta al reinserimento lavorativo. Spesso il carcere non assolve la funzione rieducativa stabilita dalla Costituzione. Esistono, però, degli esempi virtuosi che fanno eccezione. È il caso di Fare impresa in Dozza (Fid), il progetto nato nell’omonima casa circondariale bolognese che offre una misura alternativa alla reclusione attraverso l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. Per celebrare i dieci anni dell’attività, si è svolto nell’aula bunker della Dozza il convegno “Perché ne valga la pena, esperienze di reinserimento”. Il progetto per il reinserimento lavorativo e i suoi dieci anni - Secondo Rosa Alba Casella, direttrice del carcere, sono “dieci anni di un’esperienza molto positiva perché, come diceva l’ex presidente Minguzzi, ha dato un orizzonte a chi l’orizzonte l’avevo perso. Fid ha consentito ai detenuti che in questi anni si sono avvicendati nei laboratori non soltanto di conseguire competenza tecniche, ma anche di abituarsi a lavorare in gruppo, a relazionarsi correttamente. È molto più di un’opportunità lavorativa, è un progetto che crea un collegamento tra dentro e fuori. I percorsi di socializzazione sono efficaci solo quando interno ed esterno collaborano insieme”. L’impresa sociale Fid srl nasce dall’unione di tre giganti del packaging - Gd, Ima e Marchesini Group, a cui negli ultimi anni si è aggiunta Faac - con l’obiettivo di fornire, attraverso la realizzazione di lavori di carpenteria, assemblaggio e montaggio di componenti meccanici, un’opportunità di lavoro stabile e duraturo. Non solo dentro il carcere, ma anche fuori. Cinquanta persone riavvicinate al lavoro - Non tutti i detenuti, però, possono prendervi parte: “normalmente - spiega il presidente del Fid Maurizio Marchesini - scegliamo persone con pene abbastanza lunghe, che poi spesso hanno dei benefici e quindi possono uscire in regime di semi-libertà prima della scadenza della pena. In questo momento abbiamo tra le 14 e le 15 persone. In tutto, dall’inizio abbiamo portato circa 50 persone al lavoro”. Numeri importanti, ma che da soli non possono bastare. La pensa così l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro insieme a Mauro Palma, Garante azionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il monito di Zuppi: “Poche iniziative in carcere” - Secondo Zuppi “ci sono troppe poche iniziative, non ci dovrebbe essere un solo detenuto che non abbia un progetto su di sé perché altrimenti il carcere è soltanto punitivo. La società civile deve permettere una funzionalità migliore del sistema carcerario. Fa parte di una responsabilità comune. Dobbiamo ricordarci che con poco possiamo fare molto e tutti dobbiamo fare qualcosa”. Non solo dentro il carcere, ma anche quando i detenuti escono perché, dice il presidente di Fid, “le vere difficoltà sono quando i ragazzi escono: noi li assumiamo nella filiera delle nostre imprese, però dopo tanti anni il mondo è cambiato”. Oltre allo stigma che la società gli affibbia in quanto ex detenuti, queste persone spesso perdono le reti sociali che avevano prima di entrare in carcere, come amici e famiglia, e rischiano di trovarsi senza una casa. Nonostante ciò, anche grazie all’inserimento lavorativo, il tasso di recidiva di chi sta dentro Fid è molto basso, “il 14%” secondo Marchesini. Abbattimento della recidiva per la misura alternativa - Come ha ricordato padre Giovanni Mengoli, presidente del Gruppo Ceis, durante l’inaugurazione della Casa di accoglienza Don Giuseppe Nozzi in zona Corticella, “le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva del reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16-20% contro il 66-70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza come questa”. Anche perché “con l’accoglienza in misura alternativa si ottiene una drastica riduzione dei costi, pari a circa due terzi rispetto alla detenzione”. All’inaugurazione c’era anche il sindaco Matteo Lepore: “Questo è un luogo di vita e di cittadinanza. Non offre solo un tetto alle persone ma la possibilità di incontrarsi e lavorare insieme. Grazie per questa realtà a cui date vita”. Bologna. Carcere e reinserimento, Zuppi: “Ancora non se ne fa abbastanza” bolognatoday.it, 27 giugno 2022 In Italia “purtroppo, il carcere aiuta ancora troppo poco il reinserimento”. Lo ha detto il cardinale di Bologna e presidente Cei Matteo Zuppi, nel corso di una iniziativa alla Dozza per celebrare i dieci anni di progetto di reinserimento lavorativo all’interno del penitenziario. Per Zuppi “ogni detenuto dovrebbe avere un progetto su di sé, altrimenti il carcere è soltanto punitivo, mentre invece deve essere anche redentivo”. Il monito arriva durante l’evento ‘Perché ne valga la pena, esperienze di reinserimento’ che si è tenuto nel carcere bolognese della Dozza in occasione dei 10 anni del progetto di reinserimento dei detenuti ‘Fare impresa in Dozza’. L’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, Matteo Zuppi, commenta con rammarico il fatto che, a livello nazionale, iniziative come quella promossa da Marchesini Group, Ima e Gd siano ancora poche. Per il cardinale, infatti, in Italia “c’è ancora tanto da fare, e il fatto che la società civile aiuti il sistema carcerario fa parte della responsabilità comune. Dobbiamo ricordarci- conclude- che con poco possiamo fare molto e che tutti dobbiamo fare qualcosa. Lavoro dentro la Dozza: il progetto compie dieci anni - “Partire è stato difficile, ma le cose vanno bene”, e “dall’inizio del progetto oltre 50 detenuti, grazie ad un percorso formativo e a un lavoro regolarmente retribuito, hanno avuto l’opportunità di integrarsi nella comunità locale una volta scontato il periodo di reclusione, con un indice di rientro in carcere molto basso, intorno al 12%”. Maurizio Marchesini, presidente di Marchesini Group, non nasconde la propria soddisfazione nel commentare i risultati dei primi 10 anni del progetto, avviato nel carcere bolognese assieme ad altri due ‘giganti’ del packaging bolognese come Ima e Gd (e in anni recenti allargato anche alla Faac) e presieduto dallo stesso Marchesini. E che il progetto di reinserimento rappresenti una scommessa vinta, e possibilmente da replicare in quanti più istituti carcerari possibili, lo pensano tutti i partecipanti al convegno ‘Perché ne valga la pena. Esperienze di reinserimento’, che si è tenuto questa mattina nell’aula bunker della Dozza. Ne è convinta, in primis, la direttrice del carcere bolognese Rosa Alba Casella, secondo cui i detenuti coinvolti “non solo hanno acquisito competenze tecniche di alto livello” grazie all’aiuto della Fondazione Aldini Valeriani e dei tutor (ex dipendenti delle aziende che sostengono il progetto che si occupano della formazione dei partecipanti), ma hanno anche “potuto vivere in un ambiente in cui sviluppare le loro capacità di lavorare in gruppo e di relazionarsi correttamente”. Gli stessi concetti li esprime, in maniera più colorita, l’arcivescovo del capoluogo emiliano Matteo Zuppi. Il progetto ‘Fare impresa in Dozza’ è “tutt’altro che una ‘romanella’“, commenta il cardinale, utilizzando un’espressione romana che indica un lavoro superficiale fatto per ridare un lustro apparente a delle cose malridotte. In generale, Zuppi sottolinea l’importanza “dell’attenzione e della sensibilità della società civile per far cambiare in meglio il carcere, come avviene in questo caso. Bisogna sempre respingere - chiosa - la tentazione di ‘buttare via la chiave’, e cercare invece le chiavi giuste per favorire il reinserimento dei detenuti”. Paola (Cs). L’empatia del prof. Antonio con i detenuti del carcere di Tania Paolino strisciarossa.it, 27 giugno 2022 È di qualche giorno la relazione annuale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Sovraffollamento delle carceri, episodi di violenza, suicidi, continuano a essere frequenti e, per quanto le denunce del Garante siano sempre puntuali e allarmanti, parole come rieducazione e reinserimento rimangono spesso dichiarazioni di intenti non ancora completamente attuati. Eppure, esistono belle storie di riscatto, esistono carceri in cui si prova a creare spazi di serenità, esistono scuole che continuano a vivere al di fuori dei propri cancelli, entrando, paradossalmente, oltre le mura di cinta, oltre le sbarre. Accade a Paola, nel cosentino, ad esempio, nella Casa circondariale, diretta da Emilia Boccagna. Qui, ormai da venti anni, è presente una sezione del locale Ipseoa, diretto da Elena Cupello, che ha in carcere aule dotate di lavagne interattive, una cucina attrezzata per le diverse attività pratiche, con l’idea che l’istruzione sia un’importante forma di affrancamento personale e sociale. Il docente di Lettere di questa scuola, Antonio Carpino, è un uomo pieno di entusiasmo e di quella qualità richiesta a ogni insegnante, in particolare a chi lavora a contatto con i detenuti, cioè l’empatia. In realtà come questa, infatti, l’approccio alle discipline, alla vita scolastica, alla relazione con l’altro sono speculari al clima di fiducia e di “complicità” che si riesce ad instaurare. Non è semplice farsi accettare, seguire, non è semplice adattarsi alla realtà di dentro, né adattare i contenuti e il lessico alla condizione di chi, spesso, è poco scolarizzato, o ha sempre visto la scuola come qualcosa da cui fuggire, anziché come una via di fuga. Ma Antonio è stato bravo a motivare i detenuti e li ha coinvolti in un progetto nato quasi per caso: raccontare, per raccontarsi. Alle persone coinvolte scrivere in italiano sembrava un’impresa titanica, ma il loro prof ha avuto l’idea di lasciarli esprimere ciascuno nel proprio dialetto, calabrese e pugliese perlopiù. Ne è venuto fuori un libro, Narratori dentro. Storie fuori dal carcere, Edizione Le Pecore nere, il cui ricavato sarà devoluto in beneficenza. Il carcere di Paola, un’altra possibilità - Da cinque anni, Antonio entra nel carcere di Paola, sapendo di potere uscirne dopo le ore di lezione e di lasciare, invece, i suoi studenti dietro le sbarre, oltre i numerosi cancelli che lo impressionarono il primo giorno in cui vi si recò. Detenuti maschi e maggiorenni, rei di crimini diversi, alcuni con condanne pesanti, come S., un neodiplomato, costretto a rimanere dentro fino al 2050: “Professò, non mi abbandonate!”. “Tranquillo, ci siamo, vediamo per l’università”, gli ha risposto il prof con la gola secca, perché non ci si abitua mai, pur sapendo che le cose lì funzionano così. “L’empatia è cara, l’empatia ha un prezzo alto che paghi in silenzio, ogni giorno, ogni volta che nel ripetersi della normalità ti fermi a pensare - scrive Antonio Carpino nel libro. La sera ti spogli, entri nel letto, ti adagi sotto il piumone caldo, e pensi. Pensi che Pasquale ora sta in un letto non suo, sotto coperte dure, poco accoglienti, magari al freddo. La mattina ti alzi, fai scorrere l’acqua che diventa calda, ti insaponi nella tua doccia un metro per un metro, e pensi. Pensi che Carmine, evidentemente in sovrappeso, che non dovrebbe mangiare tanto e che a vederlo sembra un gigante dal suo metro e novanta, ora si sta lavando, una metà per volta. A pranzo apri il frigo, scegli quello che più ti piace, usi pentole e stoviglie, accendi i fuochi e cucini, rilavi tutto, metti in ordine, mentre passi l’aspirapolvere la mente si rilassa, e pensi. Pensi che Vincenzo, a cui sono rimasti quattro denti, che ama cucinare e che va in ansia per poco, che è sociopatico, che ha appena compiuto quarantasette anni, dei quali ventisei “di branda”, dovrà usare lo stesso lavandino, piccolo e scomodo, per lavarsi la faccia, i denti, i calzini, le pentole, la frutta. Accarezzo i miei figli, li sgrido, mi arrabbio, gioisco, abbraccio mia moglie e mentre la stringo forte a me penso. Penso che Francesco forse una donna non la abbraccerà più, che Domenico guarda fuori e pensa alle sue montagne, ai suoi alberi, alla moglie e alle figlie, per lui è tutto lontano, per lui è tutto così maledettamente inafferrabile”. E, quando qualcuno dei detenuti gli chiede cosa dicano di loro “fuori”, Antonio, senza peli sulla lingua, riferisce tutte le terribili parole che legge o ascolta. Perché edulcorare la realtà non serve, bisognerebbe modificarla, questa realtà, iniziando, ad esempio, a considerare che si tratta di persone, alle quali, pur avendo commesso errori più gravi degli altri, va data un’altra possibilità, fosse purei in un carcere. Nella Casa Circondariale di Paola, chi ha voluto cogliere l’opportunità, l’ha trovata. La sensibilità della dirigente scolastica Elena Cupello, di Antonio Carpino, di tutti coloro che li hanno affiancati è la prova tangibile che “Non c’è amore che non possa essere insegnato, non c’è odio che non possa essere cancellato”. “Noi siamo insegnanti, arriviamo alla fine di tutto, possiamo solo dare loro amore”, ha detto il prof dei detenuti. Mantova. Il carcere apre le porte: detenuti con i figli sul campo di calcetto Gazzetta di Mantova, 27 giugno 2022 “La partita con papà”: una ventina di bambini e ragazzi hanno incontrato i genitori in uno spazio di gioco aperto. Torna quest’anno negli istituti penitenziari italiani, per tutto il mese di giugno, l’iniziativa “La partita con papà”, l’incontro tra papà detenuti e i loro figli all’interno dell’annuale campagna “Carceri aperte”, che consente l’accesso negli istituti le famiglie dopo il periodo di sospensione a causa della pandemia. “La partita con papà” si è svolta ieri anche nella casa circondariale di via Poma. Hanno aderito una decina di detenuti: una ventina i bambini e ragazzi coinvolti, accompagnati dalle madri. Per i detenuti stranieri erano presenti anche dei mediatori culturali. I bambini sono arrivati attorno alle nove, hanno incontrato i padri e mezz’ora dopo nel campetto si è svolta la partita, in un clima ben diverso che in una sala-colloqui. L’iniziativa è stata organizzata da “Bambinisenzasbarre” in collaborazione con il ministero della giustizia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: si tratta di iniziative nell’ambito della campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network Cope (Children of prisoners europe) che ha l’obiettivo di sensibilizzare sull’inclusione sociale e delle pari opportunità per i bambini e portare in primo piano il tema dei pregiudizi e dell’emarginazione di cui sono vittime i 100mila minori in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il padre o la madre in carcere. L’associazione “Bambinisenzasbarre” ha lanciato “La partita con papà” nel 2015, iniziata con l’adesione di dodici istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti. L’evento si è svolto da allora tutti gli anni fino al 2019, quando sono state giocate 68 partite in altrettante carceri e città, da Belluno a Palermo, coinvolgendo agenti della polizia penitenziaria, educatori, 3.150 bambini e 1.700 genitori detenuti. Metella Romana Pasquini Peruzzi, direttrice del carcere di Mantova, spiega le finalità del progetto: “Questo protocollo ha come fine agevolare il rapporto genitoriale e individuare soluzioni organizzative all’interno degli istituti. L’obiettivo è quello di attutire il senso di disagio e paura dei bambini al loro ingresso in carcere. Sono stati creati degli spazi definiti gialli, come le sale di attesa per i colloqui a misura di bambino con murales e giochi. I colloqui vengono fatti in ludoteche o salette con postazioni a misura di bambino”. “Giustizia e carceri secondo Papa Francesco”, a cura di Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo recensione di Antonio Salvati mentinfuga.com, 27 giugno 2022 Siamo in piena estate e insieme alla voglia di vacanza vorremmo alleggerire i toni e i ritmi delle nostre esistenze, soprattutto dopo un lungo periodo difficile per tutti. È comprensibile e fisiologico. Per i detenuti, in realtà, non è possibile, nemmeno per una stagione, darsi una pausa, mettendo da parte i propri problemi. Anzi, spesso l’estate acuisce i drammi e i problemi della popolazione carceraria. Nel corso del suo pontificato, Papa Francesco in tante occasioni, ha ribadito come la pena debba “avere la finestra aperta per la speranza, perché ognuno deve poter avere la speranza del reinserimento”, aggiungendo che “una pena senza speranza, ha proseguito il Papa, non serve, non aiuta, provoca nel cuore sentimenti di odiosità, tante volte di vendetta, e la persona esce peggio di com’era entrata”. Chi segue le vicende carcerarie ricorderà un memorabile Discorso del Santo Padre Francesco alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale che si caratterizzò per semplicità di linguaggio e complessità di concetti. Un discorso intenso, rivolto all’oggi, alla necessità di interventi concreti e urgenti, proposti entro uno scenario globale. Il discorso risale al 2014. Tuttavia, conserva una strepitosa attualità con il suo pressante invito alla cautela nell’applicazione della pena e all’inderogabile rispetto della dignità della persona. Non a caso, alcuni giuristi hanno significativamente raccolto l’invito del Santo Padre affinché soprattutto gli operatori di giustizia limitino e contengano le tendenze alla vendetta e al populismo penale che serpeggiano nella società, spesso alimentate dai mezzi di comunicazione di massa e da politici senza scrupoli. È un invito che coinvolge, più in generale, le donne e gli uomini di cultura, affinché compiano il loro “dovere”, accompagnato dalla consapevolezza “che - sostiene Papa Francesco - il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni”. In un interessante volume snello, curato da Patrizio Gonnella e Marco Ruotolo, “Giustizia e carceri secondo Papa Francesco. Brevi saggi a commento delle sue tesi” (Jaca Book 2016, pp. 190 € 16), sono contenuti commenti ad alcuni brani del discorso del Pontefice, realizzati da autori con esperienze e sensibilità molto diverse, uniti dalla necessità di sviluppare e attuare le preziose indicazioni del Pontefice. In merito alla carcerazione preventiva, Papa Francesco osservò che essa - “quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso - costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità”. Per Giovanni Maria Flick è un chiaro richiamo al pericolo di trascurare sia il principio guida della cautela in poenam, che deve essere intesa in termini di extrema ratio per i fatti più gravi; sia il principio guida di adeguatezza e di proporzionalità. Da ciò, quindi, “la scarsa attenzione alle misure alternative in sostituzione del carcere e alla necessità di rispettare non solo il primato della vita ma anche quello della dignità umana; da ciò il richiamo del Papa alle deplorevoli, inumane e degradanti condizioni detentive, cagionate sia dalle deficienze del sistema penale e dalla carenza di infrastrutture, sia dall’arbitrio nell’esercizio del potere”. Da ciò in particolare le riflessioni di papa Francesco e la denunzia su “i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio”. Flick ricorda le indicazioni della nostra Corte costituzionale e quelle della Corte di Strasburgo sui diritti umani. Esse sono concordi e reiterate in questo senso: la presunzione di non colpevolezza impone di limitare il ricorso alla carcerazione preventiva alla presenza di gravi indizi e di specifiche e tangibili esigenze cautelari, da accertare in concreto e di fronte a condizioni non altrimenti affrontabili con misure meno afflittive. Pertanto, secondo Flick, “no all’anticipazione della pena; no al riferimento alla gravità del reato in sé. È, e deve restare eccezionale (ed è comunque in sé discutibile), la previsione normativa vincolante della adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, per i soli reati di criminalità organizzata, vista la pericolosità di quest’ultima e per evitare contatti con il mondo esterno”. L’incitazione alla vendetta e il populismo penale sono altri due aspetti toccati dal Pontefice: “viviamo in tempi nei quali… si incita talvolta alla violenza e alla vendetta”. L’orribile vendetta richiede comunque un accertamento di responsabilità, mentre - dice il Papa - essa viene invocata “anche contro coloro sui quali ricade il [mero, ndr] sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge”. In questo modo la vendetta si manifesta nelle forme di una violenza pura, senza - spiega Stefano Anastasia - neanche il paravento giustificatorio della retribuzione del male commesso. In effetti, quando la domanda di giustizia è sollecitata dall’incitazione alla vendetta non c’è più spazio per l’accertamento delle responsabilità e la commisurazione della sanzione. La giustizia si fa sommaria e la vendetta viene anticipata nelle forme della violenza collettiva contro il capro espiatorio. Bergoglio attribuisce simile pratica ad “alcuni settori della politica” e ad “alcuni mezzi di comunicazione”. E certamente si colloca lì, tra politica e informazione, il corto circuito che - sostiene Anastasia - “alimenta la spirale del populismo penale, sempre a chiedere “più 1” in un gioco senza fine. Nella perdita di prospettiva che riduce la politica ad amministrazione della contingenza, tutto si consuma qui e ora. Non conta nulla l’inutilità di una minaccia sanzionatoria o la violazione della presunzione d’innocenza: qui e ora bisogna dare soddisfazione alla domanda di giustizia della vittima attraverso la minaccia di una più dura reazione sociale nei confronti del reo reale, sospettato o semplicemente potenziale. Così qualsiasi violazione delle regole si riduce al conflitto contingente tra il reo e la vittima, ovvero tra il reo e la collettività che si identifica con la vittima. Il codice comunicativo del diritto penale si sostituisce a quello della politica e promette di risolvere qualsiasi conflitto sociale attraverso l’attribuzione di una responsabilità e l’inflizione della pena conseguente. A nulla vale riproporre la complessità dei fenomeni, che spesso fanno del reato l’epifenomeno di conflitti e sofferenze sociali più profonde”. Come scriveva puntualmente Émile Durkheim più di un secolo fa, “la pena non serve - o non serve che secondariamente - a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori; da questo duplice punto di vista è giustamente dubbia, e in ogni caso mediocre. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità”. Evidentemente di fronte alla sofferenza e alla crisi della convivenza, l’individuazione della causa del male e la sua cancellazione attraverso il sacrificio di chi lo personifichi si propone ancora oggi come il collante della comunità e di un suo rinnovato benessere. Non è un caso, osserva giustamente Marco Ruotolo, che la Costituzione italiana declini il termine “pena” al plurale, non accettando, implicitamente, quella equazione con il carcere che invece pare così radicata nel comune sentire e che ha trovato spesso significativo seguito nelle scelte del legislatore ordinario. Sono “le pene” - e non soltanto la sanzione carceraria - che, in base all’art. 27 della Costituzione italiana, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un altro aspetto particolarmente problematico messo in rilievo da Papa Francesco è il carcere a vita senza possibilità di revisione della condanna: ergastolo ostativo, “life sentence without parole, whole life sentence”, sono le formule giuridiche che descrivono una condizione di reclusione senza speranza, inesorabilmente destinata ad aver fine solo con la morte del condannato: fine pena mai. Quando la perpetuità della pena è indefettibile spiega Marta Cartabia, “la finalità rieducativa è - irrimediabilmente frustrata. Dal punto di vista dei valori costituzionali, dei diritti della persona e della sua dignità l’ergastolo si può giustificare almeno alla condizione (e non senza ulteriori dubbi) che l’astratta perpetuità della pena si intrecci con la possibilità concreta di renderla temporanea, attraverso la previsione di un periodico riesame complessivo della personalità del detenuto, al fine di valutare l’eventualità di concedere i benefici penitenziari che riaprano le porte del carcere e l’accesso alla libertà”. La persona è un essere vivente: può sempre evolvere nel suo cammino e non perde questa sua caratteristica dentro le mura di un carcere. Come mirabilmente affermato da Paul Ricœur - ricorda la Cartabia - la persona è più grande degli atti che compie. L’enunciazione del principio della finalità rieducativa e riabilitativa della pena che ricorre in molte costituzioni contemporanee “sottintende questo sguardo sulla persona umana e richiede che siano assicurati effettivi percorsi individualizzati volti al reinserimento sociale dei detenuti. Ogni istituto del diritto e della prassi penale e penitenziaria è dunque chiamato a favorire il percorso rieducativo del condannato, fine ultimo della pena secondo l’art. 27 della Costituzione italiana e in molte costituzioni contemporanee”. Infine, assai rimarchevoli le considerazioni del giurista Luciano Eusebi secondo il quale Papa Francesco invita a sovvertire il modello della giustizia coltivato da millenni nella nostra cultura: “quello per cui essa consisterebbe nella simmetria dei comportamenti, cioè nella loro corrispettività: per cui l’incontro con il negativo, con quello ritenuto colpevole, ma anche con quello iniquamente ravvisato in chi non risponda all’interesse del giudicante (come attestano millenni di guerre legittimate in tale prospettiva), giustificherebbe l’agire reciprocamente negativo, ovvero il rispondere con il danno al danno, con il male al male, il “confondere - come afferma papa Francesco (ibidem) - la giustizia con la vendetta”. Un modello che l’umanità non può più permettersi, se non altro poiché ormai possiede gli strumenti per un’autodistruzione totale”. Si tratta, allora, di riappropriarsi dell’idea “che alle realtà negative si può rispondere proficuamente soltanto con progetti che abbiano un segno alternativo a tale negatività. Così che anche la risposta al reato, vera e propria cartina al tornasole del modello di giustizia caratterizzante il nostro vivere civile, possa assumere i contorni di un progetto, piuttosto che quelli di una ritorsione: di un progetto significativo per la persona che ne sia destinataria, come pure per il suo rapporto con le persone offese e con la società”. Compito della giustizia non è dividere, ma tornare a rendere giusti, per quanto possibile, rapporti che non lo sono stati. Ciò che esige fra l’altro, “in non pochi casi, non soltanto l’impegno riparativo di chi abbia trasgredito la legge, ma anche la restituzione nei suoi confronti di chance delle quali la sua vita sia rimasta nel passato deprivata, in quanto riflesso di quella corresponsabilità diffusa che non è mai assente nel contesto del fenomeno criminale”. “Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere”, di Sebastiano Ardita recensione di Marta Capaccioni antimafiaduemila.com, 27 giugno 2022 “Il mondo del carcere è un universo veramente sconosciuto e per poterlo capire non basta frequentarlo, neanche con una funzione istituzionale di magistrato o avvocato. Devi essere qualcuno che, mentre lo frequenta, non se ne può andare, o perché iscritto al circuito penitenziario oppure perché ci svolge la propria funzione dentro”. Sono state le prime parole del consigliere Sebastiano Ardita alla presentazione del suo ultimo libro “Al di sopra della legge: come la mafia comanda dal carcere”, tenutasi alla libreria “Tante Storie” a Palermo. Un incontro semplice, carico di umanità e senso di collettività, vicino alle persone della città, a chiunque volesse fermarsi ad ascoltare anche solo per un momento. A sorpresa era presente anche Nino Di Matteo, membro togato del Csm, che è intervenuto al fianco di Ardita. I temi toccati sono stati diversi: dal racconto della drammatica realtà penitenziaria in tutta la sua dimensione sociale e istituzionale all’assenza sconcertante dello Stato nella progettazione degli spazi e delle risorse umane e materiali. Poi ancora, si è parlato di ergastolo ostativo, dell’istituto dei collaboratori e infine del lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, i quali si trovano, nell’abbandono quasi totale, a dover gestire un mondo che precipita sempre di più dentro un baratro, nel silenzio e nel disinteresse generale. “Il carcere è una struttura totalizzante che non ammette deroghe e non c’è mai uno spazio vuoto. Se lo Stato fa un passo indietro e non regolamenta qualcosa quello spazio viene preso in carico da qualcuno che darà le sue regole. E i detenuti si danno regole non in base ad un codice scritto, ma ad una gerarchia criminale. Se si regala qualcosa alla popolazione detenuta tutta intera, stai regalando qualcosa a chi prenderà il posto dello Stato nel regolamentare quel diritto”, ha spiegato Ardita facendo riferimento alla questione delle cosiddette “celle aperte”, cioè al fatto che da qualche anno si è deciso di “allargare la dimensione degli spazi detenuti, consentendo di circolare liberamente nella realtà penitenziaria. Una scelta che non è stata legata alla buona condotta né alla discrezionalità attenta della sicurezza penitenziaria, ma è stata concepita come un diritto per tutti, che prescinde dal comportamento individuale, dalla pericolosità, dal grado criminale di appartenenza del detenuto. È un diritto della popolazione detenuta”. Tutto ciò ha comportato conseguenze disastrose dentro il mondo penitenziario e i danni più grandi li stanno subendo “i detenuti che si vogliono fare il carcere in pace”. Gli effetti di questa decisione si vedono da alcuni indicatori “che consentono di capire la qualità della vita in carcere. Questi si sono impennati negli ultimi anni, proprio in coincidenza con queste norme, che hanno fatto passare nelle mani delle gerarchie criminali il controllo delle realtà all’interno della vita penitenziaria”. Questi dati riguardano, per esempio, il numero degli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio dei detenuti, le aggressioni agli agenti e agli altri operatori penitenziari, i rapporti disciplinari, i reati commessi in carcere e molto altro ancora. Quindi, dove c’è assenza di Stato c’è presenza di mafia. È stato sempre così, da più di 150 anni, sia fuori sia dentro il mondo carcerario. “La mafia”, ha precisato Ardita, “è un soggetto organizzato che storicamente dal carcere ha fatto tante cose brutte: ha comandato e ha mandato ordini all’esterno. E se viene lasciato un carcere completamente allo sbando, la mafia comanderà dal carcere anche rispetto alla struttura istituzionale dello stesso”. Non possiamo dimenticarci, infatti, che prima dell’entrata in vigore del 41 bis, il penitenziario di Palermo veniva chiamato il “Grand Hotel Ucciardone”, un’espressione che lascia intuire già molto. Da qui è nato il regime speciale per i condannati per mafia. Come ha spiegato il consigliere togato Nino Di Matteo, “le dinamiche più importanti, soprattutto nella criminalità mafiosa, passano inevitabilmente anche dal carcere. Già dal lavoro di Giovanni Falcone e dal Maxi processo abbiamo capito che i mafiosi dal carcere continuavano a rappresentare gli interessi di vertice dell’organizzazione mafiosa, a far passare ordini di morte, a vivere la propria mafiosità dentro il carcere come la vivevano fuori”. E quando è stato introdotto il regime del 41 bis, ha continuato Di Matteo, “abbiamo capito come l’introduzione di quelle regole fosse stato colto immediatamente dai vertici dell’organizzazione, in particolare da Salvatore Riina, come un momento di svolta epocale, che avrebbe cambiato per sempre la vita dei mafiosi in carcere”. Erano i primi anni 90 e in quel periodo non si capiva anche bene cosa fosse il 41 bis e “i nostri agenti non venivano tutelati, anzi i mafiosi che erano stati detenuti nelle isole accusavano i nostri agenti di aver fatto violenze e torture e violazione di libertà contro la legge. C’era uno spirito di vendetta nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, addirittura c’era una lista di agenti a Pianosa che dovevano essere uccisi in un programma di vendetta”. L’omicidio del giovane trentenne Giuseppe Montalto, avvenuto il 23 dicembre del 1995, si inserisce proprio in questo contesto storico, politico, sociale e criminale in cui stava vivendo l’Italia. La colpa di Montante era stata quella di aver bloccato “un biglietto proveniente dall’esterno, che sarebbe servito a commettere un reato, era la commissione di un reato. Denunciò gli autori di questo passaggio illecito, i quali autori erano soggetti che stavano al vertice di Cosa nostra e naturalmente impedì che questo accadesse”. In quegli anni, nel momento in cui vennero arrestati tutti gli uomini di Cosa nostra, ha continuato Ardita, “la polizia penitenziaria divenne soggetto depositario dell’attività di contrasto perché doveva gestire questo mondo inferocito che non accettava di essere sottoposto alle regole del carcere e ai rigori del 41 bis”. “Questo è stato uno dei motivi”, ha spiegato poi Di Matteo, per i quali nei primi anni di quel decennio “ad un certo punto le organizzazioni mafiose, che non potevano sopportare questa svolta, hanno iniziato a ricattare lo Stato a suon di bombe, cercando, e in parte secondo me riuscendoci, di piegare le ginocchia allo Stato, per costringerlo ad una sorta di mediazione, per costringerlo nel tempo ad affievolire quei principi che erano stati introdotti con tale legislazione. Le stragi del 1992, del 1993 e il fallito attentato del 1994 sono state fatte anche per giungere all’affievolimento del carcere, all’abolizione dell’ergastolo inteso come fine pena mai, all’abolizione della regola introdotta con il 4 bis”. Fatti venuti alla luce dopo tantissimi anni, grazie allo sforzo investigativo e al sacrificio quotidiano di alcuni magistrati, tra cui il dottore Di Matteo, che per il lavoro che stavano svolgendo nell’espletamento della loro funzione di pubblici ministeri hanno dovuto subire persino minacce di morte ed isolamenti istituzionali e mediatici. La trattativa, come ha affermato anche Sebastiano Ardita, “è un tema di fondo che accompagna in modo nefasto pezzi di storia istituzionale. Parliamo di un fatto storico conclamato nelle sentenze, nella sua dimensione sostanziale. Fu un momento nel quale questo confronto tra Stato e mafia avvenne soprattutto sul tema scottante del 41 bis”. Oggi, dopo 30 anni dalle stragi, “sulla base della sentenza della Corte costituzionale potranno tornare liberi molti di quelli che quelle stragi le hanno fatte”, ha chiarito con amarezza Nino Di Matteo. Preoccupazioni che purtroppo diventano ogni giorno sempre più tangibili e concrete. Risale proprio allo scorso 16 giugno la decisione della Corte di cassazione, quando i giudici di legittimità hanno concesso al boss di Cosa nostra, Giuseppe Barranca, esecutore della strage di Capaci e coinvolto nelle stragi del 1993 (via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e via del Fauro a Roma), di accedere ai permessi premio. Una decisione presa sulla base di una valutazione “morale” della “enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l’appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere, dall’altro”. Oppure, ancora più recente, è la notizia della concessione dello status di semi-libertà al boss Giovanni Sutera, condannato per aver assassinato la giovane Graziella Campagna. Tali decisioni si basano sul mutamento del quadro normativo generato dalla sentenza numero 253 del 2019 della Corte Costituzionale, la quale ha stabilito, come ha spiegato Di Matteo, “che quell’automatismo per il quale se il mafioso non collabora con la giustizia non può accedere a benefici penitenziari, sarebbe incostituzionale. Questo in un contesto nel quale la storia, la conoscenza degli atti, delle sentenze e delle risultanze delle indagini ci ha fatto capire che dall’organizzazione mafiosa si esce soltanto in due modi: o con la morte oppure attraverso una rottura del vincolo, che però deve essere manifestata. Per primi devono cogliere la rottura del vincolo gli altri mafiosi. Non basta al detenuto mafioso essere magari sinceramente pentito o volersi distaccare dall’associazione, se non dà un segnale per il quale anche gli altri mafiosi capiscono che non è più affidabile e quel segnale è la collaborazione con la giustizia. Solo in quel modo il detenuto mafioso diventa assolutamente inaffidabile e pericoloso per l’organizzazione mafiosa”. Anche il nuovo libro, ha raccontato Ardita, “inizia con la storia di un detenuto che ottiene la libertà dopo aver fatto 6 omicidi qualche anno fa. Questo detenuto esce dal carcere immotivatamente, ingiustificatamente, senza merito e la prima cosa che fa è rimettere in moto la macchina criminale di estorsioni, minacce ed altre e si rivolge ad un imprenditore che non vuole pagare il pizzo, lo rapisce, lo denuda, lo tortura e lo uccide nella stessa sequenza”. Nel nostro Paese quindi, è in corso “un attacco al carcere della prevenzione. Si è cominciato con il contestare tutta l’istituzione penitenziaria, si sta finendo per contestare il 41 bis e l’ergastolo ostativo”. Sono punti di un papello che dopo 30 anni si stanno realizzando o, forse, stanno finendo di realizzare. Perché già molte richieste erano state concretizzate. Parliamo della chiusura delle super carceri di Pianosa e dell’Asinara, avvenute alla fine del 1996, in circostanze, come sempre, ancora non del tutto chiare. “Un’altra pagina tutta da comprendere è quella dell’effettività della permanenza dei mafiosi delle isole”, ha spiegato il dottore Ardita. “I mafiosi sono stati sulle isole per una frazione di tempo rispetto a quella che accompagnava la loro detenzione e il loro luogo di assegnazione ufficiale. Non ricordo i nomi precisi, ma Riina, Bagarella, Santapaola sono stati 100, 150 giorni anziché 4 anni. Furono aperte nel 1992 e vennero chiuse alla fine del 1996. Ma quando furono chiuse? Esattamente in coincidenza con l’entrata in vigore della norma che prevedeva le videoconferenze, cioè un modo di partecipare alle udienze che avrebbe murato vivi i mafiosi sulle isole”. Cioè, “nel 1996 mentre viene adottata questa norma, sincronicamente viene meno la normativa che consentiva di usare le isole per fini penitenziari. Se avessero mantenuto quella norma sarebbero rimasti nelle isole, dove non sono stati sostanzialmente, per poco tempo. Sono stati ovunque, ma sono stati molto poco tempo a Pianosa e all’Asinara. E quando avrebbero dovuto starci per sempre hanno chiuso le isole. Un’altra pagina da capire”. Ci sono anche altri pezzi di storia che hanno riguardato la vita dentro il carcere di boss stragisti, su cui ancora non è stata fatta piena luce né chiarezza. È il caso, per esempio, dei due fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, entrambi protagonisti delle stragi non solo di Capaci e Via D’Amelio, ma anche delle stragi del 1993, i quali “hanno concepito i loro figli mentre si trovavano detenuti all’Ucciardone, sottoposti al regime penitenziario dell’art. 41 bis, per partecipare alle udienze dei processi in cui erano imputati a Palermo e a Caltanissetta”. Questo purtroppo ci dimostra”, ha aggiunto il consigliere Di Matteo, “come anche dopo il 1992 si sono verificate delle falle clamorose. Non sono emerse ancora prove certe, non dovute alla negligenza o peggio ancora a possibili episodi corruttivi dei quali si sono resi protagonisti gli operatori del penitenziario, ma forse qualche volta ritengo legati all’adempimento di qualche patto nascosto”. In tanti momenti della storia del nostro Paese ci sono state falle, lacune e responsabilità istituzionali “e proprio questo ci deve fare capire l’importanza del buon funzionamento del sistema penitenziario, con un ulteriore particolarità. Il buon funzionamento del sistema penitenziario non è soltanto necessario per evitare che mafiosi continuino a comandare, per evitare che si impadroniscono della vita e della gestione del carcere, ma è importante anche per un altro motivo, perché deve anche prevenire possibili controlli del carcere da parte di istituzioni non deputate a questo. Tante volte nella storia di questo Paese si sono verificati dei momenti in cui anche in maniera assolutamente indebita e non legata a nessuna norma di carattere primario e secondario, i servizi di sicurezza hanno avuto facile accesso al carcere, ai detenuti, che in alcuni casi sono diventati collaboratori di giustizia o che in altri casi non lo sono diventati. Il rispetto delle regole in carcere è garanzia per tutti, per i detenuti, per gli operatori penitenziari. È garanzia di efficacia nella lotta alla mafia, ma anche di libertà e di democrazia e del corretto funzionamento dello Stato istituzionale”. Il carcere “è uno dei luoghi più misteriosi che esistano”, come ha scritto il dottore Ardita nel suo nuovo libro. È il luogo dove si valuta il grado di civiltà di una comunità. Perché non è civile né democratico uno Stato che abbandona al disagio sociale, alla povertà e quindi nelle mani della criminalità mafiosa migliaia di famiglie, spesso ghettizzandole nelle periferie delle città. Non è civile uno Stato che si manifesta solo nelle retate, nelle operazioni di polizia o nei blitz, incarcerando genitori e lasciando in una voragine di miserie, giri di droga e prostituzione figli e madri. Il carcere quindi, è un luogo centrale, nessun rappresentante politico ed istituzionale né nessun cittadino può dimenticarsi. “Fino a quando considereremo il carcere come un luogo da evitare, di cui non vogliamo nemmeno sapere l’esistenza, noi non avremo la consapevolezza di quanto invece sia il luogo dove la nostra Costituzione deve essere rispettata e attuata, prima ancora che altro”, sono state le parole Nino Di Matteo, seguite in chiusura da quelle di Ardita, il quale ha ricordato gli innumerevoli sforzi, sacrifici e rinunce persino personali che spesso, nonostante tutto, scelgono di fare gli operatori penitenziari. “Il carcere è anche una realtà incredibilmente stimolante, dove c’è un’umanità che trabocca, dove c’è un grande eroismo, di persone che sacrificano i propri spazi, il proprio tempo, la propria vita privata, a volte la propria serenità per poter dare il massimo, anche nella prospettiva di un riscatto, nel rispetto delle persone che sono detenute. Non esiste una prospettiva che non passi da questo. Dobbiamo trovare un punto d’equilibrio che ci consenta, conoscendo questa realtà, di far vivere e sopravvivere i migliori sentimenti e il migliore impegno che può esistere della funzione pubblica, per poter riscattare il mondo del carcere oggi. Ma allo stesso tempo dobbiamo impedire che la disattenzione, la mancanza di controllo, di organizzazione pubblica, di volontà di esserci e di far prevalere le forze sane dello Stato, ci porti poi ad una debolezza che favorisce quel tipo di controllo dal carcere”. “Senza sbarre”, di Cosima Buccoliero. Il carcere mai più un non luogo recensione di Francesco Gianfrotta Corriere Torino, 27 giugno 2022 La neo direttrice del Lorusso e Cutugno, nel suo libro “Senza sbarre” riflette sulla necessità di integrare lo spazio della detenzione con il territorio. C’è un destino che accompagna il carcere: la scarsa visibilità, salvi i casi di emergenze. Lo ribadisce la neo-direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero, nel libro Senza sbarre, scritto con la giornalista Serena Uccello: “Dei molti luoghi che determinano la nostra condizione di cittadini abbiamo esperienza diretta. Della scuola, degli ospedali, degli uffici pubblici. Il carcere, invece, è un luogo che non ha appartenenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione”. Semplice la spiegazione, si dirà: il carcere è un luogo destinato ai disonesti o presunti tali, tenuti lontani - per legge - dal resto della società. Eppure la letteratura sul tema, invero abbondante, ci racconta di una complessità che nessun autore nasconde o ridimensiona e che, perciò, dovrebbe indurci, in quanto cittadini, a saperne di più, senza rimozioni: operate invece da chi non vuole fare i conti con questioni difficili, che chiamano in causa le idee che ciascuno di noi ha sulla giustizia penale, sulla sicurezza, sugli obiettivi che l’intero sistema penale dovrebbe realizzare, qui ed ora. Per fermarci a Torino, si tratta di rigenerare un insieme degradato, a lungo distintosi per merito dei suoi operatori, risultati capaci, a partire dall’allora direttore Pietro Buffa, di costruire realtà (di studio, di lavoro, di formazione) coerenti con l’obiettivo della funzione rieducativa della pena, e non permeate da quella disperazione che spesso induce il detenuto a gesti autolesivi anche estremi (questi ultimi non a caso a lungo non verificatisi a Torino). Una ragione di più per tornare sull’argomento, almeno in questa città. Leggendo “Senza sbarre” riparte la speranza. Nel curriculum di Cosima Buccoliero spicca l’esperienza di direzione del carcere di Bollate, dal 2000 modello di istituto, destinato a detenuti non classificati in una delle varie categorie di pericolosità, e organizzato per assicurare a chi vi è ristretto occasioni per ripensare alle proprie scelte di vita e modificarle nel futuro. Un Ministro lo avrebbe voluto utilizzare come serbatoio per lo sfollamento del carcere milanese di San Vittore. Per fortuna prevalsero altre opzioni: quella visione che fa pensare alla direttrice che il cambio di direzione non nuocerà al progetto che aveva ispirato le esperienze realizzate e che “Bollate…ha i tratti dell’esempio che può essere replicato”. È un punto centrale, questo: che non rileva solo per il carcere di Torino, ma potrà incidere sul futuro dell’intero sistema penitenziario. Il carcere di Bollate sorge in un territorio (l’area milanese) nel quale è sempre stato radicato lo spirito di solidarietà nei confronti dei soggetti svantaggiati, manifestato non solo dal volontariato e dalla Chiesa, ma anche dal circuito istituzionale e dal mondo imprenditoriale. Torino, però, non è (mai stata) da meno. Campanilismi e graduatorie sarebbero fuori luogo. C’entra l’esperienza - che parla da sola - di un passato tutt’altro che remoto e neppure breve; accompagnata dall’amara constatazione che occorre tanta fatica per realizzare cose che dimostrano che un altro carcere è possibile, ma in poco tempo la disattenzione (a dir poco) può far crollare molte parti dell’edificio. Il carcere è una porzione del territorio. Lo affermava, nei documenti ufficiali, all’inizio del millennio, anche chi non ci credeva molto e pensava al carcere soprattutto come un insieme di cancelli e sbarre. Lo si ripete, dopo venti anni, a riprova del fatto che è necessario ribadirlo e spiegarlo. In carcere finiscono coloro che - come dice Cosima Buccoliero - ad un certo punto della vita hanno iniziato a deragliare, in un territorio nel quale, anche a causa loro, si è diffusa insicurezza. Ma è proprio in quel territorio che essi torneranno, al termine della detenzione. Si tratta, allora, di trasformare un costo in un investimento; se ci si riesce, la collettività avrà avuto, dalla spesa sostenuta per tenere in piedi il sistema dell’esecuzione penale, un’utilità: la restituzione alla comunità di persone cambiate. L’abbattimento del tasso di recidiva è un obiettivo che il sistema paese (quindi, non solo chi se ne occupa per mestiere) dovrebbe perseguire con convinzione, operando scelte razionali. Si potrebbe, così, recuperare quella ricchezza generale che nuove braccia e intelligenze, se orientate al rispetto dei valori della legalità, possono assicurare ad un certo territorio. La nostra Costituzione, al riguardo, non si limita a fissare la rieducazione quale finalità delle pene (tutte, non solo quella detentiva). L’art. 4 della Carta dà indicazioni che bisogna saper leggere: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere… un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Verrebbe da aggiungere: sempre, dunque anche se ex-detenuto. Le statistiche ufficiali ci dicono che dove si è investito, con competenza e senza buonismi, nell’offerta di studio, lavoro e formazione e nelle sanzioni alternative al carcere, i risultati sono stati incoraggianti (pena risultata utile). Il futuro della neo-direttrice di Torino, quindi, è chiaro: il suo impegno nel carcere cittadino - per rilanciare situazioni deterioratesi negli ultimi anni - dovrà essere sostenuto da questo territorio, come è già accaduto in passato. Dovrà, di certo, fare i conti con difficoltà strutturali (l’adeguatezza degli ambienti detentivi alla mission del carcere riguarda anche il Lorusso e Cutugno). E ci sono altri problemi generali dei quali Cosima Buccoliero, nel libro, si mostra consapevole: il ripensamento dei compiti dei diversi operatori, a partire dalla Polizia penitenziaria; l’utilità delle pene detentive brevi. Ma l’esperienza accumulata e le sue idee le consentiranno di superare la prova. Cresce la povertà assoluta. Covid e crisi climatica: un milione di affamati di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 27 giugno 2022 Dal 2015 l’insicurezza alimentare è tornata ad aumentare. Secondo dati Istat, in Italia 5,6 milioni di persone vivono in grave difficoltà. Intervenire anche con l’educazione e le strategie per le famiglie. “Non puoi fare della povertà un’ipotesi” riflette il giornalista Domenico Quirico nel film Il fronte interno della regista Paola Piacenza dopo aver incontrato in Italia centinaia di persone spinte oltre i confini di un’esistenza dignitosa. In questo viaggio nell’Italia che spesso fingiamo di non capire, se non addirittura di non vedere perché tanto “sono loro stessi all’origine delle loro disgrazie”, si incontrano disoccupati, emarginati, immigrati, divorziati e anche lavoratori con salari che non consentono di dare un tetto e cibo necessario alla famiglia, soprattutto se hanno figli. Scorrono desolate immagini di persone già nate ai margini di una vita sopportabile e che non hanno avuto l’opportunità di rientrarvi e, al tempo stesso, donne e uomini che non avrebbero mai immaginato di finire alla deriva. Chi non sperimenta la disperazione della sussistenza fatica a immaginare come potrebbe reagire a un destino che nel nostro Paese sta risucchiando strati della popolazione sempre più ampi, dopo che avevamo cullato l’idea di aver sconfitto la povertà. Il mondo intero, del resto, si era illuso: per due decenni il numero delle persone che pativano la fame si era ridotto in maniera significativa; poi, dal 2015, l’insicurezza alimentare è tornata a crescere, complice il cambiamento climatico. Oggi il tormento quotidiano della fame attanaglia poco meno di un miliardo di persone. Di questa vergognosa cifra che va di pari passo con l’accumulo di immense ricchezze, secondo le ultime rilevazioni dell’Istat ben 5,6 milioni di persone vivono in Italia in condizione di “povertà assoluta” (il 7,5% della popolazione). Solo nel 2019, con l’introduzione del reddito di cittadinanza, si era registrata una riduzione, ma già nel 2020 il numero era tornato a salire a causa del Covid e della conseguente perdita di posti di lavoro, inglobando fasce di popolazione che fino ad allora godevano di una moderata tranquillità. L’instabilità internazionale - Ora c’è da attendersi che l’instabilità internazionale faccia peggiorare ulteriormente la situazione, nonostante le politiche messe in campo dall’Unione Europea promettessero un futuro più roseo. In Italia, una famiglia vive in condizioni di povertà assoluta quando non arriva con il proprio reddito a poter acquistare un paniere di beni e servizi che garantisca uno standard di vita accettabile. Si sta quindi parlando di persone che non riescono a riempire la pancia ai propri figli. Se considerassimo il termine “dignitoso” e di pari opportunità per il futuro dei figli, come prevede la nostra Costituzione, il numero aumenterebbe di molto. Ci si accorge così che salgono al 20%, vale a dire una su cinque, per le famiglie con tre figli, e all’11,5% per quelle che hanno anche un solo figlio minore. In un Paese dove non nascono più bambini (occorre ancora spiegare il perché?), dove non c’è il ricambio generazionale è evidente che ci stiamo avvitando in una spirale destinata a portarci sempre più in basso. Le conquiste dei decenni seguiti all’ultima guerra mondiale si stanno vanificando ed è come se la deriva verso la povertà del nostro Paese venisse ormai considerata come il prezzo necessario da pagare a un mondo che si sta sempre più darwinizzando, dove la parola “globalizzazione” nasconde un atteggiamento fatalista nei confronti dei più deboli. “Credo però che la percezione del dramma a cui sta andando incontro il nostro Paese stia aumentando”, si sfoga Maurizia Iachino, una vita passata nelle Ong e oggi promotrice di un progetto pilota con “Azione contro la Fame” da proporre come modello nazionale. “Cosa ancora più triste - continua - è che uno dei modi per intercettare questa deriva italiana è andare nelle scuole di periferia delle grandi città. La mensa scolastica è spesso l’unico modo per garantire un pasto completo ai bambini. Del resto, un nucleo familiare con due figli e un solo stipendio non può vivere in una città come Milano, dove un affitto può costare 300 euro al mese e tutte le bollette, l’energia alle stelle, si mangiano il magro salario. Buona parte di queste famiglie spesso non vive nel proprio territorio di origine dove potrebbe meglio sopravvivere grazie alle relazioni familiari”. Il progetto pilota di “Azione contro la Fame”, basato sulle esperienze già fatte da Azione contro la Fame in Spagna, Palestina, Georgia e in diversi Paesi dell’America Latina, ha dimostrato come un approccio che non si limita alla “carità” può diventare un passo importante verso l’inclusione. L’intenzione è di traghettare le famiglie “dall’emergenza all’autonomia” e la parte educativa è forse più importante del sostegno immediato. Viene consegnata una carta di credito che consente di acquistare cibo e beni di prima necessità; in parallelo, i beneficiari vengono educati a una dieta sana e bilanciata. La terza e più importante azione consiste in un percorso di formazione e accompagnamento all’inserimento lavorativo. Il progetto è a tempo e chi ne usufruisce deve dimostrare di voler risalire la china. I risultati sono stati molto soddisfacenti, spiega Iachino: “Prima della scadenza alcune famiglie avevano già riportato la tessera dicendo: “Ho trovato un lavoro, datela un altro che sta peggio”. Il suicidio assistito è diritto alla vita, ma quanto pesa il silenzio dello Stato di Luigi Manconi e Lucrezia Fontana La Stampa, 27 giugno 2022 Da Welby a Englaro fino a “Mario”, quelle battaglie che la “Coscioni” ha tolto alla clandestinità. Dalla sentenza della Consulta del 2019 stiamo ancora aspettando che a esprimersi siano le Camere. Nel 2015, la Corte suprema canadese pronunciò parole mirabilmente chiare a proposito del suicidio assistito, collocando la questione della sua ammissibilità all’interno del più generale diritto alla vita: nonché dei principi di libertà e sicurezza, secondo criteri di giustizia sostanziale. Ne derivava l’incostituzionalità del divieto assoluto - assoluto, questo è il punto -, di suicidio assistito. In altre parole, la finalità del divieto non era preservare la vita “a ogni costo”, bensì assicurare che le persone vulnerabili non fossero indotte, da altri o dalla propria stessa disperazione, a darsi la morte in un momento di fragilità e di ridotta o mancata autonomia. La pronuncia è fondamentale e costituisce il rovesciamento di tanti stereotipi divenuti senso comune che hanno stravolto il significato del suicidio assistito, quasi fosse una tentazione necrofila e non - come è - l’unico atto di autodeterminazione possibile in alcune circostanze. La sentenza della Corte Costituzionale italiana arriva solo il 22 novembre 2019 ed è, senza dubbio, meno innovativa, non affermando un diritto a decidere come e quando morire, ma limitandosi a fissare i presupposti in presenza dei quali l’aiuto offerto al malato irreversibile non è perseguibile penalmente. Dispositivo essenziale è “l’auspicio”, espresso “con vigore”, che il Parlamento legiferi in materia. Il che, tuttora, non è avvenuto. Prima e dopo il pronunciamento della Consulta, molte cose sono accadute. In Italia, la prima proposta di legge in materia venne presentata nel 1984 dal socialista Loris Fortuna (già promotore nel 1970, con il liberale Antonio Baslini, della legge sul divorzio). Dovettero passare due decenni prima che la questione diventasse di interesse pubblico. Dapprima grazie a Piergiorgio Welby, il quale, affetto da distrofia muscolare degenerativa e tenuto in vita da un ventilatore polmonare, presentò ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma, chiedendo l’autorizzazione al distacco della macchina con sedazione palliativa. Il giudice rigettò la richiesta, affermando che fosse compito del Parlamento approvare una legge sul tema e farsi carico, così, “di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cui Welby si era rivolto, si augurava che non finissero con il prevalere “il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Era il settembre 2006 e quel “silenzio” perdura, appena interrotto dall’approvazione alla Camera di un testo che non sembra destinato a superare l’esame del Senato. Il 20 dicembre dello stesso anno Welby si spense, assistito dall’anestesista Mario Riccio, che procedette alla sedazione continua profonda e al distacco del respiratore e che per questo fu sottoposto a due indagini. Una da parte dell’Ordine dei medici di Cremona, che dispose l’archiviazione, e una da parte del Tribunale di Roma, che pronunciò il non luogo a procedere per il reato di omicidio del consenziente. Riccio non doveva essere punito in quanto aveva agito “nell’adempimento di un dovere”. Un’altra vicenda segnò poi la coscienza pubblica. Quella di Eluana Englaro. Il primo ricorso al Tribunale di Lecco è del 1999, ma solo nel 2007 le ragioni dei genitori trovarono accoglimento in una sentenza della Cassazione. Questa riconobbe al giudice la possibilità di autorizzare la richiesta del tutore di chi versi in stato vegetativo permanente di interrompere nutrizione e idratazione artificiali. Due i requisiti richiesti: l’irreversibilità della condizione clinica e la corrispondenza della domanda alla volontà del paziente stesso, dedotta dai suoi convincimenti, dichiarazioni, personalità e stile di vita. Dopo di che furono numerosi i casi analoghi: Giovanni Nuvoli (2007), Walter Piludu (2016), Fabiano Antoniani (2017), Davide Trentini (2017), Fabio Ridolfi (2022) e “Mario” (Federico Carboni) (2022). Mentre quest’ultimo, dopo un tormentato iter otteneva, primo in Italia, l’accesso al suicidio assistito, Fabio Ridolfi doveva ricorrere alla sedazione continua profonda, così come l’ex presidente della Regione Emilia Romagna Antonio La Forgia (la cui sedazione, durata oltre tre giorni e mezzo, si è trasformata, secondo la moglie, in “una inutile tortura”). Qui è opportuno precisare. La sedazione palliativa profonda continua è volta a ridurre il dolore non lenibile attraverso il progressivo annullamento della coscienza del paziente, fino al sopraggiungere della morte. Il suicidio assistito consiste nell’autosomministrazione del farmaco letale da parte del malato che, nel pieno delle sue capacità mentali, ne faccia richiesta. Oggi, a seguito della “sentenza Cappato”, è consentito a precise e restrittive condizioni, sebbene successive pronunce ne abbiano estesa l’applicabilità. A partire dalla decisione della Corte di Assise di Massa (Sentenza Trentini, 2020), che ha affermato come il requisito del trattamento di sostegno vitale non sia limitato alla dipendenza da macchinari. Il suicidio assistito sarebbe dunque ammissibile anche nei casi di pazienti sottoposti “a qualsiasi trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici”. Restano esclusi coloro che, totalmente immobilizzati, non sono in grado di assumere il farmaco da sé. Nell’eutanasia volontaria è un terzo a procurare la morte del paziente con il consenso di quest’ultimo: in Italia è illegale ai sensi dell’articolo 579 del codice penale; e la Corte Costituzionale (febbraio, 2022) ha dichiarato inammissibile il quesito referendario che ne proponeva la regolamentazione. Tutte queste vicende vedono protagonista l’Associazione Luca Coscioni, diretta da Filomena Gallo, Marco Cappato e Mina Welby. L’associazione ha due meriti storici che andrebbero riconosciuti anche da parte di chi non ne condivida le finalità: l’aver sottratto alla clandestinità un mondo di sofferenze e di degradazione fisica e psichica; l’aver proiettato sulla sfera pubblica e istituzionale una domanda di giustizia tanto intensa quanto, in genere, sottaciuta. Tutti i drammi individuali e le discussioni pubbliche, le proposte di legge e i conflitti etici in materia, ruotano intorno ad una domanda cruciale: di chi è la mia vita? Ovvero la questione della disponibilità della vita umana, come bene giuridico conteso tra Stato e individuo. Si contrappongono due posizioni antitetiche. Coloro che affermano la sacralità e l’assoluta indisponibilità della vita, ritenuta, quando pure non un dono di Dio, comunque funzionale, oltre che all’interesse del singolo, all’interesse della collettività: l’uomo rappresenterebbe una “fonte di ricchezza e di forza come elemento riproduttore della specie, come lavoratore, come soldato” (Corte di Cassazione, 18 novembre 1954). La vita non apparterrebbe alla persona ma a un’entità superiore: Dio e/o lo Stato, secondo una concezione paternalista collettivista e autoritaria, che riduce l’individuo a una funzione della società, assolutizzando i suoi doveri verso la famiglia e lo stesso Stato. All’opposto, quanti considerano la vita un bene disponibile, valorizzando il principio di autodeterminazione, che postula la libertà della persona di agire avendo come solo limite quello di non ledere le libertà altrui. Già l’ispirazione personalistica della carta costituzionale e la giurisprudenza più innovativa su essa formatasi, avevano mitigato l’assolutezza del principio di indisponibilità della vita. Nel frattempo, le posizioni ieri aspramente contrapposte si sono lentamente avvicinate, pur rimanendo tutt’altro che risolto proprio il nodo dell’indisponibilità. In proposito, va ricordata la replica di Vittorio Possenti, filosofo del diritto, cattolico assai rigoroso, all’affermazione ricorrente nella teologia morale e nella pastorale della Chiesa secondo cui “la vita è un dono e noi non ne possiamo disporre”. Possenti ha sottolineato la singolarissima anomalia di un dono che resta proprietà del donatore: se pure la vita è un dono, sono io, il ricevente, che ne sono il titolare, e, dunque, a poterne disporre come meglio credo. In piena responsabilità e libertà. Si tratta di parole non solo di elementare limpidezza, ma anche di notevole sapienza, in quanto esprimono per un verso la pienezza della libertà di scelta e, per l’altro, il senso di responsabilità - anche verso gli altri - che essa comporta. Il labile confine tra rancore sociale e odio politico di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 27 giugno 2022 Semantica dell’aggressività: espressione e strumento della lotta fra poteri contrapposti, diventa un fenomeno e apre una prospettiva pericolosa per il nostro livello di civiltà collettiva. Sorprende la recente entrata del termine “odio” nella dialettica politica, sia internazionale (l’ex presidente russo che dichiara “l’Occidente lo odio, e non avrò pace fino a che non sarà distrutto”) che nazionale (la scissione grillina motivata dall’odio avvertito dagli scissionisti per l’attuale dirigenza). I toni sono naturalmente diversissimi, ma il processo psicologico è lo stesso: i protagonisti partono come rivali dalle idee diverse; poi non si spiegano e non si piegano, e finiscono per rompere la loro piattaforma di relazione. A quel punto non resta che insultarsi con toni sempre più rancorosi, fino ad ammettere, magari anche allo specchio, che “quello lo odio”. Finché questa esasperazione dal rancore all’emersione dell’odio resta sul terreno privato (fra coniugi, fra colleghi, fra soci) la cosa potrebbe non preoccupare, anche se ci offende la crescita della violenza in famiglia e nelle piccole comunità. Ma la novità di questi ultimi tempi è che l’odio non è più la perversa fiammata emotiva di un singolo, ma diventa l’espressione, il manifesto, lo strumento della lotta fra poteri contrapposti; diventa cioè un fenomeno politico e apre una prospettiva pericolosa per il nostro livello di civiltà collettiva. Tanto più che nessuna autorità morale e religiosa di tipo globale sembra avere parole adeguate di riprovazione o di superamento dell’odio. In parte avremmo dovuto aspettarcelo, questo fenomeno. Sapevamo da anni che un po’ in tutti i paesi esisteva uno strisciante rancore collettivo via via evidenziato da isolate espressioni di conflittualità sociale e politica. E non erano mancate specifiche analisi che mettevano in luce che “il rancore è il lutto di quel che non è stato”, che si ritrova nelle situazioni di più drammatica delusione per speranze mancate (si pensi al rancore al color bianco fra due coniugi che si separano). E non avrebbe dovuto sorprenderci che poi esso sia esploso come fenomeno sociale in una rabbia collettiva contro le élites, la politica, le classi dirigenti, quasi a denuncia del tradimento di speranze non avverate. Il rancore però, una volta innestato, non si ferma, e il passo successivo è “la rottura della relazione” con gli altri. Si capisce in questa luce il successo mediatico del molto italico “Vaffa”, vera bandiera della rottura di ogni relazione con gli altri, con milioni di altri. Ma, forse perché l’invito era molto popolare e con origini dialettiche, il rancore italiano è rimasto per anni fenomeno solo sociale, e in quanto tale riassorbibile nella quotidiana dialettica collettiva. Ma l’odio è sempre dietro l’angolo, quando il rancore tracima, e nel tranello sembra esserci caduta la forza politica che più ha sfruttato il rancore, ma poi ne è rimasta prigioniera, incapace di elaborare i necessari anticorpi interni. Comunque qui in Italia abbiamo consumato la nottata del rancore sociale diffuso e non dovremmo avere una significativa crescita dell’odio collettivo. Ma a meno ottimismo ci inducono altre realtà politiche, europee come mediorientali, dove cresce l’odio collettivo. Qualche analogia con la realtà italiana riecheggia nell’indulgere dei governanti russi alla luttuosa nostalgia per la potenza zarista e sovietica che non c’è più e nella loro voluta aggressività di rottura dei rapporti internazionali. In molti casi siamo al dramma, cioè all’emergere di un diffuso odio collettivo. Non solo a livello di leadership, ma anche in una molecolare diffusione dell’odio fra chi combatte sul campo. Si diceva spesso che “ucraini e russi erano fratelli di lingua e di cultura, ma adesso si odiano”; è la rottura di relazione che sembra destinata a durare per decenni e forse a modificare le radici culturali di quei popoli. Ce ne dovremmo preoccupare unitamente agli eventi bellici; ma non si vedono in azione (neppure nelle chiese) grandi predicatori di pace e di coesione sociale. Non bastano e non basteranno le Ong, quali che siano la loro dimensione e il loro prestigio. Aborto, perché la Corte suprema ha sbagliato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 27 giugno 2022 Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali, piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati La maggioranza dei giudici della Corte suprema americana ha “ridato il potere di regolare o proibire l’interruzione volontaria della gravidanza al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”, come ha scritto nella sua sentenza del 24 giugno scorso. Invece, la minoranza dissenziente ha osservato con amarezza che ora “uno Stato può forzare una donna a portare a termine la gravidanza anche se deve affrontare i più grandi costi personali e familiari, anche se il feto ha le più gravi anomalie o è il frutto di uno stupro o della violenza commessa da un padre su una giovane figlia”. Il presidente della Corte si è dissociato osservando che la maggioranza ha fatto un passo che non era necessario, mentre avrebbe dovuto autolimitarsi. ?La Corte suprema, contestando sé stessa, ha scritto una delle più brutte pagine della storia della giustizia costituzionale e ha messo in crisi il modello che essa ha rappresentato nel mondo. La sentenza che aveva permesso l’aborto, riconosciuto come diritto della donna, era di cinquant’anni fa. Era stata confermata da un’altra sentenza del 1992. I 28 casi citati dalla maggioranza a sostegno della propria tesi, in cui la Corte ha radicalmente modificato il proprio orientamento, si fondavano su precedenti decisioni della Corte stessa. La sentenza e le opinioni concorrenti e dissenzienti mostrano che la Corte americana è divenuta più simile a un Parlamento che a un tribunale: prevalgono gli schieramenti sui ragionamenti; le tesi sono sostenute con acredine e in modo apodittico, senza evitare contrapposizioni e cercare il compromesso (proposto dallo stesso presidente). I tribunali sono solitamente organi collegiali perché lì si deve esercitare l’arte di ascoltare, convincere, cercare accordi, ragionare, ponderare, mostrare l’equilibrio non i muscoli, decidere incrementalmente, aiutando il progresso civile, non opponendovisi o imponendosi ad esso. Questa decisione ha mostrato tutti i difetti della Corte suprema (che hanno contribuito a ridurre della metà la fiducia della popolazione). I suoi giudici hanno solo una provenienza: sono nominati dal presidente, con il consenso del Senato. Una provenienza, quindi, eminentemente politica. Sono nominati a vita e lasciano la carica solo per morte o dimissione. Ma questo consente ai singoli giudici di stabilire quando lasciare libero il posto, in modo che il successore sia nominato da un presidente e da un Senato dello stesso orientamento. La nomina senza durata, che doveva servire ad assicurare l’indipendenza dei giudici, si è rovesciata, diventando un modo per consentire la continuità dell’influenza politica sulla Corte. Infatti, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha nominato una commissione con l’incarico di riesaminare le norme sulla Corte. Il terzo paradosso messo in luce da questa sentenza è più generale. Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali (“judge - made law”), piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati. Questa decisione evidenzia la bontà della soluzione scelta dai costituenti italiani nel decidere come comporre la Corte costituzionale e di quella del sistema politico-costituzionale italiano nell’introdurre nel nostro Paese la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, la Costituzione italiana prevede che i giudici abbiano tre diverse provenienze: siano per un terzo nominati dal presidente della Repubblica, per un altro terzo eletti dal Parlamento e per l’altro terzo dalle supreme magistrature. Quanto alla disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza, ad essa si è arrivati con un processo lento, che ha visto l’intervento prima, nel 1975, della Corte costituzionale; poi del Parlamento nel 1978, con la legge numero 194; poi del popolo con i due referendum del 1981, e, infine, nuovamente della Corte costituzionale con la sentenza numero 35 del 1997. L’”iter” ha coinvolto popolo, Parlamento e Corte costituzionale. L’errore delle forze politiche americane è stato quello di pensare che la disciplina di un tema così sensibile potesse essere lasciata per mezzo secolo soltanto alla decisione della Corte Suprema del 1973. In conclusione, la Corte suprema americana, con questo atto eversivo, rovesciando una sua decisione di mezzo secolo fa e contestando sé stessa, ha ammesso che i giudici non hanno quel ruolo supremo o finale che viene illustrato in tutte le “Law School” americane, perché esso spetta ai rappresentanti dei cinquanta Stati (creando così forti diseguaglianze tra i cittadini appartenenti alle diverse zone del Paese), ed ha anche contribuito alla disgregazione della federazione, stabilendo che una questione tanto importante, su un diritto fondamentale, non va presa a Washington.