Pena e carcere non sono sinonimi di Enrico Bellavia L’Espresso, 26 giugno 2022 Il dibattito è incattivito dalla questione mafia. Che va affrontata con durezza. Ma sovraffollamento e recidiva si contrastano con il ricorso a misure alternative. L’indifferenza che ha accolto la recente offerta referendaria, lo scetticismo che al di là delle tattiche di interesse ha salutato il varo della riforma Cartabia, si nutrono del medesimo sentimento. Ovvero la sostanziale sfiducia nella capacità della istituzione Giustizia di rispondere alle attese della collettività. Colpa di un clima generale di caduta di apprezzamento verso tutto ciò che evoca il Palazzo. Colpa della politica, avviluppata in una crisi di sistema della quale l’agonia di populismi e leaderismi è la manifestazione acuta della patologia. Colpa della magistratura che non ha saputo offrirsi come casa di vetro, depauperando quel capitale di consenso, anche sguaiato, che aveva ottenuto durante l’ondata repressiva degli anni Novanta, intestandosi un compito di palingenesi sociale, in nome di una delega più mediatica che popolare. La vicenda di Luca Palamara, ex presidente dell’associazione nazionale magistrati, sul mercimonio delle nomine e la condanna in primo grado della presidente delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, sul cerchio magico dei gestori dei patrimoni confiscati stanno lì a dare la misura di quanto marcio ci sia ancora da quelle parti. Ma se dici Giustizia dici soprattutto tempo. Perché è l’unica misura della effettività di risposta alle attese. Vale per le vittime e vale ancora di più per gli indagati-imputati. Non è concepibile che occorrano lustri per vedere definita la propria posizione. E per decretare con sentenza di chi è il torto e di chi la ragione. Non c’è alternativa a massicci investimenti in uomini e risorse per sveltire un sistema farraginoso, gravato da una mole di pendenze che rendono utopistica l’obbligatorietà dell’azione penale, dal momento che, come ha scritto l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, un pm ha una mole di processi otto volte superiore rispetto a quella di un collega europeo. E la questione tempo vale anche nel comparto civile, dove soluzioni sono in campo (si attendono i decreti attuativi), per snellire e deflazionare il contenzioso che cresce come un mostro famelico, capace di divorare destini e imprese. In campo penale, a misurare il tempo è anche l’orologio del carcere. Se la qualità di un Paese si misura sulla capacità di reprimere e redimere, il nostro, a ragione galleggia in bassa classifica, come l’Europa ci ricorda almeno dal 2013 (Cedu, sentenza Torreggiani). In un rincorrersi altalenante di pugni di ferro e carezze le nostre carceri sono lo specchio della nostra inadeguatezza. Proviamo a svuotarle con misure deflattive, accompagnate da contumelie e invettive sulla in-effettività della pena e le imbottiamo di detenuti sull’onda di pretese emergenze, frutto della rappresentazione di pericoli che il ceto politico dominante, accarezzando il pelo di una parte del Paese, avverte strumentalmente come tali. È accaduto con le droghe e con l’immigrazione. Con il risultato di vanificare ogni tentativo di far calare l’indice di sovraffollamento per il quale scontiamo un numero di suicidi elevatissimo e significative pronunce europee sui trattamenti inflitti. La privazione della libertà è la pena, non la privazione dell’igiene, delle cure, di pasti decenti, di un ambiente decoroso, la negazione dell’affettività. Per non dire dello scandalo dei bimbi, denunciato da L’Espresso, a cui si è posto rimedio, e dei pazienti psichiatrici in carcere, per i quali c’è ancora molto da fare. Grava sulla serenità del dibattito il peso di opinioni che parlano alla pancia dell’elettorato più che alla testa di una democrazia matura e l’ipoteca del tema mafia che provoca indignate levate di scudi all’insegna del rigorismo, spesso inconcludente. Il numero di detenuti, oggi 55 mila, si abbassa riducendo ulteriormente quello delle fattispecie di reato punite con il carcere. Più di quanto già fatto nel 2016. Dal momento che oggi più della metà dei condannati a vario titolo sta in cella e un terzo per pene inferiori a tre anni. Come ha ricordato Luigi Manconi, da tempo impegnato per il superamento del carcere, si tratta di una percentuale che non ha eguali in Europa. Va colpita quella che uno studioso come Giovanni Fiandaca definisce “l’inflazione penalistica”, ossia “l’eccesso quantitativo di figure di reato nel nostro ordinamento. Una quantità che neanche noi studiosi conosciamo, ci basiamo su stime approssimative che oscillano tra 50mila, 60mila”. Il ricorso a pene alternative e a meccanismi di riparazione del danno avrebbe un effetto sanzionatorio ben più incisivo se solo si smettesse di associare la gattabuia a un sentimento di pacificazione sociale. Non è la cella ma la pena, la risposta di Giustizia. E la sua efficacia. Tanto più che l’obiettivo è la rieducazione del condannato. Presuppone un percorso di recupero per restituire alla società una persona e non un delinquente più incattivito di prima. Basterebbe da solo a illuminare le scelte del Parlamento, il rapporto sulla recidiva, che è di uno a tre. Confrontando il dato di chi ha scontato misure alternative e di chi è stato dentro. E nel confronto con altri Paesi il tasso di recidiva è sensibilmente minore dove c’è meno carcere. Anche il percorso di recupero richiede tempi, modi e personale. E investimenti sulle opportunità. A cominciare dal lavoro. Non ha alcun senso immaginare il carcere per periodi brevi di totale inattività, come ha scritto di recente il Garante Mauro Palma su questo giornale. La questione dell’ergastolo e della sua contraddittorietà rispetto all’obiettivo del recupero, per converso, viene sempre affrontata partendo dalla paura, condivisa e condivisibile, che si spalanchino le porte delle celle per stragisti pluriomicidi che non hanno dato alcun contributo di verità alla ricostruzione delle loro malefatte. Gli ergastolani mafiosi sono 750 su un totale di 1.800. Per loro, a certe condizioni, bisognerebbe avere il coraggio di stabilire una volta per tutte che la loro condizione di reclusi non è negoziabile, se non in cambio di una effettiva dichiarazione di resa. La normativa emergenziale incarnata dal 41 bis non è la vendetta dello Stato alla recrudescenza stragista degli anni Novanta, ma la constatazione che le consorterie mafiose vivono di relazioni e ordini da eseguire, di una fluidità di comunicazioni che vanno recise prima di potere immaginare qualsiasi altra azione di recupero. La minima soglia per iniziare a discutere di ergastolo ostativo dovrebbe essere la piena, completa, esaustiva e riscontrata ammissione delle proprie responsabilità. E una convinta, reale, riparazione del danno compiuto a cui fa riferimento Fiammetta Borsellino nell’intervista di Piero Melati. Una operazione di verità innanzitutto che ribalta il piano sul quale si è instradata la discussione sul punto. Perché è il condannato che deve dimostrare di essere cambiato e non lo Stato. Diverso l’ambito degli ergastolani comuni per i quali le maglie dovrebbero ulteriormente allentarsi. Venti o trent’anni sono una vita. Un lasso di tempo così ampio in cui è possibile il cambiamento. Se la pena è l’ammontare del proprio debito, questo deve potersi estinguere. Dedicato a chi vuol buttare via la chiave di Michele Brambilla Il Resto del Carlino, 26 giugno 2022 Che marcisca in galera! Quante volte sentiamo un’esclamazione del genere? Ecco, vorrei rassicurare il nutrito plotone dei giustizieri: in cella si marcisce davvero. Si resta dentro ventidue ore al giorno, in spazi stretti e lasciamo perdere le condizioni igieniche: anche il pranzo e la cena si consumano in cella, le tavolate dei detenuti che mangiano insieme sono roba da film americani. Soprattutto, in cella non si fa niente. Niente. Il tempo scorre inutilmente, senza significato. E allora: come volete che si senta un essere umano che si trova a vivere questa condizione? Bastano pochi mesi per abbrutirsi per sempre. Intanto, così trattato, il detenuto si convince di essere più vittima che colpevole: e quindi non si rende conto del male commesso. Pensa al male che patisce lui e si ritiene in credito, non in debito, con la società. Poi, quando esce di galera, cosa fa? Ha buttato via il tempo, non ha imparato niente, si sente guardato con diffidenza - anzi, evitato - da tutti, trovare un lavoro è quasi impossibile. Il risentimento cresce. E si torna a delinquere. Ecco perché la recidiva in Italia è così alta: ufficialmente intorno al 70 per cento, in realtà ampiamente oltre il 90, perché molti reati compiuti da ex detenuti non vengono scoperti e la statistica viene falsata. A che cosa serve tutto questo? Forse placa la sete di vendetta ma non serve a nessuno, neanche a chi grida “e che si butti via la chiave” in nome della sicurezza, perché anzi, al contrario, la società diventa così sempre più insicura. L’Italia è tragicamente indietro nell’adempimento di ciò che è scritto nella sua Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E così ci si affida al cuore degli uomini di buona volontà. Ieri mattina a Bologna, nell’aula bunker del carcere della Dozza, si è parlato dei dieci anni della Fid (Fare Impresa in Dozza): un’azienda vera, nata dall’unione di tre concorrenti - GD, IMA e Marchesini Group - che hanno portato una parte della loro produzione all’interno del carcere. E così ci sono detenuti che lavorano, addestrati da pensionati e assunti in regola: pagano le tasse, mandano i soldi a casa e quando escono hanno un lavoro e un futuro. E la recidiva crolla. Troppo spesso si dimentica che la privazione della libertà è già essa stessa la pena: non bisogna aggiungere la privazione della speranza. Le carceri non vanno abolite, ma bisogna costruirne di dignitose di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 giugno 2022 Da decenni si discute di come svuotare le carceri, anziché costruirne di nuove. Mi pare che sul tema si confrontino due retoriche. Quella rigorista, tipo “facciamolo marcire in prigione” e “chiudiamolo in cella e gettiamo la chiave”. E quella garantista, per cui il carcere sarebbe una punizione medievale, una crudeltà insopportabile, un retaggio del passato. È evidente che nessuno deve marcire, e non ci sono chiavi che possano essere buttate. È meno evidente, invece, che il rifiuto del carcere è un altro aspetto della tipica mentalità italiana del rifiuto dello Stato, percepito come “altro” rispetto a noi se non come nemico; per cui il Palazzo di Giustizia diventa il Palazzaccio, il poliziotto lo sbirro, l’agente del fisco lo sceriffo di Nottingham. Il carcere serve fondamentalmente a tre cose. Impedire a una persona potenzialmente pericolosa di nuocere agli altri (non a caso il referendum per abolire il rischio di reiterazione del reato come motivo per la carcerazione preventiva non ha incontrato il favore popolare). Punire i reati, se possibile prevenirli con la deterrenza. E recuperare il detenuto, trasmettendogli valori, insegnandogli un lavoro, reinserendolo nella società. Le carceri italiane rischiano di fallire tutti e tre gli obiettivi, in particolare il terzo. Per il recupero dei detenuti, occorre che le carceri siano luoghi dove si possa vivere dignitosamente; questa dovrebbe essere la priorità, non “svuotare le galere”, a rischio e pericolo delle potenziali vittime che stanno fuori e non hanno fatto nulla di male. Purtroppo, molte carceri italiane sono fatiscenti. Qualche tempo fa sono andato a presentare un libro a Regina Coeli: un carcere bene amministrato, dove i detenuti hanno biblioteche e laboratori; ma che senso ha una prigione nel cuore di Roma, o nel caso di San Vittore nel cuore di Milano? Gli edifici storici andrebbero valorizzati, nell’interesse della collettività, e i detenuti andrebbero recuperati in carceri moderne. Se non ci pensiamo ora, che abbiamo risorse da spendere, quando lo faremo? Sarebbero soldi investiti meglio rispetto a quelli del Super-bonus, fonte di super-truffe; così come è una truffa allo Stato pure la speculazione che in poche settimane ha riportato i prezzi del carburante oltre i due euro al litro, là dove erano quando il governo ha tagliato le accise. Giustizia, la riforma che non piace a nessuno di Simone Alliva L’Espresso, 26 giugno 2022 “Vendetta dei politici sui magistrati”, “No, doveva essere più drastica”. Csm, pagelle, fuori ruolo. Giudici e pm rilanciano l’allarme, sostenendo si tratti di una mossa della politica per controllarli. Gli avvocati invece chiedevano interventi più decisi. “Un disegno di legge di riforma articolato e ampiamente condiviso”. Sono le parole della ministra Marta Cartabia, pronunciate in aula al Senato prima dell’inizio delle dichiarazioni di voto sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Parole che non trovano eco nelle stanze di giustizia italiane. Sulla riforma l’Unione camere penali è tiepida (“lontana dalle esigenze reali”), l’Associazione nazionale magistrati è contraria, con i togati che la bollano come pericolosa. Solo David Ermini, vice-presidente del Csm, la elogia. Insomma, la riforma invocata, voluta, attesa da tutti - ora che c’è, non piace a nessuno. “Non solo non risolve i problemi della giustizia ma li aggrava”. Sebastiano Ardita, oggi al Csm, per anni coordinatore di delicate indagini antimafia fra Catania e Messina, disegna con voce calma e chiara lo scenario post-Cartabia. “Si consolida un assetto di potere che vede aumentare la soggezione dei magistrati rispetto alle loro gerarchie ed anche rispetto alla politica”. È un gioco delle parti, spiega Ardita, una messa in scena dove la politica e “il Sistema” interpretano i propri ruoli: “La politica finge di attaccare il sistema delle correnti e brandisce lo scandalo Palamara come argomento per colpire tutti i magistrati, ma non certo per colpire le élite, uniche responsabili degli scandali e del malgoverno interno. In realtà il potere non ha nessun interesse a che le correnti scompaiano, perché il sistema delle correnti garantisce un modello verticistico di governo della magistratura, che rappresenta un vertice con cui si può “dialogare” e che indirettamente limita l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. Una riforma ambigua e bifronte: “Si rafforza il sistema di potere per continuare a dialogare con i vertici della magistratura da una posizione di forza. Il sorteggio e la rinuncia alla gerarchia interna rappresenterebbero invece un modello orizzontale - che poi era quello voluto dalla Costituzione - nel quale l’indipendenza e l’autonomia del singolo magistrato sarebbe massima, specialmente se garantita da un organo di autogoverno formato senza la mediazione dei gruppi di potere interno. Ma questa rimane una utopia, perché la politica e tutti i poteri forti hanno paura di una magistratura orizzontale, realmente autonoma ed incontrollabile”. Con un certo scetticismo sembra ribattere Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane. Ironizza: “Ma certo, tutte le riforme che riguardano la magistratura e che non siano scritte dalla magistratura medesima sono rappresentate come limitative. Ma di cosa parliamo? Anzi per la prima volta la politica alza la testa e riacquisisce una sua indipendenza”. Il presidente di Ucpi, anche se non celebra la “rivoluzione” Cartabia, si aggrappa a quelli che definisce piccoli passi ma importanti: “Pensiamo alle valutazioni di professionalità. Il fascicolo delle performance dei magistrati si muove sulla strada giusta. Certo, si può fare meglio. Anche sul tema dei fuori ruolo, c’è un primo riconoscimento: la norma prevede che si debba stare in buona sostanza fermi un anno, dopo un periodo di fuori ruolo, e non si possano acquisire incarichi direttivi per i due anni successivi. Naturalmente noi avremmo immaginato soluzioni più drastiche, abbiamo idee più radicali di riforma sugli assetti ordinamentali”. Si può fare di meglio ma è già qualcosa, è la linea. Che però non incrocia il tema che da anni porta al centro del dibattito politico italiano il Csm, accusato di essere eccessivamente influenzato dalle cosiddette “correnti”, ossia le aggregazioni tra i vari magistrati con una linea politica comune: “Non mi pare che la riforma potrà produrre alcunché da questo punto di vista. Vale per tutte le riforme dei sistemi elettorali, si continua a inseguire l’illusione che il sistema elettorale possa risolvere problemi che sono strutturali e culturali. Bisogna comunque riconoscere che la riforma Cartabia è stata varata da una maggioranza che reca dentro di sé sui temi della giustizia penale le più profonde diversità, quindi diciamo che è stato ottenuto il massimo risultato possibile in queste condizioni”, dice Caiazza. Nel linguaggio obliquo e prudentissimo del mondo della giustizia, il gioco di sponda fra avvocati e togati è per una volta chiaro: questa riforma non convince. A farla a pezzi, parlando di riforma “inquietante” ci pensa il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia: “Ci sono alcuni aspetti rilevanti che sono deludenti. Siamo consapevoli che una riforma non può, da sola, arginare il correntismo, ma può creare un percorso interno anche alla magistratura per superare quei guasti. In questo senso non è adeguata: invece di stemperare il carrierismo tende ad accentuarlo, la carriera doveva essere in qualche modo ai margini e invece diventa centrale nella vita professionale dei magistrati. E ancora le pagelle che incentivano la spinta alla competizione e quindi al carrierismo. La legge elettorale modifica poco, il correntismo è stato figlio anche delle speranze di carriera. Non c’è dubbio che questa riforma limiti l’autonomia della magistratura. Ci sono segnali non tranquillizzanti: per esempio il potere del ministro di esprimere pareri consultivi sull’organizzazione degli uffici di procura. In un momento in cui la legge introduce criteri di priorità, anche dettati dal legislatore, inquieta questo segnale che dà la legge di riservare al ministro un potere di consultazione nella procedura di approvazione dei programmi organizzativi. Un passo forse non felicissimo che rischia di portare gli uffici di procura sotto l’area di vigilanza del potere politico”. Ma allora come si fa? “Questa è anche una legge di delega, bisognerà scrivere i decreti delegati. Chiederemo in quella sede al governo quell’attenzione che non ci ha riservato e che non ha riservato a questi profili critici nella fase della delega. Questo è quello che possiamo fare per ora. Poi si vedrà. Insistiamo nella speranza che ci ascolti”. Speranza, dunque, che qualcosa cambi. E lo spiraglio c’è: “Miglioramenti o correzioni in un secondo tempo sono sempre possibili”, spiega David Ermini, vice-presidente del Csm che della riforma contestatissima dice: “Completa un percorso di cambiamento e rafforza il Consiglio superiore in quanto istituzione. Se ora c’è la possibilità di rinnovare il Consiglio con regole nuove, se ora ci sono le premesse per un deciso mutamento è anche perché in questi anni, grazie alla saggezza del presidente Mattarella, abbiamo garantito la tenuta e il funzionamento del Consiglio resistendo a pressioni forti e continue per un suo scioglimento anticipato”. Ermini nega intenti punitivi nei confronti della magistratura: “Anche se capisco che alcune disposizioni, come ad esempio l’accentuazione della gerarchizzazione delle procure, il fascicolo di performance del magistrato o alcuni interventi in materia disciplinare, qualche perplessità la possano generare. Ma oltre la riforma dell’ordinamento giudiziario, credo che l’attenzione debba concentrarsi sulla riforma del processo penale e, in particolare, sull’istituto dell’improcedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di riportare la durata dei processi su standard europei, ma ciò richiede, specie per le corti d’Appello, un aumento significativo dei magistrati. In pianta organica mancano 1.300 magistrati, sono posti che andrebbero coperti con urgenza; occorre adottare tutte le misure organizzative necessarie per fare in modo che gli assai ambiziosi obiettivi del Pnrr possano essere realisticamente raggiunti”. Il ritornello del vice-presidente, “ce lo chiede l’Europa”, non convince Nino Di Matteo, ex pm del processo Trattativa Stato-Mafia e ora consigliere del Csm: “Questa litania del Pnrr e dell’Europa è un alibi. L’Europa non ci chiede che la politica controlli il pubblico ministero, non ci chiede pubblici ministeri con carriere diverse dai giudici, non ci chiede pubblici ministeri che debbano essere valutati anche dagli avvocati. Ci chiede di andare nella direzione di una più tempestiva definizione dei processi. Su questo non si fa nulla. Con questa riforma gli organici dei magistrati e del personale amministrativo rimangono sguarniti, si creano condizioni perché i processi col meccanismo delle improcedibilità vadano improvvisamente in fumo vanificando gli sforzi anche di anni di investigatori, magistrati, avvocati e il diritto di tutti i cittadini a una verità processuale”. Il magistrato di Palermo senza mezzi termini definisce la riforma Cartabia “una rivalsa nei confronti della magistratura di una certa politica. Si vogliono regolare i conti con quella parte della magistratura che in passato ha saputo alzare il tiro e occuparsi di indagini e processi nei confronti della criminalità dei potenti”. Dannosa, ripete più volte Di Matteo: “Dannosa per tanti altri aspetti che riguardano l’ordinamento giudiziario: renderanno sia i giudici che i pm meno liberi, meno indipendenti, più burocrati e più attenti alle statistiche, a non dispiacere nessuno per fare carriera: i propri dirigenti, gli avvocati. Questa riforma prevede anche che i progetti organizzativi delle procure della Repubblica, cioè il programma di lavoro di ogni procura della Repubblica su base triennale, debbano essere trasmessi non solo al Csm ma anche al ministro, che potrà fare delle osservazioni in merito. Un chiaro sintomo della volontà della politica di controllare l’attività delle procure”. Gratteri insiste: la riforma Cartabia rafforza le correnti di Davide Varì Il Dubbio, 26 giugno 2022 “Si creeranno due grandi poli di destra e sinistra, e quindi non risolveremo anzi si acuirà il problema delle correnti”. “Io penso che questa riforma sul Csm abbia rafforzato le correnti”. Ospite di Trame, il Festival di libri sulle mafie che si tiene ogni anno a Lamezia Terme, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, torna ad attaccare la riforma Cartabia, convinto che “abbia creato l’effetto opposto rispetto a quello che si è detto di volere”, cioè limitare il correntismo. Al contrario, dice il magistrato antimafia, “si creeranno due grandi poli di destra e sinistra, e quindi non risolveremo anzi si acuirà il problema delle correnti”. Che a Gratteri non piaccia l’azione della ministra della Giustizia, né dell’intero governo, in materia di contrasto alla criminalità organizzata è cosa nota, ma il procuratore di Catanzaro ci tiene a precisarlo a ogni occasione possibile. “Ho sempre detto che questo tipo di riforme che si stanno facendo da un anno a questa parte non hanno nulla a che vedere e non risolvono i problemi i bisogni di giustizia e quindi della gente. Sicuramente queste riforme non miglioreranno la qualità della vita perché amministrare giustizia vuol dire anche questo”, dice il magistrato. “Purtroppo, l’improcedibilità l’abbiamo definita e sintetizzata come una ghigliottina, cioè come un qualcosa che non accelera la celebrazione dei processi in appello, anzi li stoppa, e quindi anche se c’è stata una sentenza di primo grado di condanna, se in appello non si concluderà entro due anni, è come se non ci fosse stata”, aggiunge, criticando l’intera riforma della giustizia. Gratteri del resto è uomo estraneo alle correnti. Probabilmente proprio questo elemento ha pesato sulla mancata nomina alla Procura nazionale antimafia, un posto che l’investigatore calabrese considerava probabilmente come la naturale chiusura di una carriera brillante, ma che il Csm gli ha negato. E proprio per scongiurare in futuro nuove delusioni di questa portata, negli ultimi tempi Gratteri ha deciso di bypassare il “sistema” togato e comunicare direttamente con l’opinione pubblica, col popolo, l’unico interlocutore a cui il magistrato sente di dover dar conto. Fiammetta: “Non partecipo agli anniversari di via D’Amelio. Mio padre fu lasciato solo e tradito” di Piero Melati L’Espresso, 26 giugno 2022 La figlia di Paolo Borsellino diserterà le cerimonie. E dice la sua su magistrati, depistaggi e riforme??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????. “Una parte si è appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me”. Il trentennale della strage di via D’Amelio per Fiammetta Borsellino è cominciato così. Una mattina si è affacciata al balcone della sua abitazione, nel quartiere palermitano della Kalsa, lo stesso dove suo padre è nato e cresciuto. Sul muro di fronte, come una apparizione, ha visto un murales a colori che ritraeva il giudice Paolo Borsellino, in giacca e cravatta, con la mano sinistra in tasca e con la destra a reggere quella borsa che è stata sottratta il 19 luglio del 1992 dalla sua auto blindata ancora in fiamme, dopo l’esplosione dell’autobomba. È la stessa borsa dove c’era la famosa “agenda rossa”, nella quale il giudice annotava le cose più segrete. Quella borsa verrà poi restituita alla famiglia, ma priva dell’agenda, scomparsa per sempre nel gorgo dei misteri d’Italia. Quel murales, il giorno prima non c’era. “Mi è venuto un colpo, nel vedermelo davanti all’improvviso”, racconta Fiammetta. Cosa era accaduto? Per una coincidenza, oppure per uno strano incrocio del destino, il writer TvBoy lo aveva realizzato la notte precedente, ignorando di farlo proprio sotto la casa della figlia del giudice. Fiammetta si è poi messa sulle sue tracce e i due si sono infine conosciuti. Il murales è ben riuscito: Paolo Borsellino, con una espressione seria ma serena, sembra osservare tutto quello che è accaduto nei tre decenni successivi al suo sacrificio. Le cerimonie legate al trentennale delle stragi siciliane sono in pieno svolgimento... “La verità? Provo un grande disagio. Penso che una parte si sia appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Cinque anni fa avevo parlato per la prima volta pubblicamente, in occasione della diretta Rai sul venticinquennale. Avevamo deciso, con i miei fratelli Lucia e Manfredi, di riprenderci il diritto alla parola. Denunciai, sempre per la prima volta pubblicamente, la solitudine di mio padre, il tradimento da parte dei suoi colleghi magistrati. Avevo espresso un altro punto di vista. Ho sentito il gelo intorno a me. Nei giorni successivi mi si rispose che i familiari delle vittime sono privi di qualsiasi forma di prudenza verbale. Invece del dialogo, ci fu immediatamente una chiusura”. Da allora sei considerata “verbalmente imprudente”? “Ho deciso di andare avanti per la mia strada, altrimenti si rischia di farsene una malattia”. In questi anni ci siamo incontrati tante volte. Mi hai sempre detto che alla tv e alle interviste sui giornali preferisci parlare nelle scuole. “È l’unico posto dove mi trovo a mio agio a raccontare di papà. Solo il contatto con menti pure, disinteressate, senza secondi fini, mi dà serenità”. Quest’anno non parteciperai a nessuna cerimonia ufficiale? “Mi impegno ogni giorno dell’anno. Non mi sento obbligata dagli anniversari. L’enormità delle richieste di partecipazione… alla fine provo quasi un senso di violenza… È giusto che le cerimonie vengano fatte, ma è più giusto per gli altri. Per noi familiari non può essere che si prema un bottone e si facciano partire i ricordi. Molti non capiscono quanto per noi si tratti ancora di una cosa molto seria e dolorosa. Il bisogno che abbiamo è quello del raccoglimento, del silenzio, dell’evitare le apparizioni”. Tranne che nelle scuole. Quanti incontri hai fatto? “Fino a tre in una settimana. Lontana dai riflettori. Al massimo finisco nelle pagine Facebook dell’istituto o nei giornalini scolastici. Ci credi? Non mi sono mai rivista in uno schermo, quando sono apparsa in tv. Non mi sono mai riletta sui giornali quando ho rilasciato interviste”. A quante cerimonie ufficiali sei andata in questi trent’anni? “L’unica cerimonia ufficiale è stata quella promossa da Claudia Loi, la sorella di Emanuela, la prima agente della polizia italiana morta in servizio proprio in via D’Amelio, scortando mio padre. E un’altra volta sono andata a Marsala, dove mio padre è stato procuratore, quando hanno dedicato una piazza proprio a Emanuela”. Eppure si dice che cerimonie e anniversari servano a coltivare la memoria… “Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere. La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti. Mio padre diceva sempre che molte cose non si possono provare, tuttavia se ne possono trarre conseguenze. All’indomani di via D’Amelio, mia madre aveva rifiutato i funerali di Stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di Stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto. Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole”. Insisti sempre sul tradimento nei confronti di tuo padre e di Giovanni Falcone… “Dopo trent’anni resta chiarissima la percezione della grande solitudine in cui sono stati lasciati. Una solitudine che è rimasta anche dopo le stragi, sempre da parte dei colleghi. Le inchieste che sono state svolte hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto da magistrati e inquirenti. Il percorso verso la verità è stato precluso dai colleghi di mio padre e di Falcone. Hanno remato contro. Per questo parlo non solo di solitudine, ma anche di tradimento”. Nei vari processi avete insistito sul dossier mafia-appalti, su cui tuo padre e Falcone volevano lavorare e che invece è stato archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via D’Amelio... “Quel dossier avrà avuto molti limiti, ma oggi risulta che mio padre era ben intenzionato a lavorarci. E per quanti limiti potesse avere, se fosse finito nelle mani di mio padre, come lui avrebbe voluto e come gli è stato impedito, non ho dubbi che avrebbe dato risultati”. Attorno a quel dossier lo stesso Falcone, in due convegni pubblici e in un intervento relativo ai “paradisi fiscali”, aveva fatto riferimento alla “mafia che si è quotata in Borsa”. Il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha poi detto che Tangentopoli a Milano era partita perché Falcone e Borsellino gli avevano riferito quanto detto dal superpentito Tommaso Buscetta: i miliardi del traffico internazionale di droga dalla Sicilia erano stati riciclati e investiti al Nord. E aveva parlato a questo proposito della holding di Raul Gardini, l’imprenditore suicidatosi nel 1993… “La pista dei soldi. Non risulta che nei tre decenni successivi alle stragi qualcuno se ne sia mai occupato”. Chissà dove saranno finiti tutti quei narco-miliardi del traffico di droga… “Dalla mafia il tradimento te lo aspetti. Ma non te lo aspetti dalle istituzioni. Per noi figli di Borsellino questo è stato motivo di una grande rottura. Ci sono magistrati che stanno lavorando e che lo fanno bene, ma per vederlo si è dovuti arrivare al processo Borsellino quater, che doveva essere un punto di arrivo e non di partenza, come invece è stato, e dopo un iter tortuosissimo costato anni e anni. Se tocchi certi poteri, si arena tutto quanto. Neppure le procure più volenterose possono fare qualcosa, se poi anche i testimoni pensano solo a difendere il loro operato, ma non danno nessun contributo per farci comprendere cosa davvero non ha funzionato nel sistema”. All’indomani del venticinquennale delle stragi, tu hai formulato tredici domande per avere verità su via D’Amelio. Hai avuto risposte? “Nessuna”. Qualche istituzione dello Stato ha chiesto scusa alla famiglia Borsellino per il depistaggio? “No, solo io ho chiesto scusa agli innocenti condannati ingiustamente. Non sono mai stata avvicinata da nessun addetto ai lavori per un qualsivoglia chiarimento, neppure sul piano personale e umano. In questo c’è stata molta disumanità. Anche quando ho espresso la mia necessità di compiere un percorso di giustizia compensativa o riparativa, sono stata isolata”. Intendi quando hai deciso di incontrate in carcere i fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via D’Amelio? “Sì, l’avevo fatto sull’onda di una urgenza emotiva, che credo sia stata la stessa che mi aveva spinto a parlare per la prima volta”. Oggi c’è una riforma della giustizia all’ordine del giorno... “Non sono una tecnica, ma penso che quando si varano delle belle e nuove prescrizioni normative, poi resta sempre un altro modo in cui vengono date le risposte concrete. Io avevo deciso di intraprendere quel percorso che mi ha portato a incontrare in carcere i fratelli Graviano. Ma mi sono stati posti ostacoli non motivati di ogni tipo. Tutte le procure competenti avevano dato parere negativo. Nessun addetto ai lavori mi ha mai spiegato il perché”. Però, alla fine, sei riuscita a incontrarli... “Sì, ma dopo che l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha voluto incontrarmi riservatamente, per convincermi a rinunciare. L’ho ritenuta una intromissione nell’ambito di un percorso dentro il proprio dolore che non compete a quel tipo di istituzioni”. Che percorso avevi voluto intraprendere? “Ci si deve fare carico di qualcosa e poi gestirla anche con degli aiuti. Questo è previsto dalla giustizia compensativa. Ma dalle istituzioni ho avuto solo disprezzo. Così ho cercato aiuto da sola presso quelle persone che avevano fatto un analogo cammino, anche se in altri ambiti, come quello del terrorismo. Tra gli altri, la figlia di Aldo Moro”. Ma cosa ti ha spinto a incontrare i carnefici di tuo padre? “A volte l’opinione pubblica considera noi figli di Borsellino quelli forti, quasi dovessimo avere nelle cellule il coraggio di papà. Tante volte siamo noi a dover consolare gli altri. In realtà, la nostra vicenda è stata estremamente triste e circondata da una grande miseria umana. A un certo punto abbiamo reagito, spinti da una esigenza di verità. Personalmente ho avuto una urgenza emotiva di denunciare l’ingiustizia, altrimenti non avrei trovato la forza di raccontare la storia di mio padre. Senza questa spinta non avrei avuto neppure la percezione della verità e delle dinamiche per insabbiarla. E non mi sarei accorta che quelle dinamiche avevano dei volti e dei nomi. La mia sarebbe stata la generica denuncia di un depistaggio, e in quanto generica sarebbe stata meno efficace. Una parte di questo percorso ha comportato anche incontrare chi ci aveva fatto del male”. Cosa ti è rimasto di questa esperienza? “Il sistema carcerario è incapace di generare percorsi di cambiamento. Gli incontri tra detenuti e vittime, invece, possono innescare tentativi nuovi. Altrimenti il malessere collettivo nelle carceri diventa una bomba a orologeria, generando solo suicidi e recidività. Lo stesso carcere duro per i mafiosi non è più adeguato, se non favorisce percorsi di cambiamento, che non devono passare necessariamente per una collaborazione. È un’altra idea di giustizia, che ho imparato da mio padre”. Ponte Morandi, l’ultima beffa: 750 mila euro per avere gli atti di Giuseppe Filetto La Repubblica, 26 giugno 2022 Si appellano al “diritto alla difesa negato”. Tanto da averlo sollevato già in fase di udienza preliminare. Gli avvocati coinvolti nel mega-processo sul crollo del Ponte Morandi puntano l’indice su quei 750mila euro di diritti di segreteria da versare al Ministero della Giustizia per accedere a tutti gli atti depositati in tribunale. Un fascicolo da 64 terabyte, ovvero 34 miliardi di file indicizzati. Un buon cd può contenere 10 giga, un millesimo di tera. Finora e a pochi giorni dell’inizio del processo (il 7 luglio prossimo) nessuno dei difensori ha acquisito la montagna di documenti cartacei, file, programmi informatici. “Il costo forse è molto di più dei 750 mila euro - dice Enrico Scopesi, presidente della Camera Penale di Genova e difensore di uno degli imputati (dirigente di Autostrade): è uno dei tanti problemi di questo processo, c’è una infinità di dati di difficile accesso, la cui estrazione è costosissima e tanti nostri clienti non possono farlo”. Inoltre, necessitano speciali programmi di lettura, software. Gli stessi pm Massimo Terrile e Walter Cotugno in sede di udienza preliminare hanno ammesso di non essere a conoscenza di tutti i dati contenuti nel cervellone elettronico. La “bestia”, costato un milione e 800mila euro, costruito da una società londinese che lavora anche per Nasa e Fbi, acquistato dalla Procura e utilizzato dagli investigatori del Primo Gruppo della Gdf di Genova. In un’intera stanza della caserma Testero adibita a sala informatica è contenuto tutto il materiale cartaceo scannerizzato, le email, i progetti, i programmi di elaborazione: quanto sequestrato dalle Fiamme Gialle in 4 anni di indagine scattata il 14 agosto 2018, il giorno della strage di 43 persone. Tutto, versando le somme per diritti di segreteria, è stato messo a disposizione delle parti. Sia dei 59 imputati di omicidio colposo plurimo, falso, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti; sia delle parti civili che delle parti offese. Va ricordato, però, che Autostrade e Spea, le due società già imputate per la responsabilità amministrativa, sono ormai fuori dal processo: hanno patteggiato, versando 30 milioni di euro. E gli avvocati dicono: “Le uniche che avrebbero potuto versare 750mila euro per accedere agli atti”. Cattivi rapporti di vicinato: quando la conflittualità assume rilevanza penale? di Stefania Colombo Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2022 È noto come i rapporti di vicinato non siano semplici da gestire: liti ed incomprensioni, anche per i motivi più futili, sono infatti all’ordine del giorno. Ciò che non tutti sanno, però, è che quello che in apparenza può sembrare un semplice dispetto tra vicini talvolta assume i caratteri di un reato, quello di Violenza Privata. Esaminiamone i tratti salienti. L’art. 610 del Codice Penale prevede che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualche cosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”. La pena è aumentata nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse con armi, oppure da una persona travisata o da più persone riunite, o con uno scritto simbolico, oppure valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o soltanto supposte. Il reato è integrato ogni qualvolta la condotta dell’agente, connotata da violenza o da minaccia, sia idonea a produrre una coazione del soggetto passivo, che resta così privato della libertà di determinarsi in piena autonomia. Nel concetto di violenza la giurisprudenza include sia quella cosiddetta “propria”, che si estrinseca con l’impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, sia quella “impropria”, comprensiva cioè di ogni altra condotta, non riconducibile all’uso di un mezzo fisico, che sia comunque diretta a raggiungere l’effetto di coazione. Quanto alla minaccia, ovvero la prospettazione di un male ingiusto, la Suprema Corte ha recentemente chiarito che, ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente “un qualsiasi comportamento od atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato a ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa” (Cassazione Penale n.16149/2022). Chiariti gli elementi costitutivi del reato, esaminiamo alcuni recenti arresti giurisprudenziali in cui, proprio in abito condominiale, sono stati ravvisati comportamenti penalmente rilevanti. Ad esempio, è stata giudicata illecita la condotta di un soggetto che aveva intenzionalmente parcheggiato la propria autovettura all’interno del cortile condominiale in modo tale da impedire l’uscita di quella della vittima, opponendo un netto rifiuto, nonostante le ripetute sollecitazioni, a rimuovere il proprio mezzo. (Cassazione Penale n. 7592/2011). Ancora, la Cassazione ha ritenuto integrato il reato di violenza privata nella condotta di colui che aveva occupato il parcheggio riservato ad una persona invalida, impedendo a quest’ultima di accedervi e, quindi, privandola della libertà di autodeterminazione e di azione (Cassazione Penale n. 17794/2017). Tale indirizzo interpretativo è stato confermato anche con la sentenza n.1912/2018, con cui la Suprema Corte ha conferito rilevanza penale alla condotta di un condomino che, parcheggiando malamente la propria autovettura, aveva impedito al vicino ogni manovra. È sempre la Cassazione ad allargare l’applicazione del reato di violenza privata al caso in cui un automobilista parcheggi la propria vettura rasente allo sportello di un’altra accanto, in modo da impedire al conducente di quest’ultima di uscire o entrare nell’abitacolo (Cassazione Penale n. n. 53978/2017). Lo stesso dicasi nei casi in cui un soggetto collochi la propria auto dietro quella della persona offesa e opponga un netto rifiuto all’invito di quest’ultima di spostarla (Cassazione Penale n. 24614/2005). Quanto all’elemento soggettivo, la condotta del soggetto agente, per assumere rilevanza penale, deve essere sorretta dal dolo generico, ovvero la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa. Per valutare l’eventuale rilevanza penale di condotte che si assumono lesive è quindi fondamentale affidarsi all’esperienza di un legale. Il reato di violenza privata, infatti, è proseguibile d’ufficio: una volta avviata, l’azione penale non è revocabile e non può essere interrotta. Bologna. “Fare impresa in Dozza”, in dieci anni 50 detenuti hanno trovato un lavoro di Francesco Betrò Corriere di Bologna, 26 giugno 2022 Chi partecipa ha un tasso di recidiva molto basso, al 14%. Ma per l’arcivescovo Zuppi “la società civile deve fare di più”. L’impresa sociale Fid, festeggia i suoi primi dieci anni. Oggi lavorano nel progetto circa 15 detenuti della Dozza, in totale dal 2012 sono stati 50. La direttrice del penitenziario: “Più di un lavoro, è un collegamento tra dentro e fuori”. Negli ultimi anni si è aggiunta Faac - con l’obiettivo di fornire, attraverso la realizzazione di lavori di carpenteria, assemblaggio e montaggio di componenti meccanici, un’opportunità di lavoro stabile e duraturo. Non solo dentro il carcere, ma anche fuori. Non tutti i detenuti, però, possono prendervi parte: “normalmente - spiega il presidente del Fid Maurizio Marchesini - scegliamo persone con pene abbastanza lunghe, che poi spesso hanno dei benifici e quindi possono uscire in regime di semi-libertà prima della scadenza della pena. In questo momento abbiamo tra le 14 e le 15 persone. In tutto, dall’inizio abbiamo portato circa 50 persone al lavoro”. Numeri importanti, ma che da soli non possono bastare. La pensa così l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, intervenuto all’incontro insieme a Mauro Palma, Garante azionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo Zuppi “ci sono troppe poche iniziative, non ci dovrebbe essere un solo detenuto che non abbia un progetto su di sé perché altrimenti il carcere è soltanto punitivo. La società civile deve permettere una funzionalità migliore del sistema carcerario. Fa parte di una responsabilità comune. Dobbiamo ricordarci che con poco possiamo fare molto e tutti dobbiamo fare qualcosa”. Non solo dentro il carcere, ma anche quando i detenuti escono perché, dice il presidente di Fid, “le vere difficoltà sono quando i ragazzi escono: noi li assumiamo nella filiera delle nostre imprese, però dopo tanti anni il mondo è cambiato”. Oltre allo stigma che la società gli affibbia in quanto ex detenuti, queste persone spesso perdono le reti sociali che avevano prima di entrare in carcere, come amici e famiglia, e rischiano di trovarsi senza una casa. Nonostante ciò, anche grazie all’inserimento lavorativo, il tasso di recidiva di chi sta dentro Fid è molto basso, “il 14%” secondo Marchesini. Come ha ricordato padre Giovanni Mengoli, presidente del Gruppo Ceis, durante l’inaugurazione della Casa di accoglienza Don Giuseppe Nozzi in zona Corticella, “le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva del reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16-20% contro il 66-70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza come questa”. Anche perché “con l’accoglienza in misura alternativa si ottiene una drastica riduzione dei costi, pari a circa due terzi rispetto alla detenzione”. All’inaugurazione c’era anche il sindaco Matteo Lepore: “Questo è un luogo di vita e di cittadinanza. Non offre solo un tetto alle persone ma la possibilità di incontrarsi e lavorare insieme. Grazie per questa realtà a cui date vita”. Bologna. Inaugurata Casa d’accoglienza per detenuti in misura alternativa ansa.it, 26 giugno 2022 Presidente Ceis: Regione la inserisca nel sistema servizi sociali. Apertura ufficiale, anche se la sua attività è cominciata da alcuni mesi, per la Casa di accoglienza “Don Giuseppe Nozzi”, che si trova Bologna, in via del Tuscolano. Si tratta di una struttura per detenuti in misura alternativa al carcere, dove opera personale del Ceis (Centro di Solidarietà), in collaborazione con la “Fraternità Tuscolano 99”. Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato, tra gli altri, il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, l’arcivescovo della città e presidente Cei, cardinale Matteo Zuppi, e per il Ceis padre Giovanni Mengoli, presidente del gruppo, affiancato da padre Giuliano Stenico, presidente Fondazione Ceis. “Questa casa di accoglienza è anche bella, insisto su questo aspetto. Un luogo bello rende più bello chi lo abita”, ha detto Zuppi. Per padre Mengoli “le cifre ormai note dell’abbattimento della recidiva del reato per chi sconta la pena in misura alternativa (il 16-20% contro il 66-70% circa di chi sconta la pena interamente in carcere) dovrebbero motivare la realizzazione di opportunità di accoglienza atte a favorire la concessione di misure alternative. La Regione - ha sottolineato ancora - dovrebbe dare la possibilità di inserire nel sistema dei servizi sociali e sanitari realtà come Casa Don Nozzi”. Inizialmente la gestione dell’accoglienza sarà parzialmente sovvenzionata attraverso i fondi Faac e da un contributo della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, avendo poi come obiettivo di intercettare finanziamenti pubblici e privati per la sua gestione futura. La struttura può accogliere 8 persone in regime residenziale e, considerata la vicinanza con il carcere della Dozza, ulteriori posti in regime non residenziali possono essere a disposizione per accoglienze brevi di permanenze di detenuti in permesso premio, o nella fascia diurna per carcerati in semilibertà. Napoli. Parla il parroco del carcere minorile di Francesca Sabella Il Riformista, 26 giugno 2022 “C’è una violenza dilagante e fine a se stessa. Nisida è un modello, ma sogno un mondo senza carcere”. Don Gennaro Pagano, parroco di Nisida, sulla violenza che sta travolgendo i nostri ragazzi. Don Gennaro, lei conosce i giovani e lavora a contatto con loro ogni giorno. Come spiega questa ondata di violenza che li sta travolgendo? “Credo che parlare di generazione divorata dalla violenza non sia corretto, gli episodi violenti sono diventati tanti e soprattutto intollerabili per la loro crudeltà e per la loro mancanza totale di significato. C’è una violenza davvero fine a sé stessa. Per ognuno di questi episodi violenti, però, esiste una foresta silenziosa di alberi: ci sono tanti ragazzi che hanno sentimenti buoni. Quindi mi sentirei di non generalizzare, al contempo è ovvio che stiamo raccogliendo i frutti di un processo che dura da anni. La generazione attuale è figlia di un’adultità inesistente. È una società liquida e anche la violenza è diventata liquida, diffusa e senza senso”. Come si è arrivati a questo? “Penso che Napoli sia arrivata a questa emergenza criminalità-violenza giovanile a seguito della miopia delle istituzioni locali e nazionali che hanno peccato di scarsa lungimiranza, spesso hanno pensato a un tornaconto immediato ma quando si parla di educazione si raccolgono i frutti alla fine di un lungo lavoro, lento e costante. Se oggi investiamo in educazione, vedremo i risultati tra dieci anni, non prima. Un altro fattore che ha contribuito all’esplosione della violenza è l’individualismo, parlo dell’individualismo degli eroi, dei buoni, cioè spesso preti, associazioni, mondo del terzo settore, lavorano da soli, senza fare rete. E questo riduce l’efficacia di un intervento educativo di vasta portata. In realtà, il patto educativo lanciato da Don Mimmo Battaglia va proprio in questa direzione e non può e non deve essere giudicato in tempi brevi. Si tratta di un processo che mira a trasformare uno stile e un metodo e questo richiede anni. Il patto educativo è fatto di tappe, non è un protocollo, non è una firma, è un processo che mira a mettere insieme tutti coloro che si occupano di educazione. Per fare questo ci vuole tempo. Intanto, l’emergenza educativa è al centro dell’attenzione e credo che questo sia già un risultato importante. Mi rendo conto che si vorrebbero soluzioni immediate, ma chiunque lavori in ambito educativo sa che ci vuole tempo”. Lei lavora all’interno del carcere minorile di Nisida. Cosa pensa delle carceri? “Sono convinto che sia un’esperienza che serve. Sicuramente c’è tanto da migliorare, ma per farlo servirebbero anche molti più fondi. Credo che Nisida per alcuni ragazzi sia stata una salvezza e mentre lo dico mi rendo conto che è una cosa tragica. Ci sono ragazzi che imparano cosa vuol dire avere qualcuno che si prende cura di loro all’interno di un carcere. E questa è una cosa gravissima. Il carcere fatto da persone come quelle che lavorano a Nisida, serve. Al di là di Nisida, non possiamo chiudere gli occhi sulla situazione drammatica dei penitenziari italiani, e credo che il carcere resta comunque espressione di un fallimento dello Stato nel prevenire una condotta deviante. Il carcere forse serve ancora ma spero in un tempo nel quale il carcere non serva più perché le istituzioni, la chiesa e la società hanno fatto la loro parte prima che qualcuno commetta un reato, e non dopo”. Milano. Intesa con il carcere di Bollate per recuperare i device elettronici di Roberta Rampini Il Giorno, 26 giugno 2022 Windtre aderisce al memorandum d’intesa con i Ministeri della giustizia e dell’innovazione tecnologica e transizione digitale, per la valorizzazione del lavoro carcerario nel settore delle telecomunicazioni e dell’information communication technology, e varca i cancelli del carcere di Bollate. In base all’accordo, la società di telecomunicazioni offrirà ai detenuti del carcere un’opportunità occupazionale: dopo aver seguito un percorso formativo si occuperanno del recupero e della rigenerazione di apparatati di rete. “Siamo molto orgogliosi di collaborare a un progetto così importante, che ha l’obiettivo di aumentare le opportunità professionali dei detenuti e favorire il loro reinserimento sociale - commenta Pierpaolo Barberini, commercial operations’ director di Wintre -. Comprendiamo appieno il valore dell’attività lavorativa all’interno di un istituto penitenziario e con questo memorandum la nostra azienda punta a offrire una concreta opportunità per maturare competenze che possano agevolare l’integrazione sociale”. Non si tratta del primo operatore del settore Tle e Ict che entra nel carcere alle porte di Milano: Vodafone, infatti, dallo scorso novembre collabora con l’impresa sociale Fenixs, per la gestione dello smaltimento degli smartphone non più utilizzabili raccolti nei Vodafone Store. Due le attività del progetto Fenixs: il ricondizionamento di materiale informatico dismesso e il trattamento dei cosiddetti Raee (Rifiuti ambientali elettrici ed elettronici). Roma. “Caffè Galeotto”, profumo di libertà per futuri torrefattori di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 26 giugno 2022 Importante iniziativa per il reinserimento sociale dei detenuti del carcere romano di Rebibbia. “Caffè Galeotto” è una torrefazione all’interno di Rebibbia Nuovo Complesso. Il progetto, per la produzione e la vendita di caffè nato nel 2014, è stato ideato dalla cooperativa sociale Pantacoop di Mauro Pellegrini ed è diventato subito il “fiore all’occhiello” del carcere romano. Pellegrini ha ricevuto in concessione uno spazio all’interno di Rebibbia, ha acceso un mutuo e iniziato la sua attività di recupero, dando la possibilità ai reclusi di imparare il mestiere di torrefattore, molto richiesto all’esterno. Un caffè di qualità superiore - Il caffè viene lavorato e confezionato da alcuni dei ragazzi detenuti in regime art.21 ossia con la possibilità di lavorare all’esterno in condizioni idonee. Ogni giorno si miscela, si tosta, si macina il caffè e si fabbricano cialde per le macchinette. I lavoranti si formano attraverso corsi tenuti da esperti del settore, imparano a conoscere i chicchi, a lavorarli e anche a spiegare ai clienti i dettagli delle miscele. “Caffè galeotto”, inoltre, propone un prodotto trattato manualmente, a differenza delle torrefazioni industriali che si affidano alle macchine. Le impurità vengono tolte manualmente, senza eliminarle con la tostatura, procedura che ha il limite di compromettere anche i pregi dei chicchi. All’interno della torrefazione esiste anche una officina per la riparazione delle macchinette per il caffè da bar e un piccolo negozio, gestito sempre da un ragazzo in art.21, che vende pacchetti di caffè ai clienti esterni al carcere. Imparare un mestiere ricercato per rifarsi una vita - Dal 2014 ad oggi fra torrefattori e revisori di macchine da caffè sono stati 70/80 i ragazzi che hanno potuto partecipare a questo apprendistato presso “Caffè Galeotto”, con una media stabile di assunzioni a tempo determinato di 8/10 l’anno. “Diamo loro in mano un mestiere per trovare un’occupazione una volta scontata la pena e usciti dal carcere”, ha spiegato l’imprenditore romano. Una chance apprezzata dai giovani carcerati tanto che nei ragazzi che vi hanno lavorato “il tasso di recidiva si è azzerato”, assicura Pellegrini. I percorsi di reinserimento sociale continuano anche dopo l’uscita dal carcere. “Alcuni ragazzi sono assunti direttamente da noi nella Pentacoop, cooperativa sociale no profit, che si occupa anche di edilizia, creazione di infissi, data entry. Noi formiamo e cerchiamo di inserire i ragazzi più portati per i lavori manuali anche in queste altri settori professionali. Altri, alla fine della pena, sono stati assunti da altre cooperative”. Napoli. “Festa della Musica” al carcere di Poggioreale con il sindaco Mafredi e Ciambriello ottopagine.it, 26 giugno 2022 L’evento promosso dal Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva. Visita del sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, a Poggioreale, in occasione della “Festa della musica”, organizzata dal Garante campano Ciambriello. “Festa della Musica” è l’evento che stamane ha portato a Poggioreale il rapper Paky che, protagonista dello spettacolo, si è esibito davanti a un pubblico di detenuti insieme al rapper napoletano Geolier, suo amico e ospite per l’occasione. Promossa dal Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, e patrocinata dal Comune di Napoli, questa iniziativa ha avuto lo scopo di creare un momento di incontro tra il mondo di dentro e quello di fuori, attraverso la musica. È stato solo il primo di una serie di appuntamenti che avranno luogo in diversi Istituti di pena della Campania. L’evento di oggi è stato introdotto dal direttore della Casa circondariale di Poggioreale, Carlo Berdini, che ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa e i problemi di sovraffollamento e strutturali di cui soffre Poggioreale. Ha poi preso la parola il Garante campano, Samuele Ciambriello, che ha sollecitato un maggiore impegno istituzionale perché “il carcere non continui ad essere il cimitero di viventi, così come è adesso”. “Sembra difficile far coesistere musica e carcere - ha dichiarato il Garante Ciambriello. Ho promosso un’ora d’aria colorata nel carcere, un luogo senza tempo. La musica agisce sugli stati d’animo più profondi, sulle emozioni. É nutrimento della mente e dello spirito”. L’ultimo intervento, prima dell’esibizione, è stato del sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, che ha garantito l’impegno della sua Giunta a migliorare la situazione delle carceri napoletano. “Ho accettato volentieri l’invito dell’amico Samuele, con il quale ho collaborato anni fa, quando ero rettore dell’Università Federico II, per aprire il Polo Universitario nel carcere di Secondigliano - ha ricordato Manfredi - Il sindaco della città è qui per dire ai reclusi che la città è pronta a dare una mano a chi vuole ripartire, riscattarsi”. Presenti all’incontro anche il Garante metropolitano Pietro Ioia, l’assessora alle Politiche giovanili e del lavoro del Comune di Napoli, Chiara Marciani e il delegato per la Cultura e gli eventi musicali a Napoli, Ferdinando Tozzi. La scelta di esordire con Paky non è stata casuale, visto che l’artista è da sempre sensibile al tema della detenzione. Il breve concerto è stato seguito da un momento di incontro tra i due rapper e i detenuti, nello spirito di quel percorso che, secondo il Garante Ciambriello, deve far passare “dalla reclusione all’inclusione sociale”. Pozzuoli (Na). “Cena in Giallo” per finanziare un libro di fiabe scritto della detenute napolitan.it, 26 giugno 2022 “La Cena in Giallo - Coltiviamo Valori” è il titolo dell’evento che il Carcere femminile di Pozzuoli e l’associazione di promozione sociale Malazè - Laboratorio di Comunità con la collaborazione della Cooperativa Lazzarelle, hanno organizzato per Procida Capitale della Cultura 2022. La manifestazione programmata per lunedì 27 giugno gode del patrocinio del Comune di Procida e di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. In questa occasione l’Amministrazione di Procida donerà un albero di limone procidano che sarà piantato nel giardino del carcere, alla presenza del Sindaco Dino Ambrosino e dell’Assessore al Turismo Leonardo Costagliola, ad unire simbolicamente la Casa Circondariale di Pozzuoli e il dismesso carcere procidano di Palazzo D’Avalos che si guardano dai lati opposti del golfo. Il limone di Procida ha un valore fortemente identitario per la Comunità procidana, tutti quelli che hanno un giardino sull’isola hanno una o più piante di limone “marzaiuolo”. Anche il carcere di Pozzuoli, nei suoi spazi verdi dedicati ai colloqui con i familiari, coltiverà il suo limone. Alla serata, parteciperanno 40 donne della casa circondariale e 40 ospiti esterni, su invito della Direzione, che siederanno insieme per la condivisione della cena. Tutti i presenti avranno il posto a tavola, sorteggiato al momento, per rafforzare il significato di inclusione di cui anche Procida Capitale ne ha fatto uno dei cinque punti del suo dossier. La dottoressa Maria Luisa Palma, direttrice della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, commenta l’evento: “avere a cena ospiti è di immediata comprensione: significa condividere una sera con persone che si ha piacere a ricevere, con cui chiacchierare, mangiare, bere. Venire in carcere a cena ha ancora un’altra valenza: significa considerare il carcere parte del proprio mondo e quindi accettarne le difficoltà ma anche credere nell’inclusione, credere nella possibilità che l’inclusione debba essere perseguita. “La Cena in giallo”, evento collegato a Procida Capitale Italiana della Cultura, organizzata da Malazè Laboratorio di Comunità e con la generosa collaborazione di illustri ospiti, sarà un bellissimo modo di trascorrere una serata di solidarietà”. “La Cena in Giallo” ha un duplice significato: il colore del limone e il colore del romanzo noir. E proprio per il noir, quale celebre autore partenopeo è presente Maurizio De Giovanni che, per l’occasione, presenterà il suo nuovo libro, “L’equazione del cuore”, ambientato a Solchiaro sull’isola di Procida, di cui leggerà alcune pagine. Inoltre, gli attori Arturo Delogu e Luisa Perfetto, insieme ad un’ospite dell’istituto, leggeranno alcuni brani tratti dal libro “Il Senso del Dolore”, saga dedicata al Commissario Ricciardi. La serata sarà arricchita dalla partecipazione artistica del re dei “Paraustielli Napoletani”, Amedeo Colella e dalle canzoni della tradizione napoletana del maestro Franco Castiglia. L’associazione di promozione sociale Malazè - Laboratorio di Comunità, ha coinvolto la propria rete per donare questa serata speciale alle ospiti della casa circondariale. Pertanto la cena sarà preparata e servita dai ristoratori dell’Associazione Ristoratori Flegrei, il dolce sarà preparato dalla Cooperativa Lazzarelle, i vini saranno offerti dalle Donne del Vino della Campania, il limoncello procidano, invece, dall’Azienda Agricola Lubrano Lavadera. Il servizio sarà curato dall’Associazione Italiana Sommelier - delegazione di Napoli e dai ragazzi della Bottega dei Semplici Pensieri. I protagonisti della serata saranno omaggiati con la “Guida dei Campi Flegrei”, del Parco Regionale dei Campi Flegrei, scritta da Massimo D’Antonio, in cui è presente l’appendice appositamente dedicata all’isola di Procida. La serata avrà ancora un ulteriore intento: tutti i piatti della serata saranno, successivamente inseriti nei menù dei ristoranti dell’ARF per tutto il periodo di Procida 2022. Su ogni piatto che i clienti ordineranno sarà devoluto un euro in beneficenza. La somma che sarà raccolta verrà donata alla Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, per finanziare la pubblicazione di un libro di fiabe che le detenute hanno scritto per i loro figli, durante un percorso psicologico sulla genitorialità, condotto dalla Psicologa Nicoletta De Stefano. Lucca. “Suonare in carcere? Un’emozione toccante” di Ylenia Cecchetti La Nazione, 26 giugno 2022 Cecco e Cipo si sono esibiti nella Casa circondariale. “Quando ce l’hanno proposto, non potevamo crederci”. Hanno animato i pub e le piazze di tutta Italia, divertito i telespettatori con gag improbabili al talent show X Factor - ormai diversi anni fa - e partecipato a trasmissioni come “Quelli che il calcio”, in qualità di inviati dell’Empoli F.C. Hanno vestito la maglia della Nazionale Cantanti ma no, nel loro cv, Cecco e Cipo non avevano ancora inserito la più insolita delle esperienze. Ovvero, un concerto in carcere. Il pubblico stavolta era composto da una quarantina di detenuti della casa circondariale di Lucca. Applausi, sorrisi e tutti in piedi a cantare. Un’emozione unica, arrivata soltanto dopo aver abbattuto il muro della diffidenza ed essere entrati in sintonia con i reclusi del “San Giorgio”. “Quando ce l’hanno proposto - raccontano Fabio Cipollini e Simone Ceccanti, che hanno mosso i primi passi nel mondo della musica partendo dal Circolino Arci di Petroio, a Vinci - non ci potevamo credere. Un concerto in carcere, come le vere rockstar. Euforia a parte, è stata un’esperienza davvero toccante. Ci siamo esibiti nella sala comune. Una stanza vuota e silenziosa, dove i detenuti, seduti, ci hanno ascoltato per un’ora. È una dimensione affascinante. Portare musica oltre le sbarre non succede tutti i giorni”. Dai brani di successo come “Vaccaboia” alle tracce raccolte nell’ultimo album “Con permesso”, la scaletta è stata improvvisata, un mix di pezzi vecchi e nuovi per rompere il ghiaccio e regalare ai detenuti una parentesi musicale e di intrattenimento. “Eravamo un po’ tesi, ma sospendere il giudizio ci è venuto naturale. Ti chiedi sempre come possa essere la vita in cella. Trovarsi a tu per tu con un pubblico al quale non siamo abituati è stato adrenalinico. Abbiamo suonato, interagito e cantato insieme ad alcuni di loro”. All’inizio qualche sguardo perplesso. Poi gli applausi. E dopo, addirittura qualcuno che si è alzato in piedi a battere le mani a tempo di musica. “Una bella vittoria per noi, esser riusciti a portare leggerezza e spensieratezza in un contesto del genere. Uno dei detenuti, appassionato di musica, ci ha anche chiesto di potersi esibire con le sue basi in un pezzo rap dove ha raccontato un po’ della sua storia”. Questa potrebbe essere stata per Cecco e Cipo la data zero di un tour per le carceri della Toscana ancora tutto da costruire. “L’idea ci piace, ci stiamo lavorando. Chissà. Una sfida nuova per l’anno che verrà”. “Ecco perché ho scelto di pubblicare Battisti” di Francesca Angeleri Corriere di Torino, 26 giugno 2022 “Non so quanti giovani sappiano chi sia Cesare Battisti. Viviamo troppo nel presente. Ogni operazione che faccia alzare il velo ritengo sia positiva”. È la piccola casa editrice torinese Golem di Giancarlo Caselli a dare alle stampe “L’ultima duna”, primo romanzo scritto in Italia dall’ex terrorista: “In queste pagine ci parla di sé”. A ottobre uscirà il nuovo libro di Cesare Battisti, “ex terrorista, criminale, scrittore”, citando Wikipedia. Arrestato nel 2019 in Bolivia, portato in suolo italiano e incarcerato, solo in quell’anno Battisti ammise la propria responsabilità per i crimini che gli sono stati imputati dichiarandosi colpevole e chiedendo scusa ai famigliari delle vittime. In questi decenni ha ricevuto asilo politico in diversi Stati e ha scritto numerosi romanzi noir. “L’ultima duna” è il suo ultimo lavoro, ma il primo pubblicato e scritto in Italia. A portarlo in libreria è una piccola casa editrice torinese, la Golem, diretta da Giancarlo Caselli che di Battisti è coetaneo. “Ci separano un mese e 20 giorni. Lo incontrerò penso a luglio, oppure a settembre, a seconda di cosa decideranno nel carcere dove è detenuto (è a Ferrara, ndr). È un incontro che mi emoziona. Nel bene o nel male è un pezzo di storia, di quella storia in cui anche io, con posizioni seppure diversissime, sono cresciuto. Prima di essere un editore, sono stato uno psicologo junghiano: lo guarderò negli occhi. E ascolterò”. Non vi è alcun dubbio che la risonanza, sia positiva sia negativa, sarà certamente grande. Eppure ha scelto una casa editrice minore di una città con cui non ha legami. L’anello di congiunzione è Sibyl Von der Schulenburg, imprenditrice nel campo delle comunicazioni, che con Golem ha realizzato due pubblicazioni. Von der Schulenburg è parte di una onlus, Artisti Dentro, che lavora i con carcerati. Anche Battisti ne fa parte come editor. È stata lei a proporgli questa collaborazione e lui ha accettato con entusiasmo tramite la sua avvocata Marina Prosperi. Il libro, come gli altri di Golem, ha passato il vaglio di quattro lettori che erano completamente all’oscuro su chi fosse l’autore. “Siamo consci del fatto che questa operazione ci metterà nell’occhio del ciclone”. In realtà, Caselli ci racconta di aver avuto finora risposte alquanto positive proprio da quel mondo intellettuale dal quale si aspettava forti critiche. Forse l’italia ha voglia di mettere una pietra sopra gli anni di piombo? “L’italia sta andando in una direzione dove la memoria va affievolendosi. Non so quanti giovani sappiano chi sia Cesare Battisti. Viviamo tutti troppo nel presente, siamo anestetizzati e nell’oblio. Dal punto di vista istituzionale c’è ancora molto, invece, da dire. Ogni operazione che faccia alzare il velo, anche solo di un pochino, ritengo sia positiva”. La trama del romanzo vede al centro la vicequestore Fiore, seduta di fronte a un uomo dalla cui bocca escono molti “Non so, non mi ricordo…”. Un’amnesia forse pretestuosa? Fiore però sa scavare nella mente umana e quindi Aurelio Bottini inizia a ricordare un centro di accoglienza, una donna e un viaggio in treno. Riemergono personaggi della guerra civile siriana, combattenti per la patria e organizzazioni umanitarie sul palcoscenico insanguinato di Kobane. Ricorda pure di essersi trovato in mezzo ai migranti nel Mediterraneo. E poi c’è anche una bambina… “Ho la sensazione che Battisti, per la prima volta lontano da protezioni e situazioni in cui è anche stato considerato un “eroe”, ragioni in qualche modo su ciò che è accaduto. È una mia percezione, ma questo romanzo mi pare essere una porta sulla riflessione. I personaggi rappresentano parti del sé di ogni autore. Il dialogo tra l’imputato e la vicequestore sembra innanzitutto un dialogo interno. Sullo sfondo ci sono degli ideali. Se nella realtà i mezzi sono stati ingiustificabili, nel libro non si comprende fino in fondo, data l’estrema reticenza di Aurelio. In lui c’è la dissociazione con ciò che ha vissuto”. Non basta certo un romanzo per cambiare passo rispetto al passato di Gian Carlo Caselli Corriere di Torino, 26 giugno 2022 Golem, una casa editrice di Torino diretta da Giancarlo Caselli (quasi omonimo del sottoscritto, non fosse per il “Giancarlo” tutto attaccato) pubblicherà in ottobre un romanzo di Cesare Battisti - L’ultima duna - il primo in Italia dopo i numerosi “noir” scritti in passato in altri Paesi, durante una lunga latitanza favorita e agevolata da una sequela di persone compiacenti. Il nuovo libro si ricollega ad una onlus, “Artisti dentro”, che lavora con carcerati che hanno la passione della letteratura. Dunque una iniziativa in sé più che lodevole. Cesare Battisti per anni e anni ha ingannato (in Italia, in Francia e in Brasile) una quantità di persone ben disposte a sorbirsi la favola di un Battisti innocente, anzi perseguitato per le sue idee politiche. E quindi la favola di un’italia che ha combattuto il terrorismo a colpi di teoremi, di accuse senza prove, di imputati condannati in violazione dei principi dello stato di diritto. Poi Battisti, una volta arrestato ed estradato in Italia, ha chiesto di essere interrogato e ha ammesso tutti gli addebiti: quattro omicidi, tre “gambizzazioni” e moltissime rapine. Il tutto come militante dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo). Ma senza una qualche autocritica. Anzi, Battisti ha arricchito (?) la sua confessione con la chiosa che si trattava di “una guerra giusta”. L’ennesimo riscontro che i terroristi che si dissociano dalla lotta armata, senza però rinnegarla, hanno le idee confuse. Ha sostenuto ad esempio Moretti (il capo delle Br, responsabile fra l’altro del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro) che “non abbiamo distrutto movimenti che senza di noi sarebbero stati vincenti… quei movimenti sono stati soffocati dalla sinergia fra ristrutturazione capitalistica e cooptazione nello stato della rappresentanza proletaria storica”. Battisti invece ha affermato che la lotta armata ha ucciso il Sessantotto, impedendo lo sviluppo di una rivoluzione culturale sociale e politica che per il nostro paese sarebbe stata assolutamente positiva. Modi diversi per provare a dire di aver sbagliato i tempi e forse qualche modalità d’azione, ma perseguendo obiettivi giusti. Poco più di un balbettio, a fronte della realtà orrenda di una guerra che qualcuno - dal mondo parallelo e cupo della clandestinità - aveva voluto unilateralmente dichiarare. Quanto al nuovo libro di Battisti, l’editore osserva che “Ogni operazione che faccia alzare il velo, anche solo di un pochino, ritengo sia positiva”. Opinione del tutto condivisibile, ma per alzare il velo innescando una qualche forma di “giustizia riparativa”, condizione indispensabile per “mettere una pietra sopra gli anni di piombo”, non dovrebbero esserci reticenze capaci di ricacciare indietro ogni onesta rielaborazione del lutto rappresentato da quegli anni spietati. Il libro di Battisti è comunque un romanzo, forse non la via migliore per un eventuale cambio di passo rispetto al passato. Da trent’anni l’Italia sta facendo una guerra spietata ai figli degli immigrati di Corrado Giustiniani L’Espresso, 26 giugno 2022 La legge sullo Ius scholae deve essere approvata subito. Perché solo nel nostro Paese vengono imposte delle regole così stringenti e burocratiche per ottenere la cittadinanza. Basta guardare gli altri Stati europei per rendersene conto. Mai come stavolta rinviare vorrebbe dire rinunciare. Se la riforma del diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, che porta il nome di “Ius Scholae”, non venisse approvata prima della pausa estiva dall’aula della Camera, che la riceverà il prossimo 24 giugno, e se il Senato non darà il sì definitivo entro dicembre, non potremo certo aspettarci che vada in porto nella prossima legislatura, con il quadro politico che si preannuncia. Una riforma, abortita già due volte, nel 2015 e nel 2017, attesa da un milione di ragazzi, italiani di diritto e non di fatto, che ha appena ricevuto l’applauso dei nostri studenti: in un sondaggio condotto da “ScuolaZoo” su un campione di 22 mila di loro, di età compresa fra i 14 e i 19 anni, ben l’85 per cento ha risposto di essere favorevole. E a maggio è arrivato il totale consenso della Siped, la società che riunisce i docenti di pedagogia delle università italiane. Ma prima di ricordare in cosa la nuova versione della riforma consista, è doveroso sottolineare come da trent’anni il nostro Paese abbia una delle leggi europee più spietate nei confronti dei minori stranieri che aspirino a diventare cittadini, la n.91 del 1992, approvata purtroppo all’unanimità dal Parlamento di allora. Ai ragazzi vengono imposti infatti 18 anni di residenza ininterrotta dalla nascita in Italia e, una volta maggiorenni, la cittadinanza non viene nemmeno recapitata a casa. No, debbono presentarne domanda, a pagamento, affrontando le incognite della nostra burocrazia. I deputati prima, e poi i senatori che saranno chiamati a decidere, debbono essere coscienti di quanto il confronto con altre legislazioni ci riempia di vergogna. Il bimbo o la bimba nati in Spagna da una famiglia immigrata diventano cittadini iberici dopo appena un anno di residenza. In Germania dal 2000, con Angela Merkel al governo, i figli degli stranieri sono tedeschi alla nascita, se almeno uno dei genitori vi risieda legalmente da otto anni e abbia un permesso di lungo soggiorno. In Grecia basta che i genitori risiedano da cinque anni, perché il figlio ivi nato sia cittadino. Se invece vi è giunto da piccolo, diventerà cittadino dopo aver frequentato con successo sei anni di scuola. In Francia nel 1998 sono state introdotte tre diverse modalità: che un genitore possa reclamare la cittadinanza quando il minore nato sul suolo francese ha 13 anni, a condizione che ne abbia trascorsi cinque su quel territorio. O che sia il ragazzo a farne domanda, all’età di 16 anni, o infine lasciare che la cittadinanza arrivi in automatico a 18 anni, sempre col vincolo di averne trascorsi cinque in Francia, nemmeno consecutivi, dall’età di 11 anni in poi. I trent’anni di questa guerra contro il processo di integrazione di ragazzi che studiano assieme ai nostri, si riconoscono nel tricolore e tifano per le nostre squadre di calcio, potrebbero finire se il testo unico sullo “Ius Scholae”, presentato dal presidente della Commissione Affari Costituzionali, il 5Stelle Giuseppe Brescia, venisse approvato. Vi si prevede che un bimbo nato in Italia da genitori stranieri, che siano residenti regolari, possa divenire italiano dopo aver frequentato un ciclo quinquennale del sistema nazionale di istruzione, e ciò su richiesta di entrambi i genitori. Quindi, come minimo, alla fine della quinta elementare. Stessa possibilità per i bimbi non nati nel nostro Paese, ma giunti entro e non oltre i 12 anni d’età. Assieme al ciclo quinquennale, valgono anche percorsi triennali o quadriennali di formazione professionale. Ma, tempi ristretti a parte, grava l’incognita di oltre 400 emendamenti, presentati dalla Lega e da Fratelli d’Italia, molti a solo scopo dilatorio. Serve un atto di responsabilità dei partiti. Sollecitato, magari, dal Capo dello Stato. Adesso, o riforma addio. L’Italia ora è il crocevia della cocaina in Europa: “Mai così tanti sequestri negli ultimi dieci anni” di Antonio Fraschilla L’Espresso, 26 giugno 2022 I numeri della Direzione centrale antidroga del ministero fotografano un fenomeno in crescita: “Il nostro Paese è il più grande hub tra Sud America e Balcani, ma cresce anche il consumo interno”. I numeri sono impressionanti e li ha messi in fila la Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Interno. Un fiume di cocaina sta invadendo il nostro Paese come mai era capitato negli ultimi dieci anni: sia per consumo interno ma soprattutto perché l’Italia è diventata un hub tra Europa, Sud America e Balcani. Certo, il dato è influenzato dalla pandemia e anche dall’ottimo lavoro della polizia e delle forze dell’ordine tutte che hanno incrementato le attività. Ma resta il fatto che dal 2012 a oggi non si era arrivati a queste cifre di sequestri: e considerando che di solito quello che si scopre in questi casi oscilla tra il 10 e il 20 per cento del reale traffico, ecco che l’Italia si dimostra essere crocevia e grande paese consumatore della polvere bianca che arriva, in gran parte, dal Sud America e dai Balcani, ma non solo. Dicono dalla Direzione antidroga del ministero, che ha appena fatto il punto sull’attività del 2021 con il generale Antonino Maggiore e il vice capo della Polizia Vittorio Rizzi: “Il dettaglio degli incrementi segnala un ulteriore record nei sequestri di cocaina, che, dopo l’exploit del 2020, in cui i volumi erano arrivati a 13,6 tonnellate, raggiungono la quota di 20,07 tonnellate, traguardo assoluto senza precedenti nel passato. L’incremento percentuale rispetto all’anno precedente, che già aveva segnato un considerevole aumento rispetto al 2019 (+64,25%) e al 2018 (+127,76%), è del 47,66%. L’andamento dei primi mesi dell’anno in corso sembra confermare il rilevante aumento dei volumi sottratti al mercato illecito. Si tratta di una crescita costante e dall’andamento esponenziale: dalle 3,6 tonnellate del 2018, grosso modo duplicandosi ogni anno, si è vertiginosamente passati alle 8,2 del 2019, alle 13,5 del 2020 e, infine, alle 20,07 del 2021. Sembra prospettarsi un fattore consolidato, che induce qualche considerazione”. È chiaro che il dato è frutto, come detto, del miglioramento costante dell’attività di indagine e controllo: “Si ritiene plausibile che le Forze di Polizia abbiano sviluppato efficaci strategie per l’individuazione dei carichi che giungono nel nostro Paese, attraverso una sempre più evoluta ed incisiva analisi di rischio applicata sui movimenti e sulla circolazione dei container commerciali. Nell’anno di riferimento, non a caso, i sequestri frontalieri di cocaina hanno rappresentato il 69,13% del totale intercettato in Italia (il 98,7% considerando gli ingressi marittimi), raggiungendo 13,8 tonnellate sulle 20,07 complessive. Questo dato, che appare assai significativo, consente anche una seconda riflessione; già nel 2020, in sede di consuntivo, era stata ipotizzata l’eventualità di una “nuova” rotta mediterranea che, dopo aver fatto tappa negli scali nazionali (Gioia Tauro, innanzitutto), consentisse a compagini criminali etniche, in particolare albanesi e serbo-montenegrine, di trasferire lo stupefacente nei porti dell’area balcanica, del Mar Egeo e del Mar Nero”. Il nostro Paese è quindi “il punto di snodo e di passaggio verso altri mercati di consumo dello stupefacente e il consolidamento sulla scena criminale delle organizzazioni criminali balcaniche, ormai in grado di instaurare rapporti di stretta collaborazione sia con i cartelli criminali dei produttori, che con i sodalizi più strutturati della criminalità autoctona”. Ma c’è un terzo elemento di “interpretazione” di questo vertiginoso trend può essere verosimilmente individuato nella ripresa dei traffici nel secondo anno della crisi sanitaria dovuta al Covid-19: “Come è stato accennato, dopo il rallentamento dei primi mesi del 2020, è subentrata una decisa ripresa delle importazioni di stupefacente provenienti dal Sudamerica, dove i cartelli del narcotraffico stanno immettendo nei flussi di traffico il surplus di prodotto stoccato durante le fasi più aggressive della pandemia. È ipotizzabile che questo fenomeno condizionerà nel medio periodo le importazioni di cocaina verso i mercati di consumo europei”. Melilla super blindata, strage di migranti alla frontiera spagnola di Marco Santopadre Il Manifesto, 26 giugno 2022 In centinaia assaltano i reticolati al confine controllati dalle polizie di Rabat e Madrid. “37 morti e decine di feriti”. Giallo sulle cause. Non è la prima volta che dei disperati muoiono tentando di raggiungere il suolo di Madrid e di mettere piede in Europa, ma stavolta il numero delle vittime è molto alto. Le autorità marocchine parlano di 18 morti, ma secondo alcune Ong - tra le quali l’Associazione Marocchina per i Diritti Umani e la spagnola Caminando Fronteras - le vittime sarebbero addirittura 37 e decine i feriti, alcuni dei quali gravi. “Le cifre non sono definitive, possono aumentare ancora”. Venerdì mattina, alle 6,40, duemila profughi subsahariani hanno tentato di superare il sistema di reticolati (portato a dieci metri di altezza su decisione del governo Sánchez nel 2020) che racchiude la città autonoma di Melilla. Solo 500 di loro sono riusciti ad arrivare al valico di frontiera in prossimità del “Barrio Chino”, dove hanno assaltato il cancello di ingresso. In 133 sarebbero riusciti ad entrare all’interno dell’enclave spagnola in Marocco. Secondo le testimonianze, la maggior parte delle vittime sarebbe morta asfissiata nella calca dopo esser caduta in un avvallamento nel tentativo di superare una recinzione, sul lato marocchino della frontiera. Chi cadeva dalla rete veniva calpestato da altri migranti che tentavano la scalata e schiacciato da quelli che a loro volta cadevano o venivano spinti o tirati giù. Per respingere i profughi, infatti, sono intervenuti un gran numero di agenti della Guardia Civil e di gendarmi di Rabat. Questi ultimi avrebbero arrestato circa mille migranti. Secondo varie fonti e testimonianze, il tentativo di superamento della frontiera è stato respinto, soprattutto dagli agenti di Rabat ma non solo, con una massiccia dose di violenza. Anche nei giorni precedenti sulle colline che sorgono nei pressi della frontiera si sono verificati numerosi scontri. Secondo fonti di sicurezza marocchine nell’operazione di “contenimento” sarebbero rimasti contusi 140 agenti mentre Madrid parla di 49 feriti tra i suoi poliziotti. Tre profughi sono stati invece ricoverati nell’ospedale di Melilla. Esteban Beltrán, direttore della sezione spagnola di Amnesty International, ha chiesto sull’accaduto una “inchiesta indipendente ed esaustiva”. Fonti della Ong, dopo aver visionato video e foto, hanno denunciato che la polizia spagnola ha rimpatriato a forza e sul momento una parte dei rifugiati che erano riusciti ad entrare nell’enclave, violando così il loro diritto a richiedere eventualmente l’asilo politico o altre misure di protezione e accoglienza così come previsto dal diritto internazionale. Amnesti ha anche denunciato la violenza gratuita esercitata dalle guardie di frontiera marocchine nei confronti di rifugiati inermi che non opponevano resistenza. Al contrario, il presidente del governo di Madrid, Pedro Sánchez, ha elogiato l’operato della gendarmeria marocchina e della Guardia Civil. Anche il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, venerdì, aveva sottolineato positivamente la “straordinaria cooperazione” tra i corpi militari dei due paesi. Nel corso di una conferenza stampa organizzata ieri, il premier socialista ha parlato addirittura di un “attacco violento all’integrità territoriale della Spagna” e ha puntato il dito contro “le mafie responsabili del traffico di esseri umani”. Gli elogi di Sánchez e Albares nei confronti delle autorità marocchine riflettono i nuovi rapporti di Madrid con Rabat. Nel maggio del 2021, infatti, dopo l’ingresso a Ceuta - agevolato dalla “distrazione” della gendarmeria marocchina - di circa 8.000 profughi, i toni usati dal leader del Psoe contro Rabat erano stati durissimi. Ma nel marzo scorso Sánchez ha cambiato registro, riconoscendo la sovranità marocchina sui territori saharawi illegalmente occupati dal regno di Mohammed VI e avviando nuove relazioni di amicizia con Rabat. Il premier spagnolo non ha desistito neanche dopo che l’intelligence di Madrid lo aveva informato del fatto che il suo cellulare era stato spiato dalle autorità marocchine tramite il malware israeliano Pegasus. La svolta ha però provocato la reazione stizzita dell’Algeria che, dopo aver bloccato il trasferimento del suo gas al Marocco, ha recentemente sospeso il Trattato di amicizia e di buon vicinato firmato con Madrid nel 2002, riducendo le esportazioni di gas in Spagna. Se la Corte Suprema mina il suo prestigio di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 26 giugno 2022 La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti in tema di aborto richiama l’attenzione e i commenti - con i possibili conseguenti schieramenti - sotto diversi aspetti, che tutti implicano temi di principio. Una questione che immediatamente si impone alla lettura della sentenza è quella che riguarda il vincolo dello stare decisis, il vincolo del precedente. Vincolo che in questo caso la Corte ha negato (naturalmente appoggiandosi ad alcuni propri precedenti!), spiegando che la sentenza Roe v. Wade era sbagliata in diritto, nell’ammettere l’aborto tra i diritti fondamentali della Costituzione federale. Conseguentemente lo era anche la successiva sentenza Casey: sbagliate entrambe nell’argomentare e infondate nella conclusione cui erano giunte. Un diritto costituzionale dichiarato dalla Corte suprema cinquant’anni orsono e che dal 1973 aveva vissuto nell’intero spazio degli Stati Uniti è stato così annullato e qualificato invece come questione di carattere morale e politico, di competenza dei legislatori degli Stati che compongono la federazione. Saranno dunque i parlamenti dei singoli Stati ad ammettere o invece vietare e punire, limitare, regolamentare l’interruzione volontaria della gravidanza. Decideranno le maggioranze locali. Un tema riguardante diritti fondamentali sarà diversamente trattato nelle diverse parti degli Stati Uniti. Un rilevante tema concernente diritti individuali viene degradato a ordinaria questione politica. La sentenza naturalmente è diffusamente argomentata e il dissenso che può suscitare non dispensa dal considerare le motivazioni che la Corte sviluppa. Essenzialmente la Corte afferma ora di aver sbagliato (nella diversa composizione del 1973) nell’affermare che un diritto di aborto fosse “profondamente radicato” nella tradizione americana, così da poter rientrare nelle libertà individuali assicurate dal principio del due process of law, stabilito dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione federale americana. L’errore che avrebbe commesso la Corte nel 1973, consente alla stessa Corte, ma nel 2022, di rifiutare di seguire il precedente. Liberatasi dal precedente, la Corte constata che la Costituzione non menziona un diritto all’aborto, che quindi - a livello costituzionale federale - non esiste. Ciò che impressiona è l’astrattezza dell’argomentare della Corte sul punto del vincolo del precedente e della possibilità (o dovere) di rifiutarlo. Non si tratta qui di superare un precedente sulla base di una diversa composizione dei valori in campo per il mutare del contesto in cui la questione si inserisce, ma di correggere un errore giuridico che sarebbe stato commesso con la precedente sentenza. Ciò dopo cinquant’anni e in una materia che incide profondamente nella vita delle persone e della società. Un tema che divide la società, ma che proprio per questo richiede di esser deciso. E che, trattandosi del contenuto della Costituzione dichiarato dalla Corte competente, pretende stabilità ed anche considerazione delle conseguenze della decisione. Nessuna considerazione però da parte della Corte della realtà tragica di quegli aborti, che, quando non possono essere legali, divengono clandestini. Il vincolo del precedente in nessun ordinamento giuridico è assoluto. Ragionevole e quindi duttile è la posizione della Corte europea dei diritti umani, che afferma di non essere legata dai propri precedenti “ma usualmente li segue e li applica, nell’interesse della sicurezza legale e dell’ordinato sviluppo della sua giurisprudenza”. Qualche raro superamento di propri precedenti si verifica. Quando non si tratta di correggere aspetti tecnici che non toccano questioni attinenti ai valori, la ragione si trova nella considerazione dell’evoluzione dei convincimenti che si esprimono nelle società europee in ordine al contenuto dell’uno o dell’altro diritto: in direzione dello sviluppo dei diritti, non nella loro negazione. Ne va infatti della credibilità delle istituzioni giudiziarie: prudenza e rispetto dei propri precedenti sono necessari. Proprio perché si tratta di istituzioni diverse da quelle politiche, la continuità e coerenze della loro giurisprudenza è essenziale. In caso diverso l’istituzione svanisce e vengono in luce, determinanti, le persone che le incarnano, con la loro origine e la settorialità (o settarietà) delle loro personali opinioni. Senza rispetto per i precedenti, ciò che conta dopo questa sentenza non è la Corte, ma i nomi e i cognomi dei giudici. Soprattutto quelli di chi li ha nominati (il presidente, capo dell’Esecutivo), proprio perché decidessero la questione aborto come l’hanno decisa. La rivincita di una parte della società sull’altra: la Corte e la Costituzione a disposizione. Ricordando che il principio dello stare decisis non è un obbligo inesorabile, come dimostrano importanti sentenze che rovesciarono precedenti, la Corte non si è privata del piacere di citare come esempio Brown v. Departement of Education, che nel 1954 superò l’”infame decisione” in Plessy v. Ferguson che, nel 1896, aveva validato la segregazione dei neri, con la teoria del “eguali ma separati”. Ma il precedente citato, nonostante quel che vuole suggerire, non ha nulla a che vedere con la odierna sentenza. Rimane invece pertinente, anche se nel contesto sorprendente da parte della Corte, l’opinione che essa stessa cita, in senso adesivo, ricordando che il vincolo dei precedenti “limita l’hubris giudiziaria, con il rispetto delle sentenze di coloro che affrontarono importanti questioni nel passato”. Hybris, appunto, tracotante orgoglio, che può aver soddisfatto i singoli giudici, ma ha leso la credibilità ed il prestigio dell’istituzione di cui sono parte. Lezioni americane sulle democrazie, nessuna libertà è data per sempre di Massimo Giannini La Stampa, 26 giugno 2022 No, non è stata “la mano di Dio”. Solo Donald Trump, nel suo permanente delirio iconoclasta, poteva evocare l’intervento divino per giustificare la sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti ha privato le donne di una delle conquiste più importanti dell’ultimo secolo. Come cantava il poeta De Andrè, Nostro Signore “ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi”. Vale anche nel Paese che scrisse la sua Costituzione come un testo spirituale, ricalcato dalla Bibbia. Dunque il buon Dio non c’entra nulla. Cancellare cinquant’anni di giurisprudenza consolidata, eliminando il diritto all’aborto come principio generale e fondamentale dell’ordinamento, è stata una scelta degli uomini. Uomini che odiano le donne, purtroppo. E che hanno deciso di riportare indietro le lancette della civiltà e della storia. Certo, la decisione è intrisa di implicazioni religiose, delle quali si nutre non da oggi la predicazione dei “teo-con” americani. Ma è soprattutto densa di conseguenze politiche, di cui in queste ore già vediamo la traiettoria. Dopo l’aborto, toccherà alle unioni di fatto e ai matrimoni gay. Poi alla disciplina degli anti-concezionali e poi chissà a cos’altro. Un’inquietante escalation oscurantista, che mescola intolleranza e discriminazione. E che si consuma nella culla dei diritti civili, oggi avviata a diventarne la tomba. Lo strappo è ancora più doloroso, proprio per tutto quello che l’America ha sempre rappresentato per noi europei e occidentali. Una terra di frontiera e di sfida, dove ogni conquista è stata ed è parsa possibile. Metro dopo metro, giorno dopo giorno, diritto dopo diritto. La patria di Thomas Jefferson e della Dichiarazione di indipendenza, dove “tutti gli uomini sono stati creati uguali” e dotati di “diritti inalienabili” come “la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Oggi tutto sembra dissolto, in questa lenta e penosa agonia del secolo americano, dove molti Stati praticano ancora la pena di morte, sciamani impellicciati invadono Capitol Hill, primatisti bianchi sparano nei licei, e il diritto a possedere armi automatiche vale più del diritto a interrompere una gravidanza pericolosa. Eppure, c’è ben poco da stupirsi. È tutto scritto in quella che Philip Roth, ne La controvita, chiamava “l’agenda ideologica della nazione”. Una nazione spaccata e avvelenata da una contrapposizione irriducibile. Politica: i repubblicani contro i democratici. Etica: i cristiani contro i laici. Geografica: gli Stati centrali della Bible Belt contro quelli della West e della East Coast. Un coacervo di conflitti morali e materiali. In un colloquio con un amico, l’io narrante del più grande scrittore americano, Nathan Zuckerman, dice “qui tutto è bianco e nero, tutti gridano e tutti hanno sempre ragione. Qui gli estremi sono troppo grandi per un Paese così piccolo…”. Roth parla di Israele, ma il concetto è ancora più vero, per un Paese grande come gli Stati Uniti. I nove giudici della Corte Suprema non hanno fatto altro che trascrivere su carta i sentimenti e i risentimenti che scorrono nelle vene dell’America. Un’America sempre più polarizzata, impaurita e divisa. Pervasa da una “culture war” che, in ogni campo, influenza e intossica il discorso pubblico. C’è una specificità nazionale, nella Grande Restaurazione avviata dalla Corte Suprema. Come insegnano i costituzionalisti, questa pronuncia è “over ruling”: facendo piazza pulita della giurisprudenza precedente, non abolisce il diritto all’aborto ma lo affida alla legislazione dei 51 stati federali, che sul tema possono decidere autonomamente, senza più avere sopra di sé la copertura giuridica dei principi generali previsti dalla vecchia sentenza Roe vs Wade. Si instaura un’epoca di “fai da te” legislativo, che produrrà anarchia normativa e ingiustizia sociale. I 25 stati repubblicani si adegueranno, cancellando il diritto all’interruzione di gravidanza e le strutture socio-sanitarie che lo gestivano. Gli altri stati, a guida democratica, resisteranno. Risultato: se abortisci in Mississippi vai in galera, se lo fai in California hai l’ospedale. In generale, le donne e le famiglie più ricche se la caveranno, quelle più povere sono condannate alla solitudine, al dolore, alla vergogna. Così la faglia ideologica che attraversa il Paese diventerà ancora più radicale e profonda. È la versione moderna della secessione: la nuova guerra civile americana. Con un pericolo in più: l’ulteriore delegittimazione delle istituzioni. La Presidenza e il Congresso sono già logori, dopo il trauma subito nella stagione trumpiana culminata con il tentato golpe del gennaio 2021. Ora anche la Corte Suprema patisce un vulnus, politicizzata com’è dalle nomine degli ultimi anni. Questa decisione sull’aborto riscrive la storia dei rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo. Finora, come ha ricordato Concita De Gregorio, la Corte Suprema ha vissuto dell’impronta lasciata per decenni dalla giudice progressista Ruth Bader Ginsburg, teorica della “Constitution living”, la Costituzione vivente, secondo la quale la Corte è parte della forma di governo e accompagna con le sue scelte l’evoluzione dei costumi sociali. Il principio usato stavolta dal presidente della Corte Samuel Alito, all’opposto, è quello dell’originalismo: il 14esimo emendamento della Costituzione del 1791, scritto nel 1868, non prevede il diritto all’aborto. È dunque il legislatore che deve aggiornare l’evoluzione della società alle sue leggi, mentre la Corte resta neutrale e distante. In questo cambio di fase, la democrazia americana è in piena crisi. Anche all’America servirebbe un nuovo Patto Sociale, che consenta alla nazione di ritrovare le ragioni dello stare insieme, del bene comune, del rispetto dei bisogni collettivi, della difesa delle minoranze. Se manca questo, tutto può tornare in pericolo. Il diritto di voto per i neri, l’accesso alle università per le minoranze etniche, le libertà connesse al gender, le sentenze sul matrimonio e i diritti sessuali. Una lezione imprescindibile, in vista del voto di Midterm. Non solo per Biden, che in queste ore balbetta parole di vago buon senso. Ma anche per i repubblicani moderati, che assistono al tronfio trionfo di Trump mentre vagano in una terra incognita, dove mancano anche a loro i riferimenti politico-culturali di un tempo. Ma più in generale, la lezione americana che possiamo cogliere da questa sentenza riguarda tutti noi, che viviamo al di qua dell’Atlantico. Anche in Europa si avverte una tendenza alla Grande Restaurazione. Se parliamo di aborto, basta vedere quello che sta succedendo in Polonia, dove una legge del gennaio 2021 ha ristretto drasticamente il diritto all’interruzione di gravidanza, e dove da allora più di una donna è morta in ospedale, senza alcuna assistenza. L’ultima è Agnieszka T., di 37 anni, lasciata morire con i suoi due gemelli in grembo dai medici di Czestochowa. Ma poi anche a Malta, o in Ungheria, dove Orban ha fatto inserire in Costituzione “la tutela del feto fin dal suo concepimento”. In Italia c’è chi adesso spera che la “brezza” americana attraversi l’Oceano ed arrivi fino a noi. E non è solo l’ineffabile onorevole Pillon. Per fortuna Giorgia Meloni ha detto che la normativa italiana non si tocca. Ma già ora in molte strutture ospedaliere i medici obiettori si rifiutano di applicare la legge. E non sempre le Regioni sono attente a farle rispettare come dovrebbero. Bisogna dire no a queste tentazioni di nuovo Medioevo, che colpiscono le donne ma alla fine danneggiano tutti. La legge 194 è una conquista intangibile. In passato, c’è stato un tempo in cui non sono mancati gli abusi, e l’interruzione di gravidanza è stata usata come metodo contraccettivo. Non è più così. Oggi la pillola è di uso comune. E l’aborto rimane una tragedia immensa, che ogni donna affronta quando non può farne a meno, prima di tutto per ragioni di salute, con grande dolore e con profonda consapevolezza. Difendere il diritto all’interruzione di gravidanza non è gridare sì alla morte, ma dire sì alla vita della donna, che è la sola a poter decidere del proprio corpo, nel rispetto delle leggi dello Stato. Ma perché tutto questo accada, occorre che il patto tra lo Stato e i cittadini si rinnovi ogni volta, e che le istituzioni e la società civile siano unite nella condivisione dei valori fondamentali. Oggi le democrazie sono fragili, stremate, e per questo faticano a riconoscere e tutelare i diritti di tutti. Hanno bisogno di manutenzione e di cura quotidiana. E la cura è la politica, che produce inclusione e partecipazione. Tutto quello che stiamo perdendo. E che dovremmo recuperare, evitando il conflitto e la polarizzazione. È la morale di Roth: “Io prendo posizione per qualcosa di assai meno importante che aprire ogni cosa a colpi d’ascia: si chiama tranquillità”. Se c’è in giro una “forza tranquilla”, nelle democrazie occidentali, è ora che batta un colpo. Assange come Zaki e Navalny, non voltiamoci dall’altra parte di Caterina Soffici La Stampa, 26 giugno 2022 L’estradizione negli Usa del fondatore di WikiLeaks è un atto contrario alla democrazia. Se questo è un uomo, noi non possiamo dimenticarci di Julian Assange. Noi che abbiamo una certa tendenza a distrarci. Sì, lo sappiamo. Ci sono tanti altri problemi. C’è stata la pandemia, poi la guerra, ora la crisi energetica, la fame e la siccità. E arriveranno anche le cavallette (anzi, ci sono già, in Sardegna). Ma noi occidentali, che ci siamo spesi con nobili parole in difesa dei valori e dei diritti umani minacciati in Ucraina, che chiediamo la verità per Giulio Regeni e la libertà per Patrick Zaki, che abbiamo denunciato la morte di Anna Politkovskaja e che temiamo per la vita del grande oppositore di Putin Alexei Navalny, che invochiamo la libertà di stampa in Turchia e in Cina e in tutti i paesi dove è negata, che condanniamo la censura e i cattivi che incarcerano i giornalisti, non possiamo girarci dall’altra parte se viene concessa l’estradizione negli Stati Uniti di un uomo - un giornalista per l’appunto - reo di aver fatto il suo mestiere, cioè di aver pubblicato notizie vere. Siamo davvero distratti a tal punto? Cosa ha fatto Julian Assange? Breve riassunto per sommi capi, per i più distratti: Wikileaks, il sito da lui diretto e fondato con un gruppo di giornalisti investigativi e attivisti, nel 2010 ha pubblicato i cable segreti della diplomazia americana sui reati compiuti dai militari in Iraq e Afghanistan. Sono 700mila file che dimostrano le atrocità, le bugie e le torture. E sbugiardano il governo Bush sulle verità distorte raccontate su quelle guerre, le falsità usate per giustificare la guerra in Iraq. Assange non è un hacker, non ha rubato quelle notizie, ha semplicemente deciso di rendere pubbliche informazioni molto scomode che gli sono state passate da fonti anonime. Decidere di pubblicarle, ha detto era un “dovere per la storia e per i cittadini dei paesi in questione”, un dovere più importante della sua sicurezza. Non è più un uomo libero dal 7 dicembre 2010, quando si è presentato spontaneamente a Scotland Yard per un mandato di cattura internazionale per non aver indossato un preservativo. Un anno e mezzo di arresti domiciliari, poi 7 anni da rifugiato politico (in realtà di carcere senza neppure l’ora d’aria concessa ai peggiori criminali) in una stanza dell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra. Asilo politico poi revocato per pressioni facilmente intuibili. Oggi Julian Assange è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarch, alle porte di Londra. Un luogo lugubre - non a caso lo chiamano la Guantanamo inglese - dove di sbattono i terroristi e gli omicidi. Nel frattempo, ha sposato Stella Moris, ex avvocato della sua difesa e attivista per i diritti umani, e da lei ha avuto due figli. Il tentativo di dare un senso a una vita che gli è stata tolta senza un reale processo, la volontà di aggrapparsi a un barlume di speranza nel futuro. Non facile, ma l’ha fatto. Dicono che è sempre stato una testa dura, un irregolare, un nomade che girava il mondo con lo zaino in spalla e il computer. Anche la madre, in Australia, aveva capito che era un ragazzino diverso e aveva scelto per lui un percorso di studi non accademico. Ha ricevuto un’istruzione poco formale e poi ha all’università ha frequentato corsi di fisica e matematica. Genietto dei computer e della rete e della criptografia, è uno che non si piega, dicono gli attivisti che lo sostengono. Ma adesso è arrivato l’ultimo capitolo. Le condizioni di salute di Assange sono precarie. Ha 51 anni, è dietro le sbarre da quando ne ha 39, ha già avuto un ictus. Lo psichiatra Michael Kopelman, professore del King’s College, che ha fatto le perizie parla di perdita di sonno, dimagrimento, difficoltà a concentrarsi, uno stato di agitazione continua, pensieri di suicidio e di autolesionismo. Si tira pugni in testa, batte la testa contro le pareti e nel suo armadietto, nascosta tra le mutande, è stata trovata una lametta da rasoio. Quando la settimana scorsa Priti Patel, la orribile ministra dell’Interno del già pessimo governo Johnson, una donna visceralmente razzista e tendenzialmente fascista, ha firmato l’ordine di estradizione, Assange ha dichiarato che si suiciderà piuttosto che passare i prossimi 175 anni in un carcere americano. Chi lo conosce dice che troverà il modo di farlo. Julian Assange non è un personaggio simpatico. Nel senso che non genera quella istintiva onda empatica come capita ad altri perseguitati dal potere. Per gli americani è un criminale. Per noi cosa è? Fare giornalismo è un crimine? È un atto sovversivo? È un atto terroristico? Alcuni sostengono che negli Stati Uniti avrà un processo equo. Ma processarlo per cosa? Non esiste in Usa una legge che vieta la pubblicazione di file segreti (lo dice il Primo Emendamento). E inoltre lui è un cittadino australiano, quindi non c’è neppure un caso di alto tradimento. Alice Walker, vincitrice del Premio Pulitzer (da notare che i Pulitzer in America li vincono sempre giornalisti che pubblicano notizie scomode) ha definito un “abominio voler imprigionare per 175 anni una persona che ha pubblicato informazioni vere nell’interesse pubblico”. I suoi sostenitori manifestano e indossano magliette con una sua frase: “Se le guerre possono essere avviate dalle bugie, possono essere fermate dalla verità”. Censurare e imprigionare lo fanno le autocrazie. Lo fanno i dittatori. Le democrazie non dovrebbero farlo e dovrebbero impedire che altri lo facciano. Eppure l’umanità avanza: due alt alla pena capitale di Mario Marazziti Avvenire, 26 giugno 2022 Centrafrica e Kazakistan entrati tra i Paesi abolizionisti. Da non crederci. Nell’ultima parte della rovente primavera che ci siamo lasciati alle spalle e nell’arco di appena una settimana, due Paesi diversissimi, il Centrafrica e il Kazakistan hanno abolito la pena di morte. In Africa, per acclamazione e all’unanimità nel Parlamento altrimenti diviso su tutto di uno dei Paesi più poveri del mondo, al confine con il Congo, da dove papa Francesco volle iniziare il Giubileo della Misericordia. Nel cuore dell’Asia, con il 77% di voti a favore della nuova Costituzione che contiene, appunto, anche il rifiuto assoluto della pena di morte mentre mette in archivio il “ super-presidenzialismo personale” di Nursultan Nazarbayev, e inaugura una “Seconda Repubblica”, con più democrazia e ruolo per Parlamento e cittadini, voluta e guidata dal presidente Tokayev. Lapidario il principio: “Nessuno ha il diritto di privare arbitrariamente una persona della vita. La pena di morte è proibita”. Ricordo quando, partecipando all’incontro mondiale per la pace a Napoli con la Comunità di Sant’Egidio, nel 2007, Tokayev, allora presidente del Senato kazako, si era impegnato per questo. Una bella notizia, controcorrente, nel segno della vita e della giustizia in un tempo di semplificazioni, demonizzazioni dell’altro, normalizzazione della guerra come strumento “ordinario”. E ci dice molto anche su come andrebbe costruita una via d’uscita dal tunnel senza luce del riarmo mondiale e della “terza guerra mondiale a pezzi”. Occorre pensare e costruire quello che non si vede assieme ai protagonisti, quando ancora non si vede. Mentre c’era la guerra civile, come in Centrafrica, mentre i diritti della vita delle persone erano ancora in gran parte da scoprire e costruire, come in Kazakistan. Paese ricchissimo, il Centrafrica, oro e diamanti, eppure poverissimo, e colpi di stato e gruppi armati che hanno sempre controllato il territorio, fino al 2013, quando la crisi è diventata guerra diffusa con l’arrivo dei ribelli seleka. Per dieci anni la Comunità di Sant’Egidio ha lavorato per aiutare il Paese a ricostruire un futuro. Con un dialogo e canali di comunicazione mai interrotti con il regime di Bozize, i politici in esilio, con i ribelli Djotodia, nella transizione di Madame Amba Panza, costruita a Roma, con il presidente Touaderà, rieletto per la seconda volta. È lui che a Madrid, nel 2019, prese anche l’impegno all’abolizione della pena di morte. Si è fidato di chi lì ha avviato la cura dell’Aids, lavorato alla riconciliazione nel Paese, cura i malati di epilessia, e ha avviato le vaccinazioni anti-Covid proprio negli stessi giorni dell’abolizione della pena capitale decisa all’unanimità: appena un anno dopo l’ultimo colpo di stato scampato. Il Kazakistan, governato per trent’anni da Nazarbaev, ha visto lievitare un desiderio di cambiamento che è andato in parallelo con l’accresciuta forza economica, fino ai massicci e inaspettati disordini e all’insurrezione all’inizio di quest’anno, superati con l’aiuto della Russia. E oggi colloca il Paese in una posizione complicata, che non ha impedito al leader Tobayev la condanna dell’invasione dell’Ucraina senza rinnegare l’amicizia con la Russia. Venti anni di lavoro anche di Sant’Egidio e del movimento contro la pena capitale, specialmente di una donna, una giurista di ferro e fede, la fondatrice delle “Madri contro la pena di morte”, partito da Tashkent, che ha tradotto in Asia centrale la battaglia abolizionista. Un accompagnamento passo per passo - con rischio personale, proteso a creare una mentalità, preparare la società civile, aprire i percorsi legislativi. Il mondo si aiuta a cambiare così. Anche la guerra di un intero Stato contro un singolo individuo pesa. E pesa la guerra tra gli Stati. Per la pace si lavora immaginandola e dialogando quando ancora non c’è e non si vede ancora. Daesh e superpotenze: Il tesoro conteso della miniera d’Africa di Daniele Bellocchio L’Espresso, 26 giugno 2022 Jihadisti e milizie puntano ai giacimenti della Repubblica democratica del Congo. Il Paese insanguinato dove è atteso Papa Francesco. La notte sta accomiatandosi con lentezza dalla Repubblica democratica del Congo. Le nere montagne del massiccio del Rwenzori appaiono ancora indefinite all’orizzonte; in cielo persiste il profilo di una luna trasparente ma, poco a poco, la delicata luce dell’albeggio svela la città di Beni, incastonata a 1.100 metri d’altezza tra il lago Alberto e il lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, tra anatemi esiziali e malvagità politiche. È qui, infatti, che nel 2019 si è consumata la prima epidemia di Ebola in una zona di conflitto e la più feroce per numero di bambini colpiti, e oggi è sempre questa città, nell’estrema parte settentrionale della provincia del Nord Kivu, ad essere l’epicentro della guerra tra la formazione jihadista degli Adf e l’esercito governativo. Il bailamme che sveglia e infetta di una vitalità febbrile il centro cittadino nel giorno di mercato è stato sovvertito da un silenzio inquietante. Nel vicino villaggio di Mutuej, nella notte, è stato compiuto un massacro da parte di una colonna islamista e la notizia, che si diffonde in breve tempo attraverso le frequenze delle radio locali, paralizza e ammutolisce il capoluogo. Le strade vengono subito occupate dai soldati governativi che immediatamente allestiscono posti di blocco, dispongono i blindati, effettuano perquisizioni e controllano ossessivamente i documenti: tutti imbracciano i kalashnikov, alcuni celano la tensione dietro le scure lenti dei Ray-Ban, altri invece la ostentano, appoggiando l’occhio nella scanalatura del mirino e tenendo sotto tiro chiunque si aggiri per le vie di Beni. Per avere piena comprensione di ciò che è avvenuto occorre dirigersi all’obitorio dove si rimane sconvolti di fronte al delirio di odio che è stato perpetrato. Dozzine di corpi sono ammassati nella piccola camera mortuaria. Alcuni hanno impressi gli inequivocabili segni dei colpi degli Ak-47, altri sono stati mutilati con i machete, altri ancora barbaramente decapitati. La commistione tra l’afrore di morte e l’umidità rende l’aria irrespirabile ma, nonostante ciò, centinaia di persone, stravolte e immobili, vegliano le salme. “Non ne possiamo più! Ogni giorno avvengono massacri e il mondo dov’è? Ci mandate sacchi di farina anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a queste stragi. Noi vogliamo soltanto la pace”: mentre il parente di una vittima sfoga la sua collera demolendo le consunte e sfiduciate parole d’ordine della carità internazionale, intanto gli infermieri trasportano dei cadaveri appena rinvenuti nella boscaglia. Due barellieri avanzano lentamente: il lenzuolo che copre la salma che stanno trasportando scivola e, in quel momento, si svela il corpo di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, con la testa riversa e la gola recisa. Un silenzio assoluto, livido di paura e impotenza, cala su una folla attonita e sconvolta che osserva quell’ennesimo assassinio senza ragione e senza risposte. Si odono solo i rintocchi ferali delle campane dell’ospedale che, oltre a informare la comunità della tragedia, forse suonano anche per esortare Dio a essere testimone delle azioni dell’uomo e, nel vederle, soffrire per la sua creazione. Quanto avvenuto nel piccolo villaggio della Repubblica democratica del Congo è infatti solo l’ultimo di una serie di massacri perpetrati dagli Adf, Allied democratic forces, un gruppo jihadista, nato in Uganda e che nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh, ribattezzandosi Iscap: Provincia dello Stato islamico in Africa centrale. I ribelli che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti e reclutamento di bambini soldato, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali del Paese ma, secondo analisti e giornalisti locali, il vero obiettivo, più che la guerra santa, sarebbe quello di mettere le mani sulle ricchezze del Congo. La formazione terroristica è passata alla ribalta delle cronache perché è una delle prime formazioni di matrice islamica ad aver dato vita a una ribellione in Congo ma, soprattutto, perché è il gruppo più spietato presente nel Paese e che fa dell’uso sistematico della violenza contro i civili lo strumento per prendere controllo del territorio. Per provare a respingere l’avanzata delle bandiere nere l’esecutivo congolese ha chiesto supporto al governo dell’Uganda che, da dicembre, ha inviato le proprie truppe in appoggio a quelle di Kinshasa. Nelle province orientali dello Stato africano però non si annovera solo la ribellione degli jihadisti: sono oltre 130 le formazioni armate e, da aprile, nella parte meridionale del Nord Kivu, è divampata la guerriglia del gruppo filo-ruandese M23 che nel 2012 aveva dato origine all’ultimo conflitto su vasta scala in Congo. A causa del cristallizzarsi dei conflitti, si è aggravata anche la crisi umanitaria: i profughi interni, secondo l’ultimo report dell l’Unhcr, son più di 5 milioni e il World food programme ha dichiarato che sono 27 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo, 3,4 milioni i bambini malnutriti e, dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle sole province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1.800, stando a quanto riporta il Kivu security tracker. Tra le vittime della violenza che impera nell’est del Congo si annovera anche l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso a soli 44 anni, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, la mattina del 22 febbraio 2021 a Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo Goma, mentre stava viaggiando su un fuoristrada del Programma alimentare mondiale all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Pam. Secondo le ricostruzioni e le dichiarazioni rilasciate dalle autorità congolesi si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto finito tragicamente, ma molti interrogativi e ombre ancora avvolgono la vicenda. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei Caschi Blu in Congo) non sarebbe stata preventivamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere. La figura del diplomatico sarà ricordata anche da Papa Francesco durante il suo viaggio nel Paese africano, programmato a luglio e posticipato per motivi di salute. Il Pontefice ha annunciato che celebrerà una messa a Chegera, proprio vicino al luogo in cui si è registrato il tragico agguato. Nella visita del Santo Padre in Repubblica democratica del Congo, a 42 anni esatti da quella compiuta da Giovanni Paolo II, missionari e vescovi locali hanno visto la ferma volontà da parte di Francesco di esporsi in prima persona perché la violenza cessi nella nazione. Il Papa negli anni ha infatti più volte invitato a pregare per il Congo denunciando anche lo sfruttamento del sottosuolo che alimenta gli endemici conflitti. L’ex Zaire, pur occupando il 175esimo posto su 189 Paesi nell’Indice dello sviluppo umano, è una delle nazioni maggiormente ricche di materie prime al mondo. Qui si trovano metà dei giacimenti planetari di cobalto; l’ex colonia belga è il quarto produttore di diamanti, possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan oltre a immensi giacimenti di rame, uranio, oro, cassiterite e petrolio. Ed è proprio questa ricchezza ad aver attirato gli appetiti di potenze internazionali e locali ed essere alla base delle guerre che dal’96 ad oggi hanno insanguinato la regione provocando oltre 6 milioni di morti. “Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo. Il popolo congolese muore di fame e stenti per arricchire il resto del mondo. Questo è il grande paradosso del mio Paese”. Le parole di Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu, anticipano quanto si scopre all’indomani nelle miniere di cassiterite di Nyabibwe, nel Sud Kivu, dove, nella cornice di un paesaggio empireo, tra montagne e foreste smeraldine, si consuma un inferno terreno. Centinaia di persone lavorano nelle cave, senza sosta, per pochi dollari al giorno. Un gruppo di donne caracolla dal pendio di una montagna trasportando gerle che pesano più di 50 chili; dei bambini, badili alla mano, setacciano per ore, con i piedi nell’acqua, il materiale estratto dalle miniere separando i minerali dalle pietre grezze; uomini dai volti deformati dalla fatica, con le mani granitiche e gli occhi gonfi, scavano senza sosta e senza nemmeno la consolazione di un raggio di sole, nella speranza di trovare una nuova vena. I minatori, che spesso muoiono sepolti sotto i crolli improvvisi, vengono pagati in base a quanto estraggono e se al termine della giornata non trovano nulla, non percepiscono nessuna paga. Da decenni il popolo congolese, sotto il maglio dell’indifferenza globale, balsamo per coscienze e interessi, è costretto quindi a calarsi continuamente nelle miniere e a precipitare negli abissi di uno sfruttamento talmente disumano e inintelligibile che non consente né di vivere e neppure di morire, ma solo di consumarsi poco a poco, nelle viscere di una terra che appartiene a tutti, eccetto che ai congolesi. Repressione e promesse deluse nel regime del Myanmar che condanna Aung San Suu Kyi di Antonio Fiori Il Domani, 26 giugno 2022 Per inquadrare in maniera precisa la situazione che la Birmania sta vivendo partiamo da alcuni dati illustrativi: a partire dal 1° febbraio 2021, infausta data del colpo di stato perpetrato per mano dei militari, circa duemila persone sono state uccise - alcune delle quali giustiziate in strada - più di 11mila si trovano in una situazione di detenzione e 115 sono state condannate a morte. Si tratta di cifre impressionanti, che, accomunate alle quasi 600mila persone sfollate a causa della violenza del regime, dipingono una situazione di estrema drammaticità; se a ciò si aggiunge che l’economia è crollata - anche a causa delle limitazioni imposte dal Covid-19 - e oltre la metà della popolazione si trova al di sotto della soglia di povertà si comprende come il paese si trovi sull’orlo del collasso. Eppure, sebbene si trovi ad affrontare una crisi umanitaria senza precedenti, di cui - secondo Tom Andrews, il relatore sui diritti umani delle Nazioni unite in Birmania - i bambini stanno diventando uno dei bersagli preferiti dei militari al fine di spezzare la resistenza della popolazione, l’opinione pubblica mondiale sembra aver perso interesse nei confronti del paese del sudest asiatico. Vista la complessa situazione provocata dalla guerra in Ucraina e i costi che ciò impone all’occidente e la necessità di riprendersi dal lungo e difficoltoso periodo determinato dalla pandemia ciò è certamente comprensibile, ma chiudere gli occhi davanti al genocidio e ai crimini contro l’umanità che stanno avendo luogo in Birmania non solo è imperdonabile, ma rischia di far sprofondare definitivamente il paese in un baratro dal quale potrebbe essere impossibile riemergere. Un improvviso sussulto di attenzione mediatica verso la Birmania, tuttavia, si è verificato nelle ultime ore, quando si è diffusa la notizia del trasferimento di Aung San Suu Kyi, la famosa leader del partito National League for Democracy (Nld) e Nobel per la Pace nel 1991, presso un luogo di detenzione recentemente costruito nei pressi del penitenziario della capitale Naypyidaw, dove le numerose accuse contro di lei verranno d’ora in avanti discusse. A partire dal maggio dello scorso anno, Aung San Suu Kyi - che finora era stata costretta agli arresti domiciliari in un luogo sconosciuto - è stata condannata a undici anni di prigione sulla base di improbabili capi d’accusa come il possesso di walkie-talkie, la violazione delle norme anti Covid, e la corruzione. Se tutte le accuse dovessero essere confermate, Aung San Suu Kyi rischia di vedersi condannata a più di 150 anni di prigione. È plausibile che la stretta operata dai militari - che non hanno fornito alcuna spiegazione al riguardo - ai danni della Lady, che ha recentemente “festeggiato” il suo settantasettesimo compleanno, miri a confinarla ai margini della politica attiva per il resto dei suoi giorni. Del resto, Aung San Suu Kyi fu una delle prime a essere imprigionata il giorno stesso in cui l’Nld, risultato vittorioso alle elezioni, avrebbe dovuto esprimere un governo in grado di traghettare il paese verso una piena democrazia. La situazione che si è profilata nel paese, ferme restando le indubbie responsabilità del Tatmadaw (le forze armate), è tuttavia figlia anche di un’errata strategia giocata dall’Nld e da Aung San Suu Kyi. Nel 2015, il partito guidato dalla Lady si impose alle elezioni e dichiarò che avrebbe cominciato a prendere seriamente in considerazione una serie di importanti istanze, come la ripresa economica, la transizione democratica e la riconciliazione interetnica. Moltissimi, nel marzo 2016, quando Aung San Suu Kyi assunse la posizione di consigliere di stato (equivalente al primo ministro) la ritennero in grado non solo di mantenere tutte le promesse ma anche di far registrare un reale passo in avanti al paese. Purtroppo, le cose sono andate diversamente. Di certo l’azione di governo è risultata inefficace a causa delle limitazioni stringenti imposte dalla Costituzione del 2008, che consegnava di fatto il controllo di un quarto del parlamento nelle mani dei militari - rendendo così impossibile qualunque cambiamento costituzionale - così come i ministeri “centrali” (confini, interni e difesa nazionale). Questo assetto ha continuato a riservare al Tatmadaw una posizione di assoluta centralità nel quadro istituzionale della Birmania, impedendo qualunque trasferimento di potere dalle mani dei generali a quelle dei civili eletti. A parte ciò, Aung San Suu Kyi ha pagato a caro prezzo la sua debolezza come leader politico, peraltro già ampiamente visibile nel corso della campagna elettorale del 2015. Nonostante la sua competenza su molte delle questioni che attanagliavano il paese fosse modesta, Aung San Suu Kyi non solo ha deciso di contornarsi di personaggi certamente più conosciuti per la devozione nei suoi confronti che per la loro reale capacità politica, ma ha dilapidato l’occasione di dare unità all’opposizione, non volendo dividere il proscenio con attivisti prodemocratici meno affermati di lei. Ciò l’ha fatta desistere anche dalla possibilità di stringere qualunque alleanza elettorale con le più rinomate organizzazioni della società civile o con i numerosi partiti formati su base etnica che avrebbero rappresentato degli alleati naturali dell’Nld. Nel corso di quella campagna, peraltro, l’Nld non è riuscito a offrire alcuna soluzione specifica ai problemi reali del paese o alcun piano a lungo termine, trincerandosi dietro vaghe promesse, come la riconciliazione nazionale, la prosperità e la democrazia. Vale la pena sottolineare come una delle questioni per cui Aung San Suu Kyi è stata maggiormente criticata è rappresentata non solo dall’indietreggiamento fatto registrare in questi anni in Birmania nell’ambito dei diritti umani e civili, con particolare riferimento ai frequenti attacchi ai giornalisti, ma, soprattutto, dal trattamento riservato ai musulmani Rohingya, la cui situazione ha continuato a precipitare. Del resto, anche una sola parola in difesa dei Rohingya avrebbe potuto rivelarsi ferale per le sorti dell’Nld, il cui successo è legato al radicamento profondo in una società intensamente antimusulmana. L’auspicio è certamente quello che la Birmania possa prima o poi uscire dalla difficile situazione che sta vivendo da oltre un anno e mezzo; del resto, invece di garantire alla Birmania una qualche forma di stabilità, il colpo di stato guidato dal generale Min Aung Hlaing ha esacerbato la frammentazione di un paese che già soffriva a causa dell’esistenza di più di cento etnie diverse all’interno dei propri confini. Ciò che l’esperienza birmana, comunque, conferma è che non necessariamente coloro che hanno guidato la lotta per l’instaurazione del regime democratico debbano poi trasformarsi per forza di cose in grandi leader democratici.