Cartabia punta sulla giustizia riparativa e il reinserimento sociale dei detenuti di Giulia Merlo Il Domani, 25 giugno 2022 Al forum internazionale della giustizia riparativa, la ministra della Giustizia ha spiegato che “In questa era di rabbia, la pratica della giustizia riparativa può dare un contributo essenziale nel rispondere ai bisogni più urgenti del nostro tempo”. Lanciato anche il memorandum per il lavoro carcerario insieme al ministro Colao, per formare e inserire i detenuti nel mondo professionale delle telecomunicazioni. “La repressione dei reati con il carcere è giusta, ma la giustizia riparativa è un cambio culturale, offre un passo in più che è quello di ricucire, ripristinare i rapporti che sono stati lesi”, con queste parole la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha aperto a Sassari l’undicesimo forum internazionale della giustizia riparativa. Il tema è caro alla ministra, che si sta impegnando in quest’ottica per introdurre strumenti concreti anche nel sistema penale italiano. “La giustizia ripartiva è sotto utilizzata nella grande maggioranza dei Paesi, anche in quelli che l’hanno introdotta nel proprio sistema legale. Le ragioni sembrano essere una mancanza di consapevolezza e una carenza di fiducia da parte dei professionisti della Giustizia così come dei cittadini”. La giustizia riparativa - Per giustizia riparativa non ha strettamente a che fare con il processo e la condanna, ma è un diverso approccio al reato, da considerarsi principalmente in termini di danno alle persone, che deve poi essere rimediato dall’autore. Per rimediare alle conseguenze del reato, però, serve un coinvolgimento attivo anche della vittima e della comunità, per trovare soluzioni comuni per far fronte alle conseguenze del reato. “Nel lungo termine la diffusione di una mentalità riparativa promette di trasformare, passo dopo passo, la qualità del nostro orizzonte relazionale, con lo scopo di prevenire l’esplodere di un irreparabile dissenso che apre ferite che non possono essere curate”, ha spiegato Cartabia. Per questo, nella riforma della giustizia, penale, è stato previsto un mandato al parlamento per redigere decreti legislativi che disciplinano la giustizia riparativa nel rispetto dei principi e delle norme internazionali ed europee e sulla base dei criteri stabiliti dal parlamento. Lo strumento determinante perché questo tipo di giustizia abbia effetto è il dialogo tra reo e vittima, che deve avvenire ovviamente con il consenso soprattutto della persona offesa. Uno degli ambiti ristretti in cui la giustizia riparativa ha trovato applicazione in Italia è quello del terrorismo politico, con percorsi per le famiglie delle vittime ed ex componenti dei gruppi armati, per poter creare dialogo e ottenere risposte. L’esempio della Sardegna - Un importante esempio di giustizia riparativa è l’esperienza di Tempio Pausania, cominciata nel 2011 dopo la costruzione del nuovo carcere di Nuchis. Nel 2012 l’istituto penitenziario diventa di massima sicurezza e l’arrivo di detenuti condannati per reati molto gravi, come l’associazione di stampo mafioso, crea preoccupazione nella comunità, creando una frattura tra il carcere e la città. Per sanare questa diffidenza, l’università di Sassari, l’istituto penitenziario, il Consiglio comunale, le Ong locali hanno iniziato a lavorare insieme per costruire un nuovo rapporto con il carcere e con i detenuti, attraverso percorsi formativi, scolastici e culturali che hanno portato i cittadini nel carcere e hanno favorito anche il reinserimento culturale dei detenuti. Il reinserimento sociale - Proprio il reinserimento sociale dei detenuti è la vera scommessa del carcere del futuro. Un detenuto che sconti la sua pena in cella, senza stimoli né aspettativa di miglioramento della sua condizione, produce solo ulteriore degrado sociale e aumenta il rischio di recidiva. Non a caso, i detenuti italiani hanno un rischio altissimo di tornare a delinquere una volta scontata la pena: le carceri italiane producono un tasso di recidiva oltre il 68 per cento, secondo i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria del 2016. Gli strumenti più efficaci per rendere effettiva la funzione rieducativa della pena sono le misure alternative al carcere e l’offerta di opportunità professionali ai detenuti, così da dare loro competenze che gli permettano di aspirare ad una vita diversa una volta scontata la pena. In questa direzione va il Memorandum d’Intesa “Lavoro Carcerario”, firmato dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia e dal ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, Vittorio Colao. Il progetto offre ai detenuti opportunità professionali remunerate e formazione specialistica nei settori delle telecomunicazioni e dell’informatica. Le attività previste dal memorandum si svilupperanno inizialmente in due ambiti specifici: un progetto di rigenerazione degli apparati terminali di rete, a cui hanno già aderito le aziende Fastweb, Linkem, Sky, Telecom Italia, Tiscali, Vodafone e Windtre; un progetto di realizzazione di reti di accesso telecomunicazioni con Open Fiber, Sielte e Sirti. La collaborazione con gli istituti penitenziari è comunque aperta a tutti gli operatori del settore che vorranno aderire. Prima del lavoro vero e proprio ci saranno dei programmi di formazione, poi di selezione e inserimento lavorativo sia fuori che dentro il carcere. I detenuti che accederanno al programma verranno retribuiti secondo i parametri dei contratti collettivi di lavoro e quindi avranno modo di costruirsi anche un inizio di solidità economica oppure di contribuire alla vita dei familiari che li aspettano. Le sedi dei laboratori fin qui identificati sono: Bologna, Cagliari, Catania, Frosinone, Lecce, Milano, Torino e Roma. “Si tratta di un progetto di ampia portata e altrettanta complessità, ma con benefici per tutti: per l’amministrazione penitenziaria, che offre lavoro in un settore strategico; per i detenuti, che avviano il proprio reinserimento nella società; per le imprese, che possono formare manodopera specializzata da assumere. Si tratta in definitiva di un progetto che porta benefici all’intero Paese, di cui il carcere rappresenta uno specchio: investire nella qualità della detenzione equivale infatti ad investire nella collettività”, ha dichiarato Cartabia. Il ministro Colao ha ringraziato le “numerose aziende del settore privato per aver partecipato con convinzione a questo progetto, dimostrando un’alta sensibilità sociale che consentirà a molti uomini e donne di avere un’occasione preziosa per il loro futuro reinserimento sociale”. Firmato memorandum intesa per programma lavoro carcerario di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2022 Obiettivo dell’iniziativa, “offrire opportunità professionali, formare competenze specializzate e favorire il reinserimento sociale dei detenuti”. Il tutto, nell’ambito di un progetto nato in seguito alla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per la trasformazione digitale. Modem e fibra. La strada per il reinserimento nella società dopo il carcere passa per il lavoro. E un percorso di formazione che dia la possibilità di seguire una nuova strada. Con le grandi aziende delle Tlc e dell’Ict che entrano in carcere e offrono una seconda chance ai detenuti. È proprio questo il tema al centro del Memorandum d’intesa “Lavoro carcerario” siglato a Uta (Cagliari) e Torino tra i ministri Marta Cartabia, Vittorio Colao e i rappresentanti di Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone, Windtre, Open Fiber, Sielte e Sirti. Il lavoro per nuova chance - Obiettivo dell’iniziativa, “offrire opportunità professionali, formare competenze specializzate e favorire il reinserimento sociale dei detenuti”. Il tutto, nell’ambito di un progetto nato in seguito alla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per la trasformazione digitale. L’accordo - L’intesa siglata tra imprese e istituzioni si sviluppa su due binari. Uno nell’ambito di un programma cui hanno già aderito Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone e Windtre, e l’altro con il piano per la costruzione delle reti di accesso a cui hanno preso parte Open Fiber, Sielte e Sirti. Cartabia: soluzione per garantire il volto costituzionale della pena - A guardare positivamente l’iniziativa è la ministra della Giustizia Marta Cartabia che sottolinea la “mobilitazione di tanti soggetti e tante amministrazioni e tante aziende importanti coinvolti in un progetto che ha il suo cuore in un settore deciso per il paese che è l’innovazione tecnologica”. Premessa per rimarcare l’importanza del lavoro, che sottolinea la ministra è “una componente decisiva e essenziale per garantire il volto costituzionale della pena che ricordiamolo secondo l’articolo 27 della Costituzione è sempre orientata alla rieducazione risocializzazione e reinserimento di tutti i condannati”. Non solo, la ministra rimarca anche che “in questo momento di grande trasformazione del nostro paese ciascuno deve fare il suo ma tutti insieme dobbiamo guardarci in faccia e creare connessioni per il bene di tutti insieme per tutto il Paese. Questo avvio che parte da due città diverse connesse e collegate è un modo per sottolineare che è un progetto che riguarda tutto il paese, con questa connessione abbracciamo tutto il territorio nazionale”. Il nuovo corso - Quindi il nuovo corso: “Oggi parte non una occupazione qualsiasi o un riempimento delle ore del tempo, che sarebbe significativo - aggiunge la ministra della Giustizia - ma lavoro vero con formazione professionalizzante e adeguata retribuzione e prepara il dopo fine pena. L’aver lavorato per aziende così qualificate e importanti può fare la differenza e consentire di essere guardati con meno diffidenza”. La nuova vita dei modem - Gli apparecchi dismessi saranno rigenerati nei laboratori realizzati dalle imprese che aderiscono al progetto, all’interno delle strutture detentive. A operare ci saranno i detenuti assunti con regolare contratto di lavoro. Il potenziale complessivo di questo ambito, sottolineano i promotori, è di circa 200 persone occupate. Al momento è già attivo nelle carceri di Lecce e Roma-Rebibbia grazie all’iniziativa di Linkem Sp. La rete per la fibra - Per quanto riguarda la posa della fibra, si prevede che i detenuti debbano uscire dal carcere per lavorare nei cantieri. Per le aziende la possibilità di formare i detenuti attraverso appositi corsi. Su questo fronte sono stati individuati complessivamente 2326 detenuti con i requisiti potenziali personali e di legge in grado di lavorare anche all’esterno. La prima fase del progetto avrà carattere di sperimentazione su tre istituti che saranno in grado di formare circa 100 detenuti in sei settimane. La transizione digitale - “Voglio innanzitutto ringraziare le numerose aziende del settore privato per aver partecipato con convinzione a questo progetto, dimostrando un’alta sensibilità sociale che consentirà a molti uomini e donne di avere un’occasione preziosa per il loro futuro reinserimento sociale - commenta Vittorio Colao, ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale -. Oggi insieme alla Ministra Marta Cartabia diamo il via ad un’iniziativa che potrà essere replicata anche da imprese di altri settori e porterà benefici sia alle aziende che vorranno partecipare, sia ai detenuti con nuove occasioni di formazione e opportunità professionali dentro e fuori dagli istituti italiani”. La legge sulle droghe? Il principale veicolo di ingresso in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2022 “La sfida democratica”, questo è il titolo del Libro Bianco sulle droghe, giunto alla tredicesima edizione, promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Un libro che dedica la parte centrale alla questione democratica, a seguito del giudizio di inammissibilità del referendum cannabis da parte della Corte costituzionale. Infatti, oltre 600.000 cittadini si sono visti privare dei propri diritti costituzionali per una interpretazione discutibile e certamente fuori dal tempo sia della Costituzione che delle convenzioni internazionali. Proprio su quest’ultimo tema era centrata la scorsa edizione del Libro Bianco. In questa viene pubblicata la memoria presentata dal Comitato Promotore del Referendum Cannabis Legale e la sentenza di inammissibilità 51/ 2022. Oltre a queste è pubblicata la trascrizione integrale della parte inerente il referendum della conferenza stampa del Presidente Amato che tanto scalpore ha fatto per metodo, toni e merito insieme a commenti precedenti e successivi il giudizio della Corte, a supporto dell’ammissibilità del quesito. Ma la prima parte, come sempre, è dedicata alle conseguenze penali e sanzionatorie del DPR 309/ 90. La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati ‘ tossicodipendenti’ non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono quindi decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: come dimostrato in questi anni la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Mentre, si apprende sempre dai dati sviscerati dal libro bianco, ben 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 28,3% degli ingressi in carcere. Sono lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Sostanzialmente stabile la percentuale dei presenti per droghe è il 34,88% del totale (nel 2021 era il 35,04%). Sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe) 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028. Si confermano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti ‘tossicodipendenti’: lo sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/ 12/ 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti ‘ certificati’, il 28,16% del totale più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini- Giovanardi (27,57% nel 2007), alimentato dal continuo ingresso in carcere di persone ‘tossicodipendenti’, che passato il Covid torna a salire. Le conseguenze della giustizia? Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte, probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia. Per quanto riguarda le misure alternative, secondo quanto denunciato dal libro bianco, non sostituiscono ma ampliano l’area del controllo. Risulta un nuovo massimo storico per il numero delle misure alternative, che però va letto anche nel senso che esse sono diventate una alternativa alla libertà invece che alla detenzione. In un contesto di forte domanda di controllo sociale istituzionale, gli strumenti di diversion e quelli di probation consentono di ampliare l’area del controllo, piuttosto che di limitare quello coattivo- penitenziario. A commentare i dati del rapporto, nelle conclusioni, è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “La normativa sulle droghe non ha alcuna efficacia preventiva, speciale o generale - scrive Gonnella -. I numeri dei consumi e della repressione ci dicono che le scelte del singolo o della generalità dei consociati non sono state minimamente condizionate dalla severità della reazione penale. Non c’è ancora nel nostro Paese la tensione verso un cambio di paradigma”. Studiare in carcere non dovrebbe essere un’eccezione di Madi Ferrucci L’Essenziale, 25 giugno 2022 “La parola è quella cosa che ti distingue dagli animali”, dice quasi sottovoce Cesare (il nome è di fantasia), vissuto per più di vent’anni in regime speciale di carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis. È seduto in una piccola sala dell’università Statale di Milano, a cui può accedere per motivi di studio. Parla lentamente e sceglie ogni termine con molta cura. Al chiasso del chiostro universitario preferisce una piccola stanza, che chiama “il suo rifugio”, perché dopo anni di isolamento i troppi rumori, l’ampiezza degli spazi e le tante persone che camminano per i corridoi ancora lo disorientano. Ha poco più di cinquant’anni, un profilo esile e una certa eleganza nei movimenti. “Nel silenzio di una cella molti sensi rimangono addormentati, in tutti questi anni i libri sono stati l’unica alternativa concreta alla follia”. Oggi è iscritto all’università, alla sua pena non c’è un termine, ma lo studio gli ha permesso di uscire dai due metri quadrati in cui ha vissuto per tutti questi anni, prima con la mente e poi con il corpo. “Non posso dire di sperare di uscire, ma posso almeno sperare di trascorrere una bella giornata, di godere di un po’ di bellezza”. Ottenere quei libri non è stato semplice, è entrato in carcere poco più che ventenne e si è diplomato da autodidatta, senza poter usufruire di lezioni odi altri aiuti: “Sono siciliano, la realtà sociale da cui venivo è quella dei margini. In terza media i professori mi dissero che non dovevo azzardarmi a iscrivermi alle superiori. Appena sono entrato nel mondo reale mi sono perso, sono arrivato a fare molto del male”. A interrompere il suo isolamento è stato Stefano Simonetta, professore di filosofia medievale della Statale che dal 2015 porta avanti in tre carceri di Milano un programma di tutoraggio in cui ogni detenuto viene affiancato da uno studente che lo supporta nello studio. Nel 2021 erano 127 gli studenti in carcere iscritti alla Statale, primo ateneo in Italia per numero di detenuti iscritti (nell’anno accademico 2021-2022 sono 1.246 in totale, secondo la Conferenza nazionale universitaria poli penitenziari): “Oggi, dopo anni di battaglie, ogni settimana tengo lezione in carcere con cinquanta persone, la metà degli studenti sono interni e l’altra metà esterni”, dice il professor Simonetta. “Eppure l’istruzione non dovrebbe essere una missione, ma un diritto. Spesso le direzioni carcerarie ci vedono come delle anime belle a cui prima o poi passerà la voglia. Solo che a noi la voglia non passa”, racconta sorridente. “Abbiamo incontrato persone che dopo decenni di detenzione e isolamento non avevano mai avuto l’occasione di incontrare qualcuno della società civile”, gli fa eco la tutor Chiara Dell’Oca. “All’inizio molti erano diffidenti e riuscivano a malapena a parlare. Una volta un detenuto che stavo accompagnando all’università continuava a inciampare e mi confessò di non riuscire più a camminare in uno spazio diverso da quello dritto e definito dei corridoi del carcere. Con il tempo hanno imparato ad aprirsi, ma soprattutto hanno ripreso a sorridere. Il cambiamento è stato sconvolgente”. Simonetta è stato uno dei primi a riuscire a entrare nella casa di reclusione di Opera, in alta sicurezza, con un cospicuo numero di studenti. Per i detenuti è stato uno dei primi veri contatti umani con l’esterno. “L’arrivo dei ragazzi da fuori è stato un modo per vedere oltre il muro, lo hanno reso poroso”, racconta Vincenzo (il nome è di fantasia), ex 41 bis, in carcere per reati di mafia da oltre vent’anni. “In loro ho rivisto me da giovane, mentre entravo qui dentro, nell’età in cui avrei potuto fare scelte diverse”. Lo studio per molti è un ritorno alle origini, a un tempo che esiste solo nella memoria, prima di commettere i reati che li hanno condotti in carcere: “Mi sono iscritto ad agraria, perché da ragazzino lavoravo nella ristorazione, in un certo senso l’ho fatto per allungare lo sguardo. Quando per vent’anni oltre le inferriate vedi solo altre pareti, la vista si riduce e allora ho cercato di arrivarci con la fantasia là fuori”. Vincenzo parla anche del futuro, del suo sogno di lavorare in un’azienda agricola o in un agriturismo. Ma con l’ergastolo ostativo quel “diritto alla speranza” codificato dalla Corte europea dei diritti umani, in Italia è di fatto negato. L’articolo 27 della costituzione parla di pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo senso, l’istruzione non dovrebbe essere considerata un privilegio, ma un diritto da garantire a tutti i detenuti. Eppure ad accedere all’istruzione è ancora una minoranza. A confermarlo sono i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presentati i120 giugno nella relazione al parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “Negli ultimi quindici anni ci sono stati progressi miseri. È vero che nell’anno accademico 2021-2022 le persone iscritte all’università sono state 1.246, con un aumento di oltre duecento unità rispetto all’anno precedente, ma dobbiamo considerare che sono poco più del 2 per cento su una popolazione carceraria di oltre 54mila detenuti e un alto tasso di analfabetismo. Su questo le disuguaglianze in carcere sono enormi”, spiega Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Oltre la metà dei detenuti (25.171) non ha dichiarato un titolo di studio e della restante metà più di 16mila sono fermi alla licenza media inferiore. “I numeri sono molto simili a quindici anni fa, sia nel tasso di laureati sia nella percentuale di analfabetismo, questo significa che in carcere la situazione non si è evoluta di un passo”, aggiunge Palma. Anche nel carcere di Bollate a Milano, nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per i detenuti comuni, con un’attenzione speciale all’aspetto rieducativo della pena, la percentuale di iscritti a un percorso d’istruzione è molto bassa. Julian Dosti, albanese nato nel 1978, è stato il primo detenuto di Bollate a iscriversi alla Statale per studiare filosofia. Passeggia nell’ateneo come se fosse di casa e a ogni passo qualcuno si ferma per salutarlo. “Sono un punto di riferimento qui”, dice fiero, “ho fatto amicizia con tutti”. Arrivato in Italia ne12002, ha avuto difficoltà a ottenere i documenti. Ha quindi cominciato a lavorare in nero, per poi passare al piccolo spaccio. In breve tempo si è ritrovato coinvolto in traffici internazionali. È stato in carcere più volte, ma la pena più lunga l’ha ricevuta per l’omicidio di un connazionale nel 2007. Ora sta scontando l’ultimo periodo tra casa e lavoro. “Non facevo il criminale perché ero costretto, in un certo senso mi piaceva. Ero quasi orgoglioso di stare in carcere con i pezzi grossi”, racconta. “Col tempo, guardando quei volti ogni giorno, ho cominciato a non riconoscermi più. Vedevo uomini stanchi e deboli, quasi mi intenerivano, e anch’io stavo diventando così. Ho capito che dovevo studiare, trovare un modo per uscire dalla cella, alla fine sono i libri che mi hanno fatto prigioniero. Ho preso il diploma, poi un giorno un amico mi ha regalato l’Apologia di Socrate”. Dopo quella lettura Julian ha scelto di cambiare: “Quel libro parla di un uomo che accetta la legge, che accetta la sentenza, ma che preferisce morire piuttosto che perdere la dignità. È allora che ho pensato che dovevo studiare filosofia e lo scorso anno mi sono laureato”. Oggi lavora per una compagnia assicurativa ma vorrebbe trovare un impiego nel sociale. “Il percorso scolastico e quello lavorativo in carcere spesso non si parlano”, spiega. La formazione professionale nelle carceri è molto complicata, talvolta entra in conflitto con i percorsi di studio per il sovrapporsi degli orari e non sempre si concretizza in esperienze spendibili all’esterno. “C’è la tendenza all’infantilizzazione del detenuto, spesso si propongono corsi di cucito, di falegnameria o magari giochi. Se si vuole pensare al loro reinserimento nella società bisogna preoccuparsi di come usciranno e di cosa andranno a fare. Sono adulti che hanno capacità ed esperienze”, dice Alberto Martinelli, fino a pochi mesi fa professore delle superiori a Opera. Complice la pandemia, dal 2019 a12020 i corsi professionalizzanti sono passati da 203 a 92, come riporta il rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone. E anche le iscrizioni sono calate: nel 1990 la percentuale di iscritti ai corsi era intorno al 7,75 per cento della popolazione detenuta, nel 2020 si è arrivati all’1,41 per cento, il picco più basso mai raggiunto. Nel primo semestre del 2021 sono stati 148 i corsi attivati e solo 100 quelli terminati. Si tratta in media di meno di un corso professionale per istituto. La pandemia ha comportato anche l’interruzione di ogni tipo di attività extrascolastica, dal teatro allo sport. La scuola è andata avanti con enorme fatica e gli insegnanti per mesi non sono riusciti ad avere contatti coni detenuti. Durante la prima ondata, su 38.520 ore di lezione da svolgere all’interno degli istituti penitenziari ne sono state erogate solo 1.410. A gennaio 2021, quando ormai in tutta Italia la didattica a distanza era una realtà diffusa, la scuola in carcere non era ancora ripresa. “Prima che mi arrestassero avevo preso una laurea triennale in economia e stavo per finire la magistrale in giurisprudenza”, dice Salvatore, 51 anni, ex agente di polizia locale, in cella per omicidio. “Sono entrato in carcere nel 2015 e sono arrivato a Bollate nel 2018, li ho ricominciato gli studi, ma durante la pandemia è stato impossibile proseguire”, racconta. “Sono stato da una parte e dall’altra della barricata, quando ero operatore di polizia pensavo che fosse giusto che chi sbagliava pagasse marcendo in prigione. Poi ho compreso il dolore di questa esperienza e l’importanza di un percorso di rieducazione. Se tieni un essere umano chiuso in una gabbia per trent’anni senza far nulla, quando uscirà tornerà a mordere”. Il terzo ateneo con il maggior numero di iscritti (80 studenti) in carcere è l’università di Roma Tre, dove studia anche Alessandro, appassionato di ingegneria informatica e uscito dal carcere di Rebibbia appena trentenne, poco prima della pandemia. Per lui il ritorno alla vita è stato possibile, la sua era una condanna di tre anni, ma racconta che avere una pena breve gli ha reso gli studi ancora più complicati. “Spesso se non hai una condanna definitiva lunga, c’è la tendenza a e per me tre anni sono stati tanti. Fortunatamente ho avuto la possibilità di studiare, di conoscere professori come lo scrittore Edoardo Albinati i che ha catturato la mia attenzione, però ci sono moltissimi casi di esclusi dal diritto allo studio per questa ragione della temporaneità della pena”. Una tendenza confermata dal garante Mauro Palma: “I detenuti sono continuamente mobili, hanno pene di pochi anni, oppure sono trasferiti molte volte e spesso quando cambiano istituto la garanzia del percorso di formazione non è mantenuta, ci vogliono mesi per riattivarla. Poi c’è il tema di chi va ai domiciliari odi chi vuole continuare a studiare anche una volta uscito, lì i detenuti sono lasciati a loro stessi”. “Quando sono uscita avrei voluto iscrivermi all’università, avevo preso da poco il diploma, una soddisfazione enorme per me, ma dovevo pagare le tasse universitarie”, racconta Laura, ex detenuta del carcere di Rebibbia, mentre fuma una sigaretta davanti a un piccolo bar di San Giovanni a Roma, non troppo lontano da dove vive. “Fatico a trovare un lavoro e quindi mi sono adattata. Non voglio ricascare nella droga a costo di fare la dog-sitter in nero per tutta la vita”. Laura ha più di cinquant’anni, ma ha ancora voglia di studiare. È seduta e sorseggia una bibita fresca mentre aspetta la sua ex insegnante Barbara Battista, che arriva dopo pochi minuti. Racconta che la lettura l’ha aiutata a uscire dai periodi più difficili della sua vita, sin da quando è stata mandata in collegio all’età di undici anni: “Passavo le ore in biblioteca e sognavo attraverso le storie che leggevo, mi facevano sentire meno sola. Quando sono uscita ero come una bambina, ho iniziato a innamorarmi delle persone sbagliate, sono caduta nella droga e ne sono uscita del tutto quando sono entrata in carcere dopo quella sera”. La sera che ha cambiato la sua vita risale al 2013, quando in una colluttazione dentro casa ha ucciso l’ex compagno, che l’aveva maltrattata per oltre dodici anni. “In prigione ho deciso che qualcosa doveva cambiare, ho un figlio giovane, volevo dargli una madre diversa”, racconta. “Anche io volevo riuscire a guardarmi di nuovo allo specchio e ad avere un’autostima. Ho pensato di tornare in quel luogo pieno di libri che da piccola mi aveva fatto sentire bene, passavo ogni momento che potevo nella biblioteca del carcere. Lì un’altra donna mi ha aiutato a ricominciare gli studi”. La sua ex insegnante la guarda con orgoglio: “Le donne di Rebibbia hanno delle capacità enormi, la scuola dovrebbe essere la priorità per tutte loro”. Barbara è anche una sindacalista e durante la pandemia si è battuta per non veder ridurre l’organico degli insegnanti. Con il sistema attuale il personale è calibrato in base al numero degli scrutinati annuali, ma l’emergenza sanitaria li ha estremamente ridotti. Dopo giorni di sciopero è riuscita a ottenere il mantenimento delle classi senza che ci fossero tagli. “Mi fa soffrire, però, vedere che quando escono anche le più volenterose e costanti non riescono a reinserirsi”, dice Barbara abbassando lo sguardo. “A Ba’ nun te preoccupa’“, le dice la sua ex studente, “io mo cammino a testa alta”. Il carcere cambia se c’è una società civile sveglia di Valter Vecellio* Avvenire, 25 giugno 2022 Tra il tanto che “non si vede” (e che non è sufficientemente illuminato), c’è quello che accade nelle carceri: i detenuti, ma non solo loro. La più generale comunità penitenziaria è nel concreto reclusa al pari dei condannati. E proprio Zuppi, recentemente, ha cercato di scuoterci dall’indifferenza e dall’apatia verso questi ‘ultimi’. Lo ha fatto in occasione della presentazione del libro sulla figura di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere napoletano di Poggioreale un eroe ‘oscuro’. Bisogna fare un salto indietro di 42 anni: nel 1980 Salvia si scontra con il capo della Nco (Nuova camorra organizzata), Raffaele Cutolo: al rientro da un’udienza in un processo, il boss di Ottaviano non vuole essere perquisito, come da regolamento. Gli agenti penitenziari non osano, temono vendette. Il vicedirettore perquisisce personalmente Cutolo che reagisce cercando di prenderlo a schiaffi. La vendetta arriva il 14 aprile 1981: Salvia viene ucciso in un agguato sulla tangenziale di Napoli. Per Zuppi è stata l’occasione per sviluppare una riflessione sul carcere e la sua funzione: “Umanità e carcere possono e devono andare d’accordo senza alcun compromesso. Anzi l’una aiuta l’altro in modo vicendevole”. Da queste parole si comprende quale orientamento pastorale continueranno a guidare pensiero e azione del presidente della Cei per quel che riguarda il mondo penitenziario: “Le carceri dove non c’è niente, ma solo reclusione e contenimento, fanno uscire le persone peggiori di come ne sono entrate”. E se è vero che devono cambiare le persone, è altrettanto vero che devono cambiare i penitenziari: “Le carceri cambiano se intorno a essi c’è una società civile sveglia. E tanto spesso è il mondo intorno che permette al carcere di migliorare”. Volontariato e lavoro rappresentano cardini fondamentali sui cui si deve innestare un processo di cambiamento. Come i lettori di questo giornale sanno bene, non mancano esempi virtuosi di aziende che all’interno delle carceri danno lavoro ai detenuti, creano manufatti artigianali, prodotti dolciari e quant’altro: realtà che devono moltiplicarsi e possono scandire un altro ritmo alla vita quotidiana di chi è recluso. Poi, i volontari: ascoltano drammi e speranze di chi ha commesso errori, lo sostengono nei momenti difficili, senza giudicare. Zuppi denuncia indifferenza e insensibilità ‘giustizialista’ per questo mondo marginale che interessa a pochi: “Si butta via la chiave, pensando di risolvere così i problemi della sicurezza. E questo è pericoloso per tutti perché così dal carcere si esce peggiori”. Ci si deve piuttosto interrogare sulla trasformazione delle logiche e dei metodi delle mafie; comprendere i tratti delle connivenze, e così individuare gli strumenti per combatterli. Giustizia riparativa, funzione rieducativa della pena, trattamento più umano per tutti, nessuno escluso, sono le domande aperte su cui il presidente della Cei e la Chiesa si interrogano e interrogano. Credo che questo indichi una strada, un percorso, per credenti di ogni credenza e per inossidabili laici. Un terreno di comune impegno, che dovrebbe realizzarsi in una concreta unione-comunione di intenti. In passato mondo radicale e mondo cattolico l’hanno trovata contro lo sterminio per fame nel mondo: Giovanni Paolo II e Marco Pannella si trovarono parlare su questo uno stesso linguaggio. Perché quel miracolo non si dovrebbe e potrebbe ripetere, per quel che riguarda le carceri? Sono certo la porta del cardinale Zuppi è già spalancata. *Direttore di “Proposta Radicale” Lo Stato non dimentichi gli Oss delle carceri di Angelo Minghetti* laprimalinea.it, 25 giugno 2022 Con l’ordinanza 665 del 22 aprile 2020, venivano chiamati 1.500 Operatori Socio Sanitari a prestare il loro contributo in questo settore così complesso della giustizia: le Regioni e la Protezione Civile non sono riuscite a prorogare i contratti in scadenza per gli oss che lavoravano nelle carceri con un’eventuale stabilizzazione. Il “flop di riforma assistenziale”, oltre a ricadere sugli operatori socio sanitari ricade anche sui cittadini. La pandemia ha evidenziato una forte necessità di personale OSS da adibire nelle varie carceri italiane, figura completamente nuova, assicurando un migliore assetto alle prestazioni sanitarie del detenuto, emergendo quanto sia essenziale e importante il suo ruolo anche in queste strutture coadiuvando e collaborando con gli infermieri. Inoltre, sotto un profilo prettamente normativo si rileva l’incongruità del mancato riconoscimento dell’anzianità di servizio, di omissione contributiva. Nonostante l’interrogazione della Lega presentata da 127 deputati, la Ministra della Giustizia Cartabia si è espressa: “che non è competenza sua” negando l’importanza del ruolo dell’oss nelle carceri, lasciando l’amaro in bocca ai 1500 oss. Dopo la pandemia, si credeva di avere ossigeno nel sistema salute, invece si ritorna a una politica al risparmio e incapace di dare risposte. I 1.500 oss si aspettavano un impegno da parte del Ministro su una maggior attenzione al problema, ora si attendono le risposte delle altre due interrogazioni presentate (PD con la firma 17 Senatori e quella del M5S della Deputata Mammì). Alla luce di quanto emerso, la Federazione Migep e il Sindacato Shc Oss in accordo con i 1500 operatori non possono accettare che un Ministro rinneghi il valore di questi operatori e di averli spazzati via come una scopa vecchia. Un Ministro che avrebbe dovuto rendersi partecipe al tema, sensibilizzando i funzionari competenti a valutare la necessità di integrare nel sistema carceri la figura dell’operatore socio sanitario. Operatori socio sanitari che hanno prestato servizio presso le Unità speciali e non possono considerarsi “volontari”, ma sono stati dei veri e propri prestatori di lavoro alle dipendenze della Protezione Civile. Hanno lavorato con grandi capacità, senza limitazione oraria, mansionaria, assicurando un contributo qualitativo all’assetto delle prestazioni sanitarie dedicate agli ospiti delle strutture, incidendo positivamente all’interno delle aree sanitarie, collaborando con le figure professionali degli infermieri. Questa figura non merita un’umiliazione dopo questa pandemia, ma merita di più, poiché ha colmato il vuoto di assistenza ai detenuti, e oggi quel vuoto si è ricreato, una politica che non ha imparato nulla da questa pandemia. È stata indetta una manifestazione il 28 giugno 2022 a Roma per difendere una professione che è stato dichiarato eroe, per poi essere esclusa”. *Federazione infermieristica Migep-Oss “Il M5S resta il partito che ha riformato con noi la giustizia” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 giugno 2022 Walter Verini, tesoriere nazionale del Pd, ieri al Messaggero ha rilasciato un’intervista in cui auspica l’unione di tutte le forze progressiste. Sulla giustizia continuerà l’alleanza con i Cinque Stelle, visto che Ipf si accredita come più garantista? Io sto ai fatti. E i fatti ci dicono che, pur in una situazione complicatissima, in questo anno siamo riusciti ad approvare tre importanti riforme: del penale, del civile, del Csm. La riforma del penale corregge in modo sostanziale alcuni limiti seri di quella Bonafede, pur senza abbandonarla in toto. Le altre hanno introdotto elementi di innovazione. Esse sono state votate da tutte le forze che potenzialmente potrebbero far parte di uno schieramento progressista. Anzi no, Italia Viva si è astenuta sulla riforma del Csm. Quindi il problema non è l’identità che il M5S dovrà ricostruire dopo la scissione? Adesso il nostro problema non è preventivamente ipotizzare scenari che non esistono ma cercare di capire quali possono essere - e secondo noi dovrebbero essere - i terreni di confronto con tutte le forze che riteniamo essere progressiste e che potrebbero confluire, lasciando da parte le sigle ed il passato, in un campo largo riformatore. Quali sono questi terreni in materia di giustizia? Bisogna innanzitutto sostenere la scrittura rapida delle deleghe che il Parlamento ha affidato alla Ministra Cartabia, appoggiando le importanti sintesi trovate con fatica. E poi occorre supportare l’applicazione sul campo e il monitoraggio di queste riforme. Esse non saranno la rivoluzione copernicana ma rappresentano il massimo riformismo possibile. Ma perché proprio questi? Perché è l’esatto opposto di chi vuole continuare la guerra dei Trent’anni: siano populisti giudiziari da una parte o siano garantisti à la carte dall’altra. La sconfitta sonora dei referendum ha voluto anche dire per (alcuni) dei promotori che l’Italia ha voglia di riforme che il Parlamento deve fare per migliorare la macchina della giustizia. Proseguire invece col dire, come fanno alcuni esponenti della destra quasi fosse una ‘ vendetta’ per il flop referendario, ‘ quando vinceremo noi, faremo le riforme’ è un modo per continuarla quella guerra. Altra cosa, invece, è applicare le riforme con un coinvolgimento innovativo di avvocatura, accademia e magistratura, la quale è attesa ad un grande sforzo di autorigenerazione. Cartabia, rispondendo anche al Garante Palma, ha detto che l’attuazione della delega prevede pene sostitutive di quelle detentive brevi. Metterete d’accordo M5S e Ipf? Qui non siamo nel campo dell’immaginazione ma delle cose concrete. Sui temi carcerari siamo quelli che condividono profondamente l’ispirazione che il Garante ha dato alla sua Relazione, a partire dal sovraffollamento. Aggiungo che due sere fa ho partecipato con Matteo Orfini ad un confronto organizzato da Meglio Legale insieme a Magi di +Europa, Saitta del M5S, Licatini di Ipf, sui temi della legalizzazione della cannabis e della depenalizzazione. Come vede, su questa questione, che riguarda anche la decarcerizzazione, molte forze politiche - non tutte - erano insieme per portare avanti questa battaglia. Confido che intorno all’obiettivo di rendere il carcere un luogo di rieducazione e non di sofferenza si ritrovino tutti quelli che hanno come faro la Costituzione. Però la sottosegretaria Macina ha detto che il M5S è rimasto alla politica degli slogan, della gogna... Sulla direttiva sulla presunzione di innocenza, che noi abbiamo recepito contro le gogne mediatiche, ho apprezzato quanto detto dalla Sottosegretaria Macina. Lei ha collaborato con tutti noi durante questo anno difficile e nell’intervista ha sostenuto delle cose molto ragionevoli che sosteneva anche fino all’altro ieri, da sottosegretaria del M5S. Non ha cambiato opinione. Però voglio anche far notare che se in questo anno nei Cinque Stelle fossero prevalsi certi atteggiamenti non avrebbero votato le tre riforme della giustizia. Tuttavia il pasticcio dell’improcedibilità è nato per camuffare la prescrizione sotto altro nome e far contento il M5S, tifoso del fine-processo mai... Abbiamo verificato che con fatica ma anche buon senso in questi dodici mesi è stato possibile fare accordi che hanno portato non alla perfezione di legge ma a delle leggi di sistema. Sul penale il fine processo mai non ci sarà più sia per gli imputati che per le vittime dei reati, che spesso qualcuno tende a lasciare sullo sfondo. Altri temi di confronto dovranno essere il potenziamento del ruolo dell’Anac per la prevenzione della piaga della corruzione; il contrasto della penetrazione delle mafie nell’economia e i rischi sul Pnrr; la difesa della sostanza del Codice degli appalti, tenendo insieme semplificazione (a partire della riduzione delle stazioni appaltanti) con trasparenza e legalità. Anche per evitare subappalti selvaggi, lavoro nero, sfruttamento e scarsa sicurezza. Altro tema è la piena applicazione della direttiva sulla presunzione di innocenza contro le gogne mediatiche, ma garantendo anche il diritto all’informazione, come ci ha ricordato proprio l’altro ieri la Cedu. In questo senso guarderei con attenzione ai protocolli come quello di Perugia siglato dal Procuratore Capo Cantone con gli ordini degli avvocati e dei giornalisti. Le scuse a Uggetti le ha fatte solo di Di Maio. Sarebbe stato meglio se la catarsi avesse interessato più persone... Di Maio da tempo ha compiuto un percorso serio, prima ancora di divenire ministro degli Esteri. Il che ha significato dare una impronta europeista alla sua azione politica e a mettere da parte gli eccessi giustizialisti. I Cinque Stelle delle origini sono stati molto caratterizzati da questi atteggiamenti ma negli anni hanno anche loro fatto un percorso di cambiamento. Mi auguro che si consolidi. Poi se dovessimo (non tutti ma molti) guardare alle cose dette in passato credo che buona parte della politica dovrebbe passare il tempo a chiedere scusa agli avversari, considerati come nemici. Non è faticoso per il Pd avere a che fare con una forza politica ostile a certi principi che va continuamente convinta? La politica è fatta di pazienza. Il Pd per suo Dna ha il senso della responsabilità nazionale: crediamo che l’interesse del partito sia importante ma viene prima quello del Paese. Quindi aiutare a trovare all’interno di un campo progressista o nelle maggioranze eccezionali come questa punti di sintesi per noi è una fatica ma soprattutto è un esercizio di responsabilità. Noi siamo attaccati ai nostri valori e principi. Li difendiamo ma non li agitiamo come clave identitarie. A proposito di campo progressista, aprite le porte anche ad Italia Viva? Certo, a tutti, senza veti preventivi e senza immaginare ipotetici futuribili scenari. Noi come partito, per voti e ruolo, sentiamo il dovere di elaborare idee per l’Italia, comprese quelle per la giustizia, da sottoporre ad una platea di forze. Ognuna a sua volta presenterà delle sue idee. Poi verificheremo con pazienza e senso di responsabilità se sarà possibile trovare delle sintesi le più ampie possibili. La destra, seppur divisa e lacerata, come dimostra l’appello raffazzonato di oggi (ieri, ndr) di Berlusconi, Meloni e Salvini, si presenterà unita. Noi abbiamo il dovere di provare a costruire partendo dalle idee. In queste ore sto leggendo cosa pensano Calenda e Renzi di Di Maio: chi vuole escludere preventivamente qualcuno rischia di costruire alleanze molto ridotte e non competitive. Scordiamoci il passato, tralasciamo le differenze e guardiamo all’obiettivo finale: battere la destra... Noi non dimentichiamo niente ma combattiamo per il futuro. L’alleanza non è contro, ma per. Non basta vincere contro la Meloni dei raduni di Vox e il Salvini che ritorna ad agitare le paure collettive sul tema dei migranti. Occorre saper governare con un programma condiviso sui cui si è convinto il Paese. So bene che ci sono state e ci sono ancora delle differenze ma l’obiettivo è trovare i denominatori comuni. La politica è fatta anche di rapporti personali. Ce li vede insieme ancora Letta e Renzi? La politica supera i personalismi. Conosco e frequento Letta: le garantisco che non ha nessun problema personale nei confronti di nessuno. E Renzi, secondo lei, nei confronti di Letta? Sta in Senato e non ho occasione di frequentarlo ma penso e spero di no. In Calabria fanno notizia solo le retate. Sulle assoluzioni cala la “censura” di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 25 giugno 2022 Giovedì 16 giugno 2022. La Corte di appello di Reggio Calabria emette la sentenza sul processo “Mandamento Jonico”. Sono 35 i condannati in appello. Almeno il doppio, di cui molti reduci delle patrie galere, gli assolti. I giornali ed i telegiornali nazionali che pur avevano dato grande rilievo alla notizia al momento della maxi retata hanno di fatto ignorato la sentenza. Quasi tutti i giornali calabresi, tanto online che su carta stampata, hanno riportato la notizia con grande rilievo pubblicando le foto dei 35 condannati e arrivando alle conclusioni che “l’impianto accusatorio regge”. Mi piacerebbe - perché giusto e perché degno di una stampa libera - che un giorno dinanzi ad una sentenza come quella di cui abbiamo parlato, i giornali pubblicassero in prima pagina le foto degli assolti con un titolo che dica più o meno così: “Restituiamo dignità ed onore agli innocenti arrestati”. La conclusione naturale potrebbe essere: “L’impianto accusatorio non ha retto alla prova processuale. Purtroppo tantissimi innocenti sono finiti in carcere e ciò oltre ad aver sconvolto la vita di tante famiglie avrà un altissimo costo per le finanze dello Stato. Il caso in questione conferma quanto in Calabria sia scarso il rispetto per lo stato di diritto e sarebbe bene che su ciò si avviasse una seria e puntuale riflessione...”. Non ho alcun titolo per insegnare agli altri come si fa informazione e so molto bene che i giornalisti bravissimi sono tanti ma ciò non ci esime dal domandarci perché s’è imposto un modo di pensare ed informare che oggettivamente coincide con il punto di vista del soggetto forte rispetto a quello debole. Nel caso in questione si tratta del punto di vista di una procura della Repubblica rispetto a quello di un centinaio di innocenti processati o arrestati senza che nessuno venga chiamato a render conto. Tale subalternità però non si manifesta solo rispetto all’ordine giudiziario ma anche nei confronti degli altri poteri. Siamo al pensiero unico che pretende di raccontare la Calabria solo nella sua dimensione criminale che c’è ma non è l’unica. Rispetto ad un tale pensiero non c’è la capacità di costruirne uno alternativo partendo dalla realtà e dalla verità. Non è stato sempre così: i grandi meridionalisti erano riusciti ad aggregare un vasto fronte sulla questione meridionale ma ancora nel secolo scorso intellettuali di primissimo piano come Mario Alicata, Rosario Villari o Mario La Cava - solo per fare qualche esempio - rispetto ad un’operazione di polizia che prese il nome del questore Marzano e che affrontava la situazione calabrese solo come questione di ordine pubblico scrissero pagine di fuoco in difesa dei perseguitati ed anche degli arrestati e dei confinati. E non per il nome che portavano o per il luogo in cui erano nati ma perché nessun tribunale li aveva mai processati e condannati. Oggi rispetto al l’arroganza di alcune procure c’è un silenzio da tomba. Gramsci avrebbe detto che si tratta d’una questione di egemonia. Quello che è certo è che Il “Sud” è subalterno. In questo caso subalterno allo strapotere giudiziario, in altri casi verso altri poteri; per esempio nel 2015 una tale subalternità ha permesso al governo Renzi di spacciare il cosiddetto masterplan per il Sud per una svolta storica quando in realtà si trattava solo di un sacco vuoto. Temo succederà anche per il Pnrr. E solo una tale narrazione della Calabria - che trova grande ed interessato spazio nelle televisioni nazionali come nei media regionali - potrà far passare l’autonomia differenziata (o meglio la secessione dei ricchi) che in questi giorni cammina sotto traccia senza che il popolo calabrese (e delle altre Regioni meridionali) “faccia le barricate”. Solitamente il venir meno della stampa libera è un sintomo preoccupante che annuncia il sicuro venir meno della libertà di pensiero e quindi la progressiva affermazione d’un regime. Nel caso di “mandamento Jonico” il regime prende il volto degli innocenti triturati sulla stampa per poi dinanzi alla sentenza di assoluzione, negare loro persino lo spazio per rammendare la dignità perduta. In un futuro prossimo una tale subalternità potrebbe avere effetti molto più devastanti sulla nostra democrazia e la nostra libertà. L’avvocatura deve andare incontro al nuovo, per non esserne travolta di Giampaolo Di Marco Il Domani, 25 giugno 2022 Anf compie 25 anni e in questo tempo l’avvocatura è cambiata, gli iscritti all’albo sono passati da 95 a 250 mila e percezione sociale della figura dell’avvocato è molto cambiata. Per il futuro, il prossimo Congresso Nazionale Forense dovrà necessariamente mettere in cantiere una riforma ordinamentale. A distanza di 10 anni da quello di Bari, i principali nodi restano ancora tutti sul tavolo. Venticinque anni fa, al Congresso tenutosi a Chianciano il 20-22 giugno 1997, nasceva l’Associazione Nazionale Forense, della confluenza culturale, ideale e politica delle di due grandi associazioni forensi denominate “Asso Avvocati - Confederazione Nazionale delle Associazioni Sindacali Forensi d’Italia” e “Federavvocati - Sindacato Nazionale degli Avvocati”. Venticinque anni, in termini di storia associativa e di storia di un Paese sono un tempo lungo. In questi cinque lustri abbiamo assistito a grandi cambiamenti nella nostra professione e nel mondo. Mi piace ricordare che poche settimane dopo la fondazione della nostra Associazione, due giovani ricercatori californiani registravano un nuovo nome a dominio per le attività di piccola società start-up che stavano creando, questo nome a dominio era “google.com”. Oggi, mentre noi celebriamo il nostro anniversario, l’avvocatura si prepara ad un congresso in cui discuterà del ruolo e delle nuove competenze degli avvocati nel tempo dell’intelligenza artificiale e della tendenziale automazione nell’organizzazione della giustizia. Avvocati più che raddoppiati - Nel 1997 il numero degli avvocati italiani era di poco meno di 95.000 e iniziava in quegli anni una curva di crescita che ci ha portato in venticinque anni a più che raddoppiare le nostre fila, arrivando a toccare lo scorso anno i 250.000 iscritti, per poi vedere quest’anno, per la prima volta dopo decenni, un lieve decremento numerico. Venticinque anni fa, il ruolo e la percezione sociale della figura dell’avvocato erano profondamente diversi. Oggi facciamo i conti con una progressiva riduzione delle capacità economiche del ceto forense, con il diffondersi di situazioni di “precariato professionale”, con il fenomeno nuovo di una spaccatura tra una parte di avvocatura benestante ed una facente parte dei redditi più deboli. A.N.F. ha avuto una storia ricca e complessa ed ha rappresentato uno degli interlocutori imprescindibili della politica forense, in un mondo professionale in cui erano in corso cambiamenti vertiginosi ed in cui la rappresentanza del ceto professionale è diventata anno dopo anno sempre più complessa, in ragione del parcellizzarsi e dividersi del ceto forense. Oggi, a venticinque anni dalla nostra fondazione, credo che sia giusto svolgere qualche riflessione sul ruolo che può oggi avere l’associazionismo forense e su quello che può avere A.N.F. nel mondo moderno. Il nostro Paese è stato caratterizzato storicamente da un basso livello di partecipazione associativa, rispetto ad altri Paesi europei e per lungo tempo il mondo associativo italiano è stato collaterale ai partiti politici di massa. La nascita dell’associazionismo moderno, un associazionismo laico e svincolato da appartenenze ideologiche, nasce in Italia proprio negli anni in cui si consumava la crisi della politica di massa e si assisteva alla de-ideologizzazione della società. Il prossimo congresso nazionale forense - Il tempo ha dato ragione ad ANF e alle sue stesse ragioni fondative. Abbiamo convogliato forze diverse e abbiamo dato modo di esprimere le posizioni non allineate e la possibilità di mantenerle; abbiamo saputo spiegare le nostre scelte e convincere molti a sposare le nostre tesi. Agli avvocati abbiamo detto sempre la verità: ovvero che occorre andare incontro al nuovo, per non esserne travolti. Il prossimo Congresso Nazionale Forense dovrà necessariamente mettere in cantiere una riforma ordinamentale. Quando alla fine del 2012 fu approvata la legge 247, nell’ultimo giorno utile della legislatura, gran parte dell’avvocatura riconobbe che si trattava di un impianto normativo antiquato e largamente insoddisfacente. Il Congresso Nazionale Forense di Bari del 2012 votò a maggioranza due mozioni: una prima che chiedeva l’immediata approvazione della riforma forense, attesa da troppo tempo e una seconda che chiedeva al Parlamento di provvedere ad una serie di modifiche alla stessa riforma. A distanza di 10 anni i principali nodi restano ancora tutti sul tavolo ed è tempo di aprire un cantiere di riforma. Roma. Carcere di Rebibbia, al via i laboratori tecnologici per i detenuti di Maria Rosa Pavia Corriere della Sera, 25 giugno 2022 Grazie a un’intesa della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao. I reclusi impareranno a rigenerare i modem e a realizzare reti di accesso per le telecomunicazioni. Laboratori per formare figure professionali in grado di operare nel ambito delle tecnologie della telecomunicazione. È questo l’obiettivo del Memorandum d’Intesa “Lavoro carcerario” firmato venerdì dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e dal ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao. Il progetto individua nel lavoro uno degli strumenti chiave per il reinserimento sociale dei detenuti. Le attività si svilupperanno inizialmente in due ambiti: la rigenerazione di modem di rete - a cui hanno già aderito le aziende Fastweb, Linkem, Sky, Telecom Italia, Tiscali, Vodafone e Windtre - e la realizzazione di reti di accesso per le telecomunicazioni con Open Fiber, Sielte e Sirti. Silvia Cassano, direttore Risorse umane e organizzazione di Vodafone Italia ha sottolineato l’importanza di questo tipo di formazione: “Questo progetto si inserisce in un lungo percorso, avviato dalla nostra azienda e dalla sua fondazione, che mette in atto politiche attive del lavoro negli istituti penitenziari. Crediamo che lo sviluppo di competenze digitali sia uno strumento di reinserimento sociale”. L’attività, in una prima fase, dovrebbe offrire opportunità di impiego a circa dodici persone. L’amministratore delegato di Open Fiber Mario Rossetti ha dichiarato: “Siamo convinti che il programma per il lavoro carcerario sia un’opportunità per produrre un percorso virtuoso di reinserimento nella società, a tutela del diritto universale al lavoro e a vantaggio della sicurezza e del progresso sociale”. Non appena avranno completato la formazione, che avverrà in partnership con Sirti, i detenuti saranno assunti nel consorzio Open fiber network solution (Ofns). Roma. Detenuti cureranno il verde della Capitale, accordo tra comune e ministero romatoday.it, 25 giugno 2022 Coinvolti gli assessorati all’ambiente e alle politiche sociali per attività di formazione e supporto sociale. I detenuti delle carceri romane contribuiranno alla manutenzione del patrimonio ambientale capitolino. A sancirlo è un protocollo d’intesa siglato oggi, venerdì 24 giugno, tra Roma Capitale e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia. Al tavolo le assessore ad agricoltura, ambiente e rifiuti Sabrina Alfonsi e alle politiche sociali e della salute Barbara Funari, il vicario del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Stefania Perri, oltre al direttore generale detenuti Gianfranco De Gesu, la garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni e la presidente del forum del Terzo Settore Francesca Danese. Il protocollo, che durerà 12 mesi rinnovabili, prevede progetti di pubblica utilità per il recupero e la manutenzione del patrimonio ambientale, quindi cura e valorizzazione aree verdi, da svolgere anche nelle aziende agricole di proprietà comunale. Il Campidoglio, tramite l’assessorato competente e il dipartimento di tutela ambientale, dovrà assicurare la formazione delle persone private della libertà personale, in materia di educazione ambientale, sicurezza dei lavoratori e utilizzo delle attrezzature, anche con il supporto del servizio giardini. Dal canto suo, l’assessorato alle politiche sociali e salute supporterà le iniziative per quanto riguarda l’ambito socio-assistenziale in favore dei detenuti. “Con questo protocollo d’intesa - commenta Alfonsi - diamo avvio a importanti percorsi di recupero e di inclusione sociale che vogliamo incentrare sull’elemento fondamentale della formazione per fornire competenze professionali ed esperienze sul campo che facilitino il reinserimento lavorativo delle persone detenute. Inoltre, attraverso gli interventi di pubblica utilità per la cura del verde e le attività agricole previsti dal progetto, si contribuirà anche al rafforzamento del rispetto del bene comune e dell’ambiente in cui viviamo. Un ulteriore elemento che dà valore aggiunto al progetto sarà il prezioso contributo delle associazioni del Terzo Settore, che forniranno un essenziale supporto di accompagnamento a tutto il percorso”. “Abbiamo voluto rinnovare questa collaborazione con il Dap - spiega l’assessora Funari - per avviare l’idea di una città che sempre di più cura e include. Si tratta di uno strumento importante per creare un percorso di integrazione e dare una prospettiva di un futuro migliore a chi vive nelle carceri romane, in questa difficile fase post Covid. Con il prezioso sostegno del terzo settore riusciremo ad implementare sempre di più questo accordo”. “Ci auguriamo che anche attraverso la cooperazione di tipo B, di cui è tanto ricca la nostra città, si arrivi con questo accordo a creare lavoro vero” ha aggiunto Francesca Danese del forum del Terzo Settore. Brindisi. Storie di carcere e di legami familiari di Andrea Lezzi agendabrindisi.it, 25 giugno 2022 Parlare di carcere potrebbe far pensare subito a qualcosa di negativo ma in realtà in questi giorni la nostra città spicca tra tutte quelle pugliesi per un’iniziativa davvero lodevole, che coinvolge la Casa circondariale di Brindisi, il Ministero della Giustizia e un’associazione, dal nome emblematico: Bambinisenzasbarre. Sono loro, i bambini appunto, i protagonisti di questa bella storia, condivisa in particolare con i papà detenuti, con i quali hanno potuto passare una giornata nel cortile del penitenziario brindisino cimentandosi in giochi, partitelle e sfide tra genitori e figli. Ora, questo tema per chi non è abituato a vivere da vicino una realtà come quella carceraria - compreso chi scrive - potrebbe sembrare secondario ma in realtà coinvolge oltre centomila bambini nel nostro Paese: una città grande più della nostra di soli figli di detenuti. Questa condizione ha effetti concreti sulla continuità dei legami affettivi tra genitori, in carcere, e figli, fuori. Ed ecco perché poter consolidare rapporti umani durante la fase della carcerazione permette a una persona che sta scontando una pena di coltivare delle relazioni, delle speranze, degli affetti che altrimenti andrebbero persi e che invece si rivelano utili. Lo sono sia nella fase di detenzione - perché chi vive in carcere sapendo di poter vedere la famiglia, salutare la moglie, giocare con un figlio vive meglio e si relaziona meglio - e sia per quando sarà finito il momento di scontare la pena. Quando si potrà tornare a casa sapendo di trovare qualcuno accanto, di vivere più serenamente il resto della propria vita. A tal proposito c’è un episodio, avvenuto a Messina, circa un mese e mezzo fa, che spiega bene i rischi di sottovalutare questi aspetti. Nella città siciliana, gli agenti della casa circondariale sentirono bussare insistentemente al portone d’ingresso, trovando, dall’altra parte, un ex detenuto. Non si trattava di qualcuno da prendere in custodia, né di un criminale desideroso di costituirsi ma - al contrario - di un uomo libero. Era un ex carcerato che in quella struttura aveva passato gli ultimi anni e che chiedeva insistentemente di poterci tornare, perché senza un posto dove andare. Di questa storia così triste e assurda - un tentativo di evasione al contrario, in un porto sicuro dove il mondo non cambia mai - ciò che colpisce è la grande solitudine che attanaglia quest’uomo. Lui, come chi - in generale - prova a riprendere le fila della propria vita dopo l’esperienza carceraria e si ritrova ad affrontare un mondo che sostanzialmente non lo aspetta. Non ti aspetta un lavoro, non ti aspetta nessuno a casa, anzi spesso non ti aspetta nemmeno una casa. In questo scenario, dunque, coltivare i rapporti con i propri cari quando si è dietro le sbarre costituisce un elemento essenziale per creare speranza e immaginare obiettivi per il futuro. I temi del lavoro e degli affetti sono, dunque, quelli centrali per chi prova a tornare alla normalità. Per molti ex detenuti, ad esempio, il senso di smarrimento e confusione non è legato unicamente alla perdita delle certezze di ogni giorno. Non si tratta solamente di lasciarsi dietro ciò che il carcere può garantire: un vitto, un alloggio, un luogo dove passare del tempo. Questo senso di vuoto, questo disorientamento che - nel caso di Messina - porta una persona di nemmeno quarant’anni ad avere terrore della vita reale, trae probabilmente origine da più elementi. Favorire tutti quegli strumenti che, anche durante la pena, permettano davvero di mantenere dei legami significativi fuori dal carcere è una delle vie più importanti da seguire. Ben vengano, dunque, colloqui, permessi, presenze nei momenti significativi della famiglia - una Prima Comunione o un compleanno. Si tratta di eventi utili anche per alimentare una prospettiva in coloro che, chiusi in una cella, un giorno fuori vorrebbero poter contare su qualcuno da avere accanto: un genitore, un partner, un figlio. Il lavoro, poi, rappresenta l’elemento fondante per un effettivo reinserimento nella comunità, nonché - come ci dicono tutti dati - un fortissimo deterrente per la recidiva. Ed è per questo che le maggiori risorse dovrebbero essere spese proprio per ridare dignità al lavoro penitenziario, ampliandone la platea e aumentandone la concorrenzialità con l’esterno. Investire su questi aspetti può contribuire a creare quelle condizioni utili per rimanere connessi alla società e costruire una formazione professionalizzante che, una volta fuori, potrà tornare utile. Chi sbaglia deve pagare, ovviamente. Ma ha anche diritto a non rimanere per sempre da solo. Poter avere accanto una famiglia, poter spendere tempo in un lavoro, in molti casi può dare l’opportunità di riflettere sui propri errori, di cambiare davvero e godersi le cose belle della vita, in primis la propria famiglia. Pescara. Spettacolo teatrale organizzato da Voci di dentro nella Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 25 giugno 2022 È stato un successo lo spettacolo teatrale organizzato da Voci di dentro e dalla Casa circondariale di Pescara dal titolo “Come semi d’autunno”, presenti il Presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Abruzzo Mariarosaria Parruti, il Garante regionale dei detenuti Giammarco Cifaldi, la direttrice dell’Istituto Lucia Di Feliciantonio, la responsabile dell’Area educativa Federica Caputo e una folta rappresentanza di detenuti. Applausi a scena aperta per i diciassette attori (detenuti, volontari e studenti) diretti con gran maestria da Ugo Dragotti e che hanno saputo emozionare e far sorridere interpretando persone di varia età e provenienza: in uno scambio di battute e racconti sulla propria vita sono emersi i temi della violenza, del rapporto uomo-donna, del dolore, del carcere, del gioco, dello sport, della musica, degli amori e delle occasioni perdute. Finanziato dai fondi dell’otto per mille della Chiesa Valdese, lo spettacolo è frutto di un doppio laboratorio di Voci di dentro: inizialmente, durante la pandemia, e dunque durante i vari lockdown, c’è stato il laboratorio di Teatro sociale e narrazione che si è svolto principalmente on line con studenti ed ex detenuti o detenuti ai domiciliari. Sotto la guida di Carla Viola si sono tracciate le linee guida di un copione dove tutti con la narrazione del sé hanno messo nero su bianco problematiche relative al proprio vissuto quotidiano. Nel carcere di Pescara, infine, si è svolto il laboratorio condotto da regista e tutor dell’Associazione per l’attribuzione dei ruoli, le prove di recitazione e la messa in scena dello spettacolo. Obiettivo del progetto (“voci di dentro-voci di fuori”) è stato quello di usare il teatro come strumento capace di abbattere i muri fra l’interno e l’esterno del carcere mettendo insieme studenti e detenuti. Il teatro, da una parte ha offerto al detenuto un validissimo strumento per la revisione del percorso di devianza e la costruzione di un futuro reinserimento sociale; dall’altra, ha consentito ai giovani di superare stereotipi e pregiudizi e fare esperienza diretta della realtà carceraria. “Obiettivo raggiunto - ha detto Francesco Lo Piccolo, presidente di Voci di dentro - il nostro non è stato mero “intrattenimento culturale”, ma un percorso che tende a valorizzare le risorse personali, a stimolare un’ampia riflessione sul significato e l’importanza di valori etici e civili, a ridurre la distanza fra carcere e città, favorendo processi di inclusione sociale e partecipazione attiva da parte della comunità esterna”. Taranto. Teatro senza sbarre: al via progetto che valorizza rapporto padri (detenuti) e figli blunote.it, 25 giugno 2022 “Teatro senza sbarre” è un progetto rivolto ai papà detenuti nella Casa circondariale di Taranto in regime di media sicurezza. Sono otto i genitori coinvolti nell’iniziativa, ideata dall’A.p.s. T.R.O.I.S.I. Project e finanziata dall’8x1000 della Chiesa Valdese e co-finanziata dalla stessa A.p.s. T.R.O.I.S.I. Project. L’obiettivo è rendere più forte il rapporto con i figli che, per le conseguenze legate alla detenzione, rischia irrimediabilmente di deteriorarsi. I papà frequentano all’interno del Carcere un laboratorio teatrale e un fine settimana al mese le attività si spostano all’esterno per coinvolgere figli, nipoti, mogli e compagne. Il fine è ricreare, fuori dalle mura domestiche e da quelle carcerarie, quel senso di intimità familiare venuto inevitabilmente meno. Il gruppo lavora teatralmente sulla metafora della favola di Pinocchio, un modo per ripensare alla propria vita e darsi dei nuovi orizzonti. Alla proposta teatrale si affiancano anche percorsi culturali e naturalistici, per sviluppare la capacità di meravigliarsi davanti alla bellezza dell’arte, della cultura e della natura. In quest’ottica sono previste visite guidate ad alcuni siti archeologici, al Castello Aragonese e alla Città Vecchia. A grande richiesta, inoltre, nel mese di luglio i partecipanti visiteranno il Museo Archeologico MarTa. Ciò sarà possibile grazie alla sensibilità della Direttrice dott.ssa Eva Degl’Innocenti e dell’Associazione Amici dei Musei, che contribuirà all’acquisto dei biglietti di ingresso. L’Associazione Amici dei Musei lavora a progetti di inclusione e rigenerazione sociale tramite la sensibilizzazione alla bellezza e in questo senso ha incontrato una comunione di intenti con d’A.p.s. T.R.O.I.S.I. Project e in particolare con l’Iniziativa “Teatro senza sbarre”. Le visite guidate, invece, saranno a cura della cooperativa Novelune, che guarda alla ricerca, alla documentazione e alla didattica quali mezzi per valorizzare i beni culturali e il paesaggio. Fare cultura diventa così anche un modo per raggiungere obiettivi di legalità e favorire un’armonica relazione tra genitori e figli allo scopo di prevenire le diverse forme di disagio. Il progetto è sostenuto attivamente dal Direttore della Casa Circondariale di Taranto dott.ssa Fiorentino prima e dott. Mellone ora e dal Comandante della Polizia Penitenziaria dott.ssa Elena Vetrano che, in collaborazione con il Coordinatore dell’Area Trattamentale dott. Vitantonio Aresta, hanno selezionato e coinvolto i detenuti più idonei. Inoltre vi è sostegno morale dell’Ufficio del Garante dei Detenuti della Regione Puglia guidato dal dott. Piero Rossi. La seconda vita delle lettere del manicomio di Volterra di Maurizio Di Fazio La Repubblica, 25 giugno 2022 Si intitola “Corrispondenze immaginarie” l’iniziativa di arte pubblica di Mariangela Capossela: riscrivere, insieme agli abitanti, le missive dei pazienti censurate e inviarle in giro per l’Italia. C’è anche un numero WhatsApp, se volete partecipare. È stato il manicomio più grande, tra i più temuti e tenebrosi d’Italia. Un moloch di costrizione fisica e psichica e di ricovero coatto, spesso vita natural durante, per gli emarginati e le anime febbrili della società italiana nel corso della sua storia recente. L’ospedale psichiatrico di Volterra, attivo dal 1887 al 1978, fino alla legge Basaglia insomma, ha ospitato in quasi un secolo di esistenza decine di migliaia di internati provenienti da tutta la penisola. E le loro parole sono state a lungo interrotte, spezzate, negate. È encomiabile, quindi, questo progetto di arte pubblica partecipata concepito ad hoc da Mariangela Capossela, artista di stanza a Lione, sorella del cantautore Vinicio e autrice di iniziative performative e relazionali, per “Volterra XXII, Prima città toscana della cultura 2022”. Si intitola “Corrispondenze immaginarie”: Capossela ha inteso liberare alcune tra le migliaia di lettere mai spedite da generazioni di “pazienti” - prigionieri. Loro le avevano scritte, ma erano state bloccate ai nastri postali di partenza. “Corrispondenze immaginarie” si dipanerà per l’intera durata dell’anno volterrano: 365 lettere alla media, ideale, di una al giorno, trascritte a mano dall’artista e dai cittadini di Volterra nel corso di sessioni di scrittura pubblica tenutesi negli scorsi giorni. E queste missive-fantasma verranno poi inoltrate in tutt’Italia: finalmente troveranno dei destinatari, occhi e menti in ascolto, quei messaggi disperati ancorati giocoforza al mittente. Sarà così possibile ristabilire, virtualmente, quel dialogo troncato dall’accetta della censura alimentata dalla legge sanitaria in vigore nel manicomio del borgo toscano fino al 1974. In questa maniera i pensieri, le fantasie, i sogni, le confidenze che questi sfortunati affidavano alle loro lettere (liquidate dai medici come meri documenti clinici) potranno entrare in circolo e chissà, pure a distanza di decenni, ottenere una risposta. I testi all’origine del progetto provengono dal volume “Corrispondenza Negata. Epistolario della nave dei folli” (Del Cerro 2008, prima edizione Pacini 1981), che raccoglie una selezione delle migliaia di lettere scritte da persone condannate all’istituzione totale più oscura, nella fattispecie quella di Volterra. Ogni missiva sarà trascritta a mano, contrassegnata da un numero progressivo e corredata da un testo esplicativo del progetto. Il tempo lento della scrittura manuale, la sua capacità di riplasmare l’identità strappata dello scrivente conferirà a ciascuna di esse un carattere unico. Quest’iniziativa d’arte pubblica partecipata contempla la partecipazione potenziale di tutti i cittadini della nostra nazione. Più saranno, più saremo, maggiore sarà il senso di redenzione da ingiustizie ciclopiche. Uniamoci alla corrispondenza con i testimoni di uno dei peggiori buchi neri del passato nazionale: basterà inviare il proprio indirizzo postale su WhatsApp o via sms al numero 371.5307708. E se ricevete una delle lettere rispondete entro fine anno. Restiamo umani. Parole Liberate, diventano canzoni i testi scritti da detenuti delle carceri italiane di Patty Busellini musicalnews.com, 25 giugno 2022 L’omonima iniziativa con la collaborazione del Ministero della Giustizia. L’album è uscito per l’etichetta Baracca & Burattini e distribuzione digitale The Orchard (Sony Music). Il progetto grafico è stato realizzato da Oliviero Toscani. Sottolinea il nostro coordinatore Giancarlo Passarella. La normativa di legge attuale favorisce la trasformazione della pena in un’opportunità di riscatto e di cambiamento grazie al potenziamento degli accordi con realtà esterna al carcere, sfruttando anche i canali culturali. Parole Liberate è un progetto che valorizza questa sinergia con i musicisti più disponibili del nostro showbiz: Baracca & Burattini è una storica etichetta italiana, guidata da un lungimirante Paolo Bedini: nella foto lo vediamo alla Camera dei Deputati, quando è stato lanciato il progetto. Questa la tracklist della compilation. La prima voce è il titolo del brano, mentre accanto trovate i nomi dei musicisti che hanno trasformato il testo in una vera e propria canzone: Clown Fail - Luca Faggella feat. Giorgio Baldi, L’immagine di te - Andrea Chimenti e Gianni Maroccolo, Sbagliato - NuovoNormale, Sopra vivere - Fabrizio Tavernelli, Hotel Chimera- Petra Magoni e Finaz, Il controcanto - Teresa Plantamura, PS Post Scriptum - Virginio, Lettera al mio destino - Lisa Giorè, Per non credere - Ambrogio Sparagna, La finestra - Yo Yo Mundi, Tu chi sei - Acquaragia Drom, E il pensiero vola - Magicaboola Brass Band, Frammento - Enrico Maria Papes e Federica Balucani feat. Pape Gurioli, Clown Fail (instrumental & acting) - Michael Manring e Riccardo Monopoli. Il progetto nasce nel 2014, grazie alla Associazione di Promozione Sociale ‘Parole liberate: oltre il muro del carcere’. Tra le varie iniziative si proponeva ai detenuti la scrittura di un testo che sarebbe diventato canzone grazie alla collaborazione di musicisti ed esponenti della canzone d’autore e/o della musica leggera (in senso lato). Il tutto terminava con la proclamazione di un testo vincitore e con un evento a Palazzo Marino (presso il comune di Milano) reso possibile dai sindaci Pisapia e Sala. A questa cerimonia prendevano parte, oltre a sindaco e/o assessori, le associazioni che si occupano delle carceri, il detenuto vincitore ed il musicista che eseguiva il brano prescelto. La pandemia ha impedito lo svolgimento delle 2 ultime edizioni ma tutto ciò ha portato ad una ridefinizione del progetto che affianca al premio stesso la pubblicazione di un album (e di vari appuntamenti itineranti) per presentare l’iniziativa ad un pubblico più ampio, anche al di fuori della popolazione carceraria. Attraverso l’etichetta Baracca & Burattini sono stati contattati alcuni artisti che hanno scelto, tra le proposte dell’ultima e delle precedenti edizioni, il testo che avrebbero preferito adattare alla loro forma canzone. Migranti. “Niente propaganda sulla pelle di bambini che sono già italiani nei fatti” di Giovanna Casadio La Repubblica, 25 giugno 2022 L’ex ministro dem Graziano Delrio sullo ius scholae: “I partiti dovrebbero affidarsi al sentire popolare: la gente sa che quei ragazzi non sono un pericolo ma una risorsa. Un Paese che include è più ricco”. “Le manie di propaganda elettorale non colpiscano i diritti di centinaia di migliaia di bambini italiani di fatto e non di diritto. La destra ascolti la saggezza popolare che è a favore dei nuovi italiani. Nessun leader, nessun partito si chiami fuori”. Graziano Delrio, ex ministro dem, cattolico dossettiano, fa un appello e scuote la politica. In troppi hanno mancato di coraggio in Parlamento da decenni, dice. Nel nostro Paese si è italiani per discendenza (ius sanguinis), ignorando i nuovi italiani. Lo ius scholae rischia di arenarsi alla Camera, dove arriva mercoledì? “Penso che stavolta faremo un passo avanti importante e moderato. Spero che le smanie di propaganda non colpiscano i diritti di centinaia di migliaia di bambini italiani di fatto e non di diritto che attendono questo cambiamento da anni”. La destra è contraria, a dispetto dei suoi stessi elettori. Lei ha tentato un dialogo? “Gli italiani sanno che questi bambini non sono un pericolo ma una risorsa, come tutti i bambini. Ragazzi che parlano l’italiano meglio di noi, che giocano con i nostri figli, che studiano con loro. C’è una saggezza del popolo cui le forze politiche farebbero bene a dare ascolto. Al di là delle apparenze, in Parlamento abbiamo lavorato per un testo condiviso. Quindi faccio un appello: nessun leader, nessun partito si chiami fuori adesso”. Ha tenuto il conto di quante volte è naufragata la riforma della cittadinanza? “Purtroppo già nel 2015 una riforma molto più ampia fu poi fermata al Senato. Anche allora i sondaggi davano la maggioranza favorevole, e tuttavia fu fatta naufragare”. Neppure il centrosinistra ha avuto molto coraggio sui nuovi italiani, non crede? Sarebbe bastato allora mettere la fiducia... “È stata una mancanza di numeri da parte nostra. E una mancanza di coraggio delle formazioni centriste, come l’Ncd di Angelino Alfano. Che poco dopo sono scomparse. La mancanza di coraggio porta a non essere premiati nella società”. Fu lei l’autore della legge sullo ius soli a un passo dall’approvazione, cosa prevedeva? “Appunto lo ius soli: la cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri a condizione che almeno uno fosse titolare di permesso per soggiornanti di lungo periodo, oltre a un sostanziale ius culturae simile allo ius scholae oggi in discussione. Nasceva da una raccolta di oltre 200mila firme promossa da “L’Italia sono anch’io”, rete di associazioni di cui ero presidente. Sono passati dieci anni. Le lotte per i diritti sono sempre lunghe e faticose. Tante speranze possono ora rinascere. Sono ottimista sul fatto che lo ius scholae passi a Montecitorio”. Allora a dare l’altolà furono, oltre alle destre, appunto i centristi, ma ci furono pure dubbi dei 5Stelle? “La paura di tanti partiti ha sempre bloccato una discussione serena. Spesso ha prevalso il calcolo, più che i principi. Ma ora in alcuni partiti, come Forza Italia e 5Stelle, c’è un’apertura importante. Il testo dello ius scholae è stato proposto dal presidente della commissione Affari costituzionali, il grillino Giuseppe Brescia”. Tuttavia è una proposta minimalista, che il Pd ha accettato? “È un compromesso che abbiamo accettato per sanare l’ingiustizia. Certamente noi del Pd aspiravamo alla proposta dello ius soli, quella già approvata nel 2015 alla Camera. Abbiamo rinunciato a quel progetto non perché abbiamo cambiato idea, ma per dare al Parlamento un minimo comune denominatore su cui convergere”. Come spiegherebbe l’importanza di questa legge? “Direi che è un passo piccolo ma significativo perché riguarda quasi 900 mila bambini e ragazzi. Che male può venire alle nostre comunità dal riconoscere la piena cittadinanza a un bambino che finisce la scuola? Cantano l’inno di Mameli e studiano la Costituzione con i nostri figli. Chi si sente parte di una comunità si sente parte anche dei doveri verso la comunità. Un Paese che include e concede diritti è un Paese più sicuro e più ricco”. Se lo ius scholae verrà finalmente approvato alla Camera, resta il porto delle nebbie del Senato. “È così. Ma stavolta il Senato potrà riscattarsi dalla mancata approvazione della legge nella passata legislatura. Un po’ di coraggio e di generosità verranno ripagati mille volte. Il vero straniero nelle nostre comunità è chi opera il male”. Migranti. Khaby Lame italiano, ma tutti gli altri? di Gabriella Nobile La Stampa, 25 giugno 2022 Khabi Lame, il tik toker più seguito al mondo è nero e vive in Italia. È diventato un mito per moltissimi ragazzini di diversa origine che hanno visto in lui, la possibilità di farcela ed avere successo in Italia, un Paese bianco-centrico che di solito adotta una narrazione negativa sulle persone nere. Finalmente un esempio e una rappresentazione positiva. Il nostro governo con la sua decisione di dare a Khabi la cittadinanza italiana solo perché molto famoso, ha distrutto in un attimo questo mito, facendolo diventare quasi antipatico ai suoi coetanei. Il messaggio che sta passando, con questa decisione è forte e chiaro: “Diventa italiano chi se lo merita”. È così che 1 milione e mezzo di ragazzini nati o arrivati in Italia da piccoli, capiscono che la loro esistenza non ha valore, che solo i più fortunati ce la potranno fare e che loro, a meno che non salvino una vita umana in diretta, non vincano 3 medaglie d’oro o non abbiamo milioni di Fw su IG, non saranno mai cittadini del loro Paese, sino all’età adulta. La firma di un ministro, sulla richiesta di cittadinanza di un personaggio importante, ha decapitato il tentativo che molti di noi stanno cercando di portare avanti promuovendo una vera cultura antirazzista. Cosa sarebbe bello accadesse in un mondo ideale? Che Khabi la rifiutasse in nome di tutti i ragazzini che lo seguono e che non avranno mai accesso a quel pezzo di carta, che darebbe loro dignità e appartenenza. Sarebbe bello che Khabi si unisse alla nostra battaglia per lo Ius Scholae, una legge che darebbe diritti a tutti i bambini alla fine della terza media, che siano nati qui o che ci siano arrivati da piccoli. Ma questo non accadrà mai perché quando si è in alto, si hanno spesso le vertigini a guardare giù. I miei figli sono italiani, perché adottati, e spesso mi chiedono per quale motivo con la mia associazione, “Mamme per la Pelle”, abbiamo deciso di lottare per una nuova legge di cittadinanza, che non tocca le nostre vite. Perché riteniamo che sia una legge di civiltà, non politica e che, nel 2022, sia necessaria. Una rivoluzione del genere richiede coraggio ma sarebbe una grande opportunità verso una vera presa di posizione contro il razzismo. Se lo Stato riuscirà a considerare questi ragazzi come suoi figli, sarà naturale e normale farlo anche per la società civile che diventerà meno afrofobica. Quando mio figlio di 16 anni viene fermato per strada dalle forze dell’ordine, gli chiedono il permesso di soggiorno non la carta d’identità. Questo racconta lucidamente a che punto siamo: un ragazzo nero non può essere considerato italiano. Lo ius sanguinis è una legge razzista, lo ius soli e lo ius culturae sono stati raccontati male anche dalla sinistra, che in fondo non ci credeva troppo. Oggi, con lo Ius Scholae abbiamo pensato di iniziare dal luogo in cui da sempre si sta cercando di accogliere e abolire le disuguaglianze: la scuola. Il 29 giugno, forse, verrà votata alla Camera. Sei italiani su 10 sono favorevoli nel dare una vita dignitosa a tutti questi ragazzini che sono i compagni di banco dei nostri figli e che non sono una minaccia per nessuno. Siamo davvero felici per Khabi Lame ma abbiamo nel cuore anche tutti i suoi giovani follower che non possono andare alle gite scolastiche, partecipare alle gare sportive all’estero, rappresentare il loro Paese solo perché qualcuno ha deciso di metterli in un angolo buio negando loro diritti e opportunità. Centinaia di migranti assaltano confine tra Spagna e Marocco a Melilla: 18 morti Corriere della Sera, 25 giugno 2022 Circa 400 persone hanno tentato di superare le barriere dell’enclave europea in Africa, ingaggiando scontri con la polizia. Il confine era stato riaperto un mese fa dopo oltre due anni di stop. Diciotto persone sono morte oggi in una spaventosa calca creatasi a Melilla, la città spagnola in territorio africano. Le vittime sono tutti migranti - principalmente di nazionalità sudanese - che ha cercato di passare dal territorio del Marocco a quello spagnolo superando un’alta rete di recinzione. Nell’assalto sono rimaste ferite altre 76 persone. La tragedia si è verificata quando circa 400 migranti hanno tentato di superare il confine: sono scoppiati tafferugli con la polizia e circa 130 assalitori sono riusciti a entrare in territorio europeo: la loro posizione è in queste ore al vaglio delle autorità. Le vittime sono morte per soffocamento o schiacciamento, alcune sono precipitate mentre tentavano di scavalcare le reti di confine. Nell’assalto hanno riportato contusioni anche una cinquantina di agenti di polizia della Spagna. Già nella serata di giovedì la polizia spagnola era stata allertata per un possibile tentativo di sfondamento: sul confine erano stati schierati 1.500 agenti. Quando è partito l’assalto dei migranti le forze dell’ordine hanno risposto sparando lacrimogeni e a quel punto è scoppiato il caos costato la vita a 18 persone. La frontiera terrestre tra Marocco e Spagna in corrispondenza delle due “enclavi” di Ceuta e Melilla era stata riaperta il 17 maggio scorso dopo oltre due anni di stop. Il passaggio era stata interrotto per via del Covid ma anche per un braccio di ferro tra i governi di Madrid e Rabat, quando la polizia marocchina aveva allentato i controlli sui migranti che si presentavano al confine. Il 22 marzo scorso si era verificato un episodio simile: quel giorno circa 2.500 migranti avevano tentato di forzare i blocchi, 900 di loro erano riuscite ad arrivare in territorio spagnolo. Medioevo Usa: la Corte cancella il diritto all’aborto di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 giugno 2022 Annulla la storica sentenza Roe vs Wade: ora i singoli Stati potranno scegliere di vietare l’interruzione di gravidanza. Biden: “Giorno triste, ma non è finita”. È un giorno triste per l’America, un “tragico errore” l’ha riportata indietro di almeno 50 anni. Joe Biden prende parola in serata, quando ormai mezzo paese è in rivolta perché la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cestinato in un colpo il diritto all’aborto. Lo ha fatto annullando la storica sentenza del 1973, la Roe vs Wade, che garantiva alle donne la possibilità di interrompere una gravidanza. “La Costituzione non garantisce un diritto all’aborto”, si legge nella sentenza di ieri, “l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo e ai rappresentanti eletti”. Tradotto: ora spetterà ai singoli Stati decidere sul divieto, e in Texas e Missouri già brindano. Ma “non è finita”, quella della Corte “non può essere l’ultima parola”, assicura Biden. Che ha lanciato un appello al Congresso per ripristinare l’accesso all’interruzione di gravidanza con una legge federale. Nel frattempo le donne potranno recarsi negli Stati dove abortire è permesso, con le garanzie mediche previste dalla Food and drug administration, l’ente americano del farmaco. Ma il fatto è che non ne resteranno poi molti, visto che sono già 22 gli Stati che hanno varato “trigger law”, leggi grilletto, destinate ad entrare immediatamente in vigore ora che lo scudo della Roe è caduto. Come si è arrivati a questo punto? Per il presidente Usa la colpa è tutta dei tre giudici nominati da Trump - Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett - la cui decisione è la “realizzazione di un’ideologia estrema”. A votare per l’annullamento della Roe sono stati in tutto cinque giudici conservatori, contrari i tre togati liberal che hanno manifestato il proprio “dissenso”. Il presidente della Corte, John Roberts, non si è unito alla maggioranza. Ora si apre la fase più delicata: sul terreno politico, e sul fronte del diritto. Per salvaguardare anni di battaglie civili e una giurisprudenza consolidata, confermata nel ‘92 con la sentenza Planned Parenthood vs Casey. “Dio ha preso la decisione”, esulta Trump. “La Corte Suprema ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologii”, commenta l’ex presidente Usa, Barack Obama. Mentre Michelle “ha il cuore spezzato”. Lo stesso dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, per voce del procuratore generale Merrick Garland, attacca la Corte. La quale “ha eliminato un diritto stabilito che è stato componente essenziale della libertà delle donne per mezzo secolo, un diritto che ha salvaguardato la capacità delle donne di essere pienamente ed egualmente parte della società - si legge nel comunicato -. Nel rinunciare a questo fondamentale diritto, che è stato più volte riconosciuto e riaffermato, la Corte ha rovesciato la dottrina dello stare decisis, un pilastro dello stato di diritto”. A condurre la battaglia dei conservatori il giudice Samuel Alito, che questa decisione la aveva annunciata un mese fa, quando una clamorosa fuga di notizie aveva anticipato l’indirizzo della Corte. Che è stata chiamata ad esprimersi sulla legge approvata nel 2018 in Mississipi, la quale vieta l’aborto dopo la quattordicesima settimana di gravidanza. Nelle 98 pagine licenziate a maggio da Alito si affermava che la sentenza del ‘73 è “clamorosamente sbagliata sin dall’inizio”, perché fondata su “un’argomentazione eccezionalmente debole che ha avuto conseguenze negative” con il risultato di “infiammare il dibattito ed aumentare le divisioni”. Per comprendere le sue parole bisogna tornare indietro. Nel 1973, quando l’aborto negli Usa era ancora disciplinato da ciascuno Stato con una legge propria. E il servizio era garantito soltanto in circostanze eccezionali, in caso di stupro o di pericolo di vita per la donna. La volontà non era contemplata. Nel 1969 un team di avvocate decise di portare la battaglia di Norma McCorve, alias Jane Roe (da cui il nome della sentenza) in tribunale. Norma si era sposata a 16 anni con un uomo violento, da cui aveva già avuto tre figli. E voleva interrompere la sua terza gravidanza, sfidando la legge del Taxas. A difendere le ragioni del Texas vi era l’allora attorney general Henry Wade. La Corte decise a larga maggioranza, sette giudici contro due, in favore della donna - che intanto aveva comunque avuto la sua terza figlia - stabilendo che, sebbene la Costituzione non affronti direttamente la questione del diritto all’aborto, questo viene tutelato dal diritto alla privacy, inteso come diritto alla libera scelta di ciò che attiene alla sfera più intima dell’individuo. Alla base c’è un’interpretazione del 14esimo emendamento, che sancisce i fondamenti del giusto processo e stabilisce che nessuno Stato può “privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge”, né può “negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi”. Alito contesta che il 14esimo emendamento sia stato “introdotto in un’epoca in cui neanche si discuteva di aborto”. Ma il giudice della Corte Harry Blackmun, largamente sostenuto, allora argomentava: “Noi concludiamo che il diritto alla privacy personale comprende la decisione di abortire”, perché si tratta di un diritto che deve “prevalere sugli interessi regolatori degli Stati”. Una scossa globale contro i reazionari di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 25 giugno 2022 “È stata la volontà di Dio” ha detto Trump, sublimando il suo patologico e ridicolo narcisismo in blasfemia. Sì, perché “Dio” sarebbe lui, che prima di finire il suo mandato presidenziale ha nominato alla Corte Costituzionale estremisti integralisti, protagonisti di questa sentenza che riporta l’America indietro di mezzo secolo. Nel 1973 il movimento femminista americano era riuscito a ottenere risultati enormi per le donne. E soprattutto, il principio “non siete voi a decidere del nostro corpo”. E questo diede una forza incredibile alle donne di tutto il mondo, anche alle italiane. Era normale pensare: se ce l’hanno fatta loro mobilitandosi, potremo farcela anche noi. E la carica era grandissima. Ora la reazione contro i diritti delle donne è in atto negli Stati Uniti. E, ahimè, non solo lì. Lo aveva detto a chiare note Trump: “Dovrebbero essere punite le donne che abortiscono”. Ma la pensa come lui Putin e tanti altri. Viviamo un tempo storico non banale. Si profila un’offensiva reazionaria che non ha precedenti dal primo dopoguerra. Un’offensiva avviata sfruttando lo stress indotto in masse di persone da una congiuntura incredibilmente avversa, dopo due anni di pandemia e di difficoltà economiche, seguite da una guerra, ad arte provocata anche per approfondire il malessere sociale nel mondo e nei Paesi occidentali. Non a caso dopo il popolo ucraino che anela a libertà e democrazia, le prime a essere sotto attacco nucleare sono le donne, le loro conquiste storiche come quella iconica del diritto di autodeterminazione sul proprio corpo, ottenute con la possibilità di interrompere la gravidanza in condizioni sanitarie garantite. Si torna all’aborto clandestino, alle mammane, alle morti sotto i ferri durante gli aborti. Ma loro, i reazionari, non hanno più remore, preparano l’assalto al cielo, quello che fallirono a Capitol Hill. Vogliono distruggere la democrazia dei diritti e delle libertà, vogliono colpire al cuore le donne americane. La strategia è unitaria. La truppa di Trump si muove all’unisono con quella di Putin. Il regime mondiale che vogliono instaurare è quello autoritario e maschilista. Cercano di farci somigliare alla Russia e alla Cina, cancellando il patrimonio più prezioso della Civiltà occidentale, la libertà e l’autodeterminazione. Ma noi non possiamo distrarci. La generazione dei diritti conquistati, quella che ha combattuto per ottenerli lo sa bene. Ma spesso si è stancata di combattere. Le generazioni dei diritti acquisiti, che se li sono trovati, troppo spesso danno per scontato che le cose andranno avanti così. Certo poi ci sono tante eccezioni. Ma troppo poche, non bastano. Ricordiamocelo, le donne sono le prime a essere colpite, ma poi verranno gli altri, tanti altri. Dobbiamo fare in modo che ciò non succeda. Dobbiamo risvegliarci dal lungo torpore, prima che sia troppo tardi. Io credo e ho fiducia nelle donne americane e nelle donne di tutto il mondo. Credo nella reazione positiva dell’America dei diritti. Credo che il risveglio di voglia di libertà ci sarà in America e nel mondo. Perché questo pugno nello stomaco servirà a risvegliare la nostra voglia di libertà. *Direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat “L’America mi ha delusa, adesso soltanto i ricchi manterranno i loro diritti” di Francesca Paci La Stampa, 25 giugno 2022 La leader di +Europa Emma Bonino: “Ora anche noi rischiamo”. Senatrice Emma Bonino, il presidente Joe Biden ha detto che Corte suprema ha riportato gli Stati Uniti indietro di 150 anni. E ora che succede? “Mentre finora il diritto alla scelta di abortire dipendeva dalla legge federale, che si occupava di tutti gli stati, la sentenza della Corte suprema ha passato un colpo di spugna: da domani questa problematica dovrà ricadere sugli Stati, uno per uno, con le rispettive leggi nazionali più o meno restrittive. Succede che avremo stati come il Missouri, già disponibili a recepire la sentenza, e altri come New York, pronti a resistere e a offrire supporto alle donne bisognose di aiuto. Succede che esploderà il turismo sanitario, fenomeno per altro a noi già ben noto”. Che conseguenze ci saranno sulle donne americane? “Dipende dalla geografia. Chi segue l’esempio del Missouri applicherà leggi molto restrittive, i ricchi viaggeranno e i poveri resteranno dove sono. I poveri restano sempre dove sono, oppure emigrano. Devo ammettere che non me l’aspettavo, sei giudici di nomina trumpiana contro tre, una decisione pesante. Da mesi le associazioni abortiste americane e anche quelle anti-abortiste erano in agitazione, io ero più fiduciosa. Se la sentenza è questa, sul piano legislativo o legale non c’è più molto da fare. Non c’è istanza a cui appellarsi”. È la punta dell’iceberg di una virata all’indietro sui diritti? “Spero di no. Dai primi commenti che ho ascoltato confido nel fatto che l’amministrazione reagisca in modo adeguato. Un reportage del New York Times pubblicato a novembre sondava le possibili strade alternative, a partire dall’aborto farmacologico. Certo, per le donne americane più fragili è uno schiaffone non da poco. C’è da tener conto poi che l’aborto non è stato mai gratuito in America, la legge prevedeva che non fosse finanziato con fondi federali e dunque se lo stato lo richiedeva bisognava pagare. Dagli Stati Uniti mi giurano che è un episodio, che non c’è in atto una retromarcia più ampia sui diritti, con l’eccezione dei diritti dei neri, quelli sì erosi in modo evidente e con violenza sfrenata. Comunque sia è una grande delusione”. Sostiene Trump che sia stata la volontà di Dio... “Ma quale volontà di Dio! È stato lui che prima di andarsene ha nominato questi sei giudici, rispettabilissimi per carità ma non scomodiamo il divino... È sempre facile criticare, lo so. In Europa non ci sono Paesi che hanno messo ha il diritto all’aborto in Costituzione, non che mi risulti almeno: però dagli Stati Uniti speravamo di più”. In Italia condannano tutti la sentenza americana, perfino Matteo Salvini si è sbilanciato... Sono al sicuro le donne, qui da noi? “Benvenuto Salvini, era ora. Un po’ tardi, però. Ufficialmente in Italia la legge 194 non è in pericolo ma praticamente stiamo tornando indietro, basta leggere le denunce di tante associazioni di donne sull’obiezione di coscienza generalizzata e sulle regioni che non applicano la legge, a cominciare dalle Marche. È giusto indignarsi contro la Corte suprema americana, ma ricordiamoci che non brilliamo neppure in Italia. E che i diritti non sono conquiste sempiterne. Invece anche in Europa, su questi temi, ogni paese va per conto suo”. Medio Oriente. Onu: i soldati israeliani, non i palestinesi, hanno ucciso Shireen Abu Akleh di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 giugno 2022 L’inchiesta dell’Alto Commissario per i Diritti Umani ha ricostruito gli eventi dell’uccisione della giornalista palestinese di Al Jazeera e ha dichiarato colpevoli le Forze militari israeliane. Dopo le conclusioni raggiunte dalle indagini svolte nelle scorse settimane dalla Cnn, dal New York Times e dall’Autorità nazionale palestinese sull’uccisione di Shireen Abu Akleh, anche l’Ufficio dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani attribuisce a Israele la responsabilità dell’uccisione della giornalista palestinese di Al Jazeera, colpita alla testa da un proiettile mentre lo scorso 11 maggio seguiva una incursione dell’esercito israeliano a Jenin, in Cisgiordania. In un documento diffuso ieri a Ginevra, le Nazioni unite affermano che le informazioni disponibili suggeriscono che ad uccidere Shireen Abu Akleh sono state le forze israeliane e non il “fuoco indiscriminato” di combattenti palestinesi. E sottolineano che “È profondamente inquietante che le autorità israeliane non abbiano condotto sull’accaduto un’indagine penale”. “Tutte le informazioni che abbiamo raccolto - anche dall’esercito israeliano e dal procuratore generale palestinese - supportano il fatto che i proiettili che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenivano dalle forze di sicurezza israeliane e non da palestinesi armati che sparavano indiscriminatamente, come sostenuto dalle autorità di Israele”, ha dichiarato la portavoce, Ravina Shamdasani. “Intorno alle 06:30 (dell’11 maggio, ndr) - ha proseguito Shamdasani - quando quattro dei giornalisti hanno svoltato nella strada che porta al campo, indossando elmetti e giubbotti con la scritta ‘Press’, diversi singoli colpi d’arma da fuoco apparentemente ben mirati sono stati sparati verso di loro da parte delle Forze di sicurezza israeliane. Un proiettile ha ferito Ali Sammoudi alla spalla, un altro proiettile ha colpito Abu Akleh alla testa e l’ha uccisa sul colpo”. Anche in questo caso l’esercito israeliano ha negato ogni responsabilità. “Dov’è la pallottola?”, ha domandato il portavoce militare sottolineando che Shireen Abu Akleh “non è stata colpita in maniera intenzionale da nessun soldato”. “Il rifiuto palestinese di consegnare il proiettile e di condurre indagini congiunte con gli Usa - ha concluso - la dice lunga sui motivi”. Secondo il ministro della difesa Benny Gantz si potrà scoprire la verità “solo conducendo un’indagine balistica e forense e non attraverso indagini infondate come quella pubblicata dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani”. Terremoto in Afghanistan, più di mille morti. I talebani: “Il mondo ci aiuti” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 25 giugno 2022 È bastato un sisma di magnitudo 6,1 a sbriciolare interi villaggi nella provincia di Paktika, al confine col Pakistan. I soccorsi resi molto difficili dalle piogge torrenziali. Karim è tornato al suo villaggio di fretta e furia alle prime luci dell’alba: ha trovato soltanto macerie e morte. “L’intero villaggio è sepolto. Quelli che sono riusciti a mettersi in salvo prima che tutto cadesse hanno potuto estrarre i corpi dei loro cari. Ho perso 22 familiari, anche mia sorella e tre fratelli” ha raccontato il giovane al Guardian. Il suo villaggio si trova nella provincia di Paktika, epicentro del terremoto che ha devastato questo angolo di Afghanistan al confine col Pakistan. Il governo talebano chiede a gran voce aiuti internazionali. Il governo - così Abdul Qahar Balkhi, un alto funzionario - “non ha i mezzi per assistere le persone in difficoltà e le famiglie delle vittime”. Un sisma di magnitudo 6.1, valore non considerato tra i più elevati a livello internazionale, in questa area del mondo ha lasciato poco scampo ai suoi abitanti, sorpresi verso l’una di notte, mentre dormivano, in case fatte di terra e poco più, in una zona sperduta, a tratti montuosa. Un’ecatombe: oltre mille i morti. Un bilancio destinato a crescere. Sono 46 i villaggi spazzati via, abitati da 500 famiglie. Da questi luoghi remoti le informazioni arrivano a rilento. Non si sa nemmeno quante persone si trovino ancora sotto le macerie. In questo Paese già stremato, dilaniato da vent’anni di guerra e con oltre metà della popolazione ridotta alla fame dopo un anno di governo talebano, a complicare i soccorsi ci si è messa anche la pioggia, arrivata - torrenziale - ieri mattina dopo mesi di siccità. Fango, smottamenti e allagamenti hanno rese impraticabili le strade, sterrate. “Le nostre ambulanze non hanno potuto raggiungere le zone epicentro del terremoto, si sono dovute fermare all’ospedale provinciale di Paktika” ha riferito al Corriere Stefano Sozza, responsabile di Emergency in Afghanistan. L’associazione italiana, che nel Paese gestisce tre ospedali e 42 cliniche, sta partecipando agli incontri del ministero della Salute afgano per coordinare la risposta a questa emergenza. “Si teme che ci siano molte persone bloccate sotto i detriti ma pioggia e fango rendono difficoltosi i soccorsi”. Le squadre del governo sono al lavoro, con ambulanze ed elicotteri, aiutate dalla popolazione locale. Ma a Gayan, il distretto nella provincia di Paktika, il più colpito con quello di Barmal, ieri mattina non c’erano soccorritori, riferisce uno del posto, Alem Wafa: “Qui sono stati gli abitanti dei paesi vicini a portare in salvo le persone. Io ho recuperato 40 cadaveri. Molti erano bambini”. Uno strazio. “Siamo impegnati a estrarre dalle macerie morti e feriti” ha raccontato al New York Times Sarhadi Khosti, 26enne dell’altra provincia più colpita, quella di Khost. Da qui alcuni feriti sono stati trasportati in elicottero a Kabul. Le operazioni di soccorso rappresentano un test importante per le autorità talebane, che non possono contare sul supporto internazionale per via delle sanzioni scattate dopo la presa del potere, lo scorso agosto, con il congelamento dei fondi afghani da parte di Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale. Usa e Ue ieri hanno promesso aiuti post sisma. “Ora è il momento della solidarietà” ha esortato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Ecuador morti e feriti nella protesta indigena contro il governo di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 25 giugno 2022 Un morto e dozzine di feriti. È questo il bilancio del 12esimo giorno di proteste delle popolazioni indigene che nelle scorse ore hanno cercato di assaltare il Parlamento, a Quito, venendo disperse dalla polizia. Si allarga e s’infittisce la protesta di massa in Ecuador. Almeno centomila indigeni raccolti attorno alla Confederazione delle nazionalità indigene hanno assediato e poi invaso la capitale Quito scontrandosi duramente con la polizia. Si contano almeno un morto e decine di feriti. A morire è stato un giovane nella provincia amazzonica di Puyo. Aveva una profonda ferita alla testa. I suoi amici e compagni dicono che sia stata provocata dal lancio di un candelotto lacrimogeno durante uno dei tanti incidenti con le forze dell’ordine. La polizia accuse invece gli stessi manifestanti e sostiene che il ragazzo è stato investito dall’esplosione di un ordigno incendiario che avevano lanciato. La mobilitazione dura da dieci giorni ed è legata all’aumento del costo della vita, a quello dei carburanti da trasporto oltre alla carenza di cibo e medicine che assieme al mancato intervento governativo su lavoro, sussidi e riforme previdenziali fanno parte di un pacchetto di richieste che il presidente di destra Guillermo Lasso ha accettato di discutere. Nonostante una prima, parziale disponibilità al confronto, la potente confederazione ha deciso di continuare la battaglia. Il leader gli indigeni Leonidas Iza ha invitato i manifestanti a non cedere alla violenza e ha guidato ieri un corteo imponente ma allegro e pieno di colori che ha attraversato Quito. L’Esecutivo ha stigmatizzato il rifiuto al confronto. “Per dialogare servono due parti e noi siamo disponibili”, ha dichiarato il ministro del Governo e della gestione della politica interna Francisco Jiménez. Ma Iza ha alzato il tiro e ha ribattuto: “Veniamo per risolvere i problemi ma lo Stato ci accoglie con la violenza”. L’atmosfera è incandescente e non si vedono spiragli per una soluzione a un conflitto che si è esacerbato. L’intera America Latina vive settimane di forte tensione per l’aumento dei prezzi dei prodotti di base innescato anche per l’inflazione che colpisce senza distinzioni. Gli scontri violentissimi che hanno acceso le notti dell’inizio della settimana avevano spinto il ministro della Difesa Luis Lara a lanciare un drammatico appello. “La democrazia in Ecuador”, aveva detto in tv, “è a serio rischio”. Per liberare le strade dai blocchi e consentire il trasporto delle merci, il governo decretato lo stato di emergenza in tre province esteso poi ad altre sei. Lara ha criticato l’atteggiamento dei manifestanti sostenendo l’esistenza di “gruppi violenti il cui unico obiettivo è creare panico, attaccando ed estorcendo aziende, istituzioni e autorità”. Ma anche in questo caso aveva reagito il leader degli indigeni rivendicando “il diritto degli ecuadoriani a resistere e lottare”. “Non accetteremo mai”, aveva aggiunto, “di imboccare la strada militare come strategia”. Il sospetto del presidente è che a gettare benzina sul fuoco ci siano gli uomini di Rafael Correa, l’ex presidente colpito nel 2017 da un mandato di cattura per il presunto rapimento di un avversario politico e poi condannato per corruzione passiva a 8 anni di carcere. Il leader socialdemocratico è riparato da tempo in Belgio ha sempre respinto le accuse che considera politiche e quindi strumentali. Ma non ha mai abbandonato l’idea di tornare nel suo paese e riproporsi come presidente. Assediati dai manifestanti e in forte difficoltà, il governo di Lasso ha elaborato un documento che contiene quasi tutte le richieste della foltissima comunità indigena non nuova a queste imponenti mobilitazioni. Era già accaduto nel 2019 quando l’intero Ecuador era stato bloccato per 20 giorni, Quito era stata invasa come in questi giorni e solo l’intervento mediatore delle Nazioni Unite era riuscito a ricomporre una frattura pericolosa. Tra le 10 richieste indicate anche nella bozza del governo c’è il congelamento dei prezzi del carburante, l’estensione da parte delle banche dei termini del pagamento dei debiti contratti da quattro milioni di ecuadoriani, il rinvio del piano che estende l’attività estrattiva nelle miniere, il pagamento da parte dello Stato dei contributi per la previdenza sociale. La Confederazione indigena ha deciso di esaminare la proposta del governo. Ma non si fida e mantiene in piedi la protesta con migliaia di manifestanti, molti armati di scudi e di bastoni, che occupano il centro della capitale pronti a difendersi se ci fosse un intervento della polizia. “Vogliamo vedere se esiste davvero la volontà ad aprire un confronto”, ha detto Leonidas Iza. “Ma nell’attesa di un chiaro segnale di disponibilità il blocco non viene revocato”. Nelle regioni anglofone del Camerun la crisi umanitaria più ignorata al mondo di Luca Attanasio Il Domani, 25 giugno 2022 Nonostante le migliaia di morti, i circa 800mila sfollati, è forse la situazione di conflitto più ignorata dal mondo e meno coperta dal giornalismo internazionale. “Sono scappata con mia zia di notte. Tutte le scuole erano state chiuse dagli Amba boys (i gruppi armati separatisti) e non potevo continuare a studiare”, dice Vanessa, 17 anni, con un sorriso triste e mite, fuggita dalla provincia di Kumbo e giunta senza nulla nella città di Bamenda. “E lei signora?”. “Un giorno sono tornata a casa dal lavoro e l’ho trovata interamente bruciata”, è ancora pietrificata Florence, una donna sulla cinquantina, in fuga qualche mese fa da Kumbo con cinque figli e cinque nipoti ora tutti alloggiati con lei in una camera in subaffitto. “I militari avevano dato alle fiamme un gruppo di case del mio villaggio perché sospettavano che in una di esse ci fosse un uomo che preparava da mangiare per gli Amba”. Comincia così il viaggio shock nelle regioni anglofone del Camerun, una delle aree più ricche e produttive dell’Africa occidentale, sprofondata in una condizione da pre-guerra civile dai contorni inquietanti. Vanessa e Florence, incontrate assieme a un’altra ventina di persone a Bamenda - il capoluogo dell’area, due milioni di abitanti, la terza città del Camerun dopo la capitale Yaoundé e Douala - fanno parte del disperato esercito degli 800mila sfollati interni scampati al terrore di stragi, omicidi, sparizioni, rapimenti, mutilazioni e incendi che dal 2017 da queste parti sono diventati quotidianità. “Da noi”, reclama l’Arcivescovo cattolico di Bamenda, un uomo chiave nella difficile strada di ricomposizione del conflitto, “avvengono crimini spaventosi da ormai cinque anni, giorno dopo giorno, eppure della nostra crisi e dell’infinita sofferenza del nostro popolo, non parla nessuno. Qui di giornalisti se ne vedono davvero pochi”. In Camerun, l’alito mefitico del colonialismo sparge ancora i suoi miasmi. Tedesco fino alla fine della Grande guerra, passò nelle mani di due potenze vincitrici, Francia e Inghilterra, al termine del conflitto. La zona sud-occidentale, il 20 per cento circa del territorio, a ridosso della già inglese Nigeria, fu posta sotto l’influenza della Gran Bretagna, mentre il restante 80 per cento, confinante con colonie francesi, andò a Parigi. Nel 1960 la parte francofona guadagnò l’indipendenza. Quella anglofona, invece, restò in sospeso per un anno e, mentre gli inglesi si ritiravano senza spargimenti di sangue, le Nazioni unite sponsorizzarono un referendum in cui si chiedeva alla popolazione di scegliere se confluire nella Nigeria o nella neonata Repubblica del Camerun. Prevalse di poco la volontà di unirsi al resto del Camerun. “Ci avrebbero dovuto sottoporre una terza possibilità”, ne è sicuro Ncham Godwill Chiatoh, un attivista locale: ““Volete essere uno stato autonomo?”, con tutta probabilità avrebbe vinto questa opzione e sarebbe cominciata un’altra storia”. La popolazione anglofona, in realtà, votò a favore dell’ingresso nella Repubblica del Camerun, nella prospettiva stabilita nel 1961 di far parte di uno stato federale. Ottenne infatti un proprio parlamento e un governo regionale eletto, e si garantì una certa autonomia nella gestione della lingua, dei sistemi giudiziario e scolastico strutturati sul modello inglese e decisamente diversi da quelli utilizzati nella parte francofona. Quando, però, nel 1972 il potere centrale abbandonò il modulo federale e proclamò la Repubblica Unita del Camerun (poi divenuta l’attuale Repubblica del Camerun nel 1984), le tensioni cominciarono a farsi sentire. “In quel periodo”, riprende Chiatoh, “erano stati scoperti qui da noi i primi pozzi petroliferi e le nostre regioni cominciarono a rappresentare, anche per altre risorse, uno dei motori trainanti per l’economia nazionale”. Yaoundé, quindi, non vuole rinunciarvi. Ma anziché adottare una politica che tenesse conto delle ricchezze e delle diversità, il governo centrale ha mostrato arroganza e indifferenza alle istanze. I malumori restano per decenni ed esplodono nel 2016, quando insegnanti e avvocati inscenano scioperi e imponenti manifestazioni rifiutandosi di andare in scuole o in tribunali irrispettosi dei propri sistemi. Il governo reagisce malissimo, arresta centinanti di insegnanti e avvocati e mostra il volto duro a chi cavalca le proteste, fino a quel momento assolutamente pacifiche, per chiedere equità. Da lì in poi, sarà escalation. Nel 2017, a ottobre, i separatisti proclamano la Repubblica indipendente di Ambazonia e cominciano a far circolare armi tra i loro affiliati. Quando entrano in una caserma e decapitano quattro militari, il governo invia truppe in grandi numeri a presidiare l’area. Gli Amba Boys, profondi conoscitori della zona ed esperti della vita nelle foreste, adottano una strategia simile a quella dei Viet Kong: blitz rapidi nelle caserme per uccidere militari e rastrellare il maggior numero di armi. L’esercito, invece, risponde dando alle fiamme indiscriminatamente villaggi interi sospettati di dare rifugio agli indipendentisti. In mezzo, la popolazione civile sprofondata in un incubo inimmaginabile fino a qualche anno prima. Gli Amba impongono la chiusura delle scuole perché “strumenti del potere governativo”, lasciando i ragazzi che sostengono di voler difendere senza istruzione (in alcune aree, le scuole non funzionano da cinque anni), costringendo le città ai cosiddetti ghost town Mondays (lockdown di ogni singola attività ogni lunedì, da cinque anni a questa parte) e terrorizzando la popolazione con uccisioni, mutilazioni, minacce, rapimenti. L’esercito, da parte sua, odiato dalla stragrande maggioranza della popolazione, usa il potere che gli è stato conferito per seminare orrore e paura. Il tutto, nell’indifferenza assoluta della comunità internazionale. “Il primo passo verso una normalizzazione”, chiude Monsignor Nkea, “è che voi giornalisti facciate conoscere al mondo la nostra situazione”. La situazione di conflitto in cui sono sprofondate le regioni anglofone del Camerun rende difficili, se non impossibili, una serie infinita di attività. Tra queste c’è il lavoro delle Ong presenti sul territorio che fanno molta fatica a raggiungere alcune aree presidiate dalle milizie armate separatiste (Amba Boys) o altre in cui a creare problemi è la presenza massiccia e sospettosa dell’esercito. “Purtroppo da qualche anno, le nostre capacità di intervento”, spiega Banlav Eric Ngah, direttore associato di Caritas Bamenda, “si sono ridotte drasticamente, e non a causa della carenza di personale, ma per i grossi rischi a cui i nostri operatori vanno incontro. Io stesso e tre miei colleghi, siamo stati vittime di un rapimento da parte degli Amba Boys mentre cercavamo di raggiungere le popolazioni isolate nella foresta della zona di Kumbo per portare generi di prima necessità. Ci hanno trattenuto per cinque lunghissimi giorni in cui abbiamo mangiato solo riso e pensato che non saremmo mai più tornati dalle nostre famiglie”. La situazione si è sbloccata quando la cellula armata ha compreso che il gruppo non era lì a nome del governo. Ma alcuni giorni dopo, un camion che trasportava derrate alimentari con le insegne Caritas in bella vista, è stato fermato e dato alle fiamme, alcuni operatori sono rimasti feriti oltre che scioccati. A farne le spese maggiori, naturalmente, è la popolazione civile di questa zona ricchissima e molto produttiva, che, pur avendo sperimentato problemi socio-economici, in gran parte dovuti alla situazione politica, non ha mai conosciuto la fame. Ma che in questi ultimi anni, purtroppo, sta velocemente entrando in una condizione di emergenza umanitaria. Tra gli effetti più drammatici, c’è la trasformazione dell’infanzia e dell’adolescenza locale in un incubo irreversibile. “I ragazzi”, riprende Ngah, “in molte aree periferiche non vanno a scuola e non hanno attività da svolgere. Scivolano così in un limbo inquetante che fa di loro bambini soldato arruolati dagli Amba Boys (il fenomeno è in aumento, ndr) e che porta le ragazze a subire violenza sessuale o intimidazioni e a restare incinte a età tenerissime. Sono vittime di abusi dai militari e dagli Amba e il numero di ragazze madri è in crescita”. Nel frattempo, i due centri di Medici senza frontiere presenti nell’area sono stati costretti a chiudere e decine di migliaia di individui sono rimasti senza riferimenti sanitari. I rifornimenti di Wfp (World food program) e Crs (Catholic relief service), trasportati attraverso le Ong locali, fanno molta fatica ad arrivare a destinazione.