Un detenuto su tre è in carcere per droga, uno su quattro è tossicodipendente di Angela Stella Il Riformista, 24 giugno 2022 Il report presentato ieri alla Camera dice anche che un detenuto su quattro è tossicodipendente. Stefano Anastasia e Franco Corleone: “Serve una politica di depenalizzazione”. Gonnella (Antigone): “La Fini-Giovanardi è un manifesto di cultura illiberale”. Un terzo dei detenuti è in carcere per droga, più di un detenuto su quattro è tossicodipendente: per questo le celle sono sovraffollate e i tribunali sono ingolfati. Questa la sintesi concettuale della tredicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe dal titolo “La sfida democratica”, presentata ieri alla Camera dei Deputati. Si tratta di un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (Dpr 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD e ITANPUD. Vediamo i dati più significativi. Il 30% dei detenuti entra in carcere per detenzione o piccolo spaccio. Precisamente 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Inoltre il 35% dei detenuti presenti nei nostri istituti di pena è dentro sempre per reati connessi alla droga. In particolare sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe) 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028. Secondo il rapporto si confermano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti tossicodipendenti: lo sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31 dicembre 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale, più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), alimentato dall’aumento degli ingressi in carcere di persone che usano sostanze. Tutto ciò ha dirette conseguenze ovviamente anche sulla giustizia e l’esecuzione penale: le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione degli articoli 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani. E inoltre basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. Per fare un confronto tra Italia e resto del mondo nel Libro Bianco viene ricordato anche un rapporto Onu del 2021 secondo il quale la media mondiale di detenuti per reati di droga è del 21,65%; in Italia, al 30 giugno 2021, la percentuale era del 35,91%, corrispondente al doppio della media europea (18%) e molto più di Messico (9,7%), Usa (20%), Colombia (20,7%), Marocco (25%), Albania (26%), Russia (28,6%) e Algeria (34,5%). Ma quali riflessioni possono ancora farsi a partire da tutti questi numeri? Come scrivono Stefano Anastasia e Franco Corleone nell’introduzione “l’esperienza di questi anni conferma gli studi sul net widening: la messa alla prova, le sanzioni di comunità comminate in sentenza e le misure alternative in esecuzione non fanno diminuire il peso sul carcere se non sono accompagnate da una chiara politica di depenalizzazione. In questi anni l’enorme crescita delle misure di comunità si è affiancata all’universo della detenzione senza scalfirlo, con la conseguenza di produrre una sorta di doppio binario classista, che divide coloro che per status sociale ed economico (prima che giuridico) possono ambire alle misure di comunità e quelli che sono destinati al carcere con sempre più rare opportunità di uscirne prima del fine pena”. Mentre nelle conclusioni Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, denuncia come “la normativa sulle droghe non ha alcuna efficacia preventiva, speciale o generale. I numeri dei consumi e della repressione ci dicono che le scelte del singolo o della generalità dei consociati non sono state minimamente condizionate dalla severità della reazione penale. Dunque le pene alte e il proibizionismo si spiegano alla luce di una sotto-cultura penale meramente retributiva e afflittiva, con venature moralistiche. La legge Fini-Giovanardi è un manifesto di cultura illiberale. E ciò accade nel Paese dove è nato Cesare Beccaria”. Durante la conferenza di presentazione del Libro Bianco è intervenuto anche Riccardo Magi, deputato e Presidente di +Europa, primo firmatario della proposta sulla depenalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale e sulla riduzione delle pene per i reati di lieve entità: “Il Testo Unico sugli Stupefacenti si conferma causa di sovraffollamento carcerario e di soffocamento dei tribunali, con effetti sociali devastanti e che non intaccano minimamente la diffusione delle sostanze. L’approdo in Aula alla Camera entro la fine del mese della proposta di legge a mia prima firma sull’autocoltivazione di cannabis è un’occasione importante per aprire un dibattito urgente nel Paese e nelle istituzioni. Purtroppo sta succedendo di tutto - ha spiegato il parlamentare - per impedire che la discussione approdi in Aula. Mercoledì in Commissione Giustizia è terminata la votazione su tutti gli emendamenti e si sarebbe dovuto votare il mandato al relatore. Ma non è stato fatto, con la scusa delle scissioni dei gruppi parlamentari. Tutto è rimandato a lunedì. Al di là degli aspetti procedurali e tecnici, c’è molta resistenza contro una legge all’interno della quale c’è scritto che è lecita qualche cosa che ha a che fare con la cannabis. Voglio ricordare che questa proposta di legge è nata come risposta all’iniziativa sciagurata della lega che avrebbe voluto aumentare invece tutte le sanzioni penali. Noi abbiamo contrastato questo pericolo, mentre le altre forze politiche non avevano sentito questa urgenza”. Infine, secondo Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni e Presidente del Comitato Referendum Cannabis “salvo sorprese dell’ultima ora, questa legislatura non verrà ricordata per riforme sulle “droghe” anzi, grazie al Ministro Speranza son stati creati irragionevoli ostacoli alla cannabis con CBD ed è stata proibita l’Ayahuasca. Spudorata invece la decisione della Consulta con l’inammissibilità del Referendum, che ha proibito al voto la riforma necessaria sulla cannabis: toglierla dalle maglie del diritto penale. Nel Libro Bianco viene pubblicata per la prima volta come contributo al dibattito la memoria presentata dal Comitato Promotore del Referendum Cannabis Legale insieme alla sentenza di inammissibilità 51/2022. Oltre a queste è pubblicata la trascrizione integrale della conferenza stampa del Presidente Amato sul referendum cannabis che tanto scalpore ha fatto per metodo, toni e merito insieme a commenti precedenti e successivi il giudizio della Corte, a supporto dell’ammissibilità del quesito. Oltre 600.000 cittadini si sono visti privare dei propri diritti costituzionali per una interpretazione discutibile e certamente fuori dal tempo sia della Costituzione che delle convenzioni internazionali”. Senza detenuti tossicodipendenti nelle carceri non ci sarebbe nessun sovraffollamento di Gianni Augello redattoresociale.it, 24 giugno 2022 Presentato il tredicesimo Libro Bianco sulle droghe. “La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri”. Allarme sull’uso delle misure alternative, c’è il rischio di snaturare lo strumento. Gonnella (Antigone): “Non c’è ancora nel nostro Paese la tensione verso un cambio di paradigma”. “La legge sulle droghe è il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. Basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati ‘tossicodipendenti’ non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane”. A sostenerlo è il Libro Bianco sulle droghe 2022. Giunto alla sua tredicesima edizione, il rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società anche quest’anno è promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. I dati contenuti nel Libro Bianco parlano chiaro: “10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico - si legge nel testo. Non è vero quindi che ‘gli spacciatori non vanno in carcere’. Sono invece il 28,3% degli ingressi totali molti dei quali vi restano”. Stabile, inoltre, la percentuale dei presenti per droghe che rappresenta il 34,88% del totale (nel 2021 era il 35,04%). “È una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,65%) - si legge nel libro - e che supera anche quella della Russia (28,6%)”. Sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021, però, si registra anche un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento, invece, quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe): sono 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028. I dati raccolti nel Libro bianco confermano inoltre gli ingressi e le presenze di detenuti definiti tossicodipendenti. “Sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere - si legge nel testo - mentre al 31 dicembre 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), alimentato dall’aumento degli ingressi in carcere di persone che usano sostanze”. Ma non è solo il carcere a subire la pressione dovuta all’applicazione delle normative antidroga. Anche i tribunali, spiegano le organizzazioni promotrici del Libro Bianco, fanno fatica. “Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142 - si legge nel testo -. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte, probabilmente anche per il rallentamento dovuto alla pandemia”. C’è poi il dato delle misure alternative che da buona notizia rischia di trasformarsi in un ulteriore allarme. “Dal 2006 al 2021 si è verificata una crescita costante delle misure alternative, con l’unica eccezione del 2020 che ha fatto registrare un dato leggermente inferiore rispetto all’anno precedente - si legge nel testo. In quindici anni si è passati da 3.592 sottoposti a misura alternativa (2006) a 31.307 (2021). Questo uso sempre più diffuso di misure alternative potrebbe sembrare una buona notizia. Va tuttavia considerato che l’aumento delle misure alternative non è stato accompagnato da una altrettanto sensibile diminuzione della popolazione carceraria: questo fatto potrebbe essere interpretato come uno snaturamento di tali misure che da alternative alla detenzione sarebbero diventate alternative alla libertà”. La pandemia si fa sentire invece sul fronte delle segnalazioni al Prefetto per consumo di sostanze illecite: nel 2021 sono 31.914, il minimo storico dal 2007. Inoltre, diminuiscono anche i minori segnalati: sono 2.643 e il 98% di questi è segnalato per possesso di cannabis. Tuttavia, aumentano considerevolmente le sanzioni, tornate ai livelli pre-pandemia: sono 12.329 nel 2020 (+43,6%). Sostanzialmente costanti le segnalazioni ai Serd, 4.309 nel 2021. Infine il rapporto conferma (con i dati del 2021) l’incidenza molto marginale delle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. “I dati disponibili sono piuttosto disomogenei, per cui di difficile interpretazione - si legge nel testo -. Dai dati disponibili (Polizia Stradale), si nota però un sostanziale dimezzamento negli ultimi 10 anni delle violazioni dell’art. 187. Le violazioni accertate dalla Polizia Stradale a seguito di incidente rimangono a livelli molto bassi: 1,18% nel 2021 e salgono all’1,44% negli incidenti con lesioni”. Oltre ai dati sulle droghe, questa tredicesima edizione del Libro Bianco, però, dedica una corposa riflessione sulla questione democratica nel nostro paese, alla luce del giudizio di inammissibilità del referendum cannabis da parte della Corte Costituzionale. “Oltre 600 mila cittadini si sono visti privare dei propri diritti costituzionali per una interpretazione discutibile e certamente fuori dal tempo sia della Costituzione che delle convenzioni internazionali”, si legge nel testo. “Avremmo voluto dedicare questo Libro Bianco alla sconfitta dell’intolleranza e della scelta proibizionista che dal 1990 provoca intasamento dei tribunali e sovraffollamento nelle carceri - scrivono nell’introduzione Stefano Anastasia e Franco Corleone. Solo l’ipocrisia e il moralismo impediscono di denunciare che la crisi della giustizia affonda proprio in chi confonde il diritto con la morale”. A commentare i dati del rapporto, nelle conclusioni, è invece Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “La normativa sulle droghe non ha alcuna efficacia preventiva, speciale o generale - scrive Gonnella -. I numeri dei consumi e della repressione ci dicono che le scelte del singolo o della generalità dei consociati non sono state minimamente condizionate dalla severità della reazione penale. Non c’è ancora nel nostro Paese la tensione verso un cambio di paradigma”. L’umanità che manca dietro le sbarre. Aumentano i suicidi di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 24 giugno 2022 La pandemia ha lasciato uno strascico notevole all’interno delle carceri italiane. Le terribili rivolte avvenute a marzo del 2020, che hanno avuto devastanti conseguenze, sono state la dimostrazione della rabbia che si nasconde tra le alte mura delle prigioni. Il Covid ha inasprito ancor di più le anime dei reclusi, provocando maggiore aggressività e difficoltà. A fare il bilancio delle ripercussioni dell’emergenza sanitaria nei nostri istituti penitenziari è stato il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, nella Relazione annuale al Parlamento, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un grave problema è l’affollamento, ha messo in evidenza il Garante. Questo è minore in alcune sezioni, ma estremo in altre. Una situazione grave che, esaminata con attenzione, dimostra quanto le carceri non abbiano ancora ritrovato la loro “normalità”. Le persone carcerate si sentono sempre più disorientate, tanto che in questo periodo l’aumento dei suicidi ha raggiunto dei livelli elevatissimi. Circa 29 le morti nel solo 2022, cui si aggiungono 17 decessi per cause ancora da accertare. Carcere anche per pene troppo brevi sintomo di minorità sociale - Secondo la relazione di Palma sono addirittura 1.319 coloro che sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altri 2.473 per una condanna da uno a due anni, che sollecitano la ricerca di soluzioni diverse dalla detenzione in carcere. In tutto il 7% del totale. “E’ superfluo chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta - spiega Palma -, importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto”. “La pena carceraria deve essere ridotta al minimo, vanno ridotti i reati e vanno ridotte le pene a quelle strettamente necessarie. La marginalità sociale va ricollocata nel mondo del welfare - ha proseguito Palma. È con strumenti sociali, e non penali, che va affrontata”. Ergastolo ostativo tradisce lo spirito del codice penale - Una altra urgenza è la questione dei condannati all’ergastolo ostativo, per il quale il condannato non può godere di alcun sconto di pena e passa l’intera vita in carcere. A tale destino vanno incontro coloro che sono stati condannati per reati molto gravi - come i reati di mafia - e che non collaborano con la giustizia. “I numeri - sottolinea Emilia Rossi, vice dell’autorità garante - dicono che in Italia l’ergastolo è essenzialmente ostativo: una pena diversa, rispetto a quelle previste dal codice penale, perché non definitiva bensì sostanziata dal tempo”. Al 31 marzo 2022, secondo i dati presentati dal Garante, sono 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. I casi psichiatrici richiederebbero una attenzione diversa - Il terzo punto della relazione riguarda la malattia psichica in carcere. Al 22 marzo erano 381 le persone detenute cui è stata accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento negli istituti, giuridici e penitenziari, predisposti per affrontarla. “Mi sono soffermato sull’aspetto del disagio psichico perché è un argomento grave per chi lavora in carcere e perché è direttamente lesivo del bene della salute delle persone coinvolte, siano esse adulte o minori”, sostiene Palma. “Per i minori la ricerca di una comunità dove tale disagio possa essere affrontato si scontra con la tendenza delle comunità stesse a selezionare i casi che meno costituiscano un problema”. Per questo il Garante nazionale chiede che in tempi brevi, le strutture interessate possano garantire un interesse maggiore verso quei soggetti che necessitano di un’attenzione diversa da quella che il carcere può offrire. Cirinnà (Pd): “L’affettività per detenuti è un diritto, basta scherni” di Paolo Pagliaro 9colonne.it, 24 giugno 2022 Il diritto all’affettività delle persone recluse, già seriamente compromesso a causa soprattutto del sovraffollamento carcerario, è stato ulteriormente compresso durante la pandemia. Eppure, mantenere i legami famigliari è una condizione indispensabile per il recupero dei detenuti e per il loro rientro in società ed è un fattore che diminuisce le possibilità di recidiva. È quanto emerge da una ricerca dell’Università di Cassino, svolta da Sarah Grieco e pubblicata da Editoriale Scientifica, su quattro istituti circondariali del Lazio e presentata oggi in Senato alla presenza dell’autrice, della senatrice del Pd Monica Cirinnà, responsabile nazionale diritti per i Dem e relatrice al disegno di legge della Regione Toscana sull’affettività in carcere all’esame della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, di Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio e di Mauro Corona, Garante nazionale dei detenuti. “Abbiamo intervistato con questionario 200 detenuti degli istituti di Cassino, Frosinone, Paliano e Rebibbia femminile - ha spiegato Sarah Grieco - Sono stati considerati i vari aspetti dell’affettività e non solo la sessualità, ma anche la possibilità attraverso visite, colloqui, incontri, telefonate e mail di mantenere i rapporti familiari. È emersa una situazione variegata da istituto a istituto, in cui incide il sovraffollamento ma anche l’interpretazione delle leggi. I rapporti familiari vengono percepiti in bilico dai detenuti, un crogiolo di bisogni insoddisfatti”. La ricerca presenta anche una proposta di legge che raccoglie i desiderata dei detenuti. “Il diritto all’affettività - ha sottolineato Mauro Palma - è ancora considerato un aspetto premiale e un modo per mantenere la calma in carcere, mentre la detenzione non sospende i diritti e l’affettività è anche un elemento di normalità. Uno dei nodi sono le direzioni circondariali. Bisognerebbe chiedere una progettualità a partire dalle condizioni date e valutare i risultati, da collegare alle carriere”. “Da relatrice del ddl - ha detto Monica Cirinnà - so bene che il suo iter sarà accidentato, ma voglio arrivare alla fase della discussione generale, perché le diverse posizioni rimangano agli atti. Il Pd ha presentato per 4 volte un emendamento per aumentare lo sconto di pena per chi è stato detenuto durante il Covid, con la privazione addirittura dell’aria. Finora non abbiamo ottenuto risposta, ma la battaglia continua anche in vista della prossima legislatura” Cultura del lavoro carcerario, sviluppo impossibile senza le imprese e il terzo settore di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 24 giugno 2022 L’ultima grande riforma dell’esecuzione penale fu varata alla fine del 2018 dopo una lunghissima fase preparatoria rappresentata dagli Stati Generali sull’esecuzione penale. Un’occasione unica per coinvolgere la società civile e chi, per motivi professionali, interagisce con le strutture penitenziarie scontrandosi quotidianamente con criticità ed inefficienze. Furono organizzati 18 tavoli tematici, coinvolti circa 200 professionalità del mondo accademico ma anche direttori di carcere, garanti territoriali, avvocati, magistrati, esponenti della società civile e del terzo settore. Una mobilitazione che probabilmente non ha visto eguali in questo settore. Un anno di lavoro e un documento finale con chiare indicazioni al Ministro della Giustizia per promuovere una riforma a 360 gradi che potesse innovare profondamente il sistema- carcere in Italia. Un’occasione completamente persa. Gli esperti fecero il proprio lavoro proponendo a volte soluzioni interessanti e innovative ma che in gran parte furono bocciate dal compromesso parlamentare. Leggendo la relazione finale prodotta dal tavolo su “lavoro e formazione”, si ha un’idea chiara su molti dei problemi che pregiudicano la diffusione delle opportunità lavorative in carcere ma mancano proposte importanti che possano cambiare radicalmente la situazione. Si consigliano metodi di organizzazione del lavoro che le singole carceri potrebbero adottare e ci si focalizza sul necessario cambio di termini che descrivono la realtà del lavoro carcerario: mercede, lavoranti, e più generalmente sul gergo che identifica i servizi d’istituto. L’unica proposta sostanziale riguarda la sostituzione (su base volontaria del detenuto) della retribuzione del detenuto lavoratore con giorni di libertà anticipata; istituto previsto in Romania ma che pone non pochi problemi giurisdizionali e di ordine etico. Un tavolo quindi che ha descritto bene le criticità del lavoro ma povero in soluzioni e visioni, probabilmente anche per colpa della sua composizione: un magistrato coordinatore, ricercatori, docenti e avvocati, ognuno di grande professionalità e meritevole di stima, ma neanche un esponente del mondo imprenditoriale o del terzo settore, i due universi che veramente hanno la capacità e la potenzialità di fare formazione e creare lavoro in carcere. *Founder Economia Carceraria Il pm è diventato il baricentro del processo, ora la riforma Cartabia può cambiare tutto di Alberto Cisterna Il Dubbio, 24 giugno 2022 Dal 1992 in poi, o forse da poco prima, la storia della magistratura italiana si è resa praticamente sovrapponibile alla narrazione del pubblico ministero, sino a confondersi in essa. Le ragioni sono numerose e non tutte ancora compiutamente esplorate. Sta di fatto che mai nella geografia processuale del nostro paese il rappresentante della pubblica accusa aveva acquisito una collocazione così centrale. Una sorta di baricentro nevralgico del processo penale a partire dal quale si sono - via via - misurati poteri, abusi, prerogative, rapporti di forza con la difesa, con la polizia giudiziaria e con lo stesso giudice. Sino a giungere a un Pm che, a certe condizioni, può anche dettare i tempi della stessa società, delle istituzioni, della politica, dell’economia, persino della morale. Ieri il Csm ha proceduto alla nomina del nuovo procuratore generale presso la Corte di Cassazione scegliendo tra un parterre di candidati di indiscusso prestigio. È il vertice del potere inquirente e requirente in Italia; sebbene si tratti di un vertice anomalo, sprovvisto di rilevanti poteri processuali, ma che tutti sanno nel pianeta giustizia costituisce uno snodo fondamentale dell’ordinamento giudiziario. Per comprendere appieno il ruolo e la funzione della Procura generale non sono necessarie minute esegesi normative, né evocare complesse costruzioni dottrinali sulla funzione nomofilattica della Cassazione. Questi compiti tradizionali sono certo importanti, ma si tratta piuttosto di far comprendere ai più per quale ragione un ufficio di questa rilevanza sia stato così massicciamente esposto ai flutti dello tsunami innescato dall’affaire Palamara. Le dimissioni travagliate del dottor Fuzio, procuratore generale in carica al momento delle chiacchierate all’hotel Champagne, sono state conseguenza diretta della contaminazione derivante dai contatti stretti che lo legavano alla toga romana. Un duro colpo per un’istituzione così prestigiosa che ha, praticamente, il monopolio dell’azione disciplinare e che è sembrata vacillare con lo spandersi mediatico di conversazioni e chat. A lui è succeduto un magistrato di altissimo profilo, con un curriculum inarrivabile e che pur era stato poco tempo prima battuto dal suo “sfortunato” predecessore in uno dei soliti tornei per l’assegnazione dei posti di maggior rilievo. Giovanni Salvi ha dovuto gestire una situazione complessa, chiaroscurale, fatta di semitoni clientelari e di vittimismo sospettoso. Un nugolo di toghe invocava protezione, riparo, sostegno. Blandiva il ras, ne implorava il sostegno o lo aizzava contro i propri nemici veri o presunti. Un giorno o l’altro, a partire da quelle chat e da quelle conversazioni, sarà pur tracciato un profilo “psicologico” della magistratura italiana popolata di questuanti alla ricerca perenne di incarichi e gratificazioni e in cui si agitano inquietanti paranoie persecutorie di varia intensità. Non è stato semplice, probabilmente, districarsi in quella comunità dolente che deve essere apparsa alla Procura generale della Cassazione una parte, non marginale, delle toghe italiane. Sono note le polemiche che hanno investito le scelte operate sul versante disciplinare, ritenute - a tratti - troppo blande, se non addirittura permissive. E qui il cerchio si chiude e consente di apprezzare appieno l’importanza della scelta operata ieri da Palazzo dei Marescialli. Dal 2006 gli illeciti disciplinari sono tipizzati. Un’operazione complessa che ha lasciato vuoti talvolta impropriamente colmati da una giurisprudenza “creativa” della Sezione disciplinare, che ha avuto il proprio autorevole motore propulsivo proprio nelle tecniche di contestazione elaborate dalla Procura generale, titolare e rappresentante dell’accusa disciplinare. Uno strumento particolarmente performante ed efficiente che - a dispetto di dicerie varie - rende il processo disciplinare delle toghe un congegno particolarmente temibile e temuto. Di qui il consolidarsi di una consapevolezza sempre più radicale della politica secondo cui era inutile produrre norme processuali, costruire garanzie, porre limiti al connubio mediatico tra alcuni Pm e un certo giornalismo, se poi non si fossero accompagnati questi precetti con adeguate sanzioni disciplinari. La riforma Cartabia, sotto profili che non si possono minutamente enumerare in questa sede, traduce appieno questa consapevolezza e almeno in tre snodi fondamentali - la produttività dei magistrati, le prassi clientelari e la tutela della presunzione di innocenza - interviene con la scure dell’illecito disciplinare, ben sapendo che per questa via saranno piegati anche i più neghittosi e i più riottosi. La Costituzione assegna anche al ministro della Giustizia l’azione disciplinare, ma nei fatti essa appartiene in via pressoché esclusiva, e salvo rare eccezioni, al Procuratore generale. La strada della proliferazione degli illeciti disciplinari, timidamente percorsa qualche anno or sono anche dalla riforma Orlando, ora appare la via maestra per poter effettivamente conseguire mutamenti di prassi, nuovi stili, persino l’osservanza di norme processuali cogenti. Un doppio binario, processuale e disciplinare, che vede proprio nella Procura generale della Cassazione il protagonista principale di un più ampio progetto di riposizionamento istituzionale della magistratura italiana. Il solo inizio dell’azione disciplinare incute timore tra le toghe perché blocca carriere, sospende aumenti stipendiali, interdice incarichi. Ecco perché, a pochi giorni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale della riforma Cartabia, la scelta del nuovo Procuratore generale è così importante e, forse, decisiva per le sorti della magistratura italiana alla ricerca di nuovi equilibri e, come ha detto il presidente Mattarella, anche di una rigenerazione morale. “Sulla giustizia M5S immaturo”. Parla Macina, figura chiave per Di Maio di Valentina Stella Il Dubbio, 24 giugno 2022 Intervista alla sottosegretaria di via Arenula che ha scelto di lasciare Conte e proseguire col ministro degli Esteri. “Spesso si è ceduto alla tentazione della condanna preventiva, a una comunicazione semplificata soprattutto sulle indagini relative alla politica. Poca solidarietà interna per le mie iniziative sul carcere? Forse è un tema che non porta consensi”. L’onorevole Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia, figura tra i nomi di spicco che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle per approdare nel nuovo gruppo parlamentare Insieme per il Futuro, fondato da Luigi Di Maio. I temi della giustizia sono tra quelli in cui dovremmo aspettarci una certa discontinuità rispetto al metodo tradizionalmente adottato dai pentastellati. Abbiamo cercato, in questa intervista, di capire se effettivamente sarà così. Sottosegretaria Macina, come mai ha lasciato il Movimento ed è entrata nel nuovo gruppo fondato da Luigi Di Maio? Può sembrare strano dirlo, ma io sono rimasta dov’ero. Se mi giro e guardo il nuovo gruppo vedo che ci sono le stesse persone con cui ho condiviso temi e battaglie per anni, anche fuori dal Parlamento. È il Movimento 5 Stelle invece che ha deciso di tornare indietro. Era stato annunciato un nuovo corso, quello della maturità politica, ma non mi sembra che sia mai partito. Lei in questo ultimo anno ha lavorato fianco a fianco alla ministra Cartabia. Che bilancio fa? E si è sentita sostenuta, nella sua funzione di governo, dal Movimento? Il lavoro è complesso, ho deleghe di grande responsabilità. Dalla ministra ho ricevuto da subito una grande apertura di credito che credo di aver ricambiato con l’impegno e la passione che da sempre ho avuto per il diritto e la giustizia, a cui ho dedicato studio e professione. Nell’ultimo anno sono state approvate riforme importanti. E in alcuni passaggi è vero che il Movimento ha scelto la via del consenso facile. Ma governare a mio avviso è una cosa diversa. I valori restano gli stessi ma le questioni, specialmente quando parliamo di giustizia, sono complesse e meritano di passare dal confronto. È vero che non ha trovato una sponda sul tema del carcere? Lei visita regolarmente gli istituti di pena... Forse perché il tema carcere non porta consensi. Eppure, il fine rieducativo della pena è un principio garantito dalla Costituzione. Sia Di Maio che Spadafora hanno ripetuto che sono stati commessi degli errori in passato. Quali, in tema di giustizia? Si può e si deve essere molto severi ed esigenti sui temi di giustizia e sull’etica in politica, io lo sono. E pretendo trasparenza e comportamenti limpidi da parte di chi amministra la cosa pubblica. Altra cosa invece è la condanna preventiva: su questo occorre il coraggio di saper riconoscere gli errori fatti in passato. Si riferisce alla gogna mediatica? Un conto è dare l’informazione di una indagine in corso, soprattutto quando i soggetti coinvolti sono amministratori pubblici, altro è emettere una sentenza di condanna prima ancora che ad esprimersi sia stato il giudice. Certo, da un punto di vista di opportunità politica chi ricopre incarichi pubblici ed è sotto processo dovrebbe fare un passo indietro, ma ciò non equivale a dire che quella persona è colpevole. E soprattutto bisogna stare attenti al tipo di comunicazione utilizzata. Delle volte sono state usate parole eccessive nei confronti di indagati e imputati. Ricordiamo che infatti il Movimento 5 Stelle non era neanche favorevole al recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, perché sosteneva che bastava il comma 2 dell’articolo 27 della Carta costituzionale... Anche il governo precedente decise di non recepirla. Però, tornando alla sua domanda, le ripeto quanto dichiarai nel momento in cui la norma di recepimento è stata approvata. Quello raggiunto dal testo a mio parere è un giusto compromesso che tutela sia la libertà di informazione che i diritti degli indagati, Diciamolo: il Movimento è partito con lo slogan del “Vaffa” che si è riverberato anche sul tema giustizia, dando vita a un populismo estremo. Forse in questi anni il M5S non è riuscito a fare un lavoro di tipo culturale, garantista sulla base elettorale... Si sarebbe dovuta graduare la forza della comunicazione, argomentare e spiegare approfonditamente le questioni. Qualche volta invece ci si è lasciati andare a facili semplificazioni su temi così sensibili come quelli della giustizia e dell’esecuzione penale. Dentro Insieme per il Futuro non ci sarà posto per i populismi e per gli slogan, è stato ribadito. Per situazioni complesse occorrono soluzioni complesse. Come si tradurrà questo nuovo metodo sul terreno della giustizia? Ricordo mesi fa una delle prime riunioni del presunto nuovo corso del Movimento 5 Stelle in cui Conte disse chiaramente che dovevamo modificare certi atteggiamenti politici del passato per orientarli al pieno rispetto della Carta costituzionale. Poi però, nel raccontare alcune posizioni, ha scelto una strada diversa fatta di slogan. Peccato. Io ero d’accordo con quella impostazione e adesso conto di lavorare in quella direzione. Secondo Lei perché Conte ha sterzato rispetto ai propositi iniziali? Voglio sperare che non si sia basato sui facili consensi. Cosa invece non cambierà sempre in tema di giustizia rispetto al passato? Il nostro Paese è aggredito dalla corruzione e dalla criminalità organizzata. Su questo non ci sarà mai un arretramento di neanche mezzo centimetro. Pochi giorni fa ho contribuito alla realizzazione di un importante risultato per portare a Foggia i magistrati della Dda di Bari che indagano sulla mafia locale. È una piccola grande cosa che può aiutare molto quel territorio sofferente. Ed è la dimostrazione che si possono ottenere molte cose governando bene e senza bisogno di ricorrere a strumenti di propaganda. Rimane aperto il grande capitolo sui decreti attuativi delle tre riforme di mediazione Cartabia. Quali sono le sfide più importanti? Dobbiamo dare concretezza ai principi declinati nei testi di riforma. Il ministero è al lavoro da tempo e le posso dire che entro l’estate i decreti saranno inviati all’esame del Parlamento, per il parere delle commissioni di merito. È un traguardo ambizioso ma sono convinta che sia alla nostra portata. Vietare le telecamere nelle aule di tribunale non è “garantismo”: è aiuto ai clan di Alessandro Gaeta* Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2022 Nel giro di pochi giorni due diversi tribunali calabresi impegnati in processi alla ‘ndrangheta hanno deciso che esiste un limite a chi lavora con le immagini televisive. Decisioni che non tengono conto dell’interesse sociale sollevato dai processi di mafia. Questa censura trae origine dal processo “Rinascita Scott”, considerato il parallelo del celebre Maxi di Palermo. Con un equilibrismo giuridico nell’aula bunker di Lamezia Terme sono consentite le riprese, ma non il loro utilizzo che sarà possibile solo dopo la sentenza. In sostanza una limitazione del diritto di cronaca dei reporter televisivi che va avanti dal febbraio del 2021. Il provvedimento ha già fatto giurisprudenza. Tanto è vero che anche nel processo “Imponimento” che si svolge sempre a Lamezia Terme, la Corte ha disposto nello stesso modo. A Vibo Valentia invece, i giudici sono andati oltre, vietando del tutto l’ingresso delle telecamere. Per la presidente Teresa Macrì occorre tutelare sia l’identità del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, protagonista di molti processi in corso tra Lamezia e Vibo Valentia, sia il diritto alla riservatezza degli imputati. Peccato che i testimoni sotto protezione siano ascoltati in videoconferenza e inquadrati di spalle e che la tutela della riservatezza degli imputati non tenga conto del diritto dei cittadini a essere informati. Difficile allontanare il dubbio che certe forme di “garantismo” siano applicate piuttosto a senso unico facendo venire il sospetto che l’attuale imbarazzo nasca dal nome stesso di Emanuele Mancuso, rampollo di uno dei clan di ‘ndrangheta più feroci e ramificati dentro le istituzioni. Le sue accuse sugli intrecci tra mafia, politica e massoneria nei confronti di imprenditori, medici, periti, ambasciatori, professori universitari, sacerdoti, impiegati pubblici, forze dell’ordine, politici locali, che coinvolgono in special modo avvocati dei boss diventati consigliori (come quelle rivolte a Giancarlo Pittelli, per anni difensore dei Mancuso ed ex deputato di Forza Italia), sono paragonabili per importanza al ruolo che ebbe Tommaso Buscetta nei confronti di Cosa Nostra. È dalla decisione del pentito Mancuso di collaborare con la giustizia che il cosiddetto garantismo a senso unico è tornato all’offensiva. Non a caso si sono moltiplicate le critiche e gli attacchi anche nei confronti di Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro dove il collaboratore di giustizia ha vuotato il sacco, mentre a Mancuso viene impedito di vedere con regolarità la figlia di quattro anni e di svolgere un pieno ruolo genitoriale; viceversa la madre, che non ha alcuna intenzione di collaborare, continua a vivere sotto lo stesso tetto con la piccola. Ma, ancora più grave dal punto di vista dell’informazione libera e della stessa sicurezza di questo prezioso collaboratore di giustizia, alle sue testimonianze in tribunale è negato l’approdo sui siti e in televisione. Tutto si regge su un filo di lana: la diffusione delle registrazioni condizionerebbe - dicono i magistrati - il dibattimento e la genuinità delle testimonianze successive. Una motivazione assai discutibile, perché a tutte le parti del processo vengono fornite a stretto giro le trascrizioni di quanto detto in aula. Insospettisce dunque che tali contorsioni normative colpiscano sempre lo stesso collaboratore di giustizia, Emanuele Mancuso, un uomo che con le sue lucide deposizioni ricche di imbarazzanti dettagli, raccolti di prima mano all’interno della sua cerchia familiare, sta mettendo a nudo il vero potere di ‘ndrangheta e massoneria. Un potere che non è solo criminale ma soprattutto è prepotentemente innestato nel tessuto sociale italiano. *Consigliere di Stampa romana Salviamo il Pnrr dalla mafia di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 24 giugno 2022 “Le cosche come quelle della ‘ndrangheta si sono diffuse nel Nord Italia, in Lombardia e altrove. Qui si è radicata la “mafia imprenditrice”. Si impossessa di aziende in difficoltà, si espande in nuovi settori, ricicla denaro sporco, rende inefficaci i servizi, danneggia l’ambiente. … (Le mafie) controllano il territorio con la violenza, soffocano la libera concorrenza”. Questa l’analisi del premier Mario Draghi esposta poche settimane fa, a Milano. “Per questo - ha concluso - il contrasto alla criminalità organizzata non è solo necessario per la nostra sicurezza. È fondamentale per costruire una società più giusta”. Il discorso del presidente del Consiglio, forse il primo dedicato specificamente al tema del contrasto al fenomeno mafioso, fin qui delegato ai ministri competenti, è importante per molti aspetti. Innanzitutto, pone correttamente il tema della mafia come questione nazionale a fronte delle tante prese di posizione di esponenti della politica e dell’economia che continuano a sostenere, nonostante l’evidenza offerta da decine di indagini e processi che interessano zone di tutte le regioni del Centro e Nord Italia, che il problema sia limitato ad alcune aree del Mezzogiorno. L’analisi del premier si è poi incentrata sulla necessità di evitare che la spesa degli ingenti fondi messi a disposizione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) diventi l’occasione per un ulteriore arricchimento delle organizzazioni mafiose. “Per proteggere questi fondi - ha detto Draghi - semplifichiamo le procedure, miglioriamo il sistema di contrasto alle infiltrazioni, rafforziamo i controlli, ampliamo gli strumenti di contrasto a disposizione dei prefetti”. Il punto è senza dubbio cruciale, dato che all’utilizzo corretto dei fondi del Pnrr è legata buona parte delle speranze di ripresa economica del Paese, in una situazione generale sempre più difficile. Queste risorse sono irrinunciabili per il Nord quanto per il Sud, dove pure il rischio mafie è certamente maggiore. Anzi, proprio al Sud l’esigenza di favorire lo sviluppo, di migliorare i servizi e l’assistenza sociale, di far crescere l’occupazione, specie quella dei giovani, è ancora più pressante poiché - l’esperienza insegna - le difficoltà economiche e sociali sono un fattore importantissimo, anche se non esclusivo, dell’espandersi delle mafie. Rimane quindi fondamentale l’attività repressiva, su cui è necessario l’impegno del governo per reperire le risorse per forze dell’ordine e apparato giudiziario, ma anche l’indicazione di una chiara volontà politica, come appunto ha fatto Draghi. Indicazione tanto più necessaria, a fronte delle preoccupazioni manifestate da più parti per gli effetti che potranno avere sui processi di mafia alcune delle norme adottate in questi mesi (specie quelle in tema di improcedibilità) e per alcune spinte a modificare su punti significativi la nostra legislazione antimafia, nonostante sia ritenuta in tutte le sedi internazionali la più avanzata al mondo e nonostante che indagini e processi ne abbiano confermato la piena efficacia, anche nel contrastare l’evoluzione delle mafie o - meglio - delle loro strategie. Tuttavia la repressione non basta. Come sempre nella storia delle mafie, è necessario che la volontà di contrastarle sia fatta propria da tutta la società. Soprattutto in una fase in cui l’azione delle organizzazioni mafiose è diretta a infiltrare l’economia e a impossessarsi di aziende e attività è decisivo che l’azione repressiva sia affiancata dal rifiuto degli operatori economici, delle loro organizzazioni di categoria, ma anche - ognuno per la parte di competenza - di ogni protagonista della vita politica e sociale, di venire a patti con le cosche, di instaurare con esse rapporti e relazioni basati su calcoli di convenienza individuale (per esempio, ottenere condizioni contrattuali più favorevoli, finanziamenti negati dalle banche, pacchetti di voti, lucrosi incarichi professionali e così via). Calcoli che alla lunga si sono sempre rivelati ingannevoli perché chi entra in rapporti con un mafioso si ritrova soggiogato a un padrone di cui non può più liberarsi, e intanto avvelena sistematicamente alle radici la nostra società. Come ha detto di recente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “O si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative”. Ne bis in idem e sistemi a doppio binario sanzionatorio di Bianca Almacolle* Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2022 La Consulta traccia la strada per recepire i principi delle Corti Ue. Con la sentenza n. 149 del 2022 , pubblicata il giorno 16 giugno, la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità dell’art. 649 c.p.p., “nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della medesima legge”. Collocando la pronuncia in commento nel più ampio contesto dell’annosa questione della compatibilità dei sistemi a doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem, appare immediatamente evidente il carattere dirompente di una sentenza che segna l’attesa presa di posizione sul punto da parte della Corte Costituzionale. In estrema sintesi le coordinate della quaestio iuris: se, come sancito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la formale qualificazione di una sanzione come amministrativa non è sufficiente a far venir meno l’obbligo di osservare le garanzie previste per i procedimenti penali, tra cui il divieto di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per un idem factum, ne consegue che, qualora, al ricorrere dei c.d. Engel criteria, alla sanzione amministrativa debba essere riconosciuta natura sostanzialmente penale, l’irrogazione della sanzione amministrativa assume, in ossequio al principio del ne bis in idem, carattere ostativo rispetto all’inizio o alla prosecuzione di un procedimento penale per i medesimi fatti. La cristallina logicità di tale conclusione si è tuttavia dovuta scontrare con le implicazioni pratiche di una lettura sostanziale del concetto di sanzione penale: implicazioni che, in particolare, hanno riguardato la materia tributaria, dove è ben frequente la sovrapposizione, al superarsi di determinate soglie, di sanzioni amministrative e sanzioni penali. I principi di diritto affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Grande Stevens and others v. Italy sono stati quindi ben presto mitigati da una serie di pronunce successive, con le quali le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo hanno condizionato l’operatività del principio del ne bis in idem nelle ipotesi di doppio binario sanzionatorio alla circostanza per cui tra i due procedimenti non sia ravvisabile una sufficiently close connection in substance and time che consenta di ritenere nel complesso proporzionata la duplice reazione dell’ordinamento. Sin da subito, tuttavia, tale precisazione non è apparsa sufficiente a scongiurare i dubbi di compatibilità, con il principio del ne bis in idem nell’accezione sostanziale datagli dalle Corti europee, degli impianti sanzionatori a doppio binario previsti in numerosi ambiti del nostro ordinamento. Molteplici sono state le occasioni in cui i giudici di merito hanno sollecitato, sul punto, un intervento della Corte Costituzionale: fino ad ora, tuttavia, alle ordinanze di rimessione alla Corte erano corrisposte altrettante dichiarazioni di inammissibilità delle questioni di legittimità sollevate - dichiarazioni che, secondo molti, celavano la volontà di eludere la questione in attesa dell’invocato intervento del legislatore (v. Corte Cost., sent. 12 maggio 2016, n. 102; Corte Cost., sent. 20 maggio 2016, n. 112; Corte Cost., sent. 24 gennaio 2018, n. 43; Corte Cost., sent. 15 luglio 2019, n. 222; Corte Cost., sent. 20 maggio 2020, n. 114). Ebbene, con la sentenza del 16 giugno 2022, n. 149, la Corte Costituzionale - rimasti inascoltati gli appelli al legislatore - ha finalmente affrontato la questione di legittimità dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui, nell’affermare il principio del ne bis in idem, ne relega l’operatività ai soli procedimenti formalmente qualificati come penali. Nel caso di specie, il Tribunale di Verona, sezione penale, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale in quanto si era trovato a dover giudicare della responsabilità penale di un soggetto imputato del reato di cui all’art. 171 ter, primo comma, lett. b), della legge 22 aprile 1941, n. 633 , per avere, a fini di lucro, detenuto per la vendita e riprodotto abusivamente, presso la copisteria di cui il medesimo era titolare, opere letterarie fotocopiate oltre il limite consentito. Accertato come al medesimo soggetto fosse già stata irrogata, per i medesimi fatti, la sanzione amministrativa prevista dall’ art. 174 bis della legge n. 633 del 1941 , e appurato come non fosse in alcun modo possibile riscontrare, tra i due procedimenti penale e amministrativo, la sussistenza di una stretta connessione sostanziale e temporale, la Corte ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., “nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall’art. 171-ter della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della medesima legge”. La Corte ha precisato come la questio iuris sottoposta al suo vaglio riguardasse la legittimità, con riferimento al principio del ne bis in idem, del meccanismo normativo disegnato dal legislatore nella specifica materia della protezione del diritto d’autore (e, in particolare, della sovrapposizione delle sanzioni, rispettivamente penale e amministrativa, previste dagli artt. 171 ter, primo comma, lett. b), e 174 bis, della legge n. 633 del 1941): conseguentemente, gli effetti diretti della pronuncia in esame non potranno che esplicarsi esclusivamente entro il perimetro della disciplina presa in considerazione. A margine di tale precisazione, la Corte ha tuttavia affermato di essere ben consapevole di come il principio di diritto affermato con la sentenza in commento non possa considerarsi un rimedio idoneo, di per sé, a conferire razionalità complessiva al sistema, che consente comunque l’apertura di due procedimenti e il loro svolgimento parallelo, con conseguente duplicazione in capo all’interessato di costi sia personali che economici. La Corte ha quindi rivolto un ennesimo appello al legislatore, affinché provveda a “rimodulare la disciplina in esame in modo da assicurare un adeguato coordinamento tra le sue previsioni procedimentali e sanzionatorie, nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio alla luce dei principi enunciati dalla Corte EDU, dalla Corte di giustizia e da questa stessa Corte”. In conclusione, la sentenza n. 149 del 2022 ha segnato il tanto atteso riconoscimento, da parte della Corte Costituzionale, dell’incompatibilità dei sistemi a doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem, così come declinato dalle Corti europee: per quanto la pronuncia sia destinata a spiegare i propri effetti concreti in un ambito ristretto, quale quello della tutela del diritto d’autore, non può dubitarsi che costituirà un precedente importante sul quale fondare ulteriori richieste di intervento indirizzate alla Corte, aventi a oggetto la legittimità costituzionale dei diversi sistemi a doppio binario sanzionatorio previsti dal nostro ordinamento. *Studio Lipani Catricalà & Partners Campania. Le celle esplodono, detenuti in aumento dopo il Covid di Viviana Lanza Il Riformista, 24 giugno 2022 Da un lato ci sono le parole, quelle dei rappresentanti delle istituzioni, quelle dei garantisti a orologeria, quelle di chi parla di carcere senza averci mai messo piede una sola volta. Dall’altro lato ci sono i numeri, che descrivono persone, fatti, situazioni reali, in pratica l’ordinarietà della vita dietro le sbarre. E così, mentre ieri, durante il question time della ministra Cartabia, si è parlato ancora una volta di misure alternative come soluzione al problema mai risolto del sovraffollamento nelle carceri, sul sito del ministero della Giustizia i più recenti resoconti hanno fornito i dati sulle presenze in cella aggiornati a poche settimane fa. Ebbene, da questi dati emerge un trend in aumento della popolazione detenuta, i detenuti cioè continuano ad aumentare nelle celle della Campania come dell’intero Paese. Ma non si doveva ricorrere al carcere come extrema ratio? Ma la pandemia non ci aveva dimostrato, come se ve ne fosse ulteriore bisogno, che il sovraffollamento in carcere è insostenibile? Ma non era intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo a ricordare che la pena non deve prevedere trattamenti inumani e degradanti arrivando a condannare l’Italia per gli spazi della pena inadeguati eccetera eccetera eccetera? Da noi si continuano ad affrontare alcuni temi sempre a distanza. Il carcere è uno di questi. La distanza diventa poi distacco, indifferenza pubblica, alibi per la politica. I numeri, dicevamo. Al 31 maggio la popolazione detenuta in Italia era di 54.771 persone (a fronte di una capienza di 50.859 posti), in Campania si è raggiunta quota 6.742 detenuti (a fronte di una capienza sulla carta di 6.115 posti che nei fatti sono un po’ di meno visto che ci sono padiglioni non completamente occupati per carenze strutturali o imminenti lavori di manutenzione). Al 31 maggio 2021 nella nostra regione si contavano 6.554, al 31 maggio del 2020, l’anno della pandemia, 6.404. C’è da dire anche che oltre il 33 per cento della popolazione in carcere è composto da detenuti in attesa di giudizio, e c’è un 30 per cento di detenuti che si trovano in cella a scontare pene di pochi anni per sentenze divenute esecutive dopo anni e anni dai fatti (e questo a causa della lentezza con cui si definiscono i processi, ma è un’altra storia!). L’aumento della popolazione detenuta è cominciato subito dopo la prima ondata della pandemia, come a sottolineare che le misure emergenziali adottate per fronteggiare la diffusione del Covid sono state, di fatto, solo un palliativo senza che vi fosse una reale volontà politica di svuotare le carceri. Ma che giustizia è quella che tiene in cella un presunto innocente? Può dirsi giusta la giustizia del sospetto che considera come presupposto di una misura cautelare detentiva la probabilità che una persona reiteri un reato che non è detto che abbia commesso, visto che esiste nel nostro Paese la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio? Di fronte a questi interrogativi parlano i numeri. La popolazione detenuta è in crescita, anche in Campania nonostante le condizioni di molti istituti di pena, sia a livello strutturale che sul piano delle forze lavoro in organico, non siano adeguate per la gestione di un sempre maggior numero di reclusi. Poche settimane fa il garante regionale Ciambriello aveva parlato della cella 55bis del padiglione Roma al terzo piano del carcere di Poggioreale: 15 detenuti in 20 metri quadrati, con una sola finestra e un bagno senza doccia. L’associazione Antigone lo ha sottolineato più volte nei suoi report e al termine delle visite nei vari istituti di pena: il sovraffollamento rende le carceri invivibili e con la popolazione detenuta è in aumento anche il tasso di recidiva che racconta di un modello che non funziona. In due parole: fallimento carcere. Ieri, intanto, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, rispondendo al question time a un’interrogazione sul sovraffollamento carcerario presentata da Lucia Annibali, capogruppo in Commissione Giustizia alla Camera di Italia Viva, ha affermato che i decreti legislativi sull’attuazione della delega per il processo penale sono in fase di elaborazione e che si sta lavorando sulla possibilità di pene sostitutive delle pene detentive brevi sino a 4 anni, prevedendo in sostituzione al carcere misure come la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità, la pena pecuniaria. Visto che le pene fino a 4 anni riguardano circa il 30 per cento della popolazione carceraria, l’impatto di tali misure “può essere molto significativo”. L’obiettivo, sulla carta, è ridurre il sovraffollamento, e in questa ottica la ministra Cartabia ha fatto anche riferimento, nell’attuazione della delega, all’ampliamento della non punibilità per la particolare tenuità del fatto e della sospensione del procedimento con messa alla prova. Misure che potrebbero sicuramente alleggerire il peso e i drammi della popolazione detenuta, se però vengono messe poi in atto da tutti i giudici. Infine, rispondendo a una sollecitazione contenuta nell’interrogazione, la Cartabia ha anche fatto riferimento alla liberazione anticipata: “Se ne discute per valutare se innalzare la detrazione della pena, in particolare per i due anni di pandemia. In effetti in questi due anni il carcere è stato più duro e afflittivo”, ha ammesso. Puglia. Il cinema arriva anche nelle carceri: al via il progetto CineAriaAperta borderline24.com, 24 giugno 2022 È nata “CineAriaAperta” la prima piattaforma gratuita digitale in Italia di cinema destinata alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale all’interno degli istituti penitenziari di Puglia. Il progetto è sviluppato dal Nuovo Fantarca e cofinanziato dal Garante Regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. “L’intento”, chiarisce il Garante, “sarà quello di consentire l’accesso strutturale al bello che c’è “fuori”. Non sarà solo svago, semmai divertimento nel senso vero del suo etimo: diversione dalla realtà del momento ma attraverso la riflessione stimolata anche da chi accompagnerà la visione e la lettura delle opere facilitando il dibattito”. Le direzioni delle carceri pugliesi che vorranno aderire al progetto, potranno accedere direttamente alla piattaforma www.cineariaAperta.it e proporre la visione dei film all’interno della propria struttura attraverso una password che verrà loro fornita dalla Coop. Soc. La piattaforma, a fruizione totalmente gratuita, presenta venti opere filmiche, di cui dieci lungometraggi e dieci cortometraggi tutti di buona qualità artistica, selezionati fra le produzioni più recenti, in base a criteri tematici, di genere e tecniche espressive. Sono stati scelti film d’avventura, film sui temi classici della commedia sociale, sui diritti delle donne, sul diritto al lavoro e alla sicurezza, sulle migrazioni, sull’accoglienza, l’interculturalità e interreligiosità, sulla cittadinanza attiva, i rapporti famigliari, la legalità e la giustizia, la nonviolenza, i sentimenti e l’innamoramento a qualsiasi età, sul rapporto oppressi-oppressori, sulle libertà e il rispetto verso gli altri e se stessi. Temi trattati con leggerezza ma mai in maniera superficiale e che vengono qui espressi e rappresentati attraverso i linguaggi multimediali della finzione, del documentario e dell’animazione cercando di andare incontro ai gusti e agli interessi di più persone. Le proiezioni saranno accompagnate da figure di esperti della Coop Soc Il Nuovo Fantarca per approfondire tematiche e aspetti linguistici delle opere, creando momenti di confronto e di formazione sempre utili ad allargare l’orizzonte culturale e a inventare nuovi percorsi direttamente con gli utenti. In questo modo il progetto va incontro ad una fascia pubblico che non ha la possibilità di accedere fisicamente alla sala cinematografica. CineAriAperta in quanto sala cinematografica digitale diventa così una finestra in più sul mondo fuori, allargando visioni, nutrendo idee affermando il diritto di tutti di accedere ad una offerta culturale variegata. Bologna. Tensione al carcere “Dozza”: manca l’acqua nelle celle di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2022 La denuncia dei sindacati di Polizia penitenziaria: “È una situazione di palese limitazione dei diritti fondamentali sia per le persone ristrette, sia per i lavoratori”. E l’emergenza potrebbe allargarsi ad altri istituti. Altro che andare “al fresco”. Nelle carceri italiane, in questo momento, il caldo è insopportabile. La struttura del carcere, di cemento e ferro, non fa altro che amplificare il calore e ne risente tutta la popolazione penitenziaria, detenuti e operatori. Ma se a questo si aggiunge la mancanza d’acqua e l’insufficienza delle docce che possono offrire sollievo, allora rasenta la tortura e crea tensione. È quello che sta accadendo al carcere “Dozza” di Bologna. A denunciarlo sono i sindacati della polizia penitenziaria in una nota unitaria. Il nostro Paese, causa siccità, rischia il razionamento dell’acqua soprattutto in alcune regioni del nord. Ciò già sta creando qualche malumore, perché l’acqua - soprattutto quando si raggiungono alte temperature - diventa ancor più indispensabile. Ma il carcere, è all’avanguardia anche su questo: i detenuti anticipano quello che rischia di prospettarsi nel mondo libero: ma nelle celle, soprattutto sovraffollate, la sofferenza è totalizzante. Al Dozza sia i detenuti che gli operatori penitenziari sono esasperati dalla cronica mancanza d’acqua - Al carcere di Bologna, sia i detenuti che gli operatori penitenziari sono esasperati dalla cronica mancanza d’acqua. “Oltre ai numerosissimi eventi infrattivi - scrivono i sindacati Sappe, Osap, Sinappe, Uilpa, Fns Cisl, Uspp e Fp Cgil - che, negli ultimi mesi, queste OO.SS. hanno segnalato ai superiori Uffici dell’Amministrazione Penitenziaria, riguardanti risse tra detenuti, aggressioni al personale, gesti autolesionistici anche gravi, rinvenimento di telefoni cellulari ed alcoolici, ecc., nelle ultime ore abbiamo dovuto assistere a ulteriori episodi che mai erano accaduti presso l’Istituto Felsineo”. Alcuni detenuti avrebbero provato a usare le docce del campo sportivo - Che cosa sta accadendo? “Un congruo numero di detenuti A/S ubicati al terzo piano Giudiziario - prosegue la denuncia -, esasperati dalla cronica mancanza d’acqua, avrebbero provato ad approfittare dell’immissione al campo sportivo, per usufruire delle docce ivi presenti, causando attimi di tensione e confusione, che hanno rischiato di compromettere la sicurezza del personale ivi presente e, con possibili serie conseguenze anche per l’intero Istituto”. I sindacati chiedono all’Amministrazione ed a tutte le Autorità competenti, di assumere scelte coraggiose, quali ad esempio la temporanea chiusura dei Reparti interessati dal grave disagio dovuto alla mancata erogazione di acqua, “al fine di permettere tutti gli interventi necessari a sanare una situazione che, diversamente, potrebbe sfociare in qualcosa di molto più serio con le immaginabili conseguenze che ricadrebbero, come sempre, sul personale di Polizia Penitenziaria già messo ripetutamente a dura prova”. Non solo. Mancata erogazione dell’acqua anche negli alloggi degli agenti del Dozza - La mancata erogazione di acqua, sta coinvolgendo da tempo immemore anche la caserma agenti, con il personale ivi alloggiato che tra l’altro - sottolineano i sindacati - “deve pagare un contributo per la fruizione di utenze di cui non gode, per cui ad avviso delle scriventi si è di fronte ad una situazione di palese limitazione dei diritti fondamentali sia per le persone ristrette, sia per i lavoratori che nonostante tutto, continuano a prestare servizio in condizioni spesso drammatiche”. Ma il problema della mancanza d’acqua va ad aggiungersi a quello già preesistente. Come già segnalato in diverse occasioni, i sindacati denunciano che “la situazione appare ancora più grave al secondo piano del Reparto Giudiziario, data l’alta concentrazione di detenuti sottoposti a terapie psichiatriche e abituali produttori e consumatori di sostanza alcoliche artigianali, ottenute dalla macerazione della frutta, situazione che sta giorno dopo giorno determinando grandi difficoltà per il personale di assicurare i necessari controlli dei detenuti che, ripetutamente mettono in atto comportamenti sempre più pretestuosi e pretenziosi, determinando una situazione che appare ormai quasi fuori controllo”. Purtroppo alcune carenze strutturali ed anche di carattere organizzativo, rischiano di far sfociare alcune situazioni, quali quella di un detenuto autolesionatosi gravemente perché esasperato dall’attesa di molti mesi di visita dentistica, in gesti auto lesivi anche gravi. “L’ambulatorio odontoiatrico - denunciano sempre i sindacati - infatti, risulta essere stato recentemente ripristinato, ma dopo lunghi mesi di inattività, con la conseguente continua somministrazione di antidolorifici ai detenuti sofferenti, da parte della Direzione Sanitaria che era impossibilitata a garantire il servizio dentistico”. Torino. Inagibili le celle destinate ai pusher, chiude il reparto della vergogna di Irene Famà La Stampa, 24 giugno 2022 Fuori uso la macchina che scova gli ovuli di droga: i detenuti sospettati di averli ingeriti ora vengono portati in ospedale. Una macchina che si inceppa chiude la sezione filtro del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. O meglio. Per ora la mette in stand by. “Sezione inagibile”, questo il termine tecnico. Sino a quando non si deciderà il da farsi. In quella sezione, ben nota ai militari della droga, quelli che ingoiano ovuli per trasportarli e passare i controlli senza problemi, il ministero “ai media non permette visite”. L’aveva visitata lo scorso marzo la Guardasigilli Marta Cartabia e non aveva utilizzato mezzi termini: “È un posto inguardabile per la disumanità, sia per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria, sia per le condizioni dei detenuti”. Che esiste solo a Torino. Un posto “gelido, sporco e maleodorante”, per usare i termini del Garante nazionale dei detenuti. “Con le persone sedute a terra, con una coperta addosso, costrette a dormire senza brande e senza materassi a passare le giornate in cinque o sei assieme in una stanza di otto metri quadrati”. Ecco. A chiudere, almeno per ora, la sezione considerata della “vergogna” è stato un ingranaggio di quel macchinario che serve per raccogliere gli ovuli. E lo spiega bene la direttrice del carcere, Cosima Buccoliero: “La macchina già da tempo dava dei problemi, ora non funziona più. Ma la manutenzione è complessa e in Italia non c’è nessuno che sia in grado di effettuarla”. Quindi? “Per ora le persone sospettate di aver ingerito ovuli verranno trasportate in ospedale. Bisogna però valutare quale sarà l’impatto sulle strutture sanitarie. Per ora il provveditorato l’ha dichiarata inagibile”. Problema risolto? Per nulla. Ma solleva una riflessione. E la direttrice Cosima Buccoliero lo dice bene: “Quel malfunzionamento apre all’individuazione di soluzione alternative alla sezione filtro”. Era nata anni fa per evitare che gli ovuli si aprissero nello stomaco degli arrestati o che lo stupefacente entrasse in carcere. “Oggi - aveva detto Cosima Buccoliero durante la visita della ministra dell a Giustizia - bisogna interrogarsi sulla sua utilità”. Certo, la sezione filtro non rappresenta il Lorusso e Cutugno. La direttrice della casa circondariale lo ribadisce spesso: “Purtroppo è una sezione, ma limitiamo gli equivoci. Non rappresenta l’intero carcere”. Il Garante nazionale ne aveva chiesto la dismissione “fin dal 2017”. Si tratta di “sette celle senza bagno e senza doccia, senza arredo e, inizialmente, nemmeno i materassi”, per evitare che qualcuno nascondesse lì la droga. Una situazione ritenuta “inaccettabile”, che negli anni “poco era migliorata”. Per adesso, nella sezione filtro, qualcuno ancora c’è. A fine mese sarà chiusa. Temporaneamente. Riaprirà? Chi può dirlo. Si valuteranno i costi di una nuova macchina, di un possibile contributo dell’Asl? Oppure si cercheranno altre soluzioni, così che la “sezione della vergogna” non esista più nemmeno a Torino? Torino. A processo per le torture, reintegrato comandante della Polizia penitenziaria di Giuseppe Legato La Stampa, 24 giugno 2022 I giudici del Tar accolgono in via cautelare il ricorso di Alberotanza: il Dap gli aveva revocato incarico, alloggio e indennità di ruolo. Ex comandante o comandante del carcere di Torino? La domanda è d’attualità alla luce della recente sentenza della prima sezione del Tar Piemonte (18 maggio scorso) che ha congelato tutte le sanzioni disciplinari adottate dal Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nei confronti del graduato Giovanni Battista Alberotanza in seguito all’inchiesta che lo vede imputato per favoreggiamento delle presunte torture avvenute all’interno del penitenziario tra il 2017 e il 2019. Quali? Revoca della qualifica di responsabile del nucleo della polizia penitenziaria della casa circondariale Lorusso e Cutugno, dell’alloggio di servizio di cui aveva diritto per effetto del ruolo gerarchico, di una serie di benefici tra cui l’indennità di trasferta. Tutto in stand-by perché il ricorso (“per l’annullamento di ogni atto presupposto, collegato e conseguenziale a quelli sopra elencati”) promosso dal dirigente è stato accolto nella declinazione cautelare (sospensiva) in attesa di discutere del merito. Una decisione che non mancherà di far discutere e che segue alla notizia che almeno due agenti imputati materialmente per le presunte condotte di tortura sono rientrati nello stesso padiglione in cui sarebbero avvenuti i fatti contestati dall’accusa, I provvedimenti erano stati presi dalle istituzioni decentrate del Dap, quindi dal provveditore regionale di Piemonte, Liguria e valle d’Aosta e affondano le radici nell’inchiesta del pm Francesco Pelosi sulle presunte vessazioni e violenze subite da una decina di detenuti della sezione “Sex offenders” del Padiglione C. Il processo è in corso e ieri è stato il turno dell’interrogatorio proprio di Alberotanza. Che intanto ha anche incassato dai giudici amministrativi la sospensione di efficacia del provvedimento del direttore generale del personale del Dap con cui gli veniva conferito l’incarico provvisorio di comandante del nucleo traduzioni del carcere di Alessandria. Una diminutio nell’ottica della carriera. Ieri, in aula, nel troncone del processo che si sta celebrando con rito abbreviato (l’ordinario è stato fissato a luglio 2023) Alberotanza si è sottoposto a esame rispondendo alle domande del magistrato, del suo difensore (Antonio Genovese) e delle parti civili tra cui il garante dei detenuti. “Ha ribadito la sua totale estraneità ai fatti” spiega il suo legale. “Ho ricevuto soltanto una segnalazione del direttore sul detenuto S.D. in cui mi si faceva presente che un’educatrice del carcere avrebbe riferito che l’uomo era stato fatto rimanere per un determinato periodo di tempo faccia al muro. Ho verificato che quanto riferito era incompatibile con gli orari delle giornaliere attività del carcere e quando il detenuto è stato sentito da un ispettore ho partecipato soltanto a una parte dell’audizione: quando sono arrivato il verbale era già parzialmente compilato”. Ancora: “Sono stato io nel 2017 a chiedere al direttore del penitenziario l’installazione di telecamere nell’istituto sulla scorta di quanto avvenuto già in altre strutture come Sassari ad esempio. La mia voce - ha aggiunto in sintesi - è rimasta inascoltata e quegli strumenti avrebbero potuto rivelarsi utili anche per le questioni di odierno confronto”. Napoli. Carcere di Poggioreale, un laboratorio edile per i detenuti di Anna Santini Corriere del Mezzogiorno, 24 giugno 2022 Accordo tra il ministero della Giustizia e Cfs, centro di Formazione e sicurezza: un progetto che durerà un anno. Costruire in sicurezza, educare alla legalità e formare nuove professionalità: sono questi, in sintesi, gli obiettivi del “Laboratorio edile” che nascerà nel carcere di Poggioreale grazie a un accordo sottoscritto tra il ministero della Giustizia, dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - direzione Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” Poggioreale e il centro formazione e sicurezza (Cfs), ente paritetico dell’edilizia napoletana, presieduto da Roberta Vitale, che sintetizza volontà e obiettivi dell’Ance Napoli e dei sindacati edili Feneal Uil, Fillea Cgil e Filca Cisl. Il programma - Il laboratorio edile per i detenuti - spiega una nota - si declinerà attraverso un percorso formativo di 160 ore con un fitto programma settimanale, che prevede 40 ore in aula e 120 ore di pratica in un campo scuola curato da professionisti scelti dal Cfs, affiancati da un tutor interni individuati dai vertici della casa circondariale. L’intesa, nata dalla consapevolezza che “la formazione è efficace non solo se aumenta le competenze, ma soprattutto se modifica gli atteggiamenti e i comportamenti”, avrà durata annuale, è rinnovabile e ha l’obiettivo di promuovere la “cultura della regolarità, della sicurezza sul lavoro e il reinserimento sociale”. Attività formative e tutor - “L’educazione alla legalità aiuta a comprendere come l’organizzazione della vita personale e sociale si fondi su un sistema di relazioni giuridiche e sviluppa la consapevolezza che condizioni quali dignità, libertà, solidarietà, sicurezza non possono considerarsi come acquisite per sempre ma vanno perseguite, volute e una volta conquistate, protette”, commentano Carlo Berdini, direttore della Casa Circondariale, Roberta Vitale e Massimo Sannino, rispettivamente presidente e vice presidente del Cfs. In base all’accordo, l’istituto penitenziario assicurerà la rilevazione dei fabbisogni per le attività formative, il monitoraggio e la divulgazione dei risultati, oltre a garantire i tutor e i materiali per la realizzazione delle attività. Il Cfs assicurerà, invece, un contributo finanziario per l’organizzazione del laboratorio e la partecipazione di esperti e del proprio personale. Torino. Il ministro Colao firma l’accordo per corsi sulle Tlc ai carcerati di Irene Famà La Stampa, 24 giugno 2022 Si firma oggi, presso la Casa Circondariale Lorusso Cotogno, il Memorandum d’Intesa sul programma “Lavoro Carcerario” voluto dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e dal ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, Vittorio Colao. Proprio Colao sarà a Torino per presentare progetto, in collaborazione con gli operatori delle telecomunicazioni tra cui Open Fiber. Lo scopo del programma è aumentare le opportunità professionali dei detenuti nei settori Tlc e Ict e favorire il loro reinserimento sociale. Al carcere torinese i detenuti sono impegnati in un laboratorio di formazione per la realizzazione delle reti di telecomunicazioni. La firma avverrà in collegamento con la Casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta, dove la Guardasigilli inaugurerà un laboratorio dedicato al ricondizionamento dei modem di rete. Open Fiber nel torinese ha realizzato un investimento privato di 170 milioni, sono state cablate oltre 580mila unità immobiliari e il progetto di posa dell’infrastruttura a banda ultra larga FTTH (Fiber To The Home) è stato completato. Per quanto riguarda le scuole connesse, sono state raggiunte ad oggi 755 scuole di cui il 50%facenti parte del bando di gara emesso da Infratel. La società Open Fiber, guidata dall’amministratore delegato Mario Rossetti, è il primo operatore in Italia a fornire un servizio di accesso ultraveloce da 10 Gigabit al secondo simmetrici, dimostrando la flessibilità della propria rete in grado di sostenere le evoluzioni tecnologiche dei prossimi anni. Paliano (Fr). Laboratori del ferro e della ceramica nel carcere montiprenestini.info, 24 giugno 2022 Ieri mattina il coadiutore del Garante dei detenuti della Regione Lazio Sandro Compagnoni ha visitato il laboratorio artistico del carcere di massima sicurezza di Paliano, una delle eccellenze nel centro Italia nella gestione dei detenuti. Il coaudiutore è stato accompagnato durante la visita dalla direttrice Anna Angeletti, dal vice comandante Alessandro Corsi e dalla dottoressa Maria Scaramella dell’area educativa. Nel laboratorio vengono realizzate opere in ferro con ceramiche dipinte per giardini e arredo originali. Questo è un esempio di reinserimento sociale reale - ha spiegato Sandro Compagnoni. Questi ragazzi riempiono le loro giornate con passione e sacrifici. Un progetto innovativo che valorizza la creatività, dando un contributo importantissimo alla formazione dei detenuti. L’attività trattamentale prevede che i reclusi seguano la strada lavorativa o istruttiva a seconda delle proprie capacità ed attitudini. Oltre che in cucina, nella pasticceria e in pizzeria, è possibile ad esempio lavorare anche nel piccolo allevamento di animali presente. Le attività di formazione professionale sono legate alla falegnameria e al restauro; di recente è stato attivato anche un primo con un corso di iconografia. Per quanto riguarda cultura e istruzione, ci sono una Compagnia teatrale e un coro formato da operatori e detenuti. Nella Casa di Reclusione ci sono soggetti condannati definitivamente, accompagnati in un percorso di rinserimento. Il carcere ospita detenuti collaboratori di giustizia e un sanatorio giudiziario per malati di tubercolosi polmonare provenienti da altri istituti penitenziari. L’istituto, situato su una rocca, era una fortezza di epoca rinascimentale fatta costruire nel 1565 da Marcantonio Colonna. Viene utilizzato come carcere dall’800; è stato infatti carcere mandamentale, poi è stato dismesso e in seguito riadattato a carcere all’epoca della lotta armata degli anni 70 e 80, ospitando detenuti politici e poi quelli di mafia. Catania. L’Università per i detenuti: nasce il polo didattico penitenziario newsicilia.it, 24 giugno 2022 “Un percorso universitario può fare la differenza e io ho capito che voglio utilizzare questo tempo per fare tutto ciò che può migliorare e cambiare la mia vita quando sarò tornato ‘fuori’”. F.S., giovane detenuto nel carcere di Noto, ha appena superato un esame universitario di Matematica e ieri pomeriggio ha raccontato la sua esperienza, in collegamento telematico, nel corso dell’incontro di presentazione del Polo Didattico Universitario Penitenziario di Catania che si è tenuto nella casa circondariale di piazza Lanza: “Ho preso 28, un bel voto che voglio dedicare a mio figlio e alla mia famiglia. Ringrazio i miei docenti perché mi hanno aiutato a scoprire delle abilità che non ero consapevole di avere. Sarebbe bello che anche tanti altri scegliessero di rimettersi in gioco”. “L’iniziativa è nata nel 2019 - ha ricordato il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino - e attualmente coinvolge 8 istituti penitenziari che ricadono nel distretto della Corte d’appello di Catania: oltre a piazza Lanza (sede del Polo), anche Catania-Bicocca, Caltagirone, Giarre, Siracusa, Augusta, Noto e Ragusa, in virtù di un protocollo con l’Ateneo catanese che attua l’accordo quadro fra le Università di Palermo, Catania, Messina ed Enna “Kore”, l’Assessorato regionale dell’Istruzione e della Formazione professionale, il Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria e il Garante regionale dei Diritti dei detenuti, e che ci ha permesso di attingere a finanziamenti specifici da parte della Regione siciliana”. “Siamo al secondo anno di attività, dopo una prima fase sperimentale - ha spiegato il rettore Francesco Priolo - e, grazie all’impegno profuso dal team guidato dai professori Teresa Consoli e Fabrizio Siracusano, delegati a questo progetto, abbiamo già 46 iscritti ai corsi di laurea di vari dipartimenti: Agricoltura Alimentazione e Ambiente, Scienze politiche e sociali, Giurisprudenza, Ingegneria elettrica elettronica e informatica, Ingegneria civile e Architettura, Matematica e Informatica”. “A questi studenti e studentesse abbiamo garantito l’esonero totale di tasse e contributi, la fornitura di libri di testo e attrezzature informatiche, abbiamo messo a loro disposizione 16 tutor junior che li accompagnino durante il percorso di studi. - ha proseguito il rettore - Senza dubbio è un percorso che può apparire complesso e difficile, ma a tutti coloro che possono essere interessati dico senz’altro: superate le remore, una laurea può darvi un grande valore aggiunto e delle carte in più da giocarvi per la vostra vita. L’Università di Catania c’è e proverà a fare sempre di più, per affermare il proprio ruolo di promotrice dell’inclusione sociale anche attraverso l’impiego di tecnologie di insegnamento a distanza, lo snellimento delle procedure e l’accesso ai servizi bibliotecari di ateneo”. “Noi ci sentiamo già pronti per organizzare le prime sedute di laurea. - ha affermato con entusiasmo la direttrice della casa circondariale di Catania Elisabetta Zito - Nel corso degli anni, abbiamo attivato 12 classi di scuola dell’obbligo, attualmente abbiamo anche cinque classi di liceo artistico: non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione per garantire anche ai detenuti un pieno accesso alla formazione universitaria. Siamo emozionati ma molto determinati, questo esperimento può essere uno strumento potente per creare opportunità alle persone svantaggiate ospitate in carcere, dando un ulteriore senso alla missione della nostra istituzione”. Bilancio positivo anche per Nina Spina, che ha parlato a nome del gruppo di studenti meritevoli selezionati per fare da ‘tutor’ ai detenuti iscritti: “Molti di loro sono già pronti per sostenere i primi esami, è un’esperienza molto formativa anche per noi che li affianchiamo e incoraggiamo nello studio”; e per il magistrato di sorveglianza Gaetana Di Stefano Bernabò, che ha sottolineato l’importanza di questa iniziativa al fine di “acquisire elementi utili di valutazione per individuare eventuali misure alternative di espiazione della pena”. Il sociologo del diritto Franco Prina, docente dell’Università di Torino e presidente della Conferenza Nazionale dei delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), ha infine tracciato lo scenario attuale della presenza degli atenei nei luoghi di detenzione, citando alcune esperienze pionieristiche avviate a Torino negli anni ‘80 e proseguite successivamente a Padova Bologna Milano e Roma. “Oggi la Cnupp ci ha permesso di istituzionalizzare questo ruolo delle università, rafforzato da protocolli nazionali con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: - ha detto Prina - una missione che assume una profonda valenza culturale per il Paese e si richiama agli articoli 3 e 27 della Costituzione, sul diritto all’istruzione e sul compito rieducativo della pena. Attualmente 1250 detenuti in 91 carceri e in vari tipi di regime sono iscritti ai corsi di 41 atenei. Questo permette loro anche di dare un senso al tempo che trascorrono in regime di detenzione, altrimenti spesso vuoto e infruttuoso, e di mantenere una finestra aperta sul mondo, riflettendo sul proprio passato e progettando il futuro. Questi detenuti, a cui le scuole e le università devono garantire il diritto allo studio come a tutti gli altri cittadini italiani, potranno certamente riacquistare dignità, presentarsi come altro rispetto a semplice ‘ex-detenuto’ agli occhi della famiglia, degli amici, della società”. Saluzzo (Cn). Nel carcere una sezione per detenuti iscritti all’Università targatocn.it, 24 giugno 2022 Giovedì 30 giugno la cerimonia alla presenza del rettore Stefano Geuna, del presidente della Compagnia di San Paolo Francesco Profumo, del garante regionale Bruno Mellano e della Città di Saluzzo Paolo Allemano. La nuova sezione fa parte del Polo Universitario per Detenuti di UniTo, attivo da molti anni nella Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. All’evento prenderanno parte il rettore Stefano Geuna, la prorettrice Giulia Carluccio e il delegato del Rettore per il Polo studenti detenuti Franco Prina. Poi il presidente Francesco Profumo per la Compagnia di San Paolo, che da anni supporta l’Università nelle sue attività di garanzia del diritto allo studio per le persone private della libertà, l’Ufficio Pio e la Fondazione Musy, impegnati in un progetto di sviluppo e supporto al reinserimento lavorativo degli studenti detenuti che si siano laureati, il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni e l’assessora alle Politiche sociosanitarie Fiammetta Rosso. Saranno presenti, oltre alla dirigenza del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) e dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna di Cuneo (Uepe), i Garanti per i Diritti dei detenuti: il Garante regionale Bruno Mellano e quello della Città di Saluzzo Paolo Allemano. Il programma prevede l’ingresso alle ore 9,30, la presentazione dell’iniziativa e gli interventi dei partecipanti nella Sala Polivalente, cui seguirà la visita alla sezione con “taglio del nastro”. Un buffet sarà predisposto dal Biscottificio interno all’Istituto e gestito dalla Cooperativa Voci Erranti. I partecipanti si recheranno, poi, alla Castiglia (il vecchio carcere) per visitare il Museo della memoria carceraria, allestito in collaborazione con l’Università di Torino. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il nuovo canile comunale sarà gestito dai detenuti di Brunella Paciello lifegate.it, 24 giugno 2022 A Santa Maria Capua Vetere verrà aperto un canile comunale all’avanguardia gestito dai detenuti della locale Casa circondariale. Un modo per favorire il reinserimento delle persone dopo lo sconto della pena e per trovare una casa e un affetto ai cani randagi presenti sul territorio. Un canile con ospiti di ogni età, incrocio e razza. E i detenuti della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, che lo gestiranno e avranno cura degli ospiti a quattro zampe: parliamo di un progetto di grande importanze civile che prevede la realizzazione, attraverso contributi regionali, di un canile comunale all’avanguardia e di un presidio veterinario dell’Asl e che avrà, parallelamente, lo scopo di perseguire un obiettivo più ampio di reciprocità fra territorio e carcere nel pieno rispetto della finalità rieducativa della pena. La realizzazione del canile comunale poggia su un protocollo di intesa sottoscritto dal comune di Santa Maria Capua Vetere, dal sindaco Antonio Mirra e dalla direttrice del carcere Donatella Rotundo. Lo scopo specifico sarà quello di permettere ai detenuti di fare un’importantissima esperienza - affiancati da professionisti del settore qualificati - di inclusione sociale con un occhio anche a una futura riammissione nel mondo del lavoro. Da non dimenticare anche le esigenze del territorio in tema di randagismo: l’altro obiettivo del protocollo è, infatti, quello di iscrivere il canile comunale al registro regionale ai fini delle adozioni. Il rifugio sarà realizzato insieme a un ambulatorio veterinario in co-uso con l’asl casertana. A questo si aggiungono anche aule formative dove saranno attivati sette corsi rivolti ai detenuti che vogliono lavorare nel mondo dei pet come dog trainer, operatori per interventi assistiti con animali e altre figure professionali. Ad essere coinvolti nel progetto di Santa Maria Capua Vetere saranno anche molti altri enti locali e nazionali come l’agenzia del demanio, l’Asl di Caserta e l’Università degli studi di Napoli Federico II. Purtroppo, il nostro paese presenta il più alto tasso in Europa di recidività dopo lo sconto di una pena. Tra i motivi alla base non c’è solo la difficoltà d’inserimento nel mondo lavorativo, ma anche questioni più profonde che si legano con la qualità della vita dei carcerati che devono scontare la propria pena nelle carceri più affollate d’Europa, dopo quelle di Turchia e Bulgaria. Il progetto che sta prendendo piede a Santa Maria Capua Vetere potrà significare la possibilità per molti detenuti di intraprendere una nuova attività lavorativa da svolgere a fianco dei compagni a quattro zampe. E, per questi ultimi, ci sarà la possibilità di ritrovare una nuova famiglia e un nuovo affetto che l’abbandono aveva fatto dimenticare per anni. Larino (Cb). Negli Usa la lezione del Molise che fa teatro in carcere di Roberta Morrone primonumero.it, 24 giugno 2022 Il coreografo di New York: “A Larino ho visto un altro mondo”. Da una collaborazione, nata per caso e grazie ai social, tra il regista termolese Giandomenico Sale e il coreografo Richard Move è nato il lavoro Biancaneve che sarà messo in scena da 12 detenuti del regime di Alta Sicurezza nel penitenziario di Larino nel prossimo weekend. Un’esperienza ormai consolidata ma che ha stupito il docente universitario di coreografia americano. Librarsi con il teatro e la danza. È quanto succederà sabato 25 e domenica 26 giugno al carcere di Larino a 12 detenuti che hanno partecipato (per molti di loro non è la prima volta) al progetto artistico diretto da Giandomenico Sale che prevede la messa in scena di Biancaneve e che quest’anno (dal 2017 ad oggi sono 4 gli spettacoli realizzati) si avvale di una guida speciale: il coreografo americano Richard Move. Li abbiamo incontrati entrambi al Teatro verde, in una mattinata di riposo prima della nuova full-immersion di prove nel penitenziario frentano. Richard è arrivato lo scorso 2 giugno, ed è questa la sua prima assoluta in Molise. Ma come è arrivato qui e come è nata la sua collaborazione col regista termolese? “Non ricordo (ride, ndr). Ho scoperto l’attività di Giandomenico in rete e me ne sono innamorato”. Attraverso i social i due si sono messi in contatto e hanno iniziato a pensare ad un lavoro assieme. “Tutto questo prima della pandemia, che dunque ci ha stoppato. Poi nell’inverno scorso abbiamo ripreso il filo del discorso. Io ho iniziato a lavorare coi detenuti alla parte attoriale-recitativa già mesi fa, e nel frattempo ho concordato via zoom e mail la linea di lavoro con lui. Poi dall’inizio di giugno, quando Richard è arrivato, abbiamo iniziato a lavorare anche all’aspetto coreografico”. Un appuntamento (quasi) fisso, da qualche anno a questa parte, al carcere di Larino che apre le sue porte al pubblico per la rappresentazione teatrale, l’apice di un lavoro che dura diverse settimane e che dà ai detenuti partecipanti un’energia incredibile. A rimanere stupito della portata simbolica - e non solo - del progetto è stato stavolta il coreografo statunitense, danzatore e direttore artistico di caratura internazionale cui il Molise ha dato una lezione particolare. “Negli Stati Uniti ci sono 20 milioni di persone detenute e non esiste un programma del genere. I carcerati non fanno mai attività artistica, da noi c’è un’altra mentalità. Tuttalpiù fanno lezioni gratuite all’Università ma è una possibilità data a pochissimi. Da noi si è soliti usare l’espressione ‘Throw away the key’ (butta via la chiave, ndr) e i penitenziari sono posti violenti, dove chi entra difficilmente può uscirne migliore. Ad esempio io a Larino non ho mai visto agenti armati. Da noi ogni poliziotto ha una cintura con una pistola, spray al peperoncino, un taser, un manganello. Questo già fa capire la differenza”. E poi - ricorda Richard - nei penitenziari americani il problema ‘razziale’ è tutt’altro che risolto. Nelle prigioni c’è segregazione. “Da una parte i bianchi, da una parte i neri, da una parte i messicani, da un’altra i portoricani”. Inusitata sorpresa e stupore dunque per Move nel conoscere un simile progetto, cui senza pensarci due volte ha deciso di partecipare. “Per me era qualcosa di completamente diverso e l’ho trovato molto interessante”. Ne ha sposato appieno la logica, il senso. “Tutti (i detenuti, ndr) dovrebbero fare un’attività artistica, penso sia un grande piacere per loro, anzi una cosa speciale. La vita è dura lì dentro, noi abbiamo portato qualcosa di leggero, di felice, di fun”. È andata così. Dopo la conoscenza online di Richard e Giandomenico il primo, docente di coreografia alla New York University Tisch School of the Arts, ha invitato il ‘nostro’ a tenere una conferenza nell’Ateneo americano proprio per riportare l’esperienza - innovativa appunto per quel Paese - del teatro in carcere. A seguito di quel viaggio oltreoceano, tenutosi a marzo, il regista ha invitato a sua volta il coreografo per lavorare assieme alla rappresentazione di Biancaneve, l’arcinota fiaba dei fratelli Grimm scelta da Sale. “Stiamo cercando di restare sul filone delle fiabe, dell’evasione, e sono gli stessi detenuti a chiedercelo”. In principio fu La Gatta Cenerentola (anche allora collaborò una coreografa, l’argentina Gisela Fantacuzzi), poi Pinocchio di Collodi, poi La Giara di Pirandello (l’unica non fiaba) e ora Biancaneve”. Al pubblico che avrà la possibilità di assistere alla due giorni di spettacolo la sorpresa di vedere una versione pop, a tratti sui generis, con una selezione musicale degli anni ‘80 e ‘90 ma anche più contemporanea. “Abbiamo scelto un brano di Lady Gaga, Vanity, che è perfetto per la lezione di questa fiaba”, spiega entusiasta Richard. Ed è proprio la presenza di tematiche così legate all’attualità, come quella della bellezza a tutti i costi e dell’apparire, specie se si pensa alla ‘dittatura dei social’, che ha fatto ricadere la scelta proprio su questo testo. Ma i detenuti non hanno accantonato la loro vanità? “Assolutamente no - ci smentiscono all’unisono i due -. Non hanno i social, ma ci tengono tantissimo alla loro apparenza”. “E poi sono tutti registe” e il duo artistico sorride raccontando come ogni detenuto-attore voglia avere il suo momento di gloria nel decidere cosa e come fare sul palco. “A noi fa piacere, significa che sono molto coinvolti”. Il teatro è - per antonomasia - mettersi nei panni dell’altro, è impersonare l’altro da sé (che magari è un personaggio femminile) e per questo rapportarsi con l’alterità. I detenuti coinvolti in questo progetto teatrale fanno parte del regime di Alta Sicurezza, quello dove vengono confinati i condannati per reati di tipo associativo, in particolare di stampo mafioso. “Devo dire che questo è stato un altro aspetto interessante per me. In America abbiamo un po’ il mito del mafioso, è strano da dirlo ma we love it”. Una idealizzazione cui ha contribuito Hollywood e alcune serie televisive di successo. “Quindi per me anche questo è stato bello, per la prima volta mi sono trovato di fronte a questa realtà”. “Loro hanno una esperienza di vita così particolare e quasi tutti - anche se non in tutti i momenti - la portano con sé in ciò che fanno con noi. They play a role, come tutti nella vita ma forse loro più degli altri, e credo che per questo siano così naturali sul palcoscenico”. Al coreografo non è sfuggito che loro, provenienti in molti casi da famiglie mafiose, hanno una cultura familista - tipica italiana - ancora più accentuata. Il regista conferma che non hanno mai avuto problemi a interpretare ruoli femminili, anzi. “Sembra strano - sorride Richard -. La mama è molto importante in tutto il mondo ma soprattutto qui, e forse questa è la ragione per cui piace loro tanto quando giocano a fare le donne, questo tira fuori la loro affettuosità, il loro lato amorevole, sono loving”. E poi in questo spettacolo, più che in altri, c’è la danza, sebbene intesa piuttosto come movimenti corali e piccole coreografie. “Loro si sono divertiti, sono stati sempre molto cordiali con me. Quello che abbiamo fatto migliora anche l’aspetto drammaturgico. E poi credo sia molto importante per loro fare qualcosa di fisico”, spiega il danzatore. Le due serate del weekend, in cui sarà dato loro modo dopo lo spettacolo anche di intrattenersi con il pubblico - con cui condivideranno un momento buffet con piatti preparati dai detenuti iscritti alla scuola alberghiera - costituiranno un momento importante, a lungo immaginato e atteso, per i detenuti e per tutto lo staff del penitenziario. “Si ringrazia per la pazienza e la disponibilità che ha dimostrato in tutti questi anni il direttore della Casa Circondariale Rosa La Ginestra. Capiamo quanto sia difficile organizzare e sopportare la nostra ‘invasione’ nella normale attività di un penitenziario. E ringraziamo la dottoressa Brigida Finelli per il supporto e la disponibilità affinché tutto si realizzi al meglio”, così Sale. Attese per il doppio evento oltre 200 persone (previa prenotazione), a conferma di come anche il mondo fuori apprezzi questa occasione. Il coreografo, attualmente di stanza a Termoli (“è bellissima, mi sto rilassando e trovo che sia una vera esperienza di vita italiana”), tornerà in autunno a New York e promette di impegnarsi per mutuare anche lì questa straordinaria esperienza. “Tutti devono avere una seconda vita. Spero che queste persone la abbiano dopo, ma so che non è facile”. Treviso. Concerto jazz nel giardino della Casa circondariale di Santa Bona di Isabella Loschi oggitreviso.it, 24 giugno 2022 È stato un primo giorno d’estate insolito per i detenuti di Santa Bona che martedì 21 giugno hanno preso parte al concerto jazz promosso dal Conservatorio di musica Agostino Steffani di Castelfranco a conclusione dei “Suoni della Bellezza”, il primo laboratorio percettivo dedicato alla musica. Nei mesi scorsi una classe di 15 studenti ha potuto seguire i laboratori si ascolto immersivo tenuti da Nicola Guerini, presidente del Rotary Club di Verona. E al termine di questo progetto, che ha visto la realizzazione di un murale ad opera dei detenuti, il conservatorio è voluto entrare oltre i cancelli del carcere per proporre un concerto jazz dal vivo a cura del professor Gianluca Carollo. “Da questa prima collaborazione- spiega il direttore Stefano Canazza - auspico nascano progetti comuni. È un dovere civile oltre che educativo portare la musica all’interno dei luoghi di pena”. “Nella Casa Circondariale di Treviso sono entrati i “Suoni della Bellezza”, laboratorio percettivo che attraverso un ascolto immersivo della musica ha restituito con numerosi disegni e un magnifico murale le mappe emozionali dei detenuti coinvolti - sottolinea il maestro Nicola Guerini, presidente del Rotary Club Verona. Un traguardo importante, frutto di un protocollo con il Ministero della Giustizia adottato anche dalle direzioni degli istituti penitenziari di Verona e di Padova”. Il progetto è stato fortemente voluto dal direttore della casa circondariale Alberto Quagliotto. “La musica come linguaggio universale - ha concluso - diventa esperienza di inclusione per una nuova consapevolezza di se stessi”. Pozzuoli (Na). Al carcere femminile va in scena “La Cena in Giallo” metronapoli.it, 24 giugno 2022 “La Cena in Giallo - Coltiviamo Valori” è il titolo dell’evento che il Carcere femminile di Pozzuoli e l’associazione di promozione sociale Malazè - Laboratorio di Comunità con la collaborazione della Cooperativa Lazzarelle, hanno organizzato per Procida Capitale della Cultura 2022. La manifestazione programmata per lunedì 27 giugno gode del patrocinio del Comune di Procida e di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. In questa occasione l’Amministrazione di Procida donerà un albero di limone procidano che sarà piantato nel giardino del carcere, alla presenza del Sindaco Dino Ambrosino e dell’Assessore al Turismo Leonardo Costagliola, ad unire simbolicamente la Casa Circondariale di Pozzuoli e il dismesso carcere procidano di Palazzo D’Avalos che si guardano dai lati opposti del golfo. Il limone di Procida ha un valore fortemente identitario per la Comunità procidana, tutti quelli che hanno un giardino sull’isola hanno una o più piante di limone “marzaiuolo”. Anche il carcere di Pozzuoli, nei suoi spazi verdi dedicati ai colloqui con i familiari, coltiverà il suo limone. Alla serata, parteciperanno 40 donne della casa circondariale e 40 ospiti esterni, su invito della Direzione, che siederanno insieme per la condivisione della cena. Tutti i presenti avranno il posto a tavola, sorteggiato al momento, per rafforzare il significato di inclusione di cui anche Procida Capitale ne ha fatto uno dei cinque punti del suo dossier. La dottoressa Maria Luisa Palma, direttrice della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, commenta l’evento: “avere a cena ospiti è di immediata comprensione: significa condividere una sera con persone che si ha piacere a ricevere, con cui chiacchierare, mangiare, bere. Venire in carcere a cena ha ancora un’altra valenza: significa considerare il carcere parte del proprio mondo e quindi accettarne le difficoltà ma anche credere nell’inclusione, credere nella possibilità che l’inclusione debba essere perseguita. “La Cena in giallo”, evento collegato a Procida Capitale Italiana della Cultura, organizzata da Malazè Laboratorio di Comunità e con la generosa collaborazione di illustri ospiti, sarà un bellissimo modo di trascorrere una serata di solidarietà”. Doppio giallo - “La Cena in Giallo” ha un duplice significato: il colore del limone e il colore del romanzo noir. E proprio per il noir, quale celebre autore partenopeo è presente Maurizio De Giovanni che, per l’occasione, presenterà il suo nuovo libro, “L’equazione del cuore”, ambientato a Solchiaro sull’isola di Procida, di cui leggerà alcune pagine. Inoltre, gli attori Arturo Delogu e Luisa Perfetto, insieme ad un’ospite dell’istituto, leggeranno alcuni brani tratti dal libro “Il Senso del Dolore”, saga dedicata al Commissario Ricciardi. La serata sarà arricchita dalla partecipazione artistica del re dei “Paraustielli Napoletani”, Amedeo Colella e dalle canzoni della tradizione napoletana del maestro Franco Castiglia. La rete di Malazè - L’associazione di promozione sociale Malazè - Laboratorio di Comunità, ha coinvolto la propria rete per donare questa serata speciale alle ospiti della casa circondariale. Pertanto la cena sarà preparata e servita dai ristoratori dell’Associazione Ristoratori Flegrei, il dolce sarà preparato dalla Cooperativa Lazzarelle, i vini saranno offerti dalle Donne del Vino della Campania, il limoncello procidano, invece, dall’Azienda Agricola Lubrano Lavadera. Il servizio sarà curato dall’Associazione Italiana Sommelier - delegazione di Napoli e dai ragazzi della Bottega dei Semplici Pensieri. I protagonisti della serata saranno omaggiati con la “Guida dei Campi Flegrei”, del Parco Regionale dei Campi Flegrei, scritta da Massimo D’Antonio, in cui è presente l’appendice appositamente dedicata all’isola di Procida. La serata avrà ancora un ulteriore intento: tutti i piatti della serata saranno, successivamente inseriti nei menù dei ristoranti dell’ARF per tutto il periodo di Procida 2022. Su ogni piatto che i clienti ordineranno sarà devoluto un euro in beneficenza. La somma che sarà raccolta verrà donata alla Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, per finanziare la pubblicazione di un libro di fiabe che le detenute hanno scritto per i loro figli, durante un percorso psicologico sulla genitorialità, condotto dalla Psicologa Nicoletta De Stefano. Prima, durante e dopo il carcere. Le tre vite di Roberto di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 24 giugno 2022 “Frammenti di memoria sparsi sui marciapiedi” è il libro di Sabrina Renna e Roberto Cannavò, appena pubblicato da Rubbettino. Lo scrittore Gioacchino Criaco ha scritto la prefazione. L’introduzione. L’ho fatto perché considero questo un libro che ha a che fare con l’arte. L’arte più importante: quella di vivere. Sabrina Renna e Roberto Cannavò si sono conosciuti e ri-conosciuti al Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera a Milano. Siciliani entrambi. Ergastolano ostativo lui, militante politica lei. Roberto è uno dei protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi, “Spes contra spem-Liberi dentro”, manifesto della campagna di Nessuno tocchi Caino per il superamento dell’ergastolo ostativo. Sabrina, è una studentessa di sociologia e diritto. Si incontrano al Congresso che festeggia il coronamento della battaglia per il superamento dell’ergastolo ostativo grazie ai due pronunciamenti delle Alte Giurisdizioni succedutisi nel giro di pochi mesi. Quella della Corte europea per i diritti dell’uomo che, nel caso Viola vs Italia, ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art 3, quello che tortura e trattamenti inumani e degradanti. Poi la sentenza della Corte Costituzionale nei casi Cannizzaro e Pavone. Condanne che hanno un comune fondamento: per affermare il diritto alla speranza bisogna abolire l’ergastolo ostativo, quella forma di esecuzione dell’ergastolo, basata su una presunzione assoluta di pericolosità, per cui nessun beneficio può essere concesso fintanto che il condannato per mafia non collabora. Intendiamoci, non collabora, non alle attività trattamentali, ma all’attività investigativa fornendo informazioni, nomi utili alle indagini. In altre parole, mettendo qualcun altro in carcere al posto suo. Una logica mortifera che fossilizza l’autore di un reato di stampo mafioso al momento del fatto e gli nega ogni possibilità di autentica revisione critica, ogni forma di cambiamento. Gli nega, in altre parole, la forza dell’arte della vita. Arte. La radice ariana di questa parola è ar-che in sanscrito significa principalmente andare verso, mettere in moto, muoversi verso qualche cosa, da cui poi anche quello di aderire, adattare. L’esistenza che nel libro si racconta fa riflettere su questo. Perché nella vita, quella del protagonista, come la nostra, ci sono fasi in cui si innesca una messa in moto. Corriamo. Andiamo veloci come lungo una discesa di fluenti curve. L’accelerazione impressa dal superamento di una curva ci fa infilare quella successiva con un andamento che conferma ogni volta la correttezza delle proprie scelte e, dunque, il proprio valore. E questo porta con sé riconoscimenti, affermazione, prestigio e soldi. Ma non c’è vita che non si imbatta in certi segnali che dicono che bisogna rallentare, perfino fermarsi. Sono segnali che possono assumere le forme più diverse a seconda della esistenza a cui si riferiscono. Nel libro sono i fatti cruenti di una terra, la Sicilia, e di un tempo, quello della mafia catanese degli anni ‘90, che esasperano e drammatizzano la comprensione della necessità di cambiare e di adattare il proprio andamento secondo un’altra cadenza, un altro ritmo. Ecco allora che nell’arco di una esistenza si possono vivere più vite. E Roberto, il protagonista, di vite ne ha vissute almeno tre: quella prima del carcere, quella del carcere e quella dopo il carcere. Vite che solo la sincera curiosità di chi le racconta, Sabrina, riesce a rendere più interessanti di quanto potrebbe fare il più affermato degli scrittori. Sabrina e Roberto. Una scintilla li ha messi in moto e li ha portati ad affrontare un viaggio durante il quale c’è lo sguardo e l’ascolto di Sabrina che, come quelli dei bambini, sono innocenti e senza giudizio, quasi purificatori. Poi c’è il vissuto di Roberto che si apre al nuovo e rinasce quasi in una iniziazione. Ci sono voluti anni perché questo libro vedesse la luce. Anni durante i quali un processo di estensione della consapevolezza ha gettato le basi per un’elevazione della coscienza nella frequentazione di entrambi dei laboratori che, con cadenza mensile, Nessuno tocchi Caino anima nel carcere di Opera come in altri tre istituti di alta sicurezza. Questo “viaggio della speranza” continua. È un viaggio senza fine, perché il fine, la fine del viaggio è il viaggio stesso, che è un continuo “invenire”, scoprire nella ricerca… cose e persone preziose, storie e vite diverse. La lettura di questo libro diventa anche un viaggio, convinta come sono, e la storia raccontata ne è testimonianza, che in fondo ogni vita è una forma d’arte, movimento e adattamento lungo la strada al di là delle singole tappe, oltre la meta prefissata. Il diritto all’oblio nemico della società iperconnessa di Bruno Giurato* Il Domani, 24 giugno 2022 Faccio un lavoro che, me ne sto accorgendo e me ne accorgo sempre più ogni giorno, è il paradosso perfetto. Dopo anni di giornalismo culturale, e redazionale, curo la comunicazione in un’azienda che si occupa di identità digitale, il che significa, in buona misura, diritto all’oblio. Mi tocca comunicare l’oblio. Comunicare il nulla. Aiutare degli aspiranti nessuno a essere Nessuno. La cosa ha dei lati immaginifici - quando penso all’oblio mi viene in mente Robert De Niro nella fumeria d’oppio in “C’era una volta in America” di Sergio Leone - e anche dei lati rivelativi. In certi casi tragici: ci sono persone che hanno avuto problemi, anche di poco conto, con la giustizia, e si ritrovano il nome associato a fatti poco piacevoli, nella lotta tra oblio e cronaca che è lo stigma del tempo. Ci sono persone che finiscono in database a pagamento (ai quali sono abbonati a tariffe altissime banche, aziende, soggetti pubblici, è un grande business) che riportano il loro livello di affidabilità finanziaria: in caso di problemi pregressi magari viene loro negato un finanziamento, anche se il problema non c’è più. Ci sono persone che hanno avuto una malattia grave; l’informazione - non si sa in base a quali dinamiche, visto che i dati sanitari dovrebbero essere riservati - è passata a un’assicurazione o a una banca, col risultato che si vedono negare il mutuo, o aumentare il premio assicurativo. Ci sono persone che si ritrovano un loro video hot categorizzato su noti siti di pornografia con descrizione dettagliata della pratica e spesso con menzione del nome, e con conseguenze durissime: insulti sui social, problemi al lavoro, depressione. Le vie della memoria molesta sono infinite. I quindici minuti di celebrità sono forse gratis, un quantum di oblio è merce rara, preziosa. Il vero lusso, oggi, è l’oblio. Per la società iperconnessa l’oblio è il nemico pubblico numero uno. E prima di fornire un paio di velocissime suggestioni su come lavora la società attuale, vorrei fare un paio di annotazioni altrettanto rapide su quanto l’oblio sia importante. Dal punto di vista personale, esistenziale, etico, creativo. Chi fa mindfulness, meditazione, yoga lo sa: si tratta di tecniche di oblio. Il cosiddetto “atletismo spirituale” dei Padri del Deserto, che praticavano la “preghiera del cuore” o “esicasmi” che sono alla base della tradizione meditativa occidentale (anche in occidente ne abbiamo una, di un certo rilievo) descritto in testi come la Filocalia danno esempi chiarissimi a riguardo: chiudere le porte dei sensi, chiudere le porte dell’intelletto. Ripetere formule brevi, concentrarsi sul ritmo del respiro. Per due, tre, cinquemila, cinquantamila respiri al giorno. Qualsiasi forma di ascetismo implica una tecnica dell’omissione. Il concetto di perdono, che è un problema teologico gigantesco, oltre che uno scoglio quasi insormontabile per la cultura laica, è una declinazione dell’oblio. Karl Gustav Jung parla del perdono in termini psicologici come elemento essenziale per vivere: il perdono è la pacificazione non intellettuale, ma peculiarmente emotiva, con fatti e persone che ci hanno ferito. Il perdono è un’omessa vendetta. È oblio. E tutto l’aspetto umano della creatività è fatto di omissioni e oblio. È anche troppo facile, dopo aver menzionato Nessuno, citare Ulisse, e quindi Omero, se non fosse per il fatto che ogni arte performativa, dai rapsodi che hanno “costruito” l’epica antica, fino all’improvvisatore jazz ha un aspetto di formularità: vale a dire una ripetizione di argomenti, versi, temi melodici, topos stilistici costantemente variata. L’immaginazione è ripetizione delle cose, sì, ma differenziale. Introduce continuamente elementi di differenza che di fatto sono oblio di qualcosa. La società iperconnessa è nemica dell’oblio in due modi. Innanzitutto è una società dell’archiviazione generalizzata. Come scrive Maurizio Ferraris è un ambiente “documediale”. Non ha senso parlare né di Infosfera, né di Information Technology. Non si tratta di informazione: nei big data, sondabili solo da algoritmi, ormai ci sono, e sempre di più ci saranno, dati di vita. Nella società iperconnessa niente cade nell’oblio, nemmeno stappare una cedrata in un pomeriggio pigro. L’altro aspetto per me fondamentale è quello del tempo. Le macchine, e in particolare le piattaforme digitali con le quali tutti abbiamo continuamente a che fare non sono affatto dei format neutri, ma sono strumenti di configurazione del tempo. Le piattaforme digitali sono editori solo per tangenza: utilizzano l’engagement, prima che per proporre i contenuti, per tenere l’utente dentro alla piattaforma stessa. I contenuti a un certo livello diventano irrilevanti: se guardiamo un video su come preparare spaghetti cotti direttamente nel sugo - vale a dire un video horror - o una magnifica esibizione di Art Tatum, leggiamo un rant populista, o un’informata analisi antipopulista non cambia nulla. I dibattiti sulla moderazione o gli indirizzi dei contenuti social sono una forzatura alla loro meccanica. Le piattaforme sono innanzitutto macchine per organizzare, e organizzarci, il tempo. La loro temporalità è fatta di ripetizione pura, non differenziale. È una temporalità numerica - numero del movimento, Aristotele - e continua, non interrotta, fratta, paradossale come la temporalità della finitezza umana. Quella delle macchine è una temporalità senza oblio. Si può guardare qualsiasi studio sugli effetti dell’uso prolungato dei social per conferma: la mancanza di oblio genera uno stato generalizzato di ansia e una serie di correlati psicologici abbastanza significativi. I mali psicologici sono malattie del tempo. La posizione che qui esprimo come ambasciatore dei Nessuno naturalmente, non vuole essere apocalittica, ma solo critica. Meglio omettere il giudizio. Affidarsi, magari, all’oblio. *Bruno Giurato parteciperà a “La Milanesiana”, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, domenica 26 giugno al Teatro Gerolamo di Milano (Piazza Cesare Beccaria, 8, ore 21) con “Dire e non dire”, un appuntamento realizzato in collaborazione con Ealixir, azienda leader nel mondo nel campo del diritto all’oblio applicato al web quotata all’indice Otc di Wall Street. Ius scholae, una questione di civiltà di Chiara Saraceno La Repubblica, 24 giugno 2022 Chi studia nel nostro paese è un cittadino italiano. La maggioranza degli elettori dei partiti attualmente al governo, salvo quelli della Lega, è favorevole all’introduzione dello ius scholae. Ma anche tra gli elettori della Lega i favorevoli sono poco meno della metà: il 48%. Se l’eterogenea coalizione che oggi sostiene il governo decidesse di approvare finalmente una legge già troppo a lungo rimandata, quindi, troverebbe il favore dei propri elettori, sia pure con intensità diversa a seconda del partito. Lo ha capito bene Forza Italia, che ha cambiato da negativa a favorevole la propria posizione. Viceversa, se decidessero ancora una volta di rimandare, ciascun partito deluderebbe una buona fetta del proprio elettorato. Solo tra gli elettori di Fratelli d’Italia c’è, per la grande maggioranza, coerenza con la posizione, fortemente negativa, del partito. Anche se non va sottovalutato quel 35% che invece sarebbe d’accordo a favorire l’acquisizione della cittadinanza ai bambini che hanno frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia, anche se solo il 19% dichiara di non approvare la posizione del partito in argomento. Il dato che esiste nella popolazione una maggioranza favorevole all’introduzione dello ius scholae segnala, ancora una volta, come la società civile sia spesso più aperta dei partiti su temi considerati così divisivi da essere rimandati all’infinito: che si tratti di unioni tra persone dello stesso sesso, di fine vita o, appunto, la possibilità che chi nasce o comunque cresce nel nostro paese, ne frequenta la scuola acquisendo l’Italiano come lingua di base, partecipa alle stesse attività dei nostri figli e nipoti, condividendone gusti e disgusti, non può essere lasciato in un limbo senza fine di non appartenenza. Perché anche per i nati in Italia la fatidica soglia dei 18 anni è una porta stretta, che può chiudersi quasi subito. E comunque molto spesso, tra la domanda di cittadinanza e il suo accoglimento possono passare anni di attesa. Alla lunga, il marchio di “non appartenente”, mai abbastanza degno di essere accolto come cittadino, può diventare una forma di identità negativa, di rifiuto di una integrazione che lascia sempre sulla porta, quando non fuori. Il fenomeno delle “bande etniche” di ragazzi aggressivi e violenti è l’esito cumulato di marginalizzazione insieme sociale e civile. Colto il dato positivo del favore maggioritario allo ius scholae, mi sembra che emergano dai dati due aspetti problematici. Il primo è la scarsa conoscenza della situazione. La stragrande maggioranza non ha idea di quanti siano i minorenni coinvolti. Ciò significa che, nonostante si discuta da decenni del tema, manca una informazione adeguata (e forse anche la voglia di informarsi). È vero che non occorre sapere quanti sono per essere favorevoli o contrari, stante che si tratta di valutazioni insieme di principio, valoriali, e di convenienza in termini di coesione sociale e demografici. Tuttavia una conoscenza così scarsa del fenomeno non aiuta ad arrivare ad una opinione informata. Il secondo aspetto che trovo problematico è che difficilmente lo ius scholae, in particolare la contrarietà ad esso, è una questione dirimente dal punto di vista delle scelte elettorali. Coloro che dichiarano che cambierebbero il proprio voto nel caso il proprio partito agisse sul tema in contrasto con la loro opinione sullo ius scholae sono una piccola minoranza. La questione quindi, non è considerata prioritaria. A maggior ragione, tuttavia, i partiti che sono a favore e che ora detengono la maggioranza in Parlamento hanno la responsabilità di portare la legge sullo ius scholae ad approvazione. Non solo è una questione di civiltà da troppo tempo rimandata, ma il loro elettorato è largamente favorevole. Non ci vuole neppure troppo coraggio. La commissione Segre: “Subito nuove norme contro i crimini di odio” di Carlo Lania Il Manifesto, 24 giugno 2022 Dieci mesi di lavoro e 100 audizioni si concludono con la richiesta di un intervento del Parlamento. Relazione votata all’unanimità. Serve un intervento normativo capace di contrastare i discorsi di istigazione all’odio che vengono fatti in rete, ma non solo. E questo intervento è sempre più urgente. È l’invito che la Commissione straordinaria per il contrasto ai crimini di odio guidata dalla senatrice Liliana Segre rivolge al parlamento al termine di dieci mesi di lavori, e contenuto in una relazione finale votata - fatto per niente scontato viste le difficoltà incontrate quando si trattò di istituire la commissione - all’unanimità da tutti i gruppi. “I crimini di odio nascono proprio con le parole”, avverte Segre presentando ieri al Senato le conclusioni raggiunte dalla commissione. Per l’occasione aveva preparata una relazione che però mette subito da parte preferendo parlare a braccio: “Quando ero bambina mi dicevano muori, poi è arrivata la Shoa”, dice ricordando le conseguenze subite a causa delle leggi razziali volute dal fascismo. “A 8 anni, innamorata della scuola, venni espulsa e divenni una bambina invisibile”, prosegue ricordando come anche i vicini di casa “ti allontanano” o quando alla porta di casa bussava la “polizia trattando la tua famiglia come una nemica della patria”. E oggi, a 92 anni, è costretta a girare con la scorta “non perché senatrice - spiega - bensì perché sono ancora bersaglio dei discorsi di odio”. Come successo in passato con gli ebrei, anche oggi esistono categorie precise di persone prese di mira dagli haters a causa della loro religione, del sesso, dell’identità di genere o del colore della pelle. Con l’obiettivo non solo di offendere, ma di limitarne le libertà personali. “Al di là del suo contenuto intrinseco il discorso di odio veicola altri due messaggi” spiega il senatore Pd Francesco Verducci, relatore della commissione. “Il primo è indirizzato al gruppo attaccato: ha l’effetto di compromettere il sentimento di sicurezza e di libertà delle persone o dei gruppi presi di mira inducendoli a pensare che non vi sia spazio per loro in una determinata società. L’altro messaggio è indirizzato ai membri della comunità che non appartengono al gruppo o alla categoria sociale attaccati, veicolando. L’idea che le opinioni alla base del discorso di odio siano largamente condivise”. La commissione segnala come “un diffuso sentimento antiebraico” sia presente nella nostra società “con percentuali per nulla trascurabili” e legato a momenti particolari, come la Giornata della Memoria, che scatenano la reazione di gruppi negazionisti e di estrema destra. Parole e concetti di odio sempre più presenti nel web dove, pur avendo meno visibilità, hanno la possibilità, avverte la commissione, “di entrare nel linguaggio dominante, inserendosi nella quotidianità e normalizzano il ingaggio d’odio”. In crescita anche i casi di islamofobia, che riguardano in modo particolare le persone riconoscibili come appartenenti alla fede islamica. In questo caso bersaglio facile per gli haters sono le donne e le ragazze che indossano l’hijab, indumento che può causare difficoltà nell’avere un lavoro oppure imposizioni di indossare un particolare abbigliamento sempre sul posto di lavoro. C’è poi l’odio di genere (il 6,8% delle donne ha avuto proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social) che colpisce in particolare la comunità Lgbtqi+. In questo caso la commissione sottolinea la carenza di una legislazione che preveda specifiche forme di protezione, carenza resa ancora più evidente dall’affossamento in Senato della legge contro l’omotransfobia. “Il fenomeno migratorio e i cambiamenti etnici delle nostre società - denuncia infine la commissione - hanno molto stimolato la crescita dei crimini di odio così come nel corso del primo lockdown il fenomeno è dilagato quando, alla profonda incertezza economica si è associata quella sanitaria”. In questo caso vittime degli haters sono stati i migranti di origine asiatica, non solo cinese. Relazione annuale della Direzione centrale per i servizi antidroga di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2022 Record di sequestri per la cocaina (+47%). Boom per la droga dello stupro. Quello della cocaina è un fiume in piena: sempre più gonfio, impetuoso, inarrestabile. Con mille rivoli, ormai ovunque. Il consumo degli stupefacenti, in generale, è sempre più alto. La pandemia aveva rallentato questa tendenza. Ma la relazione della direzione centrale dell’Antidroga presso il dipartimento di Ps guidato da Lamberto Giannini traccia un quadro impressionante. I dati 2021 sono tutti al rialzo. Si sviluppano “nuovi modelli di business” negli affari criminali dei trafficanti di droga. Si accentua la dimensione digitale del processo criminale. Uno scenario sconfinato, sempre più minaccioso. Il boom di sequestri - “Il 2021 ha fatto registrare una forte e crescente ripresa delle importazioni di stupefacente nei luoghi di stoccaggio e, soprattutto, verso i Paesi di destinazione finale” dice il documento presentato dal vice capo del dipartimento Ps, Vittorio Rizzi, e il direttore dell’Antidroga Antonino Maggiore. “Il dato dei sequestri di droga mostra, invece, nei volumi complessivi, un evidente aumento rispetto all’anno precedente: dalle 59 tonnellate rinvenute nel 2020, si è saliti alle 91 tonnellate del 2021, con un incremento percentuale del 54,04%, che, per effetto di una sensibile crescita dei sequestri di cocaina e dei derivati della cannabis, rappresenta il quarto più alto risultato dal 2000 a oggi”. Spaccio sconfinato della “polvere bianca” - Consumo e spaccio di cocaina, dunque, è un tema prioritario. Molto allarmante. “Il dettaglio degli incrementi segnala un ulteriore record nei sequestri di cocaina” si legge nella relazione. “Dopo l’exploit del 2020, in cui i volumi erano arrivati a 13,6 tonnellate, raggiungono la quota di 20,07 tonnellate, traguardo assoluto senza precedenti nel passato. L’incremento percentuale rispetto all’anno precedente, che già aveva segnato un considerevole aumento rispetto al 2019 (+64,25%) e al 2018 (+127,76%), è del 47,66%”. Per l’Antidroga si tratta di un “trend vertiginoso” L’Italia al centro dei traffici - Sulla cocaina il nostro Paese non è solo un approdo di consegna, smercio, spaccio e consumo. Dal 2020 ormai si conferma “una “nuova” rotta mediterranea che, dopo aver fatto tappa negli scali nazionali (Gioia Tauro, innanzitutto)” consente “a compagini criminali etniche, in particolare albanesi e serbo-montenegrine, di trasferire lo stupefacente nei porti dell’area balcanica, del Mar Egeo e del Mar Nero”. Emerge così “uno scenario operativo” dove l’Italia diventata “punto di snodo e di passaggio verso altri mercati di consumo dello stupefacente”. In ballo ci sono “le organizzazioni criminali balcaniche, in grado di instaurare rapporti di stretta collaborazione con i cartelli criminali dei produttori e i sodalizi più strutturati della criminalità autoctona”. Droga “dello stupro”: sequestri triplicati - Fra le droghe sintetiche in Italia si registra un boom per i sequestri della cosiddetta “droga dello stupro”, triplicati rispetto al 2020. “È in aumento il bilancio dei sequestri di sostanze liquide rispetto a quelli riguardanti le quantità in dose o polvere - si legge - ammontano a circa 90 litri i sequestri di Gbl e ad oltre 5 litri quelli di Ghb, due potenti sedativi dissociativi, tristemente noti per il loro impiego come “rape drugs”“. Sono sostanze “tornate alla ribalta della cronaca per la scoperta di un vasto fenomeno di spaccio perpetrato attraverso siti di vendita on line, che ha portato a triplicare i sequestri rispetto all’anno precedente”. Nella relazione emerge come siano state accertate 32 nuove sostanze psicoattive, di cui cinque mai individuate prima in Italia. Prodotte con l’obiettivo di eludere i controlli perché non ricomprese nelle tabelle internazionali. Droghe. Nasce la Rete delle città antiproibizioniste di Viola Giannoli La Repubblica, 24 giugno 2022 Assessori e consiglieri di Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e Bari lanciano un coordinamento e un manifesto per politiche innovative sugli stupefacenti. A partire dalla riduzione del danno. Tra le proposte, il Consiglio della notte per gestire la movida. Si chiama “Rete delle città italiane per una politica innovativa sulle droghe”, nasce oggi e ha già una sua “Costituzione”, una Carta di tre pagine che è al tempo stesso una dichiarazione di intenti e un manifesto programmatico. I nodi della Rete sono le amministrazioni locali progressiste delle grandi città, i primi firmatari del manifesto sono gli assessori al Welfare di Milano (Lamberto Bertolé), Bari (Francesca Bottalico), Bologna (Luca Rizzo Nervo), Torino (Jacopo Rosatelli), Napoli (Luca Trapanese) e la consigliera delegata della città metropolitana di Roma Tiziana Biolghini. E al centro del “programma” c’è una visione delle dipendenze come fenomeno sociale, “ampio, diffuso, complesso e radicato”, da governare pù che da reprimere solo con misure securitarie, rimettendo al centro le persone e le loro fragilità, lavorando sulla riduzione del danno, differenziando tra le diverse sostanze e quindi tra le pratiche di risposta, modificando le possibilità di accesso ai servizi sociali per non escludere chi fa uso di droghe, lontano da stigmi e stereotipi. Il protagonismo delle città - “È un fatto inedito e importante per la realtà italiana: le municipalità e gli amministratori, di fronte all’esigenza di una non più rinviabile riforma della legge e delle politiche sulle droghe, decidono di assumere un ruolo di maggiore responsabilità civile ed istituzionale e di attivare un processo di riorganizzazione delle politiche locali e dei servizi - dice il gruppo Pd della Camera - L’obiettivo è sperimentare modelli di regolazione sociale dei fenomeni del consumo, di mediazione sociale per garantire accessibilità e vivibilità dello spazio urbano per tutti, di politiche centrate sulla promozione della salute e sui diritti”. Fuori dal cono d’ombra - “Nessuno mette in discussione il contrasto allo spaccio e alla criminalità, che competono alle forze di polizia, ma servono interventi integrati per evitare che chi consuma sostanze entri in un cono d’ombra dove le alternative sono solo o il carcere o l’emarginazione estrema - spiega da Torino l’assessore Rosatelli - Il fenomeno della dipendenza dalle droghe e dal consumo legale e illegale di sostanze è cambiato, si tratta di cambiare pratiche e risposte. E l’approccio centrato sulla risposta penale e repressiva è risultato fin qui fallimentare di fronte a questa complessità”. Le amministrazioni di prossimità - Ma perché partire dalle città? “Perché siamo noi amministratori che ci troviamo a gestire la movida serale, i rave, l’inserimento delle persone nelle case popolari, il disagio, la sicurezza urbana, i micro-conflitti legati all’uso di sostanze. Siamo amministrazioni di prossimità capaci di distinguere e di agire sui territori, in attesa che una maggioranza parlamentare così composita produca risultati”. La riduzione del danno - La direzione è quella della “decriminalizzazione e delle alternative alla regolazione penale”. La stessa direzione in cui, secondo i firmatari, si muove il documento conclusivo della Conferenza nazionale sulle droghe e le dipendenze convocata dalla ministra Fabiana Dadone a Genova nel 2021 dopo 12 anni di assenza. “Nel documento conclusivo della Conferenza - si legge sul manifesto - si dice testualmente: ‘Rivedere la legge attuale dal modello della repressione/punizione a un modello di governance e regolazione sociale del fenomeno’“. A partire dalla riduzione del danno, “vista sia come insieme di interventi e servizi (che si integrano a quelli della prevenzione, della cura e del reinserimento e li riorientano al di là della sola logica repressiva e patologica), sia come approccio complessivo, che tende a fare del contesto urbano un contesto capace di decostruire stigmi e pregiudizi, minimizzare e contrastare i rischi e i danni correlati all’uso di droghe, e sicuro sia per chi usa che per la popolazione tutta”. “La Riduzione del danno è stata inserita nei Livelli essenziali di assistenza dal ministero della Salute dal 2017, chiediamo al Sistema sanitario di farsene finalmente carico”, aggiunge Rosatelli. Dal drug checking alle stanze per il consumo sicuro - Nella pratica, le municipalità e la città metropolitane che si sono messe in rete vogliono ad esempio promuovere protocolli sperimentati a livello europeo come il drug checking (ovvero l’analisi delle sostanze che si stanno per consumare per valutarne i rischi e il dosaggio), le stanze per il consumo sicuro, il Consiglio della notte che si occupi di movida. E ancora: “Bisogna garantire i diritti sociali alle persone che usano droghe circa l’accesso al welfare locale, senza discriminazioni - spiega Rosatelli - La barriera per molti senza fissa dimora per accedere a un alloggio è lo stop al consumo di sostanze, ma l’approccio rigido, oltre che inutile perché nessuno smette dall’oggi al domani, non risolve il problema anzi lo aggrava. La priorità è levare quella persona dalla strada e a quel punto occuparsi del suo benessere”. Le politiche innovative dal sociale alla movida - Gli amministratori intendono inoltre “sperimentare circuiti alternativi alla detenzione per le persone che usano sostanze, utilizzando i budget di salute e l’housing first”. E “potenziare i servizi sanitari delle dipendenze, altrimenti come facciamo a gestire se non siamo attrezzati chi ad esempio viene ospitato in un dormitorio e poi va in astinenza?”. Anche sulla movida, dice Rosatelli, va usato un approccio integrato che affronti il fenomeno sociale dalla testa e non dalla coda. “Se vogliamo agganciare i giovani, dobbiamo usare la loro lingua, dirgli di non abusare, di non mischiare le sostanze, di non assumere alcol e droghe insieme, di farlo a casa e in condizioni sicure, di evitare che siano tutti sballati contemporaneamente. L’ideale è arrivare a essere tutti drug free ma chi fa un’esperienza di consumo, magari in età adolescenziale e poi mai più, non ti ascolta se gli si dice solo di non bere nessuna birra o non fumare nessuna canna”. L’allargamento della Rete - La sfida politica della Rete è quella di allargarsi, “magari anche ad altre esperienze più liberali. sarebbe bello uscire dallo schematismo che la repressione è di destra e la riduzione del danno è di sinistra. Bisogna uscire dallo stigma sociale, come accaduto sulla salute mentale, non per drogarci tutti assieme ma per rendere più forte ed efficace il sistema di servizi alla persona. Se la parola Serd, ad esempio, non evocasse un ‘tossico disperato che ti deruba per andare a comprare la dose’ ma un servizio di cui usufruire se si cade in una dipendenza allora anche l’accesso al sistema dei servizi sarebbe più semplice da accettare e quindi funzionerebbe di più”. La legalizzazione della cannabis - In vista del voto finale, il 28 giugno, in Commissione Giustizia della proposta di legge sulla depenalizzazione della cannabis depositata dal deputato Riccardo Magi, a confrontarsi, sempre oggi, sono anche attivisti e consiglieri delle “città antiproibizioniste”. Così si chiama l’evento che si terrà nel pomeriggio al Monk di Roma, nell’ambito dell’iniziativa “Un giorno legale” organizzata dall’associazione Meglio Legale. “È l’inizio di un percorso che vedrà confrontarsi Torino, Milano, Padova, Bologna, Firenze, Napoli, Latina, Roma e Lecce a partire da due esperienze locali: la mozione di Milano che riconosce, in un processo di legalizzazione, un approccio diverso e più efficace rispetto a quello repressivo; e la sperimentazione a Bologna dei cannabis talk”: una serie di incontri pubblici e consiliari per prendere consapevolezza rispetto a quelle che sono le ricadute locali di un impianto nazionale basato sulla repressione con tre focus: la sanità (ovvero l’uso medico della cannabis terapeutica e la riduzione del danno), la giustizia (l’impatto sulle carceri degli arresti per reati minori legati alla cannabis) e l’educazione (momenti consapevolezza per i più giovani)”, spiega Mattia Santori, consigliere bolognese e animatore delle Sardine, da sempre anti-proibizionista e reduce, lo scorso anno, dal cannabis tour. “Droghe e stili di vita in evoluzione”. Città in Rete contro il proibizionismo di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 giugno 2022 Bari, Bologna, Milano, Napoli, Torino e Roma Città Metropolitana. Libro bianco: il 36% dei detenuti è tossicodipendente. Polizia: la cannabis è la più sequestrata. La politica migliore si fa soprattutto lontano dalle urne. Ecco perché, mentre in molti comuni italiani ci si prepara ai ballottaggi di domenica, gli assessori al Welfare di alcune delle più importanti città italiane hanno preso un’iniziativa inedita per dare corpo agli esiti (dimenticati) della Conferenza nazionale sulle droghe e le dipendenze tenutasi a Genova nel novembre 2021. Bari, Bologna, Milano, Napoli, Torino e Roma Città Metropolitana sono le prime promotrici della “Rete delle città italiane per una politica innovativa sulle droghe” che si è costituita per affrontare la nuova realtà delle sostanze psicotrope che si sono moltiplicate negli ultimi tempi, soprattutto nelle zone urbane, così come si sono diversificati i modelli di consumo “tra diverse aree di cittadini socialmente integrati e nella popolazione giovanile”. Una Rete nata “per rendere Comuni e città metropolitane parte attiva della stesura del nuovo piano sulle droghe”, spiega l’assessore a Welfare, Salute, Diritti e Pari opportunità di Torino, Jacopo Rosatelli, tra gli ispiratori dell’iniziativa presentata ieri alla Camera. Nello stesso giorno in cui è stato pubblicato il Tredicesimo Libro bianco sulle droghe che dà conto degli effetti nefasti della politica antidroga, contenuta nel T. U. 309/90, sul sistema penale, sui servizi e sulla salute. “Un modello securitario - lo definisce l’assessore torinese Rosatelli - che produce solo marginalità e non tutela la salute delle persone”. Secondo il Libro bianco, messo a punto da La società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali, con l’adesione di molte altre associazioni, anche nel 2021 il sovraffollamento delle carceri ha ottenuto un determinante contributo dalle politiche repressive e criminalizzanti adottate contro i consumatori di sostanze. “Senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane”, si legge nella relazione che ogni anno viene pubblicata nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione “Support! Don’t Punish”. Nel dettaglio: “10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 (il 30%) sono causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico”, mentre si arriva alla percentuale del 35% - sostanzialmente stabile negli anni - quando si analizza la presenza in carcere di detenuti per reati di droga. “È una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea (18%) e mondiale (21,65%) e che supera anche quella della Russia (28,6%)”, si legge ancora nel Libro bianco. In leggero calo lo spaccio riferibile all’art.73, quello della manovalanza per capirci (11.885 sui 54.134 detenuti a fine 2021); in crescita invece i reati di associazione per spaccio (art.74), “che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028”. Dei tanti dati contenuti nel Libro bianco, poi, va annotato il numero record di “tossicodipendenti” in carcere: il 35,85% degli ingressi e il 28,16% delle presenze al 31 dicembre 2021. Il che vuol dire, spiegano gli estensori del Libro bianco, mille presenze in più rispetto all’anno precedente e addirittura “oltre i livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007)”. Di conseguenza, ben “231.659 fascicoli per droghe (186.517 per l’articolo 73 e 45.142 per l’articolo 74) intasano i tribunali italiani, dato che si mantiene ai massimi da 16 anni a questa parte”. D’altronde, come spiega la Relazione annuale della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga pubblicata sempre ieri, nel 2021 sono più che raddoppiati rispetto al precedente anno i sequestri di cannabis: +113% di hashish e +135% di marijuana, mentre diminuisce solo il numero di piante sequestrate: -27,51%. La cannabis “resta lo stupefacente più sequestrato nel nostro Paese, rappresentando, da sola, nell’anno passato, oltre due terzi (67,7 tonnellate) di tutta la droga individuata (91 tonnellate) dalle forze di polizia”. Segue la cocaina con “20,07 tonnellate sottratte, con un incremento del 47,66% rispetto al 2020”. “L’approccio centrato sulla risposta penale e repressiva è in tutta evidenza risultato fallimentare di fronte a questa complessità, sia a livello globale che nazionale e locale”, scrivono gli assessori della “Rete delle città” in una lunga analisi dei dati e dei fatti con la quale chiedono di “chiarire e accrescere il ruolo delle municipalità” nel governo del fenomeno. Chiedono poi “sedi locali stabili di coordinamento” tra i vari “attori istituzionali e sociali, coinvolti e competenti”; di eliminare ogni discriminazione basata sui comportamenti e gli stili di vita per l’accesso al welfare e ai diritti; di promuovere sul territorio la prevenzione e “curare la fase di uscita dal carcere e il reinserimento sociale delle persone che usano droghe”. La guerra “globale” fa vittime anche lontano dal campo di battaglia di Giulio Tremonti Corriere della Sera, 24 giugno 2022 É asimmetrica non solo perché è fatta sul campo virtuale, dei media e della rete, soprattutto perché deflagra nel teatro dell’economia globale, dalla fame all’energia, con una strategia mai sviluppata prima. La guerra in Ucraina è una guerra di tipo nuovo: è la prima guerra di tipo globale. Globale perché non è fatta solo con armi convenzionali, ma anche con armi che sono appunto “globali”. Finita l’illusione che quella in Ucraina non fosse una vera e propria guerra, ma solo uno scontro limitato nel tempo e limitato geograficamente, finita l’illusione del Cremlino che l’Ucraina fosse poco più che un campo da football, oggi la realtà ci si presenta in termini totalmente nuovi. Certo ci sono state guerre mondiali, mondiali perché fatte su scala mondiale, ma tuttavia erano guerre fatte con logiche e strategie in sostanza non diverse da quelle applicate nelle guerre dei secoli passati. Oggi quel che accade è diverso. Sempre le guerre hanno causato migrazioni e fame e crisi economiche, ma tutti questi erano effetti direttamente conseguenti alla guerra e sostanzialmente limitati ai paesi in guerra. Oggi è diverso, sta diventando diverso, molto diverso. Gli effetti negativi della guerra in Ucraina, ed ormai quelli che ne sono gli effetti più negativi, non si presentano infatti solo in loco, non sono conseguenti ad atti di guerra convenzionale e non sono limitati ai paesi in guerra. Certo al principio ci sono stati in Ucraina terrore e masse di profughi e distruzione, ma oggi si vede che è stata sviluppata e che è in atto una escalation, una modernissima evoluzione nella strategia di guerra. Con il blocco sul grano e sui fertilizzanti la fame è infatti strategicamente pianificata per prendere corpo in altre parti del mondo, pianificata come arma per minacciare o causare migrazioni dall’Africa verso i paesi europei, che non sono in guerra. Analoga obliqua strategia è praticata sulla energia, per causare effetti di inflazione e recessione nell’ economia di paesi che pure non sono in guerra. Tutto questo è un modo nuovo per fare la guerra ed è una tecnica che è possibile proprio perché il mondo (che è stato) globale permette l’uso di armi improprie ed in specie consente lo sviluppo asimmetrico della guerra. Asimmetrico non solo perché è guerra fatta sul campo virtuale, sul campo dei media e della rete, asimmetrico soprattutto perché è guerra fatta fuori dal teatro di guerra, nel teatro dell’economia globale. Si può dire che in questo modo la guerra prosegue con altri mezzi, con l’applicazione nuova ed epocale di una strategia mai finora sviluppata in questi termini. Ed anche applicazione di una mentalità da “gangster” e del resto, e non per caso, nella strategia dei traffici sul grano e sui fertilizzanti è evidente il ruolo di potenti mafie e cleptocrazie. Trenta anni fa le elite globali ci hanno graziosamente reso noto che era finita la storia e con questo ci hanno detto che per l’uomo nuovo, in un mondo nuovo lubrificato dalla finanza, era finita anche la guerra. Anni fa mi è capitato di scrivere che, per effetto dell’instabilità che sarebbe stata prodotta dalla crisi della globalizzazione, tutto questo avrebbe prodotto “guerre e conflitti in aree del mondo che più o meno ancora coincidono con i vecchi luoghi della storia (nei Balcani, nel Medio oriente, nel Mediterraneo, nel Corno d’ Africa, ecc.), dove si gioca la partita degli spazi esterni, la partita dell’energia, del petrolio e del gas”.Il mondo che oggi sta venendo fuori, ma che già allora era prevedibile ed oggi è infine evidente che è un mundus furiosus(“Mundus furiosus”, 2016). Certo oggi l’Occidente si sta difendendo ma, dato il nuovo scenario geopolitico che si sta così e drammaticamente sviluppando, pare arrivato il momento di notare che anche dal nostro lato qualcosa non va. È sempre più chiaro in specie che l’Occidente non può essere guidato, come finora, da più o meno occasionali turisti della storia. Stati Uniti. La Corte suprema boicotta New York: l’accesso alle armi sarà molto più facile di Marina Catucci Il Manifesto, 24 giugno 2022 Cancellata una legge vecchia di 100 anni e che prevedeva una licenza speciale e un valido motivo per girare con una pistola o un fucile. Intanto al Congresso l’accordo bipartisan (al ribasso) dà qualche frutto. La Corte suprema ha dichiarato incostituzionale una legge dello Stato di New York in vigore da più di un secolo, che imponeva ai cittadini di possedere una licenza speciale, a dimostrazione di un “giustificato motivo”, per portare un’arma nei luoghi pubblici. Il Secondo emendamento si applica anche fuori dalla propria casa, hanno dichiarato i giudici, imponendo a uno degli Stati più sensibili al tema del controllo delle armi (e che negli ultimi tre mesi ha visto più di un mass shooting) di cancellare una norma che avrebbe voluto mantenere e che è ancora in vigore in California, Hawaii, Maryland, Massachusetts, New Jersey e Rhode Island. Il Sindaco di New York City e la governatrice dello Stato si sono subito espressi dando voce a quello che pensa la maggior parte dei cittadini newyorchesi. E così ha fatto Joe Biden, commentando la notizia come un passo verso una minore sicurezza. “Questa decisione non è solo avventata, è riprovevole”, ha affermato la governatrice Kathy Hochul aggiungendo di essere al lavoro su un disegno di legge per limitare le armi in “luoghi sensibili” e rendere più difficile l’ottenimento del permesso per un’arma nascosta. E il sindaco Eric Adams sta lavorando con il governo statale e federale per identificare ed espandere ciò che viene definito “luogo sensibile”: “Non possiamo permettere a New York di diventare il selvaggio West”, ha detto Adams in una nota. Alla conferenza stampa il capo della polizia di New York Keechant Sewell ha specificato che avere una pistola non autorizzata in pubblico è ancora un crimine: “La cosa importante da notare oggi è che, se hai illegalmente una pistola a New York, verrai arrestato”. I proprietari di un’arma avranno comunque bisogno di un permesso speciale per il trasporto nascosto. Sarà, però, molto più facile ottenerlo poiché non si dovrà più dimostrare la necessità di autodifesa. La notizia è arrivata pochi minuti prima del passo compiuto dall’amministrazione che ha bandito le sigarette elettroniche Juul in quanto troppo pericolose per i giovani, scatenando commenti sul fatto che negli Usa le sigarette elettroniche siano percepite come più pericolose di un fucile e che gli Stati hanno il potere di limitare il diritto all’aborto, ma non il possesso di armi. Proprio su questo tema, poco lontano dalla Corte suprema, il Senato si è detto pronto a votare il disegno di legge bipartisan sulla sicurezza delle armi, andando così verso il passaggio finale. Non all’unanimità (i leader repubblicani della Camera si stanno già schierando contro), ma un numero significativo di deputati Gop ha già indicato di voler votare la misura. Si prevede che la Camera sarà in grado di approvare la norma. In tal caso, sarebbe la prima legge federale sulle armi da 10 anni, anche se nessun tipo di arma sarà vietata. Molto al di sotto di ciò che i democratici e la maggior parte degli americani vorrebbero vedere. Dai lager libici all’Italia, parla il leader dei rifugiati di Tripoli di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 giugno 2022 Il 24enne del Sud Sudan ha guidato la protesta nella capitale libica da ottobre 2021 a gennaio 2022. David Yambio: “Continueremo a lottare finché ci saranno passaggi sicuri per tutti”. “Se non si prova a essere clandestini non si può capire cosa vuol dire cercare un’altra vita, cosa vuol dire essere respinti quando dall’altra parte c’è la morte”, ha detto ieri la senatrice Liliana Segre, presentando il testo della Commissione d’inchiesta sui discorsi d’odio. Parole che raccontano la storia di tante persone in fuga da guerre e razzismo, costrette a subire violenze e detenzioni. Come David Oliver Yambio, 24enne del Sud Sudan, che nelle stesse ore presentava all’Italia la richiesta d’asilo con cui spera di mettere fine alla sua personale odissea. Dopo aver subito tre respingimenti e diversi rifiuti ad accedere ai canali legali di uscita dalla Libia, nei giorni scorsi ha attraversato il mare. Yambio sa bene cosa significa “essere clandestini”, non solo perché ha vissuto questa condizione sulla propria pelle in Libia, ma anche perché di esclusione e soprusi ha fatto terreno di organizzazione politica e solidarietà collettiva. Tra ottobre 2021 e gennaio 2022 ha guidato a Tripoli la protesta di circa 2mila rifugiati esplosa dopo i rastrellamenti nel quartiere di Gargarish e le detenzioni di massa nel centro di Al-Mabani. Per oltre 100 giorni ha animato il presidio permanente davanti agli uffici Unhcr della capitale libica da dove i migranti chiedevano alla comunità internazionale l’evacuazione verso un luogo sicuro. Il suo nome è finito su Al Jazeera e altre testate, la sua voce è arrivata in Italia attraverso Radio3, il suo volto è rimbalzato sui social network. A chi gli chiedeva se non avesse paura di farsi riprendere mentre criticava autorità libiche, paesi europei e agenzie umanitarie, Yambio rispondeva: “Non ho più nulla da perdere. E neanche gli altri. Dobbiamo ottenere l’evacuazione”. La comunità internazionale non ha voluto ascoltare quella richiesta d’aiuto. Nel corso della protesta tre persone sono state uccise. L’11 gennaio le milizie hanno circondato il presidio e arrestato 600 rifugiati. “Non mi hanno preso - ricorda Yambio - Ma il giorno seguente nel centro di Ain Zara, dove erano stati rinchiusi i manifestanti, sono arrivati dei libici in divisa con i nomi dei leader della protesta, compreso il mio”. Era partita la caccia. Per mesi Yambio ha vissuto nascosto, cambiando continuamente casa, quartiere, numero di telefono. Ha continuato a denunciare quello che era accaduto ai suoi compagni e aiutare chi aveva bisogno. Per lui la situazione diventava ogni giorno più pericolosa, ma non voleva salire di nuovo su un barcone. Aveva già provato ad attraversare il Mediterraneo tre volte. La prima, nel gennaio 2019, è stato soccorso dalla nave cargo Lady Sham ma invece dello sbarco in un porto sicuro è stato respinto nella città di Misurata. Ha trascorso sette mesi nella prigione di Karareem. Le altre due è stato intercettato dalla “guardia costiera” libica, riportato a Tripoli e da lì rinchiuso nei centri di Tarik-al-Sikka, per cinque mesi, e Al-Mabani, altri due. Yambio è nato nel 1997 in Sud Sudan. A 19 anni è fuggito dalla guerra civile e dalla persecuzione politica. Ha trascorso due anni in un campo profughi di N’Djamena, capitale del Ciad, dove ha ricevuto lo status di rifugiato. Poi è ripartito verso la Libia. Lì si è registrato presso l’Unhcr di Tripoli sperando di accedere al “reinsediamento”. I posti concessi dai paesi terzi, però, sono pochissimi e la priorità va a donne, bambini e famiglie. Dopo i tentativi di superare il Mediterraneo, i respingimenti e le detenzioni ha lavorato alcuni mesi per la stessa Unhcr, poi per l’Ong italiana Cesvi e delle organizzazioni libiche impegnate nella difesa dei diritti umani. Quando è esplosa la protesta ha conosciuto varie realtà sociali e religiose europee. Con l’aiuto dell’Asgi ha chiesto all’ambasciata italiana a Tripoli il rilascio di un visto di ingresso per motivi umanitari. L’autorità diplomatica, invece, lo ha invitato a fare domanda per il corridoio umanitario attivato nell’aprile 2021. Anche questa è una via stretta: lo scorso anno prevedeva 500 posti. Finora sono arrivate 189 persone. I rifugiati in Libia sono circa 40mila. Oltre ai rischi che ognuno di loro corre ogni giorno, Yambio era anche ricercato dalle milizie. Così ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma chiedendo il visto. Attraverso questa strada lo scorso gennaio due giornalisti afghani in fuga dai talebani sono atterrati a Roma. Ma un mese dopo il Tribunale ha annullato l’ordinanza che aveva riconosciuto quel canale di salvezza e da allora le richieste analoghe hanno ottenuto solo dinieghi. Compresa quella di Yambio. Rimaneva il mare. Ieri Mediterranea ha annunciata il suo arrivo: “Il nostro fratello e compagno David Oliver Yambio, attivista di Refugees in Libya, ricercato dalle milizie libiche del Dcim e dell’Internal Security Forces, è finalmente arrivato in Italia”. Adesso il ragazzo può guardare avanti: “Il mio sogno è ottenere i documenti, per la libertà di movimento e l’accesso all’educazione che mi è stata negata. Il mio sogno è la libertà di parola per continuare a lottare per le sorelle e i fratelli prigionieri nei centri in Libia e Nord Africa. Continueremo a lottare finché ci saranno passaggi sicuri per tutte le persone. Questa è la mia missione” Iran. Forca a tutta velocità quanti ne ammazza non si sa di Sergio D’Elia Il Riformista, 24 giugno 2022 Non è possibile misurare con esattezza il lavoro del boia nel regime dei mullah. La macchina della morte corre così tanto che appena i rapporti internazionali fissano i numeri, questi sono già cambiati. Accade di sentire i tiranni del nostro tempo dire che quanto promana dalle organizzazioni sovranazionali a tutela dei diritti universali è frutto, quando li riguarda, di un uso politico dei diritti umani. Così ha reagito il Ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, al rapporto curato da Javaid Rehman, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sull’Iran. Ipocrita, dal greco “hypokrisis”, vuol dire attore, colui che agisce sul palcoscenico, più precisamente, che simula virtù allo scopo di ingannare. La tirannia e l’ipocrisia si accompagnano bene, sembrano fatte l’una per l’altra! A leggere il rapporto che il 16 giugno il Segretario generale dell’ONU António Guterres ha presentato alla 50ma sessione del Consiglio diritti umani, il mite sorriso che i Mullah esibiscono sul palco delle relazioni internazionali diventa una maschera nera quando il palco è rivolto all’interno del Paese. Diceva Victor Hugo che “Gli ipocriti più miti sono anche i più temibili. Le maschere di velluto sono sempre nere”. L’Alto Commissario per i diritti umani continua a ricevere dall’Iran documenti funesti, che poi si riflettono nel rapporto del Segretario generale. Raccontano di continue condanne a morte ed esecuzioni, anche nei confronti di minorenni, vietate dagli strumenti internazionali di cui l’Iran è parte. Documentano morti in carcere a causa di torture, maltrattamenti e negazione di cure mediche adeguate e tempestive. Si apprende che il numero delle esecuzioni in Iran è aumentato dalle almeno 260 del 2020 alle 310 del 2021, con numeri in crescita nel 2022, considerato che, al 20 marzo 2022, sono almeno 105 le esecuzioni compiute. Il principio di indeterminazione di Heisenberg si applica anche all’opera di osservazione sui diritti umani, specie se riguarda l’Iran. Non è possibile misurare contemporaneamente rammenti di memoria sparsi sui marciapiedi e con estrema esattezza il lavoro del boia nel regime dei mullah. Hai determinato con precisione assoluta quel che accade in una prigione in un dato momento, ma avrai la massima incertezza di quel che nel frattempo sarà accaduto, non solo nelle altre prigioni, ma nella stessa prigione dove hai appena rilevato il fatto. La macchina della morte dei mullah corre talmente veloce che i rapporti internazionali non riescono a “fissare” i numeri che questi sono già cambiati. E questo vale non solo per il presente, vale anche per il passato. Continuando a monitorare la situazione, ad esempio, Nessuno tocchi Caino ha rilevato che nel 2021 le esecuzioni non sono state 310 ma almeno 372. Che la follia omicida scatenata dalla Repubblica Islamica nei primi sei mesi di quest’anno ha superato di gran lunga la realtà osservata dal relatore speciale dell’ONU. Al 21 giugno, Nessuno tocchi Caino ha registrato, non 105, ma almeno 260 esecuzioni. Almeno 72 persone sono state impiccate nelle carceri iraniane nelle ultime tre settimane, durante le quali il campionario delle crudeltà ha esibito storie incredibili. Come quella avvenuta il 19 giugno nella prigione centrale di Shiraz, dove due uomini sono stati giustiziati per omicidio. Uno di loro, Gholam Eslami, era dietro le sbarre da quattro anni per un omicidio commesso durante una rissa. Nella lotta, era stato pugnalato alla schiena ed era rimasto paralizzato. È stato trasferito sulla forca sulla sua sedia a rotelle. La tirannia si fonda sulla morte, ma l’ipocrisia di ogni tirannia esige la simulazione dell’amore per la vita. Il rapporto ONU tratta anche delle politiche sull’incremento della natalità con misure come le limitazioni dell’aborto e della vendita di contraccettivi, il divieto alla sterilizzazione. È il sequestro totale dei corpi, a cui ogni regime totalitario infligge tanto la morte quanto la vita. Poteva mancare in un regime totalitario il sequestro anche dei patrimoni? No, ovviamente. E il rapporto critica il modo in cui la Repubblica islamica ricorre all’articolo 49 della Costituzione per “sequestrare ricchezze e proprietà delle minoranze, in particolare della minoranza religiosa baha’i, nonché dei dissidenti politici e delle loro famiglie”. Il Segretario generale Antonio Guterres ha concluso il suo rapporto con un elenco di raccomandazioni per migliorare la situazione dei diritti umani nel Paese: abolizione della pena di morte; riforme per un processo equo; rilascio immediato di chi è detenuto arbitrariamente; indagini sull’uso eccessivo e letale della forza durante le manifestazioni; l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. Per procedere in tal senso occorre non solo passare a forme di organizzazione politiche e giuridiche migliori in Iran, ma anche a una coscienza migliore della dignità della persona umana in ciascuno di noi. Il regime dei mullah lo conosciamo, è “cattivo”, costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza interne e internazionali. La domanda è chi siamo noi, i “buoni”, i paesi cosiddetti “democratici”. Quanto siamo disposti a - pasolinianamente - tollerare, cioè volgere lo sguardo da un’altra parte. Myanmar. San Suu Kyi in isolamento rischia di sparire per sempre di Emanuele Giordana Il Manifesto, 24 giugno 2022 La leader della Lega nazionale per la democrazia trasferita dai domiciliari in un luogo sconosciuto. Intanto escono i numeri della repressione della giunta golpista: almeno 2.011 morti, 14mila arrestati, 700mila sfollati. La giunta golpista birmana ha confermato ieri di aver trasferito la leader democratica Daw Aung San Suu Kyi dal luogo ignoto a Yangon dove era stata imprigionata dopo il golpe del febbraio 2021 in un altro sito sconosciuto nella capitale Naypyidaw, dove si trova in isolamento. Secondo i militari sarebbe stata trattata “bene”: un vero sberleffo al mondo dal momento che, accusata di decine di reati, nessuno ha mai potuto incontrarla salvo i suoi avvocati e con non poche difficoltà. Ora c’è il rischio che la Lady scompaia definitivamente persino dalla scena virtuale dei suoi processi farsa, colpita dal perverso meccanismo dell’isolamento che appare come una misura estrema in una strategia della giunta difficile da comprendere. Accade mentre l’Assistance Association for Political Prisoners (Aapp), che tiene il tragico registro di morte, imprigionamenti e condanne, sostiene che il 23 giugno - 598mo giorno dal golpe di febbraio - il numero delle vittime ha sorpassato quota 2mila con un bilancio di 2.011 decessi imputabili ai golpisti. Dato confermato, al termine di una visita in Malaysia, anche da Tom Andrews, UN Special Rapporteur per i diritti umani in Myanmar: “Le forze della giunta hanno ucciso più di 2mila civili, arrestato più di 14mila persone, sfollandone più di 700mila, portando il numero di sfollati interni a ben oltre un milione e precipitando il Paese in una crisi economica e umanitaria che minaccia la vita e il benessere di milioni di persone. Gli attacchi dei militari al popolo del Myanmar costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, dice senza perifrasi. “A nessuno è stato risparmiato l’impatto della violenza dei militari. La posta in gioco - continua - è troppo alta per il Myanmar e il suo popolo per accettare il compiacimento e l’inazione della comunità internazionale”. Andrews non dimentica di ricordare il passato dei militari birmani con i Rohingya, la popolazione musulmana del Myanmar occidentale espulsa dai militari in Bangladesh e vittima di “atrocità e attacchi genocidari”. Le parole sono dure ma i fatti restano quelli: la leader, cui già le corti birmane hanno comminato anni di galera, è in isolamento e una violenza quotidiana viene esercitata verso chiunque manifesti resistenza. Una guerra (e una resistenza) oscurata da altre più vicine e più eclatanti nell’uso delle armi pesanti anche se Tatmadaw (com’è chiamato l’esercito birmano) ne fa un uso costante a cominciare dai bombardamenti indiscriminati che, oltre alle abitazioni civili, hanno anche colpito i luoghi di culto. Yangon è ritornata abbastanza alla normalità salvo qualche rapido flash-mob. Ma in periferia si continua a combattere. Il Paese brucia. Su Aung San Suu Kyi la bestia nera della giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing, aleggia anche lo spettro della pena di morte. Per ora la giunta si è astenuta ma le prime esecuzioni potrebbero cominciare proprio adesso. Per non essere forse le ultime. In Italia, Amnesty International e Italia-Birmania Insieme, richiamando l’appello di oltre un centinaio di organizzazioni per la difesa dei diritti umani, hanno appena denunciato l’annuncio da parte delle autorità militari del Myanmar, della ratifica di quattro condanne a morte emesse a seguito di processi gravemente irregolari. Phyo Zeya Thaw, già esponente della Lega nazionale per la democrazia, e l’attivista Kyaw Min Yu, sono stati condannati a morte ai sensi della Legge antiterrorismo con accuse di attentati e finanziamento del terrorismo. Gli altri due condannati a morte, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, sono stati giudicati colpevoli dell’uccisione di un’informatrice della giunta. Le pene di morte comminate sono 114 di cui quattro ora definitive. Italia-Birmania Insieme ha poi scritto una lettera al ministero degli Esteri chiedendo trasparenza sull’attività di alcune aziende italiane nel Paese dove la Farnesina ha per ora ritirato l’ambasciatrice e tra pochi giorni chiuderà gli uffici di cooperazione.