L’annuncio di Cartabia: “Presto sostituiremo le pene detentive brevi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2022 “L’attuazione della delega per la riforma del processo penale, ha una parte importante che riguarda la sostituzione delle pene detentivi brevi, dove per brevi si intende fino a 4 anni. Si prevede la sostituzione con semilibertà, detenzione domiciliare, pena pecuniaria. Le pene fino a 4 anni riguardano circa il 30 per cento della popolazione carceraria, quindi sarà un impatto davvero significativo”, così la ministra della Giustizia Marta Cartabia, durante il question time, risponde all’interrogazione parlamentare a firma dei deputati e deputate di Italia Viva Lucia Annibali, Cosimo Ferri, Catello Vitiello, Silvia Fregolent, Massimo Ungaro, Marco Di Maio e Giuseppina Occhionero, che prende le mosse dalle parole del Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, il quale ha presentato il 20 giugno 2022 la Relazione annuale al Parlamento, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Sono ormai maturi i tempi per affrontare la riforma dell’ordinamento penitenziario e superare l’idea del carcere come unica soluzione punitiva, che ostacola la funzione che la Costituzione attribuisce alla pena”, hanno affermano i parlamentari di Italia Viva rivolgendosi alla guardasigilli. “Secondo la relazione - ha illustrato la deputata Annibali - dei 53.793 detenuti (per una capienza pari a circa 47.000 posti effettivi disponibili) presenti nelle carceri italiane e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva, sono addirittura 1.319 coloro che sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altri 2.473 per una condanna da uno a due anni. In tutto il 7 per cento del totale”. Secondo quanto rilevano i deputati di Italia Viva, si tratta di dati inquietanti che testimoniano come occorra un’inversione di rotta per consentire di abbattere la recidiva e garantire la reale sicurezza dei cittadini. “Le recenti misure introdotte in occasione della pandemia da Covid 19 sulla libertà anticipata sono andate nella giusta direzione e sarebbe auspicabile renderle strutturali”, ha osservato la deputata Annibali. La ministra Marta Cartabia, rispondendo all’interrogazione, ha confermato i dati allarmanti illustrati dalla relazione del Garante, per poi affermare: “Credo che sia importante continuare a coltivare quella cultura basata sulla Costituzione per cui la pena non è sinonimo di carcere”. L’interrogazione rivolta alla guardasigilli ha evidenziato che le indicazioni contenute nella Relazione costituiscono uno stimolo e uno sprone per interventi immediati e incisivi a fronte delle misure normative e amministrative disposte sino ad ora, che si sono rilevate inadeguate per ridurre il sovraffollamento nelle carceri. La guardasigilli ha confermato che presto saranno attuate le leggi delega della riforma per la sostituzione delle pene brevi. “Per dare concretezza a questi interventi - ha concluso la ministra Cartabia - faccio solo presente che le misure in esecuzione esterna oggi superano di gran lunga quelli dei detenuti e per questo è già stata autorizzata l’assunzione di unità del personale destinato all’Uepe nella misura di 1092 unità e 11 dirigenti”. Più criticità sui “folli rei”, ma le Rems rischiano di essere un’istituzione totale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2022 Il problema del disagio psichico in carcere è grave, le persone che rimangono detenute in attesa di essere ospitato presso le Residenze per le misure di sicurezza (Rems) anche, ma il rischio che si snaturi l’essenza di quest’ultime e che diventino a carattere manicomiale è all’orizzonte. Problema che il Garante nazionale Mauro Palma ha rilevato durante la presentazione della relazione al parlamento, tanto da segnalare “un percorso segnato innanzitutto dall’errore concettuale di chi le configura come mere strutture di sostituzione dei dismessi Ospedali psichiatrici giudiziari e non come misura estrema all’interno di un progetto complessivo di presa incarico della persona autore di reato e dichiarata non penalmente responsabile”. Vanno sicuramente rivisti i numeri delle Rems, soprattutto insufficienti in alcune specifiche aree, ma nello stesso tempo va valutato l’eccesso di ricorso a tale misura, anche in via provvisoria e per fatti reato di minore entità. Secondo quanto osserva il Garante nazionale delle persone private della libertà, quest’ultimo problema è ciò che determina la conseguenza di non avere disponibilità per casi definitivi e il perpetuarsi di presenze in carcere di persone che non hanno titolo giuridico per restarvi e soprattutto avrebbero bisogno di tutt’altra attenzione. Come si legge nella relazione del Garante, molti problemi sono sorti nell’ultimo anno, proprio per lo stato ancora ‘acerbo’ di tale riforma nella sua attuazione e nella cultura diffusa, in particolare tra gli operatori della giustizia. Sono problemi dati dai numeri, dalla priorità attribuita al ricovero come misura di risposta alla commissione di reati anche di minore gravità, dalla indisponibilità di posti, dalla presenza all’interno del carcere di persone che in quel luogo non avrebbero dovuto esserci, dalla presenza in strutture residenziali di persone in attesa che fosse resa operativa la loro dimissione già stabilita. Ma per capire meglio di quale problematica si sta parlando, bisogna andare con ordine. Gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) erano nati al principio del secolo scorso ed erano stati pensati per controllare e curare il folle - reo, ovvero l’autore di reato infermo di mente. Seguiva la non imputabilità e l’etichetta di pericoloso socialmente. Implacabili luoghi di confino per persone bisognose di cura, gli ospedali psichiatrici giudiziari resistettero a lungo, impedendo il recupero del reo folle. Finalmente il legislatore, grazie ad una decisiva inchiesta condotta da una Commissione del Senato, ne sancì la morte definitiva attraverso la riforma del 2011 che ha previsto il suo superamento. Il principio è lo stesso che fu per la legge Basaglia: non si sostituisce un’istituzione totale con un’altra. Infatti le Rems non sono, sulla carta, l’alternativa per mettere le persone con disturbo mentale che hanno compiuto un delitto. La riforma prevede soluzioni diverse: piani terapeutici individuali, così da tener conto delle storie di chi soffre, degli ambienti dove è vissuto e cresciuto, dei loro bisogni; presa in carico da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale, prescindendo dagli internamenti oppressivi, tipici delle psichiatrie tradizionali; piccoli luoghi ad alta intensità terapeutica pensati per approfondire la diagnosi, per elaborare un piano di azione socio psichiatrico integrato, per gestire eventuali fasi acute. Ma, di fatto, tutto ciò non sta accendendo, con il rischio che le Rems possano diventare, di fatto, dei mini Opg. I numeri parlano chiaro e ad analizzarli è ancora una volta il Garante Nazionale che, tramite la relazione, invita ad interrogarsi sul significato di una misura estrema, quale è quella della restrizione in una Rems, e nello specifico, se 740 posti possano ancora essere considerati residuali rispetto alle 1.282 persone che nel 2001 erano presenti negli Opg. Un numero che dopo singole valutazioni si era ridotto a 988 all’inizio del 2013 e quindi a 826 alla data di entrata in vigore della legge. “Un eccessivo aumento della disponibilità di posti - si legge nella relazione annuale prefigura, infatti, il rischio reale di un uso diffuso e generalizzato della misura detentiva, assecondando, di fatto, quelle istanze securitarie ancora oggi presenti anche nella cultura della Magistratura giudicante”. Il rischio che paventa il Garante, è che si darebbe in tal modo nuova linfa a quel paradigma culturale che, identificando il disturbo mentale con la pericolosità, legittimava l’ingresso della persona in Opg. Non solo. Il Garante Invita a non ignorare il fenomeno tipico delle istituzioni totalizzanti per il quale un forte aumento nel numero di posti disponibili in Rems alimenterebbe, di pari, una crescente domanda, sino al suo totale assorbimento. Inferno carcere, da 74 anni la Costituzione non entra in cella di Riccardo Polidoro Il Riformista, 23 giugno 2022 La relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è stata trasmessa, quest’anno, in diretta televisiva. Non solo i numerosi autorevoli presenti - tra cui il Presidente della Repubblica, la Presidente del Senato, il ministro della Giustizia, onorevoli e senatori - hanno potuto ascoltare le parole di Mauro Palma, ma anche “taluni nei luoghi di cui tratta la Relazione”, come ha specificato lo stesso garante. Il pensiero si è allora allontanato da quella bella sala e ho immaginato una stanza della casa circondariale di Poggioreale, dove otto detenuti, stremati dal caldo, hanno il televisore acceso e seguono quanto sta accadendo nella Capitale. “Parlano di noi… della situazione delle carceri… quanta bella gente… ci sta pure il Presidente… Silenzio che inizia!”. Alle parole di saluto della Presidente del Senato, che afferma, tra l’altro, “occorre un cambio di passo… c’è un’urgenza morale di trovare soluzioni…”, i detenuti applaudono e, quando il loro applauso si unisce a quello dei presenti in sala, l’entusiasmo è grande. “La signora è la seconda carica dello Stato… Avete visto, pure la prima, il Presidente, ha applaudito… d’accordo… applaudono tutti… e poi ha citato anche Voltaire, la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri… questa frase non so quante volte l’ho sentita, la dicono tutti, ma questa volta pronunciata da chi e a chi ha il presente e il futuro della nazione in mano, ci può far ben sperare…”. All’analisi precisa, puntuale e, come sempre, garbata del garante, che ha come filo conduttore il tempo, declinato sia come quello della pena che va riempito di contenuti sia come urgenza ad intervenire, i detenuti si scambiano parole di sconforto: “Il nostro tempo è vuoto… già! Un vuoto a perdere… a perdere per noi e per la società… un tempo che dovrebbe mirare al recupero sociale, ed invece l’ozio ci abbrutisce e ci rende peggiori…”. E quando il garante afferma: “Il tempo è necessario e non va sprecato, perché è un regalo, un regalo che non si conserva”, alzano le braccia verso lo schermo annuendo. Sovraffollamento, pandemia, emergenza sanitaria, cattiva informazione, immigrati, Rems, ergastolo ostativo, misure alternative, provvedimenti da adottare sono i temi toccati da Mauro Palma. Un esame approfondito della situazione reale, nel segno della Costituzione dove - come è stato evidenziato - la parola “solidarietà” compare già nel suo secondo articolo, mentre la parola “emergenza” non c’è e l’aggettivo “eccezionale” è richiamato solo per contenere i poteri non per estenderli. Nella stanza sempre più calda - ormai sono quasi le 12 e il sole è alto - gli otto telespettatori condividono quelle parole: “La solidarietà la conosciamo solo tra noi… e, a volte, la dobbiamo ricambiare… qua è tutta un’emergenza. Dicono “ti mando al fresco” quando ti arrestano e il caldo ci uccide, nemmeno un ventilatore ci danno, qui l’eccezione è la regola”. Dopo gli interventi degli altri componenti l’Ufficio del garante, Daniela De Robert ed Emilia Rossi, gli applausi dell’intera platea hanno sancito la fine della presentazione e, mentre il pubblico in piedi attendeva l’uscita del Presidente della Repubblica, ecco che il pensiero lascia Poggioreale e fa apparire sul palco uno degli otto detenuti. “Scusate signori belli! Un minutino di attenzione… Innanzitutto voglio ringraziare il Garante…una fotografia della situazione fedele e completa… le cose da fare sono chiare … qui ci siete tutti, o quasi… ma comunque quelli che possono contare… Noi contiamo solo gli annunci, le promesse non mantenute. Dal 1948 ad oggi sono 74 anni che la Costituzione non entra in carcere; dal 1975 ad oggi sono 47 anni che attendiamo l’applicazione concreta dell’ordinamento penitenziario; dal 2013 ad oggi, sono 9 anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per palesi violazioni di norme e per trattamenti inumani e degradanti e nulla, o comunque poco, è stato fatto. Come ha detto il garante il tempo è importante e di tempo ne è passato davvero tanto. I vostri applausi che stanno a significare? Riempiamoli di contenuti, di fatti, di azioni seguendo la linea già tracciata e indelebile della Costituzione”. La sala si è ormai svuotata e un gentile commesso mi riporta alla realtà. Tutti corrono, con o senza scorta, al lavoro quotidiano. Vi sarà tempo per i detenuti? Carceri: duro atto d’accusa del Garante dei detenuti di Valter Vecellio lindro.it, 23 giugno 2022 Nero su bianco si denunciano carceri e celle affollate, in condizioni inaccettabili per chi vi è detenuto (spesso in attesa di giudizio), e per chi vi lavora. Carceri inadeguate e in violazione dei dettati costituzionali e della Consulta. Un documento ufficiale la relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Avanzato nella più formale delle ‘presentazioni’, sotto forma di Relazione al Parlamento. Non c’è dunque senatore o deputato che possa accampare scuse di sorta, si possa ‘giustificare’ dicendo che non sa, ignora, non è a conoscenza della situazione e di quello che accade. Sanno. Sanno e non fanno. Possono fare e scelgono di non fare. Dolosamente, pervicacemente, scelgono di essere indifferenti. La relazione del Garante è l’ennesimo, pesante atto di accusa. Nero su bianco si denunciano carceri e celle affollate, in condizioni inaccettabili per chi vi è detenuto (spesso in attesa di giudizio), e per chi vi lavora. Carceri inadeguate e in violazione dei dettati costituzionali e della Consulta. Attualmente i detenuti risultano essere 53.793; in 38.897 scontano una sentenza definitiva; tra loro “1.319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altri 2.473 per una condanna da uno a due anni”. Dunque 3.792 persone si trova rinchiusa in cella per reati di tutta evidenza “bagatellari”. Potrebbe, dovrebbe scontare la pena a cui sono stati condannati in altro modo, in differenti forme; di utilità per la collettività e per loro stessi. Scontare in carcere pene così brevi in presenza delle quali il nostro ordinamento prevede forme alternative alla detenzione, spiega Palma, “è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”. Nella relazione un richiamo al fenomeno dei suicidi carceri: 29 quelli ufficiali; altri 17 i decessi per cause da accertare. Un monito severo sulle gravi vicende delle violenze nelle carceri, come quelle che si sono consumate a Santa Maria Capua Vetere: richiedono “capacità di accertamento rapido…rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione” a. Parole al vento: per accertare fatti e responsabilità per quello che è accaduto nel carcere di Torino si è rinviato tutto al luglio del 2023. Infine, una criticità che in più di un’occasione si è cercato di evidenziare (“L’Indro” del 15 giugno, per esempio): la malattia psichica in carcere. Al 22 marzo risultavano essere 381 le persone detenute cui si è accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento in istituti predisposti per affrontarla, e tuttavia continuano a essere ristretti in “normali” carceri, e privi della necessaria assistenza. Sovraffollamento e grave carenza di strutture, risorse e personale: un combinato disposto che per la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati “rappresenta uno dei principali ostacoli alla salvaguardia di diritti fondamentali della persona, come quello all’istruzione, al lavoro o alla sfera degli affetti. Diritti che non sono solo guarentigie di una dignità umana che il carcere non può sopprimere, ma anche strumenti irrinunciabili per trasformare la pena in un’occasione di riscatto, recupero e rinascita sociale, come prescrive la Costituzione”. E ancora: “Vi sono poi situazioni di vera emergenza, come ad esempio in Puglia e in Lombardia, dove la concentrazione della popolazione carceraria arriva a superare il 130% e, in alcuni casi, persino il 160% dei posti disponibili”. Il vertice del Senato mostra dunque di essere a conoscenza e ben consapevole della grave e non tollerabile situazione. Dopo le nobili e accorate parole, quali fatti e iniziative concrete? La seconda carica dello Stato certamente se vuole davvero, davvero può fare; e se può, deve. Questo anche alla luce del recente 34esimo rapporto Eurispes, che “fotografa” una realtà avvilente e insieme inquietante: per due cittadini su tre il sistema giudiziario non funziona. I mali principali sono costituiti dalla lentezza dei processi e una legge che non è intesa come uguale per tutti. Secondo Eurispes il 20,6 per cento degli intervistati esprime un giudizio assolutamente negativo, dichiara di non avere alcuna fiducia nella giustizia italiana. Poca ne nutre il 45,3 per cento; e si arriva così al 66,9 per cento. Il restante si divide tra “abbastanza” (28,2 per cento), e molta (5,9 per cento). I più disillusi: una fascia di popolazione giovane, che è compresa tra i 18 e i 24 anni: il 50.9 per cento ha poca fiducia in chi amministra la giustizia; il 22,4 per cento, nessuna. C’è comunque qualche motivo di conforto. Certamente si possono avanzare obiezioni, per quel che riguarda la cosiddetta riforma Cartabia, finalmente approvata, dopo lungo tergiversare, dal Senato e diventata legge. Obiezioni sia di merito che di metodo. Certamente perfettibile e si può aggiungere che è inferiore alle aspettative di molti. Tanto, come si vede, resta ancora da fare. Non mancheranno tecnici, giuristi e addetti i lavori che ci rammemoreranno tutto quello che si doveva e si poteva fare. Al momento, tuttavia, si può essere moderatamente soddisfatti: per la prima volta in materia di giustizia si è riusciti a legiferare superando il veto interdittivo e senza il consenso pregiudizievole e preliminare dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e di quella parte dei magistrati alfieri di un giustizialismo senza giustizia. Quella riforma non la gradivano, hanno anche provato a scioperare, ma non sono comunque riusciti a impedire che diventasse legge. Al di là del merito, una questione di metodo: si è insomma fatto un piccolo passo, ma nella direzione giusta. Bene o male la politica, per una volta, si è saputa imporre. Politique d’abord, come si diceva un tempo. L’intendenza segue. Il tutto è accaduto in singolare coincidenza, nelle ore di un triste e tragico anniversario: nel giugno nel 1983 per ordine della procura di Napoli, Enzo Tortora veniva arrestato, con accuse infamanti, gravissime, soprattutto false. Frutto di una perversa macchinazione. Forse Enzo, da qualche parte, sorride. L’equilibrio difficile tra la giustizia e una politica impotente di Franco Camarlinghi Corriere Fiorentino, 23 giugno 2022 La nuova legge Cartabia è un passo avanti, dicono, ma in ogni modo resta un passo avanti a cui sarà difficile possa seguirne un altro significativo Il senso dello stato dell’arte lo si è trovato nel fallimento dei referendum proposti da Salvini. Il rapporto fra politica e giustizia è oggetto di tante di quelle considerazioni nella discussione pubblica (ammessa l’esistenza in Italia di qualcosa che possa definirsi in tal modo) che inventarne una nuova appare quanto mai difficile. Qualcosa, però, viene in mente, nel pensare alla conclusione dell’incarico di procuratore del dottor Giuseppe Creazzo in quel di Firenze, anche se non ha a che fare con il merito di questa o quella vicenda giudiziaria. Durante il suo mandato Firenze è diventata teatro, spesso nazionale, del riaccendersi dello scontro tra poteri, tra giustizia e politica appunto. Il procuratore capo è diventato un protagonista della scena pubblica, come altri prima di lui, per le inchieste sui reati contro la pubblica amministrazione, quindi quelle che riguardando la politica, cioè, per essere ancora più chiari e semplici, i politici. Nessuno si ricorda più di tanto e semmai per poco tempo dei nomi dei giudici, anche nel caso che le loro sentenze siano state particolarmente importanti e spesso contraddittorie con gli assunti dell’accusa. Non è tanto questo, però, che occorre sottolineare, quanto che quasi sempre il tempo dei politici, del loro passaggio nei ruoli anche apicali, come quello di sindaco, sembrano restare in una linea secondaria, difficilmente in grado di prevalere. Prendiamo ad esempio gli ultimi due tempi dell’esercizio dell’accusa a Firenze uno dei quali si riferisce al dottor Quattrocchi e l’altro che termina ora, al dottor Creazzo. Quando si farà la storia del primo periodo, qualcuno si ricorderà delle vicende amministrative di quegli anni, oppure prevarrà in maniera facile da comprendere la memoria dell’indagine sulla Fondiaria, sui progetti per Castello e sugli intrecci con la politica che portarono, prima di ogni altra iniziativa politica, al crollo della vecchia classe dirigente della sinistra? Chi fu il primo protagonista della vicenda se non il magistrato dell’accusa? Mentre i politici anche di antica caratura come Graziano Cioni dovettero accontentarsi di un ruolo di perdente nella prima lunga fase, per poi rifarsi moralmente a conclusione del processo, ma solo moralmente. Perché c’è una cosa che va richiamata all’attenzione, quando si parla di rapporto fra giustizia e politica: l’accusa, anche quando perde il processo penale, ha di fatto sempre vinto per quanto riguarda la politica, poiché i tempi della giustizia italiana non danno quasi mai la possibilità ai politici, ancorché nel giusto, di continuare il loro cammino. Veniamo all’altra epoca che si chiude, quella del dottor Creazzo. Certo, tante cose sono successe nei suoi anni fiorentini, qualcuna anche spiacevole per lui, ma di certo, qualsiasi sia la conclusione dell’inchieste in atto, ci ricorderemo dell’ultimo periodo per lo scontro furibondo che ha opposto e sta opponendo Matteo Renzi alla Procura di Firenze sulla questione della Fondazione Open. Senza contare la battaglia continua sui problemi giudiziari della famiglia dell’ex-sindaco di Firenze. Come andrà a finire? Chissà! Di certo finché dura uno scontro, nell’angolo c’è sempre il politico e questo vale anche per il combattivo Renzi, che dal canto suo sta brandendo la questione del rapporto tra politica e giustizia come l’argomento attorno a cui riconquistare qualche spazio di manovra, oltre a qualche possibile futuro consenso elettorale. Tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare, il rapporto spesso squilibrato tra giustizia e politica riguarda anche una sua responsabilità, per essere stato uno fra i tanti leader che su tutto hanno cercato di mettere le mani con risultati concreti, meno che su una riforma decisiva della giustizia. Per concludere, dopo gli esempi di cui sopra: che morale se ne può trarre? La morale di una politica che talora si ribella, spesso tenta di opporsi verbalmente, ma che di fronte alla rottura degli equilibri di potere con la magistratura non sa che fare. La nuova legge Cartabia è un passo avanti, dicono, ma in ogni modo resta un passo avanti a cui sarà ben difficile possa seguirne un altro significativo. Il senso più comprensibile dello stato dell’arte lo si è trovato nel fallimento del referendum sui quesiti proposti da Matteo Salvini, talmente convinto della sua battaglia da tentare di andare a combatterla in Russia, dove di come non far prevalere la giustizia sulla politica se ne intendono, eccome! “Quei sì ai referendum sono il primo passo per una riforma costituzionale” di Simona Musco Il Dubbio, 23 giugno 2022 “Sicurezza e garanzie non sono incompatibili. Il centrodestra? Sulla giustizia c’è compattezza”. Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega, non ha esitazioni sulla tenuta della coalizione che vede insieme, e pronti alla sfida delle prossime Politiche, il Carroccio, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nonostante le diverse posizioni assunte in occasione della riforma del Csm. Una riforma, spiega al Dubbio la senatrice, che rappresenta “un piccolo passo avanti”, ma rimane “anacronistica”. La vera soluzione, ribadisce, “è una riforma costituzionale”. E il punto di partenza per capire da che parte andare sono i referendum: “Tutti quei sì non possono essere ignorati”. Senatrice, al netto del quorum, cosa ci dicono i referendum e quale influenza avranno sul futuro delle politiche giudiziarie? Il mancato raggiungimento del quorum è ascrivibile al silenzio assoluto che ha accompagnato i referendum. Ma i sì sono stati milioni, e non possono essere ignorati, costituiscono il punto di partenza per una riforma costituzionale capace di ridisegnare il Csm, di separare le carriere della magistratura requirente da quella giudicante, di porre fine alle degenerazioni del correntismo della magistratura, di premiare i giudici in base al merito, di limitare gli abusi della custodia cautelare. Anni fa sostenni il referendum contro i divieti sulla procreazione medicalmente assistita, e nonostante una massiccia campagna di comunicazione, ben diversa dal silenzio che ha avvolto i referendum sulla giustizia, non si raggiunse il quorum; eppure quel referendum portò comunque a una consapevolezza nuova del problema e, via via, i divieti cominciarono a cadere. Credo che, anche questa volta, i sì saranno importanti... Anche perché, come è evidente, la riforma della Cartabia cambierà davvero poco. Troppe volte si definiscono “riforme” leggi che di fatto non cambiano nulla. Lei è stata molto critica sulla riforma Cartabia al Senato nel suo intervento in aula. Ma poi avete votato favorevolmente con qualche astensione. Perché? È un piccolo passo avanti e presenta qualche correzione al sistema, ma è chiaramente anacronistica. Non affronta i temi cruciali, sembra scritta prima che si scoprisse la gravità della degenerazione delle correnti della magistratura. Per esempio, secondo me, prima ancora che sul sistema elettorale si dovrebbe riflettere su quali siano le personalità che vogliamo che siedano al Csm. Sarebbe servita una riforma costituzionale, e in passato ho più volte sollecitato il ministro in tal senso, ma mi è stato obiettato che non c’erano i tempi. Io credo che se avessimo iniziato l’anno scorso i tempi ci sarebbero stati, eccome. Penso quindi che il ministro Cartabia, che stimo e che ha fatto sforzi per mediare tra le forze politiche, abbia purtroppo perso un’occasione. Certo, nei partiti le sensibilità sulla giustizia sono molto diverse, e non sarebbe stato affatto facile, ma una riforma costituzionale è ormai inevitabile e quindi è stato un errore non provarci, accontentandosi di correggere qualche stortura. Alcuni temi referendari sono stati bocciati dalla Consulta, ma rimangono attualissimi, tra questi la proposta sulla responsabilità civile dei magistrati. Rimane una priorità per il partito? Intanto, respingiamo al mittente le accuse di intenti punitivi nei confronti dei magistrati. I magistrati sono per la maggior parte valorosi servitori dello Stato che svolgono silenziosamente il loro lavoro con serietà, abnegazione e spirito di sacrificio. Resta fermo però il principio secondo cui chi commette un errore è chiamato a risponderne, e questo deve valere per tutti. Il tema richiede un approccio equilibrato ed è essenziale in un sistema liberale: una vera riforma, importante, seria ed efficace, non potrà ignorarlo. Molti analisti ritengono che a penalizzare il referendum sia stata la scelta della Lega di non consegnare le firme in Cassazione e di affidarsi alle delibere dei Consigli regionali. Come risponde a queste obiezioni? Escludo categoricamente che la questione delle firme possa avere inciso, lo escludo anche perché troppe persone non sapevano proprio che ci fossero i referendum, inutile negarlo. La Lega ha alle spalle diversi provvedimenti ritenuti giustizialisti, come l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. La campagna referendaria ha però contrapposto alla vecchia immagine securitaria del partito una nuova, attenta alle garanzie, almeno su certi temi. Qual è il vero volto della Lega sulla giustizia? Sicurezza e rispetto delle garanzie difensive non sono affatto incompatibili. La Lega ha a cuore tanto la sicurezza nelle città, nelle strade, nelle periferie, quanto il rispetto del diritto di difesa nelle aule di giustizia. Dopo un giusto processo con tutte le garanzie, se viene accertata la colpevolezza si devono applicare le sanzioni. Ma ribadisco: dopo il processo. Crediamo nella funzione delle sanzioni, ecco perché siamo critici nei riguardi dei vari riti che prevedono sconti di pena solo per finalità deflattive. Farete una battaglia per tornare sulla questione delle misure cautelari? Anche se nella vostra alleanza elettorale c’è un partito come Fratelli d’Italia che potrebbe marcare la differenza rispetto alla Lega? In realtà, negli interventi al Senato della scorsa settimana è emersa un’unità di vedute. Ci sono state alcune divergenze, lievi e comunque superabili, su alcuni quesiti referendari, ma in generale sulla giustizia c’è grande compattezza. Tutte le forze di centrodestra, ad esempio, sono consapevoli della necessità di una profonda riforma costituzionale. È stato detto da più parti che il quesito sulle misure cautelari avrebbe penalizzato le donne vittime di violenze. Come risponde a queste obiezioni? Rispondo con una sola parola: falso. È pacifico che il quesito sulle misure cautelari non riguardava affatto i casi di violenza. Mirava piuttosto a limitare gli abusi di custodia cautelare per altri reati, ed erano esclusi i casi in cui sussistesse il pericolo di gravi delitti commessi con armi o altri strumenti di violenza personale. Questa non è una tesi ma un dato oggettivo, basta leggere per rendersene conto. Il fatto grave è che, in assenza di argomenti contro i referendum, si è pensato di poter distorcere la realtà. Dalla relazione del Garante delle persone private della libertà e dall’intervento della presidente Casellati è riemersa la questione carceri. La soluzione è costruire nuovi istituti o pensare interventi deflattivi? La soluzione è l’efficienza del sistema: processi dalla durata ragionevole, rispetto delle garanzie difensive, limiti agli abusi della custodia cautelare, certezza della pena e, se necessario, costruzione di nuovi istituti di detenzione nel pieno rispetto della dignità dei detenuti, senza dover ricorrere a decreti svuota-carceri o a provvedimenti di amnistia o di indulto, che hanno il sapore della resa dello Stato. Riforma Cartabia del Csm, legge pessima e pure incostituzionale di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2022 La riforma ordinamentale della magistratura, altrimenti detta “legge Cartabia” dal nome della ministra proponente, presenta talune vistose criticità sulle quali sembra utile soffermarsi anche raccogliendo il grido di allarme dell’Associazione Nazionale Magistrati il cui presidente ha parlato di “una riforma sbagliata in danno della Giustizia”. Art. 3) Si prevede la partecipazione, con voto unitario, nei Consigli giudiziari della componente degli avvocati alle deliberazioni riguardanti i magistrati sottoposti alla valutazione di professionalità, sulla base di “fatti specifici, positivi o negativi, che incidono sulla professionalità dei magistrati in valutazione” segnalati dal Consiglio dell’Ordine. Si tratta di una norma incostituzionale poiché la magistratura costituisce un Ordine autonomo e indipendente da ogni altro Potere (art. 104 Cost.) e quindi anche dal Potere degli Avvocati. I magistrati devono poter giudicare “sine metu ac sine spe” e le loro decisioni non devono essere influenzate, nel bene e nel male, inconsapevolmente o meno, dal voto espresso nei Consigli giudiziari dagli Avvocati delle Parti dei processi di cui essi si occupano o si sono occupati. Art. 13) Nel quadro del Progetto organizzativo predisposto ogni quadriennio dal Procuratore della Repubblica, si prevede che i criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale definiti dal Consiglio Superiore della Magistratura siano poi adottati dal Parlamento con apposita legge, della quale non si comprende né la necessità né l’opportunità, tenuto conto che sul Progetto sono chiamati ad esprimere il loro parere il presidente del tribunale, l’Ordine degli Avvocati, il Consiglio giudiziario e il Ministro della Giustizia che del Parlamento, in base alla fiducia, è una diretta espressione. Art. 15) Si prevede che non siano eleggibili nel Parlamento nazionale ed europeo i magistrati che abbiano prestato servizio nei 3 anni precedenti l’accettazione della candidatura nella Regione in cui è compresa la circoscrizione elettorale. Si tratta di una norma illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. (principio di ragionevolezza) in quanto introduce una limitazione dell’elettorato passivo in modo retroattivo per i magistrati che abbiano prestato il normale servizio nelle sedi loro assegnate dal C.S.M., servizio che a posteriori diventerebbe una causa di discriminazione e di esclusione. Art. 19) Si prevede che i magistrati ordinari che cessano dal mandato parlamentare sono collocati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia ovvero ricollocati in ruolo e destinati dal Csm allo svolgimento di attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti, né requirenti. A prescindere che non si comprende quale diversa attività costoro sarebbero chiamati a svolgere al di fuori di quella di giudice o di pm ai cui ruoli essi appartengono sin dalla nomina, nell’una e nell’altra ipotesi la norma confligge con il dettato dell’art. 51 comma 3 della Costituzione per il quale “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro” diritto che per la Corte costituzionale è inalienabile (sent. n. 6/1960, n. 388/91 e 158/1995). Da ultimo va segnalata l’incongruità e illogicità, al limite dell’incostituzionalità, dell’art. 12 per il quale i magistrati, nel corso dell’intera carriera, possono richiedere una sola volta il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti o viceversa. Si tratta di una separazione mascherata delle carriere che la Costituzione ha invece collocato in un quadro unitario, senza contare che il mutamento delle funzioni arricchisce il bagaglio di esperienze del magistrato affinandone la cultura della giurisdizione. Dietro l’addio di Di Maio dal M5S c’è anche la scoperta del garantismo (almeno a parole) di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 giugno 2022 Dalla lettera di scuse a Uggetti alla riforma del processo penale: non sarà diventato Beccaria, ma sulla giustizia Di Maio ha deciso di intraprendere una strada più garantista rispetto a Conte, almeno sul piano strategico. C’è anche un pezzo di giustizia, o meglio di strategia politica sulla giustizia, dietro la scissione di Luigi Di Maio dal Movimento 5 stelle: un allontanamento dalla tradizione più giustizialista e forcaiola del movimento, a vantaggio di posizioni (almeno a parole) più garantiste e attente ai principi costituzionali. Non bisogna ovviamente immaginare che Di Maio d’un tratto si sia trasformato in un novello Beccaria, anche perché i posizionamenti dei grillini non sono mai spiccati per coerenza. Eppure qualcosa è avvenuto attorno a un tema così delicato come la giustizia. C’è stata, da parte di Di Maio e della sua “cerchia”, una presa di distanza dal forcaiolismo più becero promosso dal movimento. Una presa di distanza che si è concretizzata anche nel sostegno ad alcuni importanti provvedimenti voluti dal governo Draghi, sotto la spinta della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il punto di svolta dell’evoluzione del pensiero dimaiano sulla giustizia può essere individuato nella lettera che lo stesso ministro degli Esteri inviò al Foglio il 28 maggio 2021 per chiedere pubblicamente scusa all’ex sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti, per la gogna praticata dai grillini contro di lui nei giorni successivi al suo arresto nel 2016. Uggetti era appena stato assolto in appello dall’accusa di turbativa d’asta e Di Maio, a sorpresa, fece mea culpa per aver “esacerbato il clima” ai tempi dell’arresto del sindaco, invitando il Movimento ad avviare una riflessione sull’”utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale”. Un’iniziativa spontanea, quella di Di Maio, non concordata con Giuseppe Conte, che di lì a poco sarebbe stato eletto ufficialmente presidente del M5s. Conte, infastidito, reagì lanciandosi su Facebook in una lunga distinzione tra la gogna mediatica, sbagliata, e la tutela del principio di legalità e del “valore dell’etica pubblica”, su cui il movimento avrebbe mantenuto il “massimo rigore”. Una prima, simbolica crepa nel fronte giustizialista del M5s, che si allargò con evidenza poche settimane dopo, in occasione dell’approvazione in Consiglio dei ministri della riforma del processo penale. L’accordo tra le forze politiche venne raggiunto solo all’ultimo momento. Conte e la sua truppa non intendevano in alcun modo cedere sul tema della revisione della disciplina della prescrizione, abrogata in precedenza con la riforma Bonafede. Solo un’intensa attività di mediazione di Di Maio permise di superare le resistenze grilline e di raggiungere l’intesa. Un’intesa impensabile fino a pochi mesi prima, consistente nell’introduzione del meccanismo dell’improcedibilità in caso di durata eccessiva dei processi. “All’inizio Maio era certamente un giustizialista oltranzista. L’inserimento in un contesto di governo e non di opposizione lo ha spinto a maturare un approccio più garantista e più vicino alla nostra carta costituzionale”, riferisce una fonte parlamentare, molto attiva nel settore della giustizia. Tra i circa 60 parlamentari che hanno deciso di seguire Di Maio nel nuovo gruppo “Insieme per il futuro” ci sono anche Gianfranco Di Sarno, membro della commissione Giustizia della Camera, Felicia Gaudiano, componente della commissione Giustizia al Senato, e soprattutto Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia, che con il collega Francesco Paolo Sisto ha seguito, con un approccio decisamente filo-governativo, la redazione della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm approvata pochi giorni fa dal Parlamento. Non sarà diventato Beccaria, ma anche sulla giustizia Di Maio ha deciso di intraprendere un’altra strada rispetto a Conte, almeno sul piano strategico. Sta a vedere che grazie a Di Maio finisce l’era manettara di Valentina Stella Il Dubbio, 23 giugno 2022 Sulla giustizia il nuovo gruppo del ministro degli Esteri si distinguerà dagli estremismi e dai populismi del Movimento. Lo ha anticipato Spadafora, e lo confermano i nomi dei parlamentari impegnati sulla giustizia e coinvolti nella scissione, a cominciare dalla sottosegretaria Anna Macina. Luigi Di Maio nella sua conferenza stampa d’addio al Movimento 5 Stelle ha detto chiaramente che “non ci sarà posto per i populismi”. Tutto sta a capire come questo si potrà riverberare sul terreno scivoloso della giustizia, sul quale - ricordiamo - era caduto il governo Conte 2 non appena quella questione era entrata nell’agenda parlamentare, con la relazione annuale dell’ex guardasigilli Bonafede. Il nuovo gruppo parlamentare Insieme per il futuro abbandonerà i famosi -ismi del giustizialismo e del populismo penale, di cui i grillini sono maestri? Come abbiamo scritto ieri, il capitolo sui decreti attuativi delle tre riforme di mediazione Cartabia deve essere ancora scritto, e sarà interessante capire il modo in cui la pattuglia dimaiana si posizionerà da qui alla campagna elettorale del prossimo anno. Ma intanto Ipf da dove riparte? Sicuramente dalle scuse di Luigi di Maio rivolte all’ex sindaco dem di Lodi e consegnate in una lettera a maggio 2021 al Foglio: “Chiedo scusa a Uggetti, mai più gogna”, scrisse il ministro degli Esteri. Il mea culpa fu abbracciato con diverse sfumature all’interno del Movimento, a delineare già due anime diverse, ad esempio, sul tema della presunzione di innocenza. Questo divario si sarebbe poi accentuato nei mesi successivi non tanto sui singoli temi quanto sul metodo. La nuova compagine politica non abbandonerà di certo le battaglie condotte con la bandiera dell’Antimafia e contro la corruzione: ma da quanto si è potuto capire cambierà l’approccio, il metodo, come ha spiegato anche Vincenzo Spadafora: “Per problemi complessi occorrono soluzioni complesse. Basta con gli slogan”. E di slogan, sulla spazzacorrotti, ne abbiamo sentiti tanti. Insomma, l’impressione è quella che il nuovo partito lascerà fuori i duri e puri e si compatterà intorno a figure governiste e di equilibrio istituzionale, come la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina. Avvocato civilista, in questo anno ha lavorato bene con la ministra Marta Cartabia, come le è stato riconosciuto pubblicamente dalla stessa responsabile di via Arenula. Ma l’armonia è stata spesso messa in pericolo perché contemporaneamente il Movimento ha fatto opposizione dall’interno. Per esempio sulla questione carceraria: Macina ha la delega ai detenuti. In questi mesi ha visitato 12 istituti di pena, relazionato al Dap e ottenuto anche qualche piccolo successo, ma non ha trovato una sponda nei suoi ex compagni di partito, impegnati invece più a strizzare l’occhio ai sindacati di polizia penitenziaria. Come lei un’altra figura tecnica e non estremista, improntata a lavorare su obiettivi realizzabili e non dispersa intorno a espressioni demagogiche, è sicuramente l’onorevole Gianfranco Di Sarno, anche lui avvocato civilista, primo firmatario della proposta di legge per la riforma dell’esame da avvocato. In commissione Giustizia alla Camera è l’unico ad essere entrato in Insieme per il Futuro, e si troverà a doversi distinguere dal fedelissimo di Conte, ossia Alfonso Bonafede. Non ci sarà più però Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario alla Giustizia e ideatore della proposta di legge sul “nuovo ergastolo ostativo”, passato dal 10 giugno alla commissione Esteri. Non sono chiarissime le ragioni del cambio, tuttavia non è difficile ipotizzare che, avendo già sentore della scissione, il Movimento abbia deciso di piazzare un altro fedelissimo di Conte nella commissione di competenza del ministro degli Esteri Di Maio, dove la partita sarà più complicata per i pentastellati, considerato che già quattro componenti sono passati con Ipf. Il segnale che arriva è insomma che sulla giustizia si aggregano a Di Maio figure con posizioni meno intransigenti. Anche Giuseppe Conte era giunto nel Movimento come uomo delle istituzioni, avvocato e professore da cui ci si sarebbe aspettati posizioni più di equilibrio e garantiste. All’inizio si era orientato ad una azione connotata da certa maturità politica; aveva, ad esempio, concordato con le scuse di Di Maio ad Uggetti, ma poi, su quello e su altro, aveva fatto un passo indietro, anzi una vera e propria sterzata, anche a causa di alcuni sondaggi interni e ai consigli di qualche direttore di giornale. Al momento, la fotografia è quella del Movimento 5 Stelle in una posizione ambigua tra i fuoriusciti de L’Alternativa, dalle posizioni ultraortodosse, e quelli di Ipf, che promettono di abbandonare slogan e semplificazioni. Per risollevarsi dal pantano, il M5S deve sicuramente ridefinire la propria identità, anche per mantenere al sicuro l’alleanza con il Partito democratico. Proprio la scissione all’interno dei grillini non mette i dem in una posizione comoda, perché se è vero che hanno costruito una alleanza col Movimento, ora comunque dovranno trattare anche con il gruppo di Di Maio, che in teoria potrebbe assumere posizioni più moderate e probabilmente più vicine sui temi della giustizia al Pd, impegnato in questo ultimo anno anche in estenuanti mediazioni tra i grillini e le altre forze di maggioranza. Giggino garantista, chissà se poi è vero di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 giugno 2022 “Mai più gogna, chiedo scusa”, invocò dalle colonne del Foglio. In quella lettera c’era un programma non sulla giustizia, ma su un futuro di rispetto. È però dovere di un leader dare corpo alle parole. Non è nato l’altra sera in un grande albergo di Roma, il nuovo Luigi Di Maio. Aveva fatto capolino giusto un anno fa -era il 28 maggio 2021 e stavamo faticosamente cercando di uscire dalla tragedia del Covid- dalle pagine del Foglio. Un testo inedito e inaspettato a sua firma, sovrastato dal titolo “Mai più gogna, chiedo scusa”. Chissà perché quella svolta da parte di un ex ragazzino nato con il movimento dei “vaffa” ma poi diventato vicepresidente della Camera e poi vicepremier e infine ministro degli esteri in due governi, non ebbe il rilievo politico che meritava. Eppure, nelle sue parole di quel giorno, c’era già un programma, non sulla giustizia, ma su un futuro fatto di relazioni umane e di reciproco rispetto. Un mondo fatto di persone, prima di tutto, in cui il Parlamento non è una scatola di tonno da aprire e espugnare, dove i partiti non sono un’accozzaglia di ladri delinquenti da annientare e la giustizia non è la sacra inquisizione chiamata a tagliare teste dopo sentenze mai sfiorate dall’ombra del dubbio. La svolta di un anno fa è stata espressa in modo chiaro due sere fa nell’albergo romano, quando Di Maio ha buttato lì: “Uno non vale l’altro”, così distruggendo l’intero programma politico del movimento di cui lui stesso è stato leader. E accantonando anche il se stesso che, ancora quattro anni fa, si esibiva sui social annunciando, con sprezzo nei confronti degli ex parlamentari, di aver “abolito i vitalizi”, e naturalmente non era vero, come era ridicola la pretesa di “aver abolito la povertà”. L’abrogazione, nel nuovo corso, di quel finto e demagogico egualitarismo che era lo slogan “uno vale uno”, ha molto a che fare con il rispetto per gli altri. Oggi una deputata storica come Carla Ruocco, che ha scelto di tentare la nuova avventura politica con Di Maio, rivela (non ne aveva mai fatto cenno in passato) di non aver mai condiviso quel concetto, anche perché l’esperienza e la competenza sono importanti. Naturalmente sta parlando di sé, e non saremo certo noi a sospettare, insieme a Di Battista e altri piccoli uomini come lui, che dietro certe scelte ci sia il desiderio di ricandidarsi alle elezioni politiche tra un anno e possibilmente tornare in Parlamento anche alla terza legislatura, cosa vietata dal regolamento del Movimento cinque stelle. Non diremo mai la parola “poltrona”, proprio per una questione di rispetto. Se solleviamo l’argomento è per rimarcare due aspetti, il primo è che occorrono molto tempo e molta fatica per diventare bravi parlamentari, il secondo è che le ambizioni manifestate dai deputati e senatori di oggi potevano essere le stesse di quelli di ieri, della prima come della seconda repubblica. Quelli disprezzati dai “grillini”. Se questo è il discorso sul rispetto, ed è la prima tappa necessaria per il cambiamento, il secondo è quello del dubbio, e ha molto a che vedere con la giustizia e il circo mediatico-giudiziario. E così arriviamo al giorno di un anno fa, quando Luigi Di Maio scrisse una lettera di scuse a Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, arrestato nel 2016 per turbativa d’asta, poi assolto nell’appello che andrà ricelebrato per volere della cassazione. Le scuse, sulla cui sincerità siamo disposti a scommettere, riguardavano le modalità con cui in occasione dell’arresto il Movimento cinque stelle, con la presenza a Lodi dello stesso Di Maio, aveva manifestato in piazza e condotto una vera campagna persecutoria sui social fino alle dimissioni del sindaco. “Con grande franchezza vorrei aprire una riflessione - scriveva il ministro degli esteri - che anche credo sia opportuno che la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima”. Perché “Una cosa è la legittima richiesta politica (di dimissioni, ndr), altro è l’imbarbarimento del dibattito, associato ai temi giudiziari”. Di Maio porta anche altri esempi, oltre a quello di Simone Uggetti, come quello della ministra Federica Guidi e il processo Eni. Mostra di essersi preparato. Non tralascia di ricordare l’imbarazzo del suo partito quando, nello stesso periodo, fu indagato il loro sindaco di Livorno Filippo Nogarin. Ma tralascia la sospensione di Pizzarotti, sindaco di Parma, condotto alle dimissioni per un’informazione di garanzia per abuso d’ufficio in un procedimento che finirà archiviato. Ma vien da chiedersi se la “riflessione”, partita da questi casi e allargata a principi generali, sia stata poi avviata, a partire da un anno fa, nel movimento di Beppe Grillo. Perché sono nobili, frasi come “esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente”. Ma è dovere di un deputato, soprattutto di un leader, dare sempre corpo alle parole. Finora non ci sono stati segnali. Ora forse Di Maio ne ha l’occasione. L’ex ministra Elena Boschi, con la pelle che ancora brucia per le offese ricevute da quelli del Di Maio che fu, ne saluta positivamente l’apertura “a un timido garantismo”. Aspettiamo il semaforo verde. Con l’ottimismo della volontà. Volete insegnare la giustizia ai ragazzi? Parlategli dei perseguitati dai pm di Iuri Maria Prado Il Garantista, 23 giugno 2022 “Quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi sulla giustizia illustrando loro I promessi sposi”, dice l’ex pm a Segre nel dialogo finito tra temi della Maturità. Meglio fargli conoscere le pagine meno romanzate della giustizia italiana. Nel suo dialogo con Liliana Segre, finito tra gli argomenti d’esame di Maturità e ripubblicato ieri dal Corriere della Sera, Gherardo Colombo dice: “Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi!”. Non c’è dubbio che dalla lettura di quel capolavoro i ragazzi possano ritrarre nobili motivi di meditazione “in tema di giustizia” (magari “tema” d’ora in poi lo aboliamo, che proprio non si può sentire): ma più e meglio si trasmetterebbe ai ragazzi illustrando loro le pagine meno romanzate della giustizia italiana, facendo loro conoscere le colonne infami recanti la lunga teoria dei nomi sconosciuti appartenenti alle vittime della giustizia. Sarebbe lettura magari più noiosa, ma altrettanto istruttiva, quella che indugiasse sulle lapidi dei suicidi in carcere, i morti di galera imprigionati - spesso inutilmente, sempre ingiustamente - in nome del popolo italiano. Sarebbe conoscenza forse spiacevole, ma assai formativa, quella offerta da una ricognizione della vita negletta delle mogli, dei figli, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori di chi senza motivo, senza necessità, senza diritto è stato rinchiuso in una cella. I ragazzi potrebbero imparare da questa storia clandestina come nel loro Paese - non nel secolo decimo settimo, ma in questo - un magistrato possa arrestare la libertà di chiunque, sequestrargli ogni bene e innanzitutto il primo, la vita, e privarlo di tutto, del patrimonio, della casa, della famiglia, del lavoro, della reputazione, della salute, senza risponderne in nessun modo e nemmeno nel caso che quello scempio sia oltretutto avvenuto per trascuratezza, per errore, per abuso. Imparerebbero, i ragazzi, che tra le disgrazie che possono capitare a un essere umano - proprio come una malattia maledetta che se lo mangia, come un rovescio professionale che lo manda sotto a un ponte, come un’auto impazzita che lo investe - c’è quella di trovarsi soggetto al potere di un magistrato che decide di perseguitarlo, e lo perseguita, prendendo il corso normale della sua vita e stravolgendolo, violentandolo, lo immette con i sigilli di Stato in un buco nero di sopraffazione, di degradazione, di disperazione, mentre nel mondo di fuori risuona il verbo del collega togato che spiega che tutto questo è fisiologico. I ragazzi sarebbero così proficuamente indotti a farsi della giustizia di questo Paese un’idea un po’ più aderente. E a esprimerla, magari, al prossimo esame di Maturità. Fuga dalla ‘ndrangheta nel nome dei figli di Cristina Rogledi Oggi, 23 giugno 2022 Chiedono aiuto per salvarli da un destino segnato: carcere o morte. E provano a scappare da quella Calabria senza futuro. Qualcuno le assiste ma tanti le inseguono per riportarle a casa e “salvare l’onore”. “Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come è successo a mio padre, mio fratello e mio suocero... Per favore, mi aiuti”. Sono proprio i figli, e il desiderio di assicurare loro un futuro lontano da prigione e morte, il filo conduttore fatto d’amore che unisce le storie delle donne di ‘ndrangheta che si rivolgono al programma “Liberi di scegliere”, il protocollo governativo creato nel 2012peroffrire ai minori di famiglie mafiose la possibilità di una seconda vita lontano dalla criminalità organizzata. La liberazione dalla malavita e la rinascita passano anche attraverso il coraggio delle donne, quasi sempre madri, quasi sempre vittime di matrimoni combinati tra clan per espandere il sistema delle alleanze strategiche, un complesso mosaico di parentele. Le donne delle ‘ndrine sono cruciali: hanno il compito di garantire la discendenza, di crescere i figli che saranno i futuri capi e possono preservare o sfaldare l’unità del nucleo. “Significa essere l’elemento che consente la prosecuzione del governo mafioso perché genera i figli maschi, perché insegna loro l’odio e come e perché va compiuta la vendetta quando si subisce un torto”, scrivono Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica al Tribunale di Catanzaro, e Antonio Nicaso ne La malapianta (Mondadori, 2010). “Spesso hanno il marito in carcere per reati mafiosi e quando capiscono che quello è il futuro che attende i loro ragazzi, vengono da noi. Arrivano di nascosto e sono spaventate”, racconta Giuseppina Surace, giudice esperto del Tribunale minorile di Reggio Calabria, la città in cui l’ex presidente dello stesso Tribunale, Roberto Di Bella, ha creato il programma Liberi di Scegliere quando ha capito che la mafia si eredita. “Mi sono trovato a giudicare i figli di minorenni che avevo condannato vent’anni prima”, spiega il procuratore Di Bella che ha portato il suo protocollo a Catania, dove è presidente adesso, e in altre città. “Questa circostanza mi ha spinto a chiedermi cosa fare per prevenire il fenomeno dell’ereditarietà criminale tenendo conto che la ‘ndrangheta si fonda sul legame di sangue, familiare, a differenza di Cosa nostra dove prevale il vincolo del mandamento”. “In questi 10 anni abbiamo aiutato circa 30 donne e 70-80 figli. Anche qui a Catania sta iniziando a funzionare il nostro protocollo ma con modalità diverse perché la mafia ha meccanismi molto differenti dall’ndrangheta”, valuta Di Bella. “Aiutare queste persone a fidarsi di noi è difficile perché sono intrise di paura e sospetto. Noi chiediamo loro di fare un salto nel buio recidendo tutti i rapporti di parentela e amicizia. Vivono un travaglio profondo”, racconta la Surace. “Io sono la prima persona che incontra le donne che intraprendono questo percorso”, dice l’avvocato Enza Rando, attivista, vicepresidente di Libera, la principale rete associativa contro le mafie in Italia che collabora con Liberi di scegliere. “Non sono collaboratrici di giustizia né testimoni, per questo chiediamo una legge specifica. Per ora dobbiamo aiutarle noi a rifarsi una vita in una città lontana ma con lo stesso cognome, a trovare una casa, un lavoro o a riqualificarsi. Paghiamo tutte le spese e la nostra rete di volontari le sostiene nelle incombenze quotidiane, dall’aprire un conto in banca all’iscrizione dei figli a scuola. Le sosteniamo per ricrearsi delle radici perché anche la libertà è faticosa se non ti è stata insegnata”, aggiunge la Rando. Che cos’hanno in comune queste donne? “Sono vedove bianche. La loro vita è scandita dalle visite in carcere al marito, ai fratelli, ai figli. Sono condannate anche loro. Alcune avevano ruoli chiave, potere e soldi, eppure non godevano di alcuna libertà. Se il marito non c’è, sono controllate dalle suocere o altri parenti. Subiscono una doppia violenza: un’esistenza immersa nella brutalità delle regole del clan e la minaccia costante da parte della “famiglia” perché le prime persone che danno loro la caccia per ammazzarle, quando se ne vanno, non sono i mariti: sono i padri che vogliono salvare l’onore del cognome”, continua la Rando, che ha incontrato decine di queste signore del coraggio. “La realtà mafiosa è immutata ma loro sono cambiate nel tempo. Hanno accesso a internet, seguono la tv e hanno maturato una consapevolezza: il diritto alla felicità. La storia di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa per vendetta dall’ex compagno, e il film su di lei (Lea, di Marco Tullio Giordana, 2015, ndr) hanno avuto un effetto dirompente per loro, ne parliamo spesso. Inizialmente quando arrivano da noi si comportano da mafiose, persino nella postura e nel linguaggio. Eppure col passare dei mesi tutte si accorgono di non avere mai sperimentato prima cosa fosse una vita “normale”. “Finalmente riesco a respirare”, è la frase più frequente. Nessuna, in dieci anni, è mai tornata indietro. Sono donne rigenerate, anche nel pensiero”, spiega la Rando. “Stiamo seguendo la storia di una ragazza figlia di un professore universitario e nipote di un magistrato. Ha 27 anni ed è distrutta. Ha interrotto gli studi per sposarsi col rampollo di una famiglia importante, il classico ragazzo belloccio e pieno di soldi. Dopo le nozze sono cominciati i guai ma lei ha voluto nascondere tutto alla sua famiglia. Il marito la picchiava e la ricattava usando il figlio: “Se parli, se scappi…”. La ragazza ha iniziato a soffrire di anoressia e a quel punto i genitori l’hanno convinta a confidarsi. Il marito è finito in carcere e lei ha potuto riflettere e rendersi conto che viveva un inferno anche perché mentre lui era dietro le sbarre era controllata dal clan. Quando è venuta da noi a denunciare, tremava così tanto da non riuscire a stare sulla sedia. Sua madre e suo padre sono stati grandiosi. Le hanno detto: “Lasciamo tutto, casa e lavoro, andiamo via”. Sono tante le storie rimaste nel cuore del giudice Surace, quelle che Di Bella segue a distanza da anni e quelle che la Rando non molla mai. “Ammiro tutte queste donne. Però c’è una ragazza a cui sono molto legata: suo fratello, in carcere come anche il padre, anni fa ha ucciso la madre e lei è sola. Finito il liceo si è iscritta all’università ed è bravissima. Mi dice spesso che le manca la mamma, anche perché non è mai stato fatto ritrovare il corpo e questo la fa soffrire. Quando i suoi amici fuori sede ricevono la visita dei genitori per lei è un momento difficile ma poco tempo fami ha confidato: “Mia madre mi ha insegnato che ci possono essere tante mamme, persone che ti stanno vicino. Aveva ragione”. Ora è in Inghilterra a fare un corso e mi ha scritto: “Per la prima volta nella vita mi sento spensierata”. Viste spesso come l’anello debole della catena, le donne possono essere quello più forte perché lo spezzano. “La madre di due bambini ha scelto il nostro percorso mentre il marito era in carcere e lei in attesa di una sentenza di condanna”, prosegue la Rando. “Quando le abbiamo consigliato di lasciare che i piccoli si avvicinassero subito a una famiglia affidataria, ha rifiutato. Era infuriata con noi. Poi ha riflettuto: “È vero, per loro sarà più semplice così”. I bimbi stati dati a una coppia di professori, persone dolcissime. Due anni dopo, quando è arrivata la condanna, la mamma ha spiegato ai figli: “Ho fatto degli errori e devo andare in prigione ma fidatevi di queste persone che vogliono aiutarci”. Quando la signora ha riavuto la libertà, il legame con la famiglia affidataria era così stretto, il suo senso di gratitudine così intenso, che ancora oggi trascorrono le feste e le vacanze insieme”. Roma. Servizi in favore della popolazione detenuta: al via la gara comune.roma.it, 23 giugno 2022 Il Dipartimento Politiche Sociali ha indetto una procedura di gara aperta per l’affidamento dei servizi in favore della popolazione detenuta, dei loro familiari e delle persone sottoposte a lavori di pubblica utilità, per un periodo di 24 mesi a partire dal 1 giugno 2022 fino al 31 maggio 2024, o comunque per un periodo di 24 mesi dalla data di affidamento. Scopo quello di offrire una prestazione in favore di detenuti e di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, ex detenute e sottoposte a misure riparative, tramite un servizio di segretariato sociale interno ed esterno agli Istituti di Pena, con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale delle persone incorse in reato, in particolar modo attraverso l’accompagnamento a percorsi di inserimento o reinserimento sociale in stretta connessione con gli attori istituzionali e del privato sociale competenti in materia e favorire l’espletamento di misure riparative in favore della collettività attraverso lavori di pubblica utilità. Il costo complessivo della gara è determinato in € 562.104,71 di cui € 533.304,71 soggetti a ribasso ed € 28.800,00 non soggetti a ribasso. Roma Capitale per la gestione della gara si avvale di una Piattaforma telematica di eprocurement, denominata “TuttoGare”. Tutta la documentazione di gara, è disponibile su tale Piattaforma accessibile dal sito internet: https://romacapitale.tuttogare.it/, dove la gara stessa si svolgerà con un sistema telematico. Non saranno, quindi, prese in considerazione offerte pervenute con modalità diverse. Le buste telematiche virtuali dovranno essere caricate (upload) sulla piattaforma telematica “TuttoGare” con le modalità (prevista dalla stessa) entro le ore 12.00 del giorno 24/07/2022 all’indirizzo URL https://romacapitale.tuttogare.it secondo le modalità tassativamente previste al paragrafo 13 del disciplinare di gara scaricabile nella sezione “Documentazione”. Trapani. Consulenza notarile gratuita per i detenuti, firmata la convenzione trapanioggi.it, 23 giugno 2022 La convenzione prevede anche incontri, conferenze e percorsi formativi su tematiche socio/giuridiche di interesse generale. Firmata ieri presso i locali del Consiglio Notarile, una convenzione tra il Consiglio dell’Ordine dei Distretti Riuniti di Trapani e Marsala e la Direzione della Casa di Reclusione “Pietro Cerulli” di Trapani, per l’espletamento da parte dei Notai dei Distretti Riuniti di Trapani e Marsala, attraverso conferenze, incontri ed altro, di percorsi informativi e conoscitivi su tematiche socio/giuridiche di interesse generale, e per l’erogazione, in relazione a specifiche istanze formulate dai detenuti, di un servizio gratuito di consulenza notarile. “Il Consiglio Notarile di Trapani - ha detto il Presidente dell’Ordine dei Notai Massimo Petralia - offre già presso il proprio sito internet uno sportello telematico di consulenza gratuita per i cittadini e dunque ancor di più deve essere fatto per coloro che, trovandosi in una fase particolare della propria esistenza e versando in condizioni di sensibile disagio economico, trovano maggiori impedimenti nella piena esplicazione dei propri diritti. Il Notariato è istituzionalmente e per propria vocazione al fianco e a tutela dei soggetti più deboli ed è sempre pronto a sostenere e promuovere iniziative volte a ridurre ogni forma di sperequazione od asimmetria informativa”. “Siamo grati per la disponibilità dei Notai, è questa una importante occasione che viene offerta ai detenuti trapanesi - ha detto il Direttore della Casa di Reclusione Dott. Fabio Prestopino - un modo per portare i detenuti “fuori dal carcere”, venendo loro incontro e mettendoli nelle condizioni di attingere a consulenze ed informazioni professionali completamente a titolo gratuito”. Crotone. Tamponi per familiari dei detenuti: il Garante si fa portavoce delle difficoltà crotoneinforma.it, 23 giugno 2022 I familiari dei detenuti hanno manifestato al Garante comunale avv. Federico Ferraro l’insostenibilità dei costi per far fronte all’obbligo da tampone previsto dalle disposizioni vigenti in materia sanitaria. Si porta alla conoscenza della cittadinanza che sono pervenute a questa Autorità di garanzia diverse segnalazioni, da parte di alcuni familiari dei detenuti, in riferimento all’ obbligatorietà, per i medesimi, di effettuare tamponi negativi entro le 24 ore precedenti al colloquio nell’Istituto di pena. I familiari dei detenuti hanno manifestato al Garante comunale avv. Federico Ferraro l’insostenibilità dei costi per far fronte all’obbligo da tampone previsto dalle disposizioni vigenti in materia sanitaria. Il garante comunale ha sollecitato nei giorni scorsi le competenti autorità sanitarie, la direzione dell’Istituto detentivo ed ha segnalato al Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria la problematica esposta dai familiari dei detenuti con invito ad adottare, in considerazione delle esigenze, misure che non aggravino economicamente, le già complesse difficoltà economiche diffuse, nel periodo difficile che stiamo vivendo. L’Autorità comunale è sempre vigile nel monitoraggio dell’evoluzione pandemica tra popolazione detenuta e/o soggetti presenti a vario titolo presso la locale struttura detentiva. E’ necessario, infine, attenzionare la situazione dell’operatività delle camere di sicurezza presso i presidi di Polizia, e dare sollecito riscontro fattivo alla popolazione detenuta in riferimento alle già inviate segnalazioni relative all’impianto idrico alla luce delle problematiche riscontrate nell’ultima ispezione del garante e del verbale per l’esame di campionatura acqua potabile. Volterra (Pi). Colazione in carcere, in cucina i detenuti al fianco della chef Messeri gonews.it, 23 giugno 2022 Nel solco delle Cene Galeotte, che hanno già portato oltre 40 detenuti a trovare impiego nella ristorazione a pena terminata, nasce la colazione offerta da Unicoop: un momento di socialità in carcere e di formazione ai fornelli Oltre 16mila persone negli scorsi anni sono entrati nel Carcere di Volterra per partecipare alle Cene Galeotte, il progetto ideato dalla direzione della stessa Casa di reclusione e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore Si Scioglie. Le Cene Galeotte, che portano in cucina i detenuti e i cittadini a cena negli spazi del carcere, sono partite nel 2006 e, al netto della pausa dovuta alla pandemia, hanno rappresentato una esperienza unica. Il progetto è improntato ai valori dell’integrazione e della solidarietà e nel tempo è divenuto punto di riferimento per tanti altri istituti italiani ed europei che sperimentano oggi analoghi percorsi rieducativi. L’iniziativa infatti propone ai detenuti un percorso formativo attraverso cene periodiche aperte al pubblico e realizzate con il supporto - a titolo gratuito - di chef professionisti. Nel solco delle Cene Galeotte nasce l’evento organizzato da Unicoop Firenze per il prossimo primo luglio, quando la cooperativa offrirà una colazione speciale, firmata dalla cuoca Luisanna Messeri, a tutti i 160 detenuti della Casa di reclusione di Volterra. L’idea è quella di creare un momento di socialità per tutte le persone recluse nel carcere, riportando in cucina, al fianco di Messeri, i detenuti già impegnati in attività di ristorazione e facendo in modo che una brigata di cucina completamente composta dai detenuti e capitanata dal volto televisivo della tavola toscana cucinino per gli altri. L’esperienza delle Cene Galeotte ha evidenziato l’importanza della formazione per i detenuti e i percorsi di apprendimento in cucina, anche in collaborazione per il locale istituto alberghiero, hanno già portato oltre 40 detenuti a trovare un impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Fra le diverse ed innovative attività portate avanti dalla direzione della Casa di reclusione del borgo toscano c’è anche l’orto: uno spazio dove toccare con mano i frutti del lavoro della terra, che spesso finiscono nelle ricette di pranzo e cena dei detenuti, dove osservare le diverse stagioni e riallinearsi con i ritmi della natura. La colazione del primo luglio sarà a base dei nuovi prodotti della linea colazione Coop, lanciata a inizio estate nell’ambito della rivoluzione del prodotto a marchio. Unicoop Firenze rende possibile l’iniziativa di questa grande e gustosa colazione insieme, fornendo gratuitamente le materie prime e coprendo tutti i costi dell’organizzazione e della realizzazione dell’evento. Palmi (Rc). Venerdì prima lezione di Klaus Davi nel carcere reggiotv.it, 23 giugno 2022 Lo scopo è di fornire ai detenuti gli strumenti per comprendere al meglio il mondo della comunicazione. Venerdì 24 giugno, dalle ore 9.00, il giornalista e titolare di una prestigiosa agenzia di comunicazione d’impresa Klaus Davi terrà la prima lezione di comunicazione ai detenuti della Casa Circondariale “Filippo Salsone” di Palmi (Rc), alla presenza del garante dei detenuti Paolo Praticò. Nei prossimi mesi, Davi - titolare dell’omonima agenzia di comunicazione fondata nel 1994 che cura la comunicazione per conto di marchi, istituzioni ed enti no profit - terrà diverse lezioni di marketing in un corso semestrale, con particolare focus sull’aspetto della comunicazione sociale. Lo scopo è di fornire ai detenuti gli strumenti per comprendere al meglio il mondo della comunicazione, vero e proprio caposaldo della nostra società. È la prima volta che un personaggio conosciuto offre gratuitamente e senza alcun onere per lo Stato un supporto didattico e sistematico a un istituto carcerario, per di più ad alta sicurezza. L’istituto penitenziario di Palmi, infatti, ospita anche soggetti reclusi per 416 bis, di cui, secondo l’associazione Antigone, un quinto di essi sta scontando condanne definitive. Non è escluso che questa iniziativa possa essere replicata anche in altri istituti del Sud ma anche nel resto d’Italia. Piazza Armerina (En). La festa della musica dentro al carcere ennapress.it, 23 giugno 2022 Una festa all’insegna dell’inclusione e della condivisione. Si è svolta così, al carcere di Piazza Armerina, la Festa della musica 2022, un evento internazionale che ha toccato tantissimi istituti di reclusione. Ad esibirsi sono stati detenuti, e medici, infermieri in servizio presso l’istituto, diretti dal maestro Roberto Mistretta, affiancato per l’occasione da Marco Capizzi al basso e Christian Palermo alla batteria. Il gruppo è nato nell’ambito del progetto “Diamo voci alle emozioni” curato dalla psicologa Viviana Arangio incentrato su una riflessione sulla violenza di genere. Tra il pubblico Questore di Enna, Corrado Basile, il sindaco di Piazza Armerina, Nino Cammarata, il direttore generale della Asp, Francesco Iudica, la direttrice dell’Ulepe di Caltanissetta, Rosanna Provenzano, volontari, funzionari di servizio sociale, amici che hanno tenuto negli anni corsi di formazione. Il direttore del carcere, Antonio Gelardi in apertura ha ringraziato il personale educativo e di polizia penitenziaria e tutti che hanno lavorato per realizzare l’evento ed ha annunciato i prossimi eventi: la partita con Papà, giocata da detenuti e figli, una mostra di oggetti di ceramica realizzati dai detenuti, un progetto di lettura realizzato con l’Ulepe di Caltanissetta, Ufficio locale esecuzione penale esterna. L’esibizione è stata seguita dal pubblico con grande entusiasmo e commozione Ed è stato iniziato e concluso da J.C., detenuto rumeno al quale da pochi giorni è stata messa a disposizione una fisarmonica, strumento che da libero era suo inseparabile compagno. A conclusione un rinfresco offerto dall’istituto in segno di accoglienza e convivialità. Tutto si è svolto nel cortile esterno, adornato e profumato da fiori di lavanda piantati su idea di Noemi Rinaldi, medico, corista. Cosenza. “Carceri aperte - la partita con papà”, lunedì si gioca a calcio cosenzachannel.it, 23 giugno 2022 Il match con detenuti e figli rientra nella campagna di sensibilizzazione nazionale a cui ha aderito anche la casa circondariale “Sergio Cosmai”. “Carceri aperte - la partita con papà” è la campagna di sensibilizzazione nazionale a cui ha aderito anche la Casa circondariale di Cosenza. Il prossimo 27 giugno, infatti, presso l’istituto penitenziario “Sergio Cosmai” si terrà alle 9:30 una manifestatone che vedrà coinvolti alcuni detenuti impegnati a disputare un match di calcio con i propri figli. “Questa direzione - ha detto la direttrice Maria Luisa Mendicino - ha aderito alla campagna nazionale di sensibilizzazione organizzata dall’associazione “Bambini senza sbarre - Onlus”. La partita di calcio tra genitori detenuti e figli sarà disputata alla presenza di altri familiari. La campagna vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini ed ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i bambini che hanno il padre o la madre in carcere”. “Si ritiene - chiude Mendicino - utile pubblicizzare l’evento sia sul piano del recupero dei ristretti, sia perché l’iniziativa può senz’altro migliorare il sentimento di emarginazione e di stigmatizzatone che spesso vivono i figli dei detenuti”. Bra (Cn). In mostra a Palazzo Mathis il viaggio fotografico negli ex Opg cr.piemonte.it, 23 giugno 2022 Il 1° luglio alle 17.30 inaugura l’esposizione “Nocchier che non seconda il vento”, In mostra anche le opere realizzate dai pazienti della Rems “San Michele”. Un doppio, eccezionale evento espositivo è in programma a Bra nella prestigiosa sede di Palazzo Mathis. In contemporanea saranno allestite due mostre parallele e, per certi versi, convergenti. Durante tutto il mese di luglio si potranno, infatti, vedere gli scatti “storici” sui vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) e le opere realizzate dai pazienti della Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) San Michele di Bra. Si tratta di un doppio percorso di immagini e testimonianze che potrà costituire una sorta di “Ieri, oggi e domani” della presa in carico dei “folli-rei” nel nostro Paese. Le due mostre, organizzate dal Comune di Bra in collaborazione rispettivamente con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte e la Rems “San Michele” di Bra sono: “Nocchier che non seconda il vento - viaggio negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Italiani alla vigilia della chiusura”. Le immagini della mostra, presentate in 12 riproduzioni di grande formato stampate in “fine-art”, sono state realizzate nell’ambito del progetto “Stampatingalera” di “Sapori Reclusi” per l’Associazione “Allievi del Master di Giornalismo Giorgio Bocca”, con il lavoro dei detenuti in Alta Sicurezza della Casa di Reclusione di Saluzzo ed il finanziamento della Compagnia di San Paolo. Gli scatti sono stati catturati dal fotografo torinese Max Ferrero tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 negli Opg di Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere (Mn), Montelupo Fiorentino (Fi) e Aversa (Ce), alla vigilia della loro definitiva chiusura decisa dalla legge 81/2014. Una pagina di storia tragica, ma ancora relativamente recente. La mostra è curata dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. “Rems: Le Realtà di un’Esistenza Maledettamente Speciale. Storie, parole, emozioni, immagini, suoni. La Rems si racconta”. Immagini, disegni, fotografie, allestimenti scenici, installazioni artistiche, audio-video, elaborati e manufatti che testimoniano l’attualità di un presidio sanitario di eccellenza, che quotidianamente si confronta con il territorio e le istituzioni per garantire la miglior presa in carico dei soggetti loro affidati dalla magistratura. La mostra si propone di raccontare il percorso dei pazienti all’interno della residenza e vuole rappresentare uno sguardo di reciproca comprensione, che attraversa le barriere. La Rems è una struttura convenzionata con il Servizio Sanitario Regionale. Mostra a cura degli ospiti e degli operatori della REMS “San Michele” di Bra. L’inaugurazione del doppio percorso espositivo sarà venerdì 1° luglio alle 17,30 e si svolgerà nel cortile d’onore del Palazzo Mathis (piazza Caduti per la Libertà, 20, Bra). Si tratterà di un evento pubblico di riflessione sul percorso di superamento degli Opg, la nuova presa in carico sanitaria dei pazienti, la realizzazione della rete delle Rems e la definizione di una ampia platea di risposte individualizzate per corrispondere alle esigenze dei pazienti, delle famiglie, del territorio. Sono previsti brevi interventi di qualificati operatori ed esperti e sarà possibile effettuare una visita “guidata” alle mostre. Durante l’inaugurazione andrà in scena uno stralcio dello spettacolo teatrale “Radio Rems”, interpretato dagli ospiti della struttura di Bra e realizzato in collaborazione con l’Associazione “Voci Erranti”. Le due esposizioni saranno visitabili dal 1° al 31 luglio, il lunedì, giovedì e venerdì in orario 9 - 12,30 e 15 - 18, il sabato e la domenica dalle 9 alle 12,30. L’ingresso è libero. Per informazioni è possibile contattare l’Ufficio Turistico della Città di Bra telefono: 0172.430185, posta: turismo@comune.bra.cn.it. Contro la deriva autoritaria servono scelte radicali sulla disuguaglianza di Fabrizio Barca* Il Domani, 23 giugno 2022 Il tema delle disuguaglianze, di reddito, di ricchezza e di opportunità, è da tempo in cima alle priorità del paese e può essere affrontato solo se si agisce con decisione”, scrive Carlo De Benedetti, editore di Domani. Si rivolge al segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che interverrà alla festa di Domani a Modena, sabato, chiedendo “proposte nette, tanto ambiziose quanto serie… un programma forte che dia speranza a chi l’ha persa e spinga gli elettori che si sono rifugiati nell’astensione ad abbracciarlo”. Sono le stesse parole che ascolti girando in tanti angoli del paese dove c’è effervescenza sociale, imprenditoriale e pubblica. Dove la trasformazione ecologica diventa buoni lavori e vantaggi per i più vulnerabili, dove nuove forme di welfare migliorano la cura delle persone e liberano le donne da ruoli subalterni, dove giustizia sociale e ambientale marciano unite, dove a disegnare le politiche è il confronto democratico di saperi locali e globali. Sì, perché in Italia succede anche questo, altrimenti, fosse per i parlottii romani - o milanesi e palermitani, per intenderci - saremmo già affondati. Ma quell’effervescenza non basta. Il sistema è guidato da politiche vecchie, che ancora si baloccano di semplificazioni che complicano, di bandi di gara che uccidono la creatività, di assunzioni in Pa che scoraggiano chi cerca sfide, di bonus anziché di servizi, di monitoraggi ottocenteschi, di paternalismo verso i giovani senza trasferire loro potere, di “gran cambiamenti per le donne” perché nulla cambi. Politiche che, anziché cogliere la potenzialità straordinaria della svolta ecologica, frenano il cambiamento, rischiando, loro sì, di provocare un “bagno di sangue” al paese. E dunque serve una svolta di sistema. E se non verrà presto, se si continuerà a lavorare “al margine”, senza indicare gli avversari del cambiamento, senza costruire spazi di democrazia partecipata dove la rabbia e il risentimento divengano conflitto e cambiamento, allora tornerà a spirare il vento potente dell’autoritarismo. Se una larga parte di tutti noi continuerà a essere convinta che un futuro più giusto è una chimera, allora ai più vulnerabili, che non possono “fuggire”, resterà solo di rintanarsi nell’illusorio sogno di un’identità delle origini, dove “gli altri” divengono nemici, dove “almeno” qualcuno comanda. Era la tendenza in atto, da noi come in tutto l’occidente, prima dell’esplodere della pandemia. Tornerà ora, rafforzata. Miserabile ma appagante. Questa è la biforcazione. La conservazione dello status quo è illusoria. È l’anticamera dell’autoritarismo. Ecco perché è così importante che il linguaggio, le visioni, il metodo, le proposte “tanto ambiziose quanto serie” che emergono dall’effervescenza culturale, sociale e politica che è sottotraccia penetrino nel sistema. Come? Mentirei se dessi una ricetta. Ma so due cose. Che intanto, in ogni angolo del paese, è decisivo continuare a mettercela tutta, a sperimentare e rendere più robusti quel metodo e quelle proposte, esprimendo nuova classe dirigente. E intanto va raccolta ogni opportunità per portare le nostre idee a livello di sistema. Ogni opportunità. È con questo spirito che noi del ForumDD, in alleanza con altre reti, abbiamo portato dentro le Agorà democratiche del Pd cinque proposte, che aggrediscono con forza e rigore altrettanti “ostacoli al pieno sviluppo della persona umana” (Cost. art.3). Abbiamo valutato e ci è piaciuto il disegno delle Agorà, pur critici come siamo (spesso molto critici) dell’azione di quel partito, perché le regole del gioco sono quelle di un confronto informato, acceso, ragionevole e aperto. E allora, abbiamo illustrato le proposte, le abbiamo discusse con cento-duecento persone ogni volta, di ogni età e opinione. E poi le abbiamo sottoposte al voto, previsto dalle Agorà. Fra oltre 900 proposte, le nostre cinque sono le più votate, con un consenso che approssima il numero dei partecipanti. Non esauriscono certo i fronti di trasformazione urgente del paese, ma ne coprono una parte importante e spaziano dal locale al globale. Ecco i titoli, in ordine di sostegno raccolto: eredità universale tassando i vantaggi di pochi; istituire imprese pubbliche europee ad alta intensità di conoscenza su salute, transizione ecologica e digitale che liberino l’innovazione dal blocco dei monopoli; riformare l’accordo internazionale TRIPs per una conoscenza che sia bene globale; patti educativi di comunità come politica ordinaria di contrasto alla povertà educativa; i consigli del lavoro e della cittadinanza nell’impresa per democratizzare l’economia e dare voce al lavoro e all’ambiente. Su queste e su altre proposte “ambiziose quanto serie” che molte reti sociali e il ForumDD hanno “estratto” dalla ricerca e dalle sperimentazioni del paese - sui servizi per gli anziani non autosufficienti, la condivisione e gestione collettiva dei dati, la casa, le aree interne, ecc. - attendiamo il confronto nei prossimi mesi che ci condurranno al voto, nel Pd e nell’intero arco delle forze emancipatrici. Per sapere così su cosa si batteranno in parlamento i candidati che saremo chiamati a votare. Se si pensa di fermare la svolta autoritaria solo evocandone i rischi, si commette un gravissimo errore. Solo proposte radicali e credibili di giustizia sociale e ambientale possono fermare la slavina dell’astensionismo, anticamera dell’autoritarismo. *Forum Disuguaglianze Diversità Prevenire il suicidio, l’Italia recupera il vuoto normativo e vara un Piano Nazionale di Elisa Manacorda La Repubblica, 23 giugno 2022 In Italia almeno 4 mila casi l’anno, aumentati con la pandemia. Il nostro Paese era l’ultimo tra quelli avanzati a non avere una legge sulla prevenzione. Istituito anche un numero verde. Per chi si occupa del tema - spinoso, respingente, doloroso quant’altri mai: un tema che tendiamo a nascondere persino a noi stessi - quella del 14 giugno è stata una giornata memorabile. La Camera ha infatti approvato la mozione dell’onorevole Cristian Romaniello (un passato nel Movimento 5 Stelle e oggi presidente della componente parlamentare dei Verdi), per l’adozione di un Piano nazionale di prevenzione del suicidio. In Italia almeno 4 mila suicidi l’anno - “Finalmente l’Italia - unico tra i paesi avanzati a non averne una - dovrà dotarsi di una strategia nazionale”, dice Romaniello. Una tappa importante, fondamentale in un percorso di civiltà teso ad arginare una grande piaga del nostro paese, continua Romaniello, considerando che il suicidio è tra le primissime cause di morte tra i giovani, la seconda per i giovani adulti. In Italia si stimano circa 4.000 suicidi l’anno. Un dato che però non tiene conto del dato sommerso, composto da tutti i suicidi che non vengono calcolati per assenza di strumenti adeguati. La mancanza di dati aggiornati - Ora i ministeri dovranno mettersi al lavoro per implementare le indicazioni contenute della mozione: in primo luogo un Osservatorio nazionale sul fenomeno, che funga anche da centro studi: “Ancora oggi ragioniamo su dati del 2017 - spiega Romaniello - e nel frattempo c’è stata una crisi economica spaventosa, una emergenza pandemica globale e ora la guerra. Sconvolgimenti epocali che hanno certamente influito sul fenomeno. È fondamentale avere ogni anno dati aggiornati per ricostruire un quadro completo e poter agire di conseguenza”. Istituito un Numero Verde nazionale - Nella mozione, approvata all’unanimità con la sola assenza di Fratelli d’Italia, è contenuto anche un secondo strumento. Si tratta di un numero verde nazionale, un centro di ascolto sulla falsariga di quello messo in piedi dalla Regione Veneto, InOltre. “I dati dicono che nei due anni di pandemia le richieste di aiuto e supporto sono state l’equivalente di quelle ricevute negli otto anni precedenti”, sottolinea l’onorevole. E pur trattandosi di un servizio psicologico offerto da quella Regione, le chiamate sono arrivate persino dalla Sicilia. “Noi invece dobbiamo dimostrare che lo Stato risponde a chi è in difficoltà, che si prende carico del disagio e indirizza verso il supporto”. Per fare questo ci vogliono però degli operatori professionisti, formati a valutare il rischio suicidario di chi chiama grazie a strumenti di rilevamento validati. La prevenzione secondaria - Un altro grande capitolo è quello dei servizi post-evento, cioè della prevenzione secondaria. “Sappiamo - continua Romaniello - che chi ha tentato il suicidio e ha fallito è ad altissimo rischio di provarci ancora. Ma con lui (o lei - le donne tentano il suicidio più degli uomini ma con mezzi meno letali) sono molto a rischio anche le persone che fanno parte della sua cerchia ristretta, i familiari in primo luogo. Per costoro deve essere prevista una presa in carico che scongiuri ulteriori eventi”. Le categorie più a rischio - Poi è necessario potenziare la ricerca di settore, per focalizzare l’attenzione sulle categorie considerate più fragili da questo punto di vista, gli emarginati, i discriminati, quelli in condizioni di povertà. Le forze dell’ordine (la polizia penitenziaria in primo luogo), la popolazione carceraria, il mondo Lgbt. “Per le Forze armate, contesto dove il rischio suicidario è più alto rispetto alla popolazione generale, saranno adottate iniziative affinché si attivino servizi di intervento psicologico attraverso risorse già operanti all’interno ma anche all’esterno di esse, per evitare l’effetto stigma presente, ma modificabile con la cultura della prevenzione”, dice Romaniello. E poi i ragazzi, con interventi mirati nelle scuole. È importante, prosegue il promotore della mozione, che i giovani possano parlare del tema. Il suicidio non va nascosto al contrario, come suggerisce lo psicoterapeuta Matteo Lancini, andrebbe “monumentalizzato” per renderlo visibile e contemporaneamente destigmatizzato. Non bisogna avere paura del desiderio della morte. Solo dando informazioni corrette possiamo far capire agli adolescenti che ci sono altre strade per uscire dal disagio e dalla sofferenza. L’importanza di parlarne - Parlarne, dunque. Ma in che modo? Quello della comunicazione è un punto importante. A volte tendiamo a non affrontare il tema perché temiamo l’effetto contagio. In realtà tutto sta nell’usare le parole e il tono giusto. Certo, se ci soffermiamo sulla facilità con cui un giovane ha reperito i farmaci per togliersi la vita non facciamo un buon servizio al lettore o allo spettatore, e rischiamo l’effetto contagio. Ma se accompagniamo la notizia con le informazioni relative ai servizi di supporto, alle associazioni di volontariato, se mostriamo che lo Stato c’è e sa indicare una via d’uscita alternativa alla morte, stiamo facendo prevenzione. “Perché le persone, prima di tentare il suicidio, le provano un po’ tutte per cercare ascolto”, continua Romaniello. E se lo trovano, possono rimettere mano ai loro piani. Un nodo da sciogliere: la disponibilità di armi da fuoco - La mozione approvata qualche giorno fa è il punto di arrivo di un percorso lungo e tormentato: il primo firmatario ci lavora dal 2018, quando si è accorto di un vuoto normativo nel nostro paese. “Avevo depositato una proposta di legge che era piaciuta a tutti i colleghi. Almeno a parole: perché poi c’era sempre qualcosa di più urgente di cui occuparsi”, dice il deputato, “così ho deciso di tentare il tutto per tutto e ho proposto una mozione da portare in Aula”. L’unico neo, aggiunge Romaniello, è non aver potuto calcare la mano su un aspetto importante: la disponibilità di armi da fuoco, in generale ma soprattutto in ambiente domestico. La materia è complessa, e non è una mozione il luogo adatto per trattare il tema della loro riduzione. E però nella mozione si chiede di fare campagne informative per migliorare quantomeno la detenzione delle armi da fuoco, esprimendo il rischio suicidario che deriva da questi strumenti. “La ricerca internazionale ci dice infatti che là dove viene ridotto il numero di armi in circolazione, non solo si riducono omicidi e incidenti, ma anche i suicidi con pistole, fucili e persino quelli portati a termine con altre modalità. “L’arma da fuoco ha un potente significato di morte nel nostro immaginario collettivo”, conclude il parlamentare, “toglierle di mezzo lo depotenzia. E mai come le recenti notizie arrivate dagli Stati Uniti ci fanno capire che in Italia dovremo lavorare anche su questo aspetto”. Migranti. Accoglienza, una proposta di riforma dall’interno del sistema di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 giugno 2022 Le proposte del Tavolo immigrazione e asilo a 20 anni dalla legge Bossi-Fini e dalla nascita dello Sprar. A 20 dalla legge Bossi-Fini e dalla nascita del sistema di accoglienza diffusa Sprar, oggi rete Sai, il Tavolo nazionale asilo e immigrazione avanza una proposta di riforma in sei punti che nasce da uno studio condotto tra gli operatori. Isolata, rassegnata, con le sole proprie forze è la ricerca, realizzata tra giugno 2020 e settembre 2021, che ha raccolto il punto di vista di chi ogni giorno si confronta con i limiti e le opportunità del sistema italiano, ma ha rare occasioni di far emergere il proprio punto di vista. 60 operatori con 15 o più anni di esperienza, richiedenti asilo e rifugiati e 112 lavoratori rappresentativi di 19 regioni e 966 strutture hanno risposto a una serie di quesiti orientati a fornire una lettura sistemica dello stato dell’arte dei centri e dei progetti di accoglienza. Emerge l’idea che i punti di forza del sistema sono l’accoglienza nei piccoli appartamenti, la competenza degli operatori e la progettazione individualizzata. Mentre gli aspetti più problematici riguardano le grandi strutture, le procedure amministrative e la volontarietà dell’adesione dei comuni al sistema Sai (l’acronimo sta per Sistema di accoglienza e integrazione). Un altro punto debole è la mancanza di obiettivi condivisi tra tutti gli attori impegnati nell’accoglienza dei cittadini stranieri. “La rete costruita è ancora, dopo molti anni, fondamentalmente fragile perché legata alle persone. È la disponibilità e sensibilità dei singoli a garantire il superamento delle barriere. In generale c’è il senso che per i rifugiati ogni cosa sia un favore”, si legge nel rapporto. Le percezioni maggiormente diffuse tra gli operatori riguardano tre caratteristiche dell’accoglienza italiana: troppa burocrazia, che ostacola lo sviluppo dei servizi; auto-organizzazione, cioè capacità del terzo settore di produrre autonomia e integrazione; competenza e professionalità degli operatori come elementi capace di fare la differenza. Restano le difficoltà legate a una governance frammentata e al welfare territoriale non integrato. “La ricerca cattura uno stato di “rassegnazione” del mondo dell’accoglienza, il cui impegno riece a ottenere importanti risultati nonostante la criticità di un sistema sempre più burocratizzato e una mancata integrazione al welfare territoriale”, conclude lo studio. Secondo cui mancano idee e programmazione per migliorare e far crescere il sistema, che al 15 giugno scorso ospitava 88.918 persone. A partire da questi risultati il Tavolo immigrazione e asilo, coalizione che raggruppa le principali organizzazioni della società civile impegnate per promuovere i diritti delle persone migranti, avanza al governo una proposta di riforma dell’accoglienza in sei passi. Innanzitutto trasferire le funzioni amministrative ai comuni, sulla base di quote stabilite proporzionalmente agli abitanti, e trasformare il Sai nel sistema unico, mettendo fine al “modello binario”. Questo continua a dare priorità ai Cas, i centri di accoglienza straordinari diventati ormai norma. Le associazioni chiedono poi di fermare la proliferazione di queste strutture e attuare un programma nazionale per il loro superamento, attraverso la progressiva sostituzione dei posti con quelli dei progetti Sai. Per farlo, sostengono, occorre anche modificare i capitolati di gestione dei Cas che premiamo le grandi strutture, nonostante funzionino peggio. Altre richieste riguardano un diverso rapporto con gli enti locali, per una programmazione condivisa e modalità di consultazione permanenti, e il sostegno all’accoglienza in famiglia. Questo canale ha avuto un’accelerata dopo la recente crisi ucraina e l’arrivo di oltre 137mila persone. L’associazione Refugees Welcome Italia, impegnata a mettere in contatto italiani disponibili a ospitare e cittadini stranieri, chiede adesso un sostegno economico per tutte le famiglie che accolgono evitando ingiustificate discriminazioni. Cannabis, primo via libera. Ora si va in Aula di Giacomo Puletti Il Dubbio, 23 giugno 2022 Soddisfatto Riccardo Magi di +Europa: “Occasione preziosa”. Ira del centrodestra: pronti alla battaglia in aula. Via libera della commissione Giustizia di Montecitorio alla legge che dà la possibilità ai cittadini di coltivare 4 piante di cannabis nella propria abitazione per uso personale. La discussione generale, inizialmente era prevista per domani, slitterà a mercoledì prossimo, quando verrà esaminata assieme allo Ius Soli, come deciso dalla conferenza dei capigruppo. L’ok della commissione, arrivato grazie al voto compatto del centrosinistra, ha mandato su tutte le furie il centrodestra, con Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia pronti alla battaglia in Aula. “Non so cosa deciderà la Camera sulla cannabis e non spetta a me decidere, ma so che al Senato aperture sulle droghe non passeranno mai - ha twittato subito dopo il voto il senatore azzurro Maurizio Gasparri - Capitolo chiuso”. Dando pane per i propri tempi al dimissionario Elio Vito, in procinto di lasciare Forza Italia. “Ebbene sì, l’ho fatto, finalmente, dopo anche l’ultimo post protervo, arrogante, sulla cannabis, ho bloccato Gasparri - ha scritto sui social l’eretico azzurro - Che soddisfazione”. Per poi commentare un post del leader della Lega, Matteo Salvini, che esprimeva contrarietà alle canne con un “con tutti i problemi che hai, dovresti fartene una”. Una mossa che non è piaciuta ai suoi ex compagni di coalizione del Carroccio, e in particolare a Jacopo Morrone. “Suggerisco all’ex forzista Elio Vito un passaggio a San Patrignano ad ascoltare di persona le testimonianze sugli effetti dell’assunzione di droghe - scrive il deputato - E in particolare gli chiedo di soffermare l’attenzione sui giovanissimi quasi tutti consumatori di cannabis: prima di insultare chi, come Matteo Salvini, pensa che la droga, ogni droga, faccia male, Vito rifletta sui falsi valori che si trasmettono in nome di un mal compreso libertarismo”. Una voce contraria è arrivata anche dal sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, in quota Lega. “Nel momento in cui si sta lavorando per aumentare gli organici delle Forze di Polizia e rispondere alla crescente domanda di sicurezza che viene dai territori, il segnale che arriva con il via libera alla proposta di legge sulla cannabis va in senso opposto - spiega Molteni - È un gravissimo errore”. Soddisfatto invece il primo firmatario della proposta di legge, Riccardo Magi di +Europa, secondo cui il testo rappresenta “un’occasione preziosa”. Cannabis legale, il momento è ora: facciamoci sentire di Antonella Soldo* Il Riformista, 23 giugno 2022 Arriva in Aula alla Camera la proposta di legge che depenalizza l’auto-coltivazione di 4 piantine. Oggi a Roma abbiamo organizzato “Un giorno legale”, un grande evento per far sentire alle istituzioni l’urgenza di questa battaglia. È arrivato il via libera dalla commissione Giustizia sul disegno di legge che depenalizza la coltivazione domestica di 4 piantine di cannabis. Nella seduta di ieri i membri della Commissione hanno terminato la fase di votazione degli emendamenti - ne erano stati presentati circa 600, perlopiù ostruzionistici - permettendo così al testo di approdare alla Camera dove nei prossimi giorni verrà esaminato e discusso. Ci sono voluti più di due anni da quando il deputato Riccardo Magi, primo firmatario, ha depositato il disegno di legge e ha dato il via al giro di audizioni in cui decine e decine di auditi si sono espressi a favore del testo della legge per numerose motivazioni: per la lotta alle mafie, per evitare che milioni di consumatori siano costretti a rivolgersi nelle piazze di spaccio quando potrebbero coltivare cannabis nella propria abitazione; per la giustizia, per liberare il sistema giudiziario da inutili processi di una guerra alla droga che riempie le carceri di consumatori, pazienti e piccoli spacciatori; e per la salute, per assicurare la continuità delle terapie per i pazienti che fanno uso di cannabis regolarmente, colmando l’insufficienza della produzione italiana. È previsto per venerdì l’arrivo in Aula del testo che se approvato recepirebbe le indicazioni delle Corti italiane, in particolare delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno stabilito come non possa essere considerato reato, e quindi punibile con il carcere, la coltivazione domestica di piante di cannabis per uso personale. Inoltre, il testo seguirebbe persino le indicazioni dettate dalla Conferenza nazionale sulle dipendenze tenutasi lo scorso novembre quando il Governo ha approvato tra le principali linee guida la decriminalizzazione dei reati di lieve entità legati alla cannabis. Adesso, quindi, tocca al Parlamento e per mantenere viva l’attenzione sui lavori parlamentari, abbiamo organizzato per oggi 23 giugno “Un giorno legale”, un evento interamente dedicato alla legalizzazione della cannabis al Monk di Roma con ben oltre 80 ospiti che si susseguiranno in dibattiti, workshops e confronti. L’obiettivo infatti sarà proprio chiamare a raccolta tutte le realtà e le associazioni antiproibizioniste che hanno promosso il Referendum Cannabis per far sentire alle istituzioni la necessità e l’urgenza di questa battaglia. E proprio per ricordare chi ci ha messo animo, passione e impegno, inizieremo la giornata con l’inaugurazione di un murale a Walter De Benedetto, come tributo e ringraziamento del suo instancabile coraggio. L’ultimo disegno di legge sulla cannabis arrivato in aula alla Camera risale all’estate del 2017. In quell’occasione i parlamentari ebbero, appunto, poco coraggio e decisero di rimandarlo in commissione, decretando la sua fine. Con Meglio Legale e con tutto il mondo antiproibizionista, faremo in modo che adesso questo non accada e ci batteremo per far approvare alla Camera un testo che toglierebbe alle mafie una larga fetta di mercato nero. Per Walter, per i milioni di consumatori, per la legalità di questo Paese. *Coordinatrice di Meglio Legale “Lo stupro, un crimine contro l’umanità” di Fabrizia Giuliani La Stampa, 23 giugno 2022 A poche settimane dall’invasione russa dell’Ucraina, dopo gli orrori di Bucha e le testimonianze delle donne sopravvissute alle violenze dei soldati, Nadia Murad tornò a lanciare il suo appello per il riconoscimento dello stupro come crimine contro l’umanità. Murad è forse la voce più autorevole in materia: nel 2014 venne rapita e torturata con altre donne della minoranza yazida a Mosul, in Iraq. Da allora, il suo impegno nel contrasto alla violenza come arma di guerra è stato continuo e tenace, tanto da portarla a vincere il premio Nobel per la pace nel 2018. Murad capisce cosa è accaduto e cosa sta accadendo in Ucraina, per questo ha voluto mandare alle donne un messaggio che non si limita alla solidarietà ma sollecita un traguardo concreto: il riconoscimento della violenza sessuale come arma di guerra e genocidio, lesione dei diritti umani. Qui, davvero le parole pesano e non solo per il valore giuridico che possono assumere: mostrano come la storia, con la sua scia di violenza, non passa invano. La consapevolezza conquistata dalle donne, a volte al prezzo della vita, lavora per cambiare il corso degli eventi. Lotta contro la rassegnazione che vede gli stupri come effetti collaterali inevitabili di ogni conflitto, il prezzo che bambine, ragazze, donne pagano al passaggio dei soldati; l’ineliminabile dividendo patriarcale di cui nessuno chiederà il conto e per cui nessuno pagherà il prezzo. Murad e le sue compagne dicono invece che la storia va. La coscienza del valore della propria vita, la lotta per l’integrità del corpo mettono in moto una potente richiesta di cambiamento che investe le norme e il senso comune, persino in guerra. Chiedono che il male sia chiamato per nome, ossia che la lesione dei diritti umani resti tale anche quando colpisce le donne. Se la violenza non è stata più solo vergogna e umiliazione privata, ma crimine di guerra lo si deve alla forza di questa nuova consapevolezza. Non ci si deve stupire, dunque, che l’appello di Murad sia stato accolto anche in Italia, su sollecitazione di una campagna portata avanti da iniziative nazionali e transnazionali - tra tutte, la “Transnational Feminist Solidarity with Ukranian feminists: an online gathering”, attiva soprattutto nei Paesi dell’Est europeo. Ieri il Senato, su iniziativa della Commissione speciale per i diritti umani, ha approvato all’unanimità una mozione che chiede al nostro Paese di impegnarsi fattivamente perché lo “stupro possa essere riconosciuto come atto di natura genocidaria” come ha ribadito nel suo discorso in Aula una delle promotrici dell’iniziativa, la senatrice Valeria Fedeli. C’è da augurarsi che questa iniziativa venga ripresa dall’altro ramo del Parlamento e in altri Paesi europei, che se ne capisca il senso e il valore. Sarebbe una risposta all’altezza dello sforzo fatto ora da Kiev con l’approvazione della Convenzione d’Istanbul, un contributo alla definizione del comune spazio europeo. Il “cacciatore di nazisti” americano che indaga sui crimini di guerra in Ucraina di Davide Lerner Il Domani, 23 giugno 2022 Il procuratore generale degli Stati Uniti Merrick Garland ha annunciato che Eli Rosenbaum, per 15 anni direttore dell’Ufficio investigazioni speciali americano incaricato di identificare e perseguire i criminali di guerra nazista riparati negli Usa, è stato scelto per dirigere una squadra del dipartimento di Giustizia che indagherà sui crimini di guerra commessi in Ucraina. “Non esistono nascondigli per i criminali di guerra”, ha detto Garland durante una visita nel paese, in cui ha promesso di sostenere le indagini delle autorità ucraine. “Il dipartimento di Giustizia è pronto a percorrere qualsiasi strada affinché chi ha commesso crimini di guerra e altre atrocità in Ucraina sia chiamato a risponderne”. Il sessantasettenne Rosenbaum guiderà un War Crimes Accountability team di esperti nel campo delle violazioni di diritti umani e altre atrocità, incaricato di contribuire e sostenere le indagini in corso fornendo assistenza tecnico-operativa e consulenze per la raccolta prove, scienza forense e analisi legale. Inoltre la squadra seguirà i casi che possano ricadere sotto la giurisdizione degli Stati Uniti, come quelli che coinvolgano cittadini americani. Si pensi per esempio a Brent Renaud, giornalista americano rimasto ucciso durante i combattimenti lo scorso marzo a Irpin, vicino a Kiev. Cacciatore di nazisti - “Eli Rosenbaum è un veterano con 36 anni di esperienza al dipartimento di Giustizia ed è stato direttore dell’Ufficio investigazioni speciali, responsabile di identificare, revocare la cittadinanza e deportare i criminali di guerra nazisti”, recita il comunicato ufficiale. “Come Counselor for War Crimes Accountability coordinerà gli sforzi del dipartimento e del governo federale”. Descritto come “cacciatore di nazisti” dai media americani - un epiteto che lui non ama - Rosenbaum secondo la Cnn ha seguito direttamente nel suo ultimo ruolo al dipartimento di Giustizia almeno 100 casi per il ritiro della cittadinanza o l’espulsione dagli Stati Uniti di ex criminali nazisti. Approdato all’Ufficio investigazioni speciali come stagista nel 1979, l’anno della fondazione, è stato poi direttore dal 1995 al 2010, quando l’agenzia è stata assorbita nel dipartimento di Giustizia. Da allora è stato dirigente responsabile dei diritti umani presso l’unità Human Rights and Special Prosecutions della Domestic Security Section, la nuova configurazione dell’istituto. Il male oltre l’Olocausto - L’anno prima, nel 2009, Rosenbaum aveva dichiarato al New York Times che “c’è ancora un po’ di tempo per portare queste persone davanti alla giustizia, e non dobbiamo assolutamente fallire”. Ma già da qualche anno, dal 2004, l’Ufficio investigazioni speciali aveva esteso il proprio ruolo oltre le indagini dei criminali nazisti, per includere atrocità più recenti, come quelle commesse in Bosnia o in Ruanda. Un rappresentante del Simon Wiesenthal Center, un’organizzazione dedicata alla memoria della Shoah e intitolata a Simon Wiesenthal, il sopravvissuto austriaco e cacciatore di nazisti più famoso al mondo, approvava la modifica di mandato dichiarando allo stesso giornale che “sappiamo tutti che è il male non si è esaurito con l’Olocausto nazista”. “Avevo conosciuto molte persone che hanno fatto cose eroiche durante la Seconda guerra mondiale”, spiegava all’epoca Rosenbaum. “Ma non avevo mai incontrato persone che le stessero facendo nel momento in cui ci vedevamo, che rischiavano la propria vita talvolta per il solo fatto di accettare di interagire con noi”. Fra le indagini più importanti condotte da Rosenbaum spicca quella di Kurt Waldheim, un ex segretario generale delle Nazioni unite e presidente austriaco. L’unità dell’esercito a cui apparteneva durante la Seconda guerra mondiale aveva commesso crimini di guerra ai danni di ebrei e partigiani iugoslavi fra il 1942 e il 1944. Figlio d’arte - Il procuratore che ora si appresta a lavorare a casi come il massacro di Bucha, vicino Kiev, è in un certo senso anche un figlio d’arte. Il padre Irving Rosenbaum si era unito all’esercito americano dopo essere fuggito da Dresda nel 1938, e aveva fatto parte di un’unità di intelligence responsabile di interrogare soldati tedeschi nonché di raccogliere informazioni presso il campo di concentramento di Dachau. L’annuncio del procuratore generale Usa Merrick Garland, arrivato quando Rosenbaum si preparava ormai ad andare in pensione, è avvenuto durante un viaggio a sorpresa in cui ha incontrato la controparte ucraina Iryna Venediktova nel villaggio di Krakovets, a ridosso della frontiera polacca. Garland ha rilasciato dichiarazioni molto dure nei confronti di Mosca. “Gli Stati Uniti sono al fianco del popolo ucraino di fronte alla continua aggressione della Russia alla sovranità e all’integrità territoriale del loro paese”, ha detto. “L’America e il mondo hanno visto le tante immagini terrificanti e hanno letto i resoconti struggenti delle brutalità e delle morti causate dall’ingiusta invasione russa dell’Ucraina”, ha ammonito. Contestualmente alla nomina di Eli Rosenbaum e alle promesse di assistenza rivolte alle autorità giudiziarie ucraine, Garland ha anche reso note nuove iniziative per contrastare l’evasione delle sanzioni contro la Russia e altre forme di finanziamento illecito che avvantaggino Mosca. Ha messo a disposizione dell’Ucraina un procuratore dedicato che aiuti a contrastare “cleptocrazia, corruzione e riciclaggio di denaro”, specifica il comunicato del dipartimento di Giustizia Usa, che va a complementare gli sforzi di una “KleptoCapture Task Force” lanciata in marzo all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. Arabia Saudita. Mezzo mondo dimentica l’omicidio Khashoggi di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 giugno 2022 Il principe ereditario Mohammed Bin Salman nel giro di pochi giorni ha incontrato il presidente egiziano al Sisi, il re di Giordania Abdullah II, il capo di Stato turco Erdogan e a metà luglio stringerà la mano del presidente americano Joe Biden. In questo momento si può dire tutto del principe ereditario Mohammed Bin Salman (Mbs) tranne che sia isolato. Nel giro di pochi giorni ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fettah al Sisi, il re di Giordania Abdullah II, il capo di Stato turco Recep Tayyip Erdogan e a metà luglio stringerà la mano del presidente americano Joe Biden. Questi ultimi due incontri sanano definitivamente la frattura che si era creata con l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuta nel consolato di Riad a Istanbul nel 2018. Allora Mbs era stato considerato tra i mandanti dell’omicidio da varie inchieste portate avanti dall’Onu e dalla Cia, lo stesso Erdogan accusava del delitto “le più alte sfere del potere saudita”. Qualche mese fa, in nome degli affari, la marcia indietro di Ankara, il frettoloso trasferimento del processo per l’omicidio a Riad e la visita in Arabia Saudita. Ieri l’accoglienza in pompa magna, con baci e abbracci, nel palazzo presidenziale di Ankara. Allo stesso modo Biden si è rimangiato la promessa di far pagare a Riad un prezzo per l’assassinio: “Li renderemo i pariah che sono” aveva detto nel 2019, due anni prima di arrivare alla Casa Bianca. Oggi, però, la guerra in Ucraina, i crescenti costi dei carburanti e l’inflazione interna rendono il petrolio saudita talmente strategico da giustificare il cambio di rotta. Soprattutto in vista delle elezioni di midterm. Il percorso di riabilitazione di Mbs ha indignato molti, in primis Hatice Cengiz, la donna turca che Khashoggi aveva intenzione di sposare. Era proprio per ottenere i documenti necessari alle nozze che il giornalista, quel giorno, si era recato nel consolato saudita di Istanbul. Lei, ieri, ha rilasciato dichiarazioni indignate: “Mi oppongo a tutto ciò. Il corpo di Jamal non è mai stato ritrovato e quelli che lo hanno ucciso sono rimasti impuniti”. Ma, ha sottolineato su Twitter, “la legittimazione che Mbs ottiene con visite in vari Paesi non cambia il fatto che è un assassino”. L’Onu: “In Iran oltre 100 esecuzioni tra gennaio e marzo” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 giugno 2022 L’Iran ha eseguito la condanna a morte di più di 100 persone nei primi tre mesi del 2022, tra cui molti detenuti appartenenti a minoranze etniche, secondo un rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite presentato ieri. Circa 260 persone sono state messe a morte nel 2020 e almeno 310 l’anno scorso, ha detto la vice Alta commissaria per i diritti umani dell’Onu, Nada Al Nashif, presentando l’ultimo rapporto di Antonio Guterres sull’Iran al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. “La pena capitale continua ad essere decisa per crimini che non rientrano tra i più gravi e questo viola le norme internazionali per un processo equo” ha spiegato Nada Al-Nashif. A marzo sono stati 52 i detenuti accusati di traffico di droga trasferiti nella prigione di Shiraz per essere messe a morte. Un altro punto dolente sono le esecuzioni di giovani: tra agosto 2021 e marzo 2022 almeno due minorenni sono finiti sul patibolo e più di 85 sono nel braccio della morte. Ma c’è una buona notizia: “Lo scorso febbraio la Corte Suprema ha annullato la condanna alla pena capitale di un ragazzo che aveva già passato 10 anni in carce e questo è un passo avanti” ha fatto notare Al Nashif. L’Alta Commissaria ha anche denunciato l’utilizzo eccessivo della forza nelle manifestazioni di protesta. “Tra aprile e maggio almeno 55 individui - tra cui insegnanti, avvocati, studenti universitari - sono stati arrestati solo per essere scesi in piazza”. Il rapporto ha irritato Teheran che lo ha definito “ingiusto, fazioso e politicamente motivato”. “Il documento “non è basato sulla realtà dei rispettati diritti umani e non c’è stato un consenso degli Stati membri per questa risoluzione. Le critiche dell’Onu si basano principalmente su infondate accuse di gruppi terroristici” ha detto il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran. Julian Assange baluardo dei diritti e l’America di Adolfo Pérez Esquivel* Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2022 La decisione del governo britannico di estradare negli Usa Julian Assange mette a rischio la vita di un giornalista coraggioso, che ha svolto il proprio lavoro con dignità e non ha avuto paura di pubblicare i documenti che rivelavano le atrocità commesse dal governo Usa in Iraq e Afghanistan e le numerose violazioni dei diritti umani. La grande potenza americana vuole controllare i destini del mondo, pretende l’impunità e minaccia la libertà di stampa. Da anni Assange viene perseguitato. È stato costretto a rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra, dove è stato fino a quando il presidente Lenin Moreno lo ha consegnato al governo britannico. Ora è rinchiuso in una prigione di massima sicurezza dove le sue condizioni fisiche e psicologiche si sono ulteriormente aggravate. Organizzazioni per i diritti umani, movimenti sociali e religiosi, personalità della cultura reclamano la sua libertà senza ottenere, fino a ora, risultati. Gli avvocati hanno solo 14 giorni per appellarsi alla decisione. Andai a trovare Julian all’ambasciata dell’Ecuador a Londra e parlai con lui per due ore. Posso dichiarare che non è né un delinquente, né una spia come il governo americano lo descrive. Se la sua estradizione non verrà bloccata, lo aspetta una condanna a 175 anni di prigione: una condanna a morte. È preoccupante il silenzio degli organismi internazionali come Onu e Parlamento europeo. È deplorevole che i governi e i mezzi di comunicazione si genuflettano alle decisioni e alle politiche Usa. Voglio ricordare che il Preambolo della Carta Onu del 1945 afferma: “Noi, popoli delle Nazioni Unite”, purtroppo i popoli sono assenti dalle decisioni delle grandi potenze, sono emarginati e vittime di violenza sociale e strutturale, le guerre, i conflitti, la fame, la economica e climatica. Il mondo ha il diritto di conoscere la verità. È necessario vigilare su ciò che decideranno gli Usa e su tutti i crimini e i diritti umani violati nel mondo. La condanna di Assange è anche un avvertimento per tutti quei giornalisti e mezzi di comunicazione indipendenti che vogliono raccontare la verità della vita dei popoli. Anche loro saranno perseguitati come stanno facendo con Assange. La libertà di stampa è minacciata dall’impunità dei crimini commessi dagli Usa. Mi appello ai popoli del mondo, alle chiese, alle organizzazioni sociali, ai sindacati, alle università, ai giornalisti, ai mezzi d’informazione, ai governi democratici e alle donne e agli uomini di buona volontà che si impegnano per la libertà e i diritti dei popoli, affinché facciano sentire la propria voce per reclamare la libertà di Assange. *Premio Nobel per la Pace Terremoto in Afghanistan, l’aiuto questa volta non scatta di Emanuele Giordana Il Manifesto, 23 giugno 2022 Si muovono i cinesi, gli europei “valutano”. L’Onu non se ne è mai andata, ma i soldi non ci sono: dei 4,4 miliardi chiesti da Guterres ne sono arrivati la metà. E le sanzioni strangolano tutti. “Ci auguriamo che anche la comunità internazionale e le agenzie umanitarie aiutino la nostra gente in questa terribile situazione”, twittano i Talebani su Internet. Eh sì, perché si muore anche nei Paesi canaglia, in quelli messi all’indice dalla comunità internazionale. L’Afghanistan è tra questi e dunque gli aiuti internazionali andranno a sottrarre le già risicate risorse arrivate col contagocce in questi mesi. I cinesi si son fatti avanti subito però. Si sono mossi anche europei e Nazioni unite che “stanno valutando”. Naturalmente le Ong, per quel che possono, sono in prima linea. L’Emirato si muove e così i mezzi di primo soccorso dell’Onu che, fortunatamente, non ha lasciato il Paese con l’arrivo dei Talebani. Ma la domanda vera riguarda i soldi. È l’inizio di gennaio quando il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres chiede al mondo 4,4 miliardi di dollari per aiutare il Paese a uscire dalla crisi in cui è precipitato dalla fine della guerra. Le ragioni sono note: lo stop al finanziamento che copriva oltre due terzi del budget della Repubblica retta da Ashraf Ghani, le sanzioni contro il nuovo regime e il congelamento degli asset della Banca centrale afgana, depositati - circa 9 miliardi di dollari - nelle banche americane ed europee. Il Paese precipita in una crisi che l’inverno peggiora: non si muore più di guerra, adesso si muore d’inedia. La borsa però rimane tirata: di quei 4,4 miliardi richiesti, a maggio 2022 ne sono arrivati solo la metà. E coi tempi della burocrazia: prima si promette, poi si “alloca”, infine (forse) si scuce. E in assenza di un interlocutore politico - visto che nessuno ha riconosciuto il governo talebano - si può far conto solo sull’Onu che non ha chiuso i battenti. Comunque, ogni appello ai governi del pianeta può solo risultare inascoltato se, come conferma chi tenta di farlo, meccanismi automatici, imposti dalle sanzioni al regime, impediscono di spedire persino cento euro a Kabul o altrove. Anche in queste ore, il meccanismo perverso che strangola l’Afghanistan da dopo il 15 agosto 2021, quando la capitale capitolò e Asraf Ghani e compagni scapparono con la cassa, continua perversamente a funzionare. I quattrini per far fronte all’emergenza terremoto verranno inevitabilmente sottratti a quanto le Nazioni unite hanno raggranellato in questi mesi, che si aggiunge alle regalie degli Stati vicini, come Pakistan e Iran, o agli interventi ormai molto ridotti delle Ong. Quanto il sisma aggravi una crisi già in essere lo si deduce dai numeri: sono 2,6 milioni gli afgani registrati dall’Unhcr (2,2 si trovano divisi tra Iran e Pakistan), il che significa che i fuoriusciti sono un numero assai più elevato in cui, come fantasmi, si agitano i clandestini e gli afgani in viaggio o bloccati lungo le rotte che portano in Europa o nelle foreste bielorusse. Gli sfollati interni erano circa 3 milioni cui se ne sono aggiunti, solo nel 2021, altri 700mila. Su 35 milioni di afgani, l’Onu valuta che oltre 20 milioni siano in grave necessità alimentare. Quasi la metà di questi sono malnutriti e gli altri denutriti, con ciò che significa specie se si è in tenera età (la malnutrizione compromette anche le capacità cognitive). A quasi un anno dalla fine della guerra si è fatto molto poco per questo popolo verso il quale vent’anni di occupazione militare dovrebbero quantomeno provocare un senso di responsabilità. La promessa di una legazione comune europea è rimasta sulla carta. Ferme le sanzioni e così i fondi, proprietà afgana, ancora congelati nelle banche degli occupanti che sembrano vendicarsi di chi li ha battuti sul piano militare. I Talebani fanno buon viso a cattivo gioco e dicono che l’economia si sta riprendendo. Si sono invece irrigiditi sui diritti: abbigliamento, libertà di espressione, istruzione femminile (anche se in alcune aree del Paese le ragazze possono andare nei pochi licei aperti). Nel caso afghano, le sanzioni non solo colpiscono il popolino ma tendono probabilmente a rafforzare l’ala più oltranzista, ortodossa, identitaria rispetto ai pragmatici che invece sarebbero disposti a trattare. Già, ma con chi se non c’è nemmeno un incaricato d’affari cui chiedere un appuntamento?