Non può esserci giustizia finché ci sarà il carcere di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 giugno 2022 La crisi delle prigioni fotografata della relazione del Garante Mauro Palma è il terminale di un filo rosso che parte dal processo e dal monopolio della galera. È lì che va affondato il bisturi di una vera rivoluzione copernicana, oggi più che mai indispensabile. Un buffetto di incoraggiamento arriva all’Italia da Strasburgo appena poche ore dopo che uno sconsolato Garante per le persone private della libertà Mauro Palma lascia l’incarico dopo sette anni lanciando l’ennesimo allarme sul carcere e il permanente tragico sovraffollamento. L’Italia, dice il Consiglio d’Europa, è uno dei sette Paesi che hanno registrato un “aumento significativo” dell’uso della libertà vigilata. La misura di sicurezza è infatti aumentata del 6% tra il 2020 e il 2021, tanto che al 31 dicembre scorso il numero di persone sottoposte a libertà vigilata (93.415) superava di 40.000 unità il numero dei detenuti. Il dato è derivato dalla ricerca “Space II” condotta ogni anno dall’Università di Losanna sulle misure alternative al carcere adottate dagli Stati membri del Consiglio d’Europa. Numeri che, presi in sé, paiono davvero confortanti. Anche se poi la stessa ricerca osserva che tra il 2019 e il 2020 l’aumento del ricorso alla libertà vigilata era stato del 10%. E anche se occorre ricordare che stiamo parlando dei due anni appena trascorsi, che sono stati un periodo veramente anomalo per tutti, cittadini liberi o detenuti. L’emergenza per l’epidemia da Covid è stata affrontata in modo sensato prima di tutto dal procuratore generale della cassazione Salvi, che aveva invitato i magistrati ad arrestare di meno, e poi dallo stesso ministro della giustizia Bonafede con il progetto “Cura Italia”, e infine dal capo del Dap Basentini con la famosa circolare in cui sollecitava la sospensione dell’espiazione della pena per detenuti anziani o malati, provvedimento che alla fine gli costerà il posto. E poi la situazione è cambiata e si è tornati ai numeri precedenti. Tutto quel che è accaduto nel biennio che sta alle nostre spalle va dunque letto e riletto senza gli occhiali dell’emergenza. Facendo però anche una semplice constatazione: se Salvi, se l’attuale ministro della giustizia, se l’attuale capo del Dap rendessero permanenti quegli allarmi e soprattutto quel modo di ragionare, i numeri delle persone recluse sarebbero ben diversi. Sempre che sia poi così rilevante stare attaccati a numeri e percentuali per valutare che cosa è il carcere oggi. Perché bisognerebbe prima di tutto afferrare il bandolo da cui parte il filo rosso che percorre le vite delle persone cui viene tolta la libertà. Parliamo della giustizia e del processo, che sono la nuova violenza di Stato, quella che ha preso il posto della tortura, dello squartamento, della pena di morte. È un problema culturale. Nessuno, o quasi, oggi potrebbe dirsi d’accordo sull’amministrazione della giustizia come veniva esercitata nel seicento, così come sulle pene corporali o sulla schiavitù. Però, se alle stesse persone chiediamo di pronunciarsi sull’abolizione dell’ergastolo, e prima di tutto su quello cosiddetto “ostativo”, cioè quello che impedisce a determinati soggetti di fruire dell’applicazione di misure alternative, ecco che sotto sotto vedremmo rispuntare quel desiderio di chiudere la cella e buttare la chiave che è poi la cultura del “monopolio del carcere” come applicazione prevalente se non unica della pena. Ma aiutiamoci ancora con i numeri per constatare come questa cultura del “monopolio del carcere” sia quella prevalente nel corpo della magistratura. L’ostilità da parte dei dirigenti sindacali delle toghe nei confronti di un quesito referendario che cercava di porre limiti alla custodia cautelare. E la constatazione, rilevata dai dati forniti due giorni fa dal Garante, che un terzo della popolazione carceraria è tuttora composta da persone non ancora processate e innocenti secondo la Costituzione. Due elementi espliciti di questa mentalità, che esplode ogni volta in cui, davanti a clamorose assoluzioni, ascoltiamo l’ipocrita lamento di chi chiede le scuse degli avversari politici. Ma la questione non riguarda gli innocenti e i colpevoli. Riguarda il diritto all’integrità del proprio corpo, al suo bisogno di essere libero. Soprattutto in assenza di condanna. Ha qualche senso il fatto che ci siano in questo momento nelle prigioni italiane 1.319 persone che sono rinchiuse perché condannate a una pena inferiore a un anno e altre 2.473 a meno di due? Mauro Palma nella sua relazione ha giustamente definito “superfluo… chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta”. È vero, perché quel che conta è il fatto che il giudice che ha preso la decisione sa perfettamente che quei pochi mesi di prigionia non potranno che cambiare in peggio la vita di quel condannato, destinato non certo alla rieducazione prevista dalla Costituzione. Ma nel migliore dei casi destinato alla noia, alla perdita di minuti, ore e giorni che una misura alternativa al carcere avrebbe potuto far utilizzare in modo migliore. Per non parlare dei famosi “residui di pena”. Parliamo di persone perfettamente reinserite nella società e nel mondo del lavoro, chiamate improvvisamente, nel momento in cui una sentenza diviene defistra nitiva o viene perfezionato un ricalcolo, a consegnarsi a un cancello che si apre su un mondo separato, che non è più violento in senso letterale, ma violento nella sua inutilità e nocività. Ecco perché i dati sul carcere, il suo perenne sovraffollamento, i suicidi, le patologie psichiche sempre trascurate, la tossicodipendenza volutamente ignorata, vanno giustamente sempre raccontati e segnalati con un certo allarme nel quadro del loro punto di partenza, il processo. Pur senza nascondere nessun dato di realtà. Anche perché, se i posti per “alloggiare” dignitosamente i prigionieri sono cinquantamila e ne devi stipare quattromila in più, si sta stretti e scomodi. E se sei malato o comunque fragile, diventi una persona a rischio. E ventinove suicidi (con altre diciassette morti da accertare) dall’inizio dell’anno sono un dato pazzesco, una cosa da strapparsi i capelli dalla disperazione. E aggiungiamo anche che sono tante le persone di buona volontà che ogni giorno si adoperano per migliorare il carcere e la vita di chi vi alloggia. A partire dalla ministra Cartabia, che si appresta a inaugurare con il collega Colao due laboratori per attività nel settore delle telecomunicazioni nelle carceri di Torino e Cagliari, con importanti progetti per il reinserimento sociale attraverso il lavoro. Così come riteniamo fondamentale il fatto che nelle carceri italiane si dedichi del tempo allo studio, specialmente nel settore dei giovani adulti e degli stranieri. Anche se è sconvolgente apprendere dalla relazione del Garante che nell’anno passato ben 3.385 reclusi, di cui oltre 300 italiani, hanno seguito corsi di alfabetizzazione. Cioè non sapevano leggere né scrivere. Ma altri 4.000 hanno frequentato corsi delle scuole elementari e medie, e poi 6.000 sono andati alle superiori e circa 1.200 all’università. Cui vanno aggiunti coloro che hanno frequentato corsi professionali che hanno aperto loro la strada verso un futuro da uomini e donne liberi e possibilmente reinseriti con un lavoro. In trentanove si sono persino laureati! Ma stiamo parlando sempre di buona volontà, cioè di aggiustamenti sul punto terminale di quel filo rosso che parte dal processo e da quella cultura del “monopolio del carcere” come unica forma non solo di applicazione della pena ma anche come soluzione della devianza e dei conflitti sociali. È lì che andrebbe invece affondato il bisturi di una vera rivoluzione copernicana, oggi più che mai indispensabile. Pacchetto Cartabia chiuso? Macché: tocca ai decreti su civile, penale e Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 22 giugno 2022 Tutto fermo, invece, per il carcere: ancora riunioni ma nessun atto concreto. Se qualcuno ha pensato che con l’entrata in vigore ieri della legge 17 giugno 2022, n. 71 su Csm e ordinamento giudiziario la stagione delle riforme della Giustizia fosse finita si è sbagliato di grosso. È ancora aperta l’importantissima partita sui decreti attuativi. Lo aveva ribadito anche la ministra Cartabia: “La fase di attuazione di una delega legislativa è particolarmente rilevante; è nella scrittura dei decreti legislativi il lavoro più delicato da compiere con particolare attenzione, perché è lì che gli orientamenti vengono definiti in tutta la loro portata e concretezza”. Proprio la Guardasigilli in questa fase acquista sicuramente più centralità: abbandonata l’estenuante mediazione con i partiti nelle fasi precedenti, ora potrà dare una sua maggiore impronta. Vediamo le scadenze più prossime, legate anche agli obiettivi del Pnrr che ci impongono - su riforma del processo civile, penale, della giustizia tributaria, dell’insolvenza e crisi d’impresa - di chiudere tutto entro giugno 2023. In particolare quella del processo penale è entrata in vigore il 19 ottobre 2021: ad un anno da questa data il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi, che devono essere poi sottoposti alle commissioni parlamentari competenti per un loro parere non vincolante da far arrivare entro 60 giorni, altrimenti si procede all’emanazione anche senza. I cinque gruppi di lavoro istituiti presso via Arenula per l’elaborazione dei decreti hanno terminato l’elaborazione dei testi tra fine aprile e inizio maggio. In queste settimane l’ufficio legislativo del ministero è impegnato in un controllo per verificare se tutti gli schemi di decreti sono in armonia tra di loro, essendo interconnesse le materie oggetto di deleghe. Lo scopo è quello di evitare incoerenze tra i vari elaborati. Tra gli aspetti di maggior interesse per l’avvocatura c’è quello che riguarda l’appello: scongiurato il pericolo della critica vincolata, bisognerà vedere che limiti verranno posti per l’accesso al secondo grado di giudizio. Un altro passaggio di interesse, per il quale l’Unione Camere penali farà anche una manifestazione nazionale il prossimo 28 giugno, riguarda il mutamento del giudice che ha raccolto la prova. Anche per quanto riguarda la riforma del processo civile, entrata in vigore la scorsa vigilia di Natale, il Governo ha un anno di tempo per i decreti attuativi e le commissioni parlamentari sessanta giorni per i pareri. Comunque già da oggi saranno operative alcune delle misure previste dalla riforma, tra cui i procedimenti in materia di persone, famiglia e cittadinanza. In entrambi i casi - civile e penale -, da un lato si imporrà la necessità di terminare l’iter di emanazione dei decreti, ma dall’altro i partiti saranno impegnati nella campagna elettorale che precederà la formazione di un Parlamento con molti meno deputati e senatori. Dunque si assisterà ad una concentrazione dello sforzo riformatore in un momento anche molto particolare per il futuro politico di molti parlamentari che nella prossima legislatura neanche forse ci saranno più. Riguardo la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, secondo il sito Italia Domani che raccoglie i traguardi e gli obiettivi da perseguire nell’ambito del Pnrr, non è prevista alcuna data specifica: eppure però bisogna scongiurare il rischio che a guidare l’emanazione dei decreti attuativi sia il nuovo Governo, considerato che la delega non scade e che la scadenza tra elaborazione dei decreti e pareri delle commissioni si colloca a luglio 2023. Non vorremmo che finisse come i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario di Orlando, finita nel cassetto del Governo gialloverde. La posta in gioco è alta: si va dalla revisione del numero dei magistrati fuori ruolo alle modifiche del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario, che vedono protagonisti proprio gli avvocati. La legge Cartabia, come ribadito dalla presidente del Cnf Maria Masi, “tiene conto, appunto, anche delle indicazioni che il Consiglio nazionale forense ha portato avanti negli anni, con particolare riferimento al diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari per le valutazioni - anche positive - dei magistrati, con preventivo parere dell’Ordine forense di riferimento”. Infine, completamente slegata dagli obiettivi europei, c’è la riforma del carcere, che sembra essere un po’ la Cenerentola di tutte le riforme. A fine dicembre è stata pubblicata la Relazione della Commissione Ruotolo, ma ad oggi nessun atto concreto: da quanto appreso si stanno facendo progressivamente riunioni per darne attuazione, almeno alle modifiche del regolamento penitenziario. Ma nel frattempo incombe il caldo, le celle diventano roventi, i detenuti guardano il soffitto “Aspettando Godot”. Solo gli arresti fanno notizia? No, il giornalismo è un’altra cosa di Franco Insardà Il Dubbio, 22 giugno 2022 Sentir teorizzare le nuove regole deontologiche del giornalismo fa venire i brividi. Lo ha fatto lunedì sera il vicedirettore del Fatto quotidiano, Marco Lillo, ospite della trasmissione di Nicola Porro Quarta Repubblica su Retequattro, sostenendo: gli arresti vanno in prima pagina, le assoluzioni no. Proprio così. Lo ha ribadito al cospetto di una esterrefatta e indignata Gaia Tortora, che lo ha redarguito: “È una roba orrenda, stai dicendo una cosa micidiale. Non è una regola, è un sistema che non condivido”. Lillo ha testualmente detto: “Non so se Il Fatto ha dato notizia dell’arresto di Tirozzi (commerciante di fiori ingiustamente detenuto, che ha passato 21 mesi in carcere da innocente, ospite in trasmissione, ndr), ammetto che probabilmente non avremmo dato notizia della sua assoluzione. È la regola della notizia. La colpa di noi giornalisti è dare grande enfasi alle notizie quando ci sono gli arresti, ma non bisogna essere ipocriti”. Alle giuste doglianze di Gaia Tortora Lillo non si è perso d’animo, anzi ha ribadito, perdendo anche la pazienza: “Purtroppo è una regola dell’informazione. Se in una scuola di giornalismo diciamo che questa cosa non è vera, non diciamo la verità. C’è un dato di fatto che dobbiamo correggere, non affermo che sia giusto. Devi partite da questo presupposto, per cercare di correggere questo problema che c’è. È un problema strutturale dell’informazione. Qualsiasi direttore ha il problema di venderlo, il giornale”. E no, queste non sono le regole del giornalismo, questo è sciacallaggio mediatico. A Lillo va riconosciuto di aver ribadito, rivendicato addirittura il giustizialismo del suo giornale. A Quarta Repubblica il vicedirettore del Fatto ha sostenuto che nessun quotidiano metterebbe in prima pagina una assoluzione. Anche in questo caso ha deformato le cose: Il Dubbio, all’indomani dell’assoluzione del papà di Maria Elena Boschi nel processo Etruria, ha aperto il giornale con l’intervista all’ex ministra del governo Renzi. Ma non è la prima volta che il nostro quotidiano, purtroppo quasi isolato nel panorama editoriale, apre con una assoluzione o una vicenda di malagiustizia che per il Fatto quotidiano e altri meriterebbe al più un trafiletto. La pluralità dell’informazione è fondamentale proprio per questo: per dare voce a chi non ce l’ha, a chi, per motivi di mercato, sugli altri mezzi di informazione non avrebbe spazio. Non a caso quotidianamente pubblichiamo la pagina “Lettere dal carcere”, curata dall’ottimo Damiano Aliprandi, che si interessa di chi è privato della libertà. Non solo quando si tratta di casi eclatanti, magari pubblicati da altri con settimane o mesi di ritardo rispetto a noi, solo per vendere qualche copia in più. Lo sciacallaggio non ci è mai appartenuto. Tutti vogliono andare al Csm: i parlamentari in fibrillazione per il posto da laici di Giulia Merlo Il Domani, 22 giugno 2022 Con l’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario e quindi della nuova legge elettorale del Csm, è partita la corsa a palazzo dei Marescialli e i più interessati sono i parlamentari. La riforma ha aumentato da 8 a 10 i membri laici e in periodo di incertezza politica la nomina è quantomai ambita. Se i togati verranno eletti dai colleghi all’elezione che si svolgerà intorno a fine settembre, i laici verranno individuati dal parlamento in seduta comune e con maggioranza qualificata dei tre quinti. Devono essere professori in materie giuridiche oppure avvocati con almeno 15 anni di iscrizione all’albo, mentre non è necessario che siano parlamentari (nell’attuale consiliatura lo è solo il vicepresidente del Csm, David Ermini). Negli anni passati, infatti, la nomina è stata utile strumento dei partiti per tenere i rapporti con mondi giudiziari di riferimento. Invece, “in questa tornata ci sarà un’infornata di parlamentari, ci sono molte ambizioni e sarà un problema gestirle”, dice un membro della commissione Giustizia della Camera. Molti, infatti, vedono palazzo dei Marescialli come un ritiro sicuro dalle tempeste politiche. I laici del futuro consiglio, infatti, verranno eletti da questo parlamento in scadenza sulla base degli attuali rapporti di forza tra i partiti e rimarranno in carica fino al 2026, con tranquillità assicurata e uno stipendio da circa 170mila euro lordi l’anno, cui si sommano indennità di seduta e rimborsi di trasferta. La prospettiva è decisamente ambita, soprattutto tra chi teme di non essere ricandidato o comunque di non venire rieletto a causa del crollo dei rispettivi partiti e del taglio del numero dei parlamentari. Storicamente si tratta di posti utili a gestire i rapporti dei partiti con i mondi giudiziari di riferimento, anche perché tra i laici si sceglie il vicepresidente del Csm, che gode di un filo diretto con la presidenza della Repubblica. Invece, la fase di incertezza politica presente e anche il cresciuto ruolo che i laici hanno assunto al Csm, li ha fatti diventare desiderabili per i parlamentari che hanno i requisiti per aspirare alla nomina. Fino a un paio di consiliature fa, finire al Csm era considerato un parcheggio di lusso per chi veniva nominato, perché i consiglieri laici erano più che altro spettatori della vita interna al Csm. Oggi, invece, stanno diventando sempre più determinanti: rappresentano un terzo del plenum, ma lo scandalo Palamara ha portato alle dimissioni di cinque togati e le elezioni suppletive hanno reso più instabili i rapporti di forza dentro al Consiglio, di conseguenza sempre più spesso il loro voto sia stato determinante per alcune nomine di peso o scelte di commissione. Nella consiliatura che ora sta concludendo il mandato, gli allora 8 laici erano ripartiti con tre in quota Movimento 5 Stelle (Alberto Maria Benedetti; Filippo Donati e Fulvio Gigliotti); due in quota Lega (Stefano Cavanna ed Emanuele Basile); due di Forza Italia perché FdI gli aveva ceduto il suo potenziale eletto in cambio di un (gli avvocati Michele Cerabona e Alessio Lanzi) e uno Pd. Difficile dire invece quanti posti spetteranno ora a ciascuna forza politica ma, sulla base della dimensione dei gruppi, si può ipotizzare che la Lega e ne nomini due, Forza Italia o il Pd si contenderanno il secondo eletto, Italia Viva e Fratelli d’Italia uno e i Cinque stelle tre (ma dipenderà dalla scissione del gruppo in corso, che farà cambiare le proporzioni). Il totonomi - Se tra i parlamentari nessuno si sbilancia: “i giochi si faranno a settembre e dipendono da moltissime variabili”, tuttavia è possibile che “se un partito inizia a nominare parlamentari invece che esterni poi anche gli altri seguano sulla stessa linea”. Uno dei nomi considerati possibili per ragioni di curriculum e di ruolo nel partito è quello della responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando, al terzo mandato parlamentare e avvocata, di cui si immagina anche una possibile nomina a vicepresidente del Csm sulla scia dell’uscente David Ermini. Tra i dem, però, circolano anche i nomi dei due membri della commissione Giustizia, Alfredo Bazoli e Franco Vazio. Anche nel Movimento 5 Stelle la prospettiva è molto diversa rispetto al 2018, dove i tre laici vennero scelti dal voto online e al Csm andarono tre professori. Anche in vista della mannaia del divieto di terzo mandato, per il leader Giuseppe Conte assegnare almeno uno dei posti a un parlamentare di stretta osservanza sarebbe una valvola di sfogo. Uno che potrebbe ambire è il senatore Ettore Licheri, contiano di ferro e dirigente di peso. Sul fronte del centrodestra le bocche sono tutte cucite ma tra tutti ad avere i requisiti sarebbe Alberto Balboni, vicepresidente in commissione Giustizia in quota Fratelli d’Italia. Attualmente, il partito di Meloni non ha rappresentanti laici eletti perché nel 2018 aveva rinunciato a indicare un nome in favore di Forza Italia, che aveva indicato due laici Alessio Lanzi e Michele Cerabona. Vita dura, quindi, la avranno gli esterni al parlamento a cui piacerebbe accasarsi a palazzo dei Marescialli in quota politica. In ogni caso, esiste sempre quel pizzico di imponderabilità al momento del voto, a maggior ragione vista la necessità di maggioranza qualificata: gli equilibri da tenere in piedi sono tanti e il voto di settembre per nominarli si preannuncia tutt’altro che semplice. L’incomunicabilità tra i partiti sulla giustizia spiegata da Panebianco di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 giugno 2022 Per il politologo, la democrazia italiana vive “Una condizione di frammentazione in cui i partiti su qualunque tema lottano per accaparrarsi un minimo di attenzione dell’opinione pubblica. Data la paralisi, l’unico modo per forzare il blocco sono i decreti legge”. L’incomunicabilità tra Partito democratico e Lega attorno alla riforma della legge Severino la dice lunga sulla condizione del sistema politico e istituzionale italiano. Entrambi i partiti vogliono la stessa cosa, eliminare la sospensione automatica degli amministratori locali raggiunti da sentenze di primo grado, eppure entrambi preferiscono restare chiusi nelle proprie stanze. Il Pd dice no al referendum abrogativo proposto dalla Lega e poi invita gli altri partiti a sostenere la propria proposta di legge. La Lega, dopo il fallimento del referendum, critica il Pd per non aver sostenuto il referendum e annuncia di voler promuovere proprie iniziative legislative sul tema. Vale per la legge Severino, ma in fondo ormai vale per tutto (e per tutti). L’incapacità delle forze politiche di comunicare fra loro, andando al di là della propaganda, sembra ormai togliere senso alla funzione stessa del Parlamento. “Purtroppo mi pare che non ci sia nulla di nuovo”, commenta al Foglio Angelo Panebianco, politologo dell’università di Bologna. “Essendo fallito il tentativo di dare una forza al governo (la battuta d’arresto finale di questo tentativo è stato il fallimento del referendum costituzionale del 2016) e non essendoci più nemmeno i grandi partiti che in qualche modo nella Prima repubblica controllavano tutto, siamo in una condizione di frammentazione in cui i partiti su qualunque tema lottano per accaparrarsi un minimo di attenzione dell’opinione pubblica”. Per Panebianco l’Italia rappresenta una democrazia assembleare anziché parlamentare. “La democrazia parlamentare - spiega - è quella britannica, oppure quella tedesca, in cui c’è un governo forte, che ha rapporti con il Parlamento. Noi in sede costituente scegliemmo un governo debole, e da allora non è più cambiato niente. Durante la Prima repubblica tutto questo era attenuato dalla presenza della Democrazia cristiana, che dava stabilità. I governi cambiavano continuamente, ma erano cambiamenti che riguardavano i rapporti di forza tra le fazioni della Dc. Quindi la stabilità di fondo era assicurata nonostante un assetto istituzionale assembleare. Adesso quella situazione non c’è più, l’assetto assembleare è rimasto e c’è una forte frammentazione”. Da qui il frequente ricorso da parte dei governi ai decreti legge, pratica criticata da presidenti della Repubblica e costituzionalisti, ma di fatto inevitabile all’interno di un contesto istituzionale del genere: “I decreti legge sono un tentativo di aggirare la situazione di frammentazione - dice Panebianco - Anche questa non è una novità. Sono anni che i decreti legge costituiscono l’espediente con cui affrontare il problema dell’esistenza di una democrazia assembleare anziché parlamentare. Data la paralisi totale, l’unico modo per forzare il blocco sono i decreti legge. Dietro ci sono dati strutturali: frammentazione partitica e partiti debolissimi”. Ben diversa, tanto per citare un esempio, la situazione francese, tornata di attualità negli ultimi giorni. “La lettura che qui si sta facendo di ciò che sta succedendo in Francia è una lettura tutta italiana, che prescinde totalmente dalle differenze istituzionali che ci sono tra il sistema di governo francese rispetto al nostro paese”, dice il politologo. “Se le regole del sistema istituzionale francese venissero trasferite nel nostro paese tutti griderebbero al fascismo. Il governo è molto più forte, anche adesso nonostante le divisioni. Il sistema ha delle garanzie istituzionali, degli ostacoli alla sua parlamentarizzazione. Ostacoli che in Italia non ci sono”, conclude Panebianco. Il ddl del Pd sulla legge Severino può avere “vasto consenso” di Marianna Rizzini Il Foglio, 22 giugno 2022 Il primo firmatario in Senato Dario Parrini: “Va eliminata la sospensione dalla carica per condanne non definitive. È ingiusta e di dubbia costituzionalità, salvo che non si sia in presenza di reati di grande allarme sociale. Il referendum risolveva un problema e ne creava uno più grosso”. I referendum sulla giustizia voluti dalla Lega sono naufragati. Ma ci sono temi - come la responsabilità degli amministratori locali - su cui il segretario del Pd Enrico Letta aveva promesso, alla vigilia della consultazione, un’azione rapida in direzione di una modifica chirurgica della legge Severino, tanto più che nel novembre scorso è stato depositato dal Pd, in Senato e alla Camera, un ddl che si propone di intervenire sulla materia (primi firmatari al Senato sono Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali, Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del partito, Franco Mirabelli, vice presidente dem e capogruppo in commissione Giustizia; mentre alla Camera il ddl porta le firme di Andrea Giorgis, coordinatore del Comitato riforme istituzionali del partito, e i capigruppo in commissione Giustizia e Affari costituzionali Alfredo Bazoli e Stefano Ceccanti). Contenuto: non più sospensione automatica per gli amministratori regionali e locali che riportano condanne non definitive, a meno che non si tratti di condanne per reati gravi e di particolare allarme sociale tra i quali la corruzione, la concussione e i delitti legati alle mafie. L’intento era anche quello di accogliere i desiderata di tanti sindaci, viste le situazioni paradossali verificatesi nei nove anni dall’entrata in vigore della legge. “La proposta”, dicevano allora i firmatari, “mira a realizzare un diverso bilanciamento tra le esigenze della lotta all’illegalità e quelle della salvaguardia della stabilità ed efficienza delle pubbliche amministrazioni” e “si pone in antitesi con l’approccio seguito dai promotori del referendum in materia di giustizia, un approccio che risulta del tutto non condivisibile poiché fondato su una linea di abrogazione indiscriminata delle norme”. Ora però, se vuole agire in fretta in Aula, come chiesto appunto da molti amministratori locali, il Pd deve guardare anche alla Lega: non sarebbe il caso di coinvolgerla per portarla a collaborare in Parlamento sulle modifiche possibili alla legge, visto che il tema della ingovernabilità sui territori causa paralisi tribunalizia stava tanto a cuore a Matteo Salvini? “Per mesi”, dice il senatore e primo firmatario Dario Parrini, “col pretesto che non si poteva intervenire prima della celebrazione del referendum sul punto, la Lega ha impedito, in Commissione giustizia, complice anche l’affollarsi di altri temi delicati, l’avanzamento del ddl, presentato il 24 novembre scorso. Adesso penso sia venuta l’ora di rimettere mano alla cosa. La mia proposta è così ragionevole e equilibrata da poter ottenere vasto consenso”. Nel dettaglio, dice Parrini, “il ddl 2461 - che vede come secondi e terzi firmatari in Senato Franco Mirabelli e Anna Rossomando - dice chiaramente che va eliminata la sospensione dalla carica per condanne non definitive. È ingiusta e di dubbia costituzionalità, salvo che non si sia in presenza di reati di grande allarme sociale. Non va incrinato il principio che chi ha una condanna definitiva per reati severamente puniti dalla legge debba decadere se ricopre una carica elettiva pubblica e non essere candidabile per un certo numero di anni dopo la condanna”. Il tema è sentito, ma il referendum non ha fatto breccia. “Il motivo del fallimento sta in questo: non ci si taglia un braccio se si ha male a un dito né si butta giù tutta la casa se c’è un pezzo di tetto da risanare. Fuor di metafora: il referendum risolveva un problema - la sospensione - e ne creava uno più grosso, l’intoccabilità dei condannati definitivi. Una cosa sbagliata. Del resto il referendum ha questo limite strutturale: è ‘rozzo’, non adoperabile per azioni chirurgiche”. Si vedrà in futuro se il ddl targato Pd otterrà davvero consensi trasversali. Giustizia minorile, va in pensione la legge che favorì il caso Bibbiano di Luciano Moia Avvenire, 22 giugno 2022 Entra in vigore il nuovo articolo 403 del Codice civile sull’allontanamento dei minori dalle famiglie. Una risposta anche a casi come quelli dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Atre anni dal caso Bibbiano, entra in vigore domani il primo provvedimento della riforma Cartabia sulla giustizia minorile. E si tratta di un intervento che è allo stesso tempo impegnativo e simbolico. Modifica infatti in modo sostanziale l’articolo 403 del Codice civile. Perché è importante? La norma è stata spesso considerata - a torto o a ragione - lo strumento per allontanare i bambini dalle loro famiglie in modo “facile”, sfuggendo (talvolta per mesi) alle verifiche della magistratura. Proprio come a Bibbiano, dove alla fine di giugno di tre anni fa, dalla procura di Reggio Emilia, partì l’inchiesta “Angeli e demoni” sui presunti affidi illeciti della Val d’Enza. Come si ricorderà sedici persone, tra amministratori, assistenti sociali e psicoterapeuti furono oggetto di misure cautelari, e 24 in totale finirono nel registro degli indagati sospettate di aver redatto o agevolato relazioni false per allontanare bambini dalle loro famiglie e darli in affido, in alcuni casi, ad amici e conoscenti. Lunghissimo l’elenco dei reati contestati: frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d’uso. Secondo la Procura di Reggio Emilia le false relazioni erano state compilate dopo sedute di psicoterapia che avrebbero suggestionato i minori, alterando i loro ricordi tanto da indurli, in alcuni casi, ad accusare ingiustamente i genitori di molestie sessuali. Qualche giorno fa, a tre anni dall’esplosione del caso e a quattro dall’inizio dell’inchiesta, con grande fatica, ritardi ormai scontati per la nostra prassi giudiziaria, inevitabili contestazioni, si è aperta la prima udienza del processo. Dei 17 rinviati a giudizio nessuno era presente in aula, ma c’erano tante associazioni di familiari che hanno chiesto di costituirsi parte civile, oltre a quelle già ammesse. Così i giudici si sono riservati la decisione. Ora se ne riparlerà a dicembre. Poi, prima di vedere qualche risultato, passeranno altri mesi. Tra gli avvocati c’è chi prevede che tra un anno saremo di nuovo qui ad interrogarci sull’esito di un caso giudiziario che finora è stato soprattutto mediatico e politico, con letture e interpretazioni spesso lontane dalla realtà. L’unica cosa certa è la condanna a quattro anni di carcere dello psicologo Claudio Foti, considerato la ‘mente’ del caso Bibbiano, che ha scelto il rito abbreviato. Eppure sarebbe sbagliato concludere che in questi tre anni, dopo tanto frastuono, non sia capitato nulla di rilevante nell’ambito della giustizia minorile. Mercoledì, come detto, entra in vigore la modifica del famigerato articolo 403 del codice civile. Strumento con cui si poteva allontanare un minore dalla sua famiglia, se considerato in situazioni di abbandono morale e materiale e, soprattutto, se in gravi situazioni di pericolo per abusi, maltrattamenti, violenze. L’intervento poteva essere compiuto dalle forze dell’ordine su indicazione dei servizi sociali o di altro pubblico ufficiale (scuola, sindaco, ecc.) e non era previsto l’obbligo di darne comunicazione tempestiva alla procura minorile. Così si poteva verificare il caso - e più volte è capitato - che un minore venisse parcheggiato in una struttura d’accoglienza senza che per mesi il tribunale ne fosse informato. Non solo, i genitori non avevano alcuna possibilità di farsi ascoltare visto che non era stato avviato in modo ufficiale alcun procedimento giudiziario. In virtù di questo articolo, che risale al 1941 e ne riproduceva sostanzialmente uno del 1925, sono stati allontanati e continuano ad essere allontanati in Italia, in modo più o meno corretto, più o meno opportuno, 23 bambini al giorno, 8.395 in un anno. Da domani cambierà tutto. Il ‘nuovo’ 403 impone la comunicazione immediata al pm minorile, e la trasmissione entro 24 ore di tutta la documentazione. Il magistrato, a sua volta, ha a disposizione 72 ore per valutare, confermare o annullare il provvedimento. Poi, nelle successive 48 ore, se ha considerato opportuno l’allontanamento, dovrà nominare tra l’altro il curatore speciale del minore, darne avviso ai genitori del bambino e fissare entro 15 giorni l’istruttoria per ascoltare le persone coinvolte nel caso, genitori compresi. C’è inoltre sempre l’obbligo dell’ascolto del minore. E se il pm minorile non rispetta questa tempistica stringente? Il provvedimento decade e il piccolo torna in famiglia, con tutti i vantaggi, ma anche i rischi, connessi. Una rivoluzione che dovrebbe rendere più difficili, se non quasi impossibili, casi come quello di Bibbiano in cui comunque, anche con i tempi lunghi del vecchio ordinamento, i controlli ci sono stati. Prima ancora che l’inchiesta fosse resa nota, appunto nel giugno di tre anni fa, dei nove minori coinvolti nell’inchiesta perché allontanati e poi affidati con metodi considerati arbitrari, sei avevano già fatto ritorno alle proprie famiglie, per due erano in corso gli accertamenti del caso e per un ragazzo, anche di fronte al consenso dei genitori naturali, era già stato emanato un decreto definitivo di adozione. Non solo il Tribunale dei minorenni competente per territorio, quello di Bologna, aveva poi accertato che dal 2017 al 2019 gli assistenti sociali della Val d’Enza avevano chiesto provvedimenti per 100 bambini. In 85 di questi casi il Tribunale ne aveva accertato l’infondatezza, negli altri 15 casi i giudici avevano riconosciuto l’opportunità delle richieste, anche perché in otto di questi 15, i genitori non avevano fatto ricorso contro l’allontanamento. Tutto chiaro? Purtroppo no. Tante domande rimangono senza risposta, tanti dubbi non sono stati chiariti, ma sarà il processo ad affrontare questi casi quando - e sarà sempre troppo tardi - si arriverà al dibattimento. Nel frattempo dove la giustizia ancora arranca, è arrivata la politica avviando una riforma che, almeno nelle intenzioni e al di là delle critiche piovute anche da molti addetti ai lavori, dovrebbe porre rimedio alle troppe disfunzioni emerse. Sarà così? Il cammino si annuncia ancora lungo. E tutt’altro che scorrevole. Tre motivi per accelerare sulla riforma della giustizia tributaria di Giacinto della Cananea Il Foglio, 22 giugno 2022 All’ulteriore pezzetto che serve a riformare il nostro sistema giudiziario sono state rivolte molte obiezioni. Ma mantenere lo status quo non è un’opzione valida per il nostro paese. Dopo che il Senato ha approvato in via definitiva la riforma della giustizia predisposta da Marta Cartabia, è il turno della giustizia tributaria. È un’occasione da non perdere, per tre ragioni. Primo: la cornice giuridico-istituzionale è importantissima per le sorti dell’economia italiana, lo è in particolare per gli investimenti. Secondo l’Associazione delle imprese nordamericane nel nostro paese, gli investitori esteri sono scoraggiati dalla lunghezza dei processi e dall’incertezza del diritto, giacché vi sono decisioni giudiziarie (finanche della Corte di Cassazione…) assai difformi. Secondo: alcuni obiettivi riguardanti la giustizia tributaria sono inscritti nel Pnrr e vanno conseguiti entro la fine di questo anno. Pertanto, ritardare o - peggio ancora - mancare quegli obiettivi ci impedirebbe di ottenere le risorse finanziarie stanziate dall’Ue. Terzo: dopo la sospensione dovuta alla pandemia, l’Agenzia delle entrate ha ripreso ad agire a pieno regime; è inevitabile che il contenzioso aumenti, per cui bisogna migliorarne la gestione. Poiché la riforma della giustizia tributaria è necessaria e urgente, va riconosciuto al governo il merito di aver confezionato, sia pure con qualche mese di ritardo, il disegno di legge di riforma, ora all’esame del Senato. Inoltre, il testo governativo tiene conto delle proposte di legge presentate dalle forze politiche, che chiedevano di trasformare l’attuale magistratura onoraria - in cui giudici e professionisti continuano a svolgere le loro attività principali, senza dedicarsi a tempo pieno alle liti fiscali - in una giurisdizione a sé stante. Viene proposta, infatti, la creazione di un giudice tributario speciale. Infine, sono state raccolte le richieste di perfezionare alcuni istituti del processo tributario. Al disegno di legge sono state mosse svariate critiche, ma poche tengono conto dell’interesse alla buona amministrazione della giustizia. Non lo sono le obiezioni di quanti vorrebbero mantenere lo status quo, che non è un’opzione valida per il nostro paese. Non lo sono nemmeno le obiezioni dei pochi che vorrebbero far confluire la giustizia tributaria dentro quella ordinaria, che è già lentissima. Meritano, invece, un’attenta considerazione due critiche di tipo costruttivo. Da un lato, si è osservato che nel disegno di legge non vi sono adeguati incentivi per indurre i magistrati più esperti delle dispute tributarie a optare per la nuova magistratura speciale e sono limitati gli spazi per i bravi professionisti interessati a farne parte. Dall’altro, si è constatata l’assenza di una norma transitoria sull’età pensionabile dei magistrati (che il governo propone di portare da 75 anni a 70), che eviti il rischio che le commissioni tributarie perdano molti degli attuali presidenti. In questo contesto, il ruolo del Parlamento è quanto mai cruciale. Lo è, prima di tutto, per discutere il disegno di legge, con il concorso di tutti. Lo è, inoltre, per definire alcuni emendamenti. Lo è, infine, per valutare una questione di fondo: una riforma di portata storica non dovrebbe essere accompagnata anche da una definizione legislativa dei più di cinquantamila ricorsi giacenti presso la Cassazione, soprattutto delle liti di minore importo economico? Altrimenti, anche migliorando il funzionamento delle commissioni tributarie, il fardello del passato continuerà a gravare sul presente; non consentirà di invertire la tendenza, frustrando le aspettative dei cittadini e delle imprese. Crimini internazionali anche a giudici italiani di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2022 Pronto il Codice dei crimini internazionali. La Commissione istituita dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e presieduta da Francesco Palazzo e Fausto Pocar ha concluso i lavori con la redazione di un articolato e di una relazione che adesso saranno tradotti in un disegno di legge di iniziativa del Governo da approvare in consiglio dei ministri. In questo modo si dà pieno adempimento, in una fase dove di crimini internazionali e di giurisdizioni si torna purtroppo a discutere, agli obblighi internazionali assunti dall’Italia dopo la ratifica dello Statuto di Roma sulla Corte penale internazionale, dopo 20 anni dalla sua entrata in vigore e dopo 24 dalla sua firma. A mancare sinora è stato infatti lo strumento per assicurare che i crimini descritti nello Statuto di Roma possano essere sottoposti alla giurisdizione italiana Con questo obiettivo a dovere essere definiti sono stati temi cruciali sulla giurisdizione, sulla competenza, su clausole generali di responsabilità e infine sulla determinazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità, dei crimini di guerra e di aggressione. Quanto ai criteri di imputabilità, i crimini commessi nel territorio dello Stato sono puniti secondo la legge italiana; così come sono puniti secondo la legge italiana i crimini commessi dal cittadino in territorio estero ovvero dallo straniero ai danni dello Stato o di un cittadino. Il crimine commesso dallo straniero non ai danni dello Stato o di un cittadino, anche in eventuale concorso con un cittadino, è punito secondo la legge italiana sempre che il colpevole si trovi sul territorio dello stato. Nel caso del crimine di aggressione, il colpevole è punito secondo la legge italiana a richiesta del ministro della Giustizia, sempre che si trovi nel territorio dello Stato. Soluzione aperta sulla giurisdizione, dove la Commissione non ha trovato unanimità e lasciato a Cartabia la decisione se affidare la competenza alla magistratura ordinaria oppure a quella militare quando si tratta di crimini commessi in Italia o all’estero da appartenenti alle Forze armate italiane. Viene introdotta una norma che esclude la possibilità di invocare la natura politica dei crimini internazionali nelle ipotesi di estradizione verso un altro Stato o di consegna alla Corte penale internazionale. Detto della imprescrittibilità dei crimini internazionali, l’articolato intervenire sulle esimenti dell’adempimento dell’ordine del superiore e sull’uso legittimo delle armi. Quanto all’adempimento dell’ordine del superiore, nella proposta elaborata dalla Commissione, rispondono del crimine sia chi ha dato l’ordine sia il subordinato, a meno che non si tratti di un ordine non sindacabile il cui carattere criminoso non gli fosse noto o non fosse evidente. La Commissione ha poi distinto tra immunità funzionale e immunità personale, quest’ultima riconosciuta alle più alte sfere statali, escludendone però gli effetti in caso di crimini internazionali davanti a corti penali internazionali. L’ordine di commettere un crimine di genocidio o un crimine contro l’umanità si considera di carattere manifestamente criminoso. Il calvario del carabiniere Alfonso Bolognesi: carcere, carriera in fumo ma era innocente di Viviana Lanza Il Riformista, 22 giugno 2022 Più di tre anni in carcere. Quattordici tra processi e attese. Un errore giudiziario. Alfonso Bolognesi è tornato solo ora ad indossare la divisa da carabiniere e presto riacquisterà anche i gradi persi in questi anni di calvario giudiziario. Nel 2008 aveva 45 anni ed era comandante della stazione dei carabinieri di Pinetamare. Fu coinvolto in un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia e improvvisamente la sua vita e la sua carriera subirono un violento cambio di rotta. Fu arrestato con l’accusa di aver favorito la camorra casertana. Il 28 ottobre 2008 Bolognesi dovette togliere la divisa. I pm dell’Antimafia lo accusavano di aver consentito al boss Giuseppe Setola, responsabile dell’ala stagista dei Casalesi, di sfuggire a vari blitz. Ci sono voluti cinque processi (tra primo grado e processi in Appello e Cassazione) per stabilire che la ricostruzione di pm e pentiti non era fondata, e che Alfonso Bolognesi andava assolto così come aveva sempre sostenuto il suo avvocato difensore, il penalista Raffaele Crisileo, che su questa vicenda ha ora scritto un libro (“Vittima innocente: la storia di un errore giudiziario”). Il calvario di Bolognesi è stato lungo e doloroso. Il maresciallo fu condannato a quattro anni di carcere per corruzione con l’aggravante camorristica, ne scontò tre e mezzo in carcere ottenendo di poter ultimare la pena con l’affidamento in prova, lavorando nella pizzeria del fratello in un paesino del Cilento. Nel 2019 è arrivata la prima svolta con la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e ottenuta da Bolognesi in un diverso processo, sempre per corruzione, relativo a presunti omessi controlli in un esercizio commerciale di Castel Volturno. Quell’assoluzione ha segnato una svolta perché ha aperto la strada alla revisione al processo che si era concluso con la condanna a quattro anni per corruzione con finalità camorristica. Nel 2021, dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, si è ripetuto il processo e in dibattimento sono stati ascoltati di nuovo tutti i collaboratori di giustizia che avevano accusato Bolognesi, e alla fine il maresciallo è stato assolto. Assoluzione che è diventata ora definitiva. Gli anni del calvario giudiziario hanno privato Bolognesi della libertà, della divisa, dello stipendio e i problemi che ha dovuto affrontare sono stati tanti, da quelli più intimi e personali a quelli economici. La revisione del processo, l’assoluzione e il reintegro nell’Arma hanno messo fine al lungo incubo e gli hanno ridato una vita. Sardegna. Il ministro Cartabia visiterà le carceri di Bancali e Uta L’Unione Sarda, 22 giugno 2022 La Guardasigilli vedrà anche i vertici della Corte d’appello e degli uffici giudiziari. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia sarà in Sardegna, il 23 e il 24 giugno. Il primo impegno sarà la partecipazione a Sassari all’undicesimo Forum europeo per la giustizia riparativa. L’intervento è atteso alle 9.30 al conservatorio “Luigi Canepa”. A seguire, la Guardasigilli ha in programma una visita alla Casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” di Sassari-Bancali. Venerdì 24 giugno, a Cagliari, incontrerà i vertici della Corte d’appello e degli uffici giudiziari, insieme ai protagonisti dell’Ufficio per il processo, nell’Aula magna alle 10. Alle 12, all’interno della Casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta, Cartabia inaugurerà un laboratorio dedicato al ricondizionamento dei modem di rete e firmerà, insieme al ministro per l’Innovazione tecnologica e la Transizione digitale, Vittorio Colao, in collegamento dal carcere di Torino, il memorandum d’intesa del Programma “Lavoro carcerario”. Un progetto in collaborazione con gli operatori delle telecomunicazioni per aumentare le opportunità professionali dei detenuti nei settori Tlc e Ict e favorirne il reinserimento sociale. Alle 12.15, sempre all’interno del carcere, si terrà una conferenza stampa congiunta tra Cagliari e Torino con il ministro Colao in collegamento. Interverranno anche i vertici delle società che aderiscono al programma. L’ultimo appuntamento in Sardegna è una visita, nel pomeriggio di venerdì 24, nella comunità “La Collina”, impegnata nel recupero dei giovani entrati nel circuito penale. Pavia. In carcere da due mesi anche se è stato assolto per “vizio di mente” di Manuela D’Alessandro agi.it, 22 giugno 2022 Il giudice aveva disposto che venisse mandato in una Rems, la residenza sanitaria dove vengono curati gli autori di reato incapaci di intendere e di volere ma l’amministrazione penitenziaria ha fatto sapere che per lui non c’è posto. Assolto per “vizio totale di mente” ma è in carcere da due mesi perché non c’è posto per lui in nessuna Rems, cioè in una di quelle strutture sanitarie dove i giudici mandano gli autori di reato affetti da disturbi psichiatrici e socialmente pericolosi. Il ragazzo ha 22 anni, “sorride sempre e ha delle visioni, dice di essere controllato dagli aeroplani e di poter guarire il Covid coi suoi poteri” spiega all’Agi la sua legale, Federica Liparoti. Si chiama O.D.B., è un cittadino marocchino in Italia con permesso di soggiorno e, dettaglio che suona ancor più beffardo in questa vicenda, risiede coi genitori e il fratello a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, dove si trova l’unica Rems lombarda. “Inconsapevole della malattia e delle necessità delle cure” - Non c’è posto lì e in nessun’ altra residenza di questo tipo in Italia. Nel gennaio scorso O.D.B. sfila il portafoglio a una donna di 78 anni. Il giudice delle direttissime convalida l’arresto e gli impone l’obbligo di presentazione alle forze dell’ordine. Tre giorni dopo commette un altro scippo e la situazione si aggrava. Carcere. La sua avvocata chiede l’abbreviato condizionato alla perizia psichiatrica, che sancisce la “totale incapacità di intendere e di volere al momento del fatto”. Il 29 aprile il giudice di Brescia Luigi Andrea Patroni Griffi dispone la Rems al posto del carcere di Pavia, una misura di sicurezza della durata di due anni. O.D.B. è pericoloso, non mostra “alcun sentimento di sincero pentimento né tantomeno di colpa per l’accaduto, vissuto con freddezza e distacco anaffettivo”, si legge nella perizia. Se rimesso in libertà, “non seguirebbe le cure”. Manifesta “una totale dispercezione della realtà e assenza di consapevolezza della malattia e dell’esigenza di essere curato”. Lo stesso magistrato lo assolve il 9 maggio. “Indisponibili tutte le strutture in Italia” - A questo punto, ogni giorno di prigione è senza titolo. Il 7 giugno, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha risposto così all’istanza dell’avvocata: “Tutte le strutture del territorio nazionale hanno dichiarato l’indisponibilità”. “Continua a stare nel carcere di Pavia, dove per fortuna è seguito da uno psichiatra competente. Ma resta una situazione inaccettabile” commenta Liparoti. “O.D.B. è come un bambino. A nominarmi come avvocato è stato il fratello, lui non è in grado di capire. Se dovesse uscire, potrebbe aggredire delle persone. Ha bisogno di cure. L’Italia è già stata condannata per un caso simile dalla Cedu a risarcire un detenuto assolto che avrebbe dovuto stare in una Rems. Sto pensando anche io a un ricorso ma i tempi sono lunghi. E ogni giorno in carcere per il ragazzo è senza ragione e un danno per la sua salute e dignità”. Roma. Giovani autori di reato, il progetto “Cambio Rotta” di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 22 giugno 2022 Come vincere la sfida contro gli errori del passato aiutando i cani costretti nei canili. Una raccolta fondi dal basso per sostenere l’iniziativa di Fondazione Cave Canem. Il progetto di giustizia riparativa compie 2 anni e invita a sostenere le prossime azioni. Un progetto per minori autori di reato e cani abbandonati, pensato per essere replicato su larga scala e divenire un programma stabile a supporto degli Organi della Giustizia Minorile. Compie due anni Cambio Rotta ideato da Fondazione Cave Canem e realizzato nel canile Valle Grande di Roma. Il progetto è oggi al centro di una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma Eppela, con il sostegno dell’azienda farmaceutica MSD. In gioco c’è l’estinzione del reato. I giovani coinvolti svolgono lavori socialmente utili in canile aiutando cani vittime di abbandono e maltrattamenti a riacquistare fiducia nei confronti dell’uomo aumentando così le possibilità di adozione di animali altrimenti condannati a vivere tutta la vita in un box. Attraverso lavori socialmente utili e incontri di formazione, il progetto favorisce il reinserimento di ogni giovane nel contesto familiare e sociale, grazie all’acquisizione di conoscenze e competenze spendibili in ambito lavorativo e percorsi personalizzati, che consentano la rielaborazione del reato. In caso di esito positivo, il Giudice con sentenza “dichiara estinto il reato” e il giovane imputato viene prosciolto dai fatti addebitatigli. Trentuno i giovani coinvolti fino a ora. Ventiquattro di loro hanno beneficiato dell’estinzione del reato commesso grazie al buon esito del programma definito per ognuno di loro dall’Ufficio Servizi Sociali per i minorenni; 7 i giovani ancora in messa alla prova. Tra loro, 4 giovani hanno già ottenuto un incarico professionale, 5 hanno beneficiato di una borsa lavoro come assistenti di campo, 8 hanno beneficiato di una borsa di studio. Dall’inizio del programma sono stati aiutati più di 150 cani in canile: spesso si tratta di animali vittime di maltrattamenti o sottoposti a sequestro giudiziario, anch’essi bisognosi di un percorso di riabilitazione per poter essere adottati e vivere in famiglia. Pratiche innovative e concrete. “Nell’ambito delle profonde trasformazioni che interessano la nostra società - afferma Federica Faiella vicepresidente della Fondazione Cave Canem - la nostra non profit si adopera per dare concretezza a pratiche socialmente innovative e di supporto al welfare che puntino a rimuovere le barriere di partecipazione attraverso strumenti più inclusivi che vedano quali attori cooperanti soggetti pubblici e privati, a favore di persone e animali. Siamo orgogliosi che sia emerso il valore del progetto tanto da aver ottenuto il supporto di due realtà strutturate e accreditate come Eppela e MSD”. Coinvolti in attività stimolanti. “Il progetto ha un alto significato valoriale - afferma Mirko Zuccari dog trainer manager della Fondazione Cave Canem - i giovani attentamente selezionati vengono accolti senza pregiudizi o preconcetti dal team di campo della Fondazione e coinvolti in attività davvero stimolanti al fianco di educatori cinofili altamente specializzati a favore di cani interessati da alterazioni comportamentali. Con Cambio rotta vogliamo soprattutto sottolineare l’idea che i cani senza famiglia quali esseri senzienti meritevoli di tutela in via diretta, hanno diritto a un servizio di assistenza qualitativamente elevato”. Le prospettive nell’ambito del lavoro. I fondi raccolti in rete saranno impiegati per coinvolgere i giovani che si sono distinti durante il percorso di “messa alla prova”, in una formazione intensiva in materia di accudimento e recupero di cani con problemi comportamentali. In altre parole: dare un futuro e una prospettiva occupazionale a ragazzi e ragazze che hanno saldato il proprio debito con la giustizia, limitando così il rischio che tornino a delinquere. Coloro i quali contribuiranno con una donazione, potranno vivere un’esperienza in canile e toccare con mano il lavoro condotto dal team della Fondazione Cave Canem, conoscere i professionisti che ogni giorno si impegnano ad accompagnare cani traumatizzati verso una nuova vita e sentirsi parte di un progetto di rinascita per tutta la comunità. Cos’è la fondazione Cave Canem. È una non profit al femminile, nata dalla volontà di due donne, Adriana Possenti (presidente) e Federica Faiella, vicepresidente, per favorire l’evoluzione nel rapporto tra persone e animali e cambiare il destino di cani e gatti vittime di abbandono o maltrattamento. Si ricorre a modelli di co-progettazione, occasioni di formazione, campagne di sensibilizzazione e informazione, in una visione generale ispirata ai valori dell’inclusione sociale. Reggio Emilia. Il Comune verso l’istituzione del Garante dei detenuti reggiosera.it, 22 giugno 2022 Faciliterà il dialogo tra il Comune e il penitenziario, e favorire percorsi di recupero, attraverso il lavoro e la cultura, con il supporto delle associazioni e delle cooperative che già oggi operano in carcere. Il Comune si doterà di un proprio garante delle persone detenute. Lo prevede una mozione promossa dal gruppo di maggioranza “Reggio è” e approvata oggi dal Consiglio comunale, che porterà a breve ad approvare in sala del Tricolore il regolamento istitutivo di questa figura. “Un grande passo avanti per Reggio Emilia, anche alla luce della complessità e varietà di situazioni che si trovano in via Settembrini, dalla detenzione femminile alla sezione trans, dall’articolazione di salute mentale alla casa circondariale”, afferma il consigliere regionale reggiano Federico Amico (Emilia-Romagna Coraggiosa). Oltre a colmare “una mancanza che esisteva da troppo tempo”, il garante “potrà facilitare il dialogo tra il Comune e il penitenziario, e favorire percorsi di recupero, attraverso il lavoro e la cultura, con il supporto delle associazioni e delle cooperative che già oggi operano in carcere”, sottolinea poi Amico. Infine “consentirà un nuovo e ancora più positivo rapporto tra istituzioni e cittadinanza”, conclude il consigliere regionale. La notizia dell’istituzione del garante arriva a pochi giorni del suicidio di un detenuto nel penitenziario reggiano. Santa Maria Capua Vetere (Ce). I detenuti raccoglieranno farmaci per i bisognosi di Marilù Musto Il Mattino, 22 giugno 2022 È stato presentato alla stampa, nella sala Nassirya del Consiglio regionale, il protocollo d’intesa per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di alcuni detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, nell’ambito del progetto “Un farmaco per tutti”, promosso dalla fondazione dell’Ordine dei farmacisti di Napoli. Il protocollo, stipulato tra la casa circondariale F. Uccella di Santa Maria Capua Vetere, il garante dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale della Campania, la fondazione Ordine dei farmacisti di Napoli, l’ufficio interdistrettuale di Esecuzione penale esterna di Napoli, l’ufficio di Esecuzione penale esterna di Caserta e l’ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, è stato firmato al termine della conferenza stampa. Il protocollo prevede la possibilità per alcuni detenuti di uscire almeno due volte a settimana per raggiungere Napoli, accompagnati dall’associazione Generazione Libera, iscritta nella lista delle associazioni di volontariato dell’ufficio del Garante, che metterà a disposizione un mezzo e un autista per il trasporto dei detenuti alla sede di raccolta dei farmaci. Al momento la durata sarà di sei mesi, ma è già stata prevista la possibilità di un rinnovo. I detenuti ammessi al lavoro di pubblica utilità si occuperanno prevalentemente della raccolta dei farmaci, nonché di altro materiale medico e chirurgico, donato da cittadini e da aziende farmaceutiche. Alla conferenza stampa hanno preso parte la vicepresidente del Consiglio regionale Loredana Raia, la direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Donatella Rotundo, il presidente della fondazione dei farmacisti di Napoli, Vincenzo Santagada, il garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, e Marco Puglia, magistrato di sorveglianza. Brindisi. Spesal e Scuola edile in carcere per formare addetti alla rimozione amianto brindisireport.it, 22 giugno 2022 Le attività di formazione sono state messe a punto dai tecnici diretti da Nicola Dipalma, con il supporto del Cpt il cui responsabile è Cosimo Dimonte. Sono 10 i detenuti della Casa circondariale di Brindisi ad aver seguito il corso di formazione per addetti alla rimozione di materiale contenente amianto, organizzato dal Cpt (Centro paritetico territoriale) della scuola edile, in collaborazione con il servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Asl, conclusosi il 12 maggio scorso. Il 13 giugno, nella cappella del carcere, i neo operatori hanno ricevuto i diplomi di qualifica, consegnati dai rappresentanti delle istituzioni organizzatrici. Le attività di formazione, come previsto dalle leggi in vigore, sono state messe a punto dai tecnici dello Spesal, diretti da Nicola Dipalma, con il supporto del Cpt il cui responsabile è Cosimo Dimonte. L’amministrazione carceraria, rappresentata dal direttore Valentina Meo Evoli, dal comandante Benvenuto Greco e dall’educatrice Mariella Ruggiero, ai quali si è unito il garante dei diritti delle persone prive di libertà Fernando Benigno, ha accolto l’iniziativa, sostenendo il progetto fino alla sua conclusione. Il corso, con lezioni teoriche e pratiche, si è diviso in due moduli: il primo si è concentrato sugli obblighi, i diritti e i doveri dei lavoratori, sui rischi e i danni provocati dall’esposizione a fibre di amianto, sulle modalità di trattamento e smaltimento dei rifiuti contenenti amianto, sulle finalità del controllo sanitario; il secondo, invece, sul lavoro in sicurezza, sugli obblighi e i doveri del datore di lavoro e del lavoratore, sui dispositivi di protezione individuale, sulle unità di decontaminazione. “Quello dell’amianto - spiega Dipalma - è un problema di drammatica attualità, nonostante la legge che mette al bando l’uso di questo materiale risalga ormai a trent’anni fa. Sono ancora tanti gli immobili in cui resistono manufatti di eternit pericolosi per l’ambiente e la salute pubblica. Questo progetto, realizzato in collaborazione con il Cpt della Scuola edile di Brindisi, ha dunque una duplice valenza: accelerare il processo di bonifica del territorio dall’amianto grazie alla disponibilità di un nuovo gruppo di operatori professionali qualificati e aiutare il percorso di reinserimento nella società per chi sta scontando una pena in carcere”. Dello stesso avviso è Giovanni Librando, vicepresidente della Scuola edile che ha voluto ringraziare l’amministrazione del carcere e lo Spesal per la disponibilità mostrati durante le lezioni. “La direzione della casa circondariale - afferma Librando - ha accolto sin da subito l’idea di un corso di formazione per i detenuti. Sono esperienze che vanno concretamente nella direzione del reinserimento dei detenuti nella comunità una volta saldato il debito con la giustizia. La scuola edile, con il Cpt, è impegnata da anni nella formazione di fasce di popolazione deboli, con corsi professionali riconosciuti, per offrire un futuro diverso a chi si trova in difficoltà: cercheremo di ripetere a breve queste iniziative all’interno del carcere”. Il direttore della casa circondariale ha sottolineato che “grazie allo Spesal e alla Scuola edile le qualifiche guadagnate saranno spendibili all’esterno con un doppio significato: quello del reinserimento e quello ambientale”. Emozionati i novelli operatori al momento della consegna dei diplomi: “Siamo consapevoli di essere dei privilegiati per aver potuto sostenere questo corso. Alla fine del nostro percorso avremo un’opportunità che speriamo ci consenta di avere un futuro migliore. Ringraziamo tutte le istituzioni per averci dato questa opportunità che abbiamo colto con entusiasmo e impegno”. Piacenza. Frutta, verdura e miele prodotti in carcere piacenzasera.it, 22 giugno 2022 In autunno laboratorio per marmellate e confetture. Dà frutti il progetto di coltivazione di frutta e verdura in carcere. Nell’autunno sarà avviato un nuovo laboratorio, che consentirà di produrre marmellate e confetture a Le Novate, utilizzando non solo i prodotti dell’orto, ma anche gli agrumi della Sicilia, grazie alla collaborazione di Libera. I dettagli del progetto sono stati presentati dalla direttrice della Casa Circondariale di Piacenza Maria Gabriella Lusi, il Comandante Sostituto Commissario Giovanni Marro, il Responsabile Area Educativa Vincenza Zichichi, il Presidente de “L’Orto Botanico” Fabrizio Ramacci, il Garante locale dei Diritti della Persone Detenute prof. Antonello Faimali e l’incaricato per i progetti rivolti alla popolazione detenute Brunello Buonocore, coordinatore d’area di Asp Città di Piacenza. La produzione di fragole, miele e verdura è ormai una realtà consolidata dal 2019, grazie alla collabirazione avviata tra Le Novate e la cooperativa sociale L’Orto Botanico. In più, da qualche settimana è stato allestito un chiosco in legno per la vendita di questi prodotti proprio in prossimità del carcere. L’iniziativa è il coronamento di una progettualità che ha molto a che fare con il reinserimento sociale delle persone detenute e che si poggia sulla necessità principale, da tutti riconosciuta, che è quella del lavoro. A maggio scorso fu inaugurata l’area lavorazioni denominata “Le Novate al Lavoro”, fortemente sostenuta dall’Amministrazione Penitenziaria, con la realizzazione di un call center interno che già impegna in postazioni dedicate circa venti soggetti in stato di detenzione. Dal 2019 la Cooperativa sociale d’inserimento lavorativo “L’Orto Botanico”, che ha sede ad Alseno ma opera su tutto il territorio piacentino, ha inventato un brand e si è impegnata per commercializzare tutti i prodotti che a seguito di attività concrete vengono realizzati in carcere. Il marchio che caratterizza l’iniziativa si chiama “Ex Novo”, termine che vuole rimandare a un “nuovo inizio”, al ricominciare da capo. Si fa riferimento perciò a una nuova opportunità, quindi ad un “riscatto sociale” della condizione della persona: dal passato di “ex” (delinquente e carcerato) al futuro di “novo” (lavoratore). E il passaggio avviene nel presente, attraverso il lavoro, l’apprendimento di un mestiere “frutto del lavoro del carcere di Piacenza”. I lavoratori sono in gran parte assunti e regolarmente e correttamente retribuiti, i tirocini e le borse lavoro sono utilizzati in minima parte. Oggi all’interno del carcere ci sono alcune serre, campi coltivati a orto e piccoli frutti, una ventina di arnie e un laboratorio di trasformazione e confezionamento in fase di allestimento. Il senso del progetto è anche quello di creare possibilità di un futuro “sicuro” per i singoli e per la società, facendo leva sull’elemento del trattamento penitenziario che è il lavoro. “Ex Novo” è soprattutto conosciuto per le fragole. Le “fragole del carcere” sono collegate alla cura e coltivazione di circa 15.000 piantine trapiantate sia in serra che in pieno campo, e sono vendute presso la grande distribuzione piacentina. Al momento la produzione delle fragole volge al termine, ma oltre alle fragole vengono realizzati molti tipi di ortaggi: dalle zucchine alle fave a tutto quello che può essere coltivato nella nostra zona climatica. Inoltre, esiste un’attività di apicoltura continuativa durante tutto l’arco dell’anno: in carcere si produce anche il miele. In programma anche altro legato alla trasformazione di frutta e ortaggi: marmellate, composte, passate e probabilmente anche frutta candita. Tutto questo è stato reso possibile dalla positiva collaborazione tra la direzione del carcere e la cooperativa “L’Orto Botanico”, ma soprattutto alla lungimiranza della dottoressa Maria Gabriella Lusi, che guida l’istituto piacentino da tre anni Potenza. Aperto uno spazio di unione tra carcere e città basilicata24.it, 22 giugno 2022 Dopo un intervento di rigenerazione urbana aperto lo spazio all’esterno della Casa circondariale. Si è svolta giovedì 15 giugno a Potenza, in via San Vincenzo de’ Paoli, la festa di apertura alla cittadinanza dello spazio Extra Moenia, risultato di un intervento di rigenerazione urbana in un’area in precedenza inutilizzata all’esterno del carcere di Potenza e a ridosso del Rione Betlemme. L’evento ha segnato la conclusione del percorso di “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale”, progetto vincitore dell’avviso pubblico Creative Living Lab - 3 edizione promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, ideato da Compagnia teatrale Petra insieme alla Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e a Officine Officinali APS e con il patrocinio del Comune di Potenza. Una serata di festa che ha concluso la progettazione condivisa con cittadini e comunità con la consegna dello spazio alla città, ma che ha rappresentato anche un punto di partenza di una nuova fase che prevede un modello di gestione e fruibilità in connessione con il quartiere Betlemme e i suoi abitanti. Saranno la Casa Circondariale, gli operatori e i cittadini a definire insieme un formulario per l’utilizzo dello spazio e per immaginare nuove attività da realizzare insieme. In apertura di serata hanno preso la parola i referenti di tutti i partner di progetto: per la Casa Circondariale il comandante Giovanni Lamarca, Giuseppe Palo, funzionario di staff del Provveditorato di Puglia e Basilicata, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Potenza Paola Stella; per il Comune di Potenza l’assessore alle Politiche sociali e abitative Fernando F. Picerno e Giuseppe Romaniello, responsabile dell’unità di direzione “Servizi alla persona”; per l’associazione Officine Officinali il tecnologo alimentare Daniele Gioia. Presenti anche la direttrice della Casa Circondariale Maria Rosaria Petraccone e il Prefetto di Potenza Michele Campanaro. Il percorso di “Extra Moenia” in tutte le sue fasi di progettazione partecipata con la comunità è stato presentato e raccontato da Antonella Iallorenzi, direttrice artistica della Compagnia Petra, e dagli architetti progettisti Lia Teresa Zanda e Giorgia Botonico. Nel corso della serata sono stati mostrati i video di racconto delle attività laboratoriali con i cittadini e il filmato di una performance realizzata in carcere dai detenuti allievi dei laboratori di teatro di Petra. Nello spazio rigenerato sono stati esposti i prodotti dell’associazione Officine Officinali e le produzioni dei detenuti. “Extra Moenia” è stato il risultato di un processo di evoluzione durato anni, che si è sviluppato grazie alla presenza attiva della Compagnia Petra all’interno della Casa Circondariale con i suoi laboratori teatrali. L’idea iniziale del progetto è stata quella di costruire una ‘tabula rasa’ in legno, sulla quale poi sviluppare idee e costruire azioni per rendere lo spazio fruibile. Fondamentale è stata la generosità dei partecipanti alle fasi di coprogettazione e autocostruzione, sia nel tirar fuori le proprie idee, a volte anche ardite, sia nel mettere a disposizione tempo e impegno per costruire materialmente gli elementi di arredo da collocare nello spazio rigenerato. Anche gli ospiti della Casa Circondariale sono stati coinvolti nella costruzione di manufatti utili a rendere fruibile lo spazio oggetto dell’intervento, attraverso un’opera di recupero dei materiali di scarto e inutilizzati in possesso della Casa Circondariale, come vecchi sgabelli e brande trasformati in oggetti con una nuova funzione. Caserta. Diritto alla sessualità in carcere, convegno in Provincia anteprima24.it, 22 giugno 2022 Giovedì 23 giugno 2022, alle ore 10, presso la Sala Riunione della Provincia di Caserta si terrà la presentazione “Report Garante, confronto sulle rooms of love Caserta - Madrid”, a cura della dottoressa Emanuela Belcuore, Garante Detenuti della Provincia di Caserta. Dopo i saluti del Presidente della Provincia, Giorgio Magliocca e del Vice Presidente, Pasquale Crisci, interverranno all’incontro Samuele Ciambriello, Garante Detenuti della Regione Campania, Lucia Castellano, Dap Campania, Marco Puglia, Magistrato di Sorveglianza, Vincenzo Margherita, Dirigente Sanitario UOS Servizio Medicina Penitenziaria di S. Maria C.V., Pasquale Iannotta, Dirigente Medico UOSD Dipendenze Patologiche in Carcere, Francesco Piccirillo, Avvocato penalista, Pietro Ioia, Garante Detenuti del Comune di Napoli, Patrizia Sannino, Criminologa e Mediatrice Penale e Penale Minorile, Emilio Fattorello, Segretario Nazionale Sappe, Giovanna Perna, Responsabile Campania Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane, Rosaria Ponticiello, Dirigente Psicologo UOC Tutela Salute Carcere, Alfredo Grado, Criminologo Clinico, Don Franco Esposito, Pastorale Carceraria di Napoli. Nell’ambito del panorama italiano, lo strumento attraverso il quale meglio si realizza la soddisfazione dei bisogni affettivi e sessuali del detenuto è attualmente ancora quello del permesso premio, di cui all’art. 30 ter O.P., che la legge prevede anche al fine di coltivare gli interessi affettivi. Tale beneficio, tuttavia, non costituisce una soluzione al problema, non essendo fruibile dalla generalità dei detenuti: esso infatti è riservato ai soli condannati che si trovino nelle condizioni descritte dalla legge. Di recente sono stati stanziati fondi per 28 milioni di euro. Questa somma sarà destinata alla costruzione di casette simili a quelle per i terremotati, all’interno di una Casa circondariale di ogni Regione, o in alternativa, per ristrutturare fabbricati già esistenti, trasformandoli in mini appartamenti. Tali spazi andrebbero a favorire i diritti, i bisogni sociali ed affettivi dei detenuti, nello spirito della tutela e salvaguardia della dignità della persona umana. In Europa, già in 31 Stati, in qualche modo si autorizzano le visite affettive ai detenuti. “Abbiamo il dovere di tutelare sempre i diritti e la dignità dei detenuti, le loro relazioni affettive, nel pieno rispetto delle normative vigenti - ha dichiarato il Presidente della Provincia di Caserta, Giorgio Magliocca - garantendo loro la piena salute psico-fisica, conformandoci in tal modo sia ai dettami della nostra Costituzione, relativamente al diritto alla salute umana, sia alle condizioni analoghe già autorizzate e regolate negli altri Paesi europei”. “Bisogna garantire il diritto alla sessualità in carcere - ha commentato la dottoressa Emanuela Belcuore, Garante Detenuti della Provincia di Caserta - e ciò sia per l’aspetto emotivo che per quello prettamente fisico. Mi riferisco anche al diritto alla salute e al suo mantenimento, garantito dall’articolo 32 della Costituzione. Bisogna considerare che la salute psico-fisica viene compromessa da forzati e prolungati periodi di astinenza sessuale - ha concluso - quindi bisogna concretizzare al più presto il progetto del vis a vis così come applicato in Spagna da decenni”. Lecco. La Giustizia riparativa in piazza con tre serate-evento ilcittadinomb.it, 22 giugno 2022 “Il carcere non deve essere visto come patologico, qualcosa di altro dalla società. E noi che ci lavoriamo dobbiamo costruire per i detenuti un percorso che li riporti nella società attraverso il dialogo continuo con il mondo esterno”. Da queste parole di Antonina D’Onofrio, direttore della casa circondariale di Lecco Pescarenico che ospita circa 76 detenuti con pene definitive non lunghissime, in occasione della presentazione di “Piazza dell’Innominato - Lecco Restorative City”. Tre serate evento sul tema della giustizia riparativa che tanto sta a cuore al ministro Cartabia che, dopo l’esordio del 2021, ritornano a Lecco in piazza e in carcere. L’evento è promosso da CSV Monza-Lecco-Sondrio, dal Comune di Lecco e Tavolo lecchese per la giustizia restorativa, giunto al suo decimo anno di attività. Tre le serate. Giovedì 30 giugno alle 21 avrà luogo la proiezione del film “Aria ferma” di Leonardo Di Costanzo, presso l’area della Piccola e in contemporanea presso la casa circondariale di Lecco, a cura dell’associazione Dinamo culturale, con un collegamento da remoto per uno scambio condiviso prima e dopo la visione del film. Autorità, cittadini e un ristretto numero di persone saranno presenti in entrambi i contesti. Consigliata la prenotazione a questo link https://forms.office.com/r/420vYEAuUf. Venerdì 1° luglio alle 20.30 alla Piccola è in programma l’incontro “Costruire giustizia con i minori: dialogo sulla giustizia minorile”, con riflessioni e testimonianze di ospiti dalla lunga esperienza professionale nell’ambito giudiziario, educativo e scolastico e la presentazione del libro “Un anno strano” di Ennio Tomaselli. Consigliata la prenotazione a questo link https://forms.office.com/r/QkmxkSNEkqop. Lunedì 4 luglio alle 21 al Politecnico (Aula B0.7) si terrà l’incontro conclusivo “Giustizia in dialogo: retribuire, riabilitare, restorare”, in cui dialogheranno gli attori locali che operano nell’ambito penale. Saranno presenti anche due detenuti che racconteranno la propria esperienza. Consigliata la prenotazione a questo link https://forms.office.com/r/QkmxkSNEkqop. È possibile prenotarsi anche scrivendo a linnominato@leccorestorativecity.it. “La nostra società ha bisogno di “ponti”. Lecco Restorative City, organizzata insieme al tavolo lecchese per la giustizia restorativa, è per questo un patrimonio prezioso, uno spazio di dialogo e di inclusione che permette di aprire a un concetto di giustizia dove vittime, rei e comunità si incontrano - ha commentato l’assessore al Welfare del Comune di Lecco Emanuele Manzoni -. Non si tratta di qualcosa che riguarda solo gli aspetti di rilevanza penale ma di un metodo che mette al centro le persone, anche chi ha sbagliato, aprendo a una dimensione sociale importante. La nostra amministrazione vuole continuare a lavorare in questa direzione insieme alla casa circondariale, al tavolo, a tutte le associazioni che si occupano di questi temi e al nostro garante. È per questo che i palcoscenici di Lecco Restorative City saranno dentro e fuori le mura: perché vi possa partecipare tutta la comunità, proprio tutta”. “Ci prendiamo cura delle relazioni per far crescere una città più attrattiva - ha aggiunto l’assessore all’Attrattività territoriale del Comune di Lecco Giovanni Cattaneo -. Il modo in cui ci trattiamo fa la differenza e l’esperienza del Tavolo della giustizia restorativa fa emergere aspetti talvolta nascosti eppure decisivi del nostro essere comunità. Piazzale Cassin ospita per il secondo anno la Piazza dell’Innominato: Lecco è un laboratorio a livello nazionale sui temi della giustizia, l’animazione della Piccola è l’occasione per condividere il percorso che si sta portando avanti coinvolgendo tutti, a partire dai più giovani”. “Vedo volti che raccontano storie”, ha detto il Garante dei detenuti - Così il garante delle persone private della libertà individuale del Comune di Lecco Lucio Farina: “È importante che il carcere e la comunità si incontrino sempre più spesso per permettere alle persone detenute di ricostruire relazioni significative affinché possano, sia durante sia al termine del periodo di detenzione, ricostruire un percorso di vita in sintonia con le regole del comune vivere”. Il commento di Simona Carozzi, del Tavolo lecchese della giustizia restorativa: “Il Tavolo lecchese ha intrapreso un cammino appassionato e a volte impervio, che ha assunto la visione della Restorative Justice come orizzonte di sviluppo di una Città e di una Comunità Restorativa, impegnata a declinare i principi e i valori della Restorative Justice nelle pratiche quotidiane attraverso cui si affrontano i conflitti e le lacerazioni che si generano tra le persone nella convivenza civile oltre che come percorso possibile e auspicabile che arricchisce e integra le risposte della giustizia penale. Il Tavolo dell’Innominato opera affinché nella comunità si creino le condizioni che rendono praticabili esperienze e risposte di giustizia esigenti e, ogniqualvolta possibile, alternative a quelle meramente punitive e privative della libertà personale, spesso deresponsabilizzanti e non sempre efficaci nel prevenire il crimine e la sua recidiva. Per fare questo è importante coltivare collaborazioni con le istituzioni e tutti i cittadini interessati al tema”. A questo collegamento il nuovo portale del Tavolo lecchese per la giustizia restorativa: www.leccorestorativecity.it. Bologna. Media e giustizia, la proposta: “Un tavolo per discutere insieme” di Federica Orlandi Il Resto del Carlino, 22 giugno 2022 Partecipatissimo il convegno sul “processo mediatico” con al centro il libro del professor Vittorio Manes. “Ma qui l’informazione funziona”. Un tavolo con giornalisti, magistrati e avvocati, per discutere delle vicende di cronaca giudiziaria e “shared responsability”, responsabilità condivisa nell’informazione dei processi. Per evitare il “processo mediatico”, che si nutre di ‘informazione-spettacolo’ distorcendo quello nelle aule di giustizia, con un intento “punitivo”. È la proposta lanciata dal professore e avvocato Vittorio Manes, alla presentazione del proprio libro ‘Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo’ (il Mulino), presentato ieri nel cortile di Palazzo Malvezzi. Ficcanti e a tratti provocatori gli interventi degli ospiti dell’evento: dopo i saluti del professore dell’Alma Mater Michele Caianiello, del presidente dell’Ordine degli avvocati Elisabetta d’Errico e del presidente della Camera penale Roberto d’Errico, introdotti dal vice presidente dell’associazione Extrema Ratio Lorenzo Cameli, hanno infatti preso la parola il procuratore capo Giuseppe Amato, il vicedirettore del Resto del Carlino Valerio Baroncini, l’ordinario di Diritto costituzionale Tomaso Francesco Giupponi e l’ordinario di Diritto civile Ugo Ruffolo, moderati dal professor Nicola Mazzacuva, già ordinario di Diritto penale all’Alma Mater Studiorum. E se “un distinguo” tra “cronaca giudiziaria e informazione-spettacolo va fatta”, come chiarisce nel proprio intervento il procuratore Amato, il pericolo è che il processo si trasformi, tramite talk show e blog online, in intrattenimento “finalizzato all’audience, con protagonisti che non seguono regole e non conoscono le carte processuali”, così ancora il procuratore, “con danni irreversibili alla privacy dell’indagato o imputato, magari tramite la pubblicazione di intercettazioni che nulla hanno a che fare con il processo e sono carta straccia”. Raccontare indagini preliminari talvolta è un impegno sul filo del rasoio anche per i giornalisti professionisti della carta stampata, anche se, ammette Amato, “in sei anni a Bologna, solo una vicenda mi ha infastidito: il clamore sulla cosiddetta ‘Villa inferno’ (l’inchiesta sui festini in una villa di Pianoro a base di sesso e cocaina dove venne coinvolta una minore, ndr), che ha seguito per settimane una storia delicata, legata alla sfera personale di chi era coinvolto”. In questo, come in altri casi, serve allora una “responsabilità solidale”, appunto. Tema condiviso e ripreso anche dal vicedirettore Baroncini, per cui “la giustizia è sempre stata mediatica, cosa fondamentale nella vita dei cittadini”. Tenendo bene a mente che i giornali hanno tempi e forme diversi da tv e web, che obbligano il cronista “a ragionare e approfondire i temi che affronta, prima di cristallizzare sulla carta una verità”. Il costituzionalista Giupponi coinvolge infine il legislatore, per “nuove norme a bilanciare l’esercizio della giurisdizione, il diritto di difesa e il diritto a informare”. Insomma, per dirla con l’autore Manes, serve una “profilassi” contro le derive del processo mediatico. Mentre la stampa si dà da fare perché, conclude l’avvocato Ruffolo “non si pensi che l’innocente sia colui che non è stato ancora scoperto”. Pescara. “Come semi d’autunno”, spettacolo teatrale con l’associazione Voci di dentro ilpescara.it, 22 giugno 2022 La rappresentazione è in programma giovedì 23 giugno e vedrà sul palco i detenuti che hanno frequentato il laboratorio di teatro. Si chiama “Come semi d’autunno” lo spettacolo teatrale che si svolgerà nel carcere San Donato di Pescara giovedì 23 giugno alle ore 15. L’evento è organizzato dall’associazione Voci di dentro e dalla casa circondariale. Sul palco nove detenuti che hanno frequentato il laboratorio di teatro, quattro tutor e quattro studentesse. La rappresentazione teatrale, realizzata grazie ai testi del gruppo di lavoro di Voci di dentro scritti durante la pandemia, rientra nel progetto “Voci di dentro-voci di fuori” ed è finanziato dai fondi dell’otto per mille della chiesa valdese. La scena si volge nella strada di una città, di giorno e di notte. In questa strada si incontrano persone di varia età e provenienza che si scambiano battute e racconti sulla propria vita mettendo a confronto idee, pregiudizi, difficoltà delle relazioni. Emergono così i temi della violenza, del rapporto uomo-donna, del dolore, del carcere, del gioco, dello sport, della musica, degli amori e delle occasioni perdute. Lo spettacolo si intitola “Come semi d’autunno”, cioè quei semi che vengono messi a dimora d’inverno in attesa del loro germogliare in primavera. Semi d’autunno sono dunque le potenzialità che possono emergere da ogni persona nella introspezione, nel confronto e nello scambio. La Regia è di Ugo Dragotti, la riduzione dei testi è a cura di Carla Viola. Voci di dentro promuove la cultura della solidarietà e il reinserimento sociale delle persone in stato di disagio e degli ex detenuti. Lucera (Fg). “Partita con papà”, nel carcere vincono i diritti dei bambini Gazzetta del Mezzogiorno, 22 giugno 2022 Partecipata iniziativa al penitenziario di Piazza Tribunali dell’associazione Bambinisenzasbarre. Attraverso il calcio viene difeso il legame familiare tra dentro e fuori la cella. “Sei bravissimo, papà. Non importa se la tua squadra non ha vinto: sei forte”. Nelle parole di uno dei piccoli ospiti della casa circondariale di Lucera c’è tutto il senso della manifestazione “La partita con papà”, tenutasi il 20 giugno scorso nel campo del passeggio della II Sezione del penitenziario di Piazza Tribunali. La manifestazione è stata organizzata, come negli altri istituti penitenziari italiani, dall’associazione Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il Ministero della Giustizia. La “Partita con papà” e la campagna “Carceri aperte” - che fa accedere negli istituti le famiglie, dopo due anni di sospensione a causa della pandemia - si inseriscono nella più ampia campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” del network Cope (Children Of Prisoners Europe). L’iniziativa vuole sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità e ha l’obiettivo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere. Nel campo lucerino, dove a rappresentare il CSV Foggia c’era la responsabile della promozione del volontariato penitenziario Annalisa Graziano, si sono sfidati i papà ristretti della prima e della seconda sezione: maglietta gialla e pantaloncini verdi i primi, t-shirt blu e calzoncini rossi gli altri, arbitrati da un direttore di gara federale appartenente al corpo della Polizia Penitenziaria. L’evento è stato voluto e sostenuto dal direttore Patrizia Andrianello, dal funzionario giuridico-pedagogico Simona Salatto, dal Comandante Roberto Sgarra, col sostegno del responsabile della vigilanza delle attività trattamentali, l’assistente capo coordinatore Massimo Maiori e di tutto il corpo di Polizia Penitenziaria. Un’iniziativa dall’alta valenza rieducativa, poiché finalizzata a rinsaldare il legame genitoriale anche in ambito “extramurario”. Un rapporto più solido tra genitori detenuti e figli, infatti, può rappresentare un’opportunità di riscatto e una speranza per il futuro. Bambinisenzasbarre è impegnata nella cura delle relazioni familiari durante la detenzione. Un obiettivo pienamente raggiunto nella Casa Circondariale di Lucera in cui papà detenuti, bambini e famiglie hanno potuto trascorre del tempo insieme anche a fine partita, consumando un piccolo rinfresco nel cortile. Poco importa il risultato finale (9 a 6) che ha visto trionfare la prima sezione; a vincere davvero è stato l’amore familiare. Pisa. Una partita di pallavolo come momento rieducativo di Michele D’Alascio* La Nazione, 22 giugno 2022 In occasione della partita di pallavolo tra una formazione di detenute della Casa circondariale Don Bosco di Pisa e le pallavoliste del G.S. Bellaria Cappuccini a.s.d. di Pontedera svoltasi nei mesi scorsi nella struttura carceraria, nell’ambito del progetto “Evasioni sportive”, le detenute mi strapparono una promessa: poter usufruire di un allenatore di pallavolo per apprendere le nozioni basilari di questo magnifico Sport. Da allora si è messo in moto un meccanismo che ha coinvolto anche la Fipav. Così nei giorni scorsi si è volto il primo stage nella Casa circondariale e la soddisfazione è grande. La Fipav ha designato l’allenatore Matteo Maria Maltinti. Il corso riservato alle detenute si svolgerà con una cadenza settimanale. Già da tempo abbiamo iniziato una fruttuosa collaborazione con la Casa Circondariale consapevoli che l’attività ricreativa e sportiva riveste un particolarmente significato nel quadro di un programma rieducativo. Il rispetto delle regole del gioco, il confronto reciproco con gli avversari sono esperienze che, attraverso lo sport, consentono al detenuto di ritrovare nuovi paradigmi di convivenza civile e sociale. Desidero ringraziare sentitamente il direttore della Casa Circondariale Dr. Francesco Ruello e le educatrici dell’Area Pedagogica che da subito si sono attivati per consentire l’effettuazione di questa iniziativa; l’allenatore Maltinti per la disponibilità, la Fipav a livello nazionale e Roberto Ceccarini e Paolo Duè, rispettivamente Presidente e Consigliere del Comitato Territoriale Basso Tirreno Fipav che hanno curato con sensibilità non comune l’aspetto tecnico. *Presidente provinciale Ansmes-Pisa “Assurde le scelte politiche di investire in armi anziché in agricoltura” di Luca Kocci Il Manifesto, 22 giugno 2022 La Cei condanna anche le agromafie, che causano caporalato, sfruttamento e inquinamento. Nelle settimane in cui il conflitto in Ucraina si combatte usando il grano come “arma di guerra” - denunciava papa Francesco poco tempo fa - e nei giorni in cui il Parlamento italiano si appresta ad approvare nuovi aiuti militari a Kiev, la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Conferenza episcopale italiana lancia un messaggio per la tutela dell’agricoltura e contro le agromafie che avvelenano il mercato, sfruttano i lavoratori e distruggono l’ambiente, in nome del profitto. Il legame con l’attualità della guerra è il punto di partenza. “L’agricoltura è un’attività umana che assicura la produzione di beni primari”, scrivono i vescovi nel messaggio - diffuso ieri - per la 72esima Giornata nazionale del ringraziamento, del prossimo 6 novembre. Ecco perché, proseguono, “apprezziamo oggi più che mai questa attività produttiva in un tempo segnato dalla guerra, perché la mancata produzione di grano affama i popoli e li tiene in scacco. Le scelte assurde di investire in armi anziché in agricoltura fanno tornare attuale il sogno di Isaia di trasformare le spade in aratri, le lance in falci”. Oltre alla decisione di privilegiare le bombe piuttosto che il grano, c’è un’altra “industria” che colpisce l’agricoltura. Si tratta, si legge nel messaggio della Cei, della “fiorente attività delle agromafie, che fanno scivolare verso l’economia sommersa anche settori e soggetti tradizionalmente sani, coinvolgendoli in reti di relazioni corrotte. Il riciclaggio di denaro sporco o l’inquinamento dei terreni su cui si sversano sostanze nocive, il fenomeno delle “terre dei fuochi” che evidenziano i danni subiti dagli agricoltori e dall’ambiente, vittime di incendi provocati da mani criminali, sono esempi di degrado”. E poi “comportamenti che minacciano ad un tempo la qualità del cibo prodotto e i diritti dei lavoratori coinvolti nella produzione”. “Strutture di peccato - le chiamano i vescovi - che si infiltrano nella filiera” produttiva, dando vita a varie “forme di caporalato che portano a sfruttamento e talvolta alla tratta, le cui vittime sono spesso persone vulnerabili, come i lavoratori e le lavoratrici immigrati o minorenni, costretti a condizioni di lavoro e di vita disumane e senza alcuna tutela”. Ma agromafie significano anche “pratiche di agricoltura insostenibili dal punto di vista ambientale e di sofisticazione alimentare” e “uso di terreni agricoli per l’immagazzinamento di rifiuti tossici industriali o urbani”. L’appello dei vescovi è rivolto a due soggetti: le “autorità pubbliche”, perché mettano in atto “un’azione continuativa di prevenzione delle infiltrazioni criminali e di contrasto ad esse”; e i cittadini, perché siano consumatori critici e responsabili, cioè acquistino “prodotti di aziende agricole che operano rispettando la qualità sociale e ambientale del lavoro”. A proposito di caporalato - soprattutto in agricoltura, ma anche in altri settori - l’associazione “Vittorio Bachelet” e la Fondazione “don Tonino Bello”, insieme all’università del Salento, hanno lanciato le “Dieci tesi per il contrasto ai caporalati”: attività investigativa e repressione per colpire i “generali” più che i “caporali”, ma anche “contratti di filiera”, riapertura dei flussi migratori, “integrazione e inclusione dei migranti”, rafforzamento del sindacato nei luoghi più a rischio, promozione del consumo consapevole e responsabile anche attraverso una corretta informazione. Migranti. “I Cpr vanno chiusi: sono fuori dal contesto della civiltà giuridica” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2022 “Parliamo di non - luoghi, dove i diritti fondamentali sono sospesi in un limbo di repressione e disinformazione e la cui gestione affidata a privati, li rende veri e propri buchi neri e che per questo devono essere chiusi”. Così la deputata del gruppo misto Doriana Sarli e la senatrice del gruppo misto Paola Nugnes, dopo aver visitato venerdì scorso, 17 giugno, il Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Gradisca di Isonzo. Le parlamentari del gruppo misto hanno voluto visitare il centro per rendersi conto di persona cosa succede nella struttura di detenzione amministrativa, un luogo di detenzione in assenza di reato - come spiega la nota delle parlamentari -, dove i cittadini stranieri vengono trattenuti in attesa che sia eseguito il provvedimento di espulsione. Questa denuncia va a coincidere con la relazione annuale del Garante nazionale appena presentata in Parlamento, dove descrive questo intrattenimento come un tempo sospeso, privo di qualsiasi forma di organizzazione e di attività, anche soltanto ricreativa e di spazi a ciò dedicati. Un tempo che si riduce, dunque, a mera attesa del rimpatrio. “I Cpr sono un’emergenza anche dal punto di vista medico sanitario e vanno chiusi, perché al loro interno non sono rispettate le più elementari misure di igiene e di assistenza”. Così prosegue la denuncia della deputata del gruppo misto ManifestA, Doriana Sarli dopo la visita assieme alla senatrice Nugnes, che aggiunge di non aver visto un medico dalle 9.30 alle 17. “Questa, così come tutte le altre situazioni di emergenza - bagni fuori norma, acqua solo bollente, sporcizia e spazi ridotti - è la dimostrazione dell’essere fuori da ogni contesto di civiltà giuridica e di stato di diritto”, ha continuato Doriana Sarli. “Che una persona soggetta a una detenzione amministrativa - ha sottolineato la deputata - si ritrovi con meno tutele che in un carcere è inammissibile. Queste strutture sono gestite da privati con logiche solo di profitto (e in conflitto di interessi) che non hanno nulla a che vedere con un moderno approccio dei fenomeni migratori”. La denuncia di Donata Sarli fa il paio con il rapporto sui Cpr della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, dove si sottolinea che tra il 2018 e il 2021 sono stati spesi 44 milioni di euro per la gestione da parte di privati di dieci strutture per il rimpatrio: il fatto che si tratti di enti privati è una delle principali condizioni peggiorative per le persone trattenute, sia perché vi è un interesse basato sulla massimizzazione del profitto da parte di questi enti privati, sia perché, come conseguenza, l’attenzione ai bisogni delle persone trattenute è inesistente. Il garante nazionale delle persone private della libertà, nella sua relazione annuale, ha affrontato il tema dei Cpr sottolineando che il tempo sospeso nei centri è diverso dal tempo “ristretto” in carcere o in un altro luogo dove la definitezza della misura adottata dovrebbe garantirne anche il limite temporale. “Qui - si legge nella relazione - al contrario, il limite formale non coincide con il limite esistenziale, perché per una larga parte delle persone ivi trattenute la permanenza si concluderà con un provvedimento che ordina di allontanarsi dal territorio italiano, ma nei fatti aprirà a un’indeterminatezza sociale destinata troppo spesso a sfociare in un nuovo trattenimento in un Cpr”. Nel corso dell’anno preso in considerazione dalla relazione risulta che 5.147 persone hanno trascorso parte del tempo della loro vita in un Cpr - tra esse 5 donne - ma soltanto 2.520, meno della metà, sono state rimpatriate. La relazione del Garante osserva che per le altre persone, le quali soggettivamente hanno vissuto il non- rimpatrio come una nuova opportunità di speranza, quel tempo sospeso è stato semplicemente sottratto alla vita per divenire soltanto simbolo rassicurante per la collettività. Ma, sempre secondo la descrizione che si apprende nella relazione del Garante, il tempo trascorso all’interno di un Cpr, in media poco più di 36 giorni, è spesso anche tempo disinformato, perché privo di informazioni in relazione tanto alle tempistiche e modalità del rimpatrio, quanto agli stessi diritti di chi vi è trattenuto. Anche il tempo per esercitare il diritto di difesa, per compiere scelte consapevoli e condivise con il difensore, secondo il Garante nazionale, può divenire sospeso: per banali ragioni organizzative e burocratiche che, per esempio, ritardano il contatto per l’udienza di convalida del trattenimento. La previsione della possibilità di reclamo ai Garanti territorialmente nominati e la possibilità del Garante nazionale di formulare Raccomandazioni all’Amministrazione vogliono sanare alcuni aspetti di questa sospensione temporale. Però la relazione sottolinea che non è tuttavia un sistema di facile implementazione: sono stati sottoscritti nell’anno trascorso sei accordi tra Garante nazionale e quelli territoriali proprio per definire una procedura di formulazione del reclamo in piena libertà e al riparo da ogni ipotetica paura di ritorsione, nonché per la gestione stessa di tali reclami. Questo nel quadro della possibile diminuzione di quella sospensione del tempo che può essere foriera anche di grave disagio psicologico personale. Il tempo sospeso nei Cpr, osserva sempre il Garante tramite la relazione, è anche quel tempo di vita sottratto alla libertà senza alcun fondamento giuridico ogniqualvolta le proroghe del trattenimento non siano supportate da elementi concreti o ancora quando il trattenimento sia convalidato a opera di un’Autorità non competente. Come nei casi, non infrequenti, di illegittima convalida del trattenimento da parte del Giudice di pace, nonostante la presenza di un ricorso che ne determinava la competenza del Tribunale ordinario, ai sensi dell’articolo 31 del Testo unico sull’immigrazione. Talvolta - rivela la relazione annuale - anche relativamente all’illegittimità del decreto di espulsione è stato adito erroneamente il Giudice di pace, come nel caso di minorenni. In taluni casi, infatti, il Giudice, nonostante fosse incompetente, ha rinviato la decisione sull’impugnazione del provvedimento espulsivo in attesa della decisione, ai sensi dell’articolo 31 del testo unico sull’immigrazione, del Tribunale per i minorenni, ma, contestualmente, non ha sospeso l’esecuzione dello stesso provvedimento. Tutto ciò ha comportato il rimpatrio nonostante spettasse al Tribunale per i minorenni decidere sulla permanenza del soggetto sul territorio nazionale in base ai vincoli familiari. La mancata sospensione dell’esecuzione del provvedimento espulsivo ha vanificato il tempo giuridicamente sospeso ai fini della pronuncia sulla legittimità dello stesso. “Tempo - scrive l’autorità del Garante nazionale nella relazione - che si è, così, trasformato in mera attesa del rimpatrio, anziché nel tempo per garantire l’unità familiare, con l’ulteriore paradossale conseguenza che il Tribunale per i minorenni potrebbe disporre la permanenza sul territorio nazionale della persona ormai rimpatriata”. Un esempio, particolarmente significativo perché riguarda un minore. “E il tempo sospeso di un minore - osserva il Garante in conclusione del capitolo relativo ai Cpr - richiama tutti noi a una responsabilità ancora più grave perché si riferisce a quella parte della vita che dovrebbe essere compito di ognuno rendere densa di significati”. Migranti. L’Ucraina insegna: i profughi non fanno paura di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 22 giugno 2022 Gli sfollati sono entrati in Europa e sono andati dove volevano. Zero quote, zero campi profughi, zero isteria. Eppure la loro fuga non è diversa da quella di altri milioni di persone. Una lezione da imparare. Ogni anno il 20 giugno, giornata dedicata dalle Nazioni Unite ai rifugiati l’Unhcr. presenta il proprio rapporto annuale. In quello di quest’anno viene evidenziato che “alla fine del 2021, le persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni di diritti umani risultavano essere 89,3 milioni, un aumento dell’8 per cento rispetto all’anno precedente”. Un dato già drammatico ma sono bastati i soli primi 5 mesi del 2022, a causa della guerra in Ucraina e dell’acuirsi di altri conflitti, per sfondare già il tetto dei 100 milioni. Solo dieci anni fa, nel 2012, il numero dei migranti forzati superava di poco i 40 milioni. Da allora si registra ogni anno un aumento che pare inarrestabile dovuto principalmente all’esplosione di nuovi conflitti e al riacutizzarsi di quelli già esistenti da tempo (sono 23 i Paesi teatro di guerre di intensità media o alta). Non solo Ucraina dunque; dirlo è forse ovvio ma temo necessario. Così come va ricordato che l’83% di tutti i migranti forzati si trovano in paesi del Sud, poveri e poverissimi; altro che invasione dell’Europa. Solamente quest’anno, con l’irrompere della guerra in Ucraina, l’Europa ha dovuto fare i conti con un serio afflusso massiccio di persone in fuga da una guerra. Con questo articolo propongo un primo bilancio di quanto accaduto con la crisi ucraina e cosa essa ci può insegnare per cambiare il sistema di asilo nella Ue. Il dramma dei profughi ucraini infatti ha fatto emergere, e nello stesso tempo ha dissolto, tutti i principali fantasmi che hanno agitato la vita politica europea da vent’anni; a iniziare dai numeri: in soli quattro mesi sono entrate nella UE circa 5,3 milioni di persone; un flusso che sia per numeri assoluti che per concentrazione temporale non ha paragoni con il recente passato, potendo essere accostato, ma solo in parte, all’arrivo dei rifugiati siriani del 2015. Quell’evento fu vissuto come uno shock da parte delle istituzioni europee che al grido di “mai più” misero in atto ogni azione, lecita e non, per bloccare i rifugiati nei paesi terzi, dalla Turchia alla Libia, e per respingerli alle nostre frontiere. Non solo in Italia ma diffusamente in Europa ogni arrivo di rifugiati, anche se in dimensioni venti, trenta volte inferiori a quanto avvenuto con gli sfollati ucraini, provoca spaventose tensioni e isterie collettive che alimentano nuove paure e nuove scelte di chiusura in una spirale che si auto alimenta. Eppure, come se si fosse trattato di un grande esperimento socio-politico, l’arrivo massiccio degli sfollati ucraini ci dice che, con le inevitabili difficoltà legate a ogni grande cambiamento, possiamo gestire, nel vecchio - e sempre meno abitato - continente, arrivi improvvisi anche di milioni di persone senza che “lo stile di vita europeo” per usare una nota e discutibile espressione, rovini nella polvere. Va ricordato che in tutta Europa a fine 2021 il numero totale dei richiedenti asilo era di solo 760mila persone. Certamente dunque potremmo gestire ogni anno in modo ordinato arrivi di rifugiati in dimensioni significative realizzando un sistema europeo di ingressi protetti e programmati disciplinati da normative che fissino procedure e diritti. Potremmo in sostanza fare proprio ciò che non abbiamo mai voluto fare, contribuendo a sanare in parte quell’odioso squilibrio di responsabilità che, come evidenzia il rapporto globale 2021 ci contrappone al sud del mondo dove sono ammassati l’80% di tutti i rifugiati come ricorda il citato rapporto Unhcr. I profughi dall’Ucraina sono entrati nella Ue e sono andati dove hanno voluto. In difformità da quanto prevede la stessa Direttiva 2001/55/CE i paesi europei non hanno fornito le proprie quote, né sono stati attuati programmi di ricollocamento neppure laddove, come in Polonia, si sono prodotte concentrazioni oggettivamente eccessive. Si è verificata una sorta di inedita auto-distribuzione attuata dai profughi anche spostandosi da uno Stato all’altro in una sorta di ritorno all’asylum shopping e con continui “movimenti secondari”. Da due Legislature le istituzioni europee non riescono a trovare una soluzione per la riforma del Regolamento Dublino III ovvero per cambiare gli inefficienti criteri attuali applicati per individuare il paese competente ad esaminare la domanda di asilo di un richiedente quando entra in Europa mentre del rifiuto di ogni forma di solidarietà e di condivisione delle responsabilità molti Stati hanno fatto la loro bandiera politica da difendere ad oltranza. Un dibattito senza fine: quote obbligatorie si ma solo in caso di grave crisi; quote obbligatorie mai;; o infine “ricollocazioni (il metodo di solidarietà preferito) e contributi finanziari” come si legge nella dichiarazione sottoscritta da dodici Stati l’11 giugno scorso. Su questo scenario di continui confronti senza esiti ha fatto irruzione il più massiccio numero di sfollati della storia dell’Unione Europea e ogni discussione è cessata di colpo. Anzi, non è mai neppure iniziata. Gli sfollati ucraini sono andati dove volevano; non abbiamo creato per loro centri di detenzione violenti e degradati, scorte armate per accompagnarli nel paese di assegnazione come facciamo abitualmente nel triste gioco degli scambi dei richiedenti asilo (o forse dovremmo dire di ostaggi) in atto tra i diversi paesi dell’Unione. Per l’esattezza gli sfollati ucraini sono andati non dove volevano perché non di turisti si tratta bensì dove avevano legami famigliari, parentali, amicali, di comunità. Ciò ci ha portato a scoprire un’altra semplice verità che abbiamo sempre osteggiato ferocemente per anni negando il valore ai legami significativi dei rifugiati, separando le famiglie allargate, impedendo persino che il figlio maggiorenne vivesse con la sua famiglia o almeno nello stesso paese se per dannata casualità nella fuga era finito altrove. Parimenti abbiamo rifiutato che i potessero avere valore propri precedenti soggiorni per lavoro o studio dei rifugiati in uno stato dell’Unione e li abbiamo forzatamente inviati dove non sapevano la lingua né conoscevano nulla del Paese. Abbiano negato che le catene migratorie esistano o abbiamo agito per spezzarle; per darci delle giustificazioni dicevamo di farlo per evitare concentrazioni mentre di concentrazioni ne creavamo di ben peggiori ed artificiali mantenendo l’irrazionale criterio che lega la competenza ad assicurare protezione al primo paese dell’Unione nel quale la persona mette piede non per scelta ma perché la geografia è un fatto. La maggior parte degli sfollati ucraini ha raggiunto la propria rete di riferimento e si sono stretti nelle stanze dell’amico o del parente o solo del connazionale. In Italia ciò è avvenuto in misura anche maggiore che in altri paesi Ue perché i posti di accoglienza forniti dal sistema pubblico sono in numero minimo rispetto al numero complessivo degli sfollati (4530 nel SAI - ex Sprar e poco meno di diecimila nei centri prefettizi) ma la ragione principale va ricercata nel fatto che le persone un’accoglienza, anche precaria, ma dove possono mantenere relazioni e legami. Con un po’ di tardiva saggezza si è dunque provveduto, con il DL 21.3.22 n. 21 e successive ordinanze di protezione civile (non ho lo spazio in questa sede di esaminare l’efficacia delle misure assunte) a sostenere economicamente, seppure con contributi modesti, gli stessi sfollati che vivono presso privati e a riscoprire sottovalutate forme di accoglienza come l’accoglienza diffusa e solidale in famiglia organizzata da enti del terzo settore (raccogliendo a fine maggio ben 17mila posti di teorica disponibilità). Abbiamo così infine scoperto un’ennesima altra realtà rimasta sotto traccia, ovvero che è distorto quell’immaginario che vede i rifugiati solo e sempre aggrapparsi al sistema di assistenza pubblica e che possono esistere forme di accoglienza più efficaci e anche meno costose dell’invio dei profughi nei centri di emergenza e nei casermoni dove isolarli dal mondo esterno. Qualcuno dirà che non sto considerando che gli sfollati dall’Ucraina che godono del regime giuridico della protezione temporanea sono diversi dai richiedenti e dai titolari di protezione internazionale. Rispondo dicendo che ben conosco queste suddivisioni giuridiche ma propongo di adottare uno sguardo più ampio. Anche se incaselliamo i migranti forzati in condizioni giuridiche diverse (e a volte lo facciamo con buone ragioni, altre volte no), a ben guardare la fuga degli ucraini dalla guerra che infuria nel loro paese a seguito dell’aggressione della Russia non è così diversa dalla condizione di milioni di altre persone in fuga da altri conflitti. Una soluzione semplice e valida per ogni occasione non c’è e certo non è mia intenzione sottovalutare il peso delle differenze in termini di contesti di provenienza, di aspettative da parte dei rifugiati, di inquadramento giuridico come di prospettive di soluzione (per esemplificare: fuggire dall’Ucraina non è uguale a fuggire dall’Afghanistan). Tuttavia da quanto sta accadendo con la gestione dei profughi dall’Ucraina arrivati nella Ue possiamo però imparare molto se lo vogliamo, iniziando per prima cosa a liberarci dai cupi fantasmi politici e culturali che ci hanno portato al limite del crollo del nostro sistema giuridico di tutela dei diritti fondamentali e sul quale si fonda il progetto politico di costruzione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Infatti anche oggi mentre scrivo queste riflessioni ai confini della Polonia verso est vengono fatti entrare i profughi dall’Ucraina mentre vengono respinti, illegalmente e nel colpevole silenzio generale, i rifugiati di altre guerre, persino se il loro numero è risibile. I nodi di fondo di una politica comune di asilo nella UE rimangono come garantire l’accesso al diritto d’asilo a chi arriva alle nostre frontiere, realizzare procedure di ingresso protetto, attuare se necessario una distribuzione delle presenze e realizzare forme efficaci di accoglienza di coloro che fuggono da conflitti armati interni o internazionali. La crisi ucraina ci dice molto di cosa non dobbiamo più fare e di cosa potremmo invece scegliere di fare per attuare riforme profonde, per cambiare il logoro sistema unico di asilo nella UE in modo più aperto ed inclusivo, nell’interesse tanto dei rifugiati che dei cittadini europei. Msf: “Servono più canali legali per far uscire i migranti dalla Libia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 giugno 2022 Nell’ultimo rapporto l’Ong critica i paesi dell’Unione europea e le agenzie delle Nazioni unite. Il nodo gordiano resta il rapporto tra l’intervento umanitario e le politiche securitarie. Sul dramma che i migranti vivono in Libia si è detto e scritto molto. Agenzie Onu, Ong indipendenti e gli stessi rifugiati hanno squarciato il velo su una quotidianità di violenze, torture e omicidi. Anche naufragi e sbarchi ricevono un’alterna attenzione, offuscata di recente dall’arrivo dei profughi ucraini. Si parla meno, invece, delle opportunità e dei limiti dei canali legali di uscita dal paese nordafricano. Un bilancio, a tratti impietoso, dell’intervento umanitario delle due principali agenzie Onu che si occupano di migranti è stato fatto da Medici senza frontiere (Msf) nel rapporto Fuori dalla Libia. Aprire canali sicuri per i migranti vulnerabili intrappolati in Libia. Una è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l’altra l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Schematicamente la loro competenza si può dividere così: l’Oim sui migranti economici (nel paese nordafricano ne sono stimati 600mila), l’Unhcr sui rifugiati (40mila quelli registrati nella sede di Tripoli). Queste agenzie organizzano due dei tre tipi di canali legali di uscita dal paese. L’Oim si occupa dei cosiddetti “rimpatri volontari umanitari” (sigla inglese: Vhr), destinati a chi manifesta l’intenzione di tornare nel proprio paese e finanziati dall’Ue. Secondo Msf, però, la definizione di “volontari” è “altamente discutibile” dal momento che molti migranti non hanno alternative, soprattutto quando sono detenuti a tempo indefinito nei centri dove subiscono violenze di ogni tipo e perfino forme di schiavitù. Per loro “i Vhr sono un modo importante per uscire dalla detenzione”, si legge nel rapporto. Che denuncia i lunghi tempi di attesa. Nel 2021, a causa del Covid-19, i voli sono stati ripetutamente bloccati e meno di 2mila persone hanno lasciato la Libia in questo modo. Tra il 2017 e il 2021 sono state 50mila, mentre altre 10mila rimangono in attesa di partire. Il secondo canale legale di uscita è il reinsediamento verso paesi terzi sicuri, in Europa e Nord America. Gestito dall’Unhcr, in genere funziona attraverso il Meccanismo di transito di emergenza (Etm) con cui i richiedenti asilo sono portati nei campi in Niger e Ruanda. Questo strumento è destinato a soggetti perseguitati nei paesi di origine, che non possono tornare a casa. I problemi sono numerosi. In primis l’Unhcr accetta solo le persone di nove nazionalità: Iraq, Palestina, Siria, Yemen, Eritrea, Etiopia, Somalia e Sud Sudan. Tutte le altre sono automaticamente escluse, sebbene l’asilo politico sia un diritto riconosciuto su base individuale e non nazionale. Del resto l’Unhcr ha ribadito spesso che “il reinsediamento non è un diritto”. Si tratta quindi di una sorta di concessione. La priorità, poi, viene data a donne, minori e famiglie in base al criterio della “vulnerabilità”. In Libia, però, tutti i migranti rischiano continuamente la vita, dentro e fuori i centri di prigionia. Lo hanno gridato da ottobre 2021 a gennaio 2022 i rifugiati accampati davanti alla sede Unhcr di Tripoli per chiedere l’evacuazione in un luogo sicuro, prima di essere arrestati in massa. Il paese nordafricano, del resto, considera “illegali” tutti gli stranieri presenti sul territorio, anche perché non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Secondo Msf le pressioni internazionali per spingere Tripoli a farlo sono state “limitate” e questo limbo è usato come una giustificazione del fatto “che l’Unhcr non è in grado di applicare i propri standard”. Importanti ostacoli sono anche i tempi di attesa, lunghissimi e indefiniti, e il numero di reinsediamenti concessi dai paesi terzi, estremamente contenuto. Tra il 2017 e il 2021 dalla Libia sono stati reinsediati 7.500 rifugiati: meno di 2mila ogni anno. Nello stesso periodo, che non a caso coincide con quello del memoradum italo-libico, almeno 8mila persone sono morte nel Mediterraneo centrale e altre 80mila sono state intercettate dalla sedicente “guardia costiera” di Tripoli (dati: Oxfam). Per tali ragioni Msf chiede a Ue e paesi membri di ampliare il terzo canale, quello dei “percorsi complementari”. Sono tre: visti umanitari, ricongiungimenti familiari e corridoi umanitari. Questi ultimi sono stati aperti nel 2021 da alcune organizzazioni della società civile italiana per trasferire 500 persone in un anno. Finora ne sono arrivate solo 189, ma esponenti del governo li hanno ripetutamente utilizzati come contrappeso del sostegno alle milizie libiche. È proprio questo il nodo gordiano dei canali legali di uscita dalla Libia: per le autorità italiane ed europee restano solo l’altra faccia delle politiche securitarie. Così a fronte di poche migliaia di persone trasferite nei paesi sicuri, decine di migliaia sono costrette ogni anno a rischiare la vita in mare, andando incontro a naufragi, intercettazioni e di nuovo detenzioni e violenze. Droghe. Cannabis, primo sì in Commissione giustizia alla coltivazione domestica di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 giugno 2022 Il ddl Magi-Licantini in Aula alla Camera a fine mese. Primo sì alla proposta di legge Magi-Licantini che depenalizza la coltivazione domestica della cannabis a uso personale. Il testo emendato è stato approvato ieri dalla Commissione Giustizia della Camera che oggi darà mandato al relatore Mario Perantoni (M5S) e, a meno di slittamenti decisi nella prossima capigruppo, dovrebbe arrivare in Aula venerdì 24 giugno. La proposta prevede la totale depenalizzazione della coltivazione domestica di 4 piantine di marijuana, in modo da “sostenere chi ne fa un uso terapeutico e per togliere terreno allo spaccio”, come riferisce lo stesso Perantoni, presidente della Commissione. Inoltre riduce le pene per i fatti di lieve entità riguardanti la cannabis: il testo infatti distingue il piccolo spaccio di hashish e marijuana da quello delle altre sostanze, portando solo per la cannabis la pena detentiva minima da 6 mesi a 2 mesi, e quella massima da 4 anni a 2 anni. Per il piccolo spaccio di altre droghe la pena rimane nella forbice 6 mesi-4 anni. Magi (+Europa) ha depositato la pdl alla fine del 2019 “per modificare almeno queste parti del T.u. sugli Stupefacenti in mancanza di condizioni politiche per una più ampia riforma”. Ora chiede che “si arrivi rapidamente al dibattito e al voto in Aula”. Ma per la Lega il tema dei proventi della criminalità organizzata non è tra i più cogenti. “Con tutti i problemi che hanno gli italiani, ci sono parlamentari che pensano alle canne”, borbotta Salvini. Contrario, si suppone dunque, anche alla giornata nazionale istituita per informare nelle scuole sui danni derivanti da alcolismo, tabagismo e uso di sostanze psicotrope. Ucraina. Le prospettive del conflitto di Giampiero Massolo La Repubblica, 22 giugno 2022 Difficile superare la sensazione di una guerra senza prospettive. Sempre più staccata dalla sensibilità delle opinioni pubbliche e dunque complessa da sostenere per i Governi. Eppure, allineare gli aspetti principali per cercare una chiave di lettura è doveroso. Perché quello che continua a consumarsi sotto i nostri occhi è un dramma umanitario e dei diritti sconvolgente nel cuore dell’Europa. Rischia di espandersi, colpendo i più poveri, tramutandosi in carestia e rivolte per il pane. Comporta una crisi energetica, degli approvvigionamenti, dei prezzi che già si allarga a macchia d’olio. Non è vero che la diplomazia - segnatamente quella europea, anche su impulso italiano - sia inerte. Lo sforzo in atto ha pochi precedenti: si concentra sul fattibile, stante l’indisponibilità dell’aggressore russo a fermarsi: lo sblocco dei porti per le forniture di grano, il tetto al prezzo del gas, l’accoglienza ai profughi, i buoni uffici. Accenni a meccanismi e formule forse utili, domani, per tentare un cessate il fuoco. Su questo sfondo, interagiscono tre elementi, funzionali a delineare una prospettiva: le regole d’ingaggio dell’Occidente, le garanzie per l’Ucraina, i costi della guerra. Le nostre regole, anzitutto. Il tema è quello della fornitura di armi all’aggredito che ci chiede aiuto. Lecito sul piano del diritto internazionale, doveroso su quello etico, utile sul piano geopolitico perché gli assetti futuri in Europa non siano alle condizioni dell’aggressore. Dopo non pochi ondeggiamenti - non ultimi quelli americani - l’obiettivo delle forniture sembra ormai condiviso tra gli alleati: far negoziare il presidente Zelensky dalla posizione più forte possibile. Oggettivamente difficile smarcarsi, sul piano della logica e dell’opportunità. D’altra parte, le regole d’ingaggio occidentali non sono mutate rispetto a quelle iniziali: niente confronto diretto Nato/Russia, niente estensione del conflitto, niente guerra illimitata nel tempo. A queste condizioni, va riconosciuto, Mosca non vince la guerra, Kiev non la perde. Si cerca di gestire un conflitto semicongelato, cercando di indirizzarlo verso una soluzione diplomatica. Piaccia o non piaccia. Le garanzie, poi. È uno snodo cruciale: senza, la guerra si cronicizza e, a conflitto aperto, nessun assetto europeo - per quanto basato su potenza e deterrenza - è possibile. Difficile, mentre lo spazio è alle armi, negoziarle concretamente. Possibile tuttavia immaginare dei realistici parametri negoziali: non garanzie militari equivalenti all’articolo 5 della Nato senza che l’Ucraina ne faccia parte; ricostituzione di una forza armata ucraina significativa, pur nel quadro di uno status di neutralità; integrazione nello spazio europeo, che comprende anche la difesa comune; definizione degli impegni degli Stati garanti; individuazione di un meccanismo di “cointeressenza” della Russia ad un assetto stabilizzato, difficile da alterare senza cambiare le nostre regole d’ingaggio e senza costi sproporzionati per la Russia. Anzi, proprio le sanzioni e la loro dinamica nel tempo potranno essere un’importante leva negoziale. I costi, infine. Anche la guerra russa in Ucraina non sfugge alla logica costi/benefici. Altrimenti, Mosca non avrebbe ridotto in misura tanto rilevante i suoi obiettivi e l’Occidente non calibrerebbe attentamente le sue sanzioni. Anche se la situazione sul terreno fa credere che entrambe le parti in conflitto ritengano di poter ancora guadagnare, l’analisi delle convenienze prima o poi è destinata a giocare un ruolo: in Russia, perché le sanzioni a medio termine incidono eccome (e il “dopoguerra” per Putin non potrà essere solo cinese); in Ucraina, perché nessuno vorrà ereditare un Paese raso al suolo; in Occidente, perché tenerci uniti senza perdere contatto con la gente si dimostra sempre più complesso. Insomma, questo è ancora il momento della compattezza e dell’impegno militare. Ma pensare a come coniugare ingaggio, assetti europei e oneri è fin d’ora ineludibile. Lo dobbiamo al popolo ucraino e ai nostri cittadini. Ucraina. La deportazione dei bambini, in trecentomila strappati ai genitori di Jacopo Iacoboni La Stampa, 22 giugno 2022 Così la Russia rischia il processo per genocidio. I numeri comunicati dal Cremlino addirittura più alti di quelli Onu. Per Mosca è “evacuazione umanitaria”. Londra sanziona per “trattamento barbaro dei bambini” l’alta burocrate russa ritenuta dietro all’operazione. E una senatrice promette campi estivi per russificare la lingua dei bimbi ucraini dai “territori liberati”. L’altra sera, sulla tv ufficiale del Cremlino, Rossiya1, l’anchorman più amato da Putin, Vladimir Solovyov, ha vantato questi numeri su quelli che ha chiamato “ricollocamenti” o “evacuazioni” di cittadini ucraini in Russia: il numero totale è di 1,9 milioni, di cui 307 mila bambini. Il dato dell’Onu è addirittura inferiore: in totale 1.230.800 ucraini, numero di bambini imprecisato. I russi, ancora una volta, sono paradossalmente sinceri. Esibiscono ormai direttamente quello che fanno, basta sostituire la parola “ricollocamenti” con un’altra: deportazioni. Anche di bambini. Che lo dicano, però, potrebbe portarli a processo a L’Aja. Kevin Rothrock, di Meduza, spiega che “Mosca la presenta come un’impresa umanitaria, ma l’ammissione potrebbe servire come prova in un processo per genocidio, un giorno”. Secondo la Convenzione sul Genocidio, 1948, Articolo II sezione E, separare bambini dai genitori configura giuridicamente il reato internazionale di “genocidio”. Naturalmente bisogna dimostrare che oltre al fatto, ci sia l’intenzione. E qui diversi tra propagandisti, ufficiali, alti dirigenti del Cremlino, stanno dando spontaneamente una mano. Il 13 aprile, parlando al Consiglio federale, la senatrice Lilia Gumerova si è mostrata inorridita per il fatto che molti dei bambini ucraini “dei territori liberati” - la neolingua del Cremlino chiama così le regioni e città invase e rase al suolo - non parlino correntemente il russo. Gumerova ha promesso l’organizzazione di scuole estive per liberare le loro lingue. Esiste il video. Deportazione e intenzione. Interfax, l’agenzia di Stato russa, ha fornito altri futuri documenti processuali utili, raccontando così il ritmo con cui procede la deportazione dei bambini: le “evacuazioni” sono cominciate “dalla fine di febbraio da regioni pericolose (testuale) dell’Ucraina, le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk. Nonostante tutte le difficoltà create dalle autorità di Kiev, nelle ultime 24 ore, senza la partecipazione della parte ucraina, 29.733 persone, di cui 3.502 bambini, sono state evacuate nel territorio della Federazione Russa dalle regioni pericolose dell’Ucraina e del Donbass. Un totale di 1.936.911 persone dall’inizio dell’operazione militare speciale, di cui 307.423 sono bambini”, ha detto Mikhail Mizintsev, capo del Centro di controllo della difesa nazionale della Federazione Russa. Mizintsev ha anche parlato dell’esistenza di un database russo - orrore - che conterrebbe oltre 2,7 milioni di domande di coloro che desiderano trasferirsi in Russia da oltre duemila insediamenti in Ucraina e nei territori della Dpr e della Lpr controllati da Kiev. Immaginiamo quanto spontaneamente lo desiderino. Non è l’unico ufficiale russo che si sta consegnando alla futura Corte Penale Internazionale. C’è una donna che sta presiedendo all’operazione-bambini. E ormai fa parte della lista di oligarchi o alti burocrati statuali russi sanzionati in Occidente: è stata appena colpita dalle sanzioni britanniche per “trattamento barbaro dei bambini in Ucraina”. Si chiama Maria Lvova-Belova, e secondo il Regno Unito è la “mente” dietro un oscuro programma di rapimenti. Lvova-Belova è accusata dall’Ucraina di aver organizzato la cattura di oltre duemila bambini vulnerabili prelevati violentemente dalle regioni di Luhansk e Donetsk e di aver orchestrato una nuova politica per facilitare le loro adozioni forzate in Russia. Secondo gli ucraini, Lvova-Belova supervisiona personalmente il lavoro del centro di raccolta “Romashka” per bambini a Rostov, in Russia, utilizzato come hub temporaneo per alcuni dei bambini ucraini deportati, e geolocalizzato da diverse fonti open source. Se sia possibile definirlo campo di concentramento saranno i tribunali a deciderlo. Secondo il consigliere del sindaco di Mariupol, i bambini deportati da quella città massacrata sono detenuti lì, nel villaggio di Zolota Kosa. Anastasjia Lapatina, del Kyiv Independent, riporta che “gli occupanti di Kherson hanno detto che tutti i bambini nati lì dopo il 24 febbraio, così come gli orfani, riceveranno automaticamente la cittadinanza russa”. Deportazioni e rapimenti si inquadrano in un processo che, secondo il Kyiv Independent, ha portato quasi due terzi dei bambini ucraini a esser stati sfollati internamente o a esser fuggiti dal Paese. Afshan Khan, direttore dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale, ha dichiarato che “i numeri sono sbalorditivi”. La sfida logistica, come in ogni genocidio, è enorme. Il crimine richiede la sua macchina industriale. Il 25 maggio Putin stesso ha firmato un decreto che consente il conferimento semplificato della cittadinanza russa per chi risiede a Kherson e Zaporizhia. A Kiev, per i diritti dei bambini, arrivano attori americani, Sean Penn, Angelina Jolie, ultimo Ben Stiller. Ma la macchina della morte e della deportazione lavora incessante. Si parla tanto delle frasi di Dmitry Medvedev, ma un suo collega dello Stato russo, il capo dell’agenzia spaziale Roscosmos, Dmitry Rogozin, ha teorizzato su Twitter: “Se non mettiamo la parola fine, perché purtroppo i nostri nonni non li hanno eliminati, dovremo morire”. Il tweet è stato cancellato solo dopo sei giorni da Twitter. Nel frattempo Valentina Matvienko, ultra putiniana presidente del Senato russo, con villa milionaria sequestrata a Pesaro, annuncia che spedirà ai bambini nelle repubbliche filorusse poesie per ragazzi di Agniya Barto, favole del poeta Ivan Krylov e libri russi di storia. Non li stanno deportando, li stanno evacuando e rieducando. Grecia. Continua il pugno di ferro contro i migranti di Micol Conte La Repubblica, 22 giugno 2022 La denuncia delle Ong: abusi e respingimenti illegali. Il governo di Atene segnala di aver bloccato nei primi quattro mesi del 2022 circa quarantamila persone che tentavano di entrare in Europa attraverso il fiume Evros, al confine con la Turchia. I continui richiami della Corte Europea dei diritti dell’uomo e le denunce delle Organizzazioni Non Governative (Ong) non servono: in Grecia l’accoglienza è sotto attacco. Il governo di Atene segnala di aver bloccato nei primi quattro mesi del 2022 circa quarantamila persone che tentavano di entrare in Europa attraverso il fiume Evros, al confine con la Turchia. Allo stesso tempo nega ogni coinvolgimento nei respingimenti operati alla frontiera proprio nella zona dell’Evros, etichettando le denunce come propaganda turca. Atene ha anche chiesto all’Unione Europea fondi necessari a rafforzare proprio quel versante del confine, dopo avere già unilateralmente dichiarato la Turchia “paese terzo sicuro” per i profughi provenienti dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Somalia e dalla Siria. I respingimenti al confine sono la normalità. Lo scrive, in uno dei suoi ultimi rapporti, il Consiglio greco dei rifugiati, che assieme all’Ong Human Rights 360 ai primi di giugno aveva raccolto la segnalazione di cinquantadue profughi siriani abbandonati per diversi giorni su un’isoletta del fiume Evros. Tra di loro c’erano bambini e persone vulnerabili. Non avevano cibo, acqua, servizi igienici né assistenza. Human Rights 360 aveva messo in allerta le autorità chiedendo di intervenire per proteggerli, ma senza ricevere risposta. E nessuna reazione c’è stata neanche in seguito all’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo. I profughi deportati in Turchia. “Dopo giorni di silenzio abbiamo saputo che tutti i profughi sono stati portati in Turchia”, racconta Evgenia Kouniaki, di Human Rights 360. “Nella notte del quattro giugno un gruppo di poliziotti, senza luci, ha raggiunto l’isoletta con una barca e li ha arrestati. Gli agenti li hanno portati alla stazione di polizia, poi al fiume e infine li hanno messi sulle barche. Ora sono tutti in Turchia, senza status legale e senza aiuti”. A marzo un gruppo di trentaquattro persone aveva vissuto vicissitudini simili e così a maggio. In entrambi i casi si era mossa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, invano. Ma il momento più drammatico si è vissuto proprio nel mese di marzo, quando durante una di queste operazioni alla frontiera un bambino di quattro anni è morto annegato nelle acque del fiume. Il rapporto di Human Rights Watch. In un rapporto recente Human Rights Watch sostiene che la polizia di frontiera stia utilizzando proprio gli immigrati per le deportazioni sommarie. Da una serie di interviste a persone che hanno vissuto l’esperienza del respingimento, è emerso che la gran parte delle volte a riportare i migranti sull’altra sponda dell’Evros sono uomini incappucciati con un passamontagna nero, che parlano l’Arabo o le lingue dell’Asia meridionale. Prima di essere respinti, i migranti vengono privati del cellulare e di qualsiasi strumento che possa servire a documentare gli abusi. Il governo nega i respoingimenti. Il governo nega con fermezza ogni coinvolgimento nei respingimenti e una ricerca condotta dall’Autorità per la Trasparenza sembrerebbe dargli ragione: non c’è nessuna prova delle deportazioni, dunque nessuna prova delle violazioni. L’indagine, conclusa a marzo 2022, era nata in seguito alle denunce dell’organizzazione Lighthouse Report e del settimanale tedesco Der Spiegel. Poi però l’Autorità ha peccato di distrazione: dopo aver reso ufficiali i risultati dell’inchiesta, ha pubblicato online la lista delle persone intervistate, con i relativi contatti. Il file è stato rimosso poco dopo, ma aveva già iniziato a circolare tra gli addetti ai lavori. Così si è scoperto che su sessantacinque voci ascoltate per verificare i respingimenti, solo quattro erano di migranti, solo una proveniva dal mondo delle Ong, nessuna testimonianza dell’Unhcr. Tutti gli altri intervistati erano funzionari di polizia, rappresentanti del mondo della chiesa e delle istituzioni. Deportazioni di massa per siriani e afghani. Se provvede con deportazioni di massa per siriani e afghani, il governo greco ha invece un occhio di riguardo per quelli che definisce i “veri” rifugiati: gli ucraini. Lo denuncia un rapporto firmato da Save the Children, Oxfam e dal Consiglio greco per i rifugiati. Agli ucraini Atene dedica un efficiente sistema di protezione fatto di sussidi economici, di assistenza sanitaria, di alloggi. La differenza di trattamento è tale che nel campo profughi di Serres, nel nord del paese, alcuni richiedenti asilo afghani hanno dovuto lasciare i propri container per fare spazio agli ucraini. Turchia. Chi difendeva Ebru Timtik ora è sotto processo per averla difesa di Ezio Menzione* Il Dubbio, 22 giugno 2022 Il 14 giugno per gli avvocati turchi è la Giornata per il Giusto Processo e la iniziativa sta assumendo a poco a poco un carattere internazionale con il nome di Fair Trial Day. È stata scelta la data del 14 giugno perché è la data dell’anniversario della nascita di Ebru Timtik, morta il 28 agosto 2020 dopo 238 giorni di sciopero della fame in carcere per chiedere un giusto processo per sé e per altri 17 avvocati coimputati nello stesso processo. Ironia della sorte, questo 14 giugno davanti alla corte di Izmit era stato fissato e si è svolto il processo contro la collega Berrak Cialar, imputata di terrorismo per essere stata l’avvocata che difendeva Ebru proprio nella fase processuale durante la quale si innestò il suo sciopero della fame, dunque negli ultimi mesi di vita. Paradossi turchi: Ebru doveva rispondere di terrorismo (e fu condannata a 13 anni) per avere difeso, anche, ma non solo, ovviamente, dei terroristi; ora Berrak deve rispondere di terrorismo per avere difeso Ebru che difendeva dei terroristi. Il paradigma dell’appiattimento del difensore sul reato del suo assistito (frequentissimo a ogni latitudine) qui rifulge al quadrato. Ma è questa la verità: il capo di imputazione riporta tutti i comunicati stampa e i colloqui coi giornalisti di Berrak in quei mesi, quando spiegava agli interlocutori perché Ebru fosse in sciopero della fame e cosa chiedesse, niente di più. D’altra parte, nulla di più Berrak poteva fare, se non riportare - peraltro sempre con molta cautela - le ragioni della propria assistita. Per questo rischia da tre a dodici anni, essendo imputata della semplice partecipazione all’associazione terroristica PKK. Per fortuna Berrak non si presenta in vincoli: fu fermata e trattenuta per soli due giorni, ma non ne fu disposto l’arresto. In questo modo la catena delle imputazioni può non finire mai. Ed infatti è proprio così. Insieme a Berrak è imputato dello stesso reato e degli stessi fatti il marito Ali Sinan Cialar, giornalista, che avrebbe sostenuto la moglie nel commettere il reato. Cosa che è vero, che Ali abbia sostenuto Berrak, perché questa è totalmente non vedente e quindi ha bisogno di sostegno in ogni spostamento, anche quando difende davanti ai tribunali o visita gli assistiti in carcere. Non dicasi quando deve comporre una mail o inviarla. Naturalmente, non ho potuto trattenermi dal chiedere alla collega Elvan Olkun, che conosco da anni, come ci si senta nella posizione di un’avvocata che difendendo una collega accusata di terrorismo con ogni probabilità sarà accusata lei stessa dello stesso reato. Elvan ha alzato gli occhi al cielo, aggiungendo “Inshallah! Ma certo non posso lasciare da sola Berrak”. L’udienza ha avuto il solito andamento che hanno le udienze di questo tipo. A Berrak è stata tolta la parola quando ha cercato di spiegare il tenore delle sue dichiarazioni di allora alla stampa che voleva sapere perché la sua assistita andava incontro alla morte. Poi la giovane presidente ha rinviato ad ottobre per acquisire tutti i file dei processi precedenti subìti da Ali, che è giornalista schierato per i diritti umani, sempre assolto, nonostante un presofferto di parecchi anni. Viene da chiedersi, ovviamente, come possano accadere simili aberrazioni: la risposta credo che stia nella struttura stessa del potere di Erdogan: quando qualunque esponente dell’opposizione, più o meno intransigente, viene individuato come nemico e tutta la dinamica si incentra nell’antitesi amico-nemico è fatale che al nemico non si riconosca alcun diritto. *Osservatore Internazionale Ucpi