La relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà di Mauro Palma Il Manifesto, 21 giugno 2022 Il testo ufficiale della relazione 2022 al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. Signor Presidente della Repubblica, Signora Presidente del Senato, Parlamentari presenti, Autorità, Partecipanti tutti, inclusi coloro che ci seguono da lontano attraverso la diretta televisiva, taluni nei luoghi di cui tratta la Relazione che oggi presento al Parlamento. Mi rivolgo parimenti a tutti voi e Vi ringrazio personalmente e come Presidente della giovane e solida Istituzione di garanzia dei diritti delle persone private della libertà personale sia per la vicinanza che tale presenza testimonia, sia per l’opportunità che per la sesta volta mi viene data di esaminare insieme gli elementi positivi e le persistenti criticità che delineano oggi la complessiva area della privazione della libertà personale. La delineano lungo gli assi della assoluta tutela del diritto al riconoscimento della propria dignità e dell’altrettanto assoluta tutela della integrità fisica e psichica di ogni persona che, per una varietà di ragioni, sia nella condizione di non poter decidere del proprio spazio, del proprio muoversi, del proprio tempo. Sono due assi che discendono dalla premessa che tale situazione soggettiva inevitabilmente determina una specifica vulnerabilità rispetto alla tutela dei diritti intangibili di ogni persona nonché di quelli per il cui esercizio è possibile una riconfigurazione, ma mai un completo annullamento. I diritti non si fermano davanti a cancelli e muri né divengono altro rispetto a quelli che più volte la Carta costituzionale stabilisce che valgano per tutti - per ben sedici volte indica diritti di tutti i cittadini e per altre cinque stabilisce che il diritto enunciato valga per ogni cittadino. Le peculiarità dei diritti Ho altre volte indicato che a questi diritti si aggiungono quelli determinati dalla situazione specifica in cui la persona ristretta si trova e che possono essere riassunti nel diritto a che la finalità che ha motivato il venir meno di quel bene che il primo comma dell’articolo 13 della Costituzione definisce come “inviolabile” sia realmente perseguita durante il tempo della sottrazione di libertà. Non può essere un tempo vuoto. Così già lo scorso anno - indicando un po’ forzatamente tale assioma come unico diritto uti captivus - ho ricordato che l’imprescindibile impegno a che l’esecuzione penale, in particolare della pena detentiva, sia concretamente ed effettivamente orientata alla finalità espressa non è una indicazione di politica penale, ma è la concretizzazione di un diritto soggettivo della persona reclusa. Così come, in un ambito diverso, la persona ospitata in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, per un trattamento sanitario obbligatorio, ha diritto a che questa sua peculiare situazione sia inserita nel contesto di un piano trattamentale effettivamente orientato al massimo recupero delle possibilità di autodeterminazione e una persona ospitata in una residenza assistenziale chiusa - la cui libertà è di fatto estremamente ridotta, soprattutto nel periodo recente e in molti casi tuttora - ha diritto al potenziamento di ogni pur limitata e residuale possibilità di scegliere e orientare il proprio tempo, scongiurando in modo assoluto la possibilità di trasformare questa sua specifica collocazione in una forma di internamento. Né, in un altro ambito di intervento del Garante nazionale, può essere accettata la sottrazione di libertà di una persona migrante irregolare, formalmente finalizzata al rimpatrio, quando si è certi che tale esito non potrà realizzarsi. Il tempo sottratto deve avere sempre significato e deve essere chiaramente orientato alla finalità che tale sottrazione ha consentito, oltre che circondato da tutte le tutele imposte dalla riserva di legge e di giurisdizione. Questa è stata la linea che ha indirizzato in questi anni sia l’azione di visita e monitoraggio delle diverse strutture dove la privazione della libertà si realizza de iure o de facto, sia la formulazione di raccomandazioni e anche a volte di richiesta di indagini, sia il complessivo dialogo istituzionale con le diverse Amministrazioni che hanno il mandato di gestire in nome della collettività l’attuazione dei difficili compiti di fermare, contenere, detenere, ospitare e al contempo tutelare ogni persona rispetto alla quale tale misura venga adottata. Ugualmente, il dialogo con il Legislatore ha avuto questa stessa connotazione, riconoscendo il Parlamento non solo come luogo dove si concretizza lo spazio pubblico nella funzione legislativa, ma anche come peculiare ed essenziale spazio dialogico di costruzione della cultura condivisa nella collettività. Per questo, il Garante nazionale, anche nell’anno appena trascorso, non si è limitato a collaborare con la propria indicazione di conoscenza all’azione di produzione normativa - e ringrazio i Presidenti di Camera e Senato per aver sempre consentito e sollecitato in audizioni specifiche tale intervento - ma è anche intervenuto a volte criticamente proprio sugli elementi di costruzione culturale che comunque ogni dibattito tematico porta con sé: in primo luogo il linguaggio. Questo aspetto mi riporta a una necessaria premessa relativa al presente del nostro discutere attorno all’anno che ci separa dalla precedente Relazione al Parlamento. Lo scorso anno, rievocando anche il mutamento cromatico e di ambientazione tra due opere contemporanee di Caspar David Friedrich, dall’indeterminatezza nebbiosa del viandante di fronte a un precipizio all’orizzonte luminoso dell’isola di Rügen, avevo ipotizzato e auspicato un ritorno alla normalità caratterizzato dalla riapertura di quei luoghi verso la ripresa di connessione con il mondo esterno. In realtà, tale connessione non si è ripresa: di più, mentre fuori di quelle mura e di quei cancelli ha prevalso la volontà di riapertura, anche quando non pienamente sostenuta dai parametri numerici, al di là di essi ha prevalso e tuttora prevale un’idea riduttiva del rapporto con la realtà esterna. Soprattutto nelle strutture sanitarie e assistenziali permane una chiusura difensiva che troppo spesso priva le persone del conforto dei propri affetti. Questo irrisolto ritorno a una vita meno dissimile da quella nella società libera non è esterno alla pervasiva ansia che coinvolge la nostra collettività. E che ha visto una continuità tra la difficile fase del rischio del contagio pandemico e quella ancor più problematica dell’irruzione di una guerra di aggressione a noi territorialmente vicina. Non possiamo pensare che ciò non si rifletta anche in quei mondi apparentemente separati. Sappiamo bene che non sono certamente mancate le guerre in varie parti del pianeta dopo quel “mai più” solennemente affermato all’indomani della tragedia che il mondo aveva vissuto nella prima metà del secolo scorso. All’indomani di un impegno solenne, racchiuso in quella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il cui incipit esprime un imperativo etico-politico che avrebbe dovuto guidare il rapporto tra i popoli e tra gli Stati e che invece è rimasto come una mera enunciazione non tradotta in impegno. Non sono mancate, quindi, guerre anche a noi molto più vicine nel dissolversi di realtà politiche che avevano tenuto insieme diversità senza mai costruirne una reale composizione e pronte, quindi, a esplodere nel venir meno dell’effimera e rigida connessione. Ma il carattere della guerra oggi in corso in un’area del territorio europeo ha una connotazione particolare, sia per l’oggettività dell’asimmetria del conflitto che ha visto uno Stato sovrano aggredito da uno Stato vicino, sia per il suo potenziale espandersi in altre forme che, in un mondo globalizzato, coinvolgono progressivamente - come in un effetto farfalla - regioni economicamente dipendenti da quell’economia e quei trasporti congelati dal conflitto in corso. Le povertà di aree geografiche e di settori sociali sono tasselli di una guerra derivata che tende a diffondersi in forme di accentuazione delle diversità, delle insorgenze migratorie, con effetti ancora non calcolabili compiutamente. Questa linea di continuità tra guerra al virus, guerra al fronte e guerra sperimentata nella povertà diffusa determina dei mutamenti nel nostro confrontarci con le difficoltà - e i luoghi verso cui questo Garante nazionale deve volgere il proprio sguardo sono intrinsecamente luoghi di difficoltà. Questi mutamenti hanno già riguardato il linguaggio - anche quello all’interno delle Istituzioni. Che progressivamente ha fatto sempre più ricorso a termini di schieramento, a espressioni definitive, alla logica dell’inimicizia. La guerra non ricompone nella solidarietà - come taluni potrebbero supporre quale esito della sofferenza visibile e vista. Al contrario, determina un’accentuazione della tendenza selettiva. Come osserva Zygmunt Bauman “la sensibilità pubblica all’umiliazione e l’opposizione a quest’ultima sono di natura selettive. In ogni momento alcuni tipi di umiliazione di certe categorie di persone suscitano clamore e generano appelli all’azione, mentre altri tipi non vengono riconosciuti come problemi che richiedono una risoluzione, oppure vengono giudicati al di là dell’umana capacità di riparazione, oppure ancora vengono definiti sofferenze che non possono essere curate o impedite dall’esterno perché di fatto autoinflitte”. Non è certo che la constatazione della espansione globale di sofferenza che una guerra determina sugli strati più deboli della popolazione mondiale determini maggiore capacità di accoglienza in senso generale e maggiore solidarietà. E già oggi vediamo la tendenza selettiva nell’accogliere persone che vengono da conflitti diversi o spinte dagli esiti di conflitti più antichi. Per questo dobbiamo porre attenzione ai mutamenti che la logica di guerra, la presenza concreta del conflitto nella nostra quotidianità, nei nostri mezzi tradizionali di informazione e ancor più in quelli dove le informazioni stesse sono plurime e incontrollate, porta con sé. Mutamenti che inevitabilmente si riflettono nei luoghi delle difficoltà e nel rapporto che la società nel suo complesso ha con essi. Il rischio principale è nella tendenza a non porre attenzione verso gli strumenti di ricomposizione, ricostruzione e riparazione possibile e a non realizzare progettualità in tale direzione, per rivolgersi invece verso il rifiuto, verso l’affermazione di impossibilità di cambiamento di una persona o di un contesto, verso l’adozione di strumenti centrati sull’incapacitazione e la segregazione di ciò che si ritiene irresolubile. In ambito penale, prevale così una distorsione del diritto centrata sull’inimicizia e il reo, tramutato in nemico, non è più persona destinata al miglior ritorno avverabile, bensì persona da tenere più distante possibile da ogni ipotesi di ritorno. In altri ambiti, per esempio, in quello del disagio psichico, scompare l’interpretazione dell’incidenza della relazionalità sociale sul disagio stesso e prevale il desiderio di salvaguardare gli altri dalla presunta pericolosità della persona malata e sostanzialmente fragile. Quanto alle persone migranti irregolari, solo quest’ultimo aspetto - l’irregolarità - diviene sintesi dell’intera vita della persona e viene meno ogni considerazione che aiuti a distinguere la possibile progettualità alla base della ricerca difficile di “altrove” da percorsi invece che possono porre questioni di sicurezza. Tutto è riassunto nella sola irregolarità: le pagine della Relazione di quest’anno riportano un episodio che sintetizza drammaticamente il restringersi di questo sguardo e che ha trasformato un giovane migrante vittima di un’aggressione violenta in una persona di cui disfarsi, rinchiudendola in un Centro per il rimpatrio per la sua irregolarità amministrativa, fino al suo abbandono verso il suicidio. Nella difficoltà del momento attuale che induce inevitabilmente alla logica propria della guerra, occorre invece ritrovare la capacità dello sguardo normale. Ricordando che la solida ordinarietà dell’agire democratico è l’asse portante della nostra Carta: la parola “solidarietà” compare sin dal suo secondo articolo, la parola “emergenza” non vi compare, mentre anche l’aggettivo “eccezionale” è richiamato per contenere i poteri non per estenderli. L’asse tematico Come avvenuto già lo scorso anno, la Relazione si compone di due parti: una principale di riflessione generale, a partire dall’analisi di alcuni aspetti che hanno caratterizzato l’anno trascorso e che contiene le conseguenti richieste che avanziamo al Parlamento e le raccomandazioni che formuliamo alle Amministrazioni, l’altra quale appendice che fotografa con indicatori numerici la situazione attuale nelle cinque complessive aree dell’impegno del Garante nazionale: quella penale, quella relativa alle Forze di Polizia, l’area dei migranti amministrativamente trattenuti e i relativi rimpatri, l’area sanitaria e, infine, quella socio-assistenziale. La Relazione si compone, quindi, di due aspetti. Uno consiste nella fotografia attuale della libertà negata - in carcere, in un centro per migranti, in un luogo di cura o in un luogo di assistenza - e nelle criticità che essa evidenzia sia per chi subisce tale condizione, sia per chi è chiamato a gestirla e organizzarla quotidianamente. L’altro nello sguardo prospettico che il Garante nazionale offre come proprio contributo istituzionale per una sempre più coerente coesistenza di valori apparentemente confliggenti: la sicurezza individuale, la capacità collettiva di affrontare le difficoltà, il recupero verso forme riconcilianti anche di chi ha commesso errori, la vicinanza non solo simbolica a chi tali errori ha subito. Questo è del resto il senso del rendere giustizia che mai va confuso con il fare giustizia. C’è però un filo di Arianna che tiene insieme proprio questi due differenti aspetti e che vuole aiutare acomprendere ciò che è avvenuto e a costruire la direzione del proprio percorso. Negli anni passati questo filo era stato declinato in termini diversi tutti connotanti la privazione della libertà: i luoghi, le persone, le parole con cui con essa ci si misura, le norme che definiscono questo universo. Quest’anno il filo scelto è quello del tempo, che acquista una particolare fisionomia nel contesto della privazione della libertà personale. Non è una fisionomia rassicurata o rassicurante: al contrario, ha i lineamenti mutevoli in quella particolare situazione soggettiva dell’essere in un luogo chiuso, di vedere i propri ‘strumenti’ di costruzione conoscitiva limitati dalla contingenza che si vive o dall’ineluttabilità di quella che si prefigura in avanti. Il tempo, messo in rapporto con la specificità della privazione della libertà, ha il volto contratto dalla tensione del momento in cui si è fatta una scelta che già conteneva, forse nascosto, il germe del suo possibile evolversi negativamente. È il tempo dell’inizio. Il momento della decisione di mettersi in mare o di attraversare una frontiera per un destino che si spera migliore contiene già, infatti, tutte le immagini di un futuro difficile, forse destinato a concludersi in un ritorno di sconfitta, che però non sono in grado a trattenere la decisione del momento. Anche il momento della decisione di commettere un reato ha in sé le immagini del futuro che forse a volte non sono visibili a chi agisce e che sono destinate a comparire più avanti. Più avanti, il tempo riconfigurato non è più quello di prima: si declina in parole come lentezza, dilatazione, ciclicità, che lo rendono sempre più distante dal suo omologo che fluisce all’esterno dei luoghi chiusi. Parafrasando le parole che il Reverendo Dodgson (Lewis Carroll) fa dire al Coniglio bianco, rispondendo alla domanda di Alice, “a volte per sempre dura solo un secondo”. Perché quell’attimo - del reato, del passaggio di un confine, dell’ingresso in un ricovero - determina un mutamento sostanziale dell’organizzazione della sequenzialità quotidiana, della futura catalogazione degli accadimenti e anche della soggettiva percezione del tempo e del suo impossibile coordinamento con il tempo degli altri; di chi non è recluso. C’è un momento in cui la circonferenza che riassume metaforicamente il ciclico ritmo quotidiano dei luoghi chiusi e la retta a essa tangente che riassume l’andare del tempo esterno, coincidono nello stesso punto: poi la prima tornerà su sé stessa, mentre l’altra si allontanerà sempre più. A ogni incontro con una persona esterna, a ogni incontro con i propri affetti, ma anche a ogni momento di confronto con l’Istituzione che regola e legittima il procedere dell’assenza di libertà, circonferenza e tangente sono di nuovo insieme in un singolo punto: per un attimo sembrano avere lo stesso orologio, poi inevitabilmente si discostano, l’una torna a ripiegarsi nella logica dell’internamento, l’altra a seguire la direzione degli eventi. Per questo, è anche difficile dare una misura del tempo della privazione della libertà: il tempo e la sua durata. Difficile misurarlo prima, in termini proiettivi, per stabilire quale sia il tempo necessario perché la finalità rieducativa di una pena possa realizzarsi; altrettanto difficile una qualsiasi misurazione della significatività del suo svolgersi, per capire se e come intervenire, se e come restituire al mondo libero. Altresì difficile misurare l’esito di un percorso terapeutico nei termini rassicuranti spesso inesauribilmente richiesti da una collettività esterna sempre ansiosa e desiderosa di non vedere le diversità che pure abitano in essa. Misure difficili che rischiano di far sconfinare la non misurabilità con l’indefinitezza. Da qui, il rischio di aggiungere anche l’indeterminazione ai sostantivi che declinano il tempo nella restrizione: i “mai”, pronunciati per i ritorni a cui le istituzioni segregative - tutte - dovrebbero invece guardare, nascono anche da questa misura che si estende in modo incongruo e limitato solo dal tempo della vita. I contributi tematici di questa Relazione al Parlamento 2022 si snodano attraverso queste tre aree di riflessione che ricalcano, con la dovuta modestia, la memoria, la visione, l’attesa, come le ricorda Agostino nel suo distinguere “il presente del passato”, “il presente del presente” e “il presente del futuro”. Ben sapendo che il tempo non è “operatore della pena” solo nel senso con cui Michel Foucault lo individua: come possibilità che esso offre perché si espliciti l’azione peculiare del castigo. Lo è anche come durata concessa in tutti gli altri luoghi di privazione della libertà perché si realizzino le strategie istituzionali verso persone ritenute non in grado di agire nella propria autonomia e nella propria capacità decisionale. Ma il tempo è anche declinabile attraverso alcune parole che ne chiariscono il significato attribuito al proprio tempo da ognuno di noi nella sua contingente situazione. Le parole scelte sono: simultaneità, lentezza, dilatazione, misura, tempo di un mandato. La parola simultaneità è emblematica del presente in cui ogni connessione è possibile nell’immediatezza e già qualche secondo di attesa sembra durare un’eternità, tale è la nostra sensazione di distruzione del tempo di sospensione. La seconda parola è dilatazione perché, all’opposto, i tempi dell’attesa si dilatano in chi è privato della libertà. La terza parola lentezza rappresenta un valore nella vita esterna e un’ulteriore pena nella vita di chi è ristretto in qualche luogo perché l’incedere burocratico con il suo passo lento, spesso inaccettabilmente lento, accentua la sensazione di costrizione. La quarta parola è misura e indica la pretesa penalistica di far corrispondere alla gravità di un reato una misura maggiore di tempo sottratto, alla ricerca di un principio di equivalenza che se ha costituito un progresso in un mondo che superava con il diritto moderno la corporeità delle pene, mostra oggi tutto il suo limite. Infine, la parola mandato: una parola particolare che, indirettamente, interroga anche il Garante nazionale su cosa sia possibile fare nel tempo limitato di un ‘mandato’ istituzionale di fronte a problemi che vengono da molto lontano e che sono destinati a perpetuarsi, oltre il termine del mandato stesso. Attorno a queste parole è stato richiesto il contributo di persone, di alto profilo intellettuale, esterne al Garante nazionale. Ringrazio qui Carlo Rovelli, Matteo Zuppi, Fiorinda Li Vigni, Davide Petrini, Massimo Bray, amici del Garante nazionale per il contributo che arricchisce questa Relazione. Il tentativo è stato ed è costruire una doppia coralità di riflessione: di contributi che nascono in aree disciplinari diverse e attraverso esperienze lavorative diverse e di contributi che presentano la varietà delle ragioni e delle forme in cui si realizza la privazione della libertà di una persona. Un anno di penalità Nel riferire di quest’ultimo anno di esecuzione di provvedimenti di natura penale e di problemi all’interno delle strutture che a ciò devono rispondere è bene partire dalla situazione dei minori, proprio per l’investimento sul loro futuro che un sistema ordinamentale deve fare in termini di rottura di quel legame sociale che con la commissione di un reato, in particolare da parte di una persona giovane, si è determinato. Più volte, già negli anni precedenti, ho avuto modo di sottolineare come il sistema penale minorile del nostro Paese riesca a far vivere concretamente il principio che vuole la misura privativa della libertà come misura estrema e affida ad altre forme di positivo recupero la possibilità di non giungere alla sanzione penale nonché a forme di controllo e supporto l’esecuzione di provvedimenti di tale natura laddove questi si siano resi necessari. Il numero attuale di 358 presenti negli Istituti penali minorili (di cui soltanto 163 al di sotto dei diciotto anni) e il parallelo numero di 3001 minori in ‘messa alla prova’ e di altri 784 in varie modalità alternative sono indicativi di questo quadro positivo. Tuttavia, qualche segnale non rassicurante si è registrato recentemente e riguarda la tendenza, soprattutto in alcune aree territoriali - spesso a Nord - alla crescita del numero di minorenni autori di reati compiuti collettivamente e la cui rilevanza richiede misure restrittive. Un incremento che, data la capienza di posti disponibili, rischia di determinare spostamenti verso Istituti geograficamente distanti, a detrimento dei rapporti familiari e affettivi e della connessione territoriale funzionale al ritorno. Un disagio molto presente nel sistema di detenzione adulta: i numeri dei gesti autolesionistici e soprattutto dei suicidi - 29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare - dell’età e della fragilità, spesso già nota, degli autori di tali definitivi gesti sono un monito; ci interrogano non per attribuire colpe, ma per la doverosa riflessione su cosa apprendere per il futuro da queste imperscrutabili decisioni soggettive, cosa imparare per diminuire il rischio del loro ripetersi. Come leggere l’intrinseca fragilità che ci comunicano. L’analisi numerica del carcere pone, a giudizio del Garante nazionale tre riflessioni prioritarie che affiancano quelle più note dell’affollamento delle strutture, della inaccettabilità di molte di esse sia per chi vi è ristretto, sia per chi vi lavora ogni giorno, della loro inadeguatezza sul piano spaziale per una esecuzione penale costituzionalmente orientata. Le tre riflessioni riguardano in primo luogo l’accentuazione della presenza di minorità sociale in carcere: delle 54786 persone registrate (a cui corrispondono 53793 persone effettivamente presenti) e delle 38897 che sono in esecuzione penale - essendo le altre prive di una sanzione definitiva - ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. Superfluo è chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa - e questa è la seconda riflessione - la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Al di là della volontà del Costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità - interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità. Ma sono anche vite che altri sistemi di regolazione sociale avrebbero dovuto intercettare prima che intervenisse il diritto penale, strumento duro, sussidiario e anche costoso che dovrebbe restringere il proprio intervento alle sole situazioni in cui altre modalità di intervento non sono riuscite. La terza riflessione riguarda, quindi, la responsabilità esterna, del territorio, che finisce con affidare al carcere le proprie contraddizioni determinando quella detenzione sociale - il termine è di Alessandro Margara - che il carcere non può risolvere. Questa connotazione si è accentuata recentemente ed è alla base della difficoltà che chi opera in carcere soprattutto con compiti di gestione della sicurezza avverte: sebbene non della dimensione con cui è stato erroneamente ed enfaticamente riportato anche da qualche autorevole commentatore, l’aumento del numero di eventi critici esiste ed è indicativo di questo grumo di difficoltà racchiuso nel carcere, spesso connesso ad altri fattori soggettivi, talvolta anche classificabili come effettivo disagio psichico. Non spetta a me intervenire circa la classificazione di tali comportamenti e certamente vedo il rischio di una sorta di ‘psichiatrizzazione’ di ogni agito che esuli dalla normalità e che determini anche difficoltà di risposta in chi ha la responsabilità di prevenirne esiti infausti. Resta tuttavia l’obbligo per il Garante nazionale di segnalare la scarsità di supporto psicologico e psichiatrico nelle strutture detentive, la frammentarietà degli interventi quasi sempre di risposta a situazioni già evolute e scarsamente centrati sulla prevenzione e sulla continuità dialogica. Una scarsità e una frammentarietà che, nonostante la professionalità dei singoli operatori, finisce con incidere sulle tensioni interne, sul ricorso ampio a interventi farmacologici, sulla previsione di una incongrua modalità di ‘sorveglianza a vista’ che, a volte svincolata dalla continuità medica, rischia di far ricadere impropriamente sul personale di Polizia penitenziaria una funzione e una responsabilità che non attengono alla sua formazione. Il Garante nazionale ritiene che tale tema debba essere affrontato con la dovuta serenità e l’altrettanto dovuta urgenza, nel solco della riflessione che da più di quaranta anni ha posto come elemento determinante la necessità di non confondere funzione terapeutica e funzione custodiale. Tuttavia anche con la serenità e l’urgenza del riconoscere che il carcere non può dare risposta a un disagio che è ‘altro’ rispetto a quello insito alla esecuzione penale in privazione della libertà. Proprio tenendo insieme entrambe le esigenze il Garante nazionale chiede che si avvii con urgenza una discussione sugli interventi da realizzare per rispondere a tale situazione, ritenendo essenziali sia l’allineamento nel codice delle previsioni per l’infermità fisica e per l’infermità psichica, sia la rivalutazione della congruità numerica, logistica e funzionale delle attuali 33 “Articolazioni per la tutela della salute mentale” (di cui cinque per donne) che ospitano 256 persone detenute (di cui 15 donne). Accanto, occorre osservare che non è possibile far ricadere questo problema sulle “Residenze per le misure di sicurezza” di natura psichiatrica, su cui spesso si concentra l’attenzione dell’informazione, perché ciò determinerebbe il rischio di strutture territoriali che avrebbero un carattere manicomiale in quanto contenitori di situazioni soggettive del tutto dissimili dal punto di vista giuridico e medico. Il Garante nazionale è ben consapevole dell’incompiutezza del percorso normativo e attuativo avviato con la legge che ha previsto tali Residenze. Un percorso segnato innanzitutto dall’errore concettuale di chi le configura come mere strutture di sostituzione dei dismessi Ospedali psichiatrici giudiziari e non come misura estrema all’interno di un progetto complessivo di presa incarico della persona autore di reato e dichiarata non penalmente responsabile. La recente sentenza che ha previsto per un autore di duplice omicidio l’internamento in Rems per trenta anni non può trovare alcuna giustificazione dal punto di vista sanitario perché nessun intervento di cura e recupero può essere attuato in tali termini e sembra richiamare soltanto la logica prognostica della pericolosità sociale. Certamente anche nel caso delle Rems alcuni numeri devono esser rivisti. Ma nella doppia direzione: quella di ridefinire la loro presenza nel territorio, insufficiente in alcune specifiche aree, e quella di valutare l’eccesso di ricorso a tale misura, anche in via provvisoria e per fatti reato di minore entità, che determina la conseguenza di non avere disponibilità per casi definitivi e il perpetuarsi di presenze in carcere di persone che non hanno titolo giuridico per restarvi e soprattutto avrebbero bisogno di tutt’altra attenzione. Mi sono soffermato sull’aspetto del disagio psichico perché questo è tema fortemente avvertito da chi quotidianamente lavora in carcere e perché è direttamente lesivo del bene della salute delle persone coinvolte, siano esse adulte o minori. Per questi ultimi troppo spesso la ricerca di una comunità dove tale disagio possa essere affrontato si scontra con la tendenza delle comunità stesse a selezionare i casi che meno costituiscano un problema. Per questo il Garante nazionale chiede che l’impegno a ospitare e in ragionevoli tempi i casi che richiedono attenzione diversa da quella che il carcere può offrire sia sottolineato nella fase di definizione della convenzione con le strutture interessate. La ragionevolezza dei tempi, delle attese riporta alla chiave di lettura di questa Relazione: il carcere si presenta spesso come luogo delle attese: ridurle è una scommessa importante. Innanzitutto, ridurre il tempo che scorre tra ciò che si è commesso e il percorso, anche sanzionatorio, che conseguentemente si deve percorrere. Il tema della durata ragionevole dei processi, delle accelerazioni che i recenti provvedimenti adottati vogliono determinare e il differente impulso dato in tal senso fanno bene sperare. Perché una sentenza che deve essere eseguita dopo molti anni finisce con assumere una fisionomia ben diversa da quella che la vorrebbe orientata alla rieducazione e al reinserimento. Troppo spesso il Garante nazionale è stato interrogato da casi di sentenze che riguardavano fatti avvenuti molti anni prima e che coinvolgevano persone che nel frattempo si erano pienamente reinserite, senza commettere alcun reato e anzi con azioni che testimoniavano nuova consapevolezza. L’interruzione di questi percorsi per l’esecuzione di provvedimenti che riguardano un passato lontano in un contesto, quale è quello attuale, in cui il tempo è caratterizzato da continue accelerazioni che inducono grandi mutamenti soggettivi, inquietano e interrogano. Quale percorso potrà essere costruito per un giovane che ha commesso reati nel contesto di una manifestazione quando era liceale e che si trova a dover eseguire una sentenza detentiva per quanto allora commesso, undici anni dopo il fatto, con studi compiuti, progetti di studio e di vita avviati? Anche questi aspetti devono essere posti se vogliamo che quella finalità tendenziale delle pene non sia mera enunciazione: forse è qui che un percorso di riparazione, ricostruzione che si sta ora avviando anche dal punto di vista normativo deve agire con maggiore sensatezza dell’intervento meramente retributivo che l’assolutezza di una condanna detentiva comporta. Lo scorrere del tempo va sempre considerato anche quando ci si interroga sui criteri che devono guidare il permanere o meno di percorsi speciali di esecuzione penale per reati molto gravi e soprattutto connotati da una azione non singola, ma connessa con reati di criminalità. Il Garante nazionale ha sempre ritenuto essenziale che in questi casi si adottino e si mantengano tutte le misure volte a non consentire il perpetuarsi di tali legami ed ha sempre esaminato da questa prospettiva le misure che determinano la specialità detentiva. Una prospettiva che ha fatto propria l’impostazione sia della Corte costituzionale sia della Corte europea per i diritti umani, quando sono state rispettivamente adite per questioni riguardanti il regime ex articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Ritiene tuttavia importante continuare la propria azione di vigilanza affinché nessuna misura sia introdotta o mantenuta sulla base giustificativa di altri criteri, dettati dalla volontà di maggiore afflittività, e che provvedimenti relativi a tale misura abbiano ogni volta una base di fondamento che tenga conto dell’evoluzione del singolo e dei contesti. Certamente è ora che le molte pronunce della Corte costituzionale relative a tale specialità di regime detentivo siano organicamente inserite in atti amministrativi regolamentari, superando le previsioni della circolare del 2017 e tenendo conto anche dell’esperienza di chi in questi anni con professionalità ha operato in quest’ambito. Non è possibile comunque non aver presente l’attesa verso la risposta che il Parlamento darà alla richiesta della Corte costituzionale di rivedere l’unico attuale criterio della collaborazione che può far venir meno la preclusione all’accesso a benefici, alle misure alternative e alla liberazione condizionale. Viviamo all’interno di un tempo fermo: la proroga di sei mesi per l’adozione di un provvedimento che deve rispondere a una pronuncia, quantunque non formale, di incostituzionalità, è il limite massimo concedibile. Ma anche questo - non dimentichiamolo - è comunque tempo di attesa che incide sulla vita delle persone. Anche perché la cosiddetta ‘ostatività’ riguarda anche pene temporanee che forse avrebbero potuto avere la possibilità di un migliore e graduale ritorno alla collettività esterna e che invece permangono in quell’assurdità del passaggio da un regime totalmente chiuso fino all’ultimo giorno alla libertà nel giorno successivo. Ho tracciato alcuni temi che riguardano l’anno trascorso nel mondo dell’esecuzione penale. Non ho volutamente fatto riferimento - cosa che invece il testo che consegniamo fa - a vicende di violenza che hanno proiettato un’immagine grave e non rassicurante della nostra detenzione e che nel corso dell’anno trascorso sono state censurate in modo chiaro dalla Ministra della Giustizia e dal Presidente del Consiglio nella loro visita a Santa Maria Capua Vetere. Non le ho nominate perché non ritengo che siano rappresentative della fisionomia del nostro sistema di esecuzione penale. Però non cessano di interrogarci perché manifestatesi in più Istituti e in regioni diverse. Ci interrogano sulla cultura che sostiene quell’agire e anche quelle parole che vengono riportate da registrazioni negli atti processuali - anch’esse ci interrogano sul linguaggio. Ci interrogano sulla responsabilità di chi dovrebbe essere in grado di vedere e contrastare l’insorgere di tali atteggiamenti; ci interrogano sulla capacità effettiva di risposta affinché nulla possa essere interpretato come segnale di impunità. Ci interrogano, infine, sulla capacità di accertamento rapido e di rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale è quella dell’articolo 613-bis del codice penale - tortura - o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione e il Garante ha ritenuto inaccettabile nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e chi nel caso ne sia stato responsabile. La pena detentiva ha bisogno oggi di ritrovare serenità, oltre che di essere ricondotta a misura estrema attraverso il ricorso ad altre misure di intervento in risposta alla commissione del reato. La normalità passa attraverso l’attuazione di quel principio delle Regole penitenziarie europee che stabilisce che debba essere il più simile possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno, proprio perché solo l’attenzione agli affetti e alla possibilità di viverli compiutamente, all’offerta di istruzione e occasioni di cultura che sani la carenza di un titolo di studio che ancora connota una parte consistente della popolazione detenuta, al recupero di rapporto con il proprio corpo che superi la costrizione dei luoghi del mal-essere, può ridare significato concreto a quel comma dell’articolo 27 della Costituzione, troppo spesso soltanto rievocato. In tal senso si sono mossi i lavori della Commissione che ha lavorato sul finire dello scorso anno, coordinata dal professor Marco Ruotolo, che ha individuato un insieme di linee di azione in parte amministrativa, in parte regolamentare e in parte legislativa. Il Garante nazionale auspica che quanto meno le due prime aree di azione siano rapidamente portate a concretizzazione. Un anno di attese Descrivere alcuni aspetti dell’anno trascorso relativamente alle strutture sanitarie e socioassistenziali potrebbe richiedere una specifica Relazione, proprio perché sono state direttamente toccate dal periodo della pandemia e, come già osservato, spesso molte di esse stentano a ritrovare una via di normalità. Il Garante nazionale ha visitato alcune di queste strutture nel periodo della chiusura a terzi, anche alle persone rilevanti sul piano affettivo, soprattutto in una contingente situazione di accentuata fragilità emotiva dovuta all’età o alla particolare condizione di disabilità. Non si può del resto negare che esista un conflitto tra due esigenze entrambe valorialmente rilevanti: quella di tutelare le persone, fisicamente deboli, dal possibile contagio e quella di non privare le stesse, emotivamente deboli, del conforto della vicinanza. Trovare il punto di equilibrio non è semplice anche in tempi normali; ancor più difficile in una situazione di eccezionalità. La questione apre alla più generale riflessione sul concetto stesso di ‘tutela’ e sul sempre presente rischio che essa si confonda con la sostituzione della volontà della persona. Sono noti alcuni casi in cui il Garante nazionale è intervenuto per ribadire che il sostegno a una persona molto anziana, spesso in difficoltà di gestione in proprio di talune incombenze e a volte a rischio di divenire preda di interessi altrui, non può mai determinare l’annullamento della sua volontà e tanto meno la riduzione drastica della sua autodeterminazione circa il dove vivere e come quotidianamente agire. Il rischio è che decisioni legalmente prese retroagiscano verso una forte diminuzione del significato stesso di ‘vita’ per la persona che si intende proteggere: qualche caso tuttora irrisolto sembra andare in questa direzione. Questa constatazione generale ha assunto una peculiarità specifica nel contesto della pandemia perché alla volontà di tutela degli ospiti si è aggiunta spesso la volontà di tutela dell’Istituzione - Comunità, residenza, casa di riposo - da possibili interventi di natura giudiziaria per non aver salvaguardato proprio la salute degli ospiti stessi. Un cortocircuito che in qualche modo non considera la percezione soggettiva della propria vita della persona ospitata e il suo rapporto con il tempo, deformato dilatandosi nella sensazione del proprio ricovero, spesso breve nella disponibilità residua per persone anziane. Molte sono state le richieste giunte al Garante nazionale volte a ottenere maggiore apertura, soprattutto nei mesi recenti; frequenti le interlocuzioni in tal senso con le Autorità regionali responsabili, scarsi gli effetti data la possibilità delle singole direzioni delle strutture di decidere autonomamente. Credo che queste voci debbano essere ascoltate e che si debba procedere verso la costruzione di ‘linee guida’ condivise che servano di indicazione per tutte le Regioni. L’area della residenzialità protetta, accudita e che, in talune circostante, sconfina con l’essere chiusa, fino a configurarsi come privativa della libertà de facto soprattutto per coloro che non hanno figure di accudimento da loro riconoscibili, rappresenta un’area di intervento verso cui questa Autorità di garanzia dovrà accentuare la propria attenzione, prendendo atto degli elementi di innovazione che il quadro normativo ha prefigurato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e che vede ora la redazione di decreti legislativi che prevedono l’introduzione di una funzione specifica di garanzia per le persone con disabilità. L’interazione tra una tutela d’ordine generale e una specifica per coloro che sono all’interno di strutture potenzialmente chiuse lascia sperare in un rafforzamento complessivo e il Garante nazionale è pronto a dare il proprio contributo in tale senso. Per queste strutture - e anche, più in generale per quelle di area sanitaria, quali i Servizi psichiatrici ospedalieri per la diagnosi e la cura di cui la Relazione dà anche conto - l’accento va posto su quella che, prendendo la locuzione dal sociologo Richard Sennet, definisco politica del rispetto. I codici del rispetto sono innanzitutto quelli del prendersi cura di sé nella propria azione altrimenti sterile, poi nel riconoscere le diversità come valori e non ostacoli, infine nel riconoscere la relazionalità che lega ineluttabilmente le persone tra loro. Quando gli attori sociali o politici non riconoscono tale relazionalità e pensano di costruire una parvenza di rispetto proprio sul non riconoscimento del rispetto altrui, qualsiasi azione diviene sterile. Il quarto codice è l’avere tempo nel rivolgersi alle realtà complesse: perché queste richiedono tempo, richiedono un surplus di parola, di attenzione, di azione positiva. Altrimenti rischiano di essere adempimenti burocratici che prescindono dalle soggettività difficili a cui si rivolgono. Le difficoltà che giungono a noi Proprio le difficoltà personali di chi è spinto a ricercare altre vie per superarle e quelle sociali di chi vede arrivare tali complesse situazioni e spesso non ha risposte credibili e non ha neppure il tempo per riconoscere e discriminare al loro interno, portano a considerare il quadro complessivo della privazione della libertà delle persone migranti irregolarmente presenti nel territorio italiano e dei voli di rimpatrio. L’analisi dell’ultimo anno non si discosta da quella degli anni precedenti in termini di numeri relativi. Nel senso che, pur a fronte di 44292 persone registrate negli hotspot nel corso del 2021 (e tra esse 8934 minori), le persone rimpatriate sono state 3420, anche in ragione della minore possibilità nello scorso anno di organizzare voli di rimpatrio. Altre 6153 persone sono state respinte alla frontiera. Il dato delle registrazioni in hotspot è così tornato simile a quello del 2017, ma con una prevalenza di presenze a Lampedusa pari a quattro volte quella raggiunta in quell’anno. Anche la composizione è stata simile al passato: la prevalenza è di persone tunisine - circa un terzo del totale - seguite da quelle egiziane. La novità recente è consistita nell’accentuato ricorso alle ‘navi quarantena’ che hanno ospitato 35304 persone per una media di undici giorni. Il Garante nazionale, anche a seguito di una visita su una delle imbarcazioni utilizzate e del controllo delle procedure in atto, ha riconosciuto che le condizioni logistiche predisposte erano certamente migliori di quelle che le persone avrebbero potuto avere qualora accolte nei sovraffollati hotspot. Ha anche però sin dall’inizio chiarito che le persone a bordo ricevevano le cure necessarie e seguivano una procedura protettiva rispetto al contagio, ma non ricevevano una esauriente informazione circa i propri diritti né tale funzione poteva essere affidata al personale della Croce Rossa che era l’unico personale a bordo diverso dalle Autorità di gestione della nave. Soprattutto, quindi, che tale soluzione dovesse avere carattere temporaneo. Ciò anche in considerazione della difficoltà psicologica che si può determinare nel non approdare dopo l’esperienza di un lungo e spesso molto difficile viaggio in mare, e soprattutto dell’implicito messaggio che tale sistemazione invia alla collettività, quasi a smarcare una distanza netta - attraverso la non discesa a terra - delle persone migranti che seguivano una prassi sanitaria identica a tutto il resto della cittadinanza. Il perpetuarsi di questa provvisoria e costosa soluzione anche al di là della oggettiva necessità imposta dal periodo di emergenza ha indotto il Garante nazionale a richiedere che tale pratica venisse sospesa. Con favore ha, quindi, accolto la notizia della sospensione a decorrere dallo scorso 31 maggio. Non è cambiata la percentuale dei rimpatri relativamente alla permanenza nei ‘Centri per il rimpatrio’ (Cpr). Attualmente nei 10 Centri, con una complessiva capienza di 711 posti, si è mantenuta attorno al 49 percento delle persone che vi sono state ristrette, in media per trentasei giorni. E apre la questione della legittimità di tale trattenimento quando sia già a priori chiaro che il rimpatrio verso quel determinato Paese non sarà possibile. Ai Centri sono stati recentemente aggiunti le cosiddette ‘strutture idonee’ dove le persone da rimpatriare possono essere trattenute in assenza di una facile disponibilità dei Centri: di essi finalmente si ha una mappa, le caratteristiche essenziali, lo stato di avanzamento di quelli in allestimento e la situazione di quelli già funzionanti. Il Garante nazionale ha recentemente iniziato a visitare tali locali, messi a disposizione dalle Questure, e presenterà uno specifico Rapporto su di esse entro la fine del proprio mandato. Questa descrizione, che in buona parte ricalca quanto già evidenziato in passato e che è frutto di un lavoro costante di analisi da parte del Garante nonché di una interlocuzione continua con gli Uffici preposti del Ministero dell’Interno, non può eludere una riflessione più generale. Il tema però continua a essere affrontato, nei suoi miglioramenti e nelle persistenti problematicità, in termini emergenziali e non strutturali: quasi fosse ancora un problema nuovo, rispetto al quale deve essere sviluppata una politica solida e non congiunturale, a livello italiano ed europeo. L’attuale modalità, fatta di hotspot, di Cpr, di tentativi di rimpatrio, di numeri asimmetrici tra gli arrivi, i rimpatri e i positivi inserimenti nella collettività, fatta soprattutto di molta inutile sofferenza e grande dispendio di mezzi, persone e denaro non ha le caratteristiche di una effettiva ‘politica’ adottata di fronte a un tema che non diminuirà nei prossimi anni e che anzi - come da più parti è già previsto - aumenterà in dimensione anche in considerazione dei molti conflitti armati in varie regioni del pianeta e, in particolare, dell’ultimo ancor più prossimo a noi. Il Garante nazionale auspica che si avvii una nuova fase di riflessione che, partendo dalla connotazione strutturale delle migrazioni ricerchi quelle soluzioni di sistema che contemplino la possibilità di accesso regolare nel nostro Paese, forme di accoglienza volte a facilitare un inserimento graduale, diffuso e sicuro nei diversi territori, verso cui indirizzare gli investimenti nel settore. Così invertendo l’attuale rapporto proporzionale tra le previsioni di spesa per l’accoglienza e quelle per i trattenimenti e i tentativi di rinvio nei Paesi di provenienza, oggi sbilanciate a favore di questi ultimi. In tale direzione, l’Italia può riprendere una tradizione di accoglienza controllata e sicura e proporla come nuova fisionomia dell’Europa nel rivolgersi alle popolazioni di Paesi più poveri. Certamente l’accoglienza non può limitarsi a una fase di soccorso, ma deve avere una linea progettuale di percorsi di inserimento e di riconoscimento del loro compiersi. Per questo il Garante nazionale auspica che sia quanto prima riconosciuta la piena cittadinanza a coloro che da tempo in Italia, hanno compiuto un completo ciclo scolastico. Controllare, intervenire, garantire Sono state molte nell’anno trascorso le iniziative di formazione delle Forze di Polizia che hanno visto il Garante nazionale, ai diversi livelli dell’articolazione del proprio Ufficio, impegnato a spiegare la propria funzione, gli obblighi che sono in capo a chi ha il compito di agire per prevenire, contenere, trattenere una persona affinché non commetta un reato o, avendolo già compiuto, sia assicurata alla giustizia. Tali interventi hanno riguardato le modalità dell’agire e le garanzie in capo alla persona fermata, nonché le forme in cui il trattenimento si realizza anche dal punto di vista strutturale e logistico, oltre che sul piano della dovuta e accurata registrazione di ogni evento al fine di tutelare ogni persona ristretta, salvaguardare chi opera da eventuali false accuse e tuttavia assicurare la possibilità di indagine di ogni singolo episodio riportato. In questo contesto il Garante nazionale ribadisce, ancora una volta, l’inaccettabilità di archiviazione di inchieste dovute all’oggettiva impossibilità di individuazione delle specifiche responsabilità personali e chiede che sia numerato ogni strumento o mezzo di difesa in dotazione, che l’identificativo numerico sia apposto in maniera visibile su ciascuno di essi e che sia istituito un registro per l’annotazione dell’assegnazione ai singoli operatori, in ogni singola occasione per cui si è fatto ricorso a essi. La richiesta è stata oggetto di una raccomandazione formulata a seguito degli eventi di Santa Maria Capua Vetere, ma è estendibile a tutti i Corpi di Polizia ed è centrata sulla necessità dell’identificazione degli strumenti e dei mezzi previsti per la difesa dell’ordine e della sicurezza di cui sia possibile l’uso durante le operazioni in strutture chiuse. Tra le iniziative di formazione mi piace menzionare - per il complessivo impegno che ha determinato - quella portata avanti con il Comando generale dei Carabinieri per la presentazione del ruolo del Garante nazionale, della sua funzione e soprattutto della sua fisionomia istituzionale in ogni regione d’Italia con complessivi ventiquattro incontri organizzati dai Comandi di legione con tutti i Comandanti di reparto territoriale, di compagnia e stazione. Momenti strutturati di individuazione comune delle difficoltà, che, come avvenuti negli altri anni con le altre Forze di Polizia, sono anche indirizzati alla operatività conseguente alle raccomandazioni che il Garante formula a seguito delle sue visite. Ciò nella costruzione di un insieme di raccomandazioni e regole condivise che devono costituire quel sistema di soft lawche affianca le norme - il cosiddetto hard law - e determina standard comuni non meramente enunciativi perché costruiti sulla base di diretta esperienza e altrettanto diretto monitoraggio delle prassi e delle situazioni concrete. Con questa modalità dialogica è stata affrontata anche l’introduzione di armi a scarica elettrica - il taser - a partire dalla sua classificazione come arma, sebbene definita non letale, il cui impiego richiede tutte le cautele che circondano l’uso di ogni arma. Soprattutto la sua funzione deve indurre una riduzione del ricorso alle armi classiche e non una riduzione dell’impiego di altri strumenti anche dialogici nell’affrontare situazioni di pericolo: saranno questi numeri, questa riduzione dell’uno o dell’altro a darci informazioni sulla positività o meno del loro impiego. Recentemente la collaborazione si è avviata anche con le Polizie locali, a partire dalla costruzione di un progetto formativo sperimentalmente portato avanti nella regione Emilia-Romagna. Una breve conclusione L’analisi delle diverse aree di azione del Garante nazionale e il dettaglio del difficile panorama che è suo obbligo presentare compiutamente al Parlamento richiedono due cenni di conclusione. Il primo riguarda il Garante stesso: una Istituzione che, senza indulgere in modestia, possiamo dire che in questi quasi sette anni si è consolidata, è riconosciuta ed è ormai accreditata a livello internazionale. Ma che, proprio per questo, richiede oggi un consolidamento interno, con il passaggio da una situazione di generosa provvisorietà, soprattutto del personale che con dedizione ha lavorato in questi anni, a quella del pieno riconoscimento della professionalità acquisita e della volontà di non disperdere tale esperienza e tale sapere. Quindi di una strutturazione con proprio ruolo che dia il segno visibile della continuità. Il secondo riguarda invece il poco che è stato fatto rispetto al tanto che è posto da temi, quale quello del riconoscimento dei diritti di ogni persona, anche di chi ha sbagliato, che richiedono anche cambiamenti culturali rispetto ai quali l’azione di un mandato è solo un piccolo sasso utile a una grande fortificazione da costruire. Interviene di nuovo la riflessione sul tempo. Che è richiesto per mutamenti non semplici: occorre porsi come coloro che riconoscono la necessità del tempo, ma che non devono sprecarlo perché il tempo è in fondo “un regalo, ma un regalo che non si conserva”. Carceri, su 54.876 i detenuti 3.792 scontano una pena sotto i 2 anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2022 Nella relazione al Parlamento il Garante chiede una soluzione alternativa per questi detenuti. Affollate, in condizioni inaccettabili per chi vi è ristretto e per chi vi lavora ogni giorno, inadeguate anche sul piano degli spazi per una esecuzione penale costituzionalmente orientata, le carceri sono sempre più piene di persone prive di mezzi. Lo segnala Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà nella sua relazione al Parlamento. Dei 54.786 detenuti registrati (ma quelli effettivamente presenti sono 53793) e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva “ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni”. Scontare in carcere pene così brevi in presenza delle quali il nostro ordinamento prevede forme alternative alla detenzione, spiega Palma, “è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”. Il Garante richiama anche l’attenzione sui suicidi carceri (29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare) e sulle gravi vicende sulle violenze nelle carceri, come a Santa Maria Capua Vetere, che richiedono “capacità di accertamento rapido” e “rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione” avverte il Garante che ha ritenuto “inaccettabile” nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e le responsabilità. Garante, basta carcere per pene sotto i due anni - L’ergastolo ostativo, il carcere anche per pene molto brevi, la malattia psichica: sono i tre “punti di crisi” su cui il Parlamento “può e, in parte, deve” intervenire in questo scorcio di legislatura “. Al 31 marzo sono 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. “I numeri - sottolinea Emilia Rossi, vice dell’autorità garante - dicono che nel nostro Paese l’ergastolo è essenzialmente ostativo: una pena diversa, quasi di specie diversa, rispetto a quelle previste dal codice penale, perché non definitiva bensì sostanziata dal tempo”. “Il Parlamento sa e può trovare una sintesi, come ha fatto in altre occasioni”, esorta. Il secondo punto di “crisi del sistema”, sottolinea è rappresentato dall’esecuzione in carcere di pene così brevi da non consentire nemmeno l’avvio di un percorso di risocializzazione. Infine, l’ultima criticità è la malattia psichica in carcere: al 22 marzo erano 381 le persone detenute cui è stata accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento negli istituti, giuridici e penitenziari, predisposti per affrontarla, “ma la soluzione non è e non può essere solo sanitaria e tantomeno di sola sicurezza: va cercata nel coinvolgimento attivo di figure professionali ulteriori e nuove”. Garante, percorso riconciliativo per ex terroristi in Francia - Non il carcere ma un “percorso di tipo riconciliatorio” per gli ex terroristi che sono in Francia, condannati in Italia per “reati commessi da 30 a 40 anni fa” e che “hanno da tempo formalmente ripudiato la lotta armata”. E’ quello che auspica il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Un percorso che, spiega nella relazione al Parlamento, “ partendo dall’affermazione della responsabilità, restituisca a chi ne è stato vittima il valore del riconoscere la sofferenza subita e, al contempo, sappia guardare positivamente al presente diverso e a un impegno in positivo di chi, in un tempo e un contesto lontani, ne è stato causa”. Per quanto riguarda gli irriducibili detenuti nelle nostre carceri (sono una ventina, condannati per reati legati alla lotta armata degli anni Settanta e Ottanta), il Garante ritiene inaccettabile che continuino a essere assegnate al circuito alta sicurezza e inserite nel sotto circuito AS2 con i condannati per terrorismo internazionale, dove si verifica “una sospensione del trattamento con un’inevitabile compressione dei diritti delle persone e, in definitiva, un venir meno della finalità costituzionale della pena”. Casellati, sovraffollamento è contro dignità umana - “Il sovraffollamento, insieme ad una grave carenza di strutture, risorse e personale - rappresenta uno dei principali ostacoli alla salvaguardia di diritti fondamentali della persona, come quello all’istruzione, al lavoro o alla sfera degli affetti. Diritti che non sono solo guarentigie di una dignità umana che il carcere non può sopprimere, ma anche strumenti irrinunciabili per trasformare la pena in un’occasione di riscatto, recupero e rinascita sociale, come prescrive la Costituzione”. Così la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati sulla Relazione del Garante per la tutela delle persone private della libertà. “Vi sono poi situazioni di vera emergenza, come ad esempio in Puglia e in Lombardia, dove la concentrazione della popolazione carceraria arriva a superare il 130% e, in alcuni casi, persino il 160% dei posti disponibili” ha messo in guardia la Presidente del Senato. Carcere e migrazioni: nella relazione del Garante sul tema del tempo, tutte le storture del sistema di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2022 È stata presentata ieri mattina al Senato, al cospetto del Capo dello Stato Sergio Mattarella, la relazione annuale al Parlamento dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, organo collegiale presieduto da Mauro Palma. Oltre 500 pagine di descrizioni, riflessioni, mappe e dati che disegnano il quadro complesso delle quattro aree di intervento del Garante: quella delle migrazioni (Cpr, hotspot, rimpatri e respingimenti), quella delle carceri, quella della salute (le Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza psichiatriche, le residenze per anziani o per disabili, i trattamenti sanitari obbligatori) e quella relativa alle camere di sicurezza di polizia e carabinieri. Non è consueto ascoltare in un luogo istituzionale una relazione culturalmente così densa. Al centro vi si legge la dimensione del tempo, la quale - insieme a quella dello spazio - costituisce le fondamenta su cui si gioca ogni detenzione. Mauro Palma ha parlato di tempo sottratto e di tempo sospeso. È proprio intorno alla questione del tempo che è possibile leggere tutte le storture del sistema di repressione penale o amministrativa. Si pensi ai tempi lunghi del processo, durante i quali la vita resta sospesa, o alla durata eccessiva della custodia cautelare, che riguarda circa un terzo della popolazione detenuta. Si pensi al tempo sprecato di chi trascorre nell’ozio forzato la vita in carcere o in un centro di permanenza per stranieri irregolarmente presenti sul territorio nazionale. Dare significato al tempo, a ogni tempo di ogni persona, è quanto l’istituzione ha l’obbligo di fare. Si pensi al tempo inutilmente trascorso in carcere da quelle migliaia di persone che devono scontare pene brevissime. Sono 3.792 le persone attualmente in carcere per scontare una pena inflitta inferiore ai tre anni (1.319 addirittura sotto l’anno). Per loro il sistema potrebbe ben più proficuamente pianificare percorsi alternativi alla detenzione, che non operino drasticamente quella frattura dalla società che la pena costituzionalmente orientata dovrebbe poi impegnarsi a ricucire. Potente l’atto di accusa del Garante Nazionale contro le modalità di gestione del fenomeno complesso delle migrazioni. Sono 44.000 i migranti che nell’arco del 2021 sono passati dagli hotspot senza garanzie legali, segno di una democrazia che tratta gli immigrati solo ed esclusivamente come un problema criminale o tuttalpiù un fastidio da risolvere. La relazione fornisce un quadro ricco della questione carceraria in Italia. Non si limita a dare i numeri del sovraffollamento (quasi 55.000 detenuti per una capienza pari a circa 47.000 posti effettivi disponibili) o dei suicidi (29 dall’inizio dell’anno a oggi) ma offre una visione della pena in sintonia con quanto prescrive la nostra Costituzione all’articolo 27. La pena carceraria deve essere ridotta al minimo, come ci ha insegnato il grande maestro Luigi Ferrajoli. Vanno ridotti i reati e vanno ridotte le pene a quelle strettamente necessarie. La marginalità sociale va ricollocata nel mondo del welfare, ci spiega Mauro Palma. È con strumenti sociali, e non penali, che va affrontata. È arrivato il momento di procedere in questa direzione. Le recenti nomine alla direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono da questo punto di vista confortanti. Tornando tuttavia al concetto chiave scelto dal Garante per la sua relazione annuale, vale a dire il tempo, non dimentichiamoci che bisogna fare presto. *Coordinatrice associazione Antigone La Relazione del Garante: carceri sovraffollate e alto numero di suicidi di Luca Cereda vita, 21 giugno 2022 Sono 1.319 i detenuti in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2.473 per una condanna da uno a due anni: i numeri della Relazione presentata dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Dopo il picco al ribasso del 2020 - concomitante con l’inizio della pandemia - le carceri italiane sono tornate ad essere sempre più affollate. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma ha presentato la Relazione annuale al Parlamento, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Secondo la relazione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, dei 53793 detenuti (per una capienza pari a circa 47.000 posti effettivi disponibili) presenti nelle carceri italiane e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva, “sono addirittura 1.319 coloro che sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altri 2.473 per una condanna da uno a due anni. In tutto il 7% del totale”. Per Palma, “è superfluo chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto”. Il Garante ha richiamato anche l’attenzione sui suicidi in carcere - 29 a oggi nel solo 2022 a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare - e sulle violenze avvenute per esempio Santa Maria Capua Vetere, che richiedono secondo Palma “capacità di accertamento rapido e rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati”. Il garante presentato la relazione al Parlamento ha offerto una visione della pena in sintonia con quanto prescrive la nostra Costituzione all’articolo 27: “La pena carceraria deve essere ridotta al minimo, vanno ridotti i reati e vanno ridotte le pene a quelle strettamente necessarie. La marginalità sociale va ricollocata nel mondo del welfare - spiega Mauro Palma -. È con strumenti sociali, e non penali, che va affrontata”. Il Garante ha anche criticato il testo licenziato dalla Camera sull’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità di interrompere la pena detentiva nei casi in cui il condannato, ad esempio per reati mafiosi, non voglia collaborare con la giustizia. La riforma dovrà essere approvata dal Senato prima dell’8 novembre, nel rispetto del nuovo termine che la Consulta ha dato alle Camere - che introdurrebbe “disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui essa è intervenuta”. Al 31 marzo 2022 sono 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo: “È francamente difficile ricondurre quest’opera di riforma ai princìpi e ai parametri di revisione delle preclusioni assolute previste dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, segnati, i primi, e indicati, i secondi, dalla pronuncia della Consulta”, scrive il Garante, che segnala anche l’aumento del termine di tempo, da 26 anni a 30, per l’accesso alla richiesta di liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo ‘ostativo’ e quello di durata della libertà vigilata, passata da 5 anni a 10. “Il punto che appare di maggiore tensione rispetto alle indicazioni della Corte, tuttavia, sta proprio nei presupposti prescritti per l’accesso a qualsiasi beneficio - tutti, inclusi i permessi premio - o misura alternativa previsti dalla legge nonché alla liberazione condizionale. Una serie complessa di adempimenti probatori di difficile se non impraticabile adempimento e che, soprattutto, sono rivolti al passato, alla storia della persona spesso condannata in un tempo lontano oltre che riferiti a previsioni prognostiche che tanto somigliano a una prova diabolica”. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale lancia l’allarme anche sulla condizione dei Centri per il rimpatrio, anch’essi sovraffollati: “Non è cambiata la percentuale dei rimpatri relativamente alla permanenza nei Centri per il rimpatrio: attualmente nei 10 Cpr, con una complessiva capienza di 711 posti, si è mantenuta attorno al 49% delle persone che sono state ristrette, in media per 36 giorni. Il che apre la questione della legittimità di tale trattenimento quando sia già a priori chiaro che il rimpatrio verso quel determinato Paese non sarà possibile”. A fronte di 44.292 persone registrate negli hotspot nel corso del 2021 - tra esse anche 8.934 minori - le persone rimpatriate sono state 3.420. Il dato delle registrazioni in hotspot è così tornato simile a quello del 2017, “ma il tema - denuncia il Garante - continua però a essere affrontato, nei suoi miglioramenti e nelle persistenti problematicità, in termini emergenziali e non strutturali: quasi fosse ancora un problema nuovo, rispetto al quale deve essere sviluppata una politica solida e non congiunturale, a livello italiano ed europeo. L’attuale modalità, fatta di hotspot, di Cpr, di tentativi di rimpatrio, di numeri asimmetrici tra gli arrivi, i rimpatri e i positivi inserimenti nella collettività, fatta soprattutto di molta inutile sofferenza e grande dispendio di mezzi, persone e denaro non ha le caratteristiche di una effettiva ‘politica’ adottata di fronte a un tema che non diminuirà nei prossimi anni e che anzi, aumenterà in dimensione anche in considerazione dei molti conflitti armati in varie regioni del pianeta e, in particolare, dell’ultimo ancor più prossimo a noi”. Quasi 4.000 reclusi con condanne brevi potrebbero evitare il carcere di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 giugno 2022 Così si eviterebbe il sovraffollamento e anche il rischio di abbrutimento: le pene brevi non consentono quella possibilità di rieducazione e reinserimento che dovrebbero essere lo scopo della detenzione. La relazione di Mauro Palma al Parlamento. Se tutti coloro che ne hanno diritto chiedessero e fossero ammessi a scontare le pene brevi o medie fuori dal carcere, il problema del sovraffollamento nei penitenziari italiani sarebbe sostanzialmente risolto. O quasi. È un dato che si ricava dalla relazione annuale al Parlamento svolta in Senato da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. Davanti al presidente della Repubblica e alle più alte cariche istituzionali, Palma rivela un dato che evidenzia proprio questo problema: dei 53.793 detenuti presenti all’ultimo rilevamento, “ben 1.319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno, e altre 2.473 per una condanna da uno a due anni”. Significa che 3.792 reclusi potrebbero scontare la pena al di là delle sbarre dietro cui si trovano attualmente, senza nemmeno varcare la soglia del carcere. Una cifra più o meno corrispondente alla differenza tra la capienza regolamentare dei penitenziari italiani e le presenze effettive; cifra che salirebbe ancora, e di molto, se si considerasse la soglia dei quattro anni di pena o residui, fissata dalla legge per l’esecuzione esterna. “Minorità sociale” - Il motivo di questa situazione risiede nelle decisioni dei giudici, ma soprattutto nel fatto che chi ha diritto a chiedere questo beneficio non è in condizione di chiederla (ad esempio per mancanza di una dimora dove scontare la detenzione domiciliare) o non ha un’adeguata assistenza legale. Al di là del problema del sovraffollamento, questi scampoli di condanne scontati in una prigione anziché nelle forme alternative previste dall’ordinamento, sono quindi sintomo di una “minorità sociale” - così la chiama il Garante - che non solo costringe in cella anche chi potrebbe non starci, ma finisce per rendere inutile e “meramente enunciativa” la “finalità costituzionale delle pene in quella tendenza al reinserimento sociale”. Pensare di impostare, per i reclusi che devono stare dentro un anno o poco più, un cammino che li restituisca migliori di come sono entrati, è complicato se non impossibile. “La complessa ‘macchina’ della detenzione - spiega Palma - richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Al di là della volontà del Costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario, queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità - interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità”. I tempi lunghi dei processi - C’è dunque il rischio, per che chi va in prigione ma potrebbe non andarci, di ritrovarsi in un percorso inverso a quello previsto dalla Costituzione e dalle leggi, perché il tempo del carcere si tramuta in una “sospensione” che potrebbe spingerlo, una volta uscito, verso la commissione di nuovi reati e quindi a tornare in cella. Un’altra criticità, sotto questo profilo, resta quella dei tempi lunghi dei processi, e il Garante saluta con favore i “recenti procedimenti adottati” che dovrebbero ridurli, “perché una sentenza che deve essere eseguita dopo molti anni finisce con assumere una fisionomia ben diversa da quella che la vorrebbe orientata alla rieducazione e al reinserimento”. Detenzione minorile - Quanto alla detenzione minorile o dei “giovani adulti”, i numeri indicano come il ricorso al carcere resti una “misura estrema”: “Il numero attuale di 358 presenti negli istituti penali minorili (di cui soltanto 163 al di sotto dei 18 anni) e il parallelo numero di 3.001 minori in ‘messa alla prova’ e di altri 784 in varie modalità alternative sono indicativi di questo quadro positivo”. Tuttavia, avverte Palma, “qualche segnale non rassicurante si è registrato recentemente e riguarda la tendenza, soprattutto in alcune aree territoriali, spesso al Nord, alla crescita del numero di minorenni autori di reati compiuti collettivamente e la cui rilevanza richiede misure restrittive”. Un incremento che rischia di creare squilibri pericolosi giacché, a causa della capienza limitata di alcune strutture, può “determinare spostamenti verso istituti geograficamente distanti, a detrimento dei rapporti familiari e affettivi e della connessione territoriale funzionale al ritorno”. Il “carcere duro” - Sul “41 bis”, cioè il cosiddetto “carcere duro” per terroristi e mafiosi, resta la raccomandazione che venga mantenuto solo per interrompere il legame tra l’appartenente all’organizzazione criminale e la realtà esterna, con l’impegno del Garante a mantenere alta “l’azione di vigilanza affinché nessuna misura sia introdotta o mantenuta sulla base giustificativa di altri criteri, dettati dalla volontà di maggiore afflittività”. Migranti e soluzioni “strutturali” - Infine sui migranti irregolari rinchiusi negli hotspot, nei centri per il rimpatrio e sulle “navi quarantena”, i dati forniti da Palma indicano che “a fronte di 44.292 persone registrate negli hotspot nel corso del 2021 (e tra esse 8.834 minori) le persone rimpatriate sono state 3.420, anche in ragione della minore possibilità di organizzare voli di rimpatrio. Appena il 7 per cento. “Il tema però - denuncia Palma - continua a essere affrontato, nei suoi miglioramenti e nelle persistenti problematicità, in termini emergenziali e non strutturali: quasi fosse ancora un problema nuovo, rispetto al quale deve essere sviluppata una politica solida e non congiunturale, a livello italiano ed europeo”. Di qui una raccomandazione: “Il Garante auspica che si avvii una nuova fase di riflessione che, partendo dalla connotazione strutturale delle migrazioni, ricerchi quelle soluzioni di sistema che contemplino la possibilità di accesso regolare nel nostro Paese, forme di accoglienza volte a facilitare un inserimento graduale, diffuso e sicuro nei diversi territori, verso cui indirizzare gli investimenti nel settore”. E ancora, sempre in tema di migranti: “Certamente l’accoglienza non può limitarsi a una fase di soccorso, ma deve avere una linea progettuale di percorsi di inserimento e di riconoscimento del loro compiersi. Per questo il Garante auspica che sia quanto prima riconosciuta la piena cittadinanza a coloro che da tempo in Italia, hanno compiuto un completo ciclo scolastico”. Suicidi, disagio psichico, affollamento: la crisi delle carceri nella relazione del garante nazionale di Angela Stella Il Riformista, 21 giugno 2022 Quasi 4mila in cella con una pena inferiore a due anni. “La riforma dell’ergastolo è peggiorativa”, denuncia Palma. Sovraffollamento, ergastolo ostativo, carcere anche per pene molto brevi, malattia psichica: sono i punti di crisi delle nostre carceri e del nostro sistema di esecuzione penale emersi ieri durante la presentazione della Relazione annuale al Parlamento da parte di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’evento è stato aperto dalla Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per la seconda carica dello Stato “il primo pensiero non può che andare all’annosa questione del sovraffollamento delle nostre strutture - ha detto la seconda carica dello Stato -. Nonostante gli importanti sforzi compiuti in questi anni, anche sul piano legislativo, per contenere i flussi in ingresso e allargare quelli in uscita dalle carceri, il numero delle persone attualmente detenute in Italia continua ad essere pericolosamente al di sopra dei limiti di capienza, con un tasso medio del 105/110% dei posti disponibili”. Su una capienza regolamentare di 50.859 posti ci sono - si legge nella Relazione - “54786 persone registrate (a cui corrispondono 53793 persone effettivamente presenti)” di cui “38897 in esecuzione penale, essendo le altre prive di una sanzione definitiva”. Ma il dato stigmatizzato da Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, è che “al 7 giugno, sono 1.317 le persone presenti in carcere per scontare una condanna inferiore a 1 anno, 2.467 per una condanna compresa tra 1 e 2 anni, numeri che sollecitano la ricerca di soluzioni diverse dalla detenzione in carcere”. Ha aggiunto Palma che scontare in carcere pene così brevi in presenza delle quali il nostro ordinamento prevede forme alternative alla detenzione, “è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa “macchina” della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”. Per quanto concerne la malattia psichica in carcere, al 22 marzo erano 381 le persone detenute cui è stata accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento negli istituti, giuridici e penitenziari, predisposti per affrontarla, “ma la soluzione - ha detto Rossi - non è e non può essere solo sanitaria e tantomeno di sola sicurezza: va cercata nel coinvolgimento attivo di figure professionali ulteriori e nuove”. Mentre il Garante ha richiamato anche l’attenzione sui suicidi carceri - “29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare” e sulle gravi vicende sulle violenze nelle carceri, come a Santa Maria Capua Vetere, che richiedono “capacità di accertamento rapido” e “rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale quella di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione” avverte il Garante che ha ritenuto “inaccettabile” nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e le responsabilità. In questo contesto il Garante nazionale ha ribadito, ancora una volta, “l’inaccettabilità di archiviazione di inchieste dovute all’oggettiva impossibilità di individuazione delle specifiche responsabilità personali e chiede che sia numerato ogni strumento o mezzo di difesa in dotazione, che l’identificativo numerico sia apposto in maniera visibile su ciascuno di essi e che sia istituito un registro per l’annotazione dell’assegnazione ai singoli operatori, in ogni singola occasione per cui si è fatto ricorso a essi”. In tema di 41-bis il Garante “ha sempre ritenuto essenziale che in questi casi si adottino e si mantengano tutte le misure volte a non consentire il perpetuarsi di tali legami. Ritiene tuttavia importante continuare la propria azione di vigilanza affinché nessuna misura sia introdotta o mantenuta sulla base giustificativa di altri criteri, dettati dalla volontà di maggiore afflittività, e che provvedimenti relativi a tale misura abbiano ogni volta una base di fondamento che tenga conto dell’evoluzione del singolo e dei contesti”. Sono invece 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. Il testo licenziato dalla Camera sull’ergastolo ostativo “è in tensione” con le indicazioni date dalla Corte costituzionale e introduce “disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui essa è intervenuta”. Per il Garante “è francamente difficile ricondurre quest’opera di riforma ai principi e ai parametri di revisione delle preclusioni assolute previste dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, segnati, i primi, e indicati, i secondi, dalla pronuncia della Consulta”. Basti pensare che sono “aumentati il termine di tempo, da 26 anni a 30, per l’accesso alla richiesta di liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo ‘ostativo’ e quello di durata della libertà vigilata, passata da 5 anni a 10”. Un passaggio è stato dedicato anche al terrorismo. Appare “ineludibile la contraddizione di ricondurre in carcere persone che hanno condotto un percorso di vita senza commettere reati, spesso cercando di compensare quanto commesso con azioni volte al recupero sociale, pur se responsabili di gravissimi reati nel passato”. Il riferimento è agli ex protagonisti dei cosiddetti Anni di piombo: si ricorda come nelle nostre carceri continuino ad esserci “una ventina di persone, condannate per reati legati alla lotta armata degli anni ‘70 e ‘80” mentre “almeno una decina delle persone allora condannate si trova in Francia in attesa degli esiti della procedura di estradizione avviata sulla base di una richiesta formulata dal governo italiano: sono colpevoli di reati commessi tra i 30 e i 40 anni fa e da tempo hanno formalmente ripudiato la lotta armata - nulla risulta a loro carico nel periodo francese”. “Certamente - si legge nella Relazione - il rendere giustizia richiede che chi ha avuto lacerazioni per le loro azioni, veda riconosciuta la colpevolezza di chi ne è stato artefice e veda uno Stato in grado di chiamare questi rei a risponderne. Ma lo stesso imperativo del rendere giustizia chiede anche che non possano essere la negatività della detenzione e l’interruzione drastica delle esistenze ricostruite la forma in cui tale esigenza si concretizzi. Richiede azioni, gesti, imposizioni che abbiano il sapore della positività e non dell’addizione di negatività a quanto di negativo già da essi commesso. E chiede anche che per chi ha scontato ormai lunghi anni di vita detentiva sia costruito un percorso di ritorno alla collettività, anche superando quel senso di durezza identitaria che le posizioni soggettive talvolta trasmettono”. Infine il Garante ha sottolineato sì la positività della Commissione presieduta da Marco Ruotolo, che ha indicato per il carcere azioni da compiere sul piano amministrativo e regolamentare, ma ne ha richiesto “una rapida attuazione: l’oggi preme. Perché la vita delle persone ristrette corre con un ritmo irreversibile ben diverso da quello degli accordi per complessive riforme”. Nella Relazione, tra i numerosi interventi esterni, anche quello del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: “Dovremmo avere un progetto per ogni persona, preparare il tempo, cioè il futuro, avviare dei processi personali positivi, di consapevolezza, di costruzione umana, di formazione” e “quando questo non c’è, cioè il futuro per i detenuti, la speranza di cura per i non autosufficienti, il valore della persona negli anziani, allora si è condannati allo spazio. E questo è inaccettabile, oltre che oneroso e senza senso”. Sul fronte immigrazione, invece, nel 2021 meno della metà delle persone transitate nei Cpr è stata effettivamente rimpatriata: “l’inefficienza del sistema di tali Centri, già rilevata nelle precedenti Relazioni al Parlamento, dunque permane e interroga su quel tempo sottratto alla vita e sulla legittimità stessa di tale privazione della libertà”, ha detto Daniela de Robert, componente del Collegio del Garante. Per Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante della Regione Lazio, “e indicazioni contenute nella Relazione annuale al Parlamento costituiscono uno stimolo e uno sprone per tutti i Garanti territoriali, nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, a esercitare al meglio le proprie funzioni”. “Il reato è un istante, poi c’è la reclusione: un tempo indefinito che cambia la vita” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2022 Presentata in Parlamento la relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Su 54.786 persone in esecuzione penale ben 1.319 sono in carcere per una condanna a meno di un anno e altre 2.473 devono scontare da uno a due anni. È durato 45 secondi il brutale pestaggio che ha subito Musa Balde da parte di tre uomini. Quattordici giorni dopo, si suicida in una delle stanze del reparto di isolamento nel Cpr di Torino. È passato già più di un anno, invece, da che il Parlamento ha deciso di mettere mano all’ostatività, come richiesto dalla Consulta. È sempre un istante, quello in cui si decide di commettere un reato. Poi, una volta che la libertà viene sottratta, il tempo si declina in forme diverse: lentezza, dilatazione, ciclicità, che lo rendono sempre più distante dal suo corrispettivo all’esterno dei luoghi di reclusione. Il tempo filo conduttore della relazione annuale del Garante - La relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà, presentata in Parlamento dal presidente dell’autorità Mauro Palma, ha come filo conduttore proprio il tempo, che acquista una particolare fisionomia nel contesto della privazione della libertà personale. “Non è una fisionomia - spiega Palma - rassicurata o rassicurante: al contrario, ha i lineamenti mutevoli in quella particolare situazione soggettiva dell’essere in un luogo chiuso, di vedere i propri “strumenti” di costruzione conoscitiva limitati dalla contingenza che si vive o dall’ineluttabilità di quella che si prefigura in avanti”. Il tempo, messo in rapporto con la specificità della privazione della libertà, ha il volto contratto dalla tensione del momento in cui si è fatta una scelta che già conteneva, forse nascosto, il germe del suo possibile evolversi negativamente. Il Garante, parafrasando le parole che il Reverendo Dodgson (Lewis Carroll) fa dire al Coniglio bianco rispondendo alla domanda di Alice, “a volte per sempre dura solo un secondo”, spiega che quell’attimo - del reato, del passaggio di un confine, dell’ingresso in un ricovero - determina “un mutamento sostanziale dell’organizzazione della sequenzialità quotidiana, della futura catalogazione degli accadimenti e anche della soggettiva percezione del tempo e del suo impossibile coordinamento con il tempo degli altri; di chi non è recluso”. È difficile misurare il tempo della privazione della libertà o l’esito di un percorso terapeutico - Il Garante Palma osserva che è anche difficile dare una misura del tempo della privazione della libertà. Difficile misurarlo prima, in termini proiettivi, per stabilire quale sia il tempo necessario perché la finalità rieducativa di una pena possa realizzarsi; altrettanto difficile una qualsiasi misurazione della significatività del suo svolgersi, per capire se e come intervenire, se e come restituire al mondo libero. Altresì difficile misurare l’esito di un percorso terapeutico nei termini rassicuranti spesso inesauribilmente richiesti da una collettività esterna sempre ansiosa e desiderosa di non vedere le diversità che pure abitano in essa. Misure difficili che rischiano di far sconfinare la non misurabilità con l’indefinitezza. “Da qui - sottolinea il Garante -, il rischio di aggiungere anche l’indeterminazione ai sostantivi che declinano il tempo nella restrizione: i “mai”, pronunciati per i ritorni a cui le istituzioni segregative - tutte - dovrebbero invece guardare, nascono anche da questa misura che si estende in modo incongruo e limitato solo dal tempo della vita”. A oggi sono 29 i suicidi e 17 le morti per cause da accertare - Il Garante nazionale rileva un disagio molto presente nel sistema di detenzione adulta: i numeri dei gesti autolesionistici e soprattutto dei suicidi - 29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare - dell’età e della fragilità, spesso già nota, degli autori di tali definitivi gesti sono un monito. “Ci interrogano - osserva Mauro Palma - non per attribuire colpe, ma per la doverosa riflessione su cosa apprendere per il futuro da queste imperscrutabili decisioni soggettive, cosa imparare per diminuire il rischio del loro ripetersi”. L’analisi numerica del carcere pone, a giudizio del Garante nazionale tre riflessioni prioritarie che affiancano quelle più note dell’affollamento delle strutture, della inaccettabilità di molte di esse sia per chi vi è ristretto, sia per chi vi lavora ogni giorno, della loro inadeguatezza sul piano spaziale per una esecuzione penale costituzionalmente orientata. Sono 1319 in carcere con una condanna a meno di un anno e altri 2473 da uno a due anni - Le tre riflessioni riguardano in primo luogo l’accentuazione della presenza di minorità sociale in carcere: delle 54.786 persone registrate (a cui corrispondono 53.793 persone effettivamente presenti) e delle 38.897 che sono in esecuzione penale - essendo le altre prive di una sanzione definitiva - ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. “Superfluo è chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta - sottolinea Palma - ; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto”. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa - e questa è la seconda riflessione del Garante- la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa “macchina” della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Al di là della volontà del Costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità - interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità. Il tempo è l’elemento che ritorna, il filo d’Arianna che attraversa tutta la relazione annuale del Garante Nazionale. Ritornando ai dati sulla presenza di detenuti con pene brevi e sintomo di minorità sociale, il Garante osserva che sono anche vite che altri sistemi di regolazione sociale avrebbero dovuto intercettare prima che intervenisse il diritto penale, “strumento duro, sussidiario e anche costoso che dovrebbe restringere il proprio intervento alle sole situazioni in cui altre modalità di intervento non sono riuscite. Il Garante non manca di osservare il tema della durata ragionevole dei processi - La terza riflessione riguarda, quindi, la responsabilità esterna, del territorio, che finisce con affidare al carcere le proprie contraddizioni determinando quella detenzione sociale - il termine è di Alessandro Margara - che il carcere non può risolvere”. A proposito di tempo, il Garante non manca di osservare il tema della durata ragionevole dei processi. Sì, perché - come fa notare Palma nella relazione - una sentenza che deve essere eseguita dopo molti anni, finisce con assumere una fisionomia ben diversa da quella che la vorrebbe orientata alla rieducazione e al reinserimento. Troppo spesso, infatti, il Garante nazionale è stato interrogato da casi di sentenze che riguardavano fatti avvenuti molti anni prima e che coinvolgevano persone che nel frattempo si erano pienamente reinserite, senza commettere alcun reato e anzi con azioni che testimoniavano nuova consapevolezza. Anni di attese, tempi dilatati, quelli persi o riconfigurati una volta che si è privati della libertà. Il rapporto curato da tutti i componenti del Garante nazionale, ha preso in considerazione il tempo. Una dimensione che fa anche da monito sul poco che è stato fatto rispetto al tanto che è posto da temi i quali richiedono anche cambiamenti culturali rispetto ai quali l’azione di un mandato è solo un piccolo sasso utile a una grande fortificazione da costruire. Interviene di nuovo la riflessione sul tempo. “Che è richiesto - osserva Palma - per mutamenti non semplici: occorre porsi come coloro che riconoscono la necessità del tempo, ma che non devono sprecarlo perché il tempo è in fondo un regalo, ma un regalo che non si conserva”. Carcere e non solo, il tempo perso e inutile dei reclusi di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 giugno 2022 C’è il “tempo dell’infamia” e quello della responsabilità, il “tempo operatore della pena” e quello “riconfigurato”; c’è il “presente del passato”, il tempo “sospeso” che diventa ancora più sospeso con la pandemia, il tempo del procedere, della “guarigione” e quello che non ha fine, mai. Il tempo recluso e quello liberato; il “non-tempo” che prende il posto del “non-luogo” di augéniana memoria. È su questo filo rosso del concetto del tempo che non scorre allo stesso modo per tutti (come spiega in un’apposita sezione il fisico teorico Carlo Rovelli distinguendo il “tempo proprio” della fisica contemporanea da quello “universale” della meccanica newtoniana), soprattutto se “non è più scandito da scelte autonome, neppure minime, ma è determinato dalle sole tappe quotidiane dell’istituzione in cui la persona si trova”, che si dipana la Relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale presentata ieri al Senato, presente il presidente Mattarella. Due corposi volumi quest’anno raccontano con dovizia di particolari - mappe, grafici e testi affidati anche a intellettuali esterni al mondo penitenziario - il tempo di vita dei reclusi, in carcere, nelle Rems o negli hotspot per migranti. In particolare, il Garante Mauro Palma si è soffermato su quella maggioranza della popolazione penitenziaria che è “priva di mezzi” culturali, economici e di prospettiva. “Dei 54.786 detenuti registrati (ma quelli effettivamente presenti sono 53793) e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva, ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni”. Condanne che potrebbero essere scontate con misure alternative e questo, spiega Palma, “è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa macchina della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”. Il tempo trascorso in carcere in questo caso è tempo sospeso, che si nutre unicamente del passato e non può essere proiettato su un futuro legale possibile. “Il tempo sottratto deve avere sempre significato e deve essere chiaramente orientato alla finalità che tale sottrazione ha consentito, oltre che circondato da tutte le tutele imposte dalla riserva di legge e di giurisdizione”, sottolinea Palma. Se poi il tempo si dilata quando si tratta di accertare le responsabilità delle violenze perpetrate sui detenuti, come nel caso di Santa Maria Capua Vetere, vicende che invece richiederebbero “capacità di accertamento rapido anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale quella di tortura o di favoreggiamento”, allora la crisi del sistema dell’esecuzione delle pene diventa ancora più profonda e inaccettabile. Motivo per il quale il Garante dei detenuti torna a chiedere “un identificativo numerico”, non tanto per gli agenti (vista la feroce opposizione dei sindacati del Corpo, di cui molti partiti si fanno portavoce), quanto per “ogni strumento o mezzo di difesa in dotazione” ai poliziotti penitenziari e di Stato. “L’identificativo numerico sia apposto - chiede Palma - in maniera visibile su ciascuno di essi e sia istituito un registro per l’annotazione dell’assegnazione ai singoli operatori, in ogni singola occasione per cui si è fatto ricorso a essi”. Per il Garante, poi, è urgente affrontare la questione dei condannati all’ergastolo ostativo che dovrebbero poter “esercitare concretamente il diritto alla reintegrazione sociale che l’art. 27 della Costituzione prescrive”. Diritto che, sottolinea la Relazione al Parlamento, non viene tutelato dal testo di legge licenziato dalla Camera con “disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui esso è intervenuto”. Una Relazione davvero importante, che dimostra quanto l’ufficio del Garante, operativo dal 2016, sia diventato “una Istituzione consolidata, riconosciuta e ormai accreditata a livello internazionale”. E che, “proprio per questo - chiede Mauro Palma - richiede oggi un consolidamento interno, con il passaggio da una situazione di generosa provvisorietà”, a quella “del pieno riconoscimento della professionalità acquisita e della volontà di non disperdere tale esperienza e tale sapere”. Altro che giustizia sociale, le carceri scoppiano di poveri di Iuri Maria Prado Il Riformista, 21 giugno 2022 L’impostazione punitiva voluta dalla magistratura era concepita contro i potenti e i privilegiati, ma ha prodotto l’effetto opposto: le vittime del panpenalismo giudiziario sono soprattutto derelitti ed emarginati. Grossa come una casa, grossa come un carcere, c’è una questione di classe a condannare l’amministrazione della giustizia. È dagli anni Settanta del secolo scorso che la magistratura deviata si esercita a orientare la propria giurisprudenza in senso “sociale”, e tutto si potrà dire di quel malcostume tranne che abbia portato i benefici di giustizia diffusa che pure erano posti a giustificazione di quelle forzature. Analogo risultamento di ingiustizia si è avuto nei decenni più recenti di barbarie della giurisdizione penale. Anche su quest’altro fronte si pretendeva che l’impostazione punitiva avrebbe ricondotto a giustizia una società oltraggiosamente proclive all’indulgenza verso i privilegiati, i potenti, gli ammanicati, come se il traguardo securitario di un ordinamento finalmente capace di assicurare più catene per tutti fosse il meglio cui ambire. Ma il verbo sanzionatorio e il culto del rimedio carcerario hanno prodotto l’opposto di quel che intendevano perseguire, e cioè le galere piene di umanità derelitta, le galere piene di poveri, piene di immigrati, piene di emarginati, piene di malati di mente, cioè piene della gente che quella supposta giustizia avrebbe dovuto risarcire, pensa un po’, con lo spettacolo della tortura inflitta una buona volta anche ai colpevoli di lusso abituati a farla franca. I propositi sociali del penalismo giudiziario engagé si sono platealmente ridotti all’ottenimento di una giustizia profondamente classista, che in omaggio alla persecuzione dei privilegiati, che sono meno, accetta senza perplessità quella dei disgraziati, che sono i più. E, quando si tratta di ipotizzare provvedimenti che intervengano per limitare l’abuso carcerario, puntualmente la reazione pan-penalista ricorre all’armamento demagogico che denuncia le manovre per il salvataggio di quei pochi, i privilegiati, e pazienza se il costo delle mancate riforme lo pagano invece quei tanti, i disgraziati cui si riconosce il privilegio di condividere la cella coi colletti bianchi. La perequazione sociale dell’ora d’aria. La povertà dietro le sbarre è anche culturale di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 giugno 2022 Nella relazione del Garante nazionale i numeri dei detenuti che studiano. 3.385 persone private della libertà personale hanno frequentato nel 2021 dei corsi di prima alfabetizzazione. Tra loro 3.000 stranieri e oltre 300 italiani. Nel 2021 tra i circa 54mila detenuti presenti nelle carceri italiane 3.385 hanno frequentato un corso di alfabetizzazione: non sapevano né leggere, né scrivere. Tra loro 3mila stranieri e oltre 300 italiani (620 nel 2019-2020). Altri 4.140 si sono iscritti ai corsi del primo ciclo di istruzione, che comprende le scuole elementari e medie. In totale sono due detenuti ogni 15. Anche da simili numeri, raccolti nel ricco volume “Mappe e dati” della Relazione al parlamento 2022 presentata ieri dal Garante nazionale, viene fuori uno spaccato significativo di chi finisce in carcere. “La povertà culturale e la minorità sociale si vedono anche in questo”, commenta Daniela De Robert, componente del collegio dell’autorità garante delle persone private della libertà personale. Cultura e istruzione possono essere strumenti centrali sia per prevenire i fenomeni di delinquenza, sia per offrire un orizzonte di riscatto a chi è finito dietro le sbarre. Soprattutto per minori e giovani adulti (i ragazzi fino a 25 anni). Al 31 marzo di quest’anno erano 358 quelli presenti nei 17 istituti penali a loro riservati, con un aumento di ragazzi incarcerati per reati gravi e di gruppo soprattutto al nord. “A livello minorile c’è un’attenzione molto più forte sia da parte dell’amministrazione penitenziaria che di quella scolastica. Per queste persone lo studio è essenziale e con numeri più piccoli si può far funzionare meglio”, continua De Robert. Per completare il quadro dell’istruzione in carcere, lo scorso anno scolastico altri 6.061 detenuti hanno partecipato a corsi di istruzione superiore e 1.246 all’università. Questi ultimi hanno scelto percorsi di studio soprattutto nelle aree politico-sociale (27%), letteraria-artistica (18%) e giuridica (16%). Tra adulti e minori in 476 hanno ottenuto il diploma e in 39 la laurea. I numeri dei detenuti che studiano sono tornati mediamente sui livelli pre-covid. Dopo due anni difficili, con lezioni interrotte o a singhiozzo, l’istruzione negli istituti penitenziari è tornata a regime. Sebbene permangano numerose difficoltà “nel dare effettiva continuità” e nel “garantire supporto e tutoraggio agli studenti detenuti”. Mentre ancora troppo pochi sono gli spazi di espressione culturale. Guardando ai numeri complessivi della popolazione carceraria il 2021 si caratterizza per un saldo ingressi-uscite di tipo negativo che non ha precedenti negli ultimi 10 anni. A fronte delle 36.539 persone finite dietro le sbarre, 46.598 hanno riguadagnato la libertà. In ogni caso secondo il garante i quasi 54mila detenuti restano troppi. Nelle carceri italiane, sostiene, non dovrebbero essercene più di 40mila. Anche perché circa 3.800 persone vi sono state rinchiuse in seguito a condanne inferiori ai due anni: hanno quindi commesso reati poco gravi e per loro il carcere può essere soltanto una sottrazione di tempo, senza alcuno scopo rieducativo (nemmeno presunto). Significativo è il dato di genere che riguarda il tasso di detenzione ogni 100mila abitanti. Nel 2021 si ha un detenuto ogni 556 maschi residenti nel paese, ma una detenuta ogni 13.516 residenti di sesso femminile. Incrociando genere ed età, a delinquere maggiormente sono gli uomini tra i 30 e i 34 anni: uno ogni 430 va in carcere. Infine la questione suicidi: lo scorso anno 59 persone si sono tolte la vita mentre erano private della libertà personale. Il Garante dei detenuti boccia la legge sull’ergastolo ostativo: peggioramento rispetto al passato di Luca De Lellis Il Tempo, 21 giugno 2022 Presenta “disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui essa è intervenuta”. Il testo della legge sull’ergastolo ostativo approvato dalla Camera non ha convinto il Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma. All’interno della relazione fornita in mattinata al Parlamento ha riferito di un contrasto tra la bozza che dovrà essere approvata prima dell’8 novembre in Senato e le direttive date dalla Corte costituzionale. Presente nell’occasione anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quello dell’ergastolo ostativo è un tema che da sempre alimenta polemiche in ambito giudiziario. Si riferisce a reati molto gravi come l’associazione mafiosa o il terrorismo, e prevede che se un detenuto non si trasforma in un collaboratore di giustizia è destinato a trascorrere il resto della sua esistenza in carcere. Al 31 marzo 2022, in base ai numeri mostrati dal Garante, sono 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. “I dati - ha evidenziato Emilia Rossi, vice dell’autorità - dicono che nel nostro Paese l’ergastolo è essenzialmente ostativo: una pena diversa, quasi di specie diversa, rispetto a quelle previste dal Codice penale, perché non definitiva bensì sostanziata dal tempo”. “Il Parlamento - ha avvertito - sa e può trovare una sintesi, come ha fatto in altre occasioni”. Cosa ne pensa l’Antimafia? Nel mese di aprile la commissione parlamentare Antimafia aveva scritto in una relazione votata all’unanimità che la riforma non dovrebbe “avere alcun riflesso” sui detenuti al 41-bis, “regime che per sua natura richiede non solo la pericolosità sociale ma anche l’attualità dei collegamenti con il mondo criminale di appartenenza”. Il Garante ha poi individuato altri due “punti di crisi” sui quali il Parlamento è tenuto a intervenire entro la scadenza della legislatura: il carcere anche per pene molto brevi, la malattia psichica. Per quanto riguarda il primo la criticità sta nel fatto che la pena detentiva per poco tempo non è utile, dato che non consente neanche l’avvio di un processo di risocializzazione del condannato. E qui sono stati forniti altri dati: “Al 7 giugno, sono 1.317 le persone presenti in carcere per scontare una condanna inferiore a 1 anno, 2.467 per una condanna compresa tra 1 e 2 anni, numeri che sollecitano la ricerca di soluzioni diverse dalla detenzione in prigione”. In conclusione, per quel che concerne il discorso sulle malattie psichiche (accertati 381 casi al 22 marzo), il Garante ha suggerito che “la soluzione non è e non può essere solo sanitaria e tantomeno di sola sicurezza: va cercata nel coinvolgimento attivo di figure professionali ulteriori e nuove”. La relazione del Garante nazionale è stimolo e sprone per tutti i Garanti territoriali di Stefano Anastasia* garantedetenutilazio.it, 21 giugno 2022 L’uscita dalla pandemia è ancora gravida di incertezze e di problemi nelle carceri, nei Centri di permanenza per il rimpatrio, nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, nelle comunità chiuse e nelle residenze socio-assistenziali. Il Garante nazionale ha nuovamente chiamato le amministrazioni competenti alle proprie responsabilità, affinché siano assicurati i diritti fondamentali delle persone in tutti i luoghi di privazione della libertà. Le indicazioni contenute nella Relazione annuale al Parlamento - ha proseguito Anastasìa - costituiscono uno stimolo e uno sprone per tutti i Garanti territoriali, nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, a esercitare al meglio le proprie funzioni”. Alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’evento è stato aperto dalla Presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, la quale ha puntato l’attenzione sulla “annosa questione del sovraffollamento delle nostre strutture” sottolineando come, “nonostante gli importanti sforzi compiuti in questi anni, anche sul piano legislativo, per contenere i flussi in ingresso e allargare quelli in uscita dalle carceri, il numero delle persone attualmente detenute in Italia continua ad essere pericolosamente al di sopra dei limiti di capienza, con un tasso medio del 105/110% dei posti disponibili”. Affollate, in condizioni inaccettabili per chi vi è ristretto e per chi vi lavora ogni giorno, inadeguate anche sul piano degli E’ quanto emerge dalla corposa relazione al Parlamento, illustrata da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. Dei 54.786 detenuti registrati (ma quelli effettivamente presenti sono 53.793) e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva “ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni”. Scontare in carcere pene così brevi in presenza delle quali il nostro ordinamento prevede forme alternative alla detenzione, spiega Palma, “è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo”. Il Garante richiama anche l’attenzione sui suicidi carceri (29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare) e sulle gravi vicende sulle violenze nelle carceri, come a Santa Maria Capua Vetere, che richiedono “capacità di accertamento rapido” e “rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione” avverte il Garante che ha ritenuto “inaccettabile” nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e le responsabilità. *Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante della Regione Lazio Carceri italiane, la criminalità si combatte con l’istruzione di Giacomo Capodivento buonenotizie.it, 21 giugno 2022 La situazione delle carceri italiane non è delle migliori se si considerano le condizioni in cui spesso vivono i detenuti tra sovraffollamento e mancanza di servizi, tuttavia da un po’ di tempo va consolidandosi l’idea che il lavoro e l’istruzione siano il veicolo più importante per il riscatto sociale e personale dei detenuti. È a partire da questa convinzione che l’Università di Milano fra le altre, già dal 2015, ha avviato un progetto di collaborazione con diverse case di reclusione lombarde, come quella di Bollate o di Opera, per garantire ai detenuti un percorso formativo che permettesse loro di riscattare la propria condizione. È sempre più chiara la consapevolezza che il miglioramento della vita delle carceri italiane passi attraverso formazione personale e misure alternative con risultati positivi anche per il contesto sociale (come abbiamo già avuto modo di vedere) e l’abbassamento del tasso di recidiva. Quando il carcere diventa un’occasione di libertà - Il XVIII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che dagli anni 80 promuove l’attività sociale e culturale sul tema della giustizia, ci consegna un quadro in evoluzione della situazione delle carceri italiane. Il tasso di recidiva continua a segnare pesantemente la scena. Ogni detenuto, ha compiuto 2,37 infrazioni della legge e solo il 38% degli oltre 54mila detenuti è alla prima carcerazione, il 18% è al quinto ritorno in prigione. Anche il sovraffollamento non migliora: il tasso ufficiale di affollamento è del 107,4% (con poco meno di 51 mila posti disponibili), Puglia e Lombardia le regioni con i numeri peggiori. Ci sono però delle buone notizie per la situazione delle carceri italiane. Il numero di reati dopo il lockdown è tornato a crescere ma, rispetto al 2019 si registra un calo del 12,8%. In Italia, trent’anni fa si verificavano 3.012 omicidi in un anno, oggi solo 289. Anche il numero degli ingressi nelle carceri italiane migliora: nel 2008 si contano un numero pari a 92.800 persone, nel 2021 solo 36.539. Il fenomeno è dovuto alle norme messe in campo per evitare entrate e uscite nel giro di poco tempo senza vantaggi né per la riabilitazione né per la sicurezza e con effetti pessimi anche per il benessere del detenuto. Proprio per il fatto che la maggior parte delle situazioni che alimentano i numeri negativi va ricercata nella marginalità sociale - sono pochi i veri criminali, moltissimi gli autori di piccoli reati - è sui percorsi educativi che bisogna continuare a investire e scommettere. Nelle carceri italiane il riscatto sociale parte dall’istruzione - Secondo i dati del monitoraggio della Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari (Cnupp) rielaborati nel report dell’associazione Antigone, sono 1.034 gli studenti universitari nelle carceri in Italia iscritti ai corsi organizzati da 32 atenei. Tutto ciò è possibile grazie alle tasse agevolate, alle attività didattiche, di tutoraggio e di sostegno anche a distanza e alla fornitura di libri e materiali didattici supportate da convenzioni e protocolli d’intesa sottoscritti fra atenei e direzioni degli istituti penitenziari. Sono queste iniziative importanti che hanno permesso a diversi detenuti di riprendere in mano la loro vita grazie a percorsi di studi conclusi nelle Università di Tor Vergata o presso la Statale di Milano solo per citare i casi più recenti. Dallo studio già citato, risulta che le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita da quella artistico-letteraria (18,6%), giuridica (15,1%), agronomico-ambientale (13,7%), psico-pedagogica (7,4%), dall’area storico-filosofica (7,3%), dall’area economica (6,5%). Stando ai precedenti rapporti dell’associazione Antigone, i percorsi di istruzione in carcere aiutano ad abbassare il tasso di recidiva. La strada è quella giusta per superare un’impostazione esclusivamente repressiva della funzione degli istituti penitenziari. Le carceri italiane sono al centro di una fitta rete di attività inter-istituzionali all’interno delle quali la cultura gioca un ruolo principe. La vita di molti cittadini, che sono innanzitutto vittime dei propri errori, può trovare una nuova occasione di riscatto nel potere rigenerativo della cultura. Casellati: “Questo carcere è un sistema che umilia e non riabilita” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2022 Sovraffollamento, tasso di suicidi tra i più alti in Europa, processi infiniti. Le parole della presidente del Senato sono un atto di denuncia. Il discorso della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati durante la presentazione della Relazione al Parlamento del Garante dei detenuti Mauro Palma non è stato un semplice saluto istituzionale, ma una vera denuncia delle condizioni delle nostre carceri. “Il primo pensiero non può che andare all’annosa questione del sovraffollamento delle nostre strutture - ha detto la seconda carica dello Stato -. Nonostante gli importanti sforzi compiuti in questi anni, anche sul piano legislativo, per contenere i flussi in ingresso e allargare quelli in uscita dalle carceri, il numero delle persone attualmente detenute in Italia continua ad essere pericolosamente al di sopra dei limiti di capienza, con un tasso medio del 105/110% dei posti disponibili”. Sembra di sentire la radicale Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, che da anni usa questi numeri per additare l’oblio politico in cui versano i nostri istituti di pena. Casellati poi ha sottolineato le “situazioni di vera emergenza, come ad esempio in Puglia e in Lombardia, dove la concentrazione della popolazione carceraria arriva a superare il 130% e, in alcuni casi, persino il 160% dei posti disponibili”. Tale indecoroso scenario, “oltre a generare disagio, malessere ed amplificare la percezione del carcere come luogo di degrado ed emarginazione”, rappresenta “uno dei principali ostacoli alla salvaguardia di diritti fondamentali della persona, come quello all’istruzione, al lavoro o alla sfera degli affetti”. Si tratta, per la presidente del Senato, di “diritti che non sono solo guarentigie di una dignità umana che il carcere non può sopprimere, ma anche strumenti irrinunciabili per trasformare la pena in un’occasione di riscatto, recupero e rinascita sociale, come prescrive la Costituzione”. A ciò si deve aggiungere la drammaticità dei suicidi consumati quando si è nelle mani dello Stato: “Il tasso di suicidi in carcere continua a essere tra i più alti in Europa, senza contare i numeri sempre più in crescita dei tentativi di suicidio e degli atti di autolesionismo. Credo che questi siano i dati più allarmanti. Soprattutto se si considera che quasi la metà dei detenuti che si sono tolti la vita in carcere negli ultimi due anni non stava nemmeno scontando una sentenza definitiva o - peggio - si trovava sottoposto a misure cautelari. Una tragica realtà, che evidenzia in primo luogo l’esigenza di rafforzare il supporto psicologico e psichiatrico nelle strutture detentive, investendo sulla prevenzione e immaginando percorsi mirati per le persone più fragili e a rischio”. Come porre rimedio alla situazione in linea generale? Sono due le direzioni tracciate da Casellati: da un lato “occorre un convinto cambio di passo - esorta la presidente del Senato. Perché quelle che il Garante evidenzia anche nella relazione di quest’anno sono problematicità persistenti che richiedono soluzioni strutturali, non misure emergenziali. Altrimenti continueremo a confrontarci con un sistema che incatena: nel tempo e nello spazio. Che umilia e non riabilita”. Dall’altro lato, bisogna “calarsi nei bisogni e nel sentire delle persone”, il che “rinnova l’urgenza morale di dare una soluzione a problemi ormai endemici, come quello dell’eccessiva durata dei processi o dei casi di ingiusta detenzione. Il tempo non è mai una variabile marginale quando ad essere sotto la spada di Damocle è la libertà personale. L’attesa per una decisione da cui dipende il proprio futuro non può essere affidata all’alea procedimentale né prolungata oltre misura. Il rischio è che, specialmente per i reati commessi in giovane età, una sanzione inflitta a distanza di 10 anni perda la propria funzione retributiva e preventiva, trasformandosi in una “pena inutile”. La nomina al Dap. La buona notizia è che Carmelo Cantone è stato nominato nuovo vicecapo del Dap dalla ministra Cartabia, che così ha annunciato la scelta, necessaria dopo che Roberto Tartaglia è stato nominato vicecapo del Dipartimento per gli affari giuridici e amministrativi della presidenza del Consiglio: “Ho avuto personalmente modo di conoscere e apprezzare Cantone, chiamato negli ultimi anni anche a fronteggiare diverse situazioni critiche. Espressione e profondo conoscitore dell’Amministrazione penitenziaria, saprà farsi interprete delle molteplici esigenze e delle tantissime potenzialità di una realtà da continuare a valorizzare”. “Il vero problema? La lunghezza dei processi, non le misure cautelari” di Simona Musco Il Dubbio, 21 giugno 2022 La senatrice Valeria Valente dopo il botta e risposta con Giulia Bongiorno: “Il carcere deve essere l’extrema ratio. Noi dem siamo garantisti veri, schierati per una giustizia giusta”. “Ridurre i presupposti per le misure cautelari non è la soluzione giusta per evitare abusi. Il vero problema sono i tempi del processo. E ai colleghi dico: il Pd è il partito più attento all’idea di una giustizia giusta”. A dirlo è Valeria Valente, senatrice dem e presidente della Commissione Femminicidio, protagonista, nei giorni scorsi, di un acceso botta e risposta in Aula con la leghista Giulia Bongiorno sul tema delle misure cautelari. Lei si è scagliata contro l’emendamento della Lega sulle misure cautelari, sostenendo che avrebbe lasciato in libertà stalker e assassini. Ci spiega questa obiezione? Sarebbe stato cancellato il presupposto principale sulla cui base viene concesso il maggior numero di misure cautelari a tutela delle donne che subiscono violenze, in un contesto nel quale, secondo dati oggettivi, le misure utilizzate sono ancora in numero inferiore al necessario. Nelle ultime due settimane c’è stato quasi un femminicidio al giorno e quasi sempre c’era una misura cautelare sospesa, non concessa o utilizzata male. E in nessun caso si era in presenza di misure con l’utilizzo del braccialetto elettronico. Direi che vanno utilizzate di più e meglio. L’emendamento metteva in discussione la possibilità di utilizzare non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma tutte le misure cautelari, come l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento eccetera. E questi sono gli unici, oggettivi, strumenti che abbiamo per intervenire a tutela delle donne in un tempo che sia ancora utile. La Lega ha sottolineato che i reati di genere, a partire dallo stalking, non erano inclusi in questo emendamento... Da avvocato rimango basita. L’emendamento escludeva una delle lettere dell’articolo 274, cioè quello della possibilità di concedere la misura quando c’è una prognosi di reiterazione del reato, quindi di pericolosità e di abitualità del comportamento. Ma se andiamo a guardare l’esperienza concreta, il 90% delle misure cautelari viene concesso proprio sulla base di questo presupposto. L’obiezione è che vengono escluse alcune fattispecie: l’attacco alla Costituzione, i reati di criminalità organizzata e quelli con l’utilizzo di armi o di mezzi di violenza personale. Intanto il concetto di mezzo di violenza personale è di difficile interpretazione, ma lo stalking, i comportamenti ossessivi, come vengono inquadrati? In questo caso si può parlare di mezzo di violenza personale? È il giudice che deve fare questa valutazione. Le misure cautelari non servono a posteriori, quando la violenza si è già consumata, servono prima, per interrompere un circuito che molto spesso è un’escalation e fornisce un campanello d’allarme che dovrebbe consentire di intervenire in tempo. La ratio è però chiara: evitare abusi in tema di misure cautelari... Fonti ministeriali, relative al 2018, evidenziano che su circa 86mila persone attinte da provvedimenti cautelari, solo lo 0,58% è stato assolto. Ovviamente dico solo tra virgolette, perché questo numero dovrebbe essere pari a zero. Ci sono però circa mille casi di ingiusta detenzione ogni anno e i dati non tengono conto dei procedimenti ancora in corso... Si sale a circa l’1,5-2%. Quindi non ritiene ci sia un abuso? Penso che il tema dell’utilizzo non corretto delle misure cautelari sia la spia di un problema diverso, quello dei tempi dei procedimenti e dei processi. Poi c’è il tema della certezza della pena, la capacità dei magistrati di valutare correttamente, competenza e specializzazione, capacità di leggere la dinamica della relazione, tutte cose che abbiamo evidenziato nella relazione sui femminicidi. Le misure cautelari si utilizzano troppo forse perché c’è un’altra criticità, che sta nel processo. Il rimedio è sbagliato perché non si va a cercare la causa dove va cercata. Si parla di campo largo, ma il deputato Costa ha sottolineato che senza una giustizia garantista ciò non sarà possibile, proprio in riferimento alle posizioni del Pd. Come si fa a trovare una sintesi? La posizione del Pd è molto chiara: vogliamo una giustizia giusta, con un equilibrio tra garanzie dell’indagato e dell’imputato e sicurezza. Ed è evidente che quando prevale la necessità di mettere in sicurezza la potenziale vittima di una fattispecie di reato stiamo parlando di un’eccezione che deve piegare il sistema. Sono le norme di chiusura, che consentono di mantenere il principio che per noi si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Sulla Severino, ad esempio, abbiamo evidenziato che c’è un tema sul quale abbiamo il dovere di intervenire. Non credo si possa dire che il Pd indugi in giustizialismi. Anzi, ho visto tante forze politiche essere giustizialiste e il giorno dopo garantiste, a seconda del sentimento del popolo. La relazione del Garante ha evidenziato, ancora una volta, la situazione disastrosa delle carceri... Il Pd ha una posizione chiara: funzione rieducativa e carcere extrema ratio. È difficile rieducare nella condizione in cui sono costretti molti detenuti. Non possiamo girarci dall’altra parte: il carcere deve sempre garantire la dignità delle persone. Ricordo che il Pd ha lavorato tantissimo per costruire modelli di pene alternative, ma anche sugli strumenti deflattivi. Ovviamente con ragionevolezza e buon senso, ispirati da una giustizia giusta. Nuovo Csm: Cartabia accelera sulle elezioni, pronti i collegi per votare a fine settembre di Liana Milella La Repubblica, 21 giugno 2022 Il caso dei “laici” divide il Parlamento. Domani il Consiglio superiore di magistratura darà il parere sulla divisione territoriale, poi i togati si potranno candidare e la campagna elettorale durerà due mesi. Anche le Camere sceglieranno i laici, ma è già tensione sui numeri. Oplà, la Guardasigilli Marta Cartabia accelera sulle prossime elezioni del Csm. Da ieri sera è già sulla Gazzetta ufficiale la nuova legge approvata giovedì scorso - con il numero 71 - e sempre ieri sera, per un incontro “di cortesia”, la ministra della Giustizia ha visto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. In mano la ministra ha già - come vedremo - i due principali criteri per costruire i prossimi collegi, uno solo per eleggere i due giudici della Cassazione, due per i 5 pubblici ministeri, 4 per i 13 giudici. In tutto sono 20 i membri togati del Csm e 10 i laici. La road map disegnata dalla ministra è strettissima, con l’obiettivo di presentare i collegi già questa settimana. Subito dopo il presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella potrà indire i comizi elettorali. Per i 20 togati si voterà a fine settembre, visto che l’attuale Csm chiude i battenti il 25, e non ci sarà alcuna proroga. Nello stesso momento - se non si saranno ostacoli politici - il Parlamento dovrebbe eleggere i dieci togati. Già venerdì scorso via Arenula ha chiesto al Csm di inviare la mappa numerica dei magistrati “effettivamente” presenti in ogni singolo distretto giudiziario. Mappa che già ieri era sul tavolo del Dog, il Dipartimento per l’organizzazione giudiziaria, l’ufficio del ministero che preparerà materialmente la prima la bozza del decreto. Bozza che già tra mercoledì e giovedì sarà valutata dal Csm, cui spetta un parere consultivo. Il tempo stringe, per il Csm la prossima settimana è “bianca” (cioè non si lavora) e il rinnovo del Csm incombe. La ministra vuole chiudere sulla mappa dei collegi già questa settimana pubblicandola con un decreto. Una divisione dei collegi che avrà addosso soprattutto gli occhi della Lega, che già durante la discussione al Senato, ha criticato, con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, la scelta di affidare al ministero stesso, e non al Parlamento, questa mappa, e quindi i criteri stessi da utilizzare. In pratica Bongiorno critica il fatto che sono gli stessi magistrati presenti al ministero a costruire i collegi, e non una figura terza. Ma quali sono i “criteri” individuati? Stando ai colloqui che Cartabia ha avuto ieri, e alle notizie che filtrano da via Arenula, il primo criterio guida sarà quello “contiguità territoriale” tra i distretti giudiziari vicini, che però dovrà adattarsi alla geografia italiana. Per esempio, con chi andrà la Sardegna? Con la Sicilia, come avviene per le elezioni politiche, oppure con il Nord, o ancora con il centro Italia? È evidente che ad accorpamenti diversi potranno seguire candidature diverse, e anche risultati differenti. Il secondo criterio sarà quello della “tendenziale omogeneità numerica degli elettori” effettivamente presenti nei distretti. Cioè i collegi dovranno avere lo stesso numero di elettori. Parliamo di 9.500 magistrati, quindi i calcoli non sono così complessi. Una variabile per il risultato potrebbe essere quella dei 300 Mot, i magistrati in tirocinio, a seconda di dove voteranno. Pubblicato il decreto dei collegi nel fine settimana scatta il via libera per le candidature. I magistrati già lamentano una campagna elettorale troppo “stretta” per via delle ferie di agosto quando i palazzi di giustizia sono chiusi. Politicamente più complesso il futuro voto dei laici. Un Parlamento che ha ormai davanti a sé pochi mesi (a scadenza naturale si dovrebbe votare per le politiche a marzo 2023) dovrebbe eleggere i 10 laici che resteranno in carica fino al 2026, parallelamente a Camere non solo con un terzo in meno di deputati e senatori, ma sicuramente anche con “colori” politici ben diversi da oggi. Basti pensare agli attuali numeri di M5S, o a quelli futuri di FdI. Un dato che potrebbe rendere molto complicata già la divisione numerica dei laici. E c’è chi addirittura ipotizza che l’elezione potrebbe anche arenarsi. A quel punto solo un appello di Mattarella potrebbe smuovere dalle secche il Parlamento. Ma stiamo per ora al voto dei togati. Con la nuova legge elettorale voluta da Cartabia, un maggioritario binominale con una quota proporzionale. Nel collegio unico per la Cassazione, i primi due più votati diventeranno consiglieri. Per i 5 pm, in due collegi, saranno eletti i primi due classificati per ciascun collegio, il quinto sarà il miglior terzo di tutti e due i collegi. Per i 13 giudici, eletti in 4 collegi, saranno eletti i primi due di ciascun collegio, quindi 8. Poi si procederà alla somma dei voti “collegati” tra le correnti, perché ogni candidato dichiara con chi è “collegato”. Gli ultimi 5 saranno quelli che, proporzionalmente, hanno avuto trasversalmente più voti. Tutti i pericoli per l’elezione del prossimo Csm: la ripartizione dei laici e la geografia dei collegi di Giulia Merlo Il Domani, 21 giugno 2022 La nuova legge, introdotta con la riforma dell’ordinamento giudiziario, ridisegna il metodo di elezione dei togati e aumenta il numero dei membri da 24 a 30. I laici, però, verranno eletti per rispecchiare l’attuale maggioranza in parlamento pur rimanendo in carica per buona parte della prossima legislatura. I collegi, invece, vanno disegnati tenendo conto di quali corti d’appello aggregare tra grandi e piccole. Con l’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, si è chiuso il pacchetto giustizia previsto dal Pnrr. I ddl sono tutte leggi delega al governo e sono composta da una parte immediatamente applicativa e un’altra che necessita di decreti attuativi per trovare concreta applicazione. La parte più delicata e più controversa della legge delega sull’ordinamento giudiziario riguarda la legge elettorale del Csm, che è immediatamente applicativa e necessita solo di una norma transitoria per disegnare i nuovi collegi elettorali, poi il presidente della Repubblica potrà convocare le elezioni del Consiglio. Il ministero della Giustizia intende farlo nel minor tempo possibile: il Csm ora in carica, infatti, scade il 25 settembre e la previsione è che le nuove elezioni possano essere convocate in tempo per rispettare questa scadenza, pur lasciando ai magistrati il tempo per una campagna elettorale che non sia solo il mese di agosto, che è il mese della sospensione feriale. La nuova legge prevede moltissimi cambiamenti e solleva già alcuni problemi: il primo riguarda come verranno disegnati i collegi e di conseguenza l’elezione della componente togata; il secondo l’individuazione dei consiglieri laici, ovvero quelli eletti dal parlamento e che vanno eletti dal parlamento in seduta comune a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 3/5 dei componenti l’assemblea. Il problema dei laici - La nuova legge aumenta il numero di consiglieri: i laici da 8 diventano 10, i togati da 16 diventano 20, cui si sommano i tre componenti di diritto: il presidente della Repubblica, il primo presidente della Cassazione e il procuratore generale di Cassazione. Il Csm dura in carica 4 anni e quello attuale è stato eletto nel 2018, appena insediato il governo Conte 1, dunque la composizione dei laici rispecchiava quella maggioranza. Infatti, gli attuali membri laici sono tre in quota Movimento 5 Stelle (Alberto Maria Benedetti; Filippo Donati e Fulvio Gigliotti); due in quota Lega (Stefano Cavanna ed Emanuele Basile) eletti all’epoca in quota maggioranza; mentre in quota opposizione due erano di Forza Italia (gli avvocati Michele Cerabona e Alessio Lanzi) e uno Pd, con David Ermini che poi è stato anche eletto vicepresidente del Csm. Ora, vista la maggioranza allargata, è difficile dire come avverrà la composizione. Ma soprattutto spicca un fatto: il prossimo Csm rimarrà in carica fino al 2026 - dunque per buona parte della prossima legislatura - ma avrà una componente laica scelta sulla base dei rapporti di forza del parlamento in scadenza sei mesi dopo. Un parlamento la cui composizione non rispecchia assolutamente gli attuali sondaggi, in particolare rispetto al Movimento 5 Stelle e alla Lega. Se all’attuale opposizione di Fratelli d’Italia spetterà almeno un membro, gli altri nove dovranno essere scelti con equa ripartizione che soddisfi tutti i partiti della maggioranza, anche quelli nati nel frattempo come Italia Viva. Difficile, allora, immaginare quale incastro sarà possibile, considerata anche la maggioranza qualificata necessaria per eleggere i laici. Il problema dei collegi - Anche per i magistrati che dovranno confrontarsi per la prima volta con i nuovi collegi le incognite non mancano. La precedente legge elettorale prevedeva che i togati venissero eletti per categoria (giudici di legittimità, di merito e pubblici ministeri) ma in un collegio unico nazionale. La nuova legge elettorale, invece, prevede di ripartire i 20 togati da eleggere in due collegi nazionali e sei territoriali. In un collegio unico nazionale si eleggono i 2 componenti che esercitano funzioni di legittimità in Cassazione e procura generale, con sistema maggioritario che fa eleggere i due candidati più votati. In due collegi territoriali ancora da individuare si eleggono i 5 magistrati che hanno funzione di pubblico ministero, con sistema binominale maggioritario in cui vengono eletti i 2 candidati più votati per collegio e il miglior terzo, con percentuale di voti sul totale degli aventi diritto. In quattro collegi territoriali si eleggono gli 8 magistrati con funzioni di merito, con sistema binominale maggioritario che fa eleggere i due candidati più votati per collegio. Infine, in un unico collegio nazionale si eleggono 5 magistrati con funzioni di merito ma con ripartizione proporzionale dei seggi. Tradotto: 14 magistrati verranno eletti con sistema maggioritario, 6 con il correttivo proporzionale (il miglior terzo tra i pm e 5 giudici di merito nel collegio unico nazionale). Sentito il Csm, il ministero dovrà individuare la geografia dei 6 collegi binominali che, secondo la legge devono essere composti in modo da avere tendenzialmente lo stesso numero di elettori e rispettando il criterio della continuità territoriale tra distretti di corte d’appello. Questo sistema dovrebbe favorire l’eleggibilità di magistrati riconosciuti per competenza sui loro territori, visto che i collegi sono più piccoli. In questo modo le dinamiche correntizie dovrebbero essere ridotte, anche grazie al fatto che è stata abolita la raccolta delle 25 firme per presentare la propria candidatura al Csm. Inoltre, le candidature non possono essere meno di 6 per ciascun collegio e devono rispecchiare la parità dei generi. Qualora questi due criteri non venissero rispecchiati, i candidati mancanti verrebbero estratti a sorte tra i candidati eleggibili e che non hanno manifestato la loro indisponibilità alla candidatura. Il punto per il ministero, ora, è capire come disegnare i 6 collegi e come dividere le grandi corti d’appello come Milano, Napoli e Roma e a quali piccole corti accorparle. Come verranno disegnati i collegi, infatti, non è neutro ma rischia di favorire o penalizzare alcuni gruppi associativi che sono storicamente più forti in alcune città e meno in altre. Solo per fare degli esempi: Napoli è storicamente culla delle toghe conservatrici di Magistratura indipendente, ma potrebbe essere accorpata con corti più piccole in cui la prevalenza è di toghe progressiste per compensare. Lo stesso può valere per Milano, casa dei progressisti di Area e Magistratura democratica. Che fine fanno le correnti - I gruppi associativi sono in fibrillazione. La campagna elettorale è già cominciata, pur se in sordina, e gli attuali togati insieme ai possibili candidati stanno iniziando i loro giri per le corti d’appello. Tuttavia, la variabile di come siano disegnati i collegi è determinante per capire quali strategie elettorali adottare. In attesa del parere del Csm, l’attenzione è tutta su via Arenula e su chi, materialmente, suggerirà alla ministra le soluzioni da adottare, soprattutto considerato che buona parte degli uffici ministeriali è guidata proprio da magistrati. Proprio l’individuazione di un perimetro di corti d’appello invece di un altro potrebbe far cambiare la maggioranza della prossima consiliatura. Non solo, la legge elettorale prevede che le candidature possano essere individuali, oppure che ci siano collegamenti. Ogni candidato può essere collegato a un solo gruppo, il collegamento deve essere reciproco e deve essere rispettata la rappresentanza di genere: quindi sarà possibile creare delle vere e proprie liste. Il collegamento non ha effetti diretti sui collegi maggioritari, ma invece ha effetto sui 5 posti assegnati con il proporzionale nel collegio unico nazionale e quindi i candidati di lista dovrebbero essere avvantaggiati nel riparto proporzionale. Proprio questo meccanismo di fatto favorisce i gruppi associativi, proprio nella parte proporzionale delle candidature che dovrebbe invece essere l’elemento della legge elettorale che dovrebbe riequilibrare gli eletti rispetto ai candidati di corrente. Torino. Dopo oltre un mese 4 studenti sono ancora detenuti per aver protestato di Valeria Casolaro lindipendente.online, 21 giugno 2022 Si trova ancora in carcere Francesco, uno dei tre studenti sottoposti a custodia cautelare a partire dal 12 maggio scorso per aver partecipato, il 18 febbraio, a una manifestazione studentesca a Torino. Questo nonostante la giovanissima età del ragazzo, peraltro incensurato. Altri due studenti si trovano ai domiciliari con braccialetto elettronico e il divieto di contatto con chiunque non siano i familiari conviventi. Una terza ragazza si trova ai domiciliari, seppure con misure meno restrittive, per aver parlato al megafono nel corso della manifestazione. Come Francesco, tutti i giovani coinvolti, cui è stato contestato il reato di resistenza a pubblico ufficiale, sono incensurati. “Che senso ha la custodia cautelare per studenti incensurati che non hanno compiuto reati gravi? È una punizione? Una vendetta?? Un segnale di forza?”. Questo l’interrogativo al centro della lettera che le detenute della sezione femminile del carcere Lorusso e Cotugno di Torino hanno inviato alle madri degli studenti sottoposti a misure cautelari per aver partecipato a una manifestazione contro l’alternanza scuola-lavoro lo scorso 18 febbraio. Una domanda che, in un modo o nell’altro, siamo portati a farci tutti. Dei tre giovani inizialmente sottoposti a misure di custodia cautelare in carcere solamente uno si trova ancora in cella: Francesco, di 20 anni appena compiuti. Gli altri due, i ventiduenni Jacopo ed Emiliano, si trovano ai domiciliari, ma con braccialetto elettronico e divieto di contatto con chiunque non siano i familiari conviventi. “Si tratta di una misura se vogliamo ancora peggiore del carcere, perché quantomeno lì si può socializzare. Così chiusi in casa sono completamente isolati. Non possono lavorare, sostenere gli esami, fare visite mediche, parlare con nessuno” ci dice al telefono Cinzia, mamma di Jacopo. “La condotta di Francesco è stata evidentemente ritenuta più grave, tuttavia le accuse contro di lui non sono ancora state confermate, non si sa se sia stato veramente lui”. I ragazzi, tutti incensurati, sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, in seguito alla quale diversi agenti hanno avuto una prognosi media di 6 giorni “per ferite non meglio specificate”. La pena prevista, in caso di condanna, potrebbe superare i 3 anni e mezzo di reclusione, anche se, riferisce Cinzia, gli avvocati ritengono improbabile l’eventualità di una pena così lunga. Altri 7 ragazzi sono ora sottoposti a obbligo di firma per i fatti del 18 febbraio mentre Sara, una studentessa di 19 anni e incensurata, si trova ai domiciliari aver parlato al megafono durante la manifestazione. Solamente poche settimane prima, il 28 gennaio, la polizia aveva caricato senza alcun motivo gli studenti (per la maggior parte minorenni) che protestavano in piazza Arbarello contro l’alternanza scuola-lavoro, provocando il ricovero di decine di loro per via delle ferite riportate. “L’impressione è che a Torino vi sia una gestione della piazza e delle misure cautelari particolarmente eccedente rispetto alla norma. Come si può pensare di usare uno strumento come la carcerazione o l’applicazione di braccialetto elettronico a ragazzi incensurati di 19-20 anni per aver partecipato a movimenti studenteschi?” dichiara Cinzia. “Noi non mettiamo in discussione l’intervento della magistratura, ma le modalità con le quali vengono messi in atto gli interventi. Poi se ci sarà necessità di applicare delle sanzioni si verrà sanzionati”. Come spiega Cinzia, inoltre, “Le indagini sono state chiuse, ora partirà tutto l’iter ma può passare anche un anno prima del primo processo. Quando finiranno le misure? Quando uscirà Francesco dal carcere? Quando finiranno i domiciliari? Sara, che è rea di aver parlato a un megafono, quando potrà uscire?”. La vicenda ha portato a sollevare due interrogazioni parlamentari, in Camera e Senato, rivolte ai ministri Cartabia e Lamorgese. Ulteriore quesito da non sottovalutare è quale possa essere l’effetto di mesi di carcere su di un ragazzo così giovane e potenzialmente innocente. Come scrivono le detenute della sezione femminile, “Il carcere è una scuola del crimine in cui si coltiva la rabbia e l’impotenza assoluta quindi, specie per i giovani non è proprio utile ritrovarsi lì o isolati dal contesto socio-culturale”. La situazione è resa ancora più complessa dal persistente problema di sovraffollamento del carcere di Torino, sul quale ha recentemente riportato l’attenzione la garante comunale per i diritti dei detenuti Monica Cristina Gallo. Sono oltre 1300 le persone attualmente detenute al Lorusso e Cotugno di Torino, “a fronte di una capienza di 1060”, dato al quale si va ad aggiungere “l’aumento preoccupante di giovani detenuti” che rende il carcere “quasi contenitore di una rabbia sociale che varrebbe la pena invece curare sul territorio”. Potenza. Cittadini e detenuti recuperano spazio verde interno al carcere di Anna Martino La Repubblica, 21 giugno 2022 Si chiama extra moenia ed è il “non luogo” che mette in comunicazione ciò che è dentro le mura con ciò che è fuori. Il progetto è vincitore del premio Creative Living Lab indetto dal ministero della Cultura. Ottocento metri quadrati di verde e terriccio separano le mura del carcere di Potenza dal quartiere Betlemme. Un non luogo tra dentro e fuori, tra una comunità e un’altra. Grazie alla compagnia teatrale Petra oggi questo lembo di terra è la strada che unisce idealmente e fisicamente i due mondi e le persone che li abitano. Si chiama “Extra moenia - Spazio di connessione territoriale” il progetto promosso dalla compagnia teatrale di Satriano di Lucania (Potenza) e la casa circondariale Antonio Santoro, vincitore della terza edizione del premio Creative Living Lab promosso dalla direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura. Lo spazio, delimitato all’interno della casa circondariale da una parete della struttura e da una recinzione, è stato ripensato e riqualificato grazie all’aiuto di cittadini volontari, 67 in tutto, che hanno risposto alla chiamata della compagnia teatrale. Diverse le fasi di coinvolgimento. Il primo passo è stata una passeggiata conoscitiva del quartiere, dalla quale sono scaturiti stimoli, bisogni e riflessioni trasferiti in appunti e post-it condivisi nei laboratori di comunità. È venuta fuori così, da cittadini e detenuti, l’identità di questo nuovo spazio oltre le mura. “Tutti hanno messo al centro la propria idea - spiega Antonella Iallorenzi, della compagnia teatrale Petra e formatrice -. In molti hanno identificato questo spazio come luogo di incontro, condivisione, gioco. Qualcuno lo ha definito come luogo in cui stare scomodi, perché è quello il momento in cui siamo più predisposti all’accoglienza, al dialogo. C’è chi ha immaginato le mura del carcere come una parete attrezzata da arrampicata. Ovviamente è una rappresentazione simbolica, come simbolico è il varco che noi abbiamo aperto in questa cinta muraria proiettando in diretta la performance teatrale che abbiamo realizzato con un gruppo di ospiti del carcere”. Era giugno dello scorso anno e le regole per la gestione della pandemia erano ancora stringenti. “Da otto anni la compagnia Petra porta avanti il laboratorio di teatro nell’istituto penitenziario di Potenza - racconta Iallorenzi - e abbiamo sempre trovato un modo per aprire lo spettacolo a un gruppo selezionato di visitatori tra i cittadini. L’idea di non poterlo fare ci faceva mancare l’aria. Così abbiamo pensato di proiettarlo in diretta sulla parete del muro che affaccia su questo spazio fino a quel momento nascosto e inutilizzato. Mentre gli artisti si esibivano dentro, noi li guardavamo fuori. Eravamo in pochi, forse una trentina in tutto, ma subito abbiamo compreso le potenzialità di questa cerniera, che non è dentro ma che non è ancora nemmeno fuori, in cui tutti possiamo aprirci alla scoperta, all’accoglienza, al dialogo, per cercare di trovare soluzioni comuni”. Extra moenia è stato inaugurato con una grande festa di quartiere aperta alla città. In prima fila le istituzioni, l’amministrazione comunale, la direttrice del carcere, Maria Rosaria Petraccone, il magistrato Paola Stella, presidente del tribunale di Sorveglianza di Potenza, gli educatori, la polizia penitenziaria, i volontari che, guidati da architetti e tecnici esperti, con le loro mani hanno realizzato i manufatti con cui è stato arredato lo spazio, originati da oggetti di vita quotidiana della casa circondariale: reti di letti che fungono da bacheche, sgabelli che diventano contenitori, fioriere o panche. I cubi, elementi base dell’allestimento, all’occorrenza si sono trasformati in sedute, cassetti, elementi di gioco. È stata questa l’ultima fase del progetto, l’autocostruzione, che ha visto lavorare insieme ospiti del carcere e cittadini volontari, senza tuttavia mai incontrarsi. Fino al giorno della grande festa, quando Omar, Francesco, Cosimo, Paolo e Mauro si sono mischiati tra la folla per illustrare orgogliosi il frutto del proprio impegno. Sulle sedute che hanno costruito dentro le mura, ci sono anche Michele e Assunta. Abitano nella casa che si trova oltre il cancello che segna il confine tra extra moenia e il quartiere. Hanno visto con i loro occhi questa striscia di terra cambiare. Quando per problemi tecnici un giorno è andata via la corrente, non hanno esitato a mettere a disposizione la propria. “Ci sono venuti in soccorso con un filo che letteralmente collegava una parte all’altra. Questo è extra moenia - conclude Iallorenzi - tanti fili che ci legano e ci attraversano”. Gorgona (Li). Attivato il servizio di telemedicina nell’istituto penitenziario uslnordovest.toscana.it, 21 giugno 2022 La telemedicina in carcere diventa realtà: un risultato importante ottenuto nell’isola-carcere di Gorgona, che permetterà di migliorare le condizioni di salute dei detenuti. Con la consegna il 16 giugno scorso delle tecnologie che consentono di abilitare il servizio, sarà possibile realizzare sull’isola esami diagnostici a distanza, riducendo i tempi di attesa, migliorando le prestazioni e abbattendo i costi di trasferimenti, scorte e piantonamenti. Digitalizzare la sanità carceraria rappresenta, infatti, uno dei sistemi più validi e adeguati per sopperire alle inevitabili difficoltà organizzative, economiche e di carenza di personale che da tempo fisiologicamente la penalizzano. “Sviluppare la telemedicina - sottolinea il direttore dell’area Supporto ai servizi sanitari e al cittadino dell’Asl Alessandro Iala - non significa sostituire la presenza fisica del medico del carcere. Un paziente detenuto che lamenta un disturbo verrà sempre visitato dal medico fisicamente presente nella struttura. Sarà lui a decidere se accedere o meno alla telemedicina, che dovrebbe configurarsi più come un servizio integrativo”. Proprio nell’ottica della digitalizzazione della sanità l’Azienda USL Toscana nord ovest ha deciso di mettere in campo le proprie competenze e le proprie soluzioni tecnologiche per attivare la telemedicina negli istituti penitenziari collocati nelle diverse zone, partendo proprio dalla Gorgona. L’Azienda sanitaria si è organizzata istituendo un gruppo di lavoro dedicato, coordinato da Alessandro Iala e composto da Riccardo Orsini, Alessandro Gotti e Paolo Nasuto, che ha intanto raggiunto questo traguardo importante e ambizioso: l’utilizzo della telemedicina nel carcere di Gorgona. Si tratta in realtà del proseguo delle attività legate ad un percorso in atto già da alcuni anni per migliorare i servizi dell’Azienda, a tutto vantaggio dei cittadini e degli operatori. E’ un modo di sperimentare la tecnologia in maniera intelligente, senza sostituire il contatto umano. Attraverso le tecnologie innovative di cui si avvale il servizio di telemedicina, sarà possibile gestire i più frequenti problemi di salute della popolazione detenuta, assicurando televisite, teleconsulti, tele-refertazione e tele-monitoraggio. Questo progetto rappresenta un esempio di concreta attenzione alla condizione del carcere che, alla luce dell’esperienza drammatica vissuta con l’emergenza Covid, attinge agli sviluppi tecnologici disponibili per consentire l’ottimizzazione delle risorse ma consente, in particolare, di superare alcuni “rallentamenti” dovuti alla logistica organizzativa delle carceri, assicurando una presa in carico del paziente sempre più completa e tempestiva. “L’emergenza Covid-19 - commenta la coordinatrice aziendale della sanità penitenziaria Anna Santinami - ha sicuramente aumentato la consapevolezza sul contributo cruciale del digitale nel processo di prevenzione, cura e assistenza. Solo un profondo cambio di paradigma, ridisegnando completamente le procedure, può quindi consentire il pieno sfruttamento delle opportunità che la digitalizzazione offre, sia dal punto di vista della qualità dei servizi che di una loro maggiore efficienza, oltre che della riduzione dei costi”. La necessità è stata evidenziata proprio dalla difficile organizzazione delle scorte per portare fuori i detenuti, soprattutto perché non tutte le carceri sono vicine a un ospedale, proprio come avviene all’isola di Gorgona. In un quadro simile la telemedicina ed in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali diventano un obiettivo primario. Dal confronto con il direttore del carcere Carlo Mazzerbo è emerso che l’uso della telemedicina può concorrere in maniera determinante ad abbattere le barriere geografiche e temporali. Dal carcere di Gorgona parte dunque un progetto innovativo che avrà impatti positivi, da subito, nella gestione dei problemi di salute dei pazienti detenuti, che sarà possibile replicare nelle altre strutture detentive presenti sul territorio aziendale. L’importanza di estendere il modello a tutti gli istituti penitenziari viene ribadita anche dal direttore generale dell’Azienda USL Toscana nord ovest Maria Letizia Casani: “Questo progetto contribuisce a rendere più efficiente e sicura l’organizzazione penitenziaria, perché un valido servizio di telemedicina garantisce il diritto dei detenuti alla salute e al tempo stesso significa meno scorte, meno traduzioni e concentrazioni di risorse in altri servizi”. Bari. Università, l’iniziativa per i detenuti Corriere del Mezzogiorno, 21 giugno 2022 È nato a Bari il Polo didattico Universitario Penitenziario, uno strumento di formazione dedicato al mondo del carcere. Il protocollo, sottoscritto dagli atenei pugliesi che hanno aderito alla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, istituita dalla Crui, riguarda tutti. Le azioni infatti non sono rivolte solo a soggetti ristretti nelle strutture penitenziarie o a quelli in esecuzione penale esterna o affidati al comparto della giustizia minorile. In questo caso s’intende che l’obiettivo sia quello di permettere loro di iscriversi e frequentare, con tutte le limitazioni della loro condizione. L’iniziativa prevede una consistente offerta formativa destinata a operatori dell’amministrazione penitenziaria e a studenti, dottorandi e specializzandi dell’Aldo Moro. Così che possano essere messi in sinergia docenti dell’ateneo cittadino ed operatori del mondo penitenziario. “Uniba lavora in stretta collaborazione con le varie articolazioni dell’amministrazione penitenziaria per poter permettere - si legge in una nota dell’ateneo l’iscrizione ai nostri corsi”. Roma. Presentazione del libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” stamparomana.it, 21 giugno 2022 La voce dei detenuti di Rebibbia, la scoperta di quanta umanità ci sia dietro le sbarre e di cosa sia davvero la pena del “ristretto”, il percorso di pentimento e il desiderio di riscatto, il diritto al futuro e alla dignità negato dal pregiudizio e dall’indifferenza, il processo di riforma della detenzione: di tutto questo parleremo giovedì 23 giugno alle ore 17 a Stampa Romana, al 1° piano a piazza della Torretta 36. L’occasione è la presentazione del libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” edito dalla Lev, la casa editrice vaticana, e curato da suor Emma Zordan, da otto anni volontaria a Rebibbia dove ha coordinato un laboratorio di scrittura creativa. Il volume raccoglie le testimonianze dei “ristretti” e dei loro familiari. Sono loro gli autori del volume. Su questa realtà, così difficile e drammatica anche nella sua ordinarietà, ma da conoscere e far conoscere anche al mondo dell’informazione per superare tanti stereotipi e pregiudizi, per assicurare un’informazione corretta e attenta alla dignità della persona reclusa, tema su cui è impegnato il sindacato dei giornalisti del Lazio si confronteranno con l’autrice Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana, Massimo Razzi, giornalista e scrittore, autore per il gruppo Gedi del podcast “Chiusi dentro” uno straordinario viaggio all’interno delle carceri italiane, Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive per la regione Lazio e portavoce della Conferenza dei garanti territoriali, quindi con una profonda conoscenza della realtà carceraria e della condizione dei detenuti, Cosimo Rega ex ergastolano attore e regista che porterà la testimonianza diretta del suo percorso di vita e Antonella Pacifico, avvocata e volontaria a Rebibbia che leggerà brani del volume L’incontro sarà moderato da Roberto Monteforte, giornalista vaticanista e anche lui impegnato come volontario al Cr di Rebibbia. Bocciature e abbandoni, la scuola dopo il Covid di Viola Ardone La Stampa, 21 giugno 2022 Non chiamateli generazione Covid, non è giusto che siano ricordati così. È vero, questa esperienza li ha segnati, e per gli studenti di ogni età che in questi giorni ricevono la cosiddetta pagella la mancanza di scuola è stata una delle variabili più determinanti. I voti che appariranno sugli schemi del loro telefonino alla voce scrutinio finale risentono di due anni trascorsi quasi interamente in Dad e di un anno scolastico, quello appena concluso, impiegato a colmare le lacune accumulate, in uno spericolato equilibrismo tra test positivi, negativi, ancora positivi, prima dose, seconda dose, eventuale terza dose, classi in bilico tra online e presenza. Che cosa ci ha lasciato il Covid dal punto di vista della scuola? Oltre alle cataste di banchi a rotelle finiti in un angolo della palestra e mai più utilizzati, questi anni di disagio hanno lasciato alcune gravi insufficienze nelle abilità di base, quelle che un tempo si elencavano sulle dita di una mano: leggere, scrivere e fare di conto. È quello che emerge dalle rilevazioni statistiche, ma che ciascuno di noi, genitori e insegnanti, sapeva già. È colpa della pandemia, certamente, ma non si può negare che era un fenomeno già in atto, che la pandemia ha messo sotto la lente di ingrandimento. Sapevamo già che i ragazzi fanno sempre più fatica a scrivere un testo in italiano corretto che tenga conto delle 3C della scrittura: coerenza, coesione e completezza. Sapevamo già che il lessico si è appiattito su un linguaggio da social, codificato in una sintassi asfittica e sterilmente paratattica. Sapevamo già che in rete si trovano le soluzioni a tutti i problemi di matematica, le traduzioni di tutte le versioni di greco e latino, le app per decifrare tutte le lingue del mondo e che bisogna riflettere su nuove metodologie di insegnamento. Sapevamo anche che le relazioni tra pari si sono imbrigliate in quelle virtuali in maniera inestricabile e che per alcuni giovani e giovanissimi quel mondo virtuale rischia di diventare una gabbia dorata in cui anestetizzare l’ansia da prestazione tipica dell’adolescenza. Quando hanno perso la scuola in presenza i ragazzi hanno perso l’altra dimensione della loro quotidianità, quella del reale, si sono trovati immersi nel tiepido brodo virtuale e qualcuno ha rischiato di affogarvi. La pandemia ha lasciato lacune nelle competenze di base, è vero, ma su queste abbiamo lavorato tutto l’anno, lo faremo anche nei prossimi e piano piano metteremo a posto programmi, punteggi e valutazioni. Ma la scuola italiana non produce voti, non produce promozioni o bocciature, non produce nemmeno statistiche. La scuola italiana forma - dovrebbe formare - individui. Persone pensanti, capaci di relazionarsi, di stare insieme ma di concentrarsi anche in solitudine, persone in grado di studiare le variabili di un problema (matematica, italiano, ragioneria, statistica, greco, latino…) e di immaginare possibili soluzioni. Per fare questo ci vuole tempo. Il Covid ha tolto tempo e spazio alla scuola. Ma il tempo e lo spazio per la scuola, ripeto, erano insufficienti anche prima. La pandemia ci ha rivelato che le classi sono troppo affollate. È forse arrivato il momento di pianificare seri interventi di edilizia scolastica. La pandemia ci ha mostrato che i docenti si sono inventati un nuovo lavoro nello spazio di poche settimane, quello di web teacher digitali. È forse il momento di incentivare gli insegnanti anche dal punto di vista economico. La pandemia ha reso più cogente il fenomeno della dispersione scolastica. Ed è forse arrivato il momento di innalzare l’obbligo scolastico ai 18 anni. Passato il tempo dell’emergenza, insomma, è necessario dare inizio al tempo delle proposte e delle soluzioni. Affinché questi ragazzi non siano ricordati come generazione Covid ma come generazione green. Verde, come tutto quello che rinasce ed è destinato a sbocciare. Cosa c’entra la psicologia cognitiva con la cybersicurezza di Jaime D’Alessandro La Stampa, 21 giugno 2022 Alla fiera di Parigi dedicata all’innovazione, VivaTech, l’azienda Avast spiega perché per proteggere le persone online bisognerà presto alzare lo sguardo e andare ben oltre gli antivirus. “L’Unione europea è la più grande democrazia al mondo dove vivono 445 milioni di persone” ha sottolineato Thierry Breton, Commissario europeo per il mercato interno. “Ma il digitale è ancora un west selvaggio”. “Certo che ci stiamo pensando. Forse verrà chiamata cybersicurezza cognitiva e magari qualcuno lancerà prima o poi un firewall mentale. Ma al di là di nomi e definizioni, è chiaro che la salvaguardia delle persone online già oggi non è più una semplice questione legata ai virus o alle truffe”. Ondrej Vlcek, a capo della Avast di Praga, una delle compagnie europee più importanti specializzata in sicurezza informatica, lo racconta al VivaTech di Parigi, fiera annuale dedicata all’innovazione giunta alla sua sesta edizione e da sempre sostenuta dal presidente Emmanuel Macron. Lo incontriamo poche ore prima dalla conferenza di Thierry Breton, Commissario europeo per il mercato interno, intitolata non a caso Il selvaggio west digitale. Perché, al di là degli immancabili robot, dei droni e delle stampanti 3D che spuntano qui e lì negli stand, quest’anno a Viva Tech si è parlato spesso di sicurezza. Così come di insicurezza, aumentata anche dall’invasione russa ai danni dell’Ucraina. “L’Unione europea è la più grande democrazia al mondo dove vivono 445 milioni di persone”, ha puntualizzato Breton dal palco principale della fiera parigina. “Non è facile la democrazia, sostenerla è un sforzo costante, e ora dobbiamo organizzare il nostro spazio digitale che, come sappiamo, è un selvaggio west”. Lasciando per un momento da parte le enormi opportunità che la Rete offre e tornando ai pericoli, essere oggetto di propaganda o di ondate di disinformazione pone un problema di cosa debba essere la cybersicurezza e cosa invece dovrà restarne fuori. Di certo il solo proteggere il pc o lo smartphone dai malware non basta a fermare le minacce, alcune delle quali mirano a confondere le capacità cognitive. E sono comunque minacce digitali. “Ovviamente stiamo parlando di interrogativi o problemi ai quali non c’è una sola soluzione o risposta”, prosegue Vlcek. “Non credo si debba decidere dall’alto cosa vero e cosa non lo è, ma probabilmente in futuro ci saranno strumenti molto più efficaci di quelli attuali per capire in maniera istantanea chi, quale rete e quando una certa informazione è stata messa in circolo”. Viene il dubbio però che le persone non siano poi così interessate all’origine e alla veridicità delle informazioni che leggono. Spesso ne fanno un uso strumentale, servono a confermare i propri pregiudizi e sostenere o sbandierare un’identità. È un meccanismo che ancora non è stato studiato fino in fondo, a differenza di quello delle camere di eco, eppure è uno dei tasselli più importanti nelle dinamiche polarizzanti dei social network che affonda le radici nelle nostre attitudini fuori dal digitale. Nel frattempo continua la conta e gli allarmi continui legati agli attacchi informatici, anche se rispetto ai livelli del 2020 sono calati stando all’ultimo rapporto annuale del Clusit, l’associazione di categoria che riunisce le aziende di cybersicurezza in Italia. “Quotidianamente soltanto al Ministero della Difesa giungono circa 150mila attacchi da parte di hacker che cercano di penetrare i nostri sistemi”, ha spiegato il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè intervenendo al convegno Cyber-risk & Pmi. Ma poi ha anche aggiunto: “Di questi soltanto 20 o 40 necessitano un intervento dedicato dei nostri esperti, il che significa che il nostro sistema ha solide mura laddove il 99,9 per cento di questi attacchi viene respinto direttamente dai firewall”. E’ vero che non tutte le medie e piccole imprese italiane possono contare su sistemi altrettanto efficaci, si sta però diffondendo la percezione del pericolo. O meglio: la certezza che in tutto quel che è digitale oltre ai benefici ci sono anche dei rischi. Lo sanno bene all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn), istituita dal Governo ad agosto 2021 e guidata da Roberto Baldoni. Per costruire delle protezioni solide attorno alle strutture vitali del Paese, può contare sui 623 milioni di euro già previsti dal Pnrr. Serviranno per attuare le 82 misure previste. Altre forme di attacchi come la propaganda esterna, essendo di natura differente, per ora non incontra argini malgrado sia una forma di attacco. Una delle possibili soluzioni suggerite a VivaTech da più parti è l’idea di certificare l’identità di chi accede online così come accade nel mondo fisico. “Tutto quello che è consentito fuori dal Web dovrebbe esserlo anche al suo interno e allo stesso tempo tutto quel che la legge vieta nel mondo fisico deve esserlo nel digitale”, ha sottolineato Breton. “Non è un’operazione semplice, ma va fatta”. Un’idea che è sempre stata osteggiata da una parte dei primi pionieri del Web convinti ad esempio che l’anonimato protegga le persone specie nei regimi totalitari e liberticidi, Russia e Cina in testa. Dall’altra parte si fa notare come quegli stessi regimi hanno applicato la censura sul Web e in generale la repressione del dissenso senza grandi problemi nonostante l’anonimato. Insomma, si tratterebbe di un finto problema specie in Occidente dove l’impossibilità di sapere chi c’è dietro un certo contenuto ha contribuito all’amplificare un clima di odio e divisioni che ha finito per contagiare anche i media tradizionali. “Sono questioni complesse”, conclude Ondrej Vlcek, “con le quali stiamo solo ora iniziando a fare i conti”. Di sicuro nel futuro di aziende come la sua ci sarà posto non solo per informatici esperti di cybersicurezza, ma anche per sociologi, neurologi, analisti di dati e di social network, perché inevitabilmente dovranno allargare il loro raggio d’azione e offrire qualcosa che vada oltre il classico antivirus. La Giornata (e la vita) con i rifugiati. Esseri umani tutti insieme di Eraldo Affinati Avvenire, 21 giugno 2022 Quanti sono i rifugiati nel pianeta? Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite si tratta di cento milioni di persone. Gente costretta a fuggire dalla propria terra per sopravvivere a guerre, dittature, violenza, miseria: molti minorenni, tante donne con figli piccoli, individui feriti, traumatizzati, condannati all’esilio geografico, linguistico e culturale. Nella Giornata mondiale dedicata a questi profughi, che si celebra il 20 giugno, il rischio per tutti noi resta sempre quello di lasciarci ingannare dai grafici, dalle statistiche, perfino dalle testimonianze: un carico troppo pesante da recare sulle spalle. Si può avere l’impressione di non sopportare il peso del nostro stesso privilegio col risultato di passare indifferenti di fronte all’oltraggio degli stessi princìpi di giustizia nei quali, almeno a parole, diciamo di credere. Se vogliamo davvero conquistare la dignità della specie a cui apparteniamo, dobbiamo conoscere realmente i perseguitati: un numero crescente di italiani lo sta facendo, ed è la ragione per cui anch’io non perdo la speranza nei confronti dei miei connazionali. Continuo a vederne tanti che, in mezzo al mare dell’ignavia, della protervia, della maleducazione, fanno un passo avanti, escono dal mucchio e prendono posizione, spesso a fari spenti, nella dimensione quotidiana, senza che nessuno li consideri, compiendo gesti magari poco reclamizzati eppure significativi: quante sono le famiglie che stanno accogliendo nelle loro case gli sfollati ucraini? Ammiro questa gente e la capisco. Forse dipende dal fatto che da quando nella mia vita ho deciso di andare verso gli immigrati dentro di me ho sentito una specie di scossa che mi ha cambiato come uomo, come docente e come educatore. Ricorderò sempre il giorno in cui, ormai tanti anni fa, nell’ora di ricreazione, mi avvicinai a quei tre adolescenti dagli occhi a mandorla che stavano provando a giocare a basket nel cortile dell’istituto professionale dove insegnavo lettere. Da dove venite, ragazzi? Per primo mi rispose Mohamed: dall’Afghanistan. Siamo arrivati a piedi, da Kabul a Venezia, aggiunse Noruz. E io d’istinto: avete fatto il viaggio di Marco Polo, però all’incontrario. Chi era questo signore? Me lo chiese Hafiz. Un mercante, gli dissi. Vidi i suoi occhi illuminarsi. Cominciai a parlare di letteratura. Mi sembra di udire ancora le nostre voci. Ci siamo nascosti sotto le sospensioni di un Tir in partenza da Patrasso per arrivare in Italia. Lo sapete che siete passati vicino all’isola di Zante, dove nacque Ugo Foscolo? Chi era, professore? Uno dei più grandi scrittori italiani. Ci puoi recitare una sua poesia? “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente”. Proprio come noi! Sì, infatti morì esule a Londra. Non era più soltanto scuola. Pareva di essere stati sempre insieme: esseri umani di questo mondo, legati da catene invisibili a occhio nudo. Ciò che accade a te riguarda anche me. Se tu stai male, io non posso stare bene. Da quel momento ho conosciuto decine e decine di rifugiati ai quali insegniamo la lingua italiana nel tentativo di ricomporre le fratture interiori della loro esistenza. Quando li penso mi vengono in mente: Abdi, somalo, mentre si scopre la maglietta per mostrarmi la cicatrice del proiettile che gli ha bucato lo stomaco; Solomon, eritreo, falegname dal sorriso smagliante il quale trattiene a stento l’ansia per la sorte della moglie e dei figli rimasti in patria; Seyed, iraniano sordomuto dalla nascita, che siamo riusciti a far leggere e scrivere persino durante il lockdown; Blessing, nigeriana col bambino accanto il cui padre resta avvolto nel mistero; i giovani siriani, seri e compiti; i sudanesi, riservati e quieti. Tutti lanciati verso il futuro incerto e precario, pronti a partire ancora, neanche fossero uccelli di passo, verso la Francia, la Germania, l’Inghilterra. Alcuni mandano messaggi su WhatsApp da Parigi, Stoccarda… Grazie tua scola, scrivono svelti. Indimenticabili, resteranno sempre dentro di noi. Sulle navi Ong 900 migranti aspettano un porto di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 giugno 2022 Nella “giornata mondiale del rifugiato”, celebrata ieri da istituzioni e associazioni, fuori dai porti italiani ci sono quasi 900 migranti in attesa di sbarcare. Sulla Sea-Eye 4 le persone soccorse sono 483, alcune si trovano a bordo da oltre una settimana. Nei giorni scorsi in 11 sono state evacuate per emergenze mediche. Altri 112 naufraghi sono sulla più piccola Aita Mari, salvati in diversi interventi iniziati una settimana fa. Le due imbarcazioni umanitarie ciondolano da alcuni giorni davanti alle coste di Pozzallo: la prima è nelle acque territoriali, la seconda appena fuori. Al largo di Lampedusa attende invece la Sea-Watch 4. Sul ponte ci sono ormai 313 persone. Quasi tutte sono state imbarcate ancora prima dell’arrivo della nave nella zona di ricerca e soccorso. Domenica, infatti, l’equipaggio ha preso a bordo 96 migranti salvati dal mercantile Aslihan e 165 soccorsi dalla Louise Michel (imbarcazione umanitaria veloce finanziata dall’artista Banksy). In entrambi i casi le autorità italiane non avevano permesso agli equipaggi di toccare terra. Ieri anche i 25 rifugiati siriani salvati sabato scorso dal veliero Nadir, dell’Ong Resqship, sono stati trasbordati. Dall’Italia avevano negato l’ingresso nel porto della maggiore della Pelagie e a bordo la situazione era diventata caotica. Nadir è lungo solo 18 metri e non è attrezzato per ospitare tante persone per diversi giorni. Infine, sempre ieri, la Sea-Watch 4 ha soccorso altri 23 migranti da un barchino in difficoltà. La gestione degli sbarchi delle persone salvate dalle Ong, insomma, è rapidamente tornata al solito: evacuazioni d’urgenza per chi non sta bene e attese in mare, più o meno lunghe, per tutti gli altri. Questa routine era stata interrotta il 9 giugno scorso quando la Mare Jonio di Mediterranea è entrata a Pozzallo senza aspettare neanche un giorno. Alcune ore prima aveva comunicato al Viminale di non avere intenzione di restare in mare con 92 naufraghi sul ponte e di essere intenzionata a dirigersi verso l’attracco più vicino. Chi sperava che dopo questa forzatura le cose sarebbero potute tornare al periodo pre Salvini, quando le Ong non attendevano al largo per giorni, è rimasto deluso. Anche nella “giornata mondiale del rifugiato”. La società civile globale contro le annunciate esecuzioni in Myanmar di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 giugno 2022 Amnesty International e 111 organizzazioni per i diritti umani hanno espresso enorme preoccupazione per l’annuncio, da parte delle autorità militari di Myanmar, della ratifica di quattro condanne a morte emesse a seguito di processi gravemente irregolari. Phyo Zeya Thaw, già esponente della Lega nazionale per la democrazia, e Kyaw Min Yu (noto come Ko Jimmy), attivista per i diritti umani, sono stati condannati a morte ai sensi della Legge antiterrorismo per false accuse di attentati e finanziamento del terrorismo. Gli altri due condannati alla pena capitale, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, sono stati giudicati colpevoli dell’uccisione di un’informatrice della giunta militare. Le 112 organizzazioni per i diritti umani hanno sollecitato la comunità internazionale a premere sulle autorità militari di Myanmar affinché le quattro esecuzioni non abbiano luogo e sia posta fine alla massiccia repressione avviata dal colpo di stato del 1° febbraio 2021. Secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici, a partire da quella data sono state emesse almeno 114 condanne a morte. Le ultime esecuzioni in Myanmar risalgono alla fine degli anni Ottanta. Oggi a Roma, alle ore 12, Amnesty International e Birmania-Italia Insieme terranno un sit-in di fronte al ministero degli Affari esteri per chiedere che anche il governo italiano agisca per impedire le quattro esecuzioni e solleciti le autorità militari di Myanmar a porre termine alla repressione in atto da quasi un anno e mezzo.