“Quasi 55mila detenuti, quattromila in più della capienza” di Liana Milella La Repubblica, 20 giugno 2022 La relazione annuale del Garante al Parlamento. Oltre mille persone in cella con condanne a meno di un anno. Sono più di duemila le donne, venti con al seguito i figli. E 1.800 gli ergastolani. Nel 2022 nelle prigioni italiane 29 suicidi. Ecco gli ultimi dati del “pianeta” carceri, aggiornati a domenica 19 giugno 2022. Numeri che il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma illustra oggi, 20 giugno, in Senato, nella sua ultima relazione annuale, alla presenza delle ministre della Giustizia Marta Cartabia e dell’Interno Luciana Lamorgese. Ben 54.846 i detenuti nelle carceri italiane, con le consuete contraddizioni per via dell’alto numero di persone in attesa di giudizio: sono 35.184 i condannati in via definitiva. Alto anche il numero di detenuti cittadini stranieri: sono 17.184. Ma sono molti anche i carcerati che devono scontare condanne a solo uno o due anni. La tabella della durata della pena ci dice che il maggior numero di detenuti (11.480) deve scontare pene tra i 5 e i 10 anni. In attesa che il Parlamento sciolga il nodo dell’ergastolo ostativo va sottolineato poi il dato degli ergastolani: al momento sono 1.838. I detenuti oggi in carcere - I detenuti oggi in carcere sono 54.846, numero cui corrispondono 53.793 persone effettivamente presenti nelle prigioni italiane. Rispetto a una capienza effettiva di 50.883 detenuti. Dei 54.846 detenuti, 52.549 sono uomini e 2.297 donne. Con condanne a 1 o 2 anni - Delle 38.897 persone che si trovano in esecuzione penale, 1.319 sono in carcere per scontare una condanna a meno di un anno, e 2.473 per una condanna da uno a due anni. La durata della pena - I detenuti all’ergastolo sono 1.838; 2.600 quelli che superano i 20 anni di pena; tra i 10 e 20 anni di pena ce ne sono 6.829; ben 11.480 tra i 5 e i 10 anni; quelli condannati a pene tra i 3 e i 5 anni sono 8.536; mentre tra i 2 e i 3 anni 3.869. Italiani e stranieri - Sono 37.662 i detenuti italiani e 17.184 gli stranieri, di cui 14.570 extracomunitari e 2.614 comunitari. Detenuti definitivi e in attesa di giudizio - I detenuti definitivi sono 35.184, quelli in attesa di un primo giudizio 8.373, quelli già in fase di appello 3.673. Alta sicurezza e 41bis - I detenuti comuni sono 38.146. Quelli in “alta sicurezza” 9.506, quelli che si trovano al 41 bis invece 736. La Regione con più detenuti - La Regione con il maggior numero di detenuti è la Lombardia con 7.616 uomini e 364 donne, seguita dalla Campania con 6.401 uomini e 328 donne. Al terzo posto la Sicilia con 5.769 uomini e 198 donne. Al quarto il Lazio con 5.272 uomini e 405 donne. I suicidi in carcere - Nel corso del 2022 si sono verificati 29 suicidi, mentre 17 detenuti sono morti per cause ancora da accertare. Le detenute madri - Le detenute madri nelle carceri italiane al momento sono 19, con 20 figli al seguito. Rispettivamente 10 detenute in Campania con 10 figli; 3 in Piemonte con 3 figli; 2 in Lombardia con 2 figli; 2 in Puglia con 2 figli; una nel Lazio con 2 figli; 1 in Liguria con un figlio. Minori in carcere - A marzo di quest’anno si trovavano in carcere 89 italiani tra i 14 e i 17 anni; 128 tra i 18 e i 25 anni, mentre ci sono 67 stranieri detenuti tra i 14 e i 17; e 61 tra i 18 e i 25. Il carcere e il Covid - Il picco massimo è stato raggiunto il primo febbraio 2022 con 3.771 positivi, di cui 27 ospedalizzati, a fronte di 1.669 positivi tra il personale. Al 2 aprile scorso i positivi tra i detenuti erano 1.212, e 1.405 tra il personale. Reati minori, disagi e utilità delle pene: tre sfide per le carceri del futuro di Mauro Palma* La Stampa, 20 giugno 2022 Il Garante dei detenuti anticipa la sua relazione al Parlamento: “Le reti sociali dovrebbero intervenire prima del diritto penale”. Il disagio psichico è ben presente nel nostro sistema di detenzione: i numeri dei gesti autolesionistici e soprattutto dei suicidi - 29, a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare - dell’età e della fragilità, spesso già nota, degli autori di tali definitivi gesti sono un monito; ci interrogano non per attribuire colpe, ma per la doverosa riflessione su cosa apprendere per il futuro da queste imperscrutabili decisioni soggettive. L’analisi numerica del carcere pone tre riflessioni prioritarie che affiancano quelle più note dell’affollamento delle strutture, della inaccettabilità di molte di esse sia per chi vi è ristretto, sia per chi vi lavora ogni giorno, della loro inadeguatezza sul piano spaziale per una esecuzione penale costituzionalmente orientata. Le tre riflessioni riguardano in primo luogo l’accentuazione della presenza di minorità sociale in carcere: delle 54.786 persone registrate (a cui corrispondono 53.793 persone effettivamente presenti) e delle 38.897 che sono in esecuzione penale - essendo le altre prive di una sanzione definitiva - ben 1.319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2.473 per una condanna da uno a due anni. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa - e questa è la seconda riflessione - la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa “macchina” della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Ma sono anche vite che altri sistemi di regolazione sociale avrebbero dovuto intercettare prima che intervenisse il diritto penale, strumento duro, sussidiario e anche costoso che dovrebbe restringere il proprio intervento alle sole situazioni in cui altre modalità di intervento non sono riuscite. La terza riflessione riguarda, quindi, la responsabilità esterna, del territorio, che finisce con affidare al carcere le proprie contraddizioni determinando quella detenzione sociale - il termine è di Alessandro Margara - che il carcere non può risolvere. Resta l’obbligo per il Garante nazionale di segnalare la scarsità di supporto psicologico e psichiatrico nelle strutture detentive, la frammentarietà degli interventi quasi sempre di risposta a situazioni già evolute e scarsamente centrati sulla prevenzione e sulla continuità dialogica. Una scarsità e una frammentarietà che, nonostante la professionalità dei singoli operatori, finisce con incidere sulle tensioni interne, sul ricorso ampio a interventi farmacologici, sulla previsione di una incongrua modalità di “sorveglianza a vista” che, a volte svincolata dalla continuità medica, rischia di far ricadere impropriamente sul personale di Polizia penitenziaria una funzione e una responsabilità che non attengono alla sua formazione. Accanto, occorre osservare che non è possibile far ricadere questo problema sulle “Residenze per le misure di sicurezza” di natura psichiatrica, su cui spesso si concentra l’attenzione dell’informazione, perché ciò determinerebbe il rischio di strutture territoriali che avrebbero un carattere manicomiale in quanto contenitori di situazioni soggettive del tutto dissimili dal punto di vista giuridico e medico. Il Garante nazionale è ben consapevole dell’incompiutezza del percorso normativo e attuativo avviato con la legge che ha previsto tali Residenze. Certamente anche nel caso delle Rems alcuni numeri devono esser rivisti. Ma nella doppia direzione: quella di ridefinire la loro presenza nel territorio, insufficiente in alcune specifiche aree, e quella di valutare l’eccesso di ricorso a tale misura, anche in via provvisoria e per fatti reato di minore entità, che determina la conseguenza di non avere disponibilità per casi definitivi e il perpetuarsi di presenze in carcere di persone che non hanno titolo giuridico per restarvi e soprattutto avrebbero bisogno di tutt’altra attenzione. *Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, presenterà oggi alla presenza del capo dello Stato la relazione di cui pubblichiamo un estratto “In cella solo chi ha commesso reati gravi, fuori chi deve scontare uno o due anni” di Liana Milella La Repubblica, 20 giugno 2022 Oggi in Senato la relazione sui fatti del 2021, da Santa Maria Capua Vetere a Torino. Il Garante Mauro Palma lancia due sfide: basta rispedire in Egitto i migranti dopo i casi Regeni e Zaki. E no alla detenzione se sono trascorsi troppi anni dal fatto. Dubbi anche sul nuovo testo dell’ergastolo ostativo, passato alla Camera e oggi a Palazzo Madama. “Oggi in carcere, in Italia, ci sono 54.846 persone. Per me ce ne potrebbero essere solo non più di 40mila. Non sono buonista, ma la verità è che per un gran numero di loro stare dentro la cella non serve né a loro, né tantomeno alla sicurezza del Paese”. Il Garante dei detenuti e dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma, nominato nel 2016, è arrivato alla sua ultima relazione al Parlamento che si terrà stamattina al Senato, alle 11, davanti al presidente Sergio Mattarella. Repubblica l’ha letta in anteprima e accende i riflettori su due criticità del sistema: “Le pene molto brevi scontate in carcere sono solo una sottrazione di tempo vitale”, e le pene “scontate dopo molti anni dal fatto, che interrompono spesso vite ormai incamminate sulla via del reinserimento sociale”. Palma, matematico e giurista, ha presieduto per anni a Strasburgo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e il Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale. Allora Palma lei ha messo in piedi, in sei anni, un ufficio che adesso pesa nelle carceri, sui migranti, e sulle (controverse) residenze psichiatriche. Però le stime elettorali fanno prevedere una possibile vittoria del centrodestra alle prossime elezioni. I suoi sforzi non rischiano di finire in mare? “Sia chiaro che il mio lavoro non è stato mai politicamente orientato e sui diritti fondamentali delle persone, sia di chi sta dentro, sia di chi nella collettività chiede sicurezza, credo ci possa essere una convergenza affinché il nostro sistema abbia certezze sulla pena, ma anche sulla sua intrinseca umanità”. Già sento le critiche di chi sostiene che anche il ladruncolo deve stare in galera... “È giusto che abbia consapevolezza di ciò che ha commesso e del danno provocato alla vittima, perché è un valore in sé riconoscere che quanto commesso è stato un male. Ma su come far acquisire tale consapevolezza alla persona, non è certo detto che tenerla chiusa in carcere sia la strategia migliore”. Insomma, lei vorrebbe un carcere molto meno affollato di oggi? “Va riservato a chi ha commesso reati veramente gravi. Penso a quelli contro la persona, come aver picchiato una donna. Ma anche reati contro i beni pubblici, e certamente tutti quelli che fanno capo alle mafie. Però adesso guardiamo i numeri: in carcere ci sono 3.800 persone condannate a meno di due anni e di queste 1.317 a meno di un anno. La mia domanda è: quale reato grave possono aver mai commesso? E quale programma di rieducazione si può costruire in un tempo così breve, e per giunta in un carcere molto affollato. Per loro è solo un tempo sottratto che li riporterà alla stessa situazione di prima, con forte rischio di recidiva. Ecco perché dico che per la sicurezza della collettività servirebbe una soluzione diversa”. Ma lei s’immagina la reazione di Salvini, della Bongiorno, della Meloni quando leggeranno queste parole? “M’immagino che siano sostanzialmente d’accordo. E che insieme si possa anche far cambiare quel senso comune, a volte un po’ di pancia, che può portare tante volte ad affermazioni che sembrerebbero sostenere il contrario”. Dica la verità, lei sul carcere ha una posizione “buonista” come la Guardasigilli Marta Cartabia e quella sua insistente idea della giustizia riparativa... “Non sono buonista neppure per carattere. Non penso neppure che lo sia la ministra. Ma soprattutto non credo che un’idea corretta di giustizia riparativa appartenga alla linea del buonismo. Io parlo sempre di giustizia “ricostruttiva”, cioè quella capacità di rendere giustizia alla vittima e alla collettività, attraverso un percorso che l’autore di un reato deve compiere. E che può anche partire dalla privazione della libertà, e che in certe situazioni deve farlo, ma che deve sempre avere come scopo un recupero positivo verso la collettività, e non una semplice retribuzione di sofferenza rispetto alla sofferenza causata”. È per questo che lei propone di non mandare in carcere chi ha commesso reati anche gravi molti anni addietro? Si riferisce ad alcuni protagonisti della lotta armata arrestati l’anno scorso in Francia e in attesa di estradizione? “Io parlo in generale. È giusto che chi ha commesso reati gravi risponda alla giustizia. Ma è altrettanto giusto che il modo per rispondere abbia una caratteristica in positivo. Penso ad azioni da compiere e alla valutazione di quanto, può darsi, sia già stato compiuto. Non penso invece che sia utile interrompere dei percorsi già in atto per cominciare dopo molti anni una pretesa rieducativa”. Ma lei ha presente le reazioni riassumibili in un “finalmente” delle famiglie delle vittime quando Cartabia ha annunciato che gli allora terroristi sarebbero tornati in Italia dopo quasi 40 anni? “Sono reazioni che meritano rispetto. Va comunque capito quale possa essere il segno di un’eventuale detenzione iniziata 40 anni dopo per persone ormai anziane nel solco di quella finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene”. Un avvocato come Franco Coppi racconta di star trattando in Cassazione un processo per omicidio compiuto 26 anni fa. Ma la ministra Cartabia, con la contestata norma sulla improcedibilità, potrebbe sveltire i processi, anche a rischio che finiscano nel nulla... “L’esito sarà un doveroso recupero della sensatezza del tempo. La durata del processo e la finalità delle pene sono legate tra di loro, mettere in carcere una persona dopo molti anni, come se fosse la stessa del momento in cui ha commesso il reato, è una scelta rischiosa e spesso sbagliata perché la rapidità attuale dei mutamenti del tempo cambiano anche la persona. Per questo è giusto, che pur con le dovute garanzie, si arrivi rapidamente a definire i fatti e le responsabilità e si vada all’esecuzione della pena”. Lei insiste sul “tempo”, è un leit motiv della sua relazione. Come quando si arrabbia per il processo rinviato al luglio 2023 per le violenze nel carcere di Torino... “Certo che mi arrabbio. Per due motivi. Innanzitutto per il mancato segnale sulla gravità dei fatti che implicitamente il rinvio porta con sé e poi perché persone imputate di reati così gravi hanno diritto a che si accerti con rapidità se sono effettivamente responsabili”. Questo vale anche per i gravissimi fatti di Santa Maria Capua Vetere? “Siamo già a due anni dai fatti e a un anno dal segnale forte inviato da Draghi e da Cartabia con la visita a Santa Maria. L’indagine è complessa e molti sono gli indagati. Quindi in questo caso i tempi più lunghi sono comprensibili. Ma l’essenziale è che si diano chiari segni di svolta in quell’istituto, e devo dire che in proposito sono abbastanza ottimista”. Mi pare invece che non lo sia affatto per i rimpatri forzati in Egitto, un paese che figura al terzo posto nelle classifiche mondiali per le condanne a morte, ma soprattutto che ha sulla coscienza la morte violenta di Regeni, nonché la lunga carcerazione di Zaki... “Le mie perplessità sono quelle che lei dice. La volontà di non collaborare nel processo Regeni è lampante, così come i continui rinvii che ha avuto a suo tempo la carcerazione di Patrick Zaki ci fa guardare con una certa apprensione all’udienza che si sta per tenere a Mansoura. Alla ministra Lamorgese dico che l’affidabilità di un Paese non è certificata una volta per tutte da un antico trattato di collaborazione, ma va verificata nel suo mutare nel corso del tempo, e proprio questo mi sembra essere il caso egiziano”. Ancora il “tempo”, protagonista delle sue riflessioni. E anche di una delle tante leggi mancate, quella sull’ergastolo ostativo. Dalla sentenza della Consulta è passato un anno, adesso il Senato ha avuto altri sei mesi, che sono già diventati poco più di quattro. Ma come per il fine vita ci sono poche speranze di farcela. L’argomento è divisivo. Lei da che parte sta? “Guardiamo i numeri. Oggi all’ergastolo ci sono 1.838 detenuti. Due terzi sono “ostativi”, e cioè la loro liberazione condizionale dopo 26 anni può essere esaminata solo se collaborano. Per la Corte quest’unico criterio è incostituzionale. Molti ergastolani vivono in un tempo “sospeso”. Trovo che il testo della Camera, pur votato da tutti, renderà più difficile la decisione del magistrato. Sono davvero troppi i parametri previsti, e trovo poco comprensibile spostare da 26 a 30 anni la soglia di pena scontata per poter presentare la richiesta”. È buonista pure con gli ergastolani? “Assolutamente no, sono molto rigoroso, ma rigore e diritti devono camminare assieme”. “Solo chi ha visto il carcere dovrebbe decidere sul carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 giugno 2022 “Non si può continuare a pensare al carcere come un luogo in cui si spediscono gli autori di reato per farli sparire per un po’ dalla circolazione, pensando così di proteggere efficacemente la società”. Il professor Francesco Viganò, giudice della Corte Costituzionale dal 2018, ha redatto alcune delle più importanti decisioni della Consulta degli ultimi anni. Dalla nota sentenza 18/2022 con cui è stata dichiarata illegittima la censura sulla corrispondenza del detenuto in 41 bis con il difensore alla 22/2022 che ha ammonito il legislatore affinché elabori al più presto una legge per superare le criticità dell’attuale sistema delle Rems. Dalla 150 del 2021 che ha ritenuto incostituzionale l’obbligo del carcere per punire il reato di diffamazione a mezzo stampa alla 260 del 2020 per cui l’esclusione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo non è irragionevole né arbitraria. Con lui oggi ragioniamo di carcere ed esecuzione penale. Cosa le ha lasciato il recente incontro avuto con detenuti e detenenti al carcere di San Gimignano? Ogni visita in carcere mi lascia, più di ogni altra cosa, il ricordo degli sguardi delle persone che incontro. Dei detenuti, ma anche degli agenti, degli educatori, dei volontari, e naturalmente dei direttori e dei comandanti. Il carcere è una comunità chiusa, e tutti coloro che ne fanno parte hanno un grande bisogno di parlare, di trovare qualcuno che ascolti i loro bisogni, i loro problemi, le loro ansie quotidiane. Passare del tempo con loro crea sempre dei canali di umanità e di empatia anche in una realtà difficile come quella del carcere. Ed è fondamentale, io credo, che le istituzioni nel loro complesso dedichino più attenzione a tutti i protagonisti di quella comunità: non dimenticando gli agenti della polizia penitenziaria, che sono pur sempre in prima linea nella gestione dei problemi del carcere. San Gimignano, poi, è un carcere complicato, anche perché popolato da condannati a lunghe pene detentive, a volte ergastolani, per lo più in regime ostativo. Ripetere, in quel contesto, ciò che la Corte ha scritto nelle proprie sentenze - e cioè che la Costituzione scommette sul cambiamento, qualunque sia il reato che sia stato commesso, foss’anche il più orribile - è lì più difficile che altrove, dal momento che le prospettive di uscire dal carcere sono oggi, per quei detenuti, drammaticamente limitate. Luigi Manconi ha parlato del ‘paradigma bidet’: ‘come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico?’. Di cosa ha bisogno il carcere ora affinché possa concretizzarsi l’art. 27 della Costituzione? Ha bisogno, prima di tutto, di molta più cura da parte dell’opinione pubblica e della politica, e ha bisogno di maggiori investimenti. Non si può continuare a pensare al carcere come un luogo in cui si spediscono gli autori di reato per farli sparire per un po’ dalla circolazione, pensando così di proteggere efficacemente la società. Perché quelle persone, prima o poi, usciranno e ricominceranno a minacciare la società attraverso i loro reati. Per spezzare il circolo, occorrerebbe credere molto di più nel grande progetto di rieducazione disegnato dalla Costituzione: immaginando e realizzando carceri non solo provviste dei servizi igienici indispensabili, ma in generale più rispettose della dignità umana di ogni detenuto e capaci di offrire percorsi reali di cambiamento. Carceri più “aperte”. Perché se questi percorsi non possono che iniziare dentro il carcere, attraverso lo studio, lo sport, il teatro, il lavoro intramurario, devono poi necessariamente svilupparsi al di fuori delle sue mura, per accompagnare il condannato - con gradualità e prudenza - all’interno della società. Assicurandogli, soprattutto, adeguate opportunità lavorative, anche dopo che la pena sia stata interamente eseguita. È sottovalutato il problema dei detenuti con malattie psichiatriche e quello dei suicidi? In ogni nostro incontro nelle carceri il tema dei detenuti con disagio psichico viene sempre indicato come uno dei problemi più difficili da gestire per l’amministrazione e, naturalmente, per la polizia penitenziaria. E il dramma dei suicidi - dei troppi suicidi che continuano a verificarsi nelle carceri italiane - non è che la punta di un iceberg, in questo contesto. Nella recente sentenza sulle REMS, la Corte costituzionale ha ribadito, all’unisono con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che le persone affette da patologie psichiatriche non devono stare in carcere. La loro collocazione in carcere lede i loro diritti fondamentali, traducendosi in un trattamento inumano e degradante, e assieme crea enormi difficoltà per la polizia penitenziaria e gli altri detenuti. Se una persona che ha commesso un fatto di reato soffre di un disagio psichico ed è al tempo stesso pericolosa per la collettività, il suo posto non è il carcere, ma una struttura in grado di avviare un serio percorso terapeutico, contenendone al tempo stesso la pericolosità. Ma, anche qui, occorre che la società divenga consapevole della necessità di investire adeguate risorse, umane e finanziarie, per affrontare questo problema. Se necessario - come ha sottolineato ancora la Corte - anche realizzando nuove REMS, le cui attuali disponibilità di posti sono enormemente inferiori rispetto al numero delle persone che vi sono state teoricamente assegnate in base ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Nel 2011 il professor Marco Ruotolo ricordò: “A quanto mi consta Valerio Onida è stato il primo ad avvalersi della facoltà riservata ai giudici costituzionali di visitare, senza necessità di autorizzazione, gli istituti penitenziari”. Condivide l’idea per cui chi deve decidere delle vite dei detenuti, a partire dai magistrati di sorveglianza, dovrebbe trascorrere sempre più tempo dei luoghi di privazione della libertà? Certamente. Solo chi ha visto il carcere dovrebbe decidere sul carcere. Anche per questo la Corte costituzionale ha sentito il bisogno di intraprendere un viaggio nelle carceri italiane: non una passerella ma un incontro vero con questa realtà, che fosse uno scambio di conoscenze ed esperienze. Tutto il Viaggio è documentato sul sito della Corte, tappa per tappa e in modo dettagliato, e in parte anche da un film prodotto dalla RAI. Da lì poi sono nati altri incontri che in molti di noi hanno continuato a compiere. Io stesso, dopo l’intensa visita a Marassi documentata nel film, sono stato a Torino, a Milano, e ora - dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia - a San Gimignano. Più in generale, ho sempre pensato che chi si occupa di diritto penale, a ogni livello, dovrebbe conoscere a fondo la normativa e la prassi penitenziaria, e avere un’idea precisa di come si vive quotidianamente nelle carceri. Per questo sono un convinto sostenitore dell’idea che i magistrati in formazione trascorrano un periodo del loro tirocinio in carcere, avendo contatti diretti con i detenuti, ma anche con l’amministrazione, con gli agenti di polizia, con i formatori, con i volontari. Mandare una persona in prigione, e stabilire quanto debba essere lunga la sua pena, è una grande responsabilità, che richiede piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni. Carmelo Musumeci da due mesi, dopo 27 anni di carcere, è finalmente libero. In una intervista ci ha detto: ‘se sai che devi morire in carcere, non metti un calendario sulla parete come gli altri detenuti. Desideri solo che ti venga applicata la pena di morte’. Anche il Papa aveva parlato dell’ergastolo come di ‘pena di morte nascosta’. Ma già Anton Cechov nel 1890 scriveva che ‘la pena capitale, sia in Europa che da noi, non è stata abolita, bensì camuffata sotto altre vesti, meno scandalose per la sensibilità umana’. Pensa che abbiano ragione? Diciamo anzitutto che l’ergastolo è, oggi, ritenuto compatibile con la Costituzione - e con l’art. 3 della Convenzione europea - solo a condizione che ci siano concrete possibilità per il condannato di ottenere la liberazione condizionale dopo un congruo periodo di espiazione della pena. Una pena detentiva senza questa prospettiva sarebbe frontalmente contraria alla dignità umana, e per questo illegittima: lo ha da ultimo affermato a chiare lettere, nel panorama internazionale, anche una bella sentenza della Corte Suprema canadese del marzo scorso. Ciò posto, credo che la sfida reale per l’ordinamento italiano sia quella di assicurare effettività alla prospettiva di uscire dal carcere per gli ergastolani, attraverso un percorso graduale che passi attraverso i permessi premio, il lavoro all’esterno, la semilibertà, e infine sfoci nella liberazione condizionale. Le relazioni del Garante ci restituiscono purtroppo un quadro in cui questo obiettivo è troppo spesso estremamente difficile da raggiungere per gli ergastolani: anche per quelli non ‘ostativi’. Occorre interrogarsi sulle cause di tutto ciò, e lavorare perché il diritto alla speranza non si riduca a una mera proclamazione di principio. In una recente intervista al Dubbio abbiamo discusso con il professor Fiandaca di abolizione del carcere. Per lui occorre ‘promuovere forme di pedagogia collettiva che pongano e diffondano le basi culturali per una drastica riduzione dell’utilizzo del carcere, spiegando alla maggioranza dei cittadini che il carcere quasi mai è la medicina e che in non pochi casi funziona come un veleno e che perciò può risultare non solo inutile ma anche controproducente’. Che ne pensa? Purtroppo, credo che si dovrà ancora convivere molto tempo con il carcere. Chi critica la pena detentiva - con mille ragioni, intendiamoci - non sempre si fa carico dell’onere di indicare precise alternative in grado di tutelare efficacemente la società contro la pericolosità espressa, in particolare, da talune categorie di condannati, per i quali è difficile pensare ad una radicale rinuncia allo strumento della privazione della libertà personale. La grande sfida, allora, è quella di lavorare per rendere più efficiente il carcere rispetto alla finalità di risocializzazione e quindi di riduzione della recidiva, minimizzandone al tempo stesso gli effetti negativi sulla persona. Il che passa per un’idea di carcere completamente diversa da quella oggi dominante, ma che già i Costituenti avevano già tracciato nell’art. 27, con un’intuizione allora rivoluzionaria rispetto al panorama delle costituzioni nazionali contemporanee. E al tempo stesso occorrerebbe investire, con coraggio e fantasia, su percorsi esecutivi sin dall’inizio alternativi al carcere, per tutta una fascia di reati di bassa e media gravità. Percorsi che sarebbero certamente più efficaci in termini di prevenzione della recidiva, e assieme meno gravosi per le finanze pubbliche. Secondo Erving Goffman le caserme e le carceri sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica. Conosciamo i fatti accaduti in molte carceri. La giustizia sta facendo il suo percorso. Cosa bisognerebbe fare affinché certi episodi non si ripetano? Sarebbe d’accordo a porre un codice identificativo sugli strumenti utilizzati dagli agenti penitenziari? Per fortuna, nell’ordinamento italiano le carceri non sono sottratte al controllo dell’opinione pubblica, principalmente grazie al lavoro svolto dal Garante nazionale e dai Garanti regionali, oltre che all’impegno dei volontari e degli stessi avvocati che meritoriamente si occupano sempre più della difesa dei diritti dei detenuti, compresi i condannati in via definitiva. Inoltre, sempre più spesso accade che la magistratura reagisca con prontezza ed efficacia agli abusi di potere commessi in carcere. Ma a me pare che nell’ottica di una migliore prevenzione di simili episodi - che letteralmente violentano la Costituzione - sia soprattutto necessaria un’opera di formazione dell’amministrazione e della polizia penitenziaria. Non solo per diffondere in modo più capillare una cultura dei diritti e del rispetto della dignità dei detenuti; ma anche nel senso di una formazione sulle best practices relative alla gestione di situazioni critiche all’interno del carcere, incluse quelle in cui non può essere evitato un uso proporzionato della forza fisica. Il concetto di giustizia riparativa è praticamente sconosciuto nella nostra cultura, improntata più alla vendetta semmai. Eppure la Ministra Cartabia ha più volte ripetuto: “La giustizia riparativa può diventare il pilastro della giustizia di domani”. Crede che il nostro Paese sia culturalmente pronto ad accettare questo importante cambio di paradigma? Mentre sono scettico, come dicevo, sulla possibilità di un superamento del carcere a breve o medio termine, sono molto più ottimista sulle prospettive di un maggiore ricorso alla giustizia riparativa, di cui oggi finalmente si parla intensamente nel dibattito pubblico sulla pena. Ma su questo punto bisogna essere chiari: la giustizia riparativa presuppone il coinvolgimento delle vittime, assieme ai rei, nel processo di risanamento della ferita provocata dal reato. Il che impone anche alla dottrina penalistica e processual-penalistica, così come all’avvocatura, un ripensamento profondo sul ruolo della vittima nell’orizzonte della penalità e dello stesso processo penale. Nel suo ultimo saggio “Giustizia mediatica - Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”, il professor Vittorio Manes scrive, prendendo in prestito una definizione di Filippo Sgubbi, che la vittima è “l’eroe moderno, ormai santificato”, istituita come tale “ante iudicium, ma anche fortemente protagonizzata a scapito del presunto reo”. Condivide questo suo pensiero? Non c’è dubbio che la discussione politica tenda a privilegiare le istanze di tutela della vittima su quelle dell’imputato e poi del condannato, con effetti distorsivi che la dottrina ben conosce e da tempo denuncia. Ma bisogna guardarsi dal demonizzare le giuste aspirazioni delle vittime del reato, che non sempre cercano vendetta, ma - questo sì - pretendono di essere ascoltate e di essere aiutate a superare la sofferenza provocata dal reato. La stessa Corte costituzionale ha più volte riconosciuto che il processo penale ha un particolare significato per le vittime del reato, che hanno il diritto di parteciparvi in modo attivo e informato; e ha altresì sottolineato, proprio nella sentenza sulle Rems, come l’ordinamento abbia un preciso dovere di tutelare i diritti fondamentali delle potenziali vittime dei reati che autori di reato pericolosi potrebbero nuovamente commettere. Ma anche la giustizia riparativa, cui Lei faceva cenno poc’anzi, presuppone un percorso che prenda sul serio il dolore della vittima, e che la coinvolga assieme all’autore verso un esito diverso, e in definitiva più utile per l’intera collettività, dalla mera vendetta. Bambini in carcere: una proposta di legge che potrebbe cambiare le cose di Giusy Santella mardeisargassi.it, 20 giugno 2022 Mai più un bambino potrà varcare la soglia del carcere: è questo il principio da cui nasce la proposta di legge approvata alla Camera poche settimane fa, a firma del deputato del PD Paolo Siani con l’intento di evitare la permanenza dei bambini - in particolare di quelli tra 0 e 6 anni - negli istituti di pena con le loro madri. Se la proposta passerà anche il vaglio del Senato, risulterà generalmente vietata la custodia cautelare per le donne incinte e le madri con prole di età inferiore ai 6 anni e, nel caso in cui le esigenze cautelari risultino di eccezionale rilevanza, bisognerà ricorrere a case-famiglia protette oppure a Icam. Questi ultimi sono istituti a custodia attenuata per detenute madri, in cui le esigenze cosiddette punitive risultano in qualche modo subordinate all’interesse e al benessere fisico e psicologico dei minori. Tuttavia tali strutture sono comunque luoghi assimilabili agli istituti di pena e di gestione dell’amministrazione penitenziaria, per cui la soluzione da prediligere è - anche in base alla proposta di legge - quella delle case-famiglia protette, che consentono anche a chi non ha un alloggio adeguato di scontare una misura alternativa alla detenzione. Avevamo già avuto modo di occuparci di queste ultime lo scorso anno, quando era stato approvato il finanziamento finalizzato alla loro implementazione ma, da allora, si può dire che nessun passo in avanti è stato fatto poiché nessuna Regione ha utilizzato le risorse assegnatele e le case-famiglia sono rimaste sostanzialmente due, nei territori di Roma e Milano, continuando a prediligere un modello punitivo di esecuzione della pena. Il carcere non è infatti un luogo per nulla adatto all’educazione di un minore poiché si vive una realtà di segregazione ed esclusione sociale e, da un punto di vista fisico, si rischia di incorrere in patologie e indebolimento dei cinque sensi. Per quanto riguarda invece le condanne definitive, l’articolo 146 del Codice Penale viene modificato nel senso di innalzare a 3 anni l’età dei figli nel caso di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. A queste ipotesi di incompatibilità assoluta, si aggiungono poi quelle di rinvio facoltativo della pena, per le quali l’età si innalza dai 3 ai 6 anni. Quella dei bambini in carcere è una triste storia tutta italiana, che racconta di figli che scontano pene per reati mai commessi. Eppure le alternative sono possibili e anche di non difficile attuazione, come ci ha dimostrato la pandemia: in base al Rapporto dell’Associazione Antigone, dopo le vette raggiunte all’inizio degli anni 2000, quando si contavano circa settanta bambini tra le sbarre, nel 2020 si era giunti a una cifra, non meno preoccupante, di cinquanta unità, ridotte - stando ai dati del 31 maggio - fino a diciotto. Dunque, le possibilità esistono, ed esistevano anche prima dell’ultima proposta di legge: ciò che manca è la volontà politica di attuarle, condannando poveri innocenti a una non-infanzia. Non è infatti la prima volta che vengono introdotte norme finalizzate a tutelare il rapporto tra madri detenute e minori. Se fino al 2001 alle madri era stata lasciata la sola facoltà di portare con sé in carcere bambini fino ai 6 anni, con la Legge Finocchiaro fu introdotta la detenzione domiciliare speciale per le detenute madri. Tuttavia, essa era soggetta a una serie di limiti stringenti e spesso le condizioni abitative non erano considerate adeguate dal giudice. Dunque fu concessa in pochissimi casi, anche perché la legge prevedeva che, non solo non doveva sussistere il pericolo della commissione di ulteriori delitti, ma che dovesse permettere il ripristino della convivenza con i figli all’esterno. Con la legge numero 62 del 2011, a firma di Enrico Buemi, furono finalmente introdotte le case-famiglia protette, senza però prevedere risorse a loro sostegno. La loro costruzione, infatti, sarebbe dovuta avvenire senza oneri a carico dello Stato e lasciando tutto nelle mani degli enti locali. Tale vincolo è stato finalmente eliminato dalla legge da ultimo approvata dalla Camera, ma non si può cantare vittoria così in fretta. Non solo l’iter legislativo non è concluso, ma vanno necessariamente fatte diverse puntualizzazioni: tale proposta di legge è sicuramente un buon punto di partenza, ma non si può verosimilmente pensare che, dalla sua approvazione, i bambini non entreranno più in carcere. Non si può infatti ignorare che un’attenta analisi normativa ci rivela molteplici possibilità che ciò non avvenga e che la mancanza assoluta di bambini in carcere deve essere piuttosto un principio cui tendere, costruendolo per il futuro. Ulteriori passi in avanti devono necessariamente consistere in interventi preventivi finalizzati a ridurre al minimo i disagi sociali ed economici, oltre che a tutelare, anche per chi si trovi ristretto, il fondamentale diritto all’affettività. Stando agli ultimi dati diffusi da Antigone, nel 35% degli istituti visitati, non esistono i cosiddetti spazi verdi in cui poter incontrare i figli, o poter svolgere colloqui avendo almeno l’illusione di non essere in carcere per qualche istante. La cura dei legami familiari è un importantissimo elemento di trattamento penitenziario, non solo perché rende la pena umana, ma soprattutto perché proietta il recluso all’esterno, accompagnandolo in quell’oramai rarissimo percorso di risocializzazione stabilito dalla Costituzione. Gli italiani non credono più nella giustizia: crolla la fiducia nelle toghe di Simona Musco Il Dubbio, 20 giugno 2022 Rapporto Eurispes. Per due cittadini su tre il sistema giudiziario non funziona. I mali principali? La lentezza dei processi e una legge che non è affatto uguale per tutti. Sempre più giù. Il livello di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia è ai minimi storici. E chi pensa che i cittadini siano poco interessanti ai temi toccati dal referendum del 12 giugno, al netto dei risultati, probabilmente non ha un quadro chiaro della situazione. Perché se c’è una cosa sicura, almeno a guardare la fotografia scattata dal 34esimo rapporto Eurispes, è che una rivoluzione nel campo della giustizia al Paese non dispiacerebbe. Il rapporto è chiarissimo nella sua collezione di numeri e dati: due italiani su tre non sono soddisfatti del sistema giudiziario italiano. I numeri sono sconfortanti: il 20,6% degli intervistati esprime un giudizio totalmente negativo, dichiarando di non avere per niente fiducia nella giustizia italiana. Ne ha poca, invece, il 45,3%, abbastanza il 28,2% e molta solo il 5,9%. Il dato più drammatico, però, riguarda l’identikit del cittadino disilluso: non solo adulti ormai inseriti nel mondo del lavoro e avvezzi a scandali come quello del caso Palamara o casi di malagiustizia storici, bensì giovani, soprattutto di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Ovvero coloro che rappresentano il futuro del Paese. In questa fascia “critica”, infatti, si trovano coloro che hanno poca (50,9%) o nessuna (22,4%) fiducia nella giustizia, giudizio negativo che va via via mitigandosi nelle fasce di età superiori, collocando i più fiduciosi tra coloro che hanno un’età compresa tra i 45 e i 65 anni. Una delle conseguenze più immediate è che se la fiducia scarseggia pensare di affidarsi alla giustizia sembra quasi una sciocchezza. Così più di un cittadino su quattro - il 27,3 per cento - preferisce non denunciare reati o illeciti. Il che non consente nemmeno di stilare statistiche affidabili sull’andamento dei reati nel nostro Paese. Ma perché tanta riluttanza? L’11% confessa che i fastidi di un procedimento legale sono superiori ai vantaggi che potrebbe ottenere denunciando, il 10,1% dichiara di aver desistito dall’intento per non dover sostenere spese legali e il 6,2% perché sfiduciato nei confronti della giustizia. La sfiducia ha una gradazione diversa a seconda delle convinzioni politiche. I più disillusi sono coloro che non si sentono rappresentati da alcun partito (73,4%), ma la vera sorpresa è che anche gli elettori del Movimento 5 Stelle - partito iper giustizialista e da sempre idolatrante le toghe, a prescindere dai risultati - nutrono poca fiducia nel sistema, ovvero il 69,7%. Diffidenti anche gli elettori di sinistra (66,8%), mentre la diffidenza cala tra i sostenitori del centro (61,7%), della destra (58,9%), del centro-destra (57,5%) e del centro-sinistra (51,6%). A creare questa crepa tra cittadino e giustizia è soprattutto la lentezza cronica dei processi, lentezza sulla quale l’Europa ha puntato un faro, tant’è che i fondi del Pnrr sono legati a doppio filo alla capacità delle riforme in atto di ridurre i tempi elefantiaci della giustizia italiana. Le lungaggini sono al primo posto in classifica per il 23% degli intervistati. Per il 19,8%, invece, il problema è un altro: a non convincere è che la legge sia uguale per tutti, lamentando, dunque, privilegi e ingiustizie a seconda di chi finisce nelle maglie della giustizia. Per il 13,6% il problema è nell’assenza di certezza della pena, mentre per l’11,9% le cause sono da ricercare nelle scelte sbagliate operate dai magistrati. L’11,6%, infine, sostiene che siano le leggi ad essere inadeguate. Solo l’8% è invece convinto che la giustizia in Italia funzioni bene. I temi del referendum vengono sfiorati nel capitolo che riguarda la responsabilità dei giudici e compiti della giustizia. Secondo l’80,2% dei cittadini intervistati, i giudici dovrebbero essere giudicati con lo stesso sistema applicato a tutti i cittadini, affermazione che fa venire in mente il quesito - bocciato dalla Consulta - sulla responsabilità civile delle toghe. A sostenere il contrario è il 19,8%. Il che fa pensare che se tale domanda fosse stata ritenuta ammissibile dal giudice delle leggi, forse gli italiani si sarebbero precipitati a votare in massa. Per il 78,2% il primo compito della giustizia è garantire una pena adeguata per chi ha sbagliato, mentre al secondo posto, con il 60,5%, si piazza il recupero ed il reinserimento sociale di coloro che sono stati condannati per gli errori commessi - che vede contrario il 39,5% degli intervistati. Ma la sfiducia nel sistema giustizia è visibile anche nella convinzione manifestata dal 57,8% degli intervistati - secondo cui l’azione dei giudici sarebbe condizionata dall’appartenenza politica (è poco d’accordo con questa posizione il 31,1% e non lo è affatto l’11,1%). Ma qual è la visione che gli italiani hanno della pena e delle sanzioni alternative? Il 29,5% afferma di non volere che coloro che si sono macchiati di colpe gravi abbiano l’opportunità di usufruire di misure alternative al carcere, come arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, eccetera, il 27,3% è favorevole all’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi, il 24,7% si schiera a favore dell’abolizione dell’ergastolo e “solo” il 15,8% si dice favorevole alla reintroduzione della pena di morte. Sono contrari all’abolizione dell’ergastolo soprattutto i cittadini di destra (82,7%) e quanti non si sentono politicamente rappresentati (82,9%). Di destra anche la maggior parte di quanti si dicono d’accordo con l’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi e dei provvedimenti alternativi alla detenzione per i reati più gravi. La possibilità di reintrodurre nel nostro ordinamento la pena di morte vede più consensi espressi dai cittadini di centro-destra (20,1%), seguiti dai 5 Stelle (19,7%) e da quelli di destra (19%). “I giovani vorrebbero una giustizia meno punitiva. Ma noi li respingiamo fuori dalla porta...” di Errico Novi Il Dubbio, 20 giugno 2022 Gian Maria Fara, presidente di Eurispes: il vostro ultimo Rapporto Italia, rivela una sfiducia profonda, persino una disillusione, degli italiani nei confronti della giustizia. È una disillusione che si aggiunge a quella nei confronti della politica e dei partiti, radicata da tempo. Sarebbe interessante capire se la sfiducia nei confronti della giustizia e della magistratura possa, se non altro, suscitare un ridimensionarsi dell’antipolitica, cioè un ripensamento dei giudizi negativi che, sulla politica, sono maturati negli ultimi trent’anni (da Mani pulite in poi) anche in seguito alle inchieste della magistratura. O se invece la prospettiva è semplicemente di trovarsi di fronte a una sfiducia nei confronti delle Istituzioni tout court, politiche o giudiziarie che siano… I “numeri” delle Amministrative e dei referendum di domenica scorsa, con quasi metà degli italiani che hanno disertato i seggi per l’elezione dei nuovi sindaci e poco più del 20% che si sono espressi sui quesiti sulla Giustizia, non fanno altro che rimarcare l’oramai consolidata distanza tra i cittadini e la politica. Ciò è particolarmente grave se si considera che la figura del Sindaco rappresenta (o dovrebbe rappresentare) un riferimento più vicino, maggiormente impattante sulla vita reale delle città. Per quello che riguarda il flop dei referendum, va però segnalato che il risultato, almeno in parte, potrebbe discendere non dalla sfiducia nella Magistratura e nella Giustizia (che comunque, dai risultati dell’ultima indagine dell’Eurispes, cresce), ma dal rifiuto di una “vendetta” della politica che molti hanno intravisto nella formulazione dei quesiti. Inoltre, i “no” ai quesiti sulla Severino e sulle misure cautelari, abbondantemente oltre il 40%, segnalano che molti italiani non mettono sullo stesso piano corrotti e criminali e magistrati. La prenderei un po’ “alla lontana”. Sarebbe errato ritenere che gli italiani siano particolarmente interessati ai temi della Giustizia che animano il dibattito e lo scontro politico. I cittadini non sono affascinati dalle polemiche sul garantismo ma, certamente, avviliti dalle lungaggini della giustizia civile e dalla farraginosità di quella penale, recentemente oggetto di una Ricerca dell’Eurispes realizzata in collaborazione con le Camere Penali Italiane, dalla quale sono emersi dati assolutamente sconfortanti. La Giustizia è un servizio essenziale ma, come tanti altri gangli della Pubblica amministrazione, l’efficacia delle sue prestazioni è spesso scarsa. Parlerei, dunque, di una più generale sfiducia: la stessa che investe la politica. Passando al tema della coesione sociale, è vero che il drammatico impatto del Covid-19 ha in parte rimescolato le carte. Le buone prestazioni offerte dal Sistema sanitario, la sostanziale tenuta sociale e la responsabilità della maggioranza dei cittadini, hanno fatto in parte riemergere il senso ed il valore della convivenza civile. L’Eurispes ha recentemente definito il Covid come una sorta di deus ex machina in grado di scompaginare, anche positivamente, uno scenario immobile. Il riemergere di elementi solidaristici, il grande ruolo del volontariato, l’evidenza delle fragilità individuali (sanitarie e sociali) che richiedono una dimensione di rinnovato “intervento pubblico”: tutti questi elementi, ai quali va aggiunto il rinverdirsi del progetto europeo, hanno fornito nuove energie a chi si batte per una stagione di rinnovato civismo e per una società più giusta e attenta al benessere di tutti i cittadini. Vorrei, a questo proposito, riproporre un concetto che ho espresso nelle Considerazioni generali che aprono il Rapporto Italia di quest’anno. Nel passaggio storico che stiamo vivendo, occorre operare per la costruzione di una “Buona Società”. Ciò significa, al di là di ogni possibile rigurgito o tentazione ideologica, agire per la identificazione e condivisione del punto di equilibro di una vera coesione sociale. Un nuovo patto sociale, dunque, che si basi sulla affermazione o, meglio, sulla riaffermazione di quei valori umani indicati dalla Costituzione italiana sui rapporti etico-sociali; valori esplicitati come diritti e doveri alla solidarietà, come responsabilità verso se stessi e gli altri, come apertura al merito. I vostri dati individuano fra i giovani la fascia di popolazione in cui le misure alternative alla detenzione trovano maggiori consensi, e che vede in modo più favorevole il superamento dell’ergastolo. Ma fino a che punto questo orientamento disegna un futuro “più garantista” per il nostro Paese? Quando si parla di giovani, va in primo luogo ricordato che in molti paesi occidentali, e soprattutto in Italia, sono una “merce rara”. Oggi nascono nel nostro Paese meno di un terzo dei bambini che nascevano negli anni Cinquanta e Sessanta. Siamo, conseguentemente, società assai invecchiate e la demografia degli anziani toglie potenzialità alle evoluzioni sociali e impedisce la produzione di un’idea di Futuro. I giovani sono “minoritari” e questo genera una “minorità politica”. E ciò è grave. Lo si riscontra anche dalle indagini dell’Eurispes che, come appena riportato, vedono i giovani orientati, ad esempio, verso una giustizia penale che non sia solo punitiva, verso misure alternative al carcere e alla depenalizzazione di determinati reati, orientati al superamento dell’ergastolo. Più in generale, alcuni diritti sociali e individuali che in Italia faticano ad affermarsi, avrebbero forse un iter più veloce se i giovani fossero più ascoltati. Sto pensando, ad esempio, allo ius culturae, per non parlare della loro maggiore consapevolezza sui problemi ambientali. Ma i giovani, noi, li respingiamo per un egoismo generazionale che li mantiene fuori dalla porta. Ed è difficile immaginare che il Next Generation Ue possa cambiare effettivamente il quadro di una questione che è soprattutto culturale. Giù le mani dai referendum, sono strumenti di democrazia di Franco Corleone L’Espresso, 20 giugno 2022 I cinque referendum sulla giustizia hanno realizzato la partecipazione più bassa nelle consultazioni referendarie e se non ci fosse stato il traino delle elezioni amministrative si sarebbe andati sotto il venti per cento. Il 12 giugno rimarrà una data storica, per la dimensione del non voto, non organizzato e non sollecitato come accadde con l’invito di Craxi in occasione del referendum sulla preferenza unica e l’ordine protervo del cardinale Ruini in occasione di quello sulla fecondazione assistita. Certamente è una drammatica conferma della crisi della politica e quindi della partecipazione. Di più. È il segno di uno scollamento delle istituzioni con il sentimento diffuso della società, civile o no che sia. Ricercare giustificazioni nella scarsa informazione, nel voto limitato a una sola giornata, nel disimpegno dei partiti e via cantando dà solo la misura della pochezza intellettuale dei promotori. Sono convinto che sia stata determinante la consapevolezza, che ha agito come un fiume carsico, di essere di fronte a una contraddizione sesquipedale. La Lega di Salvini, caratterizzata dalla bandiera del panpenalismo e dalla lotta allo Stato di diritto, si ergeva con la promozione dei referendum come alfiere della giustizia giusta. In politica, anche nella vita, le contraddizioni possono essere felici se producono un cambiamento nelle idee e nei comportamenti. Se invece della scoperta del garantismo, la Lega ha continuato a mostrare in questi mesi il volto feroce contro i diritti civili, a esercitare un volgare ostruzionismo in Parlamento contro le proposte relative a una mitigazione della legge criminogena sulle droghe, al diritto costituzionale alla affettività in carcere, allo ius scholae, a una norma umana sul fine vitae, non deve stupire il riflesso di puro buon senso di chi ha sentito il puzzo del gioco delle tre carte. E giustamente ha detto: io non ci sto. Questo esito catastrofico di Salvini rischia di provocare un danno collaterale tremendo. La convinzione cioè della sconfitta definitiva del referendum, di un istituto fondamentale per la legittimazione del potere. Questo esito è stato anticipato dalla decisione della Corte Costituzionale del febbraio 2022 di non ammettere al voto il referendum sulla mitigazione delle sanzioni previste dalla legge antidroga per la canapa e sull’eutanasia. La decisione rivendicata da Giuliano Amato, oltre che avere il sapore di natura tutta politica, è stata causata da un errore di lettura e interpretazione della legge Iervolino-Vassalli e da una violazione dell’art. 75 della Costituzione sulle materie vietate per i referendum, facendo prevalere un giudizio di costituzionalità del testo risultante dal voto popolare. Che fare dunque? Riprendere subito la campagna per la raccolta delle firme per referendum che appassionino uomini e donne, i giovani esclusi dalle decisioni per far sentire i cittadini protagonisti nelle scelte decisive per la vita. Il Governo deve mantenere la parola e garantire una piattaforma per raccogliere le firme senza farraginosità burocratiche. Soprattutto occorre riformulare la legge sui referendum per eliminare tanti lacci che limitano la presentazione dei referendum nell’anno prima e dopo le elezioni e soprattutto prevedere che i referendum si possano svolgere contestualmente alle elezioni politiche. Infine è ineludibile un confronto politico e costituzionale sui poteri senza limiti che la Consulta si è attribuita negli anni per bocciare tanti referendum che avrebbero consentito di far trionfare una politica diversa. La Società della Ragione ha in programma a settembre un seminario con giuristi, militanti e politici proprio su questo tema. L’autogol dei referendum che lasciano il Paese in panne di Francesco Giubilei Il Giornale, 20 giugno 2022 Se le decisioni politiche errate sono una delle principali motivazioni per cui oggi ci troviamo in una situazione di crisi energetica, anche il giudizio dei cittadini italiani, quando sono stati interpellati su questi temi, non ha aiutato. Se le decisioni politiche errate sono una delle principali motivazioni per cui oggi ci troviamo in una situazione di crisi energetica (oltre ovviamente alla guerra in Ucraina), anche il giudizio dei cittadini italiani, quando sono stati interpellati su questi temi, non ha aiutato. Dalla fine degli anni Ottanta sono avvenuti una serie di referendum afferenti, più o meno direttamente, il settore energetico e il risultato delle consultazioni popolari si è rivelato, con il senno del poi, animato da una visione di corto respiro. Partendo dal presupposto che l’esito dei referendum va rispetto, torna in auge il dibattito se sia lecito interpellare i cittadini su tematiche con una forte valenza tecnica poiché, durante le campagne referendarie, prevale l’ideologia più che valutazioni oggettive sui pro e contro del voto. Così è avvenuto con i due referendum sul nucleare nel 1987 e nel 2011 il cui esito è stato influenzato dall’emotività suscitata da due tragedie come Cernobyl e Fukushima. Se nel 1987 i quesiti referendari chiedevano ai cittadini di esprimersi sull’“abrogazione dell’intervento statale se il Comune non concede un sito per la costruzione di una centrale nucleare” e sull’“esclusione della possibilità per l’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero”, nel 2011 il referendum si basava sull’“abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare”. In entrambi i casi si è raggiunto il quorum e si è espresso contro il nucleare rispettivamente l’80,6% e il 94,05% dei votanti. Sempre nel 2011 si è votato il referendum sull’“acqua pubblica”. Presentato come la privatizzazione dell’acqua, riguardava in realtà la rete idrica rimasta ad appannaggio degli enti pubblici con sprechi e scarsa manutenzione che incidono anche sulla dispersione idrica. Diverso l’esito del referendum del 2016 sullo stop alle trivelle che non ha raggiunto il quorum ma analoga la decisione di chi si è recato alle urne con l’85,84% a favore dell’abrogazione delle concessioni per trivellare. Eppure, il risultato dei referendum non dovrebbe stupirci: in Italia è particolarmente diffuso il fenomeno “nimby” (“Not In My Back Yard”, tradotto in italiano “Non nel mio cortile”) per cui un’opera necessaria per la collettività va bene purché non sia realizzata nei pressi di un territorio avvertito come vicino ai propri interessi. Lo stesso vale per l’energia; se vogliamo raggiungere l’indipendenza e fermare la crescita dei prezzi, è necessario il coraggio di assumere decisioni che nel breve periodo possono sembrare impopolari ma che in prospettiva si riveleranno vincenti dicendo basta al populismo energetico. Palermo. “Oltre al recupero dei detenuti bisogna dare lavoro alle loro famiglie” palermotoday.it, 20 giugno 2022 Il procuratore generale Lia Sava e il welfare mafioso: “Non basta mandare in carcere, dobbiamo sottrarre ai quartieri il consenso di Cosa nostra”. “Le stragi hanno letteralmente cambiato la mia vita, se non ci fossero state avrei proseguito il percorso da giudice civile scelto da ragazza. Invece ho pensato ci potesse essere un altro modo per dare una mano a quei colleghi arrivati in Sicilia da tante regioni d’Italia nel 1992. C’era questo grosso slancio, si capiva che eravamo in guerra, non avevamo neanche 30 anni e volevamo aiutare questo Paese ferito”. Così Lia Sava, da un mese e mezzo procuratrice generale di Palermo, originaria di Bari, racconta il clima del dopo stragi coinciso con il suo ingresso nella magistratura in un’intervista pubblicata sul sito del centro studi Pio La Torre. E sulle verità parziali dice: “Mancano dei pezzi che potrebbero riguardare i cosiddetti concorrenti esterni, cioè entità esterne a cosa nostra che potrebbero aver dato un ausilio alla realizzazione. Le sentenze del Capaci bis in Cassazione e quelle passate in giudicato del Borsellino quater hanno detto che ci sono ancora delle piste da esplorare. Le procure di Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria, Firenze dovranno cercare la verità a 360 gradi, sotto l’egida della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo voluta proprio da Falcone. Uno dei grandi collaboratori di giustizia, Antonino Giuffrè, riferendosi alla fase antecedente alle stragi parla di ‘tastata di puso’ (tastata di polso, ndr) cioè una sorta di sondaggio che cosa nostra farebbe tra favorevoli e contrari a un’esecuzione in determinati ambienti: si parla di servizi segreti e massoneria deviati, imprenditoria collusa con la mafia... In queste dichiarazioni generiche ci sono spunti per proseguire le indagini”. Nell’intervista sul sito www.piolatorre.it la procuratrice capo affronta vari temi, come il problema del pagamento del pizzo e il ritorno dell’abigeato: “Si paga ancora tanto e troppo, questo significa che nonostante l’impegno dei singoli e delle associazioni qualcosa non ha funzionato. Occorre far capire alle persone che se denunci lo Stato ti accompagna con una legislazione all’avanguardia e che lo Stato non lascia soli. E poi, oltre al recupero dei detenuti dobbiamo dare un lavoro alle loro famiglie, aiutare mogli e figli di quelli che arrestiamo, renderli autonomi, altrimenti si crea un legame perverso, malefico e fetido tra la mafia e quella famiglia. Non basta mandare in carcere, dobbiamo sottrarre ai quartieri il consenso della mafia. Il fenomeno dell’abigeato, cioè il furto di bestiame, che si pensava fosse scomparso, in effetti esiste tuttora e si è rafforzato dietro l’egida di cosa nostra. La crisi economica fa tornare in auge delle forme di approvvigionamento della ricchezza che la mafia non aveva accantonato, ma che adesso realizza in maniera più pregnante sfruttando la crisi” Udine. A settembre il cantiere per cambiare volto al carcere di Alessia Pilotto Il Gazzettino, 20 giugno 2022 Lavori al via a settembre, sei mesi di cantiere per avere poi 13 stanze nuove a disposizione. Un tempo che non va sprecato: per questo, il Garante dei diritti dei detenuti Franco Corleone ha chiamato a raccolta le associazioni. Ieri Corleone ha presentato la sua proposta ai soggetti del terzo settore: “Ci siamo confrontati con l’architetto Di Croce che ha in mano la progettazione del nuovo carcere - ha spiegato - e abbiamo fatto il punto sui tempi: a inizio luglio potrebbe essere pubblicata la gara e a settembre iniziare il cantiere del primo lotto, ossia quello sulla semilibertà e sull’ex sezione femminile. Quest’ultima dovrebbe portare a nuove 13 stanze tra pian terreno e primo piano. La mia idea è che di debba arrivare preparati perché sarebbe terribile avere nuovi ambienti e lasciarli vuoti”. L’idea è di sfruttarli come spazi per attività culturali e artigianali-produttive: “Ad esempio creando una sala della musica, una del teatro, una per la pittura, una per i laboratori di ceramica”. “Sarebbe bello - ha detto -, che l’ex femminile fosse autogestita dalle associazioni, che potessero decidere orari e attività. Il modello Udine infatti non deve limitarsi a nuovi muri, ma ad una nuova concezione della gestione del carcere”. L’altro interlocutore sarà l’Università del capoluogo friulano: “Penso che l’Ateneo lavorerà soprattutto sugli spazi detentivi e quelli comuni - ha proseguito Corleone -; lì ci sono superfici per creare una mensa a mezzogiorno e si pensa anche di sfruttare i sottotetti. Sì potrebbe stimolare l’Università a dare avvio ad un processo partecipato con associazioni e detenuti anche sui locali della semilibertà: ad esempio, i carcerati potrebbero contribuire a ideare le celle, i loro colori e l’arredamento”. Sono stati sottolineati ancora una volta i problemi storici di via Spalato: “Rispetto ad una capienza di 86 persone - ha detto il Garante - il carcere ne ospita attualmente 129. Ora, 49 di loro sono positivi al Covid, cosa che ha provocato l’ennesimo blocco delle attività e, inevitabilmente, un clima teso. Come mai l’unico luogo in cui c’è la chiusura totale è rimasto il carcere? I carcerati non possono vivere una situazione di restrizione così assoluta, soprattutto dopo gli ultimi due anni difficili, senza aver avuto alcun ristoro e in una condizione di sovraffollamento. È una situazione insostenibile. Forse - ha continuato Corleone - bisogna prevedere il numero chiuso anche in carcere. Numeri così alti, infatti, rischiano di minare la validità dei progetti legati al nuovo carcere. A Udine, ci sono 20 persone che hanno il fine pena nel 2022: se avessero una misura alternativa immediata, si alleggerirebbero le presenze. Inoltre circa il 50 per cento dei detenuti è dentro per detenzione e piccolo spaccio oppure perché tossicodipendenti che hanno compiuto reati predatori”. Napoli. “Noi detenuti senza pena, vogliamo mamma e papà” di Viviana Lanza Il Riformista, 20 giugno 2022 L’appello di tre bambini spediti in casa famiglia: “Il regalo per il mio compleanno? Passarlo insieme alla mia famiglia”. Marco (il nome è di fantasia) compirà 15 anni oggi e ha sperato fino all’ultimo che il Tribunale dei minori gli concedesse il permesso di lasciare la casa famiglia in cui è stato confinato insieme alla sorella sedicenne (l’unica ragazza nella struttura di Sarno) e al fratellino di dodici. Non hanno condanne, lì si trovano per decisione di un giudice che li ha tolti ai genitori dopo un percorso con uno psicologo. È accaduto tutto poco prima di Pasqua. “Per le feste siamo tornati a casa, ma senza dormirci - racconta Marco -. Il sabato mattina ci sono venuti a prendere e la sera ci hanno riportato nella casa famiglia, stessa cosa la domenica. Dopo non abbiamo avuto più permessi”. Il tono della voce è smarrito, al limite della disperazione. Ma sa di dover essere forte per sua sorella e soprattutto per il fratellino. “È lui quello che mi preoccupa di più. Piange spesso, vuole tornare a casa, rifiuta di fare attività. Sta subendo un trauma profondo. Devo stargli vicino durante la notte. Devo essere forte per lui”. Ma cosa hanno fatto questi tre ragazzini? Niente di penalmente rilevante. Sono al centro di protocolli che, sovente, lasciano alle spalle il senso di umanità. “Siamo come detenuti senza pena”, dice Marco. Ed ha ragione. Perché in quella struttura ci sono numerosi minori che stanno scontando condanne e che godono di maggiori permessi di quanti ne abbiano i tre fratelli. E non è tutto. “Dicono che la mia famiglia non sia attenta alla casa… Da quando siamo arrivati viviamo in una stanza con muffa e umidità e non hanno fatto nulla. Quando abbiamo detto che c’era puzza, ci hanno detto di aprire le finestre e dormire con la porta aperta”. Vengono dai Quartieri Spagnoli. I genitori sono stati sottoposti a un percorso di valutazione e rafforzamento delle competenze genitoriali. Da qui l’invio dei minori verso un percorso di sostegno psicologico, con inserimento in progetti educativi e formativi adatti alle loro esigenze. Fino alla casa famiglia. Secondo le relazioni tecniche sarebbero “ancora presenti criticità e disfunzionalità in ambito familiare”. L’Asl ha convocato i genitori per la presa in carico ma questi ultimi hanno rifiutato l’adesione, e anche nei successivi incontri predisposti non si sono presentati. Il nodo della questione era la scuola. Marco ha frequentato per pochi giorni all’inizio dell’anno scolastico in corso mostrando scarso interesse, la ragazza sedicenne risultava assente da dicembre 2021 dopo aver avuto comunque una frequenza sempre irregolare. “Mia sorella è stata vicina a mio padre che si è operato - spiega ancora Marco - I miei fratelli maggiorenni lavorano, mia madre lavora in un’impresa di pulizie, mio padre è guardiano notturno. Come fanno a dire che non riescono a badare a noi?”. Eppure, il Tribunale ha disposto la sospensione della potestà genitoriale per la coppia. In una relazione si legge che, nell’estate 2018, Marco era stato inserito in un centro polifunzionale residenziale a Marechiaro. In quel luogo, il 27 agosto, si era verificata una lite tra il ragazzino, che all’epoca aveva 11 anni, ed altri ospiti. In quella lite Marco aveva reagito dimenandosi e “minacciando di lanciare sassi e qualunque altro oggetto nella sua immediata disponibilità in direzione dei compagni e dei docenti”. Un episodio che nella stessa relazione viene definito come isolato, “forse allarmato dalla lontananza, per la prima volta, da casa”. Perché per un bambino di 11 anni, stare lontano dai genitori è come vivere un lutto. I genitori, appreso quanto accaduto, si mostrarono stupiti, ritenendo Marco il meno turbolento dei loro figli, ed effettivamente viene descritto nella stessa relazione come un bambino esile e dai modi educati. La vicenda si è gonfiata rapidamente e i tre ragazzi sono finiti in un vero e proprio tritacarne. “Abbiamo fatto un po’ di casino a scuola, abbiamo avuto reazioni vivaci ma non violente - dice Marco - Dopo quanto accaduto a scuola siamo andati dall’assistente sociale per parlare che diceva: “Se fate i bravi vi diamo permessi”. Ne abbiamo avuto solo uno”. Non sono detenuti e possono telefonare alla famiglia. Ma è stato contestato anche questo. In una relazione interna dell’istituto si legge che “in questi due mesi di permanenza in struttura, i minori hanno fatto registrare un buon comportamento intervallato da momenti di tensione; hanno aderito alle regole poste in essere della comunità senza particolari rimostranze, hanno collaborato alle attività senza eccessiva oppositività”. Nella relazione viene notato il forte legame tra i fratelli e il padre, ritenuto “molto presente”. “È stato difficile creare un’alleanza con i minori proprio per la presenza talvolta ingombrante del padre che mediava telefonicamente ogni attività dei figli. È stato ridotto anche l’utilizzo del cellulare, ma senza esito positivo”. Troppo presente, troppo legato ai suoi figli. Troppo amore. “È paradossale - dice l’avvocato Massimo Capasso, avvocato e direttore del centro ascolto di Sant’Antonio Abate presso il quale si è rivolta la famiglia dei tre minori - ma se avessero avuto una misura cautelare, a quest’ora sarebbero già a casa. Quando una misura impositiva non ha una ratio, diventa misura persecutoria. È una giustizia spettacolo. Senza contare che la curatrice, colei che dovrebbe esercitare la potestà genitoriale, i ragazzi non li ha mai incontrati. Chiedo che vengano mandati degli ispettori per verificare queste procedure. Non credo all’arroganza dei violenti, ma al silenzio degli onesti. Lo disse Martin Luther King”. Verona. Dante in carcere, la “città dolente” secondo i detenuti di Bonifacio Pignatti L’Arena, 20 giugno 2022 “Sì come schiera d’ape, che s’infiora/una fiata e una si ritorna/là dove suo laboro s’insapora/nel gran fior discendeva che s’addorna/di tante foglie, e quindi risaliva là dove ‘l suo amor sempre soggiorna/”. Così, Dante, nel XXXI canto di Paradiso, per dire della schiera di angeli che dopo esser volati verso Dio con canti di gloria, tornano a sedere nella candida rosa, inebriati di quell’”Amor che move il sole e l’altre stelle”. Simile a uno sciame d’api che una volta entrato nel fiore per attingerne nutrimento, torna all’alveare per trasformare il suo lavoro in miele. Così, i detenuti-attori del Teatro del Montorio nel loro “Tratto a libertade”, terza tappa del progetto “Dante in carcere” ideato da Alessandro Anderloni. Più che una performance “dimostrativa”, un’esperienza umana e spirituale di grande impatto emotivo sia per gli interpreti, che per gli spettatori ammessi alla messa in scena alla Casa Circondariale. Un coro di anime vestite di bianco che intrecciano - attingendo una dall’altra - le proprie esistenze (quelle dentro e quelle fuori dal carcere) tra le pagine dell’Alighieri, prodigiosamente contemporanee, ed eterne come la vita che tutti (se lo vogliamo) ci attende. Là, dove la geniale (pur nella sua essenzialità) scenografia circolare di veli bianchi immersi nella canicola estiva e di tanto in tanto sollevati dagli attori intenti ad evocare quei piccoli e suddetti messaggeri di Salvezza “melliferi”, ci ha fatto idealmente sostare. Sostare ma mai fermare. Tutti abbiamo camminato in questo spettacolo “illuminato” (fino all’ultimo verso della cantica), capace di toccare le corde di chi era entrato con fare schivo quanto quelle di chi si credeva senza più alcuna via d’uscita, (con)dannato per sempre alla sua condizione di recluso. Ma la forza della Commedia sta proprio qui: nel plasmare ogni esperienza terrena nel desiderio di elevarsi a conoscenze altre. È così che, dal 2018, gli endecasillabi del Sommo Poeta, il condannato (e pure ingiustamente) l’esiliato, il rifugiato, risuonano nelle voci, nei corpi, ma anche nei ricordi biografici, di un gruppo di reclusi multietnico e multiculturale, che attraversata la “città dolente” delle proprie celle e risalito il monte del Purgatorio, è approdato al Paradiso, “a quella parola dantesca che qui risuona in modo grandioso - commenta Alessandro Anderloni, autore della drammaturgia insieme a Isabella Dilavello - in cui abbiamo cercato la nostra libertà”. Democrazia non vuol dire retorica di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 20 giugno 2022 Qual è oggi il valore di questa parola? È forse questo il tempo di porre una domanda politica cruciale: domanda che da tanti anni, dalla fine della II guerra mondiale e dalla sconfitta dei totalitarismi, non si poneva nemmeno, tanto ovvia era la risposta: la democrazia con le sue forme, le sue procedure, i suoi simboli, ha un valore? Oggi ci rendiamo conto della risposta: “dipende”. Dipende da che cosa c’è dentro. La democrazia è teatro. Nel teatro classico le idee astratte, i desideri, le passioni venivano messe in scena personificate. La pace sortiva da una spelonca dove era stata imprigionata ed era una fanciulla avvolta in pepli vaporosi. Quando il popolo vide che cosa c’era dentro, non si trattenne dal gridare: com’è bella! Per tessere le lodi di Socrate, Alcibiade lo paragonò a quei ‘sileni’ esposti nei mercati che, sebbene brutti all’esterno, guardati dentro, rivelano meraviglie. Bisogna guardare oltre i veli, al di là delle apparenze. Lo stesso vale per la democrazia. Per dire se abbia un valore, guardare dentro. Non ci vediamo sempre le stesse cose. C’è del bello e del brutto. Finita la guerra, le tante critiche, antiche e moderne - la democrazia è il regime in cui il popolo è adulato, piuttosto che educato (Platone); è la tirannia non di uno solo o di pochi, ma dei molti (Chateaubriand) - erano messe a tacere. Democrazia era diventata il biglietto d’ingresso tra i popoli civilizzati. Poteva essere aggettivata in vario modo: liberale, popolare, progressista, socialista, sociale, islamica, eccetera, ma la forza incontestabile dell’idea stava nel concetto contenuto nel sostantivo. Niente di strano: la guerra era stata tra due visioni del mondo, autocratica e democratica, e aveva vinto la seconda. Che il concetto fosse piuttosto nebuloso non impedì, anzi facilitò, il suo diventare un “concetto idolatrico”. Che cosa s’intravedeva allora, per il futuro, attraverso quella parola? Pace, giustizia, uguaglianza, libertà, fratellanza, convivenza tra i popoli. Insomma, un mondo nuovo che avrebbe contenuto cose molto belle. La decolonizzazione, cioè la liberazione di spazi immensi del mondo sarebbe presto stata il grande frutto, talora pagato ad altissimo prezzo di sangue (la “battaglia di Algeri” ad esempio) preteso dai colonizzatori europei, quelli che a Berlino, nel 1885, s’erano spartiti Asia e Africa come se fossero cose loro. Democrazia significava, in primo luogo, diritto di essere governati da se stessi, contro il dominio delle potenze coloniali. Noi, nel mondo oggi segnato da altre questioni e altri metodi di sfruttamento detti “neocoloniali”, abbiamo forse perso la percezione di quanto grande fu quell’affacciarsi di continenti interi al protagonismo nella politica mondiale. Affacciarsi forse soltanto, non insediarsi, in un processo incompiuto e minacciato, ma certamente straordinario. Questo c’era nella democrazia; questo le dava un incontrovertibile valore nelle dinamiche e nelle controversie internazionali. Anche in quelle nazionali. La democrazia mirava a modellare non solo la politica e le sue istituzioni, ma anche le società nelle loro articolazioni. La democrazia doveva riempirsi di significati sociali ed espandersi in luoghi che erano stati tradizionalmente refrattari: la famiglia, la scuola, i luoghi di lavoro, perfino l’esercito, l’arte e la cultura, la pratica medica e psichiatrica, l’urbanistica, eccetera. In certi paesi, anche nella gestione delle imprese (mai, però, finora nella finanza, fortilizio inespugnabile). Tutto, o quasi, era o doveva essere “democratico” e, se non lo era ancora, era sospetto di illegittimità. Questa è stata la fase felice della democrazia, quando essa era la parola d’ordine che mobilitava energie, passioni, movimenti, partiti. Se ci chiedessimo che cosa c’era allora dentro alla democrazia, sapremmo bene che cosa rispondere. La democrazia, per mezzo dell’azione di coloro che si richiamavano ai suoi valori, manteneva le sue promesse. È ancora così? C’è da dubitarne. Il declino, anzi la corruzione, della democrazia è sintetizzato in espressioni che da tempo ormai hanno preso campo nelle discussioni dei politologi e dei giornalisti e che sembrano diventate senso comune di chi si occupa di queste cose. Che cosa significano post-democrazia, tardo-democrazia, democrazia disciplinata o gestita (managed), democrazia come maschera di oligarchie, plutocrazia che si fa teatro con costumi democratici (teatrocrazia), democrazia illiberale, democratura. Sono tutte espressioni che tradiscono la nostalgia di qualcosa come la democrazia autentica, o la disillusione di fronte a promesse non mantenute. Ma ciò si affianca a qualcosa di ancor più significativo e insidioso: una contestazione non solo di fatto, ma anche di valore. Apertamente ci si pone contro il governo delle “masse” irresponsabili e si propone di limitare le occasioni elettorali e il diritto di voto. Si divide il popolo in buoni e cattivi e si teorizza e si pratica l’esclusione dei secondi. Si propone di riservare il governo a “coloro che sanno” e di toglierlo a quelli che, non sapendo, rappresentano una minaccia. Così, la democrazia sarebbe un regime tarlato in se stesso. Nuove “crazie” si affacciano: oligo-crazie, aristo-crazie, episto-crazie (da “epistème”, conoscenza). Tutte teorizzazioni ripescate dall’antica, sempre pronta a riemergere, tradizione antidemocratica. Ora, tuttavia, siamo in un’altra fase. Non sappiamo quanto potrà durare ma, per ora, assistiamo a una rinascita degli ideali democratici da schierare sul campo del conflitto tra l’Occidente liberale e democratico e l’Oriente oscurantista e autocratico: la nostra cultura politica contro quello che un tempo era detto il “dispotismo asiatico”. L’invasione russa dell’Ucraina, la guerra che ne è nata, le ripercussioni che non potranno non essere di lungo periodo nelle relazioni tra le Nazioni del mondo: tutto questo sembra avere improvvisamente rianimato la nostra fede democratica, che sembrava esausta. Evviva? Mica tanto. Questa è una rinascita non degli ideali democratici (che non sono mai morti) ma della democrazia come ideologia che fa di ogni erba un fascio. Noi siamo legati alla democrazia e ai contenuti che mettiamo in questa idea. Ma non possiamo ignorare le grandi ingiustizie che in nome della civiltà occidentale democratica sono state inferte al mondo che abbiamo scartato dal nostro, in nome di un complesso di superiorità. Sulla coscienza delle vittime dell’”Occidente” pesano molto di più le guerre, le conquiste, gli sfruttamenti che non le belle ideologie, facilmente considerate inganni sulla loro pelle. Se volessimo sapere che cosa pensano di noi e della nostra civiltà “superiore” le genti di questo altro mondo, ci si potrebbe informare sul grande piccolo libro di Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, la cui lettura potrebbe essere un farmaco salutare. Servirebbe a evitare autoesaltazioni produttive di ulteriori risentimenti, eccitazione di spiriti di rivalsa, supplemento di aggressività. Tutto il contrario della discussione, della disponibilità a mettere in causa le proprie opere e omissioni e a chiedere agli altri di fare altrettanto. Tutto il contrario, cioè, del terreno su cui può fiorire la democrazia, insieme alla sua gemella, la pace. Ritorniamo all’immagine iniziale. Che cosa vediamo guardando dentro quella parola? Offriamo democrazia, sì; impegniamoci a difenderla, sì. Ma senza deturparla con la retorica. Così il Covid ci ha insegnato a interrogarci sul diritto alla morte di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 giugno 2022 Secondo l’indagine Eurispes gli italiani sono più vicini ai temi etici. Grande consenso sull’eutanasia, ma il suicidio assistito resta un tabù. Fine vita, unioni civili, droghe leggere, prostituzione, maternità surrogata. Chi di noi non si è mai interrogato su almeno uno di questi temi? Anzi: chi di noi non ha rischiato la rissa parlandone a cena? Ché per discuterne non occorre essere fini giuristi, basta porsi alcune domande. E coltivare la cultura dell’etica. Anche se quando si parla di etica non c’è mai una sola risposta. E tra legge e morale, chi rischia di rimanere schiacciato è proprio chi quelle domande le pone: il cittadino. Allora ecco che la questione si sposta: chi è il cittadino italiano? E come la pensa sui temi etici? Un ritratto accurato lo offre l’Eurispes nel Rapporto Italia 2022. All’opinione degli italiani sui temi etici è dedicato un intero capitolo, e la novità - rispetto ai precedenti sondaggi - riguarda alcuni argomenti particolarmente delicati e divisivi divenuti oggetto d’indagine, come il cambiamento di sesso e l’identità del genere. Anche se il dato che emerge con maggiore chiarezza riguarda il modo in cui siamo cambiati con la pandemia, un cambio di paradigma che assomiglia a una vera e propria rivoluzione. “La dimensione del dubbio - si legge nel rapporto - è la vera eredità che il Covid ha lasciato alle nostre società che, se saputa interrogare, può restituire nelle sue infinite sfaccettature la verità di cui abbiamo bisogno”. Il risultato? Vediamolo nel dettaglio. Fine vita, esiste un diritto a morire? Naufragato il tentativo referendario, per il quale erano state raccolte 1,2 milioni di firme, nelle ultime settimane il tema è tornato attuale con la storia di Fabio Ridolfi, morto lunedì scorso a 46 anni. Immobilizzato per 18 anni a causa di una tetraparesi, Fabio aveva tutti requisiti per scegliere il suicidio assistito, un diritto esercitabile sulla base della sentenza Cappato-Dj Fabio della Corte Costituzionale. Ma il servizio Sanitario Regionale delle Marche, dopo aver comunicato il via libera per l’aiuto medico alla morte volontaria, non ha mai indicato il parere sul farmaco e sulle relative modalità di somministrazione. Così Fabio ha scelto la sedazione profonda e continua. Una scelta obbligata, come ha denunciato lui stesso. Che si è sentito un cittadino di serie B, ignorato dallo Stato. Un cittadino la cui vita non dipende dalle proprie scelte, ma da lungaggini burocratiche. E questo, in buona sostanza, perché non abbiamo ancora una legge sul fine vita. Ciò che abbiamo è una disciplina sul testamento biologico, che al pari dell’eutanasia rappresenta una materia altamente controversa che “incontra alterne fortune nel corso degli anni”: nel 2022 la percentuale di favorevoli è del 69,3%, in calo rispetto al 71,5 del 2021. L’espressione di massima condivisione si è avuta nel 2020, con il 73% degli italiani per il sì. Discorso analogo per l’eutanasia: nel 2022 torna a crescere il numero di favorevoli, con il 74,9%, ma si registra un calo rispetto al 2020. Chiusura netta invece sul suicidio assistito: nel 2022 solo quattro italiani su dieci si dichiarano a favore. E il “no” è rimasto sostanzialmente invariato negli anni. Unioni civili. Sulla tutela giuridica delle coppie di fatto il sondaggio rivela un andamento altalenante, con una netta flessione del consenso rispetto al passato. Anche se il numero di favorevoli nel 2022, con il 67,1% di sì, si avvicina al risultato del 2016 (67,6%), anno di entrata in vigore della “legge Cirinnà” che ha introdotto nel nostro ordinamento le unioni civili e ne disciplina il funzionamento. Cresce il sì invece sul matrimonio “egualitario” (61,3% nel 2022), con un aumento di oltre dieci punti rispetto al 2019. Ma meno della metà degli italiani apre alla possibilità di adozione per le coppie omogenitoriali (48,3%), anche se rispetto al passato qualcosa si muove. Maternità surrogata. L’argomento che gli italiani proprio non digeriscono è la gestazione per altri, con solo il 36,4% dei cittadini che si dichiara favorevole all’utero in affitto. E ad esprimere maggiore contrarietà sono gli elettori di centrodestra, formazione politica che vorrebbe rendere questa pratica reato universale. Più tollerata la fecondazione eterologa: nel 2022 la possibilità di avvalersi di un donatore per la procreazione incontra il favore del 56,9% del campione. Altro tabù è la legalizzazione della prostituzione, che trova favorevoli, nel 2022, circa la metà degli italiani: il 49,1%. Con una forbice ampia tra uomini e donne: il 53,6% a fronte del 44,4%. Sul riconoscimento delle identità di genere, il campione si spacca a metà, con il 49,2% di sì. Mentre la possibilità di autorizzare il cambiamento di sesso tramite autodichiarazione dell’interessato, anche senza certificazioni mediche, trova d’accordo meno di quattro italiani su dieci (37,6%). Ma gli italiani si dividono anche sul tema della legalizzazione delle droghe leggere: nel 2022 poco più della metà degli italiani si dichiara a favore (52,3%), una quota comunque crescente rispetto al passato. Il discorso cambia se si analizzano i dati in base all’età, al sesso, alla provenienza geografica, all’area politica o al titolo di studi. L’ultimo parametro, in particolare, mostra come le persone con un grado di scolarizzazione più alto siano “l’avamposto delle posizioni più progressiste presso l’opinione pubblica rispetto a una varietà di temi etici”. Stesso discorso per i più giovani, che si dimostrano i più aperti sui diritti civili. Soprattutto sull’eutanasia, con l’84,1% di consensi nella fascia 25-34 anni. Più complessa l’analisi di genere. Generalmente sono le donne a mostrarsi più aperte, soprattutto sul superamento della “famiglia tradizionale”. Mentre su fine vita, droghe leggere e prostituzione sono gli uomini ad esprimere maggiormente pareri positivi. Ma il dato più interessante riguarda i temi legati alla maternità: solo il 34,3% delle donne si esprime a favore della surrogata (contro il 38,3% degli uomini). C’è solo una cosa che unisce tutti: l’argomento che sta più a cuore degli italiani è la tutela degli animali. Con l’82,7% del campione che si esprime contro la vivisezione, e il 76% contro la caccia. Fine vita: tutte le insidie della legge in discussione di Giusi Fasano Corriere della Sera, 20 giugno 2022 Il paradosso per i “Mario” che verranno è che la non-legge del momento garantisca più diritti a più persone di quanto farebbe il provvedimento in attesa di approdare al Senato. Tutto è compiuto. Mario - che poi non si chiamava Mario - si è addormentato per sempre con il suicidio assistito, il primo nel nostro Paese. Dopo quasi due anni di tribunali, ricorsi e diffide, ha vinto lui. Quindi la strada è tracciata. E quando la strada è tracciata di solito non si torna indietro per imboccarne un’altra piena di insidie. Invece, incredibilmente, è proprio quel che si rischia di fare se la legge sul fine vita passata alla Camera fosse approvata così com’è anche al Senato. Il paradosso per i “Mario” che verranno è che la non-legge del momento (cioè i passaggi indicati dalla Corte costituzionale per accedere al suicidio assistito in assenza di una legge) garantisca più diritti a più persone di quanto farebbe il provvedimento in attesa di approdare al Senato. Che poi, diciamoci la verità: le probabilità che si arrivi ad approvarlo prima della fine della legislatura sono bassissime e, se anche arrivasse in aula, lo stesso relatore dem Alfredo Bazoli non nasconde che esiste il rischio concreto che faccia la fine del ddl Zan. Premesso tutto questo, che certo non è di buon auspicio, restano le riflessioni sul merito sollevate dall’Associazione Coscioni. Eccone alcune: 1) nel ddl non sono previsti tempi di risposta certi del sistema sanitario e chi chiede di morire per la troppa sofferenza in genere tempo non ne ha. 2) la legge prevede che la persona che richiede la dolce morte sia “tenuta in vita da sostegno vitale”. Domanda: quindi i malati oncologici terminali non collegati a macchinari o trattamenti per respirare, nutrirsi, idratarsi, sarebbero esclusi? 3) il decesso dovrebbe essere “cagionato da un atto autonomo”. La somministrazione da parte di un terzo, su richiesta, non è prevista. Ne deriva l’esclusione dei malati che non possono autosomministrarsi il farmaco. 4) è previsto che la persona sia “previamente coinvolta in un percorso di cure palliative”: cosa significa “coinvolta”? Può rifiutare quel percorso? 5) La Corte costituzionale prevede oggi tra i requisiti per accedere al suicidio assistito “sofferenza fisica o psicologica insopportabile”. Il ddl trasforma quell’”o” in una “e” quindi - di fatto - restringe il campo. Mario, per esempio: aveva sofferenze fisiche intollerabili ma era sereno. Quindi con questa legge sarebbe ancora qui a presentare l’ennesimo ricorso? La tratta delle badanti moldave per far risparmiare gli italiani di Cecilia Ferrara Il Domani, 20 giugno 2022 A Potenza l’operazione “Women transfer” ha portato all’arresto di 6 persone (5 di nazionalità moldava e un italiano) per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro. 87 donne moldave sono state portate a lavorare in Italia come badanti, completamente in nero e con l’obbligo di versare all’organizzazione una tangente sul proprio salario di 800 euro per un lavoro a tempo pieno e senza diritto a giorni di riposo. “È la prima volta che scopriamo un fenomeno di tratta finalizzato al lavoro domestico”, spiega il procuratore capo di Potenza Curcio, “e non sappiamo ancora quanto abbiamo intaccato il fenomeno. Chissà cosa avviene in aeree dove l’arrivo di migranti è più consistente”. Da un pulmino Mercedes con targa straniera escono in piena notte nove donne, si trascinano le valige fino a un piccolo appartamento nel centro di Potenza. Ne usciranno solo per andare in altre case e sparire di nuovo. “Io vorrei uscire domani, almeno per un po’”, implora E. intercettata dai carabinieri. “No tu sei pagata, tu sei pagata! Ti danno 900 euro, senza giorno libero”, replica l’aguzzina. “Signora Valentina, se almeno potessi uscire una volta ogni due settimane...”. “E allora sono 800! E alle due di pomeriggio dovresti tornare indietro, quindi che giorno libero sarebbe?”. Potenza, Europa. E. è una delle 87 donne che sono state trafficate da un’organizzazione moldava per lavorare in condizioni di sfruttamento come badanti. I minivan partivano dalla capitale della Moldavia, Chi?inau. Nell’ambito dell’operazione “Women transfer”, lo scorso 4 settembre, sono state fermate 6 persone (5 di nazionalità moldava e un italiano) con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani, all’intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro. “Certamente la pandemia è stata il motivo per il quale abbiamo scoperto 80 vittime e non 250”, spiega il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, titolare dell’inchiesta che ha portato alla luce un fenomeno sommerso e finora sconosciuto. I carabinieri di Potenza, in collaborazione con il Comando carabinieri tutela del lavoro, hanno avviato indagini con appostamenti, intercettazioni telefoniche e ambientali, controlli alle frontiere, per scoprire un traffico internazionale di esseri umani a scopo di sfruttamento. Le indagini sono state rese più veloci grazie al coordinamento di Eurojust che ha messo in contatto le procure italiane e moldave. Destinazione Italia - “È la prima volta che scopriamo un fenomeno di tratta finalizzato al lavoro domestico”, dice Curcio, “rispetto al traffico di persone l’Italia è sia un paese di transito sia di destinazione in particolare per due settori: lo sfruttamento ai fini sessuali e prostituzione, che è il più investigato, e il caporalato in agricoltura. Ma per l’assistenza agli anziani è una prima volta e non sappiamo ancora quanto abbiamo intaccato il fenomeno, chissà cosa avviene in aeree dove l’arrivo di migranti è più consistente. Si tratta di fare indagini minuziose, di trattare il fenomeno come si tratterebbe la mafia o il terrorismo. È dispendioso ma ne va della dignità delle persone”. Il gruppo accusato di tratta delle badanti era guidato da una donna moldava, Valentina Duca, da suo figlio e da sua nuora. Il sistema parte da pagine Facebook che offrono trasporto tra Moldavia e Italia. La pagina di Duca era gestita dal figlio Mircea Axenti, sotto il nome di Mihail Bostan. Oltre alle notizie di viaggi tra Italia e Moldavia, e qualche post No vax, si potevano leggere, anche se più raramente, delle offerte dirette. “Offerta di lavoro con passaporto biometrico, come badante con uno stipendio fisso da 800 a 1.300 euro. 8 ore a settimana vitto e alloggio gratis”. Nei commenti si chiede quanto sia la commissione (“Commissione 300?”), perché il passaporto biometrico permette ai moldavi di viaggiare in Europa secondo l’accordo di libero scambio con la Moldavia del 2014, ma non permette di lavorare. Per questo era necessario pagare una “tassa” all’organizzazione. La quarta ondata - È la signora Valentina, intercettata, a dettare le regole: per lavorare sei mesi si paga 550 euro, per lavorare un anno 1.100. “Ormai la migrazione moldava in Italia è consolidata - racconta Tatiana Nogailic, sociologa e referente di Assomoldova - siamo ormai alla quarta ondata, quelle che cadono nelle reti di queste “agenzie” sono in genere donne che vengono dalle campagne con il passaporto biometrico, che non parlano la lingua e non hanno nessuna rete in Italia. Di tanto in tanto sui gruppi Facebook dei moldavi in Italia c’è qualcuno che avverte di non andare con questa o quella agenzia”. “Il viaggio offerto dalla pagina Facebook di Mihail Bostan era chiaramente legato al lavoro in Italia - spiega il tenente Vincenzo Caputo del Comando carabinieri tutela del lavoro che ha seguito l’indagine - anche perché viaggiare con Mircea Axenti costava molto più di altri trasporti”. Il viaggio costava 500 euro e comprendeva il rilascio di documenti falsi, compreso il test Covid negativo per l’Italia ma anche un contratto di lavoro falso per la Polonia o per la Cecoslovacchia. Le conversazioni intercettate sui pulmini sono molto significative. “Questi contratti di lavoro che vi ho dato non vi servono più quando usciamo dalla Polonia, quindi li butteremo via”, dice Mircea Axenti alle passeggere, “se ci dovessero fermare in Italia con questi contratti ci mandano subito indietro. Quindi tutte quante me li date e io li distruggo”. I ricatti - Una volta arrivate in Italia le donne venivano collocate in un appartamento in centro a Potenza, fino a venti persone in un bilocale. Nelle testimonianze le donne raccontano di aver dovuto dormire per terra, nei giorni precedenti all’inserimento in una famiglia, pagando per l’alloggio 5 euro al giorno d’estate e 10 euro d’inverno. Per lavorare però servivano altri soldi, 300 euro per tre mesi o 550 per sei mesi. Valentina Duca aveva un libro mastro dove segnava i debiti e un posto dove custodiva i passaporti delle ragazze. N. è appena arrivata in una famiglia nel potentino e il suo salario delle prime due settimane va dritto dritto a Valentina. N. avrebbe diritto a due giorni di riposo al mese, la famiglia teme che incontrando altre connazionali durante i giorni liberi possa prendere il Covid. Valentina la informa che, contrariamente a quanto pattuito con la famiglia, non avrà giorni liberi ma solo due ore al giorno di riposo. “Adesso, quando vuoi mandare i soldi a casa li dai a C. (il figlio dell’anziano curato da N.), li metti in una busta e mi dici a chi mandarli”. “Ma come faccio a mandarli se non ho i documenti?”. “Li mando io”. “Le donne erano chiaramente assoggettate al gruppo - spiega Caputo - con il trattenimento del passaporto erano fisicamente dipendenti da loro, e venivano spostate spesso di famiglia in famiglia sempre per renderle più dipendenti. Senza contare che, se la tangente pretesa per lavorare non veniva pagata con sufficiente puntualità, Mircea Axenti, il figlio di Valentina Duca, passava alle minacce dicendo loro che le avrebbe fatte prostituire e, in almeno un caso, abbiamo avuto una delle donne che è stata picchiata, medicata in casa per evitare l’ospedale e mandata subito a lavorare con la raccomandazione di nascondere l’ematoma con il trucco”. Lo stipendio era in ogni caso di 800 euro al mese, da cui venivano tolti i 100 euro da pagare all’agenzia e i debiti del viaggio, per orari che potevano arrivare a 16-17 ore al giorno. Spesso senza neanche un giorno libero. “La cosa preoccupante è scoprire come il contesto sociale in cui tutto questo avviene tutto sommato lo accetti”, riflette Curcio, “se parliamo già di oltre 80 vittime vuol dire che molte famiglie di questa regione hanno ritenuto accettabile, per assistere i propri anziani, impiegare a queste condizioni donne provenienti da uno dei paesi più poveri d’Europa”. “Uno stipendio medio in Moldavia è di 350 euro - racconta Tatiana Nogailic - e il 31 per cento del Pil dipende dalle rimesse degli emigrati”. Il lavoro domestico - Con l’avvio del procedimento penale le donne moldave trafficate da Valentina Duca sono state messe in condizioni di sicurezza, con un permesso di soggiorno temporaneo e tutte le protezioni del caso: interrogatori in video conferenza e nessun incontro neanche virtuale con i loro aguzzini. Ma quanto è esteso il fenomeno? Sicuramente quello domestico è il settore in assoluto dove c’è più lavoro nero. L’associazione Domina, datori di lavoro in ambito domestico che gestiscono l’Osservatorio lavoro domestico, redige ogni anno un report. “Il lavoro domestico è uno dei lavori più a rischio di sfruttamento perché le mansioni richiedono competenze molto basse - spiega Lorenzo Gasparrini, segretario nazionale dei Domina - La forte apertura del mercato in ingresso e in uscita permette di collocare le persone a prescindere dalla loro modalità di ingresso sul territorio italiano, ad esempio. È anche per questo che il lavoro domestico ha una percentuale di informalità del 57 per cento, più del doppio dell’agricoltura”. In Italia ci sono 920.000 persone impiegate regolarmente nelle famiglie (il 52,3 per cento colf e il 47,5 badanti), quindi secondo le stime di Domina almeno 1 milione e 100mila persone lavorano in nero, 500mila delle quali sono badanti. Alina (nome di fantasia) lavora nel sud Italia, ha un contratto regolare e si trova bene nella famiglia dove lavora, ma si è trovata ad aiutare una connazionale che era finita in una rete simile a quella di Valentina Duca e che vorrebbe tornare in Moldavia. Purtroppo è senza passaporto. Alina è molto arrabbiata, racconta come stiano arrivando tantissime donne moldave in quelle condizioni: “Lavorano per 600 euro, costrette a dormire con l’anziano, senza giorni liberi”. Lei già si è scontrata con il gruppo chiedendo diritti per l’amica ed è stata minacciata di morte. Oggi è abbastanza scoraggiata. “A chi mi rivolgo? I vigili urbani? Il sindaco? Ma tutti qui hanno i propri vecchietti accuditi da una donna che pagano seicento euro”. Stati Uniti. Ok alle esecuzioni, l’Oklahoma vuole svuotare il braccio della morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 giugno 2022 Alla procura dello stato dell’Oklahoma non vedevano l’ora e quell’ora, il 7 giugno, è arrivata: un giudice federale ha respinto il ricorso di 28 condannati a morte stabilendo che il protocollo delle esecuzioni mediante iniezione letale non viola l’VIII Emendamento alla Costituzione degli Usa. La procura statale non ha perso tempo chiedendo che vengano fissate le date delle esecuzioni di 25 detenuti, una ogni quattro settimane, a partire dalla fine di agosto. La modalità con cui vengono eseguite le condanne a morte nello stato dell’Oklahoma, dunque, non costituisce una “punizione crudele e inusitata”. La storia degli ultimi anni ci dà tuttavia molte prove del contrario. Il protocollo prevede la somministrazione di tre medicinali: il midazolam a scopo di sedazione, il bromuro di pancuronio che paralizza i muscoli impedendo la respirazione e il cloruro di potassio per arrestare il battito cardiaco. Il 28 ottobre 2021 quel protocollo è stato applicato nei confronti di John Marion Grant. Dan Snyder, reporter della tv locale Fox 25, ha raccontato che dopo la dose di midazolam, Grant “ha iniziato ad avere convulsioni, a tal punto che stava quasi per sollevare il lettino cui era legato. Poi ha preso a vomitare e per nove minuti gli inservienti sono dovuti entrare nella camera della morte per pulire il vomito. Grant respirava ancora”. Sean Murphy, dell’Associated Press, ha parlato di oltre una ventina di scatti convulsivi e ha raccontato come il vomito colasse copiosamente lungo i lati del volto e il collo di Grant. Sconvolto, ha dichiarato che mai nelle precedenti 14 esecuzioni cui aveva assistito aveva visto una scena del genere. Quindici minuti dopo la dose di midazolam, Grant è stato dichiarato privo di conoscenza e si è proceduto alle restanti parti dell’esecuzione. Per Justin Wolf, portavoce della direzione delle carceri, “il protocollo è stato rispettato senza complicazioni”. Il suo superiore, Scott Crow, si è spinto a dichiarare che “non c’è stata interruzione della procedura: vedere una persona vomitare non è una cosa piacevole, ma non ritengo sia stata inumana. Del resto, il rigurgito durante la sedazione non è un evento del tutto raro”. Grant è stato il primo detenuto messo a morte nello stato dell’Oklahoma dal 2015, quando le esecuzioni erano state sospese a seguito di un’esecuzione trasformatasi in un vero e proprio esperimento su un essere umano. Il 29 aprile 2014 Clayton Lockett fu il primo su cui venne testato il nuovo protocollo che prevedeva l’uso del midazolan. Immesso l’anestetico, con Lockett dichiarato “privo di conoscenza”, erano stati introdotti nel suo corpo gli altri due farmaci: di lì a poco Lockett aveva iniziato a respirare affannosamente, a stringere i denti e a cercare di sollevare la testa dal cuscino. Era deceduto al minuto 43 della “procedura”, ma d’infarto. Regno Unito. Il governo accanito contro i migranti, impone braccialetti elettronici di Leonardo Clausi Il Manifesto, 20 giugno 2022 Fra i primi interessati i richiedenti asilo che avrebbero dovuto essere deportati in Ruanda. Il nuovo progetto pilota del governo britannico per far fronte all’”emergenza” dei migranti che sbarcano sulle coste inglesi è apertamente penitenziario: affibbiare loro un braccialetto elettronico per evitare che, nelle parole di Boris Johnson, “svaniscano nel paese”. È entrato in auge giovedì scorso e durerà un anno. Nel migliore dei casi, gli accalappiati dovranno presentarsi regolarmente di persona alle autorità e potrebbero essere soggetti a un coprifuoco o essere esclusi da determinate località: in alternativa, potrebbero essere reclusi o incriminati. Una misura che potrebbe già riguardare chi è sfuggito per un soffio al primo volo sola andata che avrebbe dovuto “traslarlo” a seimila miglia di distanza secondo l’accordo stipulato con il Ruanda che, previo il non simbolico esborso di 120 milioni di sterline (circa 140 milioni di euro) da parte di Londra, benignamente accetta di accoglierli. Dopo il flop, martedì scorso, del primo charter diretto a Kigali con sette - dei sessanta che avrebbero dovuti essere - migranti a bordo, del costo di 500mila sterline (circa 600mila euro), e bloccato da un’ingiunzione in extremis della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) quando era ormai in rullaggio e pronto al decollo, la biliosa reazione del governo non si è fatta attendere. I primi a essere accalappiati saranno proprio quei primi passeggeri per forza. “Il governo non si farà scoraggiare mentre pianifichiamo il prossimo volo per il Ruanda”, ha dichiarato un portavoce della ministra dell’Interno Patel, che ha personalmente definito la decisione della Corte come “assolutamente scandalosa” e motivata politicamente. Anche per questo, aggravata dal parallelo contenzioso con Strasburgo sul protocollo nordirlandese, l’ipotesi di un’uscita del Regno Unito anche dalla Convezione europea sui diritti umani è ormai ampiamente nel novero del possibile. Immediate le reazioni delle organizzazioni di tutela e difesa dei diritti dei migranti, che hanno bollato la pratica come “tremenda” (appalling, un termine di questi tempi associato sempre più spesso alle iniziative di questo governo) e “draconiana”, mentre il leader dell’opposizione Keir Starmer ha sfoderato un altro dei suoi miagolii, accusando Johnson di cercare sensazionalismi, con simili policy. “Voglio risposte serie, nessuno vuole che si facciano questi viaggi pericolosi attraverso la Manica”, ha detto. “Tutti vogliono reprimere le gang (i trafficanti di rifugiati, ndr). Ciò richiede un lavoro serio con le autorità francesi e uno a monte per affrontarle efficacemente”. Bahrein. Epidemia di tubercolosi in carcere: le autorità negano le cure mediche di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2022 Nella prigione di Jaw, in Bahrein, continuano a scoppiare epidemie che le autorità non riescono o non vogliono controllare. Nel 2021 c’era stato un grande focolaio di Covid-19 e un prigioniero era morto poiché la direzione della prigione aveva autorizzato il suo trasferimento in ospedale solo dopo che aveva iniziato ad avere gravi difficoltà di respirazione. Ora è la volta della tubercolosi. E da Jaw arrivano storie terribili di diniego di cure mediche. La più allucinante è quella di Ahmed Jaber, che ha dovuto attendere 11 mesi prima di essere visitato, che gli venisse diagnosticata la tubercolosi e che venisse ricoverato. In un video pubblicato su Twitter da un attivista in esilio, Ahmed Jaber racconta come si sia sentito male nell’aprile 2021 e come le sue condizioni di salute si siano aggravate fino a quando, alla fine dell’anno, non era più in grado di camminare o di vestirsi. La direzione del carcere di Jaw ha autorizzato il suo ricovero solo nel marzo 2022, quando era ormai semi-paralizzato e costretto a stare a letto. Come vedete dalle immagini, è protetto da un collare che mantiene la testa e il collo in una posizione tale da evitare ulteriori danni alla spina dorsale, lesionata in modo definitivo dalla tubercolosi. Un’altra storia raccapricciante è quella di Hasan Abdulla Bati, già sofferente a causa dell’anemia, cui è stata diagnosticata la tubercolosi solo nel maggio di quest’anno nonostante già dal 2019 i medici avessero notato il rigonfiamento dei linfonodi e avessero raccomandato un ricovero ospedaliero. Alla fine, il 30 maggio, Bati è stato portato in ospedale ma dopo soli due giorni è stato rimandato in carcere e posto in una cella con altri otto detenuti. In cella con Bati c’era, prima del suo ricovero, Sayed Nizar al-Wadaei che ha iniziato ad avere i primi sintomi della tubercolosi alla fine di maggio. Ha chiesto visite e cure mediche e, per punizione, è stato posto in cella d’isolamento. Dopo numerose proteste dei suoi familiari, ha ottenuto di fare il test il 6 giugno. La situazione è particolarmente allarmante, considerate l’elevata contagiosità della tubercolosi e la facilità con cui si trasmette per via aerea. Secondo le ricostruzioni di Amnesty International, la direzione della prigione di Jaw ha fatto transitare Jaber nelle celle di almeno sette padiglioni. Aggiungendovi quello in cui si trovava Bati, otto padiglioni sono stati esposti al contagio. *Portavoce di Amnesty International Italia Russia. Elena Osipova, “nonna” pacifista: “In piazza per i giovani e per non sentirmi sola” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 20 giugno 2022 Intervista all’attivista 76enne, pittrice ed ex insegnante. La chiamano la “coscienza di San Pietroburgo”, ma quest’etichetta proprio non le piace. “La coscienza serve solo a essere nascosta. E molto spesso viene usata a sproposito”. Eppure a resistere contro la “follia” dell’operazione militare speciale in Ucraina, di un “orribile” scontro fratricida, c’è rimasta quasi solo lei. Elena Osipova, pittrice ed ex insegnante d’arte, scende in strada da vent’anni con i suoi drammatici poster, tutti disegnati da lei, nonostante gli acciacchi dei suoi 76 anni, i fermi della polizia e le provocazioni dei cosiddetti titushki. Milano le ha conferito la cittadinanza ordinaria. “E qui in Russia non vengo neppure nominata”, dice mentre ci versa acqua calda da una teiera - “la uso anche come microonde” - e ci offre un prjanik, un panforte. “L’ho preso al forno qui sotto”, sorride facendo un cenno oltre la finestra, da dove arriva l’odore del pane caldo, al primo piano di un appartamento che condivide con una coppia più giovane e un gatto che ogni tanto fa capolino. Una communalka dove vivevano i suoi nonni materni - un incisore e una guardia del museo dell’Arte russa - e sua madre. “Mio nonno è morto durante l’assedio di Leningrado. Allora pativano tutti la fame. E io sono figlia della Grande Guerra Patriottica. I miei, un medico e un’infermiera, si sono conosciuti sul fronte. Mio padre non l’ho mai conosciuto. Quando avevo nove mesi è partito per la guerra in Giappone ed è morto lì”. Osipova sgrana gli occhi chiari mentre mette in fila i pensieri come in un flusso di coscienza o ci mostra una tela dopo l’altra. Strade di San Pietroburgo, un meleto, una pianta di sorbo, i ritratti del figlio Ivan morto di tubercolosi nel 2009 a 28 anni o della nipote (“Mi ha salvato, vivo per lei”). E i poster contro il conflitto in Ucraina. “Ma molti poster non li ho più, me li hanno strappati di mano i titushki o sequestrati i poliziotti. Un olandese mi aveva portato un mazzo di tulipani rossi, ma quando li ho messi nel vaso si sono afflosciati. Mi ricordavano i giovani russi e ucraini caduti al fronte senza motivo e li ho disegnati accompagnati da alcune parole parafrasate del cantante Aleksandr Vertinskij. “Chi li ha mandati a morire? Lui li ha mandati a morire e li ha immersi nell’eterno oblio”. Era un poster molto bello, ma me lo hanno stracciato”. Che cosa le dà la forza di continuare a manifestare? “Volevo smettere, ma la gente ne ha bisogno. Ci sono tante persone buone. Cercano speranza. Hanno bisogno di vedere che c’è gente che la pensa come loro. Hanno bisogno di non sentirsi sole. E ne ho bisogno anch’io. Ecco perché continuo a scendere in piazza. Lo faccio soprattutto per i giovani. Pensavamo che almeno la loro generazione non avrebbe vissuto l’orrore di una guerra e invece ora c’è anche la minaccia nucleare. Tanti hanno paura di far figli perché temono il futuro. Anche se quando è iniziato questo conflitto non ci credevo nemmeno”. A che cosa? “Non riuscivo a credere che così tanta gente potesse sostenere quest’operazione militare. Sono scesa in piazza per capire se fosse vero e ho incrociato giovani che correvano su e giù per Prospettiva Nevskij. L’unica cosa che potevano fare era gridare: “No alla guerra”. Ora non si può fare più neppure quello. Io ero lì con un mio vecchio poster: una mummia, i corvi con il becco insanguinato e un verso di Marina Cvetaeva. Solo che lei parlava di Germania e io ho sostituito la parola “Germania” con “Russia”. Non posso mostrarglielo perché è in mostra a Praga. Lì possono vedere i miei dipinti, qui invece nessuno vuole saperne niente... Era un poster del 2014. Era già tutto previsto”. Già allora si aspettava che si potesse arrivare a questo punto? “No, come nessun altro. Ma ricordo che già nel 2014 c’erano gli ideologi del Russkij Mir, del Mondo Russo, e quelli che si vantavano di essere andati nel Donbass e di avere ucciso. E la colpa principale è la loro. Sono l’intelligentsija del Paese e invece usano la loro influenza per istallare odio. Ai nostri dicono che vanno a combattere il nazismo in Ucraina, invece solo loro a compiere azioni fasciste e ad attribuirle agli ucraini. Sono provocazioni orribilii. Ma questo modo di pensare imperiale non è una novità in Russia”. Da quando è iniziata l’operazione militare speciale, quante volte è scesa in piazza? “Innumerevoli. Ho disegnato un poster con un soldato con gli occhi bendati accanto alle croci di tombe senza nome. La madre gli toglie l’arma dicendo: ‘Non andare a fare questa guerra’. E poi ho aggiunto lo slogan: ‘Non sparare ai tuoi fratelli, butta le armi. E sarai un eroe’. Perché oggi è un atto di eroismo, non eseguire gli ordini criminali. Tra i giovani c’è chi si è rifiutato di andare a sparare ed è stato licenziato. Ma altri fanno quello che gli viene ordinato. Arrivano da tutte le parti dalla Russia. Sono giovanissimi, spesso poco scolarizzati. Dopo il poster coi tulipani, ne ho disegnato un altro rotondo come la Terra, due madri da due Paesi diversi che tengono i loro neonati in braccio e il simbolo pacifista, questo (mostra un ciondolo al collo, ndr). Il 9 maggio, Giornata della Vittoria, i titushki mi hanno circondata e portato via i miei due dipinti. È stata molto dura, ma ho trovato la forza di tornare a casa, cercare un altro poster e andare in strada per dire la mia a proposito di questa “Vittoria”. Perché non è una festa, è una giornata di lutto, un’occasione per commemorare i caduti. Nel mio vecchio dipinto avevo scritto ‘Non vogliamo il paradiso di Putin, perché questa è la guerra’ e disegnato degli angeli con le maschere antigas. E poi ce n’era un altro, diverso, più tenero: un angelo bambino che chiede ‘Che mondo volete lasciare ai vostri bambini?’. Ma dal momento che me l’hanno portato via, ho disegnato quest’altro per l’1 giugno, Giornata per la difesa dei bambini: un extraterrestre che parla a tutto il pianeta Terra e chiede: ‘Voi gente della terra, quando ucciderete tutti i miei nemici, rimarranno solo gli assassini’. Su Internet gira uno scambio di battute: ‘Papà quando uccideremo tutti i nemici chi resterà? Quelli che hanno ucciso’. È quello che accade. Questi ragazzi diventano assassini. Lo fanno perché sono costretti a difendersi, ma uccidere ti cambia, ti resta dentro. La Russia ha già subito tante prove del genere. Ai tempi di Stalin, sparavano alla nuca qui vicino dove c’è la sede del Kgb. La gente si ricorda come da lì scorresse il sangue fino al fiume Neva. Ma ora è proibito parlarne, ricordare. Il Paese è militarizzato. È tutto diverso”. Perché? “Ci si uccide tra popoli fratelli. E come se non bastasse si iniziano a minacciare anche altri Paesi. I Baltici, la Finlandia. Ascoltavo radio ‘Eco di Mosca’, ora sulle sue frequenze c’è ‘Radio Sputnik’. E tutto questo fa paura. E tanti russi credono che sia tutto inutile, che contro questa follia non si possa lottare e perciò vanno via”. È per questo che oramai non protesta quasi più nessuno? “Quelli che si consideravano opposizione li hanno messi dentro. Alcuni giovani compiono azioni dimostrative coraggiose. Una ragazza è scesa in strada con un abito bianco macchiato di sangue, un’altra ha cambiato i cartellini dei prezzi di un negozio con messaggi sull’Ucraina, ma è stata segnalata alla polizia e ora è in carcere. C’è gente che è stata licenziata perché sul suo profilo social aveva pubblicato la bandiera ucraina. Una mia amica è senza lavoro da due mesi. Se sei contro il governo, corri ancora più rischi. Ecco perché tanti altri hanno paura di manifestare. Mentre tenevo un picchetto davanti alla cattedrale di Kazan, una donna con un passeggino si è avvicinata e mi ha detto: ‘Vorrei manifestare anch’io, ma ho paura. Ho paura per il mio bambino’“. Lei invece scende in piazza da vent’anni... “La prima volta fu nel 2002 dopo l’assedio del teatro Dubrovka. Non potevo tacere. È stato solo l’inizio. Poi c’è stata la tragedia di Beslan, l’uccisione di Anna Politkovskaja...”. In questi vent’anni la Russia è cambiata tanto? “Certamente, ma il problema è che non se ne parla. Perché hanno approvato leggi sempre più repressive per vietarti di dire la tua”. Il ventennio di Putin peggiore dei tempi sovietici? “Sotto l’Urss uno dei simboli più frequenti era la colomba della pace. Adesso i bambini vanno in giro con il berretto militare di Pionieri. Certo, anche sotto l’Urss c’è stata la guerra in Afghanistan che ha provocato morti, mutilati e tossicodipendenti”. Che cosa spera per il futuro della Russia? “Non credo di vivere ancora a lungo. Oggi ho paura. Certe volte quasi invidio chi è morto di Covid. Ma spero che quelli che sono andati via ritornino con un esercito buono che ci venga a liberare per cambiare tutto velocemente...”. Un esercito buono? Non crede che il cambiamento possa arrivare da dentro? “Tutti quelli che potevano davvero fare qualcosa, sono andati via. Ci sono già stati tanti morti. Se le tragedie di Dubrovka e Beslan fossero successe in un altro Paese, lì sarebbe già cambiato il governo. Qui invece al potere sono sempre gli stessi. E il loro mestiere è uccidere”.