Le “casette dell’amore” per i detenuti? Una bufala di Adriano Sofri Il Foglio, 1 giugno 2022 Così ha svelato Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia: “Siamo abituati a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, a partire dalla solita definizione di ‘celle a luci rosse’“. In molti, me compreso, sono tornati a parlare del sesso (“l’affettività”) in carcere, sulla scia dello scandalo sollevato da benpensanti, sbirri d’anima, voyeur frustrati, e relativi organi di vociferazione, e raccolto anche infaustamente dal procuratore Gratteri. Be’, era tutta una bufala. Così svelata da Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, su Ristretti Orizzonti. “Ma possibile che nessuno si sia insospettito, leggendo gli articoli che hanno inondato il web sulle ‘casette dell’amore’ per i detenuti?… I segnali di bufala erano inequivocabili: la fonte intanto era sempre la stessa, il quotidiano La Verità, e poi la descrizione del progetto: ‘Le strutture dovranno ospitare detenuti in regime di carcerazione duro, fino a un massimo di 24 ore consecutive al mese per fare sesso con la propria consorte, fidanzata, amante’. Ma qualcuno davvero può immaginare la ministra Cartabia e il premier Draghi che stanziano 28 milioni di euro per le amanti dei detenuti condannati al carcere duro? E allora le cose come stanno? Stanno che la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge ... e il Ministero ‘non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare’. È possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche di notizie, che apparivano veramente sconclusionate al limite del ridicolo? Il fatto è che siamo abituati, nel nostro Paese, a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, e riteniamo lecito dire qualsiasi schifezza in materia, a partire dalla solita definizione di ‘celle a luci rosse’. È possibile che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non siano riusciti a fare una comunicazione attenta, tempestiva, esauriente su questa vicenda? Ci candidiamo allora, con la nostra Rassegna Stampa quotidiana, Ristretti News, a fare noi questo lavoro, e magari a essere riconosciuti e sostenuti, perché sappiamo che tanta parte dell’Amministrazione Penitenziaria legge il nostro Notiziario, e sappiamo anche che per sopravvivere dobbiamo fare i salti mortali. Dirigo Ristretti Orizzonti, un giornale di giornalisti detenuti ‘dilettanti’ che, se sono finiti in carcere, è perché non si sono distinti per il rispetto delle regole, quindi gli dovrei poter portare come esempio i professionisti dell’informazione che fanno questo mestiere da anni, e invece succede il contrario”. Si riparla del diritto alla sessualità in carcere di Giulia Siviero ilpost.it, 1 giugno 2022 Uno studio di fattibilità su una proposta arrivata dalla Regione Toscana ha provocato un nuovo giro di polemiche su un tema spesso sminuito. Uno studio di fattibilità richiesto dalla Commissione Bilancio del Senato, riguardo alla possibilità di costruire una serie di strutture nelle carceri italiane per garantire ai detenuti uno spazio privato in cui esercitare il proprio diritto all’affettività e alla sessualità, ha provocato una serie di polemiche, specialmente su alcuni giornali di destra. A originare lo studio è stata una proposta di legge del Consiglio regionale della Toscana del 2020, a cui non sono seguite decisioni concrete né stanziamenti di fondi, per ora: ciononostante in questi giorni sono circolate ricostruzioni errate che parlano di 28 milioni di euro spesi dal governo per costruire quelle che vengono definite “casette dell’amore” o “casette del sesso”, o addirittura “casini” all’interno delle carceri. Il diritto alla sessualità negli istituti penitenziari è una questione di cui si discute da anni, anche per via delle sollecitazioni arrivate a livello nazionale ed europeo, sotto forma di iniziative e appelli ma anche di giurisprudenza. Nonostante sia spesso sminuito e trattato come una questione frivola o poco importante, il suo riconoscimento si ispira ai principi costituzionali e ai regolamenti europei e italiani sulle carceri, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei detenuti. Le polemiche di questi giorni, che hanno coinvolto anche la politica, nascono dalla presentazione di una proposta di legge del Consiglio regionale della Toscana, al quale se ne è aggiunta una del consiglio regionale del Lazio, che però è tuttora bloccata nella commissione Giustizia del Senato. La proposta verrà discussa probabilmente in autunno perché prima sono previste le discussioni delle proposte di legge sul fine vita e sull’ergastolo ostativo, sollecitate dalla Corte Costituzionale. In sostanza nelle scorse settimane il Dipartimento affari penitenziari ha realizzato una sorta di studio di fattibilità richiesto dalla commissione Bilancio del Senato in merito alla proposta, stimando che il preventivo di costo della realizzazione di quelle che tecnicamente sono state chiamate “unità abitative”, qualora la legge dovesse essere approvata, sarebbe di 28 milioni di euro circa di cui, sempre nel caso di approvazione della legge, 3,6 milioni costituirebbero lo stanziamento iniziale. Il ministero della Giustizia stesso ha chiarito cosa sia stato fatto finora con un comunicato pubblicato anche sul giornale online del ministero, GNews, dal titolo già esplicativo: “Affettività, nessuna iniziativa ministeriale”. “In merito a notizie di stampa relative all’ipotesi di costruzione di spazi da dedicare alle relazioni familiari e affettive negli istituti penitenziari, si precisa che si tratta di una iniziativa di legge promossa dal Consiglio della Regione Toscana e risalente al 2020. Nello scorso mese di marzo, la V Commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al Ministero della Giustizia - tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento - una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione. I tecnici di via Arenula, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento; hanno rappresentato la necessità di differire la realizzazione nel tempo e, in ogni caso, di non intaccare i fondi già stanziati per l’edilizia penitenziaria, destinataria di plurimi interventi. Il Ministero non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare. Allo stesso tempo, già dalla lettura della proposta di legge si evince come l’accesso a tali strutture sia incompatibile con il regime del 41bis, che presuppone rigidi controlli anche durante i colloqui”. Le proposte di legge presentate dalle regioni Lazio e Toscana - una al Senato e una alla Camera - sono articolate e non riguardano solo la questione della sessualità: quella del Lazio è composta da cinque articoli che modificherebbero le norme della legge ??354 del 26 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario. Tra le modifiche auspicate ci sono quelle studiate per garantire ai detenuti relazioni affettive intime e riservate, stabilendo che, come si legge all’articolo 1, “i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di 24 ore, delle persone autorizzate ai colloqui”. A questo scopo, la proposta di legge propone “la creazione di unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari, con percorsi dedicati ed esterni alle sezioni, senza controlli visivi e auditivi. In questi spazi i detenuti potranno coltivare il loro diritto all’affettività e alla sessualità come avviene già in molti altri paesi europei come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Croazia e Albania”. Verrebbe data la precedenza a chi non può coltivare la relazione affettiva in ambiente esterno e potrebbero essere autorizzati incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza, non possono fruirne con cadenza regolare. Sarebbe negata invece l’autorizzazione a chi “ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti” e anche quando si ritiene “che la richiesta abbia finalità diverse da quella di coltivare la relazione affettiva”. La proposta di legge parla di unità abitative pensate “come luoghi adatti alle relazioni personali e familiari e non solo all’incontro fisico: un tempo troppo breve rischia infatti di tramutare la visita in un’esperienza umiliante e artificiale”. Il ministero della Giustizia ha chiarito che in ogni caso la proposta di legge non può per forza di cose riguardare i detenuti soggetti al regime del 41 bis, come invece riportato da alcune ricostruzioni: perché in quel caso i colloqui con i parenti sono previsti solo attraverso un vetro divisorio. La proposta non riguarda solo la sessualità. L’articolo 2 prevede che per i detenuti con figli minori di 14 anni i colloqui si svolgano in locali distinti, con spazi preferibilmente all’aperto e con possibilità di attività ludiche e ricreative. Un altro aspetto preso in considerazione dalla proposta di legge è quello dell’istituto del cosiddetto permesso di necessità che consente ai detenuti, nel caso di pericolo di vita di un familiare, di un convivente e in altri non meglio specificati “eventi di particolare gravità” di avere, con l’assenso del magistrato di sorveglianza, il permesso di visitare il congiunto. Secondo la proposta di legge, l’applicazione di questa norma ha margini sempre più ristretti “a causa di una giurisprudenza dominante che attribuisce all’aggettivo grave il significato di circostanza oltremodo drammatica e luttuosa”. La proposta di legge chiede quindi di eliminare il requisito dell’eccezionalità e di sostituire quello della gravità con quello della “particolare rilevanza”. Infine, la proposta chiede di modificare le norme che regolano le telefonate dei detenuti, aumentando la durata della singola telefonata da dieci a venti minuti con frequenza non inferiore a tre volte alla settimana senza differenziazioni tra detenuti comuni e quelli con reati ostativi. L’articolo 5 della proposta punta anche a rendere stabile l’utilizzo dei collegamenti audiovisivi, utilizzati durante il periodo di sospensione dei colloqui dovuto al coronavirus, utile soprattutto per i detenuti con familiari fuori regione o in altre nazioni. La proposta, pur se bloccata in commissione, ha provocato già molte polemiche. Il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia, l’ha definita “un’iniziativa ideologica” dicendo che i soldi dei cittadini andrebbero spesi per aumentare il personale e le dotazioni del corpo di polizia penitenziaria, “costretto a lavorare sotto organico e, come dimostrano le ripetute aggressioni, in condizioni di grave insicurezza”. Monica Cirinnà, membro della commissione Giustizia del Senato, ha risposto dicendo che garantire l’affettività delle persone detenute è “uno strumento fondamentale per tutelare la loro dignità, rafforzare i percorsi di reinserimento sociale e anche per sostenere le loro famiglie che scontano una pena nella pena: non dobbiamo dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione parla di umanità della pena stessa”. Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di polizia Coisp, ha parlato invece di “allarmante stato di smobilitazione” domandando anche se qualcuno si fosse chiesto “quanti ordini verranno impartiti in questo modo e quanti omicidi commissionati”. È lo stesso argomento sostenuto dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervenuto alla trasmissione Otto e mezzo di La7. Gratteri ha parlato di “costruzione di case dell’amore dove si consentirà ai detenuti ad alta sicurezza di incontrare la moglie, la fidanzata, l’amante per 24 ore al mese”. “Immaginate”, ha detto Gratteri, “in quelle 24 ore quanti messaggi si possono mandare all’esterno”. Sul Foglio Adriano Sofri ha sottolineato che l’alta sicurezza a cui si riferisce Gratteri “non è il 41 bis, la cui principale ratio dichiarata è di impedire le comunicazioni fra i boss e le organizzazioni di provenienza. I detenuti in alta sicurezza, che sono infatti molti, quasi diecimila, non hanno, salvi casi specifici fissati dalle autorità competenti, i magistrati o il Dap, restrizioni alle comunicazioni tali da dover contare sul giorno mensile nella “casa dell’amore” (il casino, correggono quelli di cui sopra) per mandare messaggi all’esterno”. Sofri scrive anche che “la mutilazione della sessualità contraddice ogni bella parola sulla restituzione dei detenuti alla società”. Sulla questione è intervenuto anche un altro sindacato di polizia, il Sappe, che ha definito “il sesso in carcere una proposta inutile e demagogica che offende anche chi ha subito un reato molto grave”. Per il Sappe “i penitenziari devono assicurare il mandato costituzionale dell’esecuzione della pena e i nostri agenti di polizia penitenziaria non devono essere “guardoni di Stato”“. È da molti anni che il tema della sessualità in carcere crea divisioni e polemiche. Già nel 1999 Alessandro Margara, magistrato ispiratore della riforma penitenziaria conosciuta come legge Gozzini, allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, propose l’introduzione di apposite unità abitative all’interno degli istituti perché i detenuti potessero trascorrere fino a 24 ore con i propri familiari. Quella proposta però rimase inascoltata. Margara è tra l’altro figura di riferimento dell’attuale direttore del Dap, Carlo Renoldi, la cui nomina aveva suscitato opposizioni e polemiche proprio perché gli viene attribuita un’inclinazione al garantismo sgradita alla componente più giustizialista della magistratura. Nel 2012 anche la Corte Costituzionale parlò dell’affettività in carcere come di ??”esigenza reale e fortemente avvertita”. Nel 2018 l’associazione Antigone per le garanzie e i diritti dei detenuti presentò una proposta di legge in cui venivano previste “visite in appositi locali separati dallo sguardo esterno e dotati di bagno con doccia, cucinotto, letti e altro arredamento, dove i detenuti possano trascorrere del tempo continuato con i propri cari senza sorveglianza se non esterna”. Anche quella proposta non ebbe seguito. Da parte di molti giuristi arrivano da tempo richiami sia all’articolo 2 della Costituzione italiana, che riguarda i diritti inviolabili della persona, sia agli articoli 3 e 8 della Convenzione nazionale dei diritti dell’uomo, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare. L’articolo 24 delle Regole penitenziarie europee prevede poi che “le modalità delle visite permettano ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”. Mai più galera per i bimbi galeotti di Luigi Manconi La Stampa, 1 giugno 2022 Chiunque si trovi in galera ha il diritto umano di pensarsi e dirsi innocente. Perché vittima di un errore giudiziario o di una persecuzione politica; più spesso, perché convinto che le giustificazioni e le attenuanti, di natura sociale o culturale, siano più rilevanti delle proprie responsabilità soggettive; o perché persuaso, infine, che le colpe del mondo o della società, dei governanti o dei nemici personali finiscano per mandarlo assolto. Ma c’è una categoria di detenuti la cui incolpevolezza non consente fraintendimenti o deroghe. Sono gli “innocenti assoluti”. Ovvero i bambini galeotti, da zero a tre anni (talvolta fino a sei), che vivono in carcere unitamente alle proprie madri che scontano una pena. Negli ultimi vent’anni sono stati centinaia e centinaia: e non è difficile immaginare quali effetti abbiano prodotto su di loro quei processi di “deprivazione sensoriale” che la psichiatria attribuisce alla permanenza in una condizione coatta e in un ambiente chiuso. E che incide in profondità su tutti i sensi, alterandoli e deformandoli. Si tratta di minori che nella prima fase di vita non conoscono altro orizzonte se non quello tracciato dalle sbarre e dal muro di cinta; il cui udito è modificato dall’immanenza di rumori che nulla hanno di naturale, e che sono quelli del ferro e dell’acciaio che scandiscono l’esistenza quotidiana; il cui olfatto è inquinato dall’odore di prigione, un lezzo acido fatto di rancido e di greve. Perché questi “innocenti assoluti” (attualmente 20) sono tuttora prigionieri? Perché il nostro sistema penale non ha trovato una soluzione sicura e intelligente per far sì che un certo numero di donne potesse espiare la propria pena senza per ciò stesso imporre ai figli quel brutale trattamento. I tentativi fatti finora, nel corso di due decenni, si sono rivelati inutili se non controproducenti: per inettitudine amministrativa, eccessivo e immotivato rigorismo di una parte della magistratura e incongruenze normative. Ora c’è una novità importante. Due giorni fa la Camera dei Deputati ha approvato un progetto di legge che introduce modifiche assai significative. In sintesi: viene esclusa l’ammissibilità della custodia cautelare in carcere per le madri con figli di età inferiore ai sei anni, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. In tal caso, il giudice può disporre la misura restrittiva solo negli istituti a custodia attenuata (Icam): misura revocabile in caso di evasione o di condotte socialmente pericolose. Viene ammessa la custodia in carcere dell’imputato unico genitore di una persona con disabilità acuta solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale gravità. Viene ampliata, inoltre, l’applicabilità del rinvio dell’esecuzione della pena al padre di minori sotto l’anno di vita (se la madre sia deceduta o comunque impossibilitata ad assistere la prole) e alla madre (o al padre) di minore di tre anni con disabilità grave. Infine, viene imposto al ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni per l’individuazione di strutture da adibire a case-famiglia protette, e l’adozione di misure per il successivo reinserimento sociale delle donne condannate. Una misura, quest’ultima, che può contare, peraltro, su fondi già presenti nel bilancio, e il cui riparto tra le regioni è stato definito dalla ministra Cartabia con un decreto dello scorso settembre. Certamente un passo avanti, ottenuto grazie alla determinazione di due parlamentari, Paolo Siani e Walter Verini, e - fatto notevole - al voto pressoché unanime della Camera. Ora il provvedimento, perché sia definitivo, deve passare al Senato. E allora la destra italiana avrà l’occasione di dimostrare la propria tempra: Giorgia Meloni, attentissima alla propria immagine e all’idea di un conservatorismo che non si manifesti solo come rivalsa sociale, sarà in grado di indirizzare il voto del suo partito verso questa scelta di civiltà? E la Lega, attualmente impegnata in una campagna referendaria per una “giustizia giusta”, deciderà di votare a favore di una normativa che elimina la più abietta delle ingiustizie? Mi auguro di sì, perché sottrarre i bambini galeotti alla loro galera non è solo il più elementare dei gesti di umanità oggi alla portata di ciascun parlamentare. Può essere anche un atto intensamente simbolico, in quanto teso a intaccare quella macchina insensata - ridotta a un ferrovecchio inutile e dannoso - che è il nostro irrazionale sistema penitenziario. Bambini in carcere, se il buon senso non basta di Concita De Gregorio La Repubblica, 1 giugno 2022 Che tipo di stress deve sopportare un piccolo in prigione con la sua mamma? “Mai più bambini in carcere” è uno di quei temi il cui svolgimento è, in apparenza, inutile. In astratto, non c’è chi non possa dire: ma certo, non si ereditano le colpe dei padri. Nessuno che sia venuto al mondo da questo o da quello ha merito né colpa. Da chi si nasce e dove, se in una casa bianca e salva dei quartieri alti o in un sobborgo governato da clan sanguinari, è un capriccio del caso o se volete degli dei. Ogni bambino che arriva sulla terra è nuovo, innocente di tutto. Quindi certo: davanti a una telecamera accesa (è questa la tribuna del popolo, la diretta) nessuno direbbe che il figlio di una ladra o di un’assassina deve crescere in cella. Qualcuno lo pensa, però. Qualcuno in segreto pensa che di certe razze vada estinta la specie, il destino è scritto nel Dna. Se non delinquono, da neonati, è perché non possono: delinqueranno. Qualcuno pensa che ci sono donne che fanno figli uno dietro l’altro per non andare in galera, e di certo ce ne sono, ecco le storie, perciò i figli sono “la scusa” per garantire loro impunità. Vi abbiamo scoperte, voi che restate sempre incinte per non pagare pegno: non ci ingannate, furbette. Poi ci sono le persone che nascono, però. Tre chili e rotti di esseri umani che arrivano al mondo. Quindi: questo è uno di quegli argomenti che dividono i buoni dai cattivi, mettono dalla parte del giusto chi perora la causa di dare una speranza a tutti e dalla parte del torto chi no, e nessuno vuole sentirsi dalla parte del torto. Si inalbera, si ribella, attacca. Dicono: siete buonisti, anime belle, politicamente corretti da spritz. Va bene, lasciate che lo dicano. Nessuno vuol sentirsi dire: amico, sei in errore. Chi è convinto della sua scelta lo resta, in questo come in ogni altro ambito: nella vita pubblica, in quella privata. Dire ti sbagli non serve quasi mai, purtroppo. La discussione con dubbio di sé è moneta fuori corso. Però no, non bisogna arrendersi quando il sentimento di giustizia chiama. Specie se è gratuito, se non conviene, se non porta followers né applausi. Bisogna avere tenacia, pazienza: è un muscolo che si allena come quando si va a correre, speriamo solo che non serva - la consapevolezza - quando è troppo tardi. È triste - l’amore, il consenso- quando è postumo. La legge è buona. Mettere in casa famiglia le madri condannate al carcere con figli sotto i sei anni non è uno sconto di pena per le madri, è una promessa di vita per i figli. Se foste nati voi, da una madre in carcere? Poteva succedere, terno al lotto. Mi appello alle chat dei genitori che dibattono dello stress dei figli alle interrogazioni, al dovere di imparare le tabelline a memoria, all’eccesso di compiti. Che tipo di stress deve sopportare, ammesso che si possa ancora usare questa parola svuotata di senso, stress, un bambino in cella? Riuscire a immaginarlo, voi guerriglieri della cartella troppo pesante, dell’insegnante di matematica nazista? Ora però. Le case famiglia. Dove sono, ci sono? Ce ne sono abbastanza? Esistono, in questo disgraziato e squinternato Stato, strutture in grado di sostenere l’eventuale decisione di legge o saranno i tribunali, di volta in volta, a dire come e dove? Tutto in capo all’amministrazione della Giustizia, un’altra volta? Abbiamo eliminato, quasi del tutto, i consultori. Abbiamo ridotto la sanità di base a un dedalo estenuante di burocrazia. Abbiamo appaltato ai privati la cura, con grande guadagno di alcuni e pena di morte per altri, il Covid ha presentato il conto. La vera domanda, oggi, è: abbiamo ancora una struttura dello Stato capace di sopportare l’onere, i costi, di una decisione umanamente indiscutibile? Possiamo riprendere le redini di un discorso pubblico costruito su equità e giustizia condivise, oppure è già tutto perduto. Solo questo c’è da chiedersi. Non se sia giusto o meno, togliere i bambini dalla galera, perché è giusto. Piuttosto. Se ci siano i soldi o no, per sostenere questa scelta di umanità e civiltà: purtroppo sempre quelli, i denari, servono. E le persone, e le competenze alte, e la capacità di distinguere caso da caso e non fare di ogni erba un fascio. Non ragionare più, per pietà, per categorie: le categorie non definiscono mai niente. Riusciamo ancora? Basta bambini in carcere, la battaglia è vinta ma la strada verso la civiltà è ancora lunga di Enrico Bellavia L’Espresso, 1 giugno 2022 Plaudiamo al primo via libera della Camera che ferma lo scandalo dei piccoli al seguito delle madri recluse. Ma è solo un primo passo. Perché anche dalla qualità del proprio sistema detentivo si legge il grado di maturità di una nazione. Avevamo dedicato la copertina de L’Espresso allo straordinario reportage di Pietro Mecarozzi sulla vergogna tutta italiana dei bambini dietro le sbarre. Sono trascorsi due mesi abbondanti e la Camera ha dato il primo via libera a una legge che ha la firma di Paolo Siani, il deputato dem fratello di Giancarlo, il giornalista ucciso dalla Camorra. Mai più, se passerà la legge, avremo piccoli nelle celle delle carceri o nelle strutture a custodia attenuata che molto gli somigliano. Ma lo scandalo dei piccoli detenuti al seguito delle madri recluse è il risultato di un impianto che considera ancora prioritaria la reclusione come strumento di repressione dei reati. Un tema che altri Paesi hanno affrontato e risolto, deflazionando e di molto il numero delle fattispecie penali punibili con la reclusione. Il fatto è che il carcere pone problemi enormi, specchio del grado di maturità di uno Stato e della chiarezza dei propri intenti nella affermazione del principio della sicurezza sociale. Troppo ondivaga la nostra legislazione che inasprisce a fisarmonica le sanzioni in funzione di allarmi che corrispondono alle pulsioni della politica populista. E non già, come dovrebbe essere, a una meditata valutazione dei rischi seri che corre la popolazione civile. Basti pensare a quanto fatto con l’immigrazione clandestina o con gli stupefacenti. Con il risultato di annullare quelle misure straordinarie che avevano ridotto il numero dei detenuti. Troppi, ancora oggi. Ed è questo il nucleo dell’enormità delle questioni che pone il carcere. I diritti dei detenuti compressi, gli spazi angusti, le condizioni igienico sanitarie, la carenza del personale di custodia, la fatiscenza delle strutture, la carenza di programmi autenticamente di recupero e reinserimento lavorativo hanno tutte a che vedere con la dura legge dei numeri. In Italia, sovente, il carcere diventa un tema solo quando in ballo ci sono episodi di violenza, i pestaggi nelle sezioni, o quando c’è da affrontare l’emergenza mafia. Si torna a parlare di carcere, ignorando i detenuti cosiddetti comuni, se in ballo c’è il rischio che i boss lascino le celle senza pentirsi. È il dibattito sull’ergastolo ostativo che ha occupato nelle settimane scorse i quotidiani e solo parzialmente il Parlamento, visto che a oggi l’intervento legislativo richiesto dalla Consulta per ottemperare alle prescrizioni europee non è arrivato consumando l’ennesimo rinvio. Pur avendo con nettezza difeso la necessità dell’ergastolo ostativo per i mafiosi stragisti, questo giornale non si è nascosto dietro la vastità del tema carcere, per ignorare una battaglia di civiltà come quella condotta sui bambini dietro le sbarre. Una campagna che ha portato al successo del voto quasi unanime della Camera alla proposta di legge Siani. Un primo passo, non l’ultimo. Perché anche dalla qualità delle proprie carceri si legge il grado di civiltà di una nazione. Bimbi e carcere: verso la legge Siani…. e che il tris sia buono di Danilo Paolini Avvenire, 1 giugno 2022 Dopo la Legge Simeone-Saraceni del 1998 e la “Finocchiaro” dal 2001 siamo al terzo intervento normativo per evitare il carcere ai bambini fino a 6 anni e alle loro madri. Andranno in case-famiglia, luoghi di sicuro più idonei alla crescita dei figli e a un rapporto più sano con le loro mamme. Ecco, a leggere questa estrema sintesi della proposta di legge approvata lunedì sera dalla Camera in prima lettura (primo firmatario, il deputato del Pd Paolo Siani) con 241 voti a favore e appena 7 contrari, viene spontaneo di gridare ai nostri rappresentanti a Montecitorio “bene, bravi” e pure “bis”. Il bis non soltanto a motivo del fatto che sarà ora necessaria una seconda approvazione, quella del Senato, per tramutare i tre articoli in legge dello Stato. Ma soprattutto perché non è la prima volta che si spera di aver finalmente risolto lo scandalo dei bambini costretti a stare in carcere. Anzi, la normativa adesso al vaglio di Palazzo Madama è almeno un “tris” (se non addirittura qualcosa di più, considerando anche le misure già presenti nella legge Gozzini del 1986 e nella Simeone-Saraceni del 1998) nella storia parlamentare repubblicana. Era in effetti un cronista con molti anni in meno e molti capelli in più, quello che all’inizio dei 2000 ebbe modo di visitare il reparto per mamme detenute di Rebibbia (ambiente per quanto possibile sereno e colorato, ma pur sempre dentro una prigione) e diede poi notizia dell’approvazione della cosiddetta Legge Finocchiaro - dal nome della ministra delle Pari opportunità che l’aveva proposta nel 1997 -, la numero 40 del 2001. Finalmente mai più bambini in carcere, si scrisse e si disse pure 21 anni fa. Quella normativa prevedeva la possibilità per la mamma condannata con figli di età fino a 10 anni, previa istanza della stessa detenuta (o del papà detenuto, se vedovo e in altre particolari circostanze) al magistrato di sorveglianza e in presenza di alcuni precisi presupposti, di scontare la pena a domicilio. Se non che, già l’anno successivo fu chiaro che la legge - nata con le migliori intenzioni - non poteva funzionare perché gran parte delle donne interessate non aveva un domicilio stabile oppure non era in grado di garantire uno o più dei suddetti presupposti, per esempio l’insussistenza del pericolo di commettere altri reati. Trascorsero altri 10 anni prima di un nuovo intervento legislativo in materia, stavolta per innalzare da 3 a 6 anni l’età massima dei bambini che possono stare con le loro mamme, seppure in stato di detenzione, ma soprattutto per rendere possibile il trasferimento fuori dai penitenziari, negli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) o in case-famiglia protette. Tuttavia, di nuovo, a 11 anni dall’approvazione della legge, la 62 del 2011, gli Icam si contano sulle dita di una sola mano e le case-famiglia per madri detenute sono soltanto due. Ora arriva, arriverà speriamo, la legge Siani, anche questa costruita con le migliori e più lodevoli intenzioni. Tra l’altro, da un punto di vista normativo e sociale fa segnare un deciso passo avanti, in quanto afferma “il principio secondo cui mai un bambino potrà varcare la soglia di un carcere”. Quindi, ripetiamo: bene, bravi, tris. Ma con l’augurio che stavolta l’esperienza insegni: una legge, anche buona, perfino ottima, non riesce a dispiegare i suoi effetti se non trova terreno fertile in istituzioni centrali capaci di fare sistema insieme agli enti locali e alle realtà del Terzo settore. Con tutto quanto ne consegue, ovviamente, in termini di risorse, umane e finanziarie. Insomma, in questo come in altri casi, dopo l’approvazione della legge ci sarà moltissimo da lavorare per far uscire realmente quei bambini, con le loro madri, dal carcere. Attualmente sono una ventina, ma in un Paese civile anche un solo bambino in carcere dovrebbe essere motivo di scandalo. Mai più bimbi in cella, scelta di civiltà. “Subito case famiglia attrezzate” di Viviana Daloiso Avvenire, 1 giugno 2022 Dopo il primo sì alla Camera, già si discute sulle modalità di applicazione delle norme a favore di madri detenute e figli. Il nodo risorse legato e la necessità di accelerare sulle strutture. Mai più bambini in carcere. Coi tempi dei voti parlamentari (non dovrebbero essere troppo lunghi ma richiedono ancora due passaggi, prima al Senato e poi di nuovo alla Camera) l’Italia presto dirà addio alla presenza, dietro le sbarre, dei piccoli nati con l’unica colpa d’avere una mamma detenuta. Venti, ad oggi, sparsi tra le strutture della Campania (che ne ospita quasi la metà), del Lazio, della Lombardia e del Piemonte: fosse anche uno soltanto, basterebbe per gettare il nostro Paese nell’abisso dell’inciviltà. Eppure, nonostante l’ingiustizia e la palese anticostituzionalità della pratica, e nonostante dal 2011 esista una legge che prevede “ove possibile” che i piccoli stiano con le loro madri ma non in carcere, le cose hanno continuato ad andare diversamente. Vite stritolate, calpestate, a volte persino sacrificate - fu il caso drammatico dell’infanticidio compiuto da una detenuta tedesca nel carcere di Rebibbia nel 2018 - in barba a tutti i diritti che all’infanzia andrebbero garantiti. Mai più, dunque, stabilisce il testo di legge approvato alla Camera nel pomeriggio di lunedì: la proposta di “Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, a prima firma del deputato dem Paolo Siani e nato nel solco dell’appello lanciato con forza dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, all’inizio del suo mandato, ha come principale obiettivo quello di superare la normativa in vigore - quella che istituiva gli Istituti di detenzione attenuata, i cosiddetti Icam - e di rendere obbligatoria la collocazione della madre e del bambino in case famiglia protette, dove i piccoli non abbiano alcuna percezione di vivere in carcere, possano crescere più sereni, frequentando i propri coetanei. Tutto bene, sulla carta, non fosse che nel nostro Paese di case famiglia protette convenzionate con gli enti locali e attrezzate per ospitare questi bimbi con le loro mamme “speciali” ce ne sono al momento soltanto due: una a Milano, gestita dall’associazione C.i.a.o., l’altra a Roma, intitolata a Leda Colombini. Strutture nate dalla buona volontà di educatori e volontari impegnati in prima linea nella tutela dei più piccoli, che hanno galleggiato per anni grazie a raccolte fondi e donazioni di privati o, nei casi più fortunati, con le rette disposte di volta in volta dai decreti dei Tribunali dei minori. Il tutto al di fuori di protocolli istituzionali condivisi, cercando (e per fortuna spesso trovando) la collaborazione di provveditorati, enti locali, tribunali e dell’amministrazione penitenziaria. “Questa legge è senza’altro un passo avanti decisivo nell’ottica della tutela dei diritti dei minori - spiega Andrea Tollis, che con la moglie Elisabetta Fontana gestisce la casa C.i.a.o. di Milano, in cui al momento vivono tre mamme coi loro tre bimbi -, anche perché per la prima volta non si parla di possibilità di accogliere questi nuclei in casa famiglia, ma di un obbligo vero e proprio. Il punto è che una volta individuato il “dove” si deve pensare anche al “come” di questa accoglienza”. Per farla breve: le case famiglia non possono diventare piccole prigioni dorate dove garantire semplicemente l’esecuzione del trattamento penale, ma luoghi di elaborazione di un percorso di reinserimento sociale e ricostruzione personale “nell’ottica di una progettualità che deve andare oltre la pena e farsi carico di queste madri e dei loro bambini in maniera globale, sanando i fattori di disagio pregressi e consentendo loro un’autonomia nel futuro”. Un percorso tutt’altro che semplice e che al C.i.a.o. - da dieci anni ormai - richiede la presenza costante di due psicoterapeute, una criminologa e un educatore, il sostegno al percorso scolastico dei bimbi ma anche alla loro presa in carico dal punto di vista sanitario, alle attività ricreative e ludiche fino alla gestione dei rapporti con le famiglie di origine e a volte anche di quello coi padri, spesso anche loro detenuti. “Senza contare le attività di recupero delle madri, il vero nodo della questione: donne spesso vittime di violenza, cresciute sulla strada, estranee alla maternità”. C’è da costruire, insomma: “Allargare la platea delle case famiglia attrezzate per questi percorsi è possibile, oltre che auspicabile, ma tenendo presente l’esperienza maturata in questi anni” continua Tollis. E vanno coinvolti i territori, i servizi sociali, “in percorsi che non possono iniziare a fine pena, come purtroppo indicato nel testo di legge all’esame del Parlamento, ma subito, dal momento in cui madri e bambini entrano nelle strutture”. Anche perché dal punto di vista economico serve la copertura delle spese ordinarie attraverso lo strumento delle rette, che finora è mancata e che proprio all’intervento dei servizi si lega. I fondi, peraltro, già ci sarebbero: “Sono stati stanziati, nella cifra di 4 milioni e mezzo di euro per il triennio in corso, grazie a un emendamento alla legge di bilancio” ricorda Tollis. Per farli arrivare a destinazione, però, servono gli avvisi pubblici delle Regioni, al momento fermi al palo tranne che nel caso del Piemonte. La legge, allora, è davvero solo l’inizio. Siani (Pd): “Ecco la mia legge. Le mamme non stiano in cella con i figli piccoli” di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 1 giugno 2022 “Una misura di civiltà, le donne incinte e le mamme di figli piccoli non devono stare in carcere”. Paolo Siani, deputato dem, illustra la legge approvata alla Camera. Per sdrammatizzare si potrebbe partire da un film come “Ieri, oggi, domani” in cui Sofia Loren, contrabbandiera di sigarette, si dava alle gravidanze seriali per evitare la cella. Oppure si può fare i conti con la realtà: nel 2018 una detenuta di Rebibbia, disperata, gettò i suoi due bimbi dalla tromba delle scale della prigione, uccidendoli. “Quando ascoltai la storia, raccontata dal cappellano del carcere, mi vennero i brividi”. Paolo Siani, parlamentare dem, ha trasformato la sofferenza delle mamme recluse con i figli, in impegno civile. L’anno dopo depositò alla Camera una proposta di legge per evitare che i bimbi finissero in carcere con le loro madri o che in cella continuassero a finirci donne incinte. Lunedì scorso finalmente è stata approvata (241 voti a favore, Lega compresa, solo 7 contrari di Fratelli d’Italia). Adesso si aspetta il Senato, ma dovrebbe trattarsi di una formalità. Se tutto andrà bene, le mamme con i loro figli, fino ai 6 anni di età, non varcheranno più il cancello del carcere o degli istituti di custodia attenuata (Icam), ma al limite andranno in case-famiglia. Onorevole Siani, faccio l’avvocato del diavolo: ora non c’è il rischio che le mogli dei boss di camorra o di mafia restino a piede libero? “Questa è stata una delle obiezioni che mi furono mosse all’inizio in Parlamento. Mi dicevano che, proprio io, avrei dato un’opportunità alla mafia, perciò la proposta di legge ha rallentato molto. In realtà non è così, abbiamo previsto che nei casi di particolare gravità, se c’è elevata pericolosità sociale legata a certi reati, il giudice non autorizzerà la scarcerazione e le donne e i loro figlioletti dovranno permanere comunque negli Istituti di custodia attenuata”. La stessa norma varrà anche per i papà? “Certamente. Se un padre a cui non sia stata revocata la potestà genitoriale fosse vedovo, oppure sua moglie non potesse provvedere per impedimenti accertati ad allevare la prole fino ai sei anni di età, anche in quel caso scatterebbe l’incompatibilità con la cella”. Torniamo alle madri detenute insieme con i figlioletti, in realtà la legge che impedisce il carcere esiste già, almeno sulla carta... “Sì, ma nei fatti è difficilmente applicata. Quasi sempre capita che la donna incinta venga arrestata e il minore trasferito con lei in cella per consentirne l’accudimento. Invece, con la proposta di legge abbiamo reso obbligatorio che, al momento dell’arresto, al giudice venga subito comunicato lo status di gravidanza o l’esistenza di figli minori di anni sei, in questo caso il giudice deve subito prendere atto della situazione di incompatibilità con il carcere”. L’associazione Antigone ha censito attualmente 19 bambini in cella con le loro madri, in tutt’Italia, fino a prima del Covid erano oltre sessanta... “Sì, in questi anni l’emergenza sanitaria ha convinto i giudici di sorveglianza a concedere maggiori benefici alle donne con bambini in carcere. Del resto, nelle mie visite nelle carceri femminili e negli Icam di mezz’Italia ho potuto constatare che, nonostante gli sforzi del personale e delle direzioni, le condizioni detentive di mamme e figlioletti erano precarie e comunque controproducenti per i minori. Lo sviluppo del cervello di un bambino è più veloce nei primi due anni di vita e molto influenzato dall’ambiente in cui vive”. Il garante regionale per i detenuti campani, Samuele Ciambriello, continua a denunciare situazioni gravi. Proprio ieri ha denunciato uno strano suicidio di un detenuto a Santa Maria Capua Vetere... “Gli riconosco un grande impegno su un tema così complesso. Inoltre mi ha accompagnato e aiutato in varie visite nei penitenziari. All’Icam di Lauro, a Poggioreale, a Pozzuoli, a Rebibbia, tutte strutture che mi hanno sempre più convinto della necessità di tenere fuori dalle celle le mamme e i loro figlioletti”. Un altro problema molto serio riguarda i detenuti anziani in carcere. Ci sono casi di ultraottantenni, segnati da reati per associazione mafiosa che magari risalgono a 30 anni prima... “Anche queste situazioni meriterebbero uno sguardo più umano. Questa legge dovrà servire a ripensare il concetto di carcere. La mia soddisfazione più grande è che anche molti deputati di Fratelli d’Italia hanno votato a favore e perciò li ringrazio pubblicamente”. Da detenuti lavoratori a lavoratori detenuti di Denise Amerini* e Corrado Ezio Barachetti** collettiva.it, 1 giugno 2022 Il lavoro è un elemento cardine della rieducazione ed è elemento fondante del nostro ordinamento costituzionale, fin dall’articolo 1. La Costituzione non fa differenza fra lavoratori detenuti e non, tutela il lavoro in tutte le sue forme, per questo in carcere deve perdere ogni carattere afflittivo, di sfruttamento, di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e pari diritti. Anche la giurisprudenza costituzionale, come la Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ripetutamente affermato la formale equipollenza del lavoro penitenziario con il lavoro libero, e il fatto che sia finalizzato alla rieducazione non implica di per sé alcuna deroga alla comune disciplina giuslavoristica e previdenziale. Non può essere un obbligo, né un’opportunità, è un diritto/dovere, l’amministrazione “è tenuta a” garantirlo. Eppure ancora oggi permangono differenze importanti, a partire dalla retribuzione, stabilita nella misura dei due terzi di quella contrattualmente prevista, o nell’accesso agli ammortizzatori, cosa assolutamente non scontata se pensiamo all’impegno assunto insieme a Inca Cgil per promuovere vertenze con lo scopo di garantire il diritto dei detenuti alla Naspi. Questi i temi al centro dell’iniziativa “Le tutele del lavoro per le persone ristrette in carcere”, un confronto promosso dalla Cgil nazionale, che si tiene nella Sala Santi a Roma e in diretta su Collettiva il 1° giugno dalle 10 alle 14. L’Inps negli anni aveva sempre riconosciuto l’indennità di disoccupazione alle persone ristrette impegnate in attività lavorativa retribuita all’interno dell’istituto penitenziario, o alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Con il messaggio 909 del 5 marzo 2019, però, ha ribaltato il proprio orientamento, non riconoscendola in occasione dei periodi di inattività in cui i detenuti vengono a trovarsi. Questo messaggio prende a riferimento la decisione della Cassazione 18505 del 2006, che recita: “L’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’istituto penitenziario non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria”. Contro il mancato riconoscimento la Cgil, anche attraverso gli uffici vertenze, il collegio legale dell’Inca, i garanti dei detenuti, ha promosso numerosi ricorsi amministrativi sempre con esito positivo. Le norme, dalla legge del 1975 al decreto legislativo 124 del 2018, stabiliscono infatti che i detenuti che lavorano hanno diritto come tutti i lavoratori ai benefici previdenziali, a un trattamento che “deve riflettere” quello della società libera: il carcerato che lavora deve vedersi riconosciuti gli stessi diritti del cittadino libero, ha diritto a una remunerazione corrispondente alla qualità e alla quantità del lavoro prestato, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali. Non solo per questo riteniamo immotivata la decisione assunta da Inps nel 2019, e chiediamo che venga superata: dobbiamo infatti ricordare che la pronuncia della Cassazione cui fa riferimento è antecedente alla sentenza della Suprema Corte 341/2006, che ha confermato la competenza del giudice del lavoro (e non del magistrato di sorveglianza) nelle controversie di lavoro in cui siano parte i detenuti. Ma, oltre a questo, un ragionamento assume fondamentale importanza: la negazione del beneficio della Naspi è in contrasto non solo con il principio di uguaglianza, ma con la funzione rieducativa, stabilita dalla nostra Costituzione, che deve avere la pena. La non completa declinazione di tutele e diritti mette, infatti, in discussione proprio il progetto inclusivo di rieducazione e reinserimento sociale che deve attuarsi attraverso il lavoro: la natura “educativa” del lavoro penitenziario deriva dal fatto che si ripropone il vincolo di subordinazione proprio dei comuni, normali, rapporti di lavoro, e dal fatto che sia accompagnato dalle comuni tutele giuslavoristiche. Sono contraddizioni che ancora sottendono una certa logica punitiva nei confronti dei reclusi. Solo riconoscendo piene tutele e concreti diritti la persona ristretta può riconoscersi appieno come lavoratore. Come sostiene il Garante nazionale Mauro Palma, si è in carcere perché si è puniti, non per essere puniti, e la negazione delle normali, comuni, tutele giuslavoristiche è un’ulteriore afflizione. Come organizzazione sindacale non possiamo accettare che i diritti del lavoro siano declinati in maniera diversa a seconda di chi è la persona che svolge quel lavoro. Se vogliamo che il detenuto possa riconoscersi davvero come lavoratore, portatore di diritti e doveri, e passare dalla condizione di detenuto lavoratore a quella di lavoratore detenuto non possiamo permettere che prevalga quel pensiero, oggi predominante, per cui le persone ristrette possono (o addirittura devono) avere diritti inferiori. È la persona a essere al centro, con i suoi diritti, con la sua dignità. Lavoro, salute affetti devono essere garantiti a tutti. Il 20 maggio scorso abbiamo ragionato a Firenze su un contratto individuale di assunzione per chi lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, oggi 1° giugno affrontiamo il tema del riconoscimento della Naspi, all’interno della riflessione complessiva che come Cgil portiamo avanti perché il lavoro in carcere abbia pieno riconoscimento e pieni diritti. Altrimenti non è lavoro: è altro. *Responsabile dipendenze e carcere area Stato sociale e diritti Cgil **Coordinatore nazionale Mercato del lavoro Cgil Una partita di calcio tra padri e figli. Anche in carcere si scende in campo di Laura Badaracchi Avvenire, 1 giugno 2022 Si ricomincia dalla Casa circondariale di Lanciano, in provincia di Chieti, dove oggi scenderanno in campo 36 padri detenuti e 60 figli e figlie, a turno, per giocare insieme a calcio. Daranno loro il fischio d’inizio a “La partita con papà”, iniziativa promossa nel mese di giugno in 70 delle 190 carceri di tutta Italia dall’associazione Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. A Treviso match al via il 6 giugno, il giorno seguente a Castrovillari (Cosenza), Lodi e Giarre (Catania), l’8 fischio d’inizio ancora a Lanciano, Reggio Emila e alla Casa circondariale Montacuto di Ancona, il 9 a Paola (Cosenza) con 21 figli e 12 papà, Livorno e alle 10 novità assoluta: a Rebibbia femminile, Roma, saranno le mamme a disputare l’incontro. “È la prima volta per le detenute, da quando abbiamo lanciato questo momento d’incontro e di gioco tra genitori e figli” racconta Lia Sacerdote, fondatrice e presidente dell’associazione nata nel giugno 2002, che quindi compie 20 anni d’impegno per vincere “l’invisibilità dell’infanzia in generale” e in particolare dei figli di reclusi. A riguardo, fin dalle origini di Bambinisenzasbarre la presidente si è battuta per promuovere case famiglia per madri autrici di reato con figli conviventi con meno di 6 anni, per evitare ai piccoli l’esperienza del carcere. “Quindi siamo felici della proposta di legge finalmente approvata alla Camera” commenta la presidente. L’idea della partita nei penitenziari con protagonisti genitori e figli, come momento d’incontro per tutta la famiglia, “è nata nel 2015 proprio dai bambini. All’inizio si era pensato ai piccoli come spettatori, ma come al solito decidono loro cosa fare: hanno iniziato a scendere in campo con i papà. Ora lo fanno indossando le nostre magliette con lo slogan “I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini”: le donazioni che riceviamo servono anche per finanziare progetti come questo e auspichiamo che si diffonda. In alcuni istituti si sta organizzando una specie di torneo con piccole squadre per far giocare più figli. E speriamo che diventi un’iniziativa in ambito europeo”. Infatti la partita è inserita nella campagna di sensibilizzazione “Carceri aperte” in programma proprio a giugno, per far accedere negli istituti le famiglie, inserita a sua volta nella campagna europea “Non un mio crimine ma una mia condanna” promossa dal network Cope (Children of prisoners Europe). Nel 2015 avevano aderito 12 istituti, 500 bambini e 250 papà detenuti, mentre nel 2019 sono state giocate 68 partite in altrettante carceri e città, coinvolgendo 3.150 bambini e 1.700 genitori detenuti, agenti della polizia penitenziaria ed educatori. Dopo lo stop forzato imposto dalla pandemia nel 2020 e 2021, le adesioni sono state entusiastiche e continuano ad arrivare, con 73 partite già fissate nel corso del mese. “L’aspetto sportivo è importante, ma ci teniamo a sottolineare che si tratta di un momento di relazione, quindi uno degli esiti del lavoro dell’associazione che nel 2014 ha promosso la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, rinnovata il 15 dicembre 2021 dalla firma della ministra Marta Cartabia. In essa si riconosce il diritto alla non discriminazione e alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore”. Magistrati per il Sì al referendum di Annalisa Chirico Il Foglio, 1 giugno 2022 Alla giustizia serve una sveglia. Parla il giudice D’Ambrosio. “Nell’attesa che l’Anm venga sciolta, è bene votare sì ai referendum sulla giustizia”, parla così al Foglio Corrado d’Ambrosio, giudice civile al Tribunale di Salerno, mai iscritto ad alcuna corrente e convinto assertore dello scioglimento del sindacato delle toghe. “I referendum del 12 giugno saranno un’occasione utile per mandare un segnale di cambiamento anche se le chance di successo sono obiettivamente limitate”. I promotori, Lega e Radicali, ci credono. “Ma il raggiungimento del quorum è fuori portata, soprattutto in un paese dove manca un’adeguata campagna di sensibilizzazione da parte della stampa e, in generale, dei mezzi di informazione. Si parla di tutto fuorché dei temi referendari. Il nostro è un paese senza memoria dove è assai facile lamentarsi di ciò che non va e lanciare strali contro le inefficienze del sistema, salvo poi, quando c’è da mettersi in gioco, dileguarsi nel nulla”. Un quesito riguarda la separazione delle funzioni requirente e giudicante. “Sono favorevolissimo. Nella mia vita sono stato sempre e soltanto giudice, mai mi sognerei di passare a un mestiere completamente diverso com’è quello del pm. Il ruolo della pubblica accusa è assolutamente sproporzionato rispetto alle esigenze del sistema. Il pm è diventato un potere irresponsabile. È pericoloso per la democrazia”. Vero è che i magistrati che cambiano funzione sono pochissimi. “Ciò non toglie che il pm viva una condizione del tutto speciale: è il super-capo della polizia giudiziaria, di fatto non deve rispondere a nessuno e, nel contempo, gode di tutti i profili di protezione, tutela e garanzia propri della funzione giurisdizionale. In Italia il magistrato ha una responsabilità disciplinare e civile, seppur indiretta. Il pm, a differenza del giudice, gode anche di una forma di legittimazione popolare che gli deriva dal protagonismo mediatico”. C’è un fattore “M” come “media”, dice lei. “Lo ha spiegato in modo inappuntabile il professore Vittorio Manes. Il processo si è trasferito interamente sulla stampa, nei tribunali è rimasto solo il rito dell’impugnazione”. È favorevole ad abrogare l’obbligo della raccolta firme per la candidatura al Csm? “Sì, tuttavia non basterà ad estirpare il potere delle correnti. Io sono favorevole al sorteggio per i componenti togati, penso che, con determinati requisiti e caveat, possa essere inquadrato anche sul piano costituzionale. È l’unico modo per rompere il monopolio delle correnti che agiscono come veri e propri partiti politici”. Lei ce l’ha più con la politica o con la magistratura associata? “Oggi il problema principale è dato dal rapporto patologico e incestuoso tra Csm e Anm, per questo il sindacato va sciolto. L’organo di autogoverno opera secondo logiche sindacali, non istituzionali. A Palazzo de’ Marescialli non siedono i membri togati del Csm ma gli esponenti delle correnti”. Che pensa del quesito che intende limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere? “Non sono un penalista e non mi addentro in un terreno a me ignoto”. E sulla partecipazione degli avvocati nei consigli giudiziari? “Favorevole. Essendo parte del processo, l’avvocato ha diritto di partecipare al processo valutativo dei magistrati. Il loro coinvolgimento può contribuire alla laicizzazione del ruolo e della posizione di giudici e pm”. E sulla legge che prevede l’incandidabilità per i condannati in primo grado? “La ritengo in contrasto con la Costituzione e con il principio della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Rischia di essere un ulteriore strumento di interferenza del potere giudiziario nello spazio politico e democratico. È l’ennesima spia del cortocircuito tra politica e magistratura”. Negare l’informazione sui referendum significa anche tradire il messaggio di Pannella di Valter Vecellio Il Dubbio, 1 giugno 2022 Solo con grande ritardo si è cominciato a dare un minimo di visibilità alla consultazione del 12 giugno. Fa paura avvicinare gli elettori a una questione come la giustizia, decisiva per la democrazia. Da più parti, si comincia a prendere cognizione del clamoroso ma non sorprendente silenzio sui temi referendari del 12 giugno prossimo, e più in generale dei temi relativi alla giustizia. Non è mai troppo tardi, anche se il ritardo è enorme, per quello che riguarda i referendum per una giustizia più giusta: quasi incolmabile. La giustizia è una prateria enorme: il carcere, i detenuti e l’intera comunità penitenziaria costretti a vivere in condizioni inaccettabili e contrarie al dettato costituzionale; in tantissimi ogni anno patiscono una carcerazione preventiva ingiusta (una bestemmia quella di Marco Travaglio che non sia uno scandalo che un presunto innocente trascorra giorni e settimane in carcere; giustamente Gaia Tortora l’ha mandato sonoramente a quel paese). La giustizia riguarda tutti noi che possiamo finire stritolati nelle maglie della giustizia, e uscirne (se ne usciamo) con la beffa: “Il fatto non sussiste”. Per risarcimento, cifre irrisorie, quando arrivano. Diritto al diritto; diritto alla conoscenza: i due architrave del “fare” e del “dire” di Marco Pannella per tutta la sua lunga vita politica. È un richiamo al precetto del presidente Luigi Einaudi, nelle prime pagine delle sue “Prediche inutili”: conoscere per deliberare; chi non conosce decide male, o non decide affatto. Conoscenza presupposto principale della libertà e della democrazia. Sarà un caso se il primo dei miti riguarda proprio la conoscenza: Adamo ed Eva sono beati e felici, nel Paradiso; tutto possono fare, tutto è al loro servizio. Solo una cosa è loro preclusa, vietata: assaporare la delizia del pomo della conoscenza. Quando lo fanno, sono inappellabilmente condannati, puniti per sempre: delitto di “conoscenza”. Anche in quel caso un processo sommario, senza possibilità di difesa; forse per questo, il verdetto è stato rapidissimo… Fuor di celia: la conoscenza è l’incubo di tutti i dittatori. Pannella lo sapeva molto bene. Altro che le fesserie di chi dipinge un Marco furioso e invidioso del successo di un’Emma Bonino, e da tutti schivato per il timore d’essere vittime di sue fregature. Pannella non è il dio Crono che divora i figli; è l’opposto: molti “figli” di Marco lo hanno sbranato: si sono cibati, nutriti di questo gigante che ha lasciato un enorme patrimonio da studiare, elaborare, arricchire, difendere. Non è stato un pacifista alla Gandhi, alla Tolstoj, alla Aldo Capitini, anche se ha praticato digiuni, marce, occupazioni, sit in. La nonviolenza pannelliana nulla concede alla mistica pacifista, Marco è più vicino agli anglosassoni: il movimento Fabiano, Herbert Thoreau, Bertrand Russell (contrarissimo alla prima Guerra mondiale, convintissimo che solo con le armi ci si potesse opporre a Hitler e al nazismo). La nonviolenza di Pannella è molto pragmatica, legata all’hic et nunc; costituisce un salto di qualità: coniuga l’azione nonviolenta ove possibile, al costante richiamo al diritto. Alla norma, da rispettare e violare se ritenuta sbagliata, pretendendo però che sia applicata con rigore, e così far esplodere le contraddizioni, e poi superarla, magari con l’aiuto proprio di chi la voleva mantenere: con/ vincere, vincere “con”. La visione nonviolenza/ diritto di Pannella è contenuta in modo mirabile in quel “Manifesto contro lo sterminio per fame nel mondo”, sottoscritto da centinaia di premi Nobel di ogni orientamento politico e religioso, ma da lui materialmente vergato. Un manifesto politico attualissimo, vale per l’”oggi” ed è di pre/ veggente attualità per i tempi futuri. Questo il lascito: non un’eredità da contendere, piuttosto un patrimonio di tutti, da coltivare con cura. Compito lungo, difficile, di poca immediata soddisfazione, ma urgente, necessario. Lo comprendono e lo faranno, temo, in pochi. Personaggi come Pannella ed Enzo Tortora, ma anche Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini, sono come i patroni del paese: un paio di volte l’anno la processione, i festeggiamenti, i mille buoni propositi. Finita la festa, gabbato il santo. Per questo credo che Marco abbia sbagliato quando ha detto: “Da vivo mi trattano come fossi morto. Da morto mi tratteranno come se fossi vivo”. No: da morto tentano di seppellirlo e cancellarlo meglio. Da morto in tanti lo temono più di quando era vivo; pochi lo comprendono e lo rimpiangono davvero. Uggetti: “Io che ho conosciuto la galera dico: troppi innocenti lì dentro…” di Simona Musco Il Dubbio, 1 giugno 2022 Simone Uggetti tra i promotori dei Referendum sulla giustizia. L’ex sindaco di Lodi “perse” la fascia per colpa della Severino, ma dopo una condanna in primo grado e 10 giorni in carcere è stato assolto. “Tutti quelli che fanno politica conoscono la mia storia e la cosa che mi ha colpito di più è che c’è una distanza piuttosto profonda tra giudizio privato ed esposizione pubblica. Quasi come se fosse necessario apparire diversi da come si è per rispondere ad una qualche regola”. Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, ha scelto di accettare l’invito dei Radicali per farsi promotore dei Referendum e tirare fuori dalla semi-invisibilità la campagna. E lo ha fatto dando voce e volto al quesito sulla legge Severino, portando in dote la sua esperienza di amministratore finito in carcere per 10 giorni e ingiustamente azzoppato da quella norma, nonostante la condanna a 10 mesi incassata in primo grado per turbativa d’asta sia stata poi ribaltata in appello. Ora lo attende un nuovo processo, dopo l’annullamento con rinvio della sentenza in Cassazione. Ma intanto un primo risultato lo ha ottenuto: le scuse del ministro Luigi Di Maio, dichiaratosi colpevole di gogna. Scuse, le sue, che ci riportano proprio al punto di partenza: in tanti, sulla giustizia, si lasciano condizionare da ordini di scuderia e dal timore di finire nella lista dei cattivi. Quanto ha a che fare con la sua vicenda giudiziaria la decisione di fare da testimonial alla campagna referendaria? Il primo diritto civile è un diritto politico ed io l’ho sempre esercitato. Credo che sia dovere di ogni cittadino cercare di informarsi e manifestare la propria opinione. Sicuramente la mia storia ha inciso, perché esperienze come questa, che ti cambiano così radicalmente la vita, ti spingono ad interrogarti sull’equilibrio di un sistema, sui suoi metodi, gli strumenti e la sua efficacia. E si è portati ad approfondire. Sono stati anni di lunghe riflessioni, di scambi con i miei avvocati e con le persone con le quali ho avuto occasione - e sono tante - di parlare del sistema. La mia storia è conosciuta da tutti quelli che fanno politica e uno degli elementi che di più mi ha colpito, parlando con esponenti di ogni tipo di schieramento, è che c’è una distanza piuttosto profonda tra giudizio privato ed esposizione pubblica. Quasi ci fosse una sorta di timore ad apparire diversi dalla regola sociale alla quale si ritiene di dover rispondere. Questi cinque quesiti possono incidere sul problema? Vedo questo referendum come la possibilità, da parte dell’opinione pubblica, di dare un’indicazione forte al Parlamento. Di sicuro non risolvono i problemi della giustizia, ma indicano al legislatore la strada sulla quale incamminarsi per dare attenzione a temi come equilibrio, certezza, suddivisione dei poteri. Il tema della promiscuità dei poteri, ad esempio, è evidente se consideriamo la presenza di magistrati in così copioso numero nei ministeri e in Parlamento: il problema va affrontato, anche per garantire ai magistrati la possibilità di esercitare meglio il proprio ruolo, senza interferenze, con più autonomia, libertà e responsabilità. Fra questi cinque quesiti quali sono quelli che le premono di più? Il primo è ovviamente l’abrogazione della legge Severino, per la parte che riguarda la sospensione degli amministratori che hanno una condanna in primo grado. Anche se la Corte costituzionale si è già pronunciata, è innegabile l’evidente disparità di trattamento tra un amministratore pubblico e il comune cittadino, mentre l’uguaglianza di tutti è un principio cardine del nostro diritto. Il secondo è quello relativo alla custodia cautelare, perché ogni anno finiscono in carcere da innocenti - o ingiustamente - circa mille persone. Si tratta di tre persone al giorno: a me non sembra un dato né piccolo né banale. Serve un sistema più equo, più giusto e più veloce, perché quando ci sono tempi troppo dilatati, anche se il giudizio di colpevolezza risulta essere corretto, non si sta comunque erogando un buon servizio. Voglio dirlo con una metafora che, secondo me, è calzante: è come il medico che interviene troppo tardi. Per iniziare un percorso che porti a questi cambiamenti serve anche la possibilità di un pronunciamento popolare in un momento in cui, per diversi motivi, non si sta dando molto spazio alla campagna referendaria, tranne che in poche nobili eccezioni. Quali sono i motivi di questo silenzio? È duplice: da una parte l’intervento della Corte costituzionale ha escluso i tre temi più “facili” - responsabilità civile, eutanasia e cannabis - che consentivano anche ai non addetti ai lavori di pronunciarsi. Dall’altra, sicuramente, i temi della giustizia creano un livello di attenzione all’interno della politica molto marcato. E una parte dei giornalisti è molto sensibile a queste “timidezze”. Perché votare sì anche agli altri tre quesiti? Per quanto riguarda la raccolta firme per le candidature al Csm, l’obiettivo sotteso è quello di diminuire il potere delle correnti. Gli altri due quesiti rientrano nell’intenzione più generale di responsabilizzare la magistratura. Il tema è diminuire la promiscuità tra un esorbitante ruolo delle procure e una più tenue, anche da un punto di vista mediatico, presenza della parte giudicante. Ma anche arrivare a stabilire un piccolo principio di rendicontazione della propria attività: pur non andando a ledere l’autonomia, essendo funzione pubblica e pagata con denaro pubblico, è giusto che ci sia una verifica del lavoro svolto. Non si tratta di una battaglia della politica contro la magistratura, ma del coraggio della politica di fare una riforma nell’interesse di tutti e quindi anche nell’interesse della magistratura. Solo che al momento la classe politica non sta dando grandi prove di autonomia. L’opinione pubblica però in questi anni è cambiata. Il 2022 non è il 1992, non c’è dubbio. Ma nemmeno la diffidenza è una cosa positiva, perché quando c’è un servizio dello Stato che non funziona è un problema per tutti. Se il sì raggiungesse il quorum crede che non ci sarebbero più casi di malagiustizia? Gli errori purtroppo possono capitare, in ogni professione. Il punto è farli diminuire fino a raggiungere un numero sempre più “fisiologico”, che ci siano gli elementi correttivi e non ci sia la paura di parlarne. Perché io non conosco nessun professionista che non sbagli. Esiste anche questo tema, la capacità di ammettere, se ci sono, le proprie colpe. Non tanto per prendersela con chi ne ha, ma per trovare gli strumenti per migliorare il sistema. “Csm unico per Pm e giudici stortura italiana da abolire” di Felice Manti Il Giornale, 1 giugno 2022 L’avvocato ed ex parlamentare: “Nessun intento punitivo ma la giustizia non va. Lo dicono i numeri e il caso Milano”. “I referendum sono un’occasione importante, la magistratura negli ultimi decenni ha mostrato tutti i suoi limiti”. Maurizio Paniz è tornato a fare l’avvocato dopo l’esperienza in Parlamento, ha aiutato quasi mille parlamentari a vincere la battaglia contro i tagli grillini ai vitalizi degli ex onorevoli come lui. Nei cinque quesiti (legge Severino, misure cautelari, riforma del Csm, separazione delle carriere e valutazioni dei magistrati) non vede alcun intento di vendetta. Perché separare le carriere? “Il sistema voluto dalla Costituzione prevedeva pesi e contrappesi. Il peso era l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sotto un unico cappello. Il contrappeso era l’immunità parlamentare contro il rischio di invasioni di campo. Abolito il contrappeso, alcuni magistrati hanno capito che operavano senza che qualcuno intervenisse contro queste storture”. La lentezza dei processi, le indagini nel cassetto... “Ma anche mancanza di rispetto per l’avvocatura o comportamenti abnormi come i rapporti di familiarità, se non di coesione sistematica tra magistratura inquirente e giudicante”. Il sistema attuale su valutazioni e sanzioni funziona? “La magistratura vive in un’oasi, altro che plurimi controlli, come reclama l’Anm. Basti pensare a quello che è successo a Milano” Si riferisce alla guerra sul processo Eni? “Difficile pensare che i rapporti in una delle Procure cardine fossero sereni. Il pm Paolo Storari non va a Brescia ma preferisce andare da Piercamillo Davigo, non senza insultare il suo capo Francesco Greco. I due non solo si insultano, non si parlano ma si sconfessano nelle rispettive attività. L’immagine che ne viene fuori è fortemente negativa per la magistratura. Un cittadino normale si chiede: ma come è possibile?”. Alcuni pensano che la riforma che scaturirà dal combinato disposto quesiti-legge Cartabia avrà conseguenze punitive… “Il magistrato per bene non subirà alcuna conseguenza. Chi può valutare il loro lavoro meglio degli avvocati? Meglio un solo Csm, condizionato dalle correnti di appartenenza? No, bisogna frantumare questa anomalia tutta italiana, dove gli unici magistrati condannati sono poveri cristi fuori dalle correnti”. L’Anm dice che la giustizia in Italia funziona… “Beh, le statistiche dicono il contrario. L’anno scorso ci sono state 1.500 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. Un numero enorme”. In giro c’è troppa disaffezione per i quesiti… “Il quorum non importa. Importa che a chi compete arrivi il segnale che questa giustizia non funziona più. Ha presente il caso Ruby, no? La pm si lamenta che il processo è stato fermo 8 anni. Ma per sei anni la Procura è rimasta immobile. Perché? È un problema di organizzazione degli uffici?”. Lei ha difeso, tra gli altri, l’ingegnere accusato di essere Unabomber, scagionato da tutte le accuse. Quando una persona normale finisce da innocente nel tritacarne giudiziario cosa succede? “Quando una persona per bene viene inquisita, il procedimento è il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Un pensiero martellante. Tutti i giorni. Il delinquente invece se ne frega”. Per vincere le cause basta avere un bravo avvocato? “I professionisti non sono tutti uguali, se devo farmi un intervento al cuore cerco il miglior cardiochirurgo, la stessa cosa vale per gli avvocati. Ma servono anche i magistrati che hanno il coraggio di tornare indietro rispetto alle ipotesi di cui si sono innamorati, tanto da portare queste tesi all’esasperazione, arrivando a impugnare sentenze di non colpevolezza come fossero una ragione di vita processuale”. Dai quesiti è rimasta fuori la responsabilità civile dei magistrati, voluta dal referendum del 1987 e annacquata dalla legge Vassalli... “Non citare il magistrato e far pagare lo Stato dimostra che c’è un evidente corto circuito mediatico-giudiziario. Un magistrato che aveva adottato una tesi popolare ma contrastante con la legge mi disse: Vorrai mica che mi scateni il mondo contro”. Referendum giustizia. Un quesito inutile e quattro dannosi di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2022 Avvocati che controllano giudici, condannati liberi di ascendere a cariche legislative e di governo, criminali senza manette, norma “anti-correntismo” che non serve a un bel niente. Il prossimo 12 giugno si voterà per i referendum in tema di Giustizia. Erano originariamente sei, ma la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile quello sulla responsabilità diretta dei magistrati (come avevo previsto in un articolo pubblicato su questo giornale il 7 luglio 2021). Ne sono rimasti cinque: uno inutile e quattro dannosi. Cominciamo da quello inutile. Nelle intenzioni dei promotori, lo scopo del quesito referendario sarebbe quello di indebolire le correnti eliminando l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme per presentare le candidature di magistrati per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Come avevo scritto, sempre su questo giornale, il 30 giugno 2021, il quesito presuppone una sorprendente ingenuità. Con l’attuale sistema elettorale per eleggere un candidato ci vogliono, a seconda della categoria di appartenenza, almeno 500 voti per eleggere un giudice, circa 1.000 per eleggere un magistrato del pubblico ministero e quasi 2.000 per eleggere un magistrato di legittimità su un corpo elettorale di meno di diecimila elettori. Mentre per raccogliere così tanti voti ci vogliono i gruppi organizzati (cioè le correnti), per raccogliere 25 firme di presentazione della candidatura basta andare qualche volta al bar. Quindi i promotori o sono ingenui o spacciano quale rimedio al correntismo una medicina inutile, come una volta gli imbonitori di fiera. Gli altri quattro sono invece dannosi. A me appare anche disgustoso quello che vuole abolire il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 il quale prevede l’incandidabilità al Parlamento nazionale e al Parlamento europeo (per i componenti spettanti all’Italia), nonché l’impossibilità di assumere incarichi nel governo nazionale per quattro categorie di condannati: coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati di particolare gravità (fra i quali ci sono reati di associazione mafiosa, riduzione in schiavitù, terrorismo e altre bazzecole del genere); coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati contro la Pubblica amministrazione come la concussione, corruzione, peculato ecc.; coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni (peraltro quelli puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione o all’ergastolo già comportano l’interdizione perpetua dai pubblici uffici che già rende incandidabili). Lo stesso decreto legislativo prevede l’incandidabilità a livello regionale e locale per i soggetti che hanno riportato condanne definitive per similari reati o siano stati sottoposti a misura di prevenzione. Come avevo scritto su questo giornale il 26 giugno 2021, ero convinto (ma sbagliavo) che simili norme fossero superflue perché ci si sarebbe dovuti attendere che, in un Paese civile, i partiti non candidassero siffatti soggetti, senza bisogno che una norma di legge lo vietasse. Nessuno, con simili precedenti penali, potrebbe infatti accedere a concorsi pubblici per impieghi civili o militari e quindi non si comprende perché invece dovrebbe essere consentito accedere ai vertici del potere legislativo o esecutivo. Evidentemente i promotori del referendum prediligono invece che importanti cariche pubbliche possano essere ricoperte da simili soggetti. Vi è da chiedersi che idea abbiano delle istituzioni. Un altro quesito è incauto. Si tratta di quello che vorrebbe abolire la norma che prevede la non partecipazione dei componenti avvocati e professori universitari dei Consigli giudiziari alle deliberazioni riguardanti lo status dei magistrati ordinari. Non c’è problema per i professori (salvo che siano anche avvocati, come spesso accade), ma c’è per gli avvocati. Come avevo già scritto su questo quotidiano il 3 luglio 2021, non si può fare il parallelo con i componenti “laici” del Csm perché costoro non possono svolgere la professione di avvocato finché sono in carica, mentre quelli dei Consigli giudiziari sì, e quindi continuano a svolgere tale professione. Il Csm poi è organo nazionale, perciò lontano dalle realtà locali, mentre i Consigli giudiziari si occupano di un numero relativamente ristretto di magistrati. Ciò può comportare, specie nei distretti di piccole o medie dimensioni, che l’avvocato si trovi a dover valutare il giudice che decide anche le cause da lui patrocinate. Anche se la deontologia degli avvocati dovrebbe indurli ad astenersi, in questo Paese dove l’abitudine a cercare raccomandazioni o vie traverse è largamente diffusa, temo che gli avvocati nominati nei Consigli giudiziari vedranno crescere di molto la loro clientela, in quanto i clienti si immagineranno che quell’avvocato, da loro scelto in quanto componente del Consiglio giudiziario, sia in grado di fare pressioni o comunque intimorire il giudice che deve decidere la causa. L’abrogazione della norma sembra rischiosa, oltre che per l’immagine della giustizia, anche per i rapporti degli avvocati fra di loro. Il quesito sulla separazione delle carriere fra pubblico ministero e giudice, ove approvato otterrebbe l’effetto contrario a quello che la raccomandazione n. 19/2000 del Consiglio d’Europa prevede. A tacere di ciò che avevo scritto qui il 16 luglio 2021, a mio parere la miglior garanzia per i cittadini è che il magistrato del pubblico ministero ragioni come un giudice. Allontanarlo da una comune cultura non aumenta la tutela dei diritti ma la diminuisce. Il più inquietante è il quesito sulla custodia cautelare, di cui avevo scritto, sempre su questa testata, il 23 giugno 2021. Con tale quesito si vuole abolire la possibilità di disporre la custodia cautelare in ipotesi di pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede. Premesso che, per disporre la custodia cautelare, occorre la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per reati di una certa gravità nonché l’esistenza di esigenze cautelari quali pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga o pericolo di reiterazione di reati con violenza o della stessa specie di quello per cui si procede, l’ultima ipotesi è quella più frequente. Stupisce che una forza politica come la Lega, che aveva fatto della sicurezza un suo programma, si proponga di creare effetti stravaganti: se qualcuno vi svaligia l’appartamento e viene scoperto l’arresto in flagranza è obbligatorio da parte delle forze dell’ordine, ma poi dovrà essere subito rilasciato perché non è consentita la custodia cautelare. Dopo il mio articolo, Salvini aveva dichiarato che io non avevo letto il quesito. Forse non l’ha letto bene lui, tanto che, per le ragioni che ho appena esposto, Fratelli d’Italia non lo ha seguito su questa strada. Staremo a vedere ciò che accadrà, ma più volte gli elettori hanno dimostrato più saggezza dei proponenti. Cambia il processo costituzionale. Spazio al dialogo giudici-avvocati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 giugno 2022 Cambia il processo costituzionale. Spazio al dialogo giudici-avvocati. Le nuove regole di Amato. Con un decreto, lunedì il presidente ha profondamente cambiato le regole delle udienze costituzionali. In modo che il processo possa tornare a essere fondamentalmente un processo orale. “Troppo spesso le udienze sono un susseguirsi di monologhi del relatore e degli avvocati delle diverse parti”. Già a gennaio, il giorno stesso della sua elezione a presidente, Giuliano Amato aveva annunciato l’intenzione di intervenire sui riti della Corte costituzionale. Prendendo ad esempio le udienze di altre corti supreme, in particolare quelle che si tengono davanti ai giudici degli Stati uniti abituati, lì, a interrompere di frequente gli avvocati per fare domande o contestare le tesi. Niente monologhi. Più recentemente Amato, che a settembre terminerà il suo mandato al palazzo della Consulta, aveva fatto capire in un’intervista per l’annuario della Corte che le novità erano in arrivo. Così è stato. Con un decreto, lunedì il presidente ha profondamente cambiato le regole delle udienze costituzionali. In modo che il processo possa tornare a essere fondamentalmente un processo orale. Secondo le nuove regole, cinque giorni prima di ogni udienza, il giudice relatore di una causa potrà rivolgere domande scritte agli avvocati. Nel giorno dell’udienza, ciascun avvocato avrà a disposizione, di regola, quindici minuti per esporre le proprie difese e rispondere alle domande scritte del relatore. Il presidente potrà aumentare il tempo per cause particolarmente difficili ma se gli avvocati saranno più d’uno dovranno dividersi i minuti. Niente più relazione iniziale dell’udienza, quella dalla quale abitualmente si provava a intuire l’orientamento della Corte: al suo posto una sintetica (cinque minuti) introduzione del giudice relatore. La novità principale è che tutte le giudici e tutti i giudici del collegio potranno interloquire con gli avvocati, rivolgendo loro domande e obiezioni. Non parleranno dunque più dunque soltanto il presidente e il giudice relatore. “Con le modifiche approvate - si legge in un comunicato diffuso ieri dalla Corte costituzionale - l’udienza diventerà non solo più vivace, ma soprattutto più utile ai fini della decisione”. La prima udienza con le nuove regole sarà quella del prossimo 21 giugno. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Detenuto suicida”, ma aveva appena ottenuto l’affidamento di Raffaele Sardo La Repubblica, 1 giugno 2022 Trovato impiccato detenuto napoletano di 47 anni. Lo hanno trovato impiccato nella sua cella domenica scorsa intorno alle 13. Un detenuto napoletano, Erasmo N., 47 anni, si è suicidato stringendosi al collo un lenzuolo legato alla grata della cella. Quando il personale carcerario che l’ha trovato ha dato l’allarme, non c’era più niente da fare. Era in carcere per furto dal 21 maggio 2021 e sarebbe uscito nel 2024. Il detenuto, con problemi di tossicodipendenza, nella giornata di venerdì, avrebbe ricevuto dalla compagna la notizia di aver ottenuto un provvedimento di misura alternativa al carcere, quella dell’affidamento in prova ai servizi sociali, tanto che avrebbe ricominciato a lavorare presso una cooperativa di Caserta. “Non si può continuare a morire di carcere - afferma Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale - restare insensibili davanti al suicidio di un detenuto significa non ammettere che il sistema carcere ha fallito”. Intanto la Procura della Repubblica di Santa Maria C.V., ha disposto l’autopsia sul corpo del detenuto per accertare le cause della morte. Esame che dovrebbe eseguito nel pomeriggio presso l’istituto di medicina legale di Caserta. “È necessario indagare sulle cause che hanno spinto Erasmo a compiere l’estremo gesto - dice ancora Ciambriello - Al telefono con la compagna era felice di poter finalmente uscire dal carcere e, invece, da quella cella è sì uscito, ma senza vita. Non si può rimanere inermi davanti a storie come queste. Non si può continuare a morire di carcere. In Campania nel 2022, c’è stato un suicidio nel carcere di Salerno, altre morti sono ancora sospette e ci sono in corso indagini della magistratura; un detenuto è morto per Covid. Restare insensibili davanti al suicidio di un detenuto - aggiunge Ciambriello - significa non ammettere che il sistema carcere ha fallito. La politica, a vari livelli, si preoccupa di trovare soluzioni che evitino queste morti?”. Cosenza. “Mi hanno fatto vedere mia madre nella bara. In videochiamata…” di Sandra Berardi* Il Dubbio, 1 giugno 2022 Le drammatiche lettere di Francesco, detenuto a Cosenza e che finirà di scontare la pena a ottobre, inviate all’Associazione Yairaiha onlus nelle quali racconta come non gli è stato concesso il permesso dell’ultimo saluto. La storia narrata da Francesco nelle due lettere che seguono questa riflessione è, purtroppo, molto più frequente di quanto si possa immaginare. Premetto che le due lettere sono state consegnate quasi contemporaneamente intorno al 20 maggio per cui non è stato possibile intervenire in nessuna maniera; ma la storia di Francesco riapre una serie di considerazioni in merito alla funzione del carcere e al ruolo del personale penitenziario e degli organi di tutela dell’esecuzione penale e dei diritti dei detenuti. Una madre, o comunque un familiare prossimo, in fin di vita è, per qualsiasi persona, un evento tragico, doloroso. Ancor più se la morte arriva dopo una lunga malattia. Ogni essere al mondo, nel corso della propria vita ha fatto, o farà, i conti con un lutto particolarmente doloroso e significativo; e ognuno di noi ha cercato, o cercherà, di stare vicino al proprio caro fino all’ultimo respiro. Francesco lo ho incontrato una sola volta, durante una ispezione. Dalla chiacchierata che facemmo emerse l’amore per la madre, il desiderio di poterle stare vicino, la volontà di cambiare vita anche, e soprattutto, per lei. È da qualche anno che Francesco ci scrive, e in ogni richiesta di aiuto che ci ha inviato in questi anni il pensiero è stato sempre rivolto a sua madre. Una figura senz’altro positiva nella sua vita, non una di quelle “frequentazioni con soggetti controindicati” registrate nelle informative di Ps fino al 2008, piuttosto uno stimolo a operare quel cambiamento che il carcere si propone quale fine della pena. Elemento positivo che il Got (Gruppo di osservazione e trattamento) avrebbe dovuto mettere a valore per permettere a Francesco di recuperare gli sbagli del passato; magari anche facendo un piccolo strappo alla regola laddove non ci fossero stati i requisiti; oppure suggerendo di presentare subito la richiesta di permesso di necessità in vece del permesso premio perché Francesco aveva tutto il diritto di beneficiare di un permesso di necessità (art. 30 OP), dal momento che è previsto per eventi di particolare gravità, in correlazione con la vita familiare e con la possibilità che l’evento vada ad incidere nella vicenda umana del detenuto. L’art. 30 OP infatti, recita: “Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso dall’autorità giudiziaria competente a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura ai sensi dell’articolo 11. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”. Ammesso che il magistrato di sorveglianza risponda! E a Francesco il magistrato non ha risposto, dimenticandosi del suo ruolo di garante principale della correttezza dell’esecuzione penale che dovrebbe essere sempre ispirata, e guidata, da quei principi di umanità e dignità espressi dall’art. 27 della nostra Costituzione. Francesco ha definito tortura il poter vedere attraverso un anonimo cellulare la madre nella bara, e lo è. Un atto di una brutalità mostruosa del quale dovremmo vergognarci tutti se avessimo ancora il senso della pietas. Ecco le due lettere di Francesco. 22 aprile Carissima associazione Yairaiha, sono Francesco M., spero vi ricordiate di me, sono ristretto nel carcere di Cosenza ed ho un disperato bisogno di aiuto. Mi trovo recluso nel reparto alta sicurezza, 1° piano, cella 9, benché ho un reato comune e mi mancano meno di 6 mesi per il fine pena. Beneficio di permessi premio da due anni perché, purtroppo, mia madre è ammalata di un tumore maligno al fegato e l’oncologa gli ha anche sospeso la chemioterapia….Ho anche usufruito di permessi speciali in base al decreto ristori per contenere i contagi da covid 19. Per Pasqua , invece, la richiesta di permesso mi è stata rigettata anche se avevo allegato anche i certificati medici di mia madre, perché il magistrato, assieme agli educatori e alla direttrice, hanno stabilito che i permessi, anche quelli covid, li danno ogni 45 giorni. Ad oggi nel reparto alta sicurezza siamo quasi tutti contagiati da covid; c’è un vero e proprio focolaio. Mentalmente sono distrutto: mancano gli educatori e mi dicono che non posso richiedere altri permessi. In questa situazione non so più dove sbattere la testa. Necessito disperatamente di un aiuto; non auguro a nessuno di avere la madre morente e trovarsi chiuso dietro 4 mura dove ti vengono negati i tuoi diritti. 11 maggio Carissima associazione sono sempre Francesco, spero vi siano arrivate le mie lettere precedenti. Vi ricordo che beneficio di permessi premio, compresi i permessi in base al decreto ristori per contrastare i contagi validi fino al 31 dicembre. Sono recluso nel carcere di Cosenza e il mio fine pena è ottobre 2022. Purtroppo, giorno 8 maggio, mia madre è morta; era affetta da un tumore maligno al fegato e malgrado avessi mandato la richiesta per un permesso premio per starle vicino nell’ultimo periodo della sua vita, mi è stato rigettato e giorno 8 maggio, intorno alle 19.00, mi viene data la notizia da un ispettore di sorveglianza che mia madre è morta. L’unica cosa che mi è stata data è stata il giorno dopo poterla vedere dentro una cassa da morto con una videochiamata! Ho presentato la richiesta di permesso di necessità, allegando il certificato di morte di mia madre per poterle dare l’ultimo saluto al suo funerale ma neanche questo mi è stato concesso dal magistrato di sorveglianza che non si è degnato nemmeno di rispondere. Non esiste tortura peggiore che vedere tua madre morta in videochiamata mentre sei chiuso tra quattro mura e non puoi darle l’ultimo saluto. Io avevo solo mia madre e, ormai, non ho più nessuno né un posto dove andare. Mi chiedo solo se questo magistrato abbia una coscienza dato che, ormai, sono stato trattato come una bestia. Voglio solo che questa storia possa essere raccontata fuori da queste mura perché questo non accada più a nessuno. Ormai a me hanno tolto la voglia di vivere; mi auguro solo che almeno voi possiate raccontare tutto questo. *Presidente Yairaiha onlus A Trieste sentenza abnorme. Torna l’Opg? di Pietro Pellegrini Il Manifesto, 1 giugno 2022 Il 4 ottobre 2019 nella Questura di Trieste avviene l’omicidio di due agenti di Polizia e il tentato omicidio di altri otto. L’imputato, un trentenne, è stato sottoposto a due perizie psichiatriche, risultando imputabile con la prima e non imputabile per la seconda. Venerdì 6 maggio 2022, la Corte d’Assise lo ha assolto per “vizio totale di mente”, “il fatto è stato commesso da una persona non imputabile”. In attesa delle motivazioni e tralasciando l’interrogativo sul perché di fronte a perizie contrastanti non sia stata effettuata una perizia collegiale, un dato è certo: la Corte d’Assise ha applicato il Codice Rocco del 1930 che prevede il “doppio binario”. Di fronte ad una tragedia di questa portata la parola “assoluzione” appare in sé ingiusta. Non fa bene a nessuno, nemmeno all’autore del reato. A seguito dell’assoluzione per totale infermità mentale, il riconoscimento della pericolosità sociale apre la via della misura di sicurezza detentiva in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, oggi chiuso, un carcere dove si poteva restare 30 anni o spesso tutta la vita. Assolto e detenuto! Questo avveniva quando il Codice Rocco aveva come riferimento l’abrogata legge 36 del 1904. Oggi vi è una distanza abissale fra Codice Rocco e le leggi 180/1978 e 81/2014. Questa ha chiuso gli OPG sostituendoli con un sistema di welfare di comunità, di cui fanno parte i Dipartimenti di Salute Mentale al cui interno operano le REMS. L’assoluzione per incapacità d’intendere e volere, avvertita come iniqua, scarica tutte le conseguenze sulla psichiatria, chiamata all’impossibile compito di curare e custodire insieme. Due mandati inconciliabili perché la cura della psicopatologia, può realizzarsi nella relazione, attraverso il consenso, la partecipazione attiva nella libertà, la capacità di autodeterminarsi (“nulla su di me senza di me”). La psichiatria, invece, dovrebbe curare alle condizioni decise dalla giustizia, custodire e un po’ anche punire come richiede l’opinione pubblica, e al tempo stesso prevenire con un controllo (onnipotente) gli agiti dei malati di mente. Le REMS sono strutture sociosanitarie, residuali e transitorie. Non è pensabile restarvi 30 anni, snaturandone il mandato, ma secondo le esigenze del programma terapeutico. O si vogliono REMS dove mettere sine die e condizioni, persone disturbate, disturbanti, indagate, prosciolte o condannate, come nuovi “mini OPG”? Per l’atto commesso tutte le persone devono avere il diritto al processo e, se colpevoli devono essere condannate a una pena come previsto dall’art 27 della Costituzione. La persona con disturbi mentali ha bisogno della parola della legge che dialoga, giudica e stabilisce la durata e le modalità di esecuzione della pena, lasciando intonse le competenze della psichiatria. Non giova un proscioglimento incomprensibile per un fatto che rimane molto presente nel mondo interno della persona che è sempre molto di più della sua malattia e del reato. Il proscioglimento crea una nebulosa che può far sprofondare tutto nel buco nero del non senso dell’alienazione. La cura richiede chiarezza, fiducia, speranza, possibilità di elaborazione e riparazione. Questo è fondamentale anche per le vittime e i loro familiari. Affinché i vissuti siano compresi e l’evoluzione sia possibile vi è bisogno di ancoraggi alla verità giudiziaria. Ciò rende possibile l’elaborazione psicologica, storica ed etica (l’umana pietas) di fatti umani molto inquietanti perché connessi alla vita e alla morte. Ovviamente con la possibilità di misure alternative alla detenzione. In carcere. A fronte dell’omicidio di poliziotti di Trieste, la tragedia sia l’occasione per una risposta politica di alto livello approvando con urgenza la Proposta di legge n. 2939 a firma del l’on. Riccardo Magi che può rifondare su basi nuove il “patto sociale”, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali. Milano. Detenuti come mafiosi anche se innocenti: l’orrore di Stato nei Cpr di Stiben Mesa Paniagua milanotoday.it, 1 giugno 2022 Dopo un’ispezione a sorpresa presso il Centro di permanenza per il rimpatrio di via Corelli a Milano, i senatori Simona Nocerino e Gregorio De Falco raccontano com’è la situazione e perché queste ‘gabbie’ sono incompatibili con una società civile e democratica come quella italiana. Molti di loro finiscono per passare 4 mesi interi rinchiusi tra quelle mura. Privati della libertà come i detenuti ma con meno garanzie e meno diritti. Eppure non hanno una sentenza che li condanni. No rapine, no violenze, no truffe, no furti, no risse, no spaccio, niente di tutto ciò. Gli stranieri di via Corelli 28, sede del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano, hanno un solo conto in sospeso con la giustizia: quello di non avere i documenti in regola per stare sul territorio italiano. Non possiedono il permesso di soggiorno, ossia l’autorizzazione rilasciata dalle questure affinché i cittadini non europei possano vivere e lavorare nella Penisola. Non ottenere quel foglio di carta per chi non ha opzioni vuol dire macchiarsi del reato di immigrazione clandestina, regolato dall’articolo 10 bis del Testo unico sull’immigrazione. Una norma introdotta nel 2009 e che, a detta di molti addetti ai lavori, non ha fatto altro che appesantire la già intasata macchina giudiziaria. E come se non bastasse, agli stranieri che lo Stato non riesce a rimpatriare dopo 4 mesi - che automaticamente devono essere liberati benché rimangano nella stessa condizione burocratica - potrebbe ricapitare di finire di nuovo nella ‘gabbia’ temporanea del Cpr. Come in un reality che si ripete: senza lusso, telecamere, né premio finale e dal quale non ci sono vie d’uscita. A parte quella politica e legislativa, finora dormiente sulla questione, nonostante per lo Stato mantenere i Cpr sia una spesa pressoché inutile. La vita “disastrosa” dentro un Cpr - Tra i pochi che provano a tenere alta l’attenzione ci sono i senatori Gregorio De Falco (M5S) e Simona Nocerino (M5S). Domenica 29 maggio, a quasi un anno di distanza dalla loro ultima ispezione, sono tornati al civico 28 di via Corelli per vedere se la condizione degli immigrati reclusi nel centro fosse diventata finalmente dignitosa. Spoiler: dopo aver parlato con gli operatori e con le 48 persone attualmente trattenute, dopo aver girato in lungo e in largo gli ambienti dove trascorrono il tempo gli stranieri ed essere rimasti nella struttura per una decina di ore, la risposta è “no, non è ancora dignitosa”, come hanno riferito entrambi a MilanoToday. “La differenza con il 2021 è che quest’anno gli ospiti hanno la possibilità di avere il cellulare ma la situazione di chi vive all’interno del Cpr è umanamente disastrosa”. La senatrice è chiara nel descrivere la condizione di vita di chi passa da via Corelli. “È umanamente disastrosa”, ripete. “Siamo tornati dopo un anno”, introduce De Falco, e “nonostante sia cambiata la gestione - ora nelle mani della società Engel Italia Srl - e ci siano stati diversi atti giuridici, tra esposti e diffide, la prima cosa che si può constatare è che questo istituto è sempre meno rispondente alla sua già discutibile finalità”, spiega. La finalità unica di questo tipo di strutture, come ricorda il nome stesso, sarebbe quella di dare rifugio agli stranieri che non hanno il titolo per stare in Italia in attesa del rimpatrio, regolato dall’articolo 14, D.Lgs. 286/1998. “Finalità discutibile perché - riprende il senatore - si ottiene attraverso una detenzione amministrativa. Ora, non è che le persone non si possano rimpatriare ma non si possono privare della libertà, anche attraverso una degradazione della dignità e dell’umanità, delle persone che non hanno compiuto alcun reato per cui sia previsto l’arresto o la reclusione”. Ovvero quello che avviene nel Cpr di via Corelli dove in più di un’occasione ci sono stati, per esempio, tentativi di suicidio da parte di ‘ospiti’ stanchi e fiaccati dalle condizioni di vita nel centro. Il regolamento “senza dignità” - Art. 1 Disposizioni generali. Al cittadino straniero trattenuto presso il Centro di permanenza per il rimpatrio di Milano sono assicurati adeguati standard igienico-sanitari e abitativi, con modalità tali da assicurare la necessaria informazione relativa al suo status, l’assistenza e il pieno rispetto della sua dignità, comprese le misure indispensabili per garantire l’incolumità delle persone e quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze di cura, assistenza, promozione umana e sociale. Al cittadino straniero è altresì garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona, anche in considerazione della sua provenienza, della sua religione, del suo stato di salute fisica e psichica e del suo orientamento sessuale, fermo restando il divieto di allontanarsi dal Centro. E pensare che proprio il primo articolo del regolamento interno di via Corelli, mette nero su bianco le garanzie per gli ospiti stranieri. Nel documento, presente nel portale della prefettura, si parla di “dignità”, “standard igienico sanitari e abitativi adeguati”, “assistenza”, “promozione umana e sociale”, e “diritti fondamenti della persona”. Ma quante di queste garanzie sono davvero rispettate? A sentire la testimonianza dei due rappresentanti al Senato del Movimento 5 Stelle poche. “Chi viene arrestato per aver commesso un reato penale - dice De Falco - ha sempre un riferimento nel giudice di sorveglianza, cioè un magistrato al quale rivolgersi. Qui, queste persone non hanno nessuno. Non c’è niente. Non solo sono detenuti senza aver commesso un reato che preveda la reclusione, non c’è nemmeno qualcuno da chiamare, non c’è un giudice a Berlino, come si suol dire”. Parole in linea con quanto già denunciato da altre associazioni in città, come la rete “Mai più lager - No ai Cpr” che si oppone fin dalla prima ora alla “Guantanamo di Milano”, come hanno rinominato più volte il Cpr di via Corelli. Una struttura in passato considerata poco idonea e insicura anche dai sindacati di polizia. I diritti volatili degli stranieri dentro ai Cpr - “E non c’è nemmeno una disciplina che consenta di fissare i diritti degli stranieri all’interno. Il diritto alla salute, per esempio, lì dentro non esiste”, rilancia il senatore. “Dopo la visita dello scorso anno - riprende - la prefettura ha stipulato quattro convenzioni con Ats per tutelare la Salute degli stranieri. Domenica ho chiesto i documenti ai gestori ma non mi è stato fornito niente. Tra gli accompagnatori che hanno partecipato ai lunghi colloqui con i trattenuti e seguito la visita agli uffici amministrativi e alla infermeria, vi era con noi anche un medico. La quasi totalità dei detenuti ha chiesto, mediante espressa delega scritta, alla direzione del centro la consegna, noi tramite, della documentazione sanitaria di pertinenza di ciascuno di essi e in particolare il diario clinico. Risultato? Siamo ancora in attesa di avere le copie che spettano a ciascuno degli aventi diritto”. Per il senatore la visita ispettiva avrebbe ulteriormente confermato quanto sia “carente ed oscura” la gestione della parte sanitaria delegata al gestore privato e ai suoi medici in libera professione. “È svolta in uno scarno ambulatorio dove la regola, come in tutto il centro, è il risparmio, anche sui farmaci, salvo che sui tranquillanti”, accusa. “Quello dalla salute è un ambito - riprende - che registra la totale abdicazione della sanità pubblica, e la sostanziale assenza dei protocolli prefettura Ats previsti dai regolamenti”. Un quadro che De Falco reputa “desolante”. A maggior ragione per il fatto che - la sua riflessione - “siano stati ignorati gli appelli e le denunce che nel frattempo hanno confermato e comprovato abusi e violazioni del diritto alla difesa, alla comunicazione, alla salute delle persone migranti, detenute in condizioni peggiori di quelle carcerarie”. I diritti degli stranieri vengono calpestati anche per quanto riguarda la semplice gestione dei 2,50 euro che lo stato riconosce a ciascun ‘ospite’. Nessuno di loro, stando a quanto risulta ai senatori, gestisce direttamente quel denaro. Hanno chiesto se ci fossero fatture, quali fossero le procedure ma il personale presente non ha saputo dare una risposta esaudiente. L’unica traccia conservata sono dei foglietti volanti con i nomi dei migranti e la spesa per le sigarette. “Tutte con lo stesso prezzo e per tutti. Come se tutti fumassero”, specifica De Falco. “Ho chiesto poi di là ai ragazzi e 4 di loro non fumavano. Allora a uno di questi ragazzi, un egiziano di 19 anni e quindi minorenne nel suo paese - per cui secondo la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 dovrebbe essere trattato da minore anche qui e non potrebbe stare lì dentro - mi ha detto che lui con quei soldi comprerebbe volentieri del cibo ma per farlo servirebbe il denaro proprio e non quello del pocket money, come viene chiamata la diaria”. I Cpr sono una spesa inutile per gli italiani - Al di là dei 2,50 euro quotidiani per i migranti, i Cpr per lo Stato italiano sono sicuramente una spesa: un investimento di denaro pubblico che non genera soluzioni ma nuovi problemi. “Si sono registrati, ancora una volta, anche casi di soggetti, entrati in salute e poi ammalatisi fisicamente e psicologicamente per le condizioni di vita nelle quali sono costretti a vivere”, racconta a proposito De Falco, e non è difficile immaginare il perché. “Quel che più impressiona - afferma il senatore - sono le condizioni di degrado e abbandono del trattenimento, in una struttura e in condizioni quasi da 41bis, oltre al numero di persone affette da patologie incompatibili con quella situazione ma ritenute idonee a stare nel Cpr”. Oltre ai diritti non rispettati o all’assurdità che in un paese democratico e civile come l’Italia la gran parte della popolazione accetti pressoché in silenzio l’esistenza di luoghi come i Cpr, in secondo piano resta un dato molto significativo e chiarificatore: degli stranieri passati negli ultimi mesi dal centro di via Corelli pochissimi sono stati rimpatriati. “Nel 2021 - chiude il senatore pentastellato - abbiamo verificato che più o meno un terzo delle persone detenute erano state rimpatriate e che quindi il 60 65% delle persone alla fine venivano detenute senza scopo e poi liberate. Quest’anno è anche peggio. Il gestore mi ha confermato che da tre mesi non ci sono stati rimpatri”. Cifre che la dicono lunga riguardo l’utilità di questi edifici. Centri come quello di via Corelli a Milano sono presenti a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Go), Macomer (Nu), Palazzo San Gervasio (Pz), Roma, Torino e Trapani. In ciascuna di quelle strutture il problema - per dirla con le parole di De Falco - è lo stesso: “La detenzione amministrativa, che resta un abominio”. Torino. Torture in carcere, gli agenti a processo sono già tornati in servizio di Federica Cravero La Repubblica, 1 giugno 2022 La denuncia del Garante dei detenuti: “Bisogna evitare altri abusi”. Sono ancora in servizio nel carcere di Torino gli agenti della polizia penitenziaria rinviati a giudizio con l’accusa di torture nei confronti dei detenuti. Addirittura nello stesso padiglione in cui si trovano i detenuti che li avevano denunciati. La stortura è stata messa in evidenza dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: “Bisogna intervenire subito - ha detto alla rivista “Lavialibera” - Non stiamo parlando di una piccola imputazione. I valori potenzialmente lesi richiederebbero un’urgenza diversa e gli accertamenti devono essere immediati per verificare se ci siano o meno delle responsabilità, e salvaguardare i detenuti da nuovi possibili abusi”. Per interrompere le violenze che diversi detenuti avevano denunciato, sei dei 22 agenti ora rinviati a giudizio erano stati per un periodo ai domiciliari, sospesi dal servizio. Una volta tornati al lavoro, i più sono stati spostati in altre aree della casa circondariale Lorusso e Cutugno, chi allo spaccio, chi all’ufficio matricole, chi all’area avvocati. Ma c’è anche un agente che è stato riassegnato allo stesso padiglione C, quello dei sex offenders, detenuti dovrebbero essere rinchiusi lì come forma di protezione dagli altri reclusi e che invece sono diventati bersaglio delle angherie di un gruppo di poliziotti. È stato lui stesso a chiedere il trasferimento, per evitare una situazione pesante da vivere e quantomeno inopportuna, in attesa di una sentenza sulla responsabilità degli imputati. “Vorrei ammazzarti, invece devo proteggerti”, si sentivano dire i detenuti, costretti a leggere ad alta voce i passaggi più squallidi degli atti giudiziari che li riguardavano, picchiati da agenti che poi al telefono parlavano di quei “divertimenti”. Sulla rapidità del processo - che conta 24 imputati - tuttavia non si può contare, dal momento che il tribunale di Torino nei giorni scorsi ha respinto la richiesta avanzata dalle parti civili di anticipare il dibattimento, fissato al 4 luglio 2023. Secondo il giudice, infatti, il rischio che alcuni reati vadano in prescrizione non è sufficiente a motivare i caratteri di urgenza e gravità che avrebbero potuto accelerare l’iter processuale. E il Tar del Piemonte nei giorni scorsi ha anche bloccato in via cautelare l’allontanamento del comandante degli agenti Giovanni Battista Alberotanza, che deve rispondere di favoreggiamento e omessa denuncia, così come l’allora direttore Domenico Minervini. Prima distaccato ad Asti, poi colpito da un ordine di trasferimento dal Dap, avrebbe dovuto prendere servizio a gennaio alla casa circondariale di Alessandria con l’incarico provvisorio di comandante del Nucleo traduzioni, Alberotanza ha fatto ricorso contro la decisione e il Tar per il momento ha stoppato il nuovo incarico, riconoscendo dunque ad Alberotanza il mantenimento del ruolo di comandante di Torino, in attesa che a luglio si discuta la questione nel merito. Era stata la precedente direttrice, Rosalia Marino, subentrata quando Minervini è stato allontanato, a dover affrontare il problema di trovare un posto agli agenti finiti nell’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi, tra garantismo per gli indagati e tutela per chi aveva denunciato. E non è stato facile conciliare tutte le esigenze. Si è trattato di un lavoro durato mesi: qualcuno è andato via, qualcun altro ha trovato un diverso incarico. “Quando sono arrivata ho trovato una situazione abbastanza tranquilla e sotto controllo - dice l’attuale direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero - Ma anche noi siamo in attesa, tutti ci aspettavamo che il processo fosse più rapido. Questo protrarsi non fa bene a nessuno. Intanto noi lavoriamo per recuperare e superare criticità, per tutelare sia i poliziotti sia i detenuti”. Oggi intanto riprende il processo. Il comandante Alberotanza e l’ex direttore Minervini, che hanno scelto il rito abbreviato, si sottoporranno all’interrogatorio. Torino. L’ex direttore del carcere si difende: “Le torture? Erano solo voci” di Federica Cravero La Repubblica, 1 giugno 2022 Il direttore Minervini quattro ore davanti ai pm: “Segnalazioni troppo generiche per intervenire”. I primi fatti risalgono al 2017, ma lui non fece denuncia nonostante le pressioni della Garante. “C’erano delle voci che in quel padiglione i detenuti subissero violenze, ma non ho fatto denuncia perché erano segnalazioni generiche. Si parlava di atteggiamento ingiustificatamente autoritario. Ho chiesto che venissero descritti elementi circostanziati e casi specifici per potermi muovere”. Si è difeso così ieri in aula Domenico Minervini, ex direttore del carcere di Torino, imputato per favoreggiamento e omessa denuncia nel processo per le presunte torture al padiglione C del Lorusso e Cutugno, dove sono detenuti i sex offender. Il pm Francesco Pelosi - che ha mandato a processo 24 imputati, tra cui il comandante della polizia penitenziaria, Giovanni Battista Alberotanza - ha contestato all’ex direttore di aver coperto per due anni l’operato dell’ispettore Maurizio Gebbia, che coordinava gli agenti del padiglione C. Quelle che l’ex direttore derubrica a “voci” sono invece per la procura tasselli su cui si fonda l’inchiesta. Si tratta di testimonianze di educatori, psicologi, insegnanti e detenuti stessi che hanno descritto il clima che si viveva tra quelle mura e che sono state raccolte dalla garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo, che ha denunciato alla magistratura la situazione critica che si viveva nella sezione riservata a stupratori e pedofili, che lì avrebbero dovuto essere protetti dalle ritorsioni della popolazione carceraria e che invece erano stati vessati proprio da chi avrebbe dovuto tutelarli. Minervini, difeso dall’avvocata Michela Malerba, ha scelto il rito abbreviato e ieri si è sottoposto a un interrogatorio di quattro ore, in cui ha scandito i tempi di una delle più brutte pagine della storia del carcere, per ciò che è stato fatto e per ciò che è stato taciuto. Minervini ha sempre ammesso di aver “riscontrato un ricorso troppo frequente all’uso dei metodi coercitivi” da parte degli agenti. “A partire dal 2017 hanno iniziato a parlarmi di un clima rigido in quelle sezioni”, ha provato a minimizzare. “Solo mesi dopo, nel luglio 2018, mi hanno detto che dei detenuti avevano detto di essere stati picchiati - ha insistito - Comunque mai niente che facesse pensare a torture. E in un caso la denuncia è stata fatta”. Quella denuncia in realtà l’aveva fatta la sua vice direttrice quando il direttore era andato in ferie. E in ogni caso la procura ha contestato all’imputato di aver taciuto sulle violenze, quando avrebbe potuto fare una denuncia contro ignoti, se anche non avesse saputo con certezza chi erano gli agenti coinvolti nelle violenze. Ma Minervini ha ribadito di non aver sottovalutato la questione: “Ho fatto diverse riunioni, ne ho parlato anche con il provveditorato”, ha detto. E già in un precedente interrogatorio si era sfogato: “Questa è una vicenda che a me ha provocato molta sofferenza e delusione, l’ho vissuta come una sconfitta professionale visto che nel mio lavoro mi sono dedicato a migliorare le condizioni dei detenuti”. Udine. Il servizio bibliotecario arriva in carcere ilfriuli.it, 1 giugno 2022 In Sala Ajace firmato il protocollo d’intesa tra la Direzione Casa circondariale, il Comune, il Garante dei diritti dei detenuti, il Cpia e l’Associazione Icaro. Ieri mattina in Sala Ajace è stato firmato il protocollo d’intesa tra la Direzione della Casa circondariale, il Comune di Udine, il Garante dei diritti dei detenuti, il Cpia - Centro provinciale istruzione adulti e l’Associazione Icaro. Il documento intende perseguire gli obiettivi dichiarati dal Manifesto Unesco delle biblioteche pubbliche che riconoscono la biblioteca quale servizio disponibile a tutti i cittadini, compresa la popolazione carceraria, sottolineando la necessità d’integrare i servizi bibliotecari del territorio istituendo dei servizi dedicati ai detenuti. Lo scopo del servizio è quello di favorire l’accesso delle pubblicazioni delle biblioteche del territorio da parte della popolazione carceraria, ma anche di organizzare e implementare quella dell’Istituto penitenziario. A tal fine, avvalendosi della collaborazione dell’Associazione Icaro e del Cpia s’intendono promuovere iniziative culturali rivolte alla popolazione detenuta. La Direzione della Casa Circondariale inoltre, oltre a mettere a disposizione locali, arredi e attrezzature, si impegna a prevedere tra le figure dei lavoranti quella di bibliotecario. A sua volta la Biblioteca si impegna a garantire il prestito dei documenti del proprio patrimonio e a incrementare il patrimonio documentario della Biblioteca carceraria attraverso le donazioni di cui dovesse beneficiare. La sottoscrizione del presente protocollo integra ulteriori misure di prevenzione e “recupero sociale” promosse dal Comune di Udine attraverso una specifica convenzione siglata con il Tribunale di Udine per l’accoglimento, presso la Biblioteca Civica e i Musei cittadini, di lavoratori di pubblica utilità, “messi alla prova”. Si tratta di una forma di risarcimento alla collettività in base alla quale, su richiesta dell’imputato, il giudice può sospendere il procedimento e disporre la messa alla prova subordinato all’espletamento dì una prestazione di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita in favore della collettività, nel rispetto delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è un’opinione ma quel che scrive la Costituzione, all’articolo 27. Ed è da qui che bisogna ripartire anche a Udine, secondo il Garante dei detenuti, la Società della Ragione e l’associazione Icaro, organizzatori del seminario di studi ospitato in sala Ajace, a cui ha portato il saluto il Presidente del Consiglio regionale Piero Mauro Zanin. Noi istituzioni - ha detto la massima carica dell’Assemblea legislativa - abbiamo responsabilità generali che vanno al di là del gruppo che rappresentiamo, ed è soprattutto una responsabilità nei confronti degli ultimi, di chi sta indietro. A riempire le carceri oggi in Italia, generando un problema di sovraffollamento più volte segnalato anche a Udine - ha proseguito la Presidenza - è quasi sempre la povera gente, persone condannate per reati minori, che poi spesso ci ricascano anche perché faticano a entrare nei meccanismi della giustizia e non possono permettersi avvocati importanti. Le istituzioni dovrebbero invece rendere più egualitario il nostro Paese, assolvendo il compito di favorire la convivenza civile. Zanin ha accostato questa riflessione al celebre discorso di Pier Paolo Pasolini sui carabinieri e poliziotti figli del popolo, messi a raffronto con i terroristi rivoluzionari ma figli della borghesia. E al movimento di opinione che ha generato per la prima volta in Italia una legge di restituzione dell’onore ai fucilati per l’esempio, approvata all’unanimità l’anno scorso dal Consiglio regionale prendendo spunto dai fatti di Cercivento. Una battaglia, quest’ultima, portata avanti assieme a Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia e oggi Garante dei detenuti a Udine, tra gli organizzatori del convegno udinese che per tutta la giornata ha messo a confronto l’esperienza di architetti, avvocati, rappresentanti di associazioni e terzo settore. Il seminario è stato dedicato a don Pierluigi Di Piazza, il sacerdote degli ultimi scomparso di recente. E può essere riassunto nell’auspicio formulato da Massimo Brianese, presidente della Società della ragione: l’obiettivo non è quello di avere nuove carceri, ma carceri nuove. Livorno. Teatro in carcere all’Isola di Gorgona di Lorella Pellis toscanaoggi.it, 1 giugno 2022 Sabato 18, domenica 19 e lunedì 20 giugno, la Casa di Reclusione dell’Isola di Gorgona (Livorno) torna ad aprire le porte al pubblico per “Metamorfosi”, il nuovo spettacolo teatrale che vede protagonisti i detenuti/attori della Casa di Reclusione e che segue il successo di “Ulisse o colori della mente”, vincitore del premio “ANCT 2020 Catarsi - Teatri della Diversità”. Gli interessati devono inviare richiesta di prenotazione entro le ore 10 di lunedì 13 giugno all’indirizzo pubblico@tparte.it, indicando nome, cognome, luogo, data di nascita e allegando copia della carta d’identità. Partenza alle 8 di mattina dal porto di Livorno con il traghetto Superba, durata del viaggio 70 minuti, spettacolo alle ore 11, a seguire pranzo a buffet sulla terrazza dell’istituto. Al pomeriggio incontro con gli artisti e possibilità di visitare l’isola. Ripartenza per Livorno alle ore 18. Costo indicativo in via di definizione 30 euro comprensivo di viaggio, spettacolo e pranzo a buffet. “Metamorfosi” è il secondo episodio della trilogia “Il teatro del mare” ideata da Gianfranco Pedullà e realizzata artisticamente in collaborazione con Francesco Giorgi e Chiara Migliorini. Anche “Metamorfosi” - dopo il primo episodio “Ulisse o colori della mente” - è un invito a riappropriarsi della dimensione simbolica della vita, ad uscire tutti dalle piccole prigioni del nostro quotidiano. “Metamorfosi” è una proposta di cambiamento: un invito a tuffarci nei miti del Mediterraneo per ripensare al nostro presente e immaginare un avvenire migliore. Partendo da alcuni spunti della straordinaria opera “Metamorfosi” - scritta da Ovidio oltre duemila anni fa - lo spettacolo ripercorre poeticamente e ironicamente i grandi miti di fondazione della nostra civiltà: dall’Età dell’oro all’età del Ferro; dal mito di Bahamut alle Arpie, dal Minotauro a Diogene che cerca l’uomo, dall’Araba Fenice ad Apollo e Dafne, da Teseo e Arianna per rivedere le grandi Costellazioni del cielo: fino a quando l’apparizione di un Cavallo marino non ci riporterà nel grembo della Grande Madre Terra. “Metamorfosi” è uno spettacolo itinerante, un percorso in alcuni luoghi suggestivi dell’Isola di Gorgona carichi di uno straordinario potere evocativo. Informazioni per il pubblico: Compagnia Teatro Popolare d’Arte - Tel. 055 8720058 - pubblico@tparte.it. I racconti dei detenuti “sognando il futuro” di Daniele Scudieri romasette.it, 1 giugno 2022 Il dopo-pandemia nel libro di Maria Teresa Caccavale e suor Rita del Grosso, frutto del laboratorio di scrittura creativa realizzato in alcune carceri, per “aiutare a costruire il futuro”. Cosa succederà dopo la pandemia? Le persone saranno in grado di guardare avanti e sognare un futuro possibile? Come intervenire per aiutare gli altri, soprattutto i più fragili e gli ultimi, a uscire fuori da questo tunnel pieno di oscurità? Sono alcune delle domande che Maria Teresa Caccavale, presidente dell’associazione di volontariato Happy Bridge, e suor Rita del Grosso, religiosa canossiana che spende la propria vita accanto ai detenuti, si sono poste quando hanno pensato di realizzare “Sognando il futuro dopo la pandemia”. Un volume che, come quello che lo ha preceduto, “Pensieri reclusi e oltre”, è il frutto del laboratorio di scrittura creativa sociale che hanno condotto - prevalentemente a distanza - durante il periodo della pandemia con i detenuti del carcere di Rebibbia, oltre che con quelli dei penitenziari di Paliano, Frosinone, Reggio Emilia e Prato. “Una raccolta di scritti - afferma Caccavale - sulla tematica del sogno per aiutare le persone a costruire il futuro, soprattutto dopo momenti di solitudine e buio provocati dalla pandemia”. La tematica scelta “nasce dall’osservazione dei comportamenti anomali o comunque indicatori di segnali di sofferenza e disagio psichico sempre più diffuso, fatta insieme ai volontari impegnati nelle carceri”. Il libro, che reca la prefazione del vescovo di Acireale Antonio Raspanti, è una raccolta breve (disponibile presso l’associazione, scrivendo a associazionehappybridge@protonmail.com) “che vive di forti emozioni interiorizzate. La partecipazione al laboratorio di scrittura, soprattutto delle persone più fragili e disagiate come le persone detenute - sottolinea Caccavale - ha dato loro modo di far emergere emozioni e stati d’animo che sarebbero altrimenti rimasti inespressi e soffocati, nonché di proseguire nelle riflessioni legate allo stato di consapevolezza del proprio vissuto, e soprattutto di poter trasmettere tutto ciò al di fuori delle mura del carcere”. E dalle testimonianze emerge un sogno comune, legato alla libertà, propedeutica alla realizzazione di tutti gli altri sogni, dal lavoro all’amore, ai viaggi, fino allo studio, sogni che per una persona detenuta diventano bisogni primari. Seguono poi le testimonianze delle religiose canossiane e domenicane, alcune delle quali volontarie nelle carceri. “Qui tutta la visione della vita - aggiunge Caccavale - è legata alla fede e alla presenza di Dio che donano coraggio e speranza nel futuro. I bisogni e i desideri sono di altra tipologia, ovvero legati al benessere dell’umanità intera, dell’anima e alla salvezza eterna”. Come scrive suor Rita, “il futuro inizia oggi”. Non mancano le testimonianze di rappresentanti della società civile: studenti, insegnanti, scrittori, giornalisti, poeti, educatori, personale dell’amministrazione penitenziaria. Ddl Zan, fine vita, cittadinanza, cannabis: le leggi sui diritti a rischio deriva di Serenella Mattera La Repubblica, 1 giugno 2022 Riforme e decreti, se ne parla dopo il 12 giugno. Ora quasi due settimane di stop per permettere ai parlamentari di girare l’Italia a caccia di voti, ma anche per evitare tentazioni di strappo parlamentare a fini elettorali. Per i provvedimenti del governo, legati alla crisi o al Pnrr, in programma dopo la pausa un tour de force di votazioni. Taxi, Csm, ius scholae. Tutto rinviato, a dopo le amministrative. Le Camere chiudono per la campagna elettorale. C’è stato un ultimo lunedì di votazioni, con molti assenti, per dare il via libera al Senato alla legge sulla concorrenza e alla Camera a una legge per impedire che bimbi e madri detenute vivano insieme in carcere. E ora ci sono quasi due settimane di stop, non solo per permettere ai parlamentari di girare l’Italia a caccia di voti, ma anche per evitare tentazioni di strappo parlamentare a fini elettorali. Si sono messi al riparo - con il rinvio - decreti, riforme e pure le leggi sui diritti. Tutti tranne il ddl sulla concorrenza, che era già in enorme ritardo. Ma se per i provvedimenti del governo, legati alla crisi o al Pnrr, è già in programma dopo la pausa un tour de force di votazioni, per le leggi sui diritti (ddl Zan, fine vita, cittadinanza, cannabis) e per la legge elettorale si annuncia un cammino ben più accidentato. La pausa elettorale, in vista del voto in quasi mille Comuni, dura ufficialmente a Montecitorio dal 2 al 12 giugno, a Palazzo Madama dal 6 al 12 giugno. Ma di fatto i lavori sono già fermi, al netto di qualche convocazione in commissione e discussioni come quella in programma oggi in Aula alla Camera sul testo unico per il volo da diporto o sportivo. È bloccato anche l’esame della riforma del Csm, approvata dai deputati a fine aprile, perché il 12 si votano i referendum di Lega e Radicali sulla giustizia e il via libera al testo vanificherebbe alcuni dei quesiti: l’esame dei 260 emendamenti in commissione è stato tenuto in stand by e il testo sarà portato in Aula solo il 16 giugno. Ma il governo è persuaso che l’accordo di maggioranza reggerà, sulla giustizia come sulla riforma degli appalti, messa in calendario al Senato il 14 giugno per l’approvazione definitiva, e sulla delega fiscale, che andrà al voto a Montecitorio il 20 giugno. Ecco perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli afferma che questi “sono giorni più sereni”, perché le misure essenziali al Pnrr sono instradate. Ma non vuol dire che sia tutto risolto. Garofoli lo riconosce in uno scambio di battute, a margine di un evento sul Piano di ripresa e resilienza, con l’attore Riccardo Scamarcio: “Passiamo da una difficoltà all’altra - gli racconta - tutte imprevedibili ma che vanno fronteggiate”. Il prossimo ostacolo è del resto già noto. Perché trovata a Palazzo Madama una mediazione sulle concessioni balneari, la legge sulle liberalizzazioni andrà all’esame della Camera e lì bisognerà affrontare i nodi finora rinviati, su tutti le norme su taxi e Ncc, contro le quali i tassisti e la Lega sono già sul piede di guerra. La seconda lettura non sarà una formalità, insomma. “Supereremo” anche questo problema, si mostra sicuro Garofoli, anche perché la riforma della concorrenza va approvata “per forza” prima della pausa estiva, se si vogliono adottare i decreti attuativi entro fine anno e non si vuol rischiare di perdere i miliardi del Pnrr. Alla voce decreti, l’agenda al cardiopalma a cavallo di giugno e luglio prevede l’esame delle norme per velocizzare il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr e dei 14 miliardi di aiuti approvati dal governo a inizio maggio. Nel primo caso, si rischiano spaccature in maggioranza sul pacchetto di misure contro l’evasione fiscale che fa partire le multe dal 30 giugno a chi non fa pagare con carte e bancomat. Mentre il decreto Aiuti già vede sul piede di guerra Giuseppe Conte, contro il termovalorizzatore a Roma. Non solo. I Cinque stelle si preparano a dar battaglia anche il 21 giugno, quando Mario Draghi sarà in Aula per le comunicazioni in vista del Consiglio europeo di fine mese: vogliono mettere ai voti una risoluzione che andrebbe contro la linea tenuta finora dal governo, per lo stop all’invio di armi all’Ucraina. Il clima post-pausa sarà molto influenzato dall’esito delle amministrative, perché i partiti si misureranno nelle urne e da lì inizieranno a preparare la volata verso le elezioni politiche del 2023. Dal giorno dopo Pd, M5s e Leu torneranno a spingere perché si cambi la legge elettorale, con un sistema proporzionale, nella speranza che l’enorme crescita di Fdi nel centrodestra induca anche Lega e Fi a correggere il sistema maggioritario. Di sicuro però il clima pre-elettorale renderà molto difficile portare a termine le leggi sui diritti: stanno al cuore al centrosinistra, ma al Senato si scontrano con una maggioranza a forte tendenza conservatrice. Il Pd proverà a far ripartire il ddl Zan e a votare a Palazzo Madama la legge sul fine vita già approvata, nonostante l’ostilità del centrodestra, alla Camera. A Montecitorio sono intanto in calendario in Aula il 24 giugno la legge sulla cittadinanza ai bambini stranieri, con lo ius scholae, e il 25 giugno la legge per legalizzare la coltivazione e il possesso per uso personale di cannabis. Lo scontro col centrodestra è un copione già scritto, le probabilità di successo non sono alte. L’italiano liquido degli adolescenti e l’impossibilità di pensare (anche da adulti) di Marco Ricucci Corriere della Sera, 1 giugno 2022 Una riflessione sui dati degli apprendimenti degli adolescenti e sui risultati pessimi al concorso per magistrati. L’allarme è stato lanciato, la nave sta colando a picco, lentamente senza che nessuno faccia qualcosa di incisivo: così mi pare. Paolo Di Stefano, commentando la notizia secondo la quale metà degli studenti italiani non sarebbe in grado di comprendere un testo scritto, la mette in associazione con l’altra notizia del recentissimo esito del concorso della magistratura: un anno fa, erano 3.797 gli aspiranti a diventare pubblici ministeri o giudici per 310 posti. Conclusa la correzione di tutti gli scritti, all’orale si presenteranno soltanto 220: cioè appena 5, 7%. Il motivo? Il commissario d’esame Luca Poniz, pubblico ministero di Milano, afferma che, nella scrittura degli elaborati, ha riscontrato “schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, scarsa originalità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica”. La scuola italiana, dunque, non è in grado di sviluppare abilità essenziali come la capacità di scrivere un testo argomentativo o di altre tipologie? Pensare, parlare - Negli atenei italiani ci sono da anni dei veri e propri corsi di recupero delle competenze di base come la comprensione del testo, la scrittura, la grammatica: si tratta dei cosiddetti Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi). Trovare le ragioni di questi due fatti apparentemente lontani (adolescenti e gli aspiranti magistrati) richiederebbe un’analisi psico-socio-culturale, che chiamerebbe in causa anche branche delle neuroscienze e della psicologia cognitiva. Come docente, ho cercato di trovare una risposta per meglio orientare la mia azione didattica. Qualcosa mi pare di aver capito da un interessante saggio di Davide Crepaldi: “Neuropsicologia della lettura. Un’introduzione per chi studia, insegna e o è solo curioso” (Carocci, 2021). Ma come cittadino mi chiedo: quali saranno gli effetti collaterali di questo fenomeno tra dieci e vent’anni? Veramente è in gioco la tenuta democratica del nostro Paese? La lingua italiana è lo strumento di decodifica della realtà e crea i presupposti della rappresentazione della realtà per ognuno di noi. In un illuminante artico reperibile sul web, che si intitola “ I ragazzi di oggi non sanno pensare. Alcune riflessioni di antropologia della scrittura”, Gabriele Pallotti già nel 1998 scriveva che lo studente può avere imparato la grammatica normativa, addirittura dell’italiano colto di un testo colto, “ma non ha ancora imparato del tutto a pensare da alfabetizzato: il suo pensiero è ancora dinamico, un flusso continuo di idee che ha bisogno della presenza di un interlocutore per essere interpretato, contestualizzato, definito, pieno di formule fisse e di riferimenti vaghi. L’incompleta alfabetizzazione gli preclude la possibilità di trattare le idee come oggetti, manipolandole, raggruppandole, mettendole in ordine, e il suo testo risulta il tipico prodotto di un pensiero orale o semi-orale”. Dunque, è un problema vecchio, che la scuola deve affrontare, con la collaborazione dei risultati della ricerca più avanzata. Ma come fare? Il “pantareismo” - Fare a scuola una didattica mirata alla lettura e alla scrittura, ovviamente. Bisogna però puntare sulla formazione iniziale dei docenti e su criteri meritocratici di selezione e reclutamento del personale docente. Forse l’azione didattica può essere un baluardo contro la mancanza del “pantareismo” linguistico-cognitivo, che trova la sua più manifesta e tangibile nella scrittura di un testo. Perciò mettendo banalmente in fila i pezzi di questo puzzle, come docente, un po’ azzardatamente, ritorno a porre in evidenza la proposizione della “neoquestione della lingua italiana”, che non riguarda solo la scuola ma l’intera cittadinanza, in quanto ha un sostanziale diretto effetto: la nostra libertà è in mano ai giudici che esercitano il terzo potere dello Stato. Inoltre, grazie alle parole di Luca Poniz, che ha constatato, come in una radiografia, negli elaborati scritti quanto riportato nel virgolettato prima, ho ulteriormente declinato questo aspetto cognitivo, conseguenza di letture un po’ selvagge e anarchiche, in un nuovo fenomeno che, peccando di presunzione, mi piace ribattezzare con un neologismo, ovvero “pantareismo” linguistico-cognitivo, che trova una sua collocazione idonea nella società liquida di Bauman. Il ribaltamento - Forse questa è una lettura semplicistica, che deve essere ancora approfondita, ma un altro -ismo nella lingua italiana, per richiamare un saggio di Capuana, male non fa. Infine, nell’editoriale di Paolo Di Stefano, si mette in luce che sia l’ala conservatrice sia l’ala progressista delle toghe hanno smesso di fare i consueti battibecchi, per “accusare” Poniz di essere stato troppo severo e stretto nella correzione degli elaborati: “Come quei genitori che non trovano di meglio che prendersela con il professore quando il figlio viene rimandato”. Ha fatto benissimo Poniz, dato che si trattava di futuri giudici. Non è il caso invece della scuola, dove bisogna recuperare tutti per portarli ad un livello accettabile di competenza linguistica e, dopo due anni di Dad, valutare anche l’impegno degli alunni. Se qualcuno di loro farà il concorso da giudice, forse ci ringrazierà. Crimini di guerra russi, altre due condanne aspettando L’Aja di Sabato Angieri Il Manifesto, 1 giugno 2022 Ucraina. Zelensky: bene Bruxelles, ma ritardo “inaccettabile”. A Kiev rimossa la commissaria ai diritti umani Lyudmila Denisova: “È una decisione del presidente ucraino”. Dopo le armi è il momento delle leggi. Dietro costante sollecitazione delle autorità ucraine, ieri la Corte penale internazionale ha fatto sapere tramite il procuratore generale, Karim, Khan, che si sta “lavorando per aprire un ufficio a Kiev”. Estonia, Lettonia e Slovacchia si sono uniti alla squadra investigativa comunitaria, che coordinerà lo scambio di prove attraverso l’Agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Ue, l’Eurojust. La cornice era quella della conferenza stampa organizzata da Eurojust sui crimini di guerra in Ucraina, alla quale ha partecipato anche la procuratrice generale di Kiev, Iryna Venediktova. Non è il primo incontro del genere, i rappresentanti degli stati che hanno scelto di collaborare alle indagini sui crimini di guerra nell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si stanno riunendo all’Aja in seguito alle continue richieste di assicurare alla giustizia i responsabili delle atrocità. Secondo Venediktova, “a oggi ci sono quasi 15mila casi di crimini di guerra. Pensateci, domani ne avremo altri 200-300. Ora, in questa categoria di casi, abbiamo quasi 80 sospetti che possiamo iniziare a perseguire”. Del resto, proprio ieri è arrivata la seconda condanna per crimini di guerra dall’inizio del conflitto. Alexander Bobykin e Alexander Ivanov, due militari accusati di aver deliberatamente bombardato degli edifici civili di Kharkiv durante il primo giorno dell’invasione, sono stati condannati a 11 anni e 5 mesi di carcere. Nell’aula del tribunale di Poltava, l’accusa ha sostenuto che i due soldati hanno “violato le leggi e gli usi di guerra”. Tale verdetto arriva dopo la condanna all’ergastolo di Vadim Shishimarin, 21enne soldato russo giudicato colpevole di aver ucciso a bruciapelo un civile disarmato. Tuttavia, l’avvocato di Shishimarin ha già fatto sapere che presenterà ricorso e chiederà l’annullamento del verdetto in quanto “questa è la sentenza più severa e qualsiasi persona equilibrata la contesterebbe”. Quasi contemporaneamente, il difensore civico ucraino dell’Onu, Lyudmila Denisova, è stata sfiduciata. La decisione del parlamento ucraino ha sollevato Denisova dal suo incarico quasi un anno prima della scadenza del mandato, adducendo come motivazione “il fallimento nell’organizzare corridoi umanitari per evacuare i civili da città e paesi al centro di scontri tra le truppe russe di invasione e le forze armate ucraine”. Inoltre, ciò che sarebbe risultato particolarmente fastidioso ai vertici del governo sarebbero le dichiarazioni “insensibili e non verificabili” di Denisova sugli stupri commessi dai soldati russi. Il deputato Pavlo Frolov, in un post su Facebook, ha scritto che “l’attenzione poco chiara del lavoro mediatico dell’Ombudsman sui numerosi dettagli di ‘crimini sessuali commessi in modo innaturale’ e ‘stupri di bambini’ nei territori occupati che non potevano essere confermati da prove, ha solo danneggiato l’Ucraina”. Secondo la diretta interessata è una decisione presa direttamente dall’ufficio del presidente Zelensky; tuttavia, Andriy Smyrnov, vice-capo dell’ufficio presidenziale, nega. La presidente del Centro per i diritti umani Zmina, Tetyana Pechonchyk, ha dichiarato che non ci sono motivi costituzionali per rimuovere Denisova dall’incarico. Al momento non è ancora chiaro chi prenderà il suo posto. Nel porto occupato di Mariupol, intanto, l’amministrazione filo-russa sta iniziando a pensare alla costituzione di una propria flotta e Denis Pushilin, capo della Repubblica Popolare di Donetsk, uno dei due territori separatisti dal 2014, avrebbe dichiarato che “alcune delle navi passeranno sotto la giurisdizione della Dpr; le decisioni in merito sono state prese”. Nel comunicato, diffuso dall’agenzia russa Ria Novosti, non è stato chiarito se la decisione si riferisca a navi ucraine o di altri Paesi. Chiudiamo con Zelensky che ha accolto positivamente il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia ma ha definito “inaccettabile” il ritardo dei Paesi europei nel prendere la decisione. Il presidente ucraino ieri aveva parlato telefonicamente con il suo omologo turco, Erdogan, il quale ha avuto un colloquio anche con Putin, e si è offerto di ospitare sul suolo turco un incontro tra le delegazioni russa, ucraina e delle Nazioni unite. A margine delle due telefonate, il presidente turco ha dichiarato che “se entrambe le parti, Kiev e Mosca, troveranno un terreno comune, la Turchia potrebbe anche partecipare a un’eventuale missione di osservazione in Ucraina”. I rifugiati ucraini in Russia sono (altre) armi del regime di Micol Flammini Il Foglio, 1 giugno 2022 Le carceri piene e le prove da fabbricare. Sarebbero circa 500 mila i deportati da Mosca dall’inizio della guerra. Il quotidiano russo Kommersant dice che alcune strutture carcerarie sono state svuotate per fare spazio ai prigionieri di Kyiv. Le carceri russe sono sovraffollate, non è un problema nuovo, ma nelle ultime settimane sembra più grave del solito. Il quotidiano russo Kommersant, che cerca di rimanere in equilibrio tra la serietà e la censura con successo, ha cercato di analizzare il problema e parlando con alcune associazioni per i diritti umani ha scoperto che potrebbe essere correlato alla guerra in Ucraina: gli ucraini fatti prigionieri vengono sistemati nelle carceri russe. I penitenziari di Mosca hanno il 29 per cento dei detenuti in più rispetto alla loro capacità, evidentemente, hanno detto gli esperti intervistati, alcune strutture carcerarie russe sono state svuotate per fare spazio ai prigionieri ucraini e i detenuti russi sono stati spostati in altri penitenziari creando sovraffollamento. Alcune fonti hanno riferito al Kommersant che sono soprattutto le strutture che si trovano nelle città di frontiera a essere riservate ai soli prigionieri di guerra, che non possono stare con gli altri detenuti. La Russia non ha fatto sapere quanti ucraini tiene prigionieri, ma Kyiv ha comunicato che, dall’inizio della guerra, circa 500 mila ucraini sono stati deportati in Russia. Alcuni, soprattutto i cittadini delle zone di confine, pur di fuggire dalla guerra sono finiti nelle mani del nemico. Altri, soprattutto gli abitanti di città occupate come Mariupol, sono stati portati in Russia con la promessa di denaro e di una nuova sistemazione in aree remote del paese: le promesse sono state disattese tutte. Chi non è nelle carceri vive comunque da prigioniero. I rifugiati ucraini vengono convocati per degli interrogatori, il cui fine è creare prove contro l’esercito ucraino. Vengono costretti a confessare che a compiere omicidi, a distruggere le loro case sono stati i soldati di Kyiv. Per la pressione e per la paura, qualcuno cede. Gli interrogatori durano a lungo, spesso si concludono con verbali già stilati in precedenza, in cui gli interrogati, che hanno quasi tutti addosso le ferite della guerra, sono costretti a dire che quelle ferite le hanno fatte i “nazisti” ucraini. Mosca annota, fabbrica prove, soprattutto quelle relative al battaglione Azov, i combattenti che hanno resistito a un assedio lungo quasi tre mesi a Mariupol e che ora sono prigionieri dei russi. Ai rifugiati ucraini viene anche chiesto di testimoniare che sono stati loro a distruggere il Teatro drammatico della città, bombardato dall’aviazione russa nonostante fosse un luogo di rifugio: sono morte circa seicento persone al suo interno. Gli ucraini ora sono un bottino nelle mani russe, che siano prigionieri di guerra o rifugiati, poco importa, sono complementari: ai rifugiati vengono estorte confessioni contro i prigionieri, per i quali Mosca vuole creare un tribunale internazionale esemplare. Nel frattempo studia le mosse degli ucraini che hanno già emesso una prima sentenza contro un soldato russo accusato di aver ucciso un uomo disarmato e ieri hanno iniziato un nuovo processo. I processi degli ucraini servono a incitare Mosca a scambiare prigionieri, ma i funzionari del Cremlino ancora non sanno se vogliono procedere allo scambio o fare un loro processo. Le confessioni che stanno estorcendo saranno comunque utili anche in caso di scambio di prigionieri: sono perfette per la propaganda interna e internazionale. I soldati russi prigionieri di Kyiv, tornando, potrebbero avere anche cose peggiori da raccontare, quindi le dichiarazioni firmate dai rifugiati servono anche a dimostrare che al di là di ogni brutalità, al di là di ogni soldato ferito, traumatizzato, morto, la guerra è giusta e lo dicono anche gli ucraini, che, dopo aver sofferto le conseguenze del conflitto, si ritrovano a essere un’arma che Mosca usa contro il loro stesso paese. Qualcuno cerca di fuggire, di dirigersi verso l’Europa e secondo alcuni funzionari di Kyiv, a chi ha lo status di rifugiato viene impedito di lasciare la Russia. Chi si dirige verso l’Estonia, quindi verso l’Europa, viene bloccato al confine, interrogato, e costretto a rimanere nei confini russi. Stati Uniti. Capire la terribile lezione di Uvalde di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 giugno 2022 Forse chi ha ucciso Salvador Ramos, il diciottenne che giorni fa fece irruzione nella scuola di Uvalde, in Texas, ammazzando con un fucile a ripetizione (comprato il giorno del compleanno) 19 bambini e due maestre, non aveva scelta: o abbatteva lui il giovane assassino o ne sarebbe stato abbattuto. Se il processo dovesse accertare però, dopo le polemiche sugli stupefacenti ritardi della polizia, che Salvador avrebbe potuto essere preso vivo, la sua esecuzione sarebbe non solo un crimine ma un’idiozia. Perché mai come oggi dovremmo rifiutare la frettolosa spiegazione del governatore del Texas Greg Abbott sul “mostro” impazzito. Al contrario: ci sarebbe servito vivo per capire “cosa” fosse successo nel cervello di quella giovane belva solitaria. Capire. Capire. Capire. Per non esser sempre colti di sorpresa. Prendete la balbuzie. Pare accertato che l’odio insensato nei confronti degli alunni della scuola che lui stesso aveva frequentato dipendesse dagli sberleffi, dalle battute, dalle umiliazioni subite da piccolo quando balbettava. Ne soffrirono da bimbi, qualche lettore ricorderà, uomini di spicco come Lewis Carroll, Alessandro Manzoni, Winston Churchill, tanti altri. E ne scrisse forse meglio di tutti Mario Vargas Llosa ricordando gli anni adolescenziali quando parlava strascicando la esse come “sc” e soffriva da morire per i due “dentoni” davanti: “Non soltanto i bambini ma anche gli adulti trovano comico chi tartaglia lottando per far uscire le parole di bocca. Gli adulti hanno ovviamente (non sempre) la discrezione di sorvolare...” ma “i bambini e i ragazzi sono molto più crudeli perché, in assenza di inibizioni e convenzioni sociali, a quell’età si manifestano liberamente gli istinti e le pulsioni peggiori e il diverso, soprattutto se affetto da una menomazione, viene umiliato, ferito, vessato. La vita di un balbuziente può così diventare una prova permanente di resistenza morale nei confronti dei maltrattamenti inflitti dalla sterminata cattiveria umana”. Colpa dei bambini? Ma per carità! Gli unici innocenti sono loro. Padri, madri, nonni e maestri dovrebbero però essere coscienti delle responsabilità che hanno verso i piccoli. Spiegando loro giorno dopo giorno, quanto sia importante il rispetto per gli altri. Non basta una ramanzina ogni tanto. Conta l’esempio. Ed è difficile che possa darlo un paese di sedicimila abitanti con undici armerie.