La riforma e la memoria di Enzo Tortora di Aldo Grasso Corriere della Sera, 19 giugno 2022 Tortora, e il caso dell’arresto di chi era innocente: un monito anche per il Csm. Dopo le tensioni degli ultimi giorni e gli intoppi di un referendum un po’ abborracciato, il Senato ha dato il via libera definitivo alla riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Si poteva fare di più? La riforma cambia in maniera significativa alcuni aspetti dell’ordinamento giudiziario, ma sconta il prezzo del compromesso. Tuttavia, ci sono coincidenze, avvertimenti insoliti, forme erratiche, costellazioni latenti nel cielo del pensiero di cui non si può non tenere conto. La riforma Cartabia è giunta in porto alla vigilia dell’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora (17 giugno 1983), cioè dell’arresto di un innocente. Una pagina nera per la Giustizia e non solo: il Tg2 d’allora si distinse subito per l’accanimento con cui seguì la vicenda, la stampa preferì sposare, almeno all’inizio, la tesi colpevolista, molti mascherarono l’arresto con una sorta di risibile rigenerazione da una tv che non piaceva. Tortora, dopo un lungo calvario, risultò del tutto innocente ma i magistrati inquirenti che lo esposero alla vergognosa e fatale gogna fecero tutti carriera. Coincidenze, si diceva. Il grido di Tortora, “Io sono innocente. Spero, dal profondo del mio cuore, che lo siate anche voi”, sia un monito per quel Csm, le cui logiche e i cui poteri, nonostante la riforma, sembrano rimanere invariati. La riforma Cartabia del Csm è legge: ecco cosa cambia, punto per punto di Simone Alliva L’Espresso, 19 giugno 2022 Dalla separazione delle carriere tra giudici e pm alla contestata presunzione di innocenza che frena i rapporti tra magistrati e giornalisti. Vi spieghiamo i cambiamenti che la norma apporta. La pantomima di Lega con le mani sui fianchi - “o modificate o ce ne andiamo” - è durata meno di ventiquattro ore. “Noi votiamo la riforma, ma è anacronistica”, ha affermato la senatrice e responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. Forza Italia ha tenuto la barra governista, Italia Viva pure, attraverso l’astensione. La riforma Cartabia è legge con 173 sì, 37 no. Dopo aver approvato le riforme del processo penale e civile, il Parlamento trasforma l’ordinamento giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura. In tempo per luglio 2022, data in cui Palazzo Marescialli verrà rinnovato. Delle tre leggi la più tortuosa: il testo base adottato dalla Commissione era stato presentato dall’ex ministro Alfonso Bonafede nel settembre 2020. E la più urgente: invocata più volte dal capo dello Stato Sergio Mattarella, che le ha dedicato un lungo passaggio del suo discorso alle Camere durante la cerimonia di reinsediamento a febbraio 2022. Dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri a un “fascicolo per la valutazione” dei magistrati, dall’assegnazione degli incarichi al sistema del Csm in Commissioni. E poi il divieto di parlare con i giornalisti, anche solo per smentire una notizia. Ecco come cambia l’ordinamento giudiziario italiano: 33 membri al Csm e quote rosa - Il futuro Consiglio superiore della magistratura sarà composto di 33 membri. Tre quelli di diritto: il Presidente della Repubblica; il Primo Presidente di Cassazione; il procuratore generale presso la Cassazione. Dieci i laici eletti dal Parlamento. Venti i togati: 2 in rappresentanza della Cassazione, 5 delle procure; 13 per la magistratura giudicante. I magistrati voteranno in 7 collegi (uno per la Cassazione, due per la magistratura inquirente; quattro per la giudicante). In ciascun collegio si eleggeranno due componenti. Si prevede inoltre per i giudicanti una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale e per i requirenti il recupero di 1 miglior terzo. Per candidarsi non sono previste le liste; ciascun candidato presenta liberamente la propria candidatura individuale. Devono esserci un minimo di 6 candidati. Se non arrivano candidature spontanee o non si garantisce la parità di genere, si integra con sorteggio. Le pagelle degli avvocati e lo stop alle nomine pacchetto - Per gli incarichi direttivi e semi-direttivi, si decide in base all’ordine cronologico delle scoperture. Si prevedono corsi di formazione per tutti, a cura della Scuola Superiore della Magistratura, sia prima di aver accesso alla funzione che dopo. Si rendono trasparenti le procedure di selezione, con pubblicazione sul sito Intranet del Csm di tutti i dati del procedimento e dei vari curricula, dando modo di partecipare alle scelte su direttivi e semi-direttivi anche ai magistrati dell’ufficio del candidato. Si prevede l’obbligo di audizione di non meno di 3 candidati per quel posto. Nell’ambito del Csm, si dovrà individuare un contenuto minimo di criteri di valutazione, per verificare tra l’altro anche le capacità organizzative. Quanto alle valutazioni di professionalità, nei Consigli giudiziari locali ci sarà anche il voto degli avvocati, ma esclusivamente a seguito di un deliberato del consiglio dell’ordine degli avvocati. Stop alle porte girevoli - Per quanto riguarda le sovrapposizioni tra mandato politico e funzioni giudiziarie, si prevede innanzitutto che non sarà più possibile esercitarli nello stesso tempo, nemmeno in distretti diversi (il caso più celebre è quello di Catello Maresca, giudice a Campobasso e insieme consigliere comunale a Napoli). Per assumere l’incarico, il magistrato dovrà quindi collocarsi in aspettativa. Al termine del mandato elettivo, i magistrati non possono più tornare a svolgere una funzione giurisdizionale. Se si sono candidati ma non sono stati eletti, per tre anni non possono tornare a lavorare nella regione dove si sono candidati né in quella dove lavoravano, né potranno avere incarichi direttivi. Se hanno avuto incarichi apicali in organismi di governo per oltre 12 mesi (tipico il caso di capi di gabinetto), restano per ancora un anno fuori ruolo - ma non in posizioni apicali - e poi rientrano nella funzione d’origine, ma per i tre anni successivi non possono ricoprire incarichi direttivi. Valutazione annuale dei magistrati - Esiste già un fascicolo personale di ogni magistrato, previsto dal 2006. Attualmente, ad ogni valutazione di professionalità (cioè ogni 4 anni) il magistrato deve presentare al Consiglio giudiziario locale - e poi al Csm - provvedimenti a campione sulla propria attività svolta, e le statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell’ufficio di appartenenza. Il fascicolo andrà ora aggiornato annualmente, seguendo l’iter dei vari provvedimenti. Tra gli indicatori da tenere in considerazione da parte del Consiglio, gli eventuali segnali “di grave anomalia”. Limiti territoriali - Arrivano nuovi limiti territoriali per essere eletti: per le cariche elettive nazionali, regionali, province autonome di Trento e Bolzano, Parlamento Europeo, come anche per gli incarichi di assessore e sottosegretario regionale, si prevede che i magistrati non siano eleggibili nella regione in cui è compreso, in tutto o in parte, l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio nei precedenti tre anni. Anche per le cariche di sindaco, consigliere o assessore comunale, il magistrato non potrà più candidarsi se presta servizio o ha prestato servizio nei tre anni precedenti la data di accettazione della candidatura presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente in tutto o in parte nel territorio della provincia in cui è compreso il comune o nelle province limitrofe. Il principio è che non dev’esserci alcun sospetto di un retroscena politico nell’azione del magistrato sul territorio. Separazione tra le funzioni - Nel settore penale, sarà possibile un solo passaggio tra la funzione requirente e quella giudicante. Attualmente sono possibili fino a 4 passaggi di funzione. La scelta andrà fatta entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Non ci sarà alcun limite, invece, per il passaggio al settore civile e viceversa, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. La possibilità di un solo passaggio tra le due funzioni rasenta la separazione delle carriere, che prevedrebbe appunto l’impossibilità di passare da un ramo all’altro della magistratura penale. L’Associazione nazionale magistrati ha parlato di “elusione” dei precetti costituzionali, che prevedono una sola giurisdizione. Secondo i parlamentari di maggioranza, è invece giusto che il magistrato abbia la possibilità di approfondire l’esperienza nel settore dove è capitato con la prima nomina, e che possa però cambiare almeno una volta. Vietato parlare con la stampa - È una delle norme più contestate della riforma dai giornalisti. L’articolo 11 estende il rilievo disciplinare delle dichiarazioni agli organi di stampa introducendo un nuovo illecito disciplinare per quei magistrati che informano la stampa dei risultati dell’attività di indagine, anche solo per smentire una notizia sbagliata. Gli unici autorizzati a parlare con i giornalisti saranno i Procuratori della Repubblica, ma solo in conferenza stampa ed esclusivamente in casi di rilevanza pubblica. Una norma figlia della ‘presunzione di innocenza’, entrata in vigore a dicembre scorso con la firma della Guardasigilli e voluta dal deputato di Azione Enrico Costa, su spinta della direttiva europea. Dietro il flop dei referendum un fallimento della politica e delle istituzioni di Mario Bertolissi Corriere di Bologna, 19 giugno 2022 Siamo proprio sicuri che l’intera vicenda referendaria: 3 quesiti non ammessi e 5 rimasti privi di quorum, si possa archiviare, osservando che sono stati un flop? Molto probabilmente no, perché l’incontestabile flop è un fallimento. Della politica e delle istituzioni, però, le quali si sono avviate, da tempo, su una strada inclinata, che porta alla deriva. Della democrazia. La quale esige partecipazione. Non il deserto delle urne, di cui non è davvero il caso di menare vanto. Qualche riflessione non fa male. Infatti, siamo abituati a sottovalutare, a trascurare, ad infischiarcene, in nome del “particulare”. Qualunque sia il fine perseguito dai promotori (è sempre, inevitabilmente, politico) e qualunque sia il carattere tecnico oppure no dei quesiti (a dire il vero, molto spesso è un sedicente tecnicismo, che nasconde la più evidente delle politicità: si pensi al fine vita ed all’uso degli stupefacenti), ciascuno di essi va valutato per ciò che afferma, alla luce delle ragioni che lo hanno determinato. Sotto questo profilo, quelli relativi alla giustizia sono espressione di un noto disagio dell’uomo comune e di un’intollerabile inerzia del legislatore, che non riesce ad affrancarsi dall’Associazione nazionale magistrati. Nel primo caso, i votanti si sono divisi pressoché a metà. Nel secondo, sono prevalsi i “Sì” in larga misura. A conferma del fatto che la magistratura è un problema e che continua ad incombere il caso Palamara. I Radicali hanno creato i referendum. Ma forse li hanno anche distrutti di Davide Maria De Luca Il Domani, 19 giugno 2022 Paolo Roi, dipendente pubblico di 62 anni, non ha votato ai cinque referendum sulla giustizia. Anche se abita a Verona e domenica scorsa si è recato al seggio per scegliere il nuovo sindaco della città, sui cinque quesiti relativi all’ordinamento giudiziario ha preferito non esprimersi. Lui, che ha votato al suo primo referendum nel 1978, dice che nonostante abbia letto tutto ciò che poteva sui giornali e ne abbai discusso con amici avvocati, non se l’è sentita di esprimersi: “Nonostante tutto non ero in grado di comprendere appieno gli effetti del mio giudizio”. Per Roi è stato questo il problema con l’ultimo referendum. I cinque quesiti riguardavano questioni complesse, come la riforma della legge Severino sull’incandidabilità e la separazione delle carriere dei magistrati. E molti altri italiani, apparentemente, si sono sentiti nel suo stesso modo. Con un’affluenza leggermente inferiore al 21 per cento, i referendum di domenica sono stati i meno votati nella storia della Repubblica. Il risultato non è una sorpresa, ma ugualmente sembra essere la sintesi perfetta di qualcosa che era in gestazione da tempo. Introdotti negli anni Settanta, i referendum abrogativi sono stati trasformati in uno strumento di lotta politica extra parlamentare soprattutto grazie al piccolo e battagliero Partito radicale, che ne ha promossi oltre cento. Ma dopo quasi mezzo secolo di mobilitazioni referendarie, che hanno portato a storiche vittorie, questo strumento sembra ormai logoro. Con l’eccezione dei referendum sull’acqua e sul nucleare del 2011, è dal 1997 che i referendum mancano sistematicamente il quorum. Arrivano i referendum - L’Italia repubblicana è nata il 2 giugno del 1946 con un referendum e la possibilità che i cittadini siano chiamati a esprimersi direttamente è prevista fin dalla Costituzione del 1948. Non era scontato. In Europa non sono molti i paesi dove è prevista, all’interno della legge fondamentale dello stato, la possibilità di interpellare direttamente gli elettori su questioni specifiche. Lo scetticismo, o l’entusiasmo, nei confronti del referendum si possono far risalire fino agli albori dei teorici dello stato moderno, con i conservatori, rappresentati dal filosofo francese Montesquieu, che lo ritengono una pericolosa deviazione dal sacro principio della rappresentanza, e i progressisti, come Rousseau, per cui è invece la più alta forma di espressione della volontà popolare. Nell’Europa di oggi, solo l’Italia (a partire dagli anni Settanta) e la Svizzera fanno un utilizzo così massiccio delle consultazioni referendarie, che negli altri paesi sono invece eventi piuttosto rari. Dopo l’approvazione della Costituzione nel 1947 i referendum abrogativi sono rimasti lettera morta fino al 1974 quando il governo di centrosinistra ha raggiunto un compromesso: veniva approvata la legge sul divorzio ma veniva fornita anche la possibilità di abrogarlo tramite voto popolare. Il referendum, come noto, ha visto la sconfitta del fronte abolizionista. “Fu un evento epico per la storia italiana”, dice Marco Boato, ex parlamentare e all’epoca attivista del fronte del “No” e membro del movimento di estrema sinistra Lotta continua. Oltre che del divorzio, è stata una vittoria dell’idea stessa della consultazione referendaria. “Anche se a promuoverlo per la prima volta erano state forze assai retrive sui temi dei diritti civili - dice Boato - Si creò una opinione molto favorevole all’utilizzo, fino ad allora inedito, di questo fondamentale strumento di democrazia diretta”. I Radicali - Queste potenzialità non sono sfuggite al Partito radicale all’epoca guidato da Marco Pannella. Alle elezioni del 1976, anche grazie alla visibilità ottenuta dalla battaglia per il “Sì” al referendum sul divorzio, il partito ha raccolto poco meno di 400mila voti ed è riuscito a eleggere i primi deputati in quasi vent’anni di attività. Nonostante le sue piccole dimensioni, il partito aveva grandi ambizioni. Il progetto politico di Pannella e dei radicali, ha riassunto lo studioso Pier Vincenzo Uleri, era quello di imporre all’Italia un sistema di alternanza bipolare come nelle grandi democrazie anglosassoni, considerate più moderne. Il metodo scelto per farlo è stato quello dei referendum: spezzare le alleanze considerate innaturali introducendo nel dibattito pubblico grandi temi divisivi. I Radicali sono diventati così il “partito dei referendum”. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta i Radicali, da soli, hanno presentato oltre 110 referendum, di cui 43 sono stati accettati. A questi vanno aggiunti gli ultimi cinque quesiti, sostenuti dal Partito radicale e dalla Lega di Matteo Salvini, ma richiesti da nove consigli regionali. In tutto in Italia si sono tenuti 72 referendum abrogativi, un referendum istituzionale (nel 1946), uno di indirizzo (nel 1989 ma era solo consultivo) e quattro costituzionali. Un numero senza paragoni negli altri grandi paesi europei dove, dal dopoguerra a oggi, i referendum nazionali si contano sulle dita di una mano. L’inflazione - Pannella e i Radicali hanno dovuto fare i conti con due problemi. Il primo è stato il conservatorismo della Corte costituzionale, demandata a verificare l’ammissibilità dei quesiti referendari. Il secondo: assicurarsi di portare a votare un sufficiente numero di persone così da raggiungere il quorum del 50 per cento degli aventi diritto. È nata così la strategia dei “pacchetti” che prevedeva di mettere insieme il più alto numero di quesiti referendari possibile, così da ottimizzare la raccolta di firme, aumentare le possibilità che uno o più quesiti passassero il vaglio della Corte e, usando tematiche diverse che richiamavano diversi tipi di elettorato, favorire il raggiungimento del quorum. Lo zenit di questa fase è stato raggiunto nel 1995, quando agli italiani sono stati sottoposti dodici quesiti diversi che andavano dagli spot pubblicitari in televisione, alla gestione delle frequenze televisive, passando per le trattenute sindacali e gli orari dei negozi. Non sono mancati i critici di questa strategia, come lo stesso Boato, che dopo essere entrato nei Radicali nel 1978, ha lasciato il partito nel 1981, in dissenso con la leadership del carismatico leader Pannella e con il “pacchetto” referendario di quell’anno, che aveva segnato la sconfitta della proposta radicale per ampliare il diritto all’aborto e quella dei conservatori che volevano cancellarlo. La decadenza - Un terzo problema dei referendum si è manifestato sempre più spesso in anni recenti. I referendum popolari possono solo abrogare leggi o parti di legge. Per ottenere i risultati desiderati, quindi, sempre più spesso i promotori si sono lanciati in vere opere di ingegneria legislativa, in cui la modifica di alcune parole, l’eliminazione di qualche frase, può portare per vie traverse a una specie di produzione di “nuove norme”. I quesiti si sono fatti sempre più complessi e specifici, in una marcia che ha portato l’Italia ad allontanarsi sempre più dal canonico utilizzo dei referendum, per decidere con un Sì o un No su questioni chiaramente divisive. Il referendum di domenica ha avuto l’effetto di accelerare le discussioni in corso sull’opportunità di riformare lo strumento, anche in virtù del suo glorioso passato. “I referendum, nonostante tutto, hanno dato una buona prova. Non dobbiamo disperdere ma rilanciare questa esperienza”, ha scritto Andrea Morrone, professore di diritto costituzionale all’Università di Bologna e autore di La Repubblica dei referendum. Ma quali sono le concrete possibilità di riforma? Se alcuni partiti come i Radicali hanno visto nel referendum uno strumento per uscire da un sistema consociativo e bloccato, per gli eredi di Montesquieu il referendum rimane una pericolosa china che porta verso la dittatura della maggioranza. Futuri referendum sull’adesione all’euro o alla Nato, che con le attuali leggi non si potrebbero svolgere, sono ancora oggi l’incubo principale per una parte non piccola del ceto politico. Dal loro punto di vista, l’attuale referendum abrogativo, inflazionato, azzoppato e consunto dall’eccessivo utilizzo di questi anni, è ormai addomesticato e non più pericoloso. Chi lo ritiene un mezzo poco utile deve fare poco altro oltre ad assicurarsi che resti così. Le donne che denunciano le violenze vanno protette. Se non riusciamo, chiediamoci perché di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2022 Denunciate. Denunciate. Denunciate. Questo viene ripetuto come un mantra dalle istituzioni alle donne vittime di violenza di genere. Un mantra che si trasforma in condanna a morte quando chi dovrebbe intervenire non lo fa in modo tempestivo. Le conseguenze sono gravissime, parliamo di morte, di donne uccise, di femminicidio. Due giorni fa a Cavazzona, una piccola frazione di Castelfranco Emilia, nel mio territorio in provincia di Modena, due donne - Gabriela, la madre e Renata, la figlia, di 47 e 22 anni - sono state trucidate a colpi di arma da fuoco. A sparare sarebbe stato un uomo, marito e patrigno delle vittime. Il giorno dopo l’omicidio si sarebbe dovuta tenere l’udienza di separazione. Quello che però deve fare riflettere, o meglio rabbrividire, è che cinque denunce per maltrattamenti, minacce e stalking sono andate a vuoto. Cinque denunce non hanno convinto gli inquirenti della pericolosità dell’uomo. Si parla di offese di ogni genere, di vessazioni quotidiane, di violenze psicologiche, fisiche ed economiche continue ed abituali e di armi in casa. Gabriela, tuttavia, non si era arresa e aveva presentato opposizione alle richieste di archiviazione, chiedendo di essere tutelata con la prosecuzione delle indagini, richiedendo l’ascolto degli assistenti sociali che seguivano il caso e del figlio minorenne, altra vittima di questa gigante tragedia, che si trovava in casa quando il padre ha sparato alla madre e alla sorella. Richiesta di archiviazione cosa significa? Significa che Gabriela non è stata creduta. Significa che nessuno le ha creduto. Modena, spara alla moglie e alla figlia 22enne di lei: fermato un 47enne. “Oggi era prevista l’udienza di separazione” Non è un caso isolato purtroppo: secondo i dati Istat nove donne su dieci non denunciano le violenze e le molestie subite. E perché? Perché ancora oggi, nel 2022, le donne hanno paura di non essere credute, come è accaduto a Gabriela. Hanno paura di essere colpevolizzate, di essere considerate delle cattive madri e mogli, di essere perseguitate, hanno il terrore di perdere la responsabilità genitoriale sui figli con accuse aberranti di alienazione parentale, accusate di essere loro a inculcare nei figli una valutazione negativa sul padre violento. C’è l’incognita, poi, di non sapere cosa succede dopo la denuncia, soprattutto se non c’è una indipendenza economica. Tutto questo succede nella dura realtà di una violenza che troppo spesso viene derubricata in conflittualità tra i coniugi e quindi “risolvibile” tra le mura domestiche. Sono quarant’anni che si scrivono leggi sul contrasto alla violenza di genere, da ultimo il cosiddetto Codice rosso, legge 69 del 2019. Ma nonostante le leggi ci siano, ad oggi sono 40 i femminicidi avvenuti nei primi 6 mesi dell’anno, quasi uno ogni 4 giorni: mogli, ex fidanzate, sorelle, figlie decedute per mano di un familiare o un partner. Dal 2000 ad oggi oltre 3400 donne sono state uccise. Un massacro. E la scia di sangue non accenna a fermarsi. Una settimana fa a Vicenza Zlatan Vasiljevic, 42 anni, ha raggiunto l’ex moglie Lidia Miljkovic vicino al luogo di lavoro, ha atteso che scendesse dalla sua auto e l’ha colpita con numerosi colpi di pistola, lasciandola agonizzate sull’asfalto. Ma non si è fermato a questo. Dopo averla uccisa è fuggito nella sua Audi A3 nera con la compagna, Gabriela Serrano, 36enne residente a Rubano in provincia di Padova. Vasiljevic ha ucciso anche lei, prima di togliersi la vita. L’uomo era già stato arrestato per violenze sulla moglie. L’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale racconta una scia di vessazioni che inizia nel 2011. Nella stessa si legge: “La perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcol e alla sua incapacità o comunque alla mancanza di volontà di controllarsi pure in presenza dei figli minori, costretti ad assistere alle continue vessazioni ai danni della madre consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza”. Il giudice parla anche di “tendenze controllanti e prevaricatorie dimostrate dall’indagato, che potrebbero con ogni probabilità subire un’escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze”. Così è stato. Allora io mi chiedo perché quest’uomo poi sia stato rimesso in libertà. Non solo, tre settimane fa è stata emessa la sentenza di separazione che stabiliva la cessazione dell’affido esclusivo dei figli di 13 e 16 alla madre. Per ogni aspetto si sarebbe dovuto mediare con il padre: scuola, tempo libero, medicine. Con quel padre violento. Quest’altra storia, piena di sangue e orrore, è esemplare di tutto quello che non funziona nel sistema giustizia. Come si può consentire ad un violento, condannato, di tornare ad avere l’affido sui figli? Come si può lasciare a piede libero una persona così pericolosa? Chi ha fatto queste perizie che solo tre settimane fa restituivano a questo omicida la dignità di genitore? Ecco, io non so adesso se i giudici, gli assistenti sociali e gli psicologi coinvolti avrebbero il coraggio di guardare negli occhi i due figli di Lidia, o il figlio minore di Gabriela, non so davvero se reggerebbero quello sguardo. Tragedie del genere non dovrebbero capitare, semplicemente perché c’erano tutti gli elementi per intervenire, per evitare l’orrore. Se non siamo riusciti ad evitarlo, almeno, domandiamoci il perché. E impariamo da questi orrori dal momento che la violenza di genere è anche e soprattutto un problema culturale, che si porta dietro una dote pesante di patriarcato e misoginia. Sono fermamente convinta, per tale ragione, che sia necessario un immediato cambiamento culturale a partire dai primi banchi di scuola. Ci credo talmente tanto che ho depositato una proposta di legge per introdurre l’educazione affettiva e sessuale in modo sistemico a livello scolastico: per fornire un alfabeto gentile delle emozioni, per insegnare a gestire la rabbia, un rifiuto, per educare al rispetto della persona in generale e alla parità di genere. Tutto questo aiuterà ad avere da adulti comportamenti responsabili e relazioni sane per estirpare fin dall’origine quei germi dell’intolleranza che degenerano in pregiudizi, stereotipi e discriminazioni e nel peggiore dei casi nella violenza. È fondamentale, inoltre, che tutti gli operatori che si occupano di violenza di genere, quali avvocati, magistrati, servizi sociali, forze dell’ordine siano formati, specializzati, devono essere in grado di saper leggere anche il silenzio e soprattutto devono fare rete tra loro in modo che la vittima non si senta mai sola. Bisogna lavorare anche sul maltrattante con percorsi seri di recupero, poiché spesso chi crea il problema non ha la consapevolezza di essere il problema e soprattutto perché questi individui prima o poi escono dal carcere e se non vengono riabilitati tornano a porre in essere comportamenti violenti e a fare del male ad altre vittime. Bisogna ricordare che le donne quando denunciano non chiedono vendetta ma chiedono di essere credute, di essere tutelate, chiedono una alternativa alla violenza. Non dimentichiamolo mai. *Avvocata e deputata Violazione del Codice della strada da parte del minore, la sanzione va irrogata ai genitori di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2022 Per la Corte di cassazione, con la sentenza n. 19619 depositata oggi, la contestazione deve avvenire nei confronti dei soggetti tenuti alla sorveglianza con la redazione di apposito verbale. Se la violazione del codice della strada è commessa da un minore, la contestazione deve avvenire nei confronti dei soggetti “tenuti alla sorveglianza” con la redazione di un apposito verbale nei loro confronti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 19619 depositata oggi, accogliendo, con rinvio, il ricorso di una madre contro la decisione del Tribunale di Aosta. Il giudice di secondo grado aveva invece rigettato il ricorso della donna contro la decisione di primo grado che, a sua volta, aveva respinto l’opposizione contro il verbale della polizia stradale che aveva indicato il figlio quale trasgressore e non invece, come avrebbe dovuto fare, i genitori esercenti la patria potestà. Secondo il Tribunale, l’indicazione quale trasgressore del figlio minore non aveva cagionato alcuna violazione del diritto di difesa dell’appellante, considerato che il verbale di contestazione è stato notificato alla madre in qualità di obbligata in solido in quanto esercente la potestà genitoriale sul figlio minore nonché trasgressore. La donna infatti aveva potuto “compiutamente difendersi tanto nel giudizio di primo grado, quanto in quello d’appello, per cui l’eventuale vizio del verbale risulta del tutto irrilevante”. Per la ricorrente però se è vero che il verbale di contestazione aveva correttamente indicato, quale trasgressore, il minore che aveva commesso il fatto, tuttavia, non aveva considerato che, in simili casi, il verbale dev’essere elevato nei confronti dei genitori i quali non rispondono a titolo di coobbligati in solido ma, ove non dimostrino di non aver potuto impedire il fatto, a titolo personale e diretto, in qualità di trasgressori e come tali devono essere chiaramente indicati nel verbale. Motivo accolto dalla VI Sezione civile. Per la Suprema corte, “in caso di violazione amministrativa commessa da minore degli anni diciotto, della stessa risponde, a norma dell’art. 2 della L. n. 689 del 1981, applicabile anche agli illeciti amministrativi previsti dal codice della strada ai sensi dell’art. 194, colui che era tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto”. Ne consegue che, in caso di violazione commessa da minore, “fermo l’obbligo di redazione immediata del relativo verbale di accertamento, la contestazione della violazione deve avvenire nei confronti dei soggetti tenuti alla sorveglianza del minore con la redazione di apposito verbale di contestazione nei loro confronti, nel quale deve essere enunciato il rapporto intercorrente con il minore che ne imponeva la sorveglianza al momento del fatto e la specifica attribuzione ad essi della responsabilità per l’illecito amministrativo”. In altri termini, conclude la decisione, “la sanzione va irrogata ai soggetti tenuti alla sorveglianza dell’incapace, che rispondono a titolo personale e diretto per la trasgressione della norma, avendo omesso la vigilanza alla quale erano tenuti, con la conseguenza che, in siffatta ipotesi, fermo l’obbligo della redazione immediata del relativo verbale di accertamento, la violazione dev’essere contestata enunciando il rapporto intercorrente con il minore al momento del fatto, che imponeva la specifica attribuzione ad essi della responsabilità per l’illecito amministrativo”. Napoli. Assolto l’ex direttore dell’Opg di Aversa, era accusato di maltrattamenti sugli internati di Viviana Lanza Il Riformista, 19 giugno 2022 Fu un innovatore, lo osteggiarono fino a puntargli il dito contro. Ne nacque un’accusa - maltrattamenti - che per chi dirige un istituto psichiatrico giudiziario è un’accusa pesante. Fu assolto in primo grado e ora anche in Appello. La Corte di Appello di Napoli ha infatti ribadito l’assoluzione di Adolfo Ferraro, all’epoca direttore dell’ex Opg di Aversa, e di sedici tra psichiatri e sanitari in servizio presso la struttura. La sentenza è stata pronunciata dai giudici della sesta sezione della Corte di Appello e accoglie in pieno la tesi difensiva sostenuta dall’avvocato Domenico Ciruzzi e dall’avvocato Alessandro Motta e la richiesta del sostituto procuratore generale. È un verdetto che chiude un lungo capitolo giudiziario e restituisce giustizia a Ferraro, da tutti descritto come un innovatore, che aveva introdotto in una struttura difficile come l’ex manicomio giudiziario attività proiettate verso una visione diversa della detenzione, incrociando però la resistenza di quella parte del mondo carcerario legata alla istituzione totale. Tra gli accusatori di Ferraro c’era uno degli attuali imputati per i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questo per evidenziare lo scontro tra due visioni opposte di detenzione e di gestione della popolazione detenuta. La magistratura deve averlo colto, infatti dopo l’iniziale rinvio a giudizio le accuse contro Adolfo Ferraro si sono sgonfiate in dibattimento fino a portare ad una prima assoluzione e si sono completamente volatilizzate ora, con il processo in secondo grado che ha messo un punto definitivo a questa vicenda. Adolfo Ferraro assolto; del tutto Infondata l’ipotesi secondo la quale nella struttura aversana erano stati compiuti maltrattamenti e illecite contenzioni degli internati. “Il processo - sottolinea l’avvocato Domenico Ciruzzi - ha dimostrato l’assoluta correttezza della condotta degli psichiatri che, pur chiamati ad operare in una situazione difficilissima quale era quella degli Opg, hanno sempre agito nel pieno rispetto delle norme penali e deontologiche e nell’interesse esclusivo dei pazienti internati”. “Il dottor Ferraro - prosegue l’avvocato Ciruzzi - è stato un grandissimo innovatore nella cura dei pazienti psichiatrici ristretti negli Opg. Ha eliminato gradualmente tutti i letti di contenzione, ha coinvolto i pazienti in numerose attività trattamentali quali il teatro, la gestione dell’orto e dell’area verde, la cura degli animali. Ha cercato, in parte riuscendovi, ad aprire alla società luoghi e istituzioni per loro natura chiusi quali erano gli ex manicomi giudiziari ed ha partecipato attivamente alla rivoluzionaria chiusura degli Opg e al passaggio alle Rems. Tutto ciò lo ha portato ad entrare talvolta in frizione con l’apparato penitenziario che continuavano ad avere una visione meramente carceraria dell’Opg e che hanno opposto una dura resistenza alle innovative proposte da Ferraro. L’assoluzione a ristabilisce la verità dei fatti e pone termine al tentativo di mistificare una storia, personale, umana e professionale interamente dedicata alla cura, all’ascolto ed al sostegno di quelli che il dottor Ferraro definisce - con amore e tenerezza - “i matti reclusi”. Napoli. Minori in carcere, la repressione non è la soluzione: “Così li puniamo due volte” di Francesca Sabella Il Riformista, 19 giugno 2022 Nasce a Scampia il progetto di giustizia riparativa “La Mia Banda è Pop”. Punire chi è stato già punito una volta dalla vita non può essere la soluzione. Sbattere in cella un ragazzino che ha sbagliato non lo aiuterà a capire l’errore né tantomeno gli farà avere la sensazione di poter avere una possibilità in questo mondo. Anzi, il contrario: si sentirà l’ultimo tra gli ultimi. È da questa profonda convinzione che nasce in Campania il progetto “La Mia Banda è Pop”, selezionato nell’ambito del Fondo di contrasto alla povertà minorile con i bambini per sostenere i giovani nella costruzione di percorsi partecipati di riscatto ed emancipazione. Capofila del progetto è l’associazione ‘Chi rom e… chi no’ con sede a Napoli nel quartiere di Scampia. “La Mia Banda è Pop” si propone di contrastare il fenomeno della devianza minorile con la sperimentazione di un modello fondato sul concetto di giustizia riparativa e sul concetto di reciprocità, in termini di responsabilità e cura, tra singolo adolescente, giovane e comunità. Questo modello innovativo intende coinvolgere oltre 500 ragazzi, con percorsi differenziati per chi ha già varcato la soglia del circuito penale e fare un lavoro attento sulla prevenzione e sensibilizzazione. Circa 60 tra giovani segnalati dagli Uffici di servizio sociale del Ministero di Giustizia minorile e dai servizi sociali territoriali saranno presi in carico con percorsi di prossimità in grado di sostenerli in un processo di ricostruzione personale e collettiva. Un progetto che mostra ai ragazzi realtà che finora hanno guardato solo da lontano: laboratori di teatro, scrittura creativa, radio, percorsi di formazione e tirocini di lavoro, percorsi individualizzati di sostegno personale e familiare, azioni di rigenerazione e cura dello spazio pubblico, percorsi di aggancio e sensibilizzazione. “Pensiamo che la punizione non sia una soluzione efficace - afferma Barbara Pierro, presidente di ‘Chi rom e…chi no’ - la vita è già stata oltremodo punitiva con questi ragazzi, negandogli una quotidianità diversa dalla miseria nella quale i trovano, non parlo solo di povertà materiale - aggiunge - ma povertà di stimoli, di occasioni”, Occasioni che il carcere minorile nega a priori. “L’accanimento giudiziario non farebbe altro che accrescere la rabbia di questi ragazzi - prosegue Pierro - nega la possibilità di recuperare questi giovani che hanno un valore nella nostra società e invece oggi l’unica soluzione che si immagina è ancora e solo quella repressiva”. Quando parliamo di minori in area penale, parliamo di ragazzini smarriti, soli al mondo, che vengono da famiglie che a loro volta hanno vissuto enormi disagi sociali. Parliamo di ragazzi che non credono a niente e a nessuno. “All’inizio lavoriamo molto sulla fiducia - racconta Pierro - i ragazzi devono sentire di esistere, è importante il riconoscimento del valore della loro esistenza, di solito vengono considerati gli ultimi”. Ma una società che non si occupa degli ultimi, dei più fragili, una società che non ha futuro. E rinchiuderli in quattro mura non è certo la soluzione per spiegare ai ragazzi che un’altra vita c’è, che un’altra vita è possibile. Santa Maria Capua Vetere. È morto Enzo, ex detenuto in carrozzina che denunciò i pestaggi di Rossella Grasso Il Riformista, 19 giugno 2022 “Lo hanno ammazzato fisicamente e psicologicamente. Dopo 30 anni di carcere era uscito da 2 anni e da allora non era più lo stesso”. Gino Cacace, figlio di Enzo, è disperato per la morte del papà. Napoletano, originario del Rione Traiano, aveva 60 anni. È stato tra i primi a denunciare quella che il Gip ha definito “orribile mattanza”, le violenze che il 6 aprile 2020 si sono consumate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Enzo era in sedia a rotelle. Nelle immagini restituite dalle telecamere di videosorveglianza del carcere c’era anche la brutale aggressione che subì Vincenzo e che lui stesso raccontò a volto scoperto davanti alle telecamere di tutta la stampa nazionale. Appena uscito dal carcere, un anno dopo quel drammatico aprile, denunciò tutto quello che gli era successo: “Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella insieme con il mio piantone perché sono sulla sedia a rotelle - raccontò - Ci hanno massacrato, hanno ammazzato un ragazzo. Hanno abusato di un detenuto con un manganello. Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso. Volevano farci perdere la dignità ma l’abbiamo mantenuta. Sono loro i malavitosi perché vogliono comandare in carcere. Noi dobbiamo pagare, è giusto ma non dobbiamo pagare con la nostra vita. Voglio denunciarli perché voglio i danni morali”. Dal carcere di Santa Maria Capua Vetere era uscito cambiato, profondamente prostrato nel fisico e nella mente. Lui che tutti chiamavano “il gigante buono”, già con qualche acciacco, era rimasto profondamente turbato da quanto gli accadde in carcere. “Era in stato confusionale, non era più il mio papà - racconta Gino - Voglio giustizia per come lo hanno ridotto loro, lo hanno rovinato, non era più lui. Non riusciva più a dormire la notte. Se riusciva un pochino a prendere sonno diceva ‘amputato spegnete la luce’, poi urlava e piangeva. Mi chiamava nel cuore della notte, era inquieto”. La nuora racconta che Enzo già da qualche tempo non stava bene ed entrava e usciva dagli ospedali. “All’inizio ci dissero che i suoi reni non funzionavano più bene e aveva bisogno di dialisi - racconta - gli misero una cannetta alla gola per la dialisi. Lui con la testa già non ci stava più. Usciva dall’ospedale e ce lo ritrovavamo qui da noi che voleva mangiare e non voleva stare in ospedale. Il figlio doveva riportarlo in ospedale perché non stava bene. Se si staccava la cannoletta alla gola poteva morire dissanguato. Poi qualche giorno fa dall’ospedale ci hanno detto che aveva avuto un blocco respiratorio e da quel momento si è aggravato. Negli ultimi giorni è stato in coma farmacologico. Ci hanno detto che i reni non funzionavano. Poi hanno iniziato a dirci a giorni alterni che stava meglio o peggio. Ieri mio marito è andato a trovarlo e aveva gli occhi aperti ma aveva ancora la ventola. Poi mi hanno chiamato e mi hanno detto che aveva avuto un arresto cardiaco. Ho sperato fino all’ultimo che riuscissero a salvarlo, perché aveva già sofferto di cuore, ma non ce l’ha fatta”. Gino è stato l’ultimo a vederlo prima che spirasse. “Diceva il nome di mio figlio e di mia madre - racconta senza riuscire a trattenere le lacrime - Mi ha detto che non ce la faceva più eppure aveva una forza da leoni mio padre”. “Ha lottato troppo a lungo, l’ultima carcerazione per lui è stata fatale - racconta una delle sorelle di Enzo - Non si sentiva più una persona dignitosa e rispettata dopo essere stato picchiato da chi doveva badare a lui. Mi diceva che non ce la faceva più a vivere perché aveva perso tutta la sua dignità. Ha cercato lui la morte negli ultimi momenti. Pregava di morire perché era stanco. Era in sedia a rotelle quando lo hanno pestato. Quando in televisione ho visto le immagini di quello che era successo nel carcere non potevo credere ai miei occhi: non potevo credere che quello fosse mio fratello. Al telefono ce lo diceva che lo stavano malmenando e minacciando. Io non è che non ci credevo ma ho vissuto anche io il carcere e queste cose non succedevano. Al femminile c’era una sorta di fratellanza ed eravamo seguite”. Quasi tutti i 107 imputati della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) affronteranno la fase finale dell’udienza preliminare, attesa per il 28 giugno, e l’eventuale dibattimento. La decisione sul rinvio a giudizio è attesa per l’udienza in programma il 28 giugno (potrebbe saltare per l’astensione nazionale degli avvocati), quando sarà passato un anno esatto dal blitz che portò i carabinieri a notificare ad agenti e funzionari del Dap 52 misure cautelari emesse dal giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere per reati gravi, tra cui la tortura. Enzo ha continuato fino all’ultimo a seguire gli aggiornamenti di quel processo. Si è spento senza conoscerne gli esiti. Ma tra le sue ultime volontà riportate a Gino c’è quella di continuare a combattere per lui. “Mi disse: ‘Se mi succede qualcosa voglio che stai tu dietro al processo e devi combattere’ - ha detto Gino - E io per lui combatto fino infondo. Non mollerò mai, voglio solo giustizia per mio padre, per quello che gli hanno fatto. Mio padre si è vero che ha sbagliato, però aveva il diritto di scontare la sua pena normalmente non con i poliziotti che picchiavano i detenuti. Doveva pagare ma non con la vita”. “Spero che paghino per quello che gli hanno fatto come facciamo noi quando commettiamo qualche errore - continua la sorella di Enzo - Deve pagare chi gli ha distrutto la vita e gli ha fatto perdere denti, dignità e personalità”. Nel procedimento in corso il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, quello del comune di Napoli, Pietro Ioia, e la casertana Emanuela Belcuore sono parte civile insieme al garante nazionale Mauro Palma, all’associazione Antigone, ad altre associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e molti dei reclusi che subirono le violenze messe in atto dagli uomini della penitenziaria il 6 aprile 2020. “Lotteremo per far avere giustizia a Enzo - ha detto Ioia - Quello che ha subito sicuramente lo avrà segnato. Siamo accanto alla famiglia di Enzo, saremo solidali anche dopo la sua morte. Non ci fermiamo e chiederemo giustizia. Quello che Enzo ha subito non è una cosa da paese democratico. Il carcere deve essere un luogo rieducativo e non deve ridurre così le persone. Il carcere continua a uccidere e la politica fa orecchie da mercante e si dovrebbe svegliare. Quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato, ne stanno uscendo altri fuori. Speriamo di ottenere giustizia”. Parma. “In Con-tatto”: dove si ascolta il pianeta carcere di Mariacristina Maggi Gazzetta di Parma, 19 giugno 2022 Presentato lo sportello dedicato ai detenuti, agli ex e ai loro familiari. Namasté dice il saluto indiano: mi inchino di fronte alla bellezza che c’è in te. “La fiducia è la chiave per realizzare il cambiamento delle persone: dobbiamo essere anche audaci e credere che insieme possiamo davvero cambiare tante cose”, ha detto ieri con uno sguardo pieno di gioia e gratitudine il presidente dell’associazione San Cristoforo don Umberto Cocconi nel presentare il nuovo punto di ascolto, informazione e orientamento per le persone detenute, ex detenute e i loro familiari ospitati dalla onlus in strada Quarta 37. Lo sportello “In Con-tatto” è un servizio gratuito nato da un’affiatata rete di nove associazioni (San Cristoforo, Rete Carcere ODV, Per ricominciare, Acat Parma “il volo”, Comunità di Sant’Egidio, Snupi, Centoperuno, W4W-Women for Women, Il mondo di Oz) nell’ambito del progetto “E nessuno si salva da solo”, realizzato in collaborazione con CVS Emilia e finanziato dalla Regione. “Una contaminazione capace di fare cose grandi: una rete in cui vogliamo mettere tutta la città di Parma”, ha poi concluso lo stesso don Cocconi, ringraziando la generosità dei volontari che attraverso un sorriso, uno sguardo positivo e non giudicante, sono capaci di ridare speranza a chi è in difficoltà. Volontari motivati e sensibili come Barbara Cusi che giorno dopo giorno cercano di aiutare il prossimo con piccoli-grandi gesti che spesso fanno la differenza, facendo da “ponte” fra il “dentro” e il “fuori” per cercar di ricucire lo strappo avvenuto con la società. Christian, uno dei ventiquattro ospiti dell’associazione, ha voluto lasciare una testimonianza confidando di essersi sentito accolto per la prima volta. Dopo l’introduzione del progetto del coordinatore del bando Andrea Galletti, il presidente di Rete Carcere Gildo Nardon si è soffermato sulla difficile genesi di un progetto che ha finalmente visto la luce “grazie ad un gruppo di lavoro molto motivato ed efficiente”. “Il fine della rete - ha sottolineato - è quello di stimolare, lavorare insieme e unire le associazioni e le tante realtà impegnate nel carcere e fuori dal carcere, cercando di favorire un percorso di consapevolezza allo scopo di facilitare il reinserimento post-scarcerazione”. Sul valore di uno spazio protetto e un luogo di riferimento si è poi espresso il garante della Regione per le persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Roberto Cavalieri. “Spero che nel tempo la collaborazione possa essere sempre più proficua poiché da solo il carcere non può salvare nessuno: ricordiamoci sempre che la pena deve avere un valore rieducativo e non punitivo”, ha poi dichiarato la responsabile area pedagogica del nostro carcere Maria Clotilde Faro. Infine, Poesie dal Carcere interpretate da Franca Tragni (da sempre impegnata in laboratori tra le mura di via Burla) e Carmine Barbato, tratte dalle testimonianze di Domenico Morelli, Paolo Ruffilli e Bruno Veneri. Una giornata importante nel bel polmone verde della residenza della Onlus: una casa piena di speranza e futuro. Lo sportello è aperto tutti i giovedì dalle 15 alle 17; mail sportelloretecarcere@gmail.com o chiamare il 3757416675. Melfi (Pz). Criticità nel presidio sanitario del carcere, la denuncia della Uilpa basilicata24.it, 19 giugno 2022 All’interno dell’infermeria centrale del carcere di Melfi mancano i medici, su 6 previsti risultano solamente 4 (di cui due a part-time), pertanto non viene più garantito il presidio medico - sanitario h24 previsto da protocollo d’intesa tra le parti, costretti oggi in caso di necessità e nelle fasce orarie in cui non vi è la presenza di un medico, a portare i detenuti di un “certo spessore criminale” al PS del locale nosocomio, mettendo a rischio l’incolumità di tutti e minando la sicurezza anche sociale. Inoltre, il personale infermieristico su 8 previsti risultano solo 6, non sufficiente ad assicurare la copertura dei turni; tale situazione è destinata ad aggravarsi con la fruizione delle ferie estive. A segnalarlo è Donato Sabia, segretario regionale della Uilpa Polizia Penitenziaria in una lettera inviata all’Assessore regionale alla Salute Francesco Fanelli, al dg del Dipartimento Sanità, Tripaldi, al direttore generale dell’Asp, Stopazzolo, e a Maria Rosaria Petraccone, Direttore della Casa Circondariale. “È da tempo che la Sanità all’interno del penitenziario di Melfi - scrive Sabia - presenta grosse problematiche, con una disorganizzazione generata dalla mancanza di personale sanitario e dall’assenza dei vertici dell’Azienda Sanitaria Locale (ASP) di Potenza. Non sono bastate le numerose segnalazioni da parte dell’Autorità Dirigente della struttura Carceraria e della segnalazione anche alla competente Procura della Repubblica per dare un impulso all’Azienda Sanitaria affinché prendesse cognizione della realtà e delle difficoltà gestionali della medicina penitenziaria, transitata con dpcm del 01.04.2008 dalla sanità carceraria al SSN. I vertici della struttura di Melfi - ricorda il segretario Uilpa Polizia Penitenziaria - hanno avuto un incontro con il direttore sanitario dell’ASP il giorno 01 marzo scorso su sollecitazione dell’Osservatorio carceri della Camera Penale Distrettuale di Basilicata, sulle annose criticità che stanno mandando in tilt il servizio di continuità medico-assistenziale all’interno del penitenziario, che ad oggi non sono state ancora risolte poiché non si risultano interventi in tal senso, manifestando la totale assenza dell’ASP nei confronti della comunità carceraria melfese; un Istituto che dovrebbe avere una maggiore considerazione visto che ospita detenuti di Alta Sicurezza, imputati e/o condannati per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Dal 2008 ad oggi, l’azienda sanitaria non ha investito nulla per migliorare la funzionalità del servizio, neanche nell’adeguamento degli uffici alla normativa vigente e sicurezza sui luoghi di lavoro di cui al D. Lgs 81/08 e ss.mm. (mancanza di uffici adeguati, spogliatoi, carrelli idonei per la terapia, classificatori e arredi vari); le scrivanie risultano quelle degli anni ‘80 in alluminio e scrostate con presenza di ruggine, che non hanno nulla a che vedere in un contesto sanitario, che dovrebbe presentarsi con la massima igiene degli ambienti. Manca “l’abc”, come una borsa di pronto soccorso e un defibrillatore (quest’ultimo è presente ma non funzionante), medici appartenenti alla branca specialistica essenziali per i servizi ambulatoriali e dal mese di marzo scorso, non si riescono più a prenotare neanche le visite presso l’Azienda Ospedaliera Regionale San Carlo di Potenza, poiché a seguito del cambiamento dei sistemi informatici non è stato previsto l’inserimento nel software la popolazione detenuta, bloccando la funzionalità di un sistema gestionale che sta alimentando rabbia e frustrazione tra la popolazione detenuta, pregiudizievole per l’ordine e la sicurezza dell’Istituto in quanto non mancano azioni di proteste da parte dei ristretti. È doveroso sottolineare che a fine febbraio 2022, l’Amministrazione penitenziaria ha aperto all’interno del penitenziario un nuovo padiglione che ospita detenuti “AS2” di elevata pericolosità sociale, soggetti appartenenti al terrorismo nazionale e internazionale, gruppi eversivi di estrema destra, reati di strage, associazione sovversiva, banda armata ed altro, sul quale è necessario una nuova riorganizzazione dei servizi sanitari, rappresentati anche nell’incontro tenutosi con l’ASP nei mesi scorsi, come istituire una linea informatizzata tra la struttura carceraria e l’ASP per favorire le prenotazioni non urgenti e per calendarizzare gli interventi sanitari a tutela della salute dei detenuti. A distanza di tre mesi - evidenzia Sabia - non registriamo nessun intervento neanche per tale contesto delicato e complesso, nonostante per tali soggetti risultano accesi i riflettori delle massime strutture investigative, pertanto nel caso in cui dovesse accadere il peggio, nessuno potrà sottrarsi da responsabilità amministrative e penali. Di qui la sollecitazione di un intervento dell’Assessore Fanelli verso la comunità carceraria e nei confronti del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria Merate (Lc). “La Giustizia riparativa funziona”, pienone per la ministra Cartabia di Alessia Galbusera ilcittadinomb.it, 19 giugno 2022 “Partito tutto da un gol sbagliato. Un quartiere con degli esempi nocivi. Troppe pressioni che ti fanno sentire vuoto: quando sei adolescente e hai queste sensazioni fai di tutto per farti vedere, per farti sentire apprezzato” ha raccontato Daniel Zaccaro oggi edicatore ma con un passato da detenuto. Una chiacchierata molto riflessiva e stimolante quella di ieri sera, venerdì 17 giugno, all’auditorium Mary Ward di Merate. Ospiti della serata la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione Rino Fisichella e l’educatore Daniel Zaccaro, il tutto mediato dal Presidente della Fondazione Costruiamo il Futuro, Maurizio Lupi. Dalla sensazione di fallimento ai libri - Nato in un quartiere violento, Quarto Oggiaro, dove gli esempi non erano sicuramente gli insegnanti stanchi del loro lavoro, ma i criminali che giravano con i macchinoni, Zaccaro ha raccontato il suo percorso di redenzione: “Quando non hai nulla da perdere, i tuoi genitori ti fanno sentire fallito per non essere riuscito a diventare calciatore, e tutto ciò che ti circonda ti porta su una strada sbagliata pensi solo al fare la cosa grossa per sentirti uno di loro, stimato e apprezzato”. “Poi l’arresto, gli anni che passano, il mondo che va avanti dimenticandosi di te. Hanno provato l’inserimento in comunità ma se non sei pronto è tutto inutile- ha proseguito- Sono uscito dalla prigione minorile dopo tre anni e dopo 1 anno e mezzo sono stato arrestato di nuovo, quasi innocente, ma questa volta al carcere di San Vittore”. La vita di Daniel è sempre stata caratterizzata da una serie di incontri, prima quelli sbagliati e poi un brigadiere che si è fidato di lui, Don Claudio che gli ha insegnato il piacere di essere ascoltati e Fiorella, l’insegnate del carcere che lo ha rimesso sulla giusta via e lo ha convinto a iniziare a leggere e a iscriversi all’Università Cattolica di Milano. “Ora sono qui, i libri mi hanno salvato. Io dovevo qualcosa a quelle pagine. Ho scritto allora io il mio libro perché spero che la mia storia possa far riflettere”. “Queste parole sono balsamo - ha detto la ministra Marta Cartabia - la giustizia per Daniel e molti come lui ha funzionato. Serviva la legge a dare lo stop a Daniel, sennò nulla lo avrebbe più fermato. Quando sento queste storie, mi rendo conto che per i detenuti inizia una seconda vita, si comincia da capo e si deve tornare a vivere”. Il percorso di vittime e carnefici - Ha poi proseguito: “Sogno che vittime e carnefici facciano un percorso insieme. Ogni volta che noi pensiamo al criminale o che si apre un processo, si guarda solo al lato della punizione, ma manca qualcosa. Difficilmente si pensa alla vittima, alla sua storia e a come si senta effettivamente. La pena si ha nel momento in cui si ferisce una persona, ma quella persona poi resta sempre addolorata”. Il dibattito di ieri sera ha aperto un punto importante: cercare l’incontro tra il ferito e colui che le ha inflitto il dolore, per cercare il perdono. “Non c’è giustizia senza perdono - ha detto Rino Fisichella - la giustizia non è solo quella con la legge, prima di una giustizia giuridica è necessario che ci sia una giustizia etica. È importante lavorare sulla misericordia e sul perdono. Un processo lungo, lento e graduale ma che con tutti gli aiuti disponibili può portare al perdono e alla vera giustizia”. Ferrara. Legalità e vita all’interno delle carceri, lo studio degli Scout di Francesco Franchella Il Resto del Carlino, 19 giugno 2022 “Abbiamo sfatato tanti falsi miti che arrivano dalla cinematografia e ci hanno colpito tante storie di vita all’interno dei penitenziari”. Il clan “La Rocca” del Gruppo Scout Cento 1, nel corso dell’ultimo anno ha portato avanti un progetto incentrato sulle carceri italiane, che ha visto i ragazzi e le ragazze incontrare ex detenuti, volontari ed esperti in materia, per poi proseguire con l’ideazione di un questionario per comprendere la conoscenza e la percezione del tema da parte dei centesi. “Il nostro gruppo è formato da ragazzi di età compresa tra i 17 e i 21 anni - spiega Federica Grazi - Ogni anno ci si interroga su un argomento ed è emerso l’interesse dei ragazzi sulle carceri, argomento di cui si parla poco. Ci si è interrogati, ad esempio, se esista il reinserimento lavorativo all’interno del carcere per i detenuti. Abbiamo dunque parlato con ex carcerati, con alcuni lavoratori all’interno di queste strutture e con associazioni come “Piccola carovana”. Un progetto iniziato a gennaio che ha visto coinvolti 18 ragazzi, che hanno poi realizzato un questionario distribuito a un centinaio di centesi”. A raccontarci questa seconda fase è Filippo Bucciarelli, che ha spiegato come sia stata un’esperienza importante che ha portato alla luce quanto le persone che hanno aderito al questionario sappiano realmente poco. “Abbiamo formulato il questionario sulle esperienze raccolte e le testimonianze, che ci hanno dato risposte inaspettate - dicono i ragazzi -. Ci ha colpito che il 42.9% dei centesi intervistati avesse un conoscente che era finito in carcere e non ci aspettavamo una percentuale così alta”. Esperienza che però è stata utile anche ai ragazzi. “Noi abbiamo imparato tante cose ma soprattutto abbiamo sfatato dei falsi miti accorgendoci che le nostre informazioni si basavano soltanto sulle conoscenze nei film - spiegano -: ci hanno colpito i racconti di vita all’interno del carcere dove la differenza di ceto si riflette anche sulle gerarchie che si creano, e ne siamo usciti un po’ scossi soprattutto perché pensavamo che la vita all’interno fosse un po’ meglio di quella che abbiamo scoperto”. Progetto che abbraccia anche la legalità e la prevenzione. “Indirettamente per noi è stato anche un percorso verso la legalità - aggiungono -. Ci ha fatto ricredere sulla reintroduzione dei carcerati nel mondo del lavoro trovando tante porte chiuse, e questo per la maggior parte significa reiterare il reato e tornare quindi dietro le sbarre”. Venezia. A scuola di diritti umani di Cristina Barbetta vita.it, 19 giugno 2022 Al Monastero di San Nicolò del Lido, dal 18 al 25 giugno, si tiene la 13esima edizione della Venice School for Human Rights Defenders (Scuola di Venezia per i difensori dei diritti umani). È organizzata da Global Campus of Human Rights, rete di più di 100 università in tutto il mondo per l’insegnamento dei diritti umani, in collaborazione con il Parlamento europeo. “Il rispetto dei diritti umani è responsabilità di tutti”. Lo evidenzia la Venice School for Human Rights Defenders (Scuola di Venezia per i difensori dei diritti umani) , organizzata da Global Campus of Human Rights in collaborazione con il Parlamento europeo. Professionisti dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, studenti universitari di tutti i background accademici che desiderino approfondire la conoscenza sui diritti umani parteciperanno a questa edizione della scuola, la tredicesima, che si tiene dal 18 al 25 giugno al Monastero di San Nicolò del Lido di Venezia, sede di Global Campus of Human Rights. Fondata nel 2010, la Venice School studia le sfide odierne nel campo dei diritti umani, e consente a partecipanti provenienti da tutto il mondo di esaminarne cause e possibili soluzioni. Dal 2016 il programma di borse di studio Sakharov del Parlamento europeo offre a un massimo di 14 difensori dei diritti umani selezionati da Paesi non appartenenti all’Unione europea l’opportunità di seguire una formazione intensiva di due settimane a Bruxelles e presso il Global Campus of Human Rights a Venezia. Nell’ambito del programma di formazione della borsa di studio Sakharov, i difensori dei diritti umani miglioreranno la loro conoscenza delle politiche e dei meccanismi internazionali e dell’Ue in materia di diritti umani, e svilupperanno le capacità di realizzare cambiamenti positivi per la tutela dei diritti umani, come spiega Global Campus of Human Rights. Nel corso degli anni la Venice School ha visto la partecipazione di importanti premi Sakharov, tra i quali Lamiya Haji Bashar, Lorent Saleh e Hauwa Ibrahim. Quest’anno l’opening lecture sarà di Zarifa Ghafari (Sakharov Prize Finalist). Zarifa Ghafari è un’attivista, una politica e imprenditrice afghana. A novembre 2019 è diventata sindaca di Maidan Shahr, la capitale della provincia di Wardak, in Afghanistan. È ?una delle poche sindache della storia dell’Afghanistan e la più giovane- è stata eletta all’età di 26 anni. La sessione di chiusura della Venice School for Human Rights Defenders sarà tenuta da Sahraa Karimi. Regista, sceneggiatrice e docente universitaria, Sahraa Karimi (nata nel 1985) appartiene alla seconda generazione di rifugiati afghani in Iran. Manfred Nowak, segretario generale di Global Campus of Human Right, terrà una lecture alla Venice School. Nowak è professore di diritti umani internazionali all’università di Vienna, dove dirige il Master di Vienna di Arte nei Diritti Umani (Vienna Master of Arts in Human Rights) e due centri di ricerca sui diritti umani, tra cui il Ludwig Boltzmann Institute of Human Rights, che ha fondato nel 1992. A ottobre 2016 è stato nominato esperto Onu a capo dello Studio Globale sui bambini privati della libertà. Programma - Global Campus of Human Rights incoraggia una formula mista di insegnamento in presenza e da remoto, assicurando un approccio “environmentally friendly” ai viaggi internazionali. Il programma include lecture da parte di vincitori del Premio Sakharov e del Premio Right Livelihood Award conferito dall’omonima Fondazione, importanti protagonisti nel campo dei diritti umani provenienti da organizzazioni internazionali, accademici conosciuti a livello internazionale, esperti e attivisti provenienti dal mondo della società civile e delle Ong. Le lezioni si terranno o in presenza nella sede di Global Campus of Human Rights al Lido di Venezia, o da remoto attraverso connessioni Zoom in base alla disponibilità degli speaker Metodologia - Il mattino i partecipanti alla Venice School parteciperanno a sessioni plenarie tematiche, mentre nel pomeriggio esperti e rappresentanti di Ong insegneranno in seminari di skill building che affrontano questioni trasversali. La metodologia include informazioni pratiche sia su tecniche per svolgere mansioni professionali, sia su tecniche di formazione partecipativa, come giochi di ruolo, lavori di gruppo, case studies e brainstorming, incoraggiando allo stesso tempo il peer learning. Bergamo. “La partita con papà” in carcere: quindici detenuti giocano a calcio con i figli di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 19 giugno 2022 Momento di genitorialità organizzato dall’associazione Bambinisenzasbarre. La direttrice di via Gleno: momento molto positivo. “Questa è aria”. Un detenuto lo racconta con gli occhi che sorridono, la gioia che solca il viso. L’aria è quella che scorre in un abbraccio, in un semplice passaggio di pallone. Nella normalità ritrovata del legame tra padre e figlio. “È difficilissimo veder crescere i propri figli da dietro le sbarre, in cella ci si sente sempre soli. In giornate come queste, respiriamo un’aria nuova”, sospira il detenuto. Carcere di via Gleno. Il sole rovente illumina una giornata diversa. Anche la casa circondariale di Bergamo è tornata ad aprirsi, sabato 18 giugno, per “La partita con papà”, il momento di genitorialità promosso dall’associazione Bambinisenzasbarre in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria: 15 detenuti hanno potuto trascorrere un pomeriggio spensierato con i propri figli, giocando a calcio o mangiando un dolce, scherzando e ridendo, semplicemente vivendo quel legame che la condanna trasforma in distanza. “È un momento molto positivo - sottolinea Teresa Mazzotta, direttrice del carcere di Bergamo - perché consente un incontro importante tra i detenuti e i propri figli. Dopo il Covid, le attività di socialità stanno tornando progressivamente alla normalità”. Giuliano Amato e la sinfonia della ragione di Simonetta Fiori La Repubblica, 19 giugno 2022 Il presidente della Corte Costituzionale spiega perché la Consulta ha deciso di organizzare un concerto che celebra i principi del diritto contro quelli della violenza: “La prevaricazione non esiste solo in Ucraina”. Il concerto si intitola “Il sangue e la parola”. E a promuoverlo, nella piazza del Quirinale e alla presenza del presidente Mattarella, è la Corte Costituzionale. Una cerimonia densa di significati civili, resi ancora più espliciti dalla cantata scritta da Nicola Piovani che fonde in un’unica architettura musicale le Eumenidi e la carta costituzionale, la tragedia che celebra l’avvento della civiltà del diritto e l’opera di pace dei nostri costituenti. In piazza risuonerà reiterato l’articolo 11 della Costituzione, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie”, ed è inevitabile che il pensiero oggi corra al cuore insanguinato dell’Europa. “Il concerto è stato pensato prima dell’aggressione ucraina”, racconta il presidente Giuliano Amato nel suo studio della Consulta. “E certo quel passaggio della Costituzione oggi provoca una profonda emozione. Ma è solo un aspetto del messaggio che vorremmo trasmettere con la potenza della musica: la guerra è la forma estrema della prevaricazione. Ma la prevaricazione esiste anche in tempo di pace: essa nasce dall’imposizione sulle ragioni degli altri di verità assolute e unilaterali”. Presidente Amato, partiamo dalla singolarità dell’iniziativa. Da quale urgenza civile nasce il concerto? “È un progetto coltivato da tempo, con l’intento di dare un’ulteriore evidenza alla missione che la Carta Costituzionale ci ha affidato: garantirne i principi fondamentali. Ma il principio dei principi è la difesa della democrazia fondata sull’equilibrio delle diverse esigenze in gioco. Nulla è assoluto nella Costituzione, ma ci sono valori e principi spesso confliggenti tra loro che vengono tenuti insieme in un giusto equilibrio”. Lei vede venire meno questo equilibrio tra visioni divergenti? “In questi anni nelle nostre democrazie abbiamo assistito all’emergere di movimenti che facendo leva sui malumori crescenti, sui risentimenti e sulle diseguaglianze accresciute hanno imboccato la strada indicata da Carl Schmidt: il mio avversario è un nemico e le mie sono le uniche ragioni possibili. Sono gli stessi che magari celebrano i costituenti, ma senza comprenderne il lavoro straordinario: se c’erano persone portatrici di verità opposte erano proprio loro! Eppure riuscirono a trovare un accordo”. La cantata trae ispirazione dalle “Eumenidi”, la tragedia che celebra la nascita della civiltà del diritto contro la legge della vendetta... “Il dilemma che attraversa l’opera di Eschilo è se sangue debba chiamare altro sangue, se sia giusto uccidere Oreste che aveva ucciso sua madre Clitennestra, colpevole a sua volta dell’assassinio del marito Agamennone. Alla fine Atena spezza la catena della vendetta per imporre il giudizio di un tribunale: così la parola trionfa sulla furia cieca della violenza. E Piovani mette in relazione questa tematica con l’articolo 11 della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra. A cento giorni dall’invasione dell’Ucraina, l’evocazione di quel passaggio colpirà il sentimento di chi ascolta”. Il concerto si può leggere anche come un invito alla pace? “Io direi meglio: un invito alla ragione. Volere la pace durante un’aggressione in corso non può significare che, purché finisca la guerra, l’aggressore è libero di fare ciò che vuole: questo rappresenterebbe il trionfo della prevaricazione. La guerra non deve durare un tempo infinito e chi ha compiti di responsabilità deve trovare il modo e i tempi della sua conclusione. Ma gli amanti della pace non possono trasformarsi in fautori della prevaricazione”. Non passerà inosservata la reiterazione dell’articolo 11 - l’Italia ripudia la guerra - cantata nella piazza del Quirinale. Lei ha difeso sul piano costituzionale l’invio delle armi all’Ucraina in nome della solidarietà... “C’è chi sostiene che la Costituzione autorizzi a difendere soltanto noi stessi, ma allora i fautori di questa posizione dovrebbero ritenere incostituzionali l’articolo 5 del trattato della Nato e l’articolo 42 del trattato dell’Unione europea che prevedono l’obbligo di solidarietà verso paesi aggrediti: nessuno però s’è spinto ad affermare una cosa del genere. L’obiezione potrebbe essere che l’Ucraina non è tutelata da questo nostro obbligo in quanto non fa parte né della Nato né finora dell’Unione Europea. E allora io pongo una questione di coscienza: se è calpestata la dignità di qualcuno che è fuori dai miei confini e fuori dai trattati, la mia solidarietà non arriva a farsi carico della sua dignità? E della sua sopravvivenza?”. Da Eschilo ai Costituenti, la cantata sembra tessere il filo che unisce due rivoluzioni: quella ateniese e la rivoluzione sancita dalla Carta... “Non v’è dubbio che si trattò di due rivoluzioni. Eva Cantarella colloca nel 621 a.C, con l’istituzione del primo Tribunale di Atene, la nascita della civiltà del diritto che è alla base della democrazia: il passaggio celebrato appunto dalle Eumenidi. E fu una rivoluzione anche quella realizzata dai costituenti, con il ripudio della guerra da parte nostra e dei paesi che avevano insanguinato l’Europa. Nella cantata di Piovani si fa riferimento ai lavori preparatori della Carta, in particolare alle riflessioni di Ugo Damiani e di Leo Valiani che arricchiscono il significato dell’articolo 11, andando oltre il semplice ripudio: entrambi sostengono infatti la necessità che la risoluzione dei conflitti possa essere affidata ad armi diverse da quelle belliche. A differenza della costituzione tedesca, noi teniamo all’interno dello stesso articolo, l’11, il nesso storico ed emotivo tra la fine della guerra e la costruzione di un’Europa unita finalizzata alla pace”. Lei prima diceva che la sopraffazione esiste anche al di fuori delle guerre... “La guerra è una sua estremizzazione, ma anche in tempo di pace assistiamo al trionfo di politiche unilaterali che in nome di una verità assoluta possono uccidere. Prendiamo il tema dell’interruzione di gravidanza. Ho letto sul New York Times la sconvolgente testimonianza di una donna polacca che poche ore dopo sarebbe morta uccisa da un’infezione procurata dal feto: nel suo paese l’aborto è vietato in ogni caso. Quel che ci deve preoccupare è il diffondersi di ferree leggi antiabortiste che, in nome dei diritti del nascituro, calpestano quelli della madre. In America, un’attesa sentenza della Corte suprema potrebbe rendere questo rischio molto concreto”. Eschilo e i Costituenti ci mettono in guardia dalle verità assolute e anche dalla furia della vendetta. Circola ancora nella società italiana un’idea della giustizia come vendetta? “Sì. Quante volte osserviamo con dolore le vittime di un reato che se la pena inflitta al colpevole non è altissima pensano di non aver avuto giustizia? E poi si costituiscono parte civile per avere dei soldi. Ho sempre pensato, soprattutto quando i miei figli erano piccoli, che non mi sarei mai avvalso di questa possibilità: se qualcuno mi uccide il figlio, quale cifra potrà mai risarcirmi? È evidente che non può esserci giustizia se il delitto non viene punito. Ma chi l’ha commesso non può diventare un mostro da chiudere in gabbia per sempre”. Alla fine della tragedia di Eschilo, Oreste non viene giustiziato. E da cagne rabbiose le Erinni si trasformano in Eumenidi, forze benefiche... “Così finisce anche la cantata di Piovani che è un invito a respirare, con un sentimento di ritrovata serenità nel riconoscimento da parte degli uni delle ragioni degli altri. Questo invito è rivolto a tutti gli italiani: dobbiamo superare le divisioni per ritrovare l’unità non nella prevaricazione ma nell’ascolto reciproco. Su questo equilibrio - è bene ricordarselo - si regge la democrazia”. I media e la sintonia con la società civile di Alessandro Zan La Stampa, 19 giugno 2022 La Stampa e la Repubblica sono i primi due quotidiani italiani ad aderire in forma ufficiale ai Pride delle proprie città, Roma e Torino. Nell’editoriale in cui annunciava l’adesione, ha descritto come scontata la decisione di partecipare a questa manifestazione. Non lo è affatto: sono decisioni che registrano un cambio di passo profondo nell’approccio della stampa italiana alle battaglie di civiltà, affrontate in ritardo imbarazzante rispetto agli altri grandi paesi occidentali. Troppo spesso i media, come del resto la politica, hanno approcciato il tema dei diritti civili come un corollario, una questione successiva e subordinata alla discussione di qualsiasi altro tema. La vostra presenza come redazione al Torino Pride dimostra sintonia con la società civile, che ha già compiuto questo passo e considera i diritti un patrimonio comune, né di destra, né di sinistra, né laici, né cattolici, per usare le sue parole. In sintonia con quella società civile che chiede e pretende che vengano applicati i principi sanciti dall’art. 3 della nostra Costituzione, concepita dalle madri e dai padri costituenti come manifesto programmatico, non statico, in continuo divenire con il divenire della società stessa. Questa è la legge contro i crimini d’odio, è la Repubblica che rimuove gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona e della dignità umana. Ed è allarmante per la nostra democrazia che le forze di destra presenti in Parlamento si siano scagliate con così tanta forza e violenza contro il ddl Zan, perché vuol dire scagliarsi contro quel perimetro fissato dalla Costituzione che è il rispetto dei diritti umani. Guardiamo fuori dai nostri confini, nell’Occidente avanzato: l’affermazione dei diritti - di tutti i diritti, superando l’odiosa e arcaica dicotomia tra diritti sociali e diritti civili - è sinonimo di sviluppo comune, non di prevalenza di una parte politica rispetto a un’altra. Non è un caso, infatti, che il patriarca di Mosca Kyrill abbia attaccato i Pride per attaccare l’Occidente nel suo insieme e giustificare l’invasione dell’Ucraina. Da 53 anni, dal quel giugno del 1969, i pride sono manifestazioni di democrazia e visibilità, che è anche lotta all’emarginazione: se si impone a un essere umano un percorso contrario alla sua identità, questo impiegherà tutte le sue energie per sopravvivere, e non avrà forze e risorse per la comunità. Ecco il dramma dell’esclusione sociale: perdere lungo la strada persone, anime, talenti. Solo una società davvero inclusiva può essere pronta a gestire un futuro che appare complicato: instabilità geopolitica, pandemie, crisi climatica. Sopravvivremo insieme o moriremo soli. Qual è il senso di combattere la natura delle persone mentre il pianeta va in fiamme? Riconoscere i diritti di ciascuno per affrontare tutti insieme le sfide del futuro: è questo l’unico orizzonte possibile che abbiamo davanti. È questo il segnale che i Pride lanciano. Migranti. “Dentro i Cpr condizioni inumane, chi entra non può uscirne sano. Vanno chiusi” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2022 La denuncia del senatore De Falco: “Chi entra in posti come questo non può uscirne sano. Un abominio, le condizioni sono inumane. Non può esserci alternativa alla loro chiusura”. Ponte Galeria, periferia di Roma, nella Capitale il clima è torrido. Fuori dal cancello, in gran parte arrugginito, del Centro di permanenza per i rimpatri, a pochi chilometri di distanza dallo scalo internazionale di Fiumicino, c’è, insieme ai suoi accompagnatori, Gregorio De Falco, senatore del gruppo Misto, eletto tra le fila del M5s ed espulso nel novembre 2018. Sembra un’era politica fa, ma sono passati appena tre anni e mezzo. Fu l’immigrazione il primo terreno di scontro, con De Falco tra i pochi senatori M5s a ribellarsi contro i Decreti Salvini. Oggi, senza più un partito di riferimento, De Falco continua però a occuparsi di migranti, rifugiati, richiedenti asilo e non solo. Non a caso da mesi cerca, quasi in solitaria, di far luce sulla situazione di chi si trova recluso all’interno dei dieci Cpr oggi ancora presenti e operativi sul territorio italiano, compreso quello capitolino. Luoghi di detenzione amministrativa, dove si è trattenuti senza aver commesso alcun reato, ma con l’unica ‘macchia’ di violare una norma amministrativa che riguarda l’ingresso e il soggiorno nel territorio italiano. Una ‘detenzione senza reato’ ai danni di cittadini stranieri, da tempo contestata da associazioni come LasciateCIEntrare, e non solo. Ma ormai nel silenzio o quasi della politica. Non è un caso che accedere all’interno di queste strutture sia praticamente oggi un’impresa. Impossibile o quasi per la stampa, complessa pure per chi come De Falco ne avrebbe diritto, come parlamentare, “ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, insieme ai miei accompagnatori per ragioni del mio ufficio”, rivendica. Eppure, denuncia, “è grave che alla legge spesso si sostituisca l’arbitrio e la discrezionalità dell’amministratore”. Così accedere per chi lo accompagna può diventare subito possibile nel capoluogo lombardo, ma non a Ponte Galeria. “Al Cpr di via Corelli a Milano siamo riusciti a ispezionare il centro io e i miei accompagnatori, cioè persone che parlano l’arabo e conoscono queste strutture. Fanno da mediatori culturali, in modo da poter controllare come vada la gestione e che la prefettura faccia a sua volta il proprio lavoro di controllo sul gestore. Qui a Roma invece mi è stato opposto un rifiuto, dalla prefettura di Roma o comunque attraverso la funzionaria, e non è la prima volta. Soltanto io potevo entrare subito, che non conosco la lingua araba. Mentre si doveva ‘procedimentalizzare’ l’accesso dei miei accompagnatori: nei fatti, potevano accedere tra quindici giorni”, attacca De Falco, annunciando di voler “ricorrere alle vie legali”. Intanto, però, su Ponte Galeria è rimasto il silenzio, con la visita negata. Il Cpr è oggi gestito dalla società Ors, gruppo che già controlla centri per richiedenti asilo in Svizzera, Austria e Germania, oltre che nel nostro Paese, già sotto accusa da varie ong: “È stata oggetto di inchieste giornalistiche e interrogazioni parlamentari in merito alla sua gestione. Vince al ribasso, con un peggioramento delle condizioni”, spiega Yasmine Accardo, che accompagna ai sensi dell’art.67 il senatore nella sua ispezione, non riuscita, a Roma. “Abbiamo però visto come sia stata riaperta l’area femminile, una pessima notizia. Era stata chiusa per un paio d’anni: c’erano tre donne, oltre ai 105 uomini, in due aree separate. Non siamo riusciti a vederle. Spesso le donne che si trovano nei Cpr sono vittime di violenze, anche domestiche, sfruttamento e tratta, anche ulteriormente abusate dentro i centri”. “Siamo riusciti quantomeno, dopo due ore di attesa, a fare pressione per il rilascio di una persona straniera che, come ci era stato segnalato, non doveva restare lì dentro. Questo perché un provvedimento amministrativo gli aveva revocato il permesso di soggiorno, ma il giudice aveva poi sospeso lo stesso in via d’urgenza. Nei Cpr persone con il permesso non devono starci, già il trattenimento non si sa su che titolo fosse stato fatto. Su nostra sollecitazione, poi, questa persona è stata ‘dimessa’, altrimenti chissà per quanto tempo sarebbe ancora rimasta lì dentro”, rivendica De Falco. Non è la prima volta che accade: “Da 20 anni si sa come questi centri siano luoghi di trattamento inumano e degradante, di detenzione illegittima. Eppure sono ancora aperti. Dalle violenze delle forze dell’ordine, alla disattenzione degli operatori, tutto è accaduto qui dentro. In quindici anni di monitoraggio di questi posti abbiamo ritrovato persone vulnerabili, con patologie croniche, persone che erano ingiustamente trattenute perché avevano il permesso di soggiorno. Negli ultimi anni in tantissimi dopo i Decreti Salvini hanno perso il titolo di soggiorno, si sono ritrovati da un permesso umanitario a nulla in mano, con migliaia di irregolari creati”, spiega la stessa Accardo, già tra i referenti della campagna LasciateCIEntrare. E mentre vengono diffuse video testimonianze da chi si trova dentro i Cpr, tra sporcizia e degrado, come a Gradisca d’Isonzo (Gorizia), De Falco mostra gli scatti di Milano, nel centro visitato insieme alla collega M5s Simona Nocerino, un anno dopo l’ultima volta: “La situazione è disastrosa. Vede le ferite sul braccio di quest’uomo? Questo è molto diffuso, in tutti i Cpr come nell’hotspot di Lampedusa”, ci mostra. E spiega: “Si tagliano per poter finire in ospedale. Perché quando finisci in ospedale mangi e ti curano”. “Molti di loro, soprattutto in seguito agli accordi tra Italia e Tunisia, hanno avuto addosso soltanto il vestito della detenzione, dagli hotspot, alle navi quarantena finalmente dismesse a fine maggio, fino ai Cpr”, precisa pure Accardo. Ricordando anche il caso della morte di Wissem Ben Abdel Latif, che ha perso la vita legato a un letto di contenzione in un corridoio del reparto psichiatrico dell’ospedale romano San Camillo, dopo aver trascorso gli ultimi giorni legato e sedato, senza possibilità di comunicare. “Era arrivato sano in questo Paese il 2 0ttobre a Lampedusa, immediatamente trasferito sulle navi quarantena, senza poter richiedere la protezione internazionale, richiesta poi nello stesso Cpr di Ponte Galeria, da dove il 23 novembre 2021 è stato trasferito verso l’ospedale Grassi di Ostia. Lì è rimasto in contenzione per 40 ore. Poi per altre 63 al San Camillo, dove era arrivato il 25 del mese”. Eppure, poteva essere salvato: “Il 24 il giudice di pace di Siracusa aveva sospeso il trattenimento. Wissem è morto legato, quando doveva essere liberato. Il processo è in corso, abbiamo costituito con diverse associazioni un comitato ‘Verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif” affinché la vicenda non venga dimenticata e archiviata”, denuncia Accardo. Ma Wissem rischia di non essere l’ultimo: “Altre persone che hanno protestato dentro i Cpr per le condizioni disumane sono state malmenate, sedate e hanno ricevuto un abuso di psicofarmaci”, denuncia. Eppure, l’attenzione di media e politica è minima, se non nulla: “Hanno creato dei luoghi chiusi, invisibili, è il delitto perfetto”. E ancora: “Lo Stato li ha dati in gestione ai privati, ma non controlla”, attacca Accardo, mentre De Falco parla di ‘gravi opacità nella gestione’. Tradotto, non è possibile “migliorare le condizioni di vita”, ma soltanto archiviarli una volta per tutte. Anche perché basterebbe leggere qualche numero per fotografare il fallimento del sistema: dal 2013 al 2020 (con un tempo massimo di permanenza passato nel tempo da 18 mesi a 90/180 giorni dentro i Cpr, ndr) non si è mai superata la soglia del 50-55% di rimpatri rispetto alle persone recluse nei centri. Per l’altra metà la reclusione stessa, alla quale non è seguito il rimpatrio, è stata praticamente inutile, considerato anche che molte persone trattenute provengono da Paesi con i quali l’Italia non ha stipulato accordi bilaterali. Ma non solo. Anche analizzando i rimpatri complessivi, secondo i numeri del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale - tra respinti o accompagnati alla frontiera, trattenuti nei Cpr o in altri luoghi - nel 2020 sono stati rimpatriate appena 3351 persone, mentre dall’inizio del 2021 al 15 settembre 2226 persone (più della metà verso la Tunisia, 1159, seguita da Albania, 462, ed Egitto, 252). Numeri irrisori di fronte alle stime sugli irregolari presenti sul territorio italiano, tra le 517mila e le 600mila persone. Tradotto, per le casse dello Stato i Cpr sono così una spesa inutile: “Dovrebbero servire per identificare e rimpatriare gli irregolari, ma il numero dei rimpatri resta basso: a Milano negli ultimi tre mesi non ne è stato fatto nemmeno uno. E allora a cosa dovrebbero servire? Ad autoalimentarsi”, accusa De Falco. Convinto però che non ci sia alcun interesse da parte della politica a cancellare i Cpr: “Una futura maggioranza in grado di cambiare rotta sull’immigrazione e archiviarli? Non credo ci sia interesse”, attacca il senatore ex M5s, “anche perché questa impostazione è precedente a Matteo Salvini, pure alla legge Bossi-Fini, è già alla base della Turco-Napolitano. Ma l’unica soluzione resta creare dei canali di ingresso legali. E chiudere questi orrori”. Migranti. Le due facce dell’Europa: accogliente con gli ucraini, spietata con gli altri di Chiara Sgreccia L’Espresso, 19 giugno 2022 Respingimenti, confini blindati e violenti per i minori sono ancora la normalità. È la denuncia nell’ultimo studio di Save The Children pubblicato in occasione della giornata. “Ho un sogno, voglio essere un pilota. Volevo farlo anche in Afghanistan ma lì sfortunatamente non posso”. Così Naweed racconta mentre da Claviere, in alta Val di Susa, in Piemonte, cammina verso la Francia. Attraversando le montagne che fanno da frontiera. È solo, dice di avere 14 anni. È partito 8 mesi fa dall’Afghanistan per raggiungere il fratello in Finlandia. Vuole arrivare a ogni costo. “È difficile venire qui da soli. Senza padre, né madre, né amici”. È stanco ma determinato. Porta con sé i segni degli altri confini che ha attraversato durante gli oltre seimila chilometri che lo separano da casa: ferite, qualche mazzata. “Alzati e fai come l’asino, come la mucca. Fai animali diversi, comportati come un animale” gli avevano gridato le forze dell’ordine turche mentre cercava di entrare in Europa. Un foglio informale certifica la sua minore età. Lo tiene stretto nella speranza di non essere respinto dai poliziotti di frontiera francesi. Gli andrà bene. Ma non per tutti è così, Anzi. Prima, ci sono le violenze lungo i confini europei: sono state almeno 1.911 le persone respinte nei primi tre mesi del 2022, come denuncia la coalizione di enti no profit Protecting rights at borders. Poi le difficoltà nel muoversi all’interno dell’Unione. Dal 2015, quando più di un milione di persone ha percorso la rotta balcanica per raggiungere l’Ue, in sei paesi - Germania, Francia, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia - sono ancora in vigore i controlli ai confini interni, che avevano introdotto per ragioni di sicurezza nazionale. Nonostante la crisi siriana sia finita da tempo e le deroghe a Schengen, l’area che comprende 26 stati in cui dovrebbero essere abolite le frontiere interne, non sarebbero dovute durare più di due anni. Così migliaia di persone rimangono intrappolate tra uno Stato e l’altro. Dimenticate e sole. Come avviene al confine tra Francia e Italia dove il passaggio non è bloccato ma pericoloso e, soprattutto, affidato al caso, alla fortuna. Tra i migranti ci sono anche parecchi minori non accompagnati. Il cui numero sta crescendo con la bella stagione, come si legge nel rapporto “Nascosti in piena vista” di Save The Children, curato dal giornalista Daniele Biella, pubblicato in occasione della giornata mondiale del rifugiato, il 20 giugno. A Trieste, in Friuli-Venezia Giulia, dai 38 passaggi di minori di aprile siamo arrivati a 60, a maggio. A Ventimiglia, Liguria, da 24 a 47. A Oulx, nel mese di maggio, hanno attraversato il confine dal Piemonte alla Francia 150 minori, per la maggior parte afghani, proprio come Naweed. “Questo transito, soprattutto nell’area Nord dell’Italia, è spesso invisibile. Per quanto composto da numeri relativamente importanti, rimane un fenomeno sottostimato. Ciò ha una ricaduta sul piano della protezione e dell’assistenza ai minori, soprattutto coloro che viaggiano soli, che da invisibili appunto rischiano di essere esposti a pericoli quali abuso, maltrattamento, sfruttamento e violenza”, spiega Niccolò Gargaglia, responsabile dell’area protezione e inclusione minori migranti di Save the Children. “In questi mesi - continua - abbiamo visto come la macchina dell’accoglienza europea per i profughi in fuga dall’Ucraina sia stata tempestiva, efficace e funzionale”, grazie alla solidarietà dei cittadini e alla Direttiva 55/2001 che l’Unione europea ha attivato poco dopo l’invasione russa del Paese, con cui gli Stati hanno riconosciuto la protezione temporanea agli ucraini. Ma per chi arriva dalle altre parti del mondo, sempre in fuga da violazioni, privazioni e guerre, la situazione resta cupa e brutale. Il contrasto è stridente. E rende manifesta un’ingiustizia che non dovrebbe accadere, nell’indifferenza, nella patria dei diritti. Migranti. Cortei a Napoli e Caserta per chiedere “la protezione speciale” di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 giugno 2022 In vista della Giornata mondiale del Rifugiato. Due giorni di mobilitazione, in oltre 10mila hanno chiesto percorsi certi per ottenere il permesso di soggiorno. Cinquemila persone ieri sono scese in piazza a Caserta in vista della Giornata mondiale del Rifugiato (20 giugno). Venerdì oltre 7mila avevano fatto lo stesso a Napoli. Entrambe le manifestazioni si sono svolte all’insegna dello stesso messaggio: “Vogliamo la pace perché conosciamo la guerra”. E non c’è pace senza diritti: il Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta e Napoli, con le realtà del territorio, ha manifestato per rivendicare la presenza nel tessuto sociale campano. Permettere a chi scappa dai conflitti nel proprio paese di ottenere il permesso di soggiorno per protezione speciale la richiesta alle istituzioni delle due città. Molte sono state le assemblee di preparazione con le comunità locali, fino a raggiungere i lavoratori delle campagne. Ha aderito alla manifestazione la comunità islamica di Napoli, papa Francesco ha ricevuto l’8 giugno in udienza a Roma il Movimento condividendo le ragioni della protesta. “La guerra in Ucraina ci consegna uno scenario drammatico con milioni di profughi - spiega Mimma D’Amico dell’ex Canapificio di Caserta - ma non sono i soli a scappare dalla guerra. E poi ci sono quelli che fuggono dall’estrema povertà, dalle carestie, dalle persecuzioni. Il nostro lavoro accanto ai migranti per farli emergere dall’illegalità e dallo sfruttamento ha subito molte battute d’arresto negli ultimi anni, facendo arretrare drammaticamente la loro condizione. Bisogna uscire dai percorsi burocratici impossibili che li rigettano nell’invisibilità”. I decreti Salvini sono stati il primo colpo, persino chi aveva storie di persecuzione si è ritrovato nella lista dei paesi “sicuri” e quindi fuori dai percorsi di protezione, a molti è stato tolto l’accesso agli strumenti di integrazione come l’inserimento lavorativo. Poi c’è stata la pandemia: “Gli uffici chiusi - prosegue D’Amico - e l’impossibilità di avere un’interlocuzione con le strutture, la conseguenza è stato il peggioramento delle condizioni per tanti, anche per chi era qui da anni”. E infine nel 2020 l’ennesima “sanatoria truffa”: 80% delle pratiche processate, il 70% respinte spesso a causa delle richieste di documenti da allegare, tra l’assurdo e il volutamente punitivo. “I più colpiti nell’attuale crisi - spiega Abdel El Mir del Movimento Migranti e rifugiati di Napoli - sono i migranti, che hanno continuato a faticare in pieno lockdown, gli ultimi ad avere accesso al vaccino e i primi a perdere il lavoro e quindi il titolo di soggiorno. Siamo tornati nei centri di accoglienza dove le condizioni restano difficili. I lunghissimi tempi di attesa degli uffici immigrazione, l’impossibilità di poter rinnovare i documenti spesso per richieste illegittime da parte dei funzionari e la condizione di irregolarità sul territorio rappresentano la condizione perfetta per il ricatto e lo sfruttamento”. Delegazioni venerdì e sabato sono state ricevute da questore e prefetto delle due città, l’impegno preso è organizzare un tavolo congiunto con il dipartimento Libertà Civili e Immigrazione tra una settimana in modo da rendere effettivo il percorso per accedere alla regolarizzazione, fornire permessi di soggiorno ai tanti migranti come strumento di riconoscimento umano e lavorativo: “Abbiamo chiesto - prosegue El Mir - di allargare i criteri di accesso alla protezione speciale per garantire dignità e giustizia. E un percorso di inserimento socioabitativo che coinvolga le comunità, dalle inchieste sul campo vengono fuori condizioni drammatiche fino ad arrivare ai ghetti”. Tra i promotori, Ex Canapificio, Movimento Migranti e Rifugiati, Ex Opg Je so’ pazzo, associazione YaBasta Nova Koinè, associazione SmallAxe. Migrazione e criminalità non sono la stessa cosa. Uno studio di Openpolis di Annalisa Girardi fanpage.it, 19 giugno 2022 All’aumento dei richiedenti asilo nelle società europee non è corrisposto un aumento della criminalità, nonostante spesso politica e media strumentalizzino un legame infondato tra criminalità e migrazioni. Trattare le migrazioni come un tema di sicurezza non aiuta: troppo spesso, o a livello politico o mediatico, viene tracciata un’associazione (illegittima) tra immigrazione e criminalità. E questa retorica viene spesso strumentalizzata per demonizzare il migrante e polarizzare il consenso dell’opinione pubblica. L’antidoto a narrative funzionali è spesso rappresentato dai dati. Openpolis ha pubblicato qualche settimana fa un’analisi da cui emerge come in Europa “le società non sono diventate meno sicure a fronte a fronte dell’aumento della componente straniera della popolazione”, per cui il parallelo tra criminalità e cittadinanza sia assolutamente infondato. Il numero di richiedenti asilo in Italia, Francia, Spagna e Germania oggi è più elevato di quanto non fosse dieci anni fa. Un incremento irregolare, nel corso di questo decennio, che negli anni ha anche toccato picchi molto elevati (un esempio è sicuramente quello della Germania tra il 2015 e il 2016). In linea generale, comunque, si può dire che oggi tra la popolazione dei principali Paesi europei la quota di stranieri è più elevata. Parallelamente, però, la criminalità è calata. Con l’unica eccezione della Spagna, nei principali Paesi europei il tasso di criminalità è sceso. Non è quindi vero che l’aumento della componente straniera nelle nostre società aumentino anche i reati, rendendole più insicure. Anzi. In particolare in Francia, la contrazione è stata addirittura oltre il 30%. C’è però un dato che va contestualizzato. È vero, cioè che la quota di stranieri sul totale dei detenuti, almeno per quanto riguarda le carceri italiane, ecceda quella sulla popolazione totale. Ma appunto, si tratta di un dato a cui va data una lettura critica. È infatti impossibile non tenere conto che le condizioni socio economiche in cui versano i cittadini stranieri, in media sono inferiori a quelle degli italiani. E il disagio socio economico è sì collegato alla criminalità. Non solo, Openpolis sottolinea come sia anche necessario tenere in considerazione che molte persone straniere sono in Italia in modo irregolare, cioè non hanno il permesso di soggiorno, una condizione che anch’essa sfocia spesso nel crimine. E cita uno studio del 2016 per cui, se si tengono in considerazione solo gli stranieri regolari, il tasso di criminalità sarebbe pari a quello registrato tra gli italiani. Ad ogni modo, la durata della pena è minore tra gli stranieri, rispetto agli italiani. I reati, quindi, meno gravi. È l’export delle armi l’ostacolo principale alla difesa europea di Futura D’Aprile Il Domani, 19 giugno 2022 I vantaggi derivanti dall’integrazione delle aziende nazionali della difesa saranno ridotti se non si procede a una maggiore armonizzazione delle leggi nazionali sull’export di armamenti diretti verso paesi extra-Ue e non-Nato. L’esportazione di prodotti bellici realizzati da più aziende deve essere autorizzato da tutti gli Stati coinvolti, ma la mancanza di un’unica legislazione comune europea rischia di generare una situazione di impasse costante. La soluzione però non è necessariamente l’adozione di norme più permissive. Con la riduzione dei costi di produzione e la diminuzione della concorrenza interna all’Ue si possono finalmente mettere al centro il rispetto dei diritti umani e dei valori di cui l’Unione è portavoce. Più cooperazione e rafforzamento dell’industria della Difesa dell’Ue. Sono questi i due pilastri su cui poggia il piano del presidente francese Emmanuel Macron, da tempo impegnato nel promuovere una maggiore armonizzazione dei programmi europei nel campo della difesa, tanto sul piano militare quanto su quello industriale. Secondo l’inquilino dell’Eliseo, l’Unione deve avviare programmi di acquisizione comuni che consentano una maggiore interoperabilità tra le forze armate dei singoli paesi, andando quindi oltre le logiche prettamente nazionali, e creare le condizioni per una maggiore cooperazione a livello industriale. Gli obiettivi sono principalmente due. Da una parte, evitare che più paesi portino avanti progetti simili tra di loro, prediligendo invece un approccio comune che comporti tanto una diminuzione dei costi di sviluppo quanto una riduzione della competizione tra le aziende europee. Dall’altra, rispondere in maniera coordinata al bisogno degli Stati di rimpinguare gli arsenali, ridottisi a causa dell’invio di armamenti a Kiev, facendo sì che i prodotti acquistati siano compatibili tra di loro così da accrescere l’interoperabilità delle forze armate, prediligendo il più possibile il mercato europeo. Ma nel discorso portato avanti da Macron resta fuori un elemento importante: l’export. A livello europeo le esportazioni di materiale bellico sono regolate dalla Posizione comune del 2008, che impone limiti precisi alla vendita di armamenti e istituisce un meccanismo di comunicazione tra gli Stati per evitare che le autorizzazioni che non sono state concesse da un paese siano invece rilasciate da un altro. La Posizione comune però, pur essendo giuridicamente vincolante, non prevede la creazione di un organo sanzionatorio per cui le violazioni dei principi che la caratterizzano restano impunite. D’altronde tutto ciò che riguarda la politica estera, esportazione di materiale bellico inclusa, è di competenza nazionale, motivo per cui i margini di manovra delle istituzioni europee sono particolarmente ristretti. Ciò rappresenta da sempre uno dei limiti dell’Unione, ma nel momento in cui si punta ad un maggior coordinamento delle industrie della difesa il bisogno di affrontare la questione si fa sempre più impellente. Ma una regolamentazione più permissiva non è necessariamente la risposta migliore. Ogni paese dell’Unione ha le proprie regole sulle esportazioni militari. Alcuni si sono dotati di legislazioni più permissive, mentre altri hanno imposto maggiori limitazioni all’export nel tentativo di tutelare i diritti umani e i valori democratici, pur finendo molto spesso con l’agire in violazione delle loro stesse leggi. Esempio emblematico è la differenza tra Francia e Germania, i paesi Ue che esportano il maggior numero di prodotti bellici. Parigi ha un atteggiamento più permissivo, tanto che i maggiori acquirenti della sua industria della Difesa sono Arabia Saudita, Egitto, India e Qatar. Tra gli accordi più importanti siglati negli ultimi anni rientrano per esempio quello per la vendita di 80 caccia Rafale agli Emirati e di altri 30 all’Egitto, al cui presidente è stata conferita anche la legione d’onore. Proprio durante questa cerimonia, Macron ha dichiarato che gli interessi economici e politici della Francia non possono essere messi in secondo piano rispetto alla tutela dei diritti umani. Una posizione che ben si riflette nelle esportazioni di armamenti francesi autorizzate dal governo e dirette prevalentemente verso paesi che violano i diritti umani e coinvolti in conflitti armati. La Germania invece ha una legislazione maggiormente restrittiva, anche se il governo Merkel ha più volte agito in contrasto con quanto previsto dalle leggi nazionali vendendo armamenti a regimi autoritari come l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi o alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Una situazione che sarebbe dovuta cambiare con il nuovo esecutivo guidato da Olaf Scholz. Il programma della coalizione formata da Partito socialdemocratico, Liberali e Verdi prevede infatti l’adozione di regole più stringenti sia a livello europeo che nazionale a partire dalla Posizione comune Ue, nonché maggiori controlli post vendita. La proposta tedesca implicherebbe anche un decentramento a livello europeo del potere decisione relativo alle autorizzazioni per l’export tramite la creazione di un unico quadro giuridico valido per tutti i paesi membri, ma l’idea è stata subito rigettata da Parigi, ben poco propensa ad accettare qualsiasi limitazione in materia di difesa. L’adozione di norme differenti rappresenta però un problema nel momento in cui si deve procedere con l’export di materiale bellico prodotto da più industrie della difesa verso paesi extra-Ue e non-Nato. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, per esempio, diversi governi europei non hanno potuto cedere all’esercito di Kiev quegli armamenti prodotti in tutto o in parte da aziende tedesche a causa del veto di Berlino. Il governo Scholz nei primi mesi del conflitto ha infatti vietato il trasferimento di materiale bellico tedesco appartenente al proprio arsenale così come a quello di altri Stati europei perché in contrasto con le proprie politiche sull’export verso zone di conflitto. Con il tempo Berlino ha modificato la propria posizione, anche dietro pressione degli Stati Uniti e degli alleati Nato, ma il problema di fondo resta e continuerà a ripresentarsi, come sanno bene a Parigi. Francia e Germania sono entrambe impegnate nella realizzazione del Future Combat Air System (o Fcas), il caccia di sesta generazione la cui entrata in servizio è prevista per il 2040. Mercato di riferimento del Fcas è prima di tutto quello europeo, ma difficilmente le mire della Francia si limiteranno ai soli Stati membri dell’Unione. L’Eliseo ha più volte usato il caccia Rafale di produzione interamente francese come strumento di politica estera ed è facile immaginare che vorrà fare lo stesso anche con il nuovo caccia. La presenza dell’azienda Aribus nel progetto potrebbe però complicare i piani francesi proprio a causa delle restrizioni all’export bellico fuori dai confini Ue e Nato previste dalla legislazione tedesca. Questo tipo di impasse rischia di presentarsi con maggiore frequenza nel momento in cui l’Unione intende rafforzare la collaborazione tra le industrie della difesa europee. In un simile scenario, l’export gli armamenti realizzati da più aziende e diretto verso paesi che non fanno parte dell’Ue e della Nato deve essere autorizzato da tutti gli Stati coinvolti, il che rende meno competitivi i prodotti bellici europei. Da qui la necessità di armonizzare non solo le politiche industriali, ma anche quelle relative alle esportazioni fuori dal contesto europeo e dell’Alleanza atlantica. In un’ottica non necessariamente più permissiva, ma anzi maggiormente attenta al rispetto di quei valori di cui l’Ue si è fatta portatrice. La messa in comune dei progetti della difesa avrebbe due principali effetti positivi. La condivisione dei costi con una conseguente diminuzione delle spese in capo alle singole aziende nazionali, molto spesso a partecipazione statale o strettamente legate al governo, e la riduzione della concorrenza tra paesi membri. In questo modo, le imprese non avranno bisogno di vendere i propri prodotti bellici anche a governi autoritari per recuperare i costi di produzione e i governi Ue potranno essere più liberi nel negare una determinata autorizzazione in mancanza di concorrenza a livello europeo. Evitando così di vendere armamenti a quei paesi che rischiano di diventare un giorno dei “nemici”, come nel caso della Russia. A questo punto però bisognerebbe anche riconsiderare il valore politico delle esportazioni militari, usate come mezzo per stringere alleanze con regimi autocratici considerati strategici per la tutela degli interessi nazionali, e mettere finalmente al centro la tutela dei diritti umani e della democrazia. O ammettere che questi valori non valgono al di fuori dei confini europei. L’Ucraina precipita nella povertà: “A giugno non pagheremo le pensioni in cinque regioni” di Corrado Zunino La Repubblica, 19 giugno 2022 Piccole e medie imprese chiuse, difficoltà nell’agricoltura, stipendi privati tagliati del 25-50 per cento. La guerra al quarto mese si trasforma in carestia e colpisce anche gli ex benestanti. Malattie al Sud-Est. Il direttore della Caritas nazionale: “Non riusciamo ad arrivare nei villaggi periferici”. La povertà a dodici chilometri dal fronte zero - le trincee dove i soldati ucraini si interrano e dentro le quali gli elicotteri russi sparano - è Natalya, un’età sui cinquanta. È seduta in fondo agli scalini che portano al palazzone popolare di Bakhmut, salda architettura sovietica. Guarda il vuoto e accetta l’elemosina, perché adesso non ha altro a cui affidarsi. “Vivo qui sopra”, dice, e indica il terzo piano, “vivo sola”. Ha dovuto lasciare tutto, in questa città. Il lavoro è scomparso il giorno dopo l’invasione. “Un mese e sono andata via, con un corridoio umanitario. Ho raggiunto i miei parenti a Dnipro. Mi hanno accolto bene, ma sono bastati pochi giorni per sentirmi un peso. Non è che se la passassero granché. Mia sorella, i suoi figli. Avevano i loro problemi e ho deciso di tornare. No, non mi fanno paura le bombe, ma questa vita senza un senso che non sai quando finirà”. Davanti a lei i due chioschi kebab rimasti aperti sono il rifornimento per i soldati che si muovono rapidi dalla trincea al centro di Bakhmut. Arrivano con auto private colorate di fango, altre scapottate con soldati tatuati che sbucano fuori come eroi di “Mad Max”: la trap ucraina ritma versi nazionalisti, si rifocillano in piedi e ripartono verso i boschi. Già, i soldati. Sono tra i pochi con lo stipendio assicurato, in questa stagione di guerra: il loro mensile, adeguato, è garantito dai finanziamenti americani. E può respirare chi fa quei mestieri direttamente collegati al conflitto, medici, barellieri. I volontari dedicati ai rifugiati hanno iniziato ad essere pagati. Per gli altri le parole di ieri della ministra delle Politiche sociali, Marina Lazebna, sono state un gelo: “A giugno centinaia di migliaia di cittadini ucraini non riceveranno la pensione e i benefici sociali”. Si riferisce a coloro che vivono nei territori occupati e nelle zone di guerra, a Sud e a Est. Nelle cinque regioni che corrispondono alla descrizione risiedevano più di undici milioni di persone. Gran parte sono fuggite, ma almeno la metà rischia, dalla fine del mese, di non avere i soldi per il pane. L’inflazione, che in Italia è cresciuta, qui galoppa al 16,7 per cento. Il cambio della moneta locale - grivnia - con l’euro è a quota 32 allo sportello, a 38 in strada. Il prezzo della benzina si è alzato e continua ad aumentare: 41 per litro a Kiev, 51 nel Donbass. Ci sono file di mezzo chilometro per rifornirsi. I prezzi dei beni di prima necessità sono il doppio. La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo si è già corretta nelle stime del crollo del prodotto interno loro: la previsione del Pil era meno 20 per cento a inizio aprile, con un rimbalzo del 23 per cento se si fosse raggiunta una tregua a maggio. Ora, con una prossima tregua neppure immaginata, la stima è meno 45,1 per cento e il rimbalzo non ci sarà. La Nato dice che nel 2023 il conflitto ci sarà ancora. Ma di che pensioni parla, la ministra del Welfare? Un insegnante con venti anni di servizio a Kiev prende un corrispettivo di 300 euro il mese, e siamo sopra la media dei vitalizi ucraini. Dall’invasione i salari interni dei lavoratori privati sono crollati del 25-50 per cento. La Banca nazionale dell’Ucraina ha scritto: “Molte compagnie non sono in grado di pagare gli stipendi di prima”. Il mercato del lavoro è ampiamente sotto lo zero: “È collassato”, si legge nei report degli osservatori economici. Cinque milioni di persone hanno perso il lavoro, conteggio tutto da aggiornare, 7,3 milioni hanno lasciato il Paese, 16 milioni sono dentro un percorso umanitario. La Banca Mondiale ha appena approvato un finanziamento aggiuntivo per contribuire al pagamento dei salari dei lavoratori statali e sociali: il sostegno complessivo promesso è di oltre 4 miliardi di dollari. Le garanzie arrivano da Gran Bretagna, Paesi Bassi, Lituania e Lettonia. Il Canada ha trasferito 773 milioni di dollari. L’export di grano e di metalli è quasi fermo. Una delle ragioni per cui la battaglia per il controllo dell’area meridionale del Donbass è così feroce è la presenza nella terra di ferro, uranio, zirconio, litio, uranio, titanio. Tutto è fermo, ovviamente: estrazione e vendita. E diverse miniere sono già in mano nemica. Alla fine del 2020 diciannove milioni di cittadini ucraini erano considerati poveri (su quarantaquattro milioni di residenti). Una guerra a lungo tempo porterà il 90 per cento di chi vive qui sotto la soglia di povertà, che è tarata su 5,5 dollari disponibili ogni giorno. Anche la Russia si sta impoverendo, l’Ucraina di più e più rapidamente. Le aziende che avevano contratti con la Federazione russa e la Bielorussia prima del conflitto, sono state subito colpite. E così le piccole e medie imprese, messe in mora dalle banche e affaticate nel trasporto delle merci da strade già terribili a cui la cura Zelensky in tempo di pace non è bastata. I solchi dei carri armati hanno reso fragile l’asfalto delle arterie e tutte le vie minori sono ancora di terra e fango. “A Slovjansk non abbiamo acqua pulita”, dicono i pensionati al supermercato della chiesa di riferimento. Ogni acquisto è limitato: tre alimenti, quattro, si esce dal market con un sacchetto pieno a metà e soprattutto sono bottiglie d’acqua. L’Ucraina era già un’area depressa prima, causa l’instabilità del processo di creazione di una democrazia post-sovietica. Il confitto a Est, iniziato nel 2014, ha pesato su tutti e trasformato il territorio più ricco del Paese, il Donbass appunto, in una regione di relazioni umane e commerciali limitate. Dal 24 febbraio, in un deserto di possibilità. Eppure c’è chi torna anche qui, sono i rifugiati che non possono permettersi gli affiti di Leopoli e neppure quel di Dnipro. Dopo una prima fase di accoglienza larga, ogni città ha iniziato a fare i conti con i propri problemi e, fuori dai rapporti familiari, la vita è diventata inaccessibile per chi era scappato da Mariupol e Severodonetsk. Meglio tornare. Don Vyacheslav Grynevych, direttore della Caritas-Spes Ucraina, racconta. “I volontari che lavorano nei nostri centri, un’età compresa tra i 30 e 45 anni, sono persone che hanno perso il lavoro e vogliono rendersi utili. Questa povertà si vede nei piccoli villaggi dove gli abitanti erano già in miseria prima della guerra. Adesso la situazione è gravissima. Durante gli attacchi, i russi sono entrati nelle case e hanno rubato tutto. I bombardamenti hanno distrutto, per esempio, i vetri alle finestre. E non si possono sostituire”. I vetri prima arrivavano dalla Russia, ragioni di export controllato, ora non si possono più comprare. L’8 giugno il centro Caritas di Don Grynevych ha ricevuto 1.500 chiamate, il centralino si è inceppato più volte. “Telefonano perlopiù donne, chiedono cibo, ma nei villaggi periferici non riusciamo ad arrivare”. A Vinnytsia, nel Centro dell’Ucraina. A Mykolaiv, nel Sud. A Dnipro, porta d’accesso al Donbass. Alle sette di mattina in queste città iniziano le consegne dei pacchi viveri: riso, pasta, quache dolce. Si può stare in fila anche quattro ore e si vedono ex benestanti che hanno parcheggiato il Suv vicino. E’ facile immaginare una ripresa dell’alcolismo tra il popolo - anche se l’alcol è formalmente vietato - osservando le molte persone che urlano al vento attorno ai centri di aiuto. La foto delle donne di Mariupol che lavano i vestiti nelle pozzanghere, diffusa dal consigliere del sindaco in esilio a Zaporizzja, offre un elemento in più per credere che siano vere le notizie di diffusione della malaria nella città martire e occupata. E a Izjum, presa dai russi a Nord-Est, si segnala la diffusione della malaria. “Non ci sono medicine”, dice Julia Cherednik, volontaria della Croce Rossa che è riuscita a tirare fuori la famiglia dalla città. Non c’è acqua, e la battaglia non è certo finita. A Kiev, pacificata dal ritiro dei russi, hanno bisogno di riprendere una vita normale, anelano al divertimento. Ma il capo dell’amministrazione militare, Mykola Zhyrnov, ha emanato un decreto in cui si pretende musica bassa e si vietano i fuochi d’artificio: “Bisogna rispettare i bisogni psichici della gente provata dall’assedio”. Il presidente della Federcalcio ucraina vuole ripartire ad agosto con il campionato di prima divisione, ma è davvero difficile pensare partite solo all’Ovest, tanto più che i missili russi non hanno mai smesso di arrivare anche a Odessa, a Leopoli. Per ora, gli organizzatori della kermesse Eurovision hanno detto al governo centrale che “non ci sono le condizioni per organizzare l’evento a Kiev nel 2023”. Volodymyr Zelensky, che lo voleva in Piazza Maidan, c’è rimasto molto male. Stati Uniti. “Un giorno buio per la libertà di stampa” di Marina Catucci Il Manifesto, 19 giugno 2022 Media e attivisti Usa contro l’estradizione di Julian Assange. A New York l’iniziativa di Freedom of the Press Foundation. Noam Chomsky, Daniel Ellsberg e Alice Walker: “La decisione del Regno unito di consegnarlo alla nazione che ha complottato per assassinarlo e che vuole imprigionarlo per 175 anni è un abominio”. Due ore dopo l’annuncio del via libera all’estradizione di Julian Assange in Usa da parte della ministra dell’Interno britannica Priti Patel, si è tenuta a New York una conferenza stampa davanti al consolato inglese organizzata da Freedom of the Press Foundation, no profit per la protezione e la difesa del “giornalismo di interesse pubblico”. Alla conferenza si è ricordato che organizzazioni giornalistiche e gruppi per i diritti umani hanno chiesto alla Gran Bretagna di rifiutare la richiesta di estradizione, in quanto Assange agiva come giornalista e ha diritto alla protezione della libertà di parola data dal primo emendamento. Una coalizione di organizzazioni per le libertà civili, tra cui la stessa Freedom of the Press, ha già chiesto al procuratore generale degli Usa Merrick Garland di archiviare il caso contro il fondatore di WikiLeaks, in nome della protezione dei diritti dei giornalisti, e così hanno fatto anche i redattori di testate giornalistiche come il New York Times e il Washington Post. “Questa decisione - ha detto Gabriel Shipton, fratello di Assange, durante la conferenza stampa - significa che il giornalismo dal basso, la pubblicazione di informazioni, è ora illegale nel Regno unito”. “È un giorno buio per la libertà di stampa - ha aggiunto la parlamentare progressista tedesca Sevim Dagdelen - e per i diritti umani. Assange è un eroe, e ogni cittadino e giornalista rispettabile è chiamato in causa”. Nel frattempo i 3 presidenti del Comitato di difesa di Assange, Noam Chomsky, il whistleblower dei Pentagon Papers Daniel Ellsberg e l’autrice vincitrice del Premio Pulitzer Alice Walker hanno diffuso una dichiarazione: “È un momento triste per la democrazia occidentale. La decisione del Regno unito di estradare Julian Assange nella nazione che ha complottato per assassinarlo, la nazione che vuole imprigionarlo per 175 anni per aver pubblicato informazioni veritiere nell’interesse pubblico, è un abominio”. Un riferimento diretto a un presunto complotto della Cia che, nel 2017, avrebbe messo a punto un piano per rapire e uccidere Assange. “Ci aspettiamo che gli autocrati più disprezzati del mondo perseguitino giornalisti, editori e informatori - si legge nel comunicato - Ci aspettiamo che i regimi totalitari perseguitino i loro popoli e reprimano coloro che sfidano il governo. Non dovremmo aspettarci che le democrazie occidentali si comportino meglio? Il governo degli Stati uniti sta affermando che la sua venerata Costituzione non protegge il giornalismo inviso al governo, e che la pubblicazione di informazioni veritiere nell’interesse pubblico è un atto sovversivo e criminale. Questo è una minaccia non solo per il giornalismo, ma anche per la democrazia stessa. Il Regno unito ha mostrato la sua complicità in questa farsa, accettando di estradare uno straniero sulla base di accuse motivate politicamente che crollano alla minima verifica”. Julian Assange, il cyberpunk con zaino in spalla e Commodore 64 di Stefania Maurizi Corriere della Sera, 19 giugno 2022 Per i file segreti che ha diffuso ha pagato solo lui: tutti i giornalisti del mondo che li hanno usati, no. Tra due settimane Julian Assange compirà 51 anni e li festeggerà tra quattro anguste mura, come sempre gli è capitato negli ultimi undici anni. Prima agli arresti domiciliari, poi in una minuscola ambasciata senza mai un’ora d’aria, quindi detenuto nella prigione più dura del Regno Unito, il carcere di Belmarsh a Londra. E il prossimo compleanno potrebbe essere ancora peggio. Se le autorità americane otterranno la sua estradizione, Assange potrebbe finire seppellito per sempre in un penitenziario di massima sicurezza degli Stati Uniti. La sua colpa? Aver pubblicato 700mila documenti segreti del governo Usa su crimini di guerra e torture. Il fondatore di WikiLeaks sapeva a cosa sarebbe andato incontro? A raccontare al Fatto Quotidiano cosa pensava in quei giorni del 2010, in cui lui e i giornalisti di WikiLeaks pubblicarono quei file, è Jennifer Robinson, avvocata australiana che da allora lo rappresenta e mai ha mollato, neppure quando sarebbe stato conveniente, o quando sono arrivati altri clienti star, come Amber Heard. “Julian mi disse che era suo dovere, come direttore, pubblicare quell’informazione per il pubblico, perché era di immenso interesse - ci dice Robinson, che aggiunge -. Ma era anche allarmato per le ripercussioni ingiustificabili e illegali che ne potevano derivare. Fece la scelta di principio di pubblicarli con centinaia di media in tutto il mondo, per il suo senso del dovere e nel pubblico interesse che caratterizza il giornalismo nelle nostre democrazie”. Tutti i più grandi media del pianeta hanno poi pubblicato quei file. Chi scrive non ha mai smesso di lavorarci. Nessuno di noi giornalisti media partner di WikiLeaks è mai stato arrestato, o anche solo interrogato. Tutta la furia degli Stati Uniti si è abbattuta su Julian Assange. Il fondatore di WikiLeaks è nato il 3 luglio del 1971 a Townsville, sulla costa nordorientale dell’Australia, da Christine Hawkins e John Shipton, che si separarono molto presto. Assange è cresciuto con la madre e ha preso il cognome del suo nuovo marito, Brett Assange, un direttore teatrale. L’arte e il teatro erano il principale interesse della madre, che lo aveva cresciuto spostandosi da una città all’altra, tanto che il figlio frequentò decine di scuole diverse. Preoccupata che l’intelligenza e il carattere del figlio confliggessero con il sistema della scuola statale, Christine aveva incoraggiato un’educazione anti-autoritaria e all’insegna dello spirito critico: non lo studio tradizionale ma la compagnia di molti libri e di un computer Commodore 64 per accendere la mente. Il bisogno di spostarsi da un posto all’altro sarebbe rimasto una delle sue caratteristiche: un giovane intellettualmente dotato, libertario, che viaggiava per il mondo con uno zaino e poco più. L’avvocata guatemalteca, Renata Avila, anche lei parte del team legale, che l’ha conosciuto negli anni in cui sviluppava WikiLeaks, l’ha descritto così: “Sembrava un mix di Indiana Jones, James Bond e un noioso bibliotecario”. Aveva studiato fisica e matematica per alcuni anni all’università di Melbourne, in Australia. A 18 anni era già padre di un bambino: Daniel. A 25 era finito condannato per aver hackerato, quando era un teenager, le reti della compagnia telefonica canadese Nortel. Ma il giudice australiano Leslie Ross, riconoscendo come si fosse mosso solo ed esclusivamente per un desiderio di ricerca intellettuale senza trarne alcun guadagno personale, nel 1996 aveva emesso una sentenza di condanna veramente mite: una pena pecuniaria di 2.100 dollari australiani. Più che un verdetto, una reprimenda benevola, che teneva conto anche della sua esistenza nomade: “Non deve essere stato facile per lei. Ha avuto un impatto sulla sua possibilità di avere un’istruzione formale, che certamente non sembra essere al di là della sua portata, considerando che lei è un individuo altamente intelligente”, concluse il giudice. Negli anni Novanta, Assange era stato un esponente dei Cypherpunks, una galassia visionaria e libertaria di persone che interagiva in una mailing list, accomunati da un profondissimo interesse: ragionare sull’impatto della sorveglianza e sviluppare strumenti a difesa della privacy e dell’anonimato, come la crittografia. Fu la guerra in Iraq a ispirarlo a creare WikiLeaks. Julian Assange si era reso conto di come all’interno dei servizi di intelligence di vari paesi ci fossero persone che avevano provato a far uscire informazioni per denunciare le falsità dell’amministrazione Bush, quelle usate per giustificare la guerra, e avevano provato a diffonderle, ma non avevano trovato nessun media disposto a pubblicarle. E così, nell’ottobre del 2006 lui aveva creato WikiLeaks. La guerra al terrorismo e il bagno di sangue seguito all’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush avevano creato dissenso e scontento. Torture, prigioni segrete della Cia, Guantánamo. Non tutti all’interno del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ovvero il Pentagono, o all’interno della Cia erano d’accordo con questi metodi brutali. Nascosti nell’ombra, c’erano persone profondamente contrarie, che avevano visto tante cose e avevano accesso a informazioni riservate su queste gravi violazioni dei diritti umani. WikiLeaks offriva la possibilità a fonti e whistleblower di inviare documenti su queste atrocità in modo anonimo, usando sistematicamente la crittografia. Chelsea Manning, la fonte di WikiLeaks che ha inviato i 700mila documenti segreti, era uno di questi whistleblower di grande coraggio morale. Da quel 2010, in cui WikiLeaks pubblicò i file in partnership con centinaia di media di tutto il mondo, Assange non ha più camminato per la strada da uomo libero. I due bambini piccoli avuti dalla moglie Stella Moris, sposata dietro le sbarre a Belmarsh, nel marzo scorso, non l’hanno mai incontrato in condizioni di libertà. E nel giro di pochi mesi potrebbe essere trasferito dall’altra parte dell’oceano. Il suo crimine? Il giornalismo. In piena penuria, l’Egitto taglia i sussidi al pane per via della guerra di Mario Giro Il Domani, 19 giugno 2022 Il presidente egiziano Al-Sisi ha recentemente dichiarato che le riserve di grano in Egitto sono sufficienti per un periodo di soli sei mesi. Com’è noto, il Paese è tra i più grandi importatori di grano al mondo ricevendolo principalmente dall’Ucraina. I progetti egiziani per garantirsi fonti di approvvigionamento alternative fino ad ora si sono dimostrati inefficaci a causa della drastica riduzione delle esportazioni indiane e l’allungamento dei tempi per ciò che riguarda i piani nazionali di autosufficienza alimentare. L’idea del ministero dell’agricoltura del Cairo di mettere a coltura nuove terre necessita di anni: una rivoluzione agraria impossibile per garantire a breve nuove scorte in un settore molto arretrato e ancora poco meccanizzato. Intanto prosegue l’aumento dei prezzi del pane ciò che ha costretto il governo a diminuire il numero delle persone titolate ad accedere ai prezzi sussidiati. Sono state così revocate le tessere annonarie a mezzo milione di cittadini egiziani per alleggerire il peso dei sussidi statali sul bilancio dello Stato. I cittadini egiziani che si spostano sovente fuori dal paese, compresi quelli che stanno all’estero per più di tre mesi consecutivi, saranno cancellati dalle liste. In pratica si toglie il sussidio agli egiziani emigrati che lavorano all’estero e alle loro famiglie. Per ora si tratta di circa 500mila persone ma si punta ad aumentare la cifra depennando vari milioni di tessere annonarie. Inoltre sono state introdotte altre limitazioni come quella che riguarda coloro che utilizzano la tessera ogni tanto: chi non va quotidianamente a prendere la sua razione non riceverà più l’intera porzione. Il portavoce del ministero dell’Approvvigionamento ha dichiarato alla stampa locale: “Gli egiziani benestanti non dovrebbero beneficiare di sussidi che dovrebbero andare solo a coloro che ne hanno veramente bisogno, ai più vulnerabili”. Questo cambia drasticamente una tradizionale politica egiziana che prevedeva pane sussidiato per tutti. Il governo ha fatto sapere che ha in programma di mettere ulteriori limitazioni: gli egiziani con stipendi mensili superiori all’equivalente di 500 dollari, i proprietari di grandi aziende, coloro che possiedono auto di lusso ma anche le famiglie che investono più di mille dollari al mese per l’istruzione dei propri figli e coloro che possiedono terreni agricoli di più di 10 acri, non avranno più diritto al pane sovvenzionato. Le proteste iniziano a fioccare da varie parti soprattutto per il fatto che in molti casi la misura non è individuale ma esclude in blocco tutti i membri di una famiglia. La nuova politica egiziana ha ricevuto l’appoggio del Fondo monetario internazionale da sempre contrario al sussidio per il pane. Il ruolo della guerra in Ucraina - Qualche settimana prima lo stesso ministero dell’Approvvigionamento aveva cercato di calmare gli animi annunciando che l’Ucraina stava trasferendo carichi di grano per l’Egitto via treno fino in Polonia e poi via mare verso Il Cairo. Tuttavia le quantità di tale spedizione si sono rivelate insufficienti. Malgrado i tentativi di sboccare i porti ucraini, fino ad ora non si è giunti a una soluzione negoziale nemmeno dopo il tentativo fatto dalla Turchia, potenza garante degli stretti che danno accesso al mar Nero. Da settimane Kiev sta valutando la possibilità di esportare le sue scorte di grano attraverso Romania e Polonia ma si tratta di un’operazione costosa e rischiosa: i nodi ferroviari sono continuamente bombardati e sotto attacco da parte dei russi, anche perché giunge via treno buona parte delle armi che l’Occidente invia all’Ucraina. La guerra continua ad accrescere una crisi alimentare e energetica che minaccia i paesi poveri e sovrappopolati proprio come l’Egitto. Com’è noto Il Cairo importava ogni anno circa 20 milioni di tonnellate di grano principalmente dall’Ucraina, che andavano ad aggiungersi ai 10 milioni di tonnellate prodotte internamente. Dall’India, inizialmente individuata dalle autorità come fonte alternativa, l’Egitto è fino ad ora riuscito ad importare solo 50.000 tonnellate a causa della decisione del ministero del Commercio indiano di bloccare le esportazioni per la forte ondata di caldo che ha colpito il paese e diminuito la produzione interna. Anche l’India teme la penuria e, come stanno facendo altri paesi produttori, rallenta se non sospende le esportazioni. Il Cairo ha in corso colloqui con Francia, Kazakistan e Argentina per tentare altre strade. Haiti, 120 anni di schiavitù di Roberto Livi Il Manifesto, 19 giugno 2022 Vertice delle Americhe: 20 paesi attaccano gli Usa, 2 li difendono, 6 tacciono. Tra questi c’è il paese caraibico, una storia di colonialismo per debito ancora in corso. Il giudizio finale sul Vertice delle Americhe conclusosi a Los Angeles il 10 luglio lo ha dato il ministro degli esteri messicano Marcelo Ebrard: “Venti paesi partecipanti hanno protestato - contro la politica unilaterale del presidente Joe Biden di escludere Cuba, Venezuela e Nicaragua - due hanno difeso gli Usa, 6 non hanno detto nulla”. Tra i sei Paesi silenti vi è Haiti. Pochi giorni prima del vertice - e dopo un anno di inchieste e consultazione di documenti “in tre continenti” - il New York Times ha spiegato le ragioni di tale sottomissione. Haiti è stata la prima nazione del mondo moderno nata da una rivolta degli schiavi: nel 1804 i neri haitiani sconfissero i colonialisti francesi e l’armata di Napoleone e dichiararono l’indipendenza. Si trattava della seconda repubblica più antica, dopo gli Usa, dell’emisfero occidentale. Una “colpa” di cui ancora Haiti paga le conseguenze. Nel 1825 re Carlo X di Francia inviò le cannoniere per imporre al popolo che aveva schiavizzato di pagare i danni della guerra che gli schiavisti avevano perso: 120 milioni di franchi in oro, da versare in cinque rate. Molto di più di quanto Haiti potesse permettersi. Per questo Parigi impose che il governo haitiano chiedesse prestiti a una serie di banche francesi. Ne seguì quello che il Ny Times definisce il doppio debito, nei confronti dello Stato e delle banche francesi. Il totale finito di pagare da Haiti dopo ben 122 anni, secondo il quotidiano americano, fu di 560 milioni di dollari attuali. Ma i danni di tale doppio debito, che comportò l’impossibilità di finanziare programmi di sviluppo, calcolati assieme a economisti francesi, furono “tra i 21 e 115 miliardi di dollari”. “Otto volte il volume dell’intera economia del paese nel 2020”. Haiti divenne quello che è ancora due secoli dopo l’indipendenza: uno stato in fallimento. Ma il saccheggio francese fu possibile solo con l’appoggio militante degli Stati Uniti, la nascente potenza delle Americhe. L’indipendenza di Haiti metteva in pericolo l’economia schiavista degli Stati del sud degli Usa. I documenti declassificati consultati dal Ny Times dimostrano che nel 1826 il senatore Robert Hayne della Carolina del Sud tuonava nel Congresso: “La nostra politica con rispetto a Haiti è chiara, mai potremo riconoscere la sua indipendenza”. Mano libera alla Francia per attuare quello che l’economista francese Thomas Piketty definisce “neocolonialismo per debito”. Ma nel 1914, quando gli Usa già sono una potenza mondiale, decidono che di prendere loro il controllo di Haiti, per “evitare il caos finanziario e politico”. “Wall Street chiama i marines rispondono”, scrive Ny Times. Le truppe americane sbarcano a Port-au-Prince. A fucili spianati, ritirano i fondi della Banca nazionale di Haiti e ne abbattono il presidente, imponendo “governanti marionette per i seguenti 19 anni”. Una foto pubblicata dal Ny Times mostra i marines che trasportano lingotti d’oro (valore “500.000 dollari”) dalla Banca centrale a un’imbarcazione nordamericana. Tre giorni dopo i lingotti sono già in un caveau di Wall Street. Il segretario di Stato di allora, Robert Lansing, definisce l’occupazione come “una missione civilizzatrice” perché “la razza africana manca di ogni capacità di organizzazione politica”. Il banchiere Roger Farnham si incarica di modificare il sistema finanziario haitiano, “assicurando esenzioni fiscali alle imprese statunitensi e garantendo il pagamento dei debiti esterni a Wall Street”. I lavoratori haitiani diventano moderni schiavi. Un quarto di tutti i redditi di Haiti furono destinati per più di dieci anni a pagare alla National City Bank i debiti “dell’aiuto dato dal governo degli Usa”. “Ho aiutato a far sì che Cuba e Haiti fossero un luogo tale che i ragazzi della National City Bank (oggi Citibank) raccogliessere buoni guadagni”, scrive nel 1935 il generale Smedley Butler, leader della forza militare statunitense che occupava Haiti. Grazie al controllo del debito di Haiti i banchieri della City “ottennero i più alti margini di guadagno” (Commissione finanze del Senato Usa, 1932). Scrive il New York Times: Nel 2003 l’allora presidente Jean-Bertrand Aristide sorprese gli haitiani nel denunciare il debito imposto dalla Francia che esigeva le riparazioni di guerra (…). Parigi rapidamente tentò di discreditarlo (…). Nel 2004 Aristide fu messo a forza in un aereo in una espulsione (ovvero un golpe) organizzata dagli Stati uniti e dalla Francia (…) per stabilizzare la situazione a Haiti”. A seguito dell’inchiesta del Ny Times, la banca francese Crédit Mutuel, erede del Credit Industriel Commercial accusato di aver depredato le finanze haitiane, ha aperto un’indagine per verificare l’esattezza dei dati pubblicati dal quotidiano nordamericano. Citibank, nemmeno ci pensa. E nemmeno l’amministrazione Biden molla la presa su Haiti. A Los Angeles il premier (mai eletto) Ariel Henry, che governa dal luglio 2021 quando il presidente eletto Jovenel Moïse fu assassinato da paramilitari colombiani contrattati dalla Counter Terrorist Unit Federal Academy con base a Miami, informava, assieme all’ambasciatrice statunitense all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, che ad Haiti non vi saranno elezioni fino a che “le condizioni non lo permettano”. Nessun dubbio su chi deciderà quando.