Il carcere, la genitorialità negata e il diritto alla paternità di Sabina Coppola* Il Dubbio, 18 giugno 2022 L’istituto carcere evoca alla mente del comune cittadino, e spesso anche di chi vive quotidianamente i tribunali, l’idea dell’autore di reato, certamente colpevole anche in assenza di una sentenza che lo abbia accertato, da punire per rieducare e della vittima di quel reato che va tutelata; quasi mai genera riflessioni sulla famiglia del detenuto e, in particolare, sul diritto alla genitorialità negata ai suoi figli, soprattutto minorenni, che, improvvisamente e senza colpa, sono privati dei genitori o sono costretti a viverli all’interno di istituti penitenziari. Il 23 febbraio scorso è iniziato, alla Commissione Giustizia della Camera, l’esame della proposta di legge d’iniziativa del deputato Siani, approvata alla Camera dei Deputati ed in attesa dell’approvazione definitiva del Senato, volta a ridurre, all’interno degli istituti penitenziari, la presenza di bambini minori di sei anni, costretti a vivere con le madri in un regime di privazione e reclusione, tra sbarre, cancelli rumorosi e divise penitenziarie. La riforma, sovvertendo la legislazione attuale, prevede che le madri (o in casi residuali i padri) di bambini fino a 6 anni di età debbano essere ristretti in case famiglia e, solo qualora sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, negli ICAM; mai in carcere. Si interverrà a tal fine con l’elisione di ogni riferimento alle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza contemplate nell’art. 275, co. 4, c. p. p. e con la modifica dell’art. 285- bis c. p. p., che prevedrà espressamente l’applicazione della custodia cautelare negli ICAM, solo qualora sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nonché degli artt. 293 e 656 c. p. p. che disciplinano rispettivamente le modalità esecutive delle misure cautelari e delle pene definitive, per evitare che il giudice della misura e il Magistrato di Sorveglianza sappiano dell’esistenza di un figlio minore solo dopo avere disposto la carcerazione della madre. Affinché il progetto possa avere una realizzazione concreta, l’articolo 3 del DDL, modificando la legge n. 62/ 2011, elimina il vincolo normativo connesso alla realizzazione delle case famiglia protette senza oneri per lo Stato, che ha di fatto impedito la diffusione di queste strutture sul territorio nazionale, in modo che l’amministrazione centrale possa scegliere di finanziarne di nuove. Se, dunque, il problema del diritto del minore a vivere, in modo sano, la maternità sembra aver destato l’attenzione dell’opinione pubblica e dello Stato, nessuna considerazione sembra destinata al diritto alla paternità per il minore di padre detenuto. Come si può spiegare ad un bambino che non potrà più vedere suo padre perché è detenuto o che potrà vederlo soltanto in orari e giorni stabiliti in condizioni di poca intimità ed in ambienti freddi non adatti ai minori? Come si può chiedere, o addirittura imporre, al minore di regolare il proprio amore e, di conseguenza, il proprio bisogno di affetto paterno, in funzione dello status giuridico del padre o del delitto che il genitore ha commesso? Quell’uomo ristretto in carcere è sempre e comunque il padre e, per poter crescere in modo sano, il bambino dovrà conservare un rapporto con lui. La Cedu, il 17 Novembre 2015 (ricorso n. 35532/12 Bondavalli c. Italia) ha ribadito che l’art. 8 della Convenzione, che ha essenzialmente ad oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non solo ordina allo Stato di astenersi da tali ingerenze ma può comportare l’adozione di misure volte al rispetto della vita familiare, tra cui la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti a consentire l’adozione di misure atte a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori. La Corte ha, altresì, chiarito gli Stati, oltre a vigilare affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, debbano adottare misure che consentano di giungere a tale risultato; misure da attuare rapidamente, in quanto il decorso del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore e il genitore non convivente. Tali principi, sanciti in tema di diritto del minore alla bigenitorialità in presenza di genitori separati, devono estendersi ad ogni altra situazione, come quella detentiva, che costituisca un ostacolo al rapporto genitore-figlio. Basterebbe applicare le norme dell’ordinamento penitenziario che prescrivono di dedicare particolare cura “a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie” (art. 28) e di finalizzare l’attività trattamentale proprio a “conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari” (art. 45) nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione che non può prescindere dall’esistenza e dal potenziamento di una rete familiare esterna che, se accogliente, potrà impedire al detenuto di commettere nuovi errori, anche a tutela della collettività. *Avvocata, Direttivo Associazione Pietro Calamandrei di Napoli Cantone nuovo vice capo Dap. Cartabia: “Profondo conoscitore dell’Amministrazione” gnewsonline.it, 18 giugno 2022 Carmelo Cantone nominato nuovo vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato il 15 giugno il decreto ministeriale di conferimento dell’incarico, ora alla Corte dei Conti per la registrazione. Catanese, 64 anni, attuale Provveditore regionale per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, vanta un’esperienza ultra-venticinquennale nell’amministrazione penitenziaria. Dirigente generale, è stato direttore degli istituti di Brescia, Padova e Roma Rebibbia Nuovo Complesso. Negli ultimi dieci anni, è stato Provveditore regionale in Toscana, Liguria, poi in Puglia e Basilicata, quindi nel Prap Lazio, Abruzzo e Molise e infine, come reggente, in quelli della Toscana e Umbria e della Campania. Dal 1989 svolge docenze in materia penitenziaria e in criminologia presso la Scuola Superiore della Magistratura, l’Università di Roma Tre e le Scuole dell’Amministrazione. Succede al magistrato Roberto Tartaglia, nominato nei giorni scorsi vice Capo del Dipartimento per gli Affari Giuridici ed Amministrativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri. “Ho avuto personalmente modo di conoscere e apprezzare Carmelo Cantone, chiamato negli ultimi anni anche a fronteggiare diverse situazioni critiche. Espressione e profondo conoscitore dell’Amministrazione Penitenziaria, saprà farsi interprete delle molteplici esigenze e delle tantissime potenzialità di una realtà da continuare a valorizzare”, ha commentato la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Come sarà la giustizia dopo la riforma Cartabia di Giulia Merlo Il Domani, 18 giugno 2022 Con l’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha concluso quello che è forse il più grande piano per la giustizia degli ultimi governi. Insieme alla riforma civile e a quella penale a formare il pacchetto giustizia, si tratta probabilmente del miglior successo del governo Draghi in politica interna, oltre che la garanzia di aver raggiunto uno degli obiettivi essenziali per l’ottenimento dei fondi europei per il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le condizioni di partenza erano favorevoli: l’inserimento della riforma della giustizia nel Pnrr di fatto ne imponeva l’approvazione. Tuttavia, il contesto politico non lasciava presagire una strada facile: il governo tecnico, infatti, si compone di una maggioranza con posizioni agli antipodi in materia di giustizia. Per questo è servita grande capacità di mediazione, denominata “metodo Cartabia”, per poter trovare una sintesi positiva. I tre testi di riforma erano già stati incardinati dal precedente governo, il Conte 2. Il ministero, però, ha dovuto ripartire quasi da zero per trovare un accordo con la nuova maggioranza estesa dal Movimento 5 Stelle a Forza Italia. Per questo la tecnica della ministra è stata quella di nominare tre commissioni di esperti giuristi, i quali hanno avanzato proposte in parallelo al dibattito con le forze di maggioranza e con le categorie al tavolo con il ministero. Alla fine, Cartabia ha prodotto la sintesi finale sotto forma di emendamenti governativi ai testi già depositati, di fatto riscrivendoli ma con l’accordo politico di massima già raggiunto. In questo modo, il lavoro di commissione ha riguardato solo alcune messe a punto su nodi specifici particolarmente delicati. Il lavoro non è stato semplice e gli inciampi politici sono stati difficili da risolvere: uno ha riguardato la riforma della prescrizione, un altro la legge elettorale del Csm. Impossibile fare già ora un bilancio complessivo. Si tratta, infatti, di leggi delega al governo e solo al momento della messa a terra con i decreti attuativi si potrà iniziare fare una valutazione. L’obiettivo è completare anche i decreti entro la fine della legislatura, così da non correre il rischio che il prossimo governo politico non sfrutti la delega o la parcheggi in fondo ai cassetti del ministero facendola scadere. Rispetto a tutte le precedenti riforme della giustizia, la riforma Cartabia ha un elemento di forza inedito: il grande afflusso di risorse economiche da investire in almeno due settori strategici, ovvero la digitalizzazione e l’assunzione di personale per l’abbattimento dell’arretrato. La grande critica che ha accomunato tutte le precedenti riforme per tentare di velocizzare i processi, infatti, è che si trattava di riforme della procedura ma a “costo zero”. I fondi del Pnrr, quindi, hanno permesso al ministero di implementare nel pacchetto di riforme la digitalizzazione delle strutture e l’informatizzazione dei processi penali (il civile è già telematico) già in parte cominciata con l’emergenza Covid, la ristrutturazione di tribunali e carceri e l’istituzione del cosiddetto Ufficio del processo, ovvero di 16.500 ausiliari per giudici civili e penali, assunti a tempo determinato per smaltire l’enorme mole di arretrato, che si quantifica in circa 3 milioni di cause civili e 1,6 milioni di cause penali. Due riforme, quella civile e quella penale, riguardano sostanzialmente il processo e il suo decorso e introducono misure per velocizzare e semplificare i riti. Sono questi i ddl fondamentali in prospettiva europea, perché dovrebbero permettere il raggiungimento dell’obiettivo prefissato: ridurre la durata dei processi civili del 40 per cento in cinque anni e dei processi penali del 25 per cento. La riforma dell’ordinamento giudiziario, invece, è quella che ha un rapporto solo indiretto con gli obiettivi europei, tuttavia ha il maggior impatto nella dinamica interna della giustizia italiana, perché tocca la vita professionale dei magistrati. Non a caso la sua approvazione è stata forse la più complicata delle tre, ha richiesto la maggiore opera di mediazione. Nelle fasi finali, infatti, via Arenula ha ricevuto anche la dura contestazione dei magistrati, che hanno scioperato contro il testo, e ha dovuto far fronte anche all’iniziativa referendaria di Lega e partito radicale. Civile - Il primo ad essere approvato, nel settembre 2021, è stato il ddl civile e il governo ha deciso di porre la fiducia sul testo nella sua definitiva lettura al Senato. Dei tre ddl è stato il meno controverso dal punto di vista politico, ma il più criticato da magistrati e avvocati civilisti. Innanzitutto la riforma potenzia le cosiddette Adr, ovvero i meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie come la mediazione e la negoziazione assistita (nei processi di lavoro). Rendendo obbligatori in alcuni casi questi strumenti che precedono il processo e prevedendo agevolazioni fiscali, l’obiettivo e di limitare la mole di procedimenti aperti davanti ai giudici civili. In questo modo, il cittadino dovrebbe poter ricevere giustizia in modo più rapido anche se non davanti a un giudice, nei casi in cui è possibile una conciliazione o un accordo. Vengono introdotte anche riforme dii rito: si prevede la l’atto di citazione, che è il primo atto del processo civile, debba già contenere l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti utili a dirimere la controversia, trasformando la prima udienza nel momento clou dell’attività processuale. Quanto al giudizio d’appello, viene reso più stringente il filtro sull’ammissibilità e si semplifica la fase istruttoria del procedimento. Lo stesso vale per il giudizio di Cassazione, in cui viene prevista in via preferenziale la definizione in camera di consiglio e quindi senza dibattimento, ma solo sulla base degli atti del ricorso. Altra modifica importante riguarda il processo esecutivo - ovvero quando bisogna dare applicazione a sentenze - che sconta grandi limiti di efficienza e speditezza. Il ddl semplifica l’ottenimento del titolo per eseguire la sentenza, rafforza le misure dell’esecuzione in mano al giudice in particolare nelle esecuzioni immobiliari (come nel caso del pignoramento di immobili). In questo modo, il recupero di crediti dovrebbe diventare meno difficoltoso per chi ha ottenuto il via libera del giudice. Infine, la modifica strutturale più importante è la progressiva eliminazione dei tribunali minorili (prevista entro il 2024) e il suo accorpamento nel tribunale della Famiglia che diventa una sezione del tribunale civile. In questo modo tutto ciò che riguarda i rapporti familiari viene giudicato da magistrati civili, eliminando l’attuale frammentarietà dei riti. Penale - L’elemento più difficile da risolvere nel ddl penale ha riguardato la riforma della prescrizione, perché ha di fatto abrogato la cosiddetta Spazzacorrotti voluta dal Movimento 5 Stelle, che cancellava la prescrizione dopo il primo grado. La riforma Cartabia, invece, introduce un meccanismo misto: la prescrizione sostanziale (perché calcolata sulla base della pena) cessa di esistere dopo il primo grado; nei gradi di appello e cassazione, invece, opera la cosiddetta prescrizione processuale. Ovvero, il reato diventa improcedibile nel caso in cui il processo superi la durata massima di 3 anni per l’appello e di 1,5 per la cassazione (con tempi più lunghi in via transitoria fino al 2024). Questa soluzione è stata frutto di un accordo politico che non ha convinto i giuristi: questa soluzione, infatti, rende potenzialmente “strabico” il sistema, perché permette giudizi di primo grado più lenti ma poi fa calare una mannaia processuale sugli altri due gradi senza tenere in considerazione il tipo di reato per il quale si procede. In realtà, in Italia sono poche le corti d’appello che non riescono a rispettare i tre anni: una di queste è Napoli. Secondo la ministra, però, la riforma velocizzerà l’intero sistema, quindi la prescrizione tornerà ad essere una patologia rara. Il ddl penale contiene però altre importanti riforme. Si potenzia il processo penale telematico, con la previsione che atti e documenti possano essere formati, conservati, depositati e notificati in via telematica. Si snellisce il meccanismo delle notificazioni: l’imputato non detenuto avrà l’obbligo di indicare recapiti telefonici, ma anche recapiti telematici per ricevere le notifiche. Tuttavia (e questa previsione è stata molto avversata dagli avvocati, che così hanno più oneri), tutte le notificazioni successive alla citazione in giudizio avverranno presso il difensore, così da evitare tutti i casi in cui gli imputati si rendano irreperibili. Soprattutto, però, la riforma introduce tempi di fase processuale fissi, soprattutto per la fase delle indagini preliminari, durante le quali oggi si prescrive più del 30 per cento dei reati. Vengono modificati i termini di durata, a seconda dei reati: 6 mesi dall’iscrizione nel registro delle notizie di reato per le contravvenzioni; un anno e 6 mesi per i delitti più gravi (per cui ora sono previsti 2 anni) e un anno per tutti gli altri. La proroga è possibile una sola volta, per un massimo di 6 mesi, giustificata dalla complessità delle indagini. Decorsi i termini, il pm deve esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione. Infine, il ddl introduce una norma molto criticata dai magistrati perché metterebbe in discussione il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sarà il parlamento attraverso una legge a indicare i “criteri generali di priorità, trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure, per selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza, tenendo conto anche di numero di affari da trattare e dell’utilizzo risorse disponibili”. Tradotto: sarà il parlamento a stabilire i criteri generali di priorità con cui i tribunali perseguiranno reati. Da ultimo, si potenzia la giustizia riparativa: vengono ridisegnate la possibilità di sostituire la pena con pena pecuniaria e anche le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, come la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, ai fini della rieducazione del condannato. A disporle, inoltre, sarà il giudice della cognizione all’interno della sentenza di condanna, quando ritiene di poter sostituire la pena detentiva entro i 4 anni con altre misure. Si ridisegna anche l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, richiamando i principi europei e dando rilievo alla condotta successiva al reato. Ordinamento giudiziario - Questo ddl ridisegna la vita interna delle toghe ed è stato aspramente criticato dall’Associazione nazionale magistrati, secondo cui si limita l’indipendenza della magistratura. Il testo prevede una parte immediatamente attuativa che riguarda la nuova legge elettorale del Csm: i membri diventano 30, il meccanismo è maggioritario binominale con correttivo proporzionale, che dovrebbe ridurre l’influsso delle correnti. Viene poi introdotto il fascicolo per la valutazione del magistrato, che contiene “per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta”. Questo servirà ai fini delle valutazioni di professionalità e quindi gli aumenti progressivi di stipendio, ma anche per “il conferimento degli incarichi” direttivi e semidirettivi da parte del Csm. Nei consigli giudiziari che procedono alle valutazioni potranno votare anche i laici e in particolare gli avvocati, ma solo con voto unitario indicato dal Consiglio dell’ordine e in caso di segnalazione contro un magistrato. Il Csm avrà norme codificate per procedere alle nomine, con divieto di nomine “a pacchetto” ma sempre in ordine cronologico, con audizione dei candidati. Inoltre, la commissione disciplinare verrà separata da quella che procede alle nomine e non potranno esserci membri in comune. Sono stati previsti anche nuovi illeciti disciplinari, tra i quali il mancato rispetto delle recenti norme approvate nel decreto legislativo sulla presunzione di innocenza e - in seguito al caso Palamara - “l’adoperarsi per condizionare indebitamente l’esercizio delle funzioni del Csm, al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sé o per altri”. Viene previsto qualcosa di simile alla separazione delle funzioni: il giudice potrà passare al ruolo di pm e viceversa solo una volta in carriera ed entro 10 anni dall’immissione in ruolo (contro le 4 volte attuali). Infine, viene introdotto lo stop alle porte girevoli: i magistrati che sono entrati in politica non potranno più tornare in funzioni giudiziarie ma verranno collocati fuori ruolo presso i ministeri, quelli che si candidano ma non vengono eletti non possono esercitare nelle regioni dove si sono candidati. I magistrati che invece assumono ruoli apicali ma tecnici dentro i ministeri, come i capi di gabinetto, devono rimanere fuori ruolo un anno prima di rientrare in funzione attiva e non potranno avere incarichi direttivi o semidirettivi per i successivi tre anni. Sisto: “Su certi valori il Paese non può tornare indietro. La riforma è una svolta” di Simona Musco Il Dubbio, 18 giugno 2022 “Questa legge è la migliore possibile, una svolta, considerando l’eterogeneità di questo governo. Dai referendum ci arriva un segnale: su certi valori, questo Paese non può più tornare indietro”. Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto parla con il piglio di chi sa che le leggi non sono sempre perfette, ma anche con la certezza che la soluzione ai problemi non può venire dall’immobilismo, in nome di una fedeltà granitica alle proprie idee che costringerebbe un governo composto da partiti diversissimi tra loro a non prendere mai una decisione. “Si tratta di una riforma di mediazione costituzionale - spiega al Dubbio - e i gruppi parlamentari hanno mostrato grande maturità”. Sottosegretario, come giudica questa riforma? La migliore possibile in questo momento. Tutti i parlamentari sono stati molto maturi nel raggiungere un’intesa che fosse finalmente rispettosa dei principi fondamentali della Carta costituzionale, come l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, l’imparzialità e la terzietà. In uno al rispetto del dato che, per la Costituzione, le leggi le scrive il Parlamento. È stata una bella prova di democrazia parlamentare. C’è stato un confronto e alla fine il Parlamento ha deciso. È anche un bel modo per dimostrare una rassicurante separazione dei poteri, su un terreno sempre difficile qual è quello dei rapporti tra politica e magistratura. È stata una riforma sofferta? Il provvedimento va letto nella sua interezza: complessivamente, i numeri ci dicono che c’è stata una buona tenuta della maggioranza. Certo, ciò non significa che qualche fibrillazione non ci potesse essere, ma giudicando ciò che complessivamente è avvento durante tutto l’iter, la maggioranza è stata ampia, nonostante qualche perplessità della Lega, che ha comunque votato positivamente, mentre Italia Viva si è semplicemente astenuta, ed anche sul voto segreto. Tentativi effettivi di sabotare il provvedimento non ce ne sono stati, a mente fredda. C’è stata invece la capacità di ciascuno di fare un passo indietro per farne insieme due avanti. Questa legge non sarebbe stata scritta senza la presa di coscienza di tutti della necessità di una riforma dell’ordinamento giudiziario e dei criteri che sovrintendono i rapporti tra magistratura e politica, ma anche quelli all’interno della stessa magistratura, con riferimento a talune situazioni che interessano il Csm. Noi di Forza Italia abbiamo delle battaglie storiche, che hanno trovato comunque una risposta, magari migliorabile, ma abbastanza soddisfacente. Ci faccia degli esempi... Penso alla separazione delle funzioni: dare al cittadino la certezza che dopo nove anni dall’ingresso in magistratura saprà se quel magistrato sarà pm o giudice mi sembra un passaggio epocale dal punto di vista delle garanzie. Perché non va dimenticato che il punto di riferimento delle riforme è sempre il cittadino. Mi sembra un passo avanti importantissimo, nel rispetto dell’autonomia e indipendenza, ma soprattutto dell’imparzialità prevista dall’articolo 111 della Costituzione. Sono state poi di fatto abolite le porte girevoli, sia se il magistrato è eletto o chiamato alla carica politica, sia se non viene eletto, con differenziazione ovvie, ma in qualche modo chi fa politica non rientra più, o fa fatica a rientrare, nelle aule giudiziarie. E questo è un secondo passaggio estremamente rilevante. Terzo, c’è stata una delega alla riduzione dei fuori ruolo, sia per numeri sia per tempo di permanenza: questo è un provvedimento che si rivolge alla magistratura ‘ di dovere’ e non a quella ‘ di potere’ e cerca di privilegiare chi lavora nelle aule giudiziarie, ricordando alla magistratura che il giudice lo si fa in quelle aule e tutto quello che è al di fuori deve costituire sempre un’eccezione. Poi, ancora, c’è il voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari: l’avvocatura viene giustamente messa nell’orbita del pianeta giustizia - qualcuno recentemente se n’era un po’ dimenticato -, non ci si ricorda mai abbastanza che l’avvocato viene scelto direttamente dall’assistito, dalla gente comune. L’avvocatura rappresenta direttamente il cittadino, con un mandato specifico e personalissimo; questo mi sembra legittimi la necessità di una presenza qualificata, nel rispetto del 24 della Costituzione, anche all’interno dei consigli giudiziari. Poi c’è la nuova legge elettorale per il Csm, che non è certamente un antidoto, un filtro magico che possa fare miracoli, ma è un passo avanti notevole, perché evita taluni meccanismi, ipercontrollati in passato dalle correnti. E questo maggioritario binominale con correttivo proporzionale in qualche modo rende davvero più difficile il controllo del voto da parte delle correnti. Alle quali, sia chiaro, non sono contrario: rappresentano una convergenza di opinioni assolutamente legittima. Quello che non va bene è quando tracimano nelle cordate, nella gestione del potere. La lottizzazione correntizia è il fenomeno che abbiamo cercato di combattere con questo provvedimento. Ci siamo riusciti? Non del tutto, ovviamente. Ma grazie anche alla pazienza di tutti, su é arrivati ad un buon provvedimento che, proprio perché non soddisfa tutti, può essere una buona transazione. Italia Viva e Lega hanno evidenziato che la riforma non cambia nulla. Come risponde? Ritengo questa legge la migliore possibile, con un governo con provenienze culturali e idee così diverse. Si pensi all’atteggiamento ipergarantista di Forza Italia e l’atteggiamento molto meno garantista del M5S, alle posizioni del Pd rispetto a quelle della Lega, all’indipendentismo di Italia Viva: tutto si poteva pensare meno che fosse facile, su un tema così delicato, trovare una soluzione. Che si dica che questo è un provvedimento inutile è sbagliato. Non solo è utile, ma segna una svolta, tutta intrisa di Costituzione. Il nostro Paese va, per fortuna oggi decisamente, verso un disegno di rapporti tra magistratura e politica e tra magistratura e cittadino capace di evitare invasioni di campo e di garantire il rispetto dei cardini indicati dalla Costituzione. Non vorrei che qualcuno potesse pensare che l’immobilismo possa essere un rimedio, bisognava restituire smalto alla magistratura, nel generale interesse. Mi ha stupito lo sciopero dell’Anm, legittimo ma, dopo tanti incontri, ingiustificato. Il presidente dell’Anm, poco dopo il voto in Senato, ha sollevato dubbi di costituzionalità. Ieri il professor Cassese ha invece assicurato che tali dubbi non sussistono... Non condivido queste ipotesi. E Cassese dice bene: nessuno ha mai ipotizzato alcun profilo di incostituzionalità e non si comprende quali dovrebbero essere. In tutti i casi, tutte le opinioni sono benvenute se servono a tutti ad avere le idee più chiare, ma obiettivamente, essendo questa riforma stata coniata con il beneplacito della già presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, ritengo la polizza assicurativa in materia assai solida. Parliamo di referendum: Forza Italia lo ha sostenuto e alcune norme contenute nella riforma vanno in questa direzione... Il referendum è espressione di democrazia diretta, le riforme sono frutto della democrazia rappresentativa e quindi di una necessaria mediazione. Ma i beni tutelati sono gli stessi: i valori della Costituzione. Vi era identità di tutela, diversità di terapia. A mio avviso, il fatto che i referendum non abbiano raggiunto il quorum, pur con il significativo segnale della prevalenza dei Sì sui No, doveva dare ulteriore impulso, come poi avvenuto, all’approvazione della riforma. Non trovo nessuna dissonanza tra le due cose, solo una diversità di metodo: i referendum volevano abrogare, la riforma ha costruito. Al netto del mancato raggiungimento del quorum, che lettura dà ai Sì? L’importanza dei referendum, al di là del raggiungimento del quorum, era quello di stabilire, com’è accaduto, che questo è un Paese che non può più tornare indietro sulla tutela di certi beni, certi valori e certe indicazioni. Cioè sui beni protetti dalla Carta costituzionale. Il segnale è chiaro. È un punto di partenza, ma c’è ancora tanto da fare. Secondo lei che cosa si dovrebbe fare in futuro per completare questo percorso? Tutte le leggi sono migliorabili e anche questa. È evidente che è necessario tenere conto, nelle democrazie rappresentative, di tutti i soggetti che possono pensarla diversamente. Non è la nostra riforma, quella di Forza Italia, ma è un grande passo avanti. Va detto però che ci vuole anche la pazienza di vederne gli effetti. Abbiamo coniato alcune norme che ci daranno l’idea di come, in concreto, può migliorare il sistema. Le leggi non sono scritte nella roccia: bisogna avere la capacità, con una sorta di work in progress continuo, di attendere e intervenire dove è necessario. Una sorta di sperimentazione incessante, ma con la disponibilità a mettere le proprie professionalità e competenze al pieno servizio del Paese. Con la riforma Cartabia il potere delle correnti è rimasto immutato di Roberto Cota Il Riformista, 18 giugno 2022 L’altro ieri il Senato ha approvato in via definitiva la cosiddetta riforma Cartabia. Nell’esatto testo già approvato dalla Camera, senza emendamenti. Non si può dire che questa riforma sia negativa. È comunque un miglioramento rispetto all’esistente. Nemmeno, però, si può definirla una rivoluzione, tale da riportare pienamente il nostro sistema nell’alveo dello stato di diritto. Rappresenta un piccolo passo avanti in quanto ci saranno dei cambiamenti in linea con le proposte di riforma che hanno dato la stura al movimento referendario. Innanzitutto, con riferimento alla separazione delle funzioni tra pm e giudice, sarà possibile un solo passaggio tra funzione inquirente e giudicante, entro i primi 10 anni. Una novità positiva, certo, rispetto alla previsione attuale (che rende possibili quattro passaggi). Inoltre, chi decide di dedicarsi alla politica e viene eletto, non potrà più tornare a fare il giudice. Cosa buona e giusta. Altro aspetto, gli avvocati potranno portare la voce dei rispettivi ordini professionali all’interno dei consigli giudiziari e votare anche quando si tratta di valutare i magistrati. Bene. Inoltre, altro cambiamento positivo è quello relativo ad una maggiore trasparenza introdotta rispetto alla formazione e all’aggiornamento del fascicolo personale del magistrato, alla tempistica delle nomine ed alla valutazione dei curricula per l’assegnazione degli incarichi direttivi. Restano però irrisolte le grandi questioni. Prima di tutto, quello legata allo strapotere delle correnti all’interno del Csm che si manifesta in sede di elezione della componente togata che avviene oggi attraverso liste che si identificano in partiti/correnti. La riforma Cartabia non ha avuto il coraggio di introdurre il sorteggio; si è preferito modificare il sistema elettorale attuale inserendo dei presunti correttivi. Si tratta di una toppa che oggettivamente è peggio del buco. Il sistema elettorale introdotto è farraginoso e comunque tutto sarà ancora in mano alle correnti, esattamente come prima. Inoltre, non viene affatto affrontato il tema della presunzione di non colpevolezza applicato alle cariche elettive (legge Severino) e nemmeno quello degli abusi di custodia cautelare. Men che meno si toccano gli aspetti legati allo strapotere dei pm nelle indagini prima che nel processo ed alla sistematica compressione dei diritti della difesa, caratteristica delle leggi approvate in questi ultimi anni. La riforma Cartabia rispetto ai mali che affliggono la giustizia è un’aspirina. In questo momento, di più non è possibile ottenere. È evidente che si aspettano tempi migliori. Speriamo arrivino. Amministrazione e Giustizia 4.0 di Anna Corrado Corriere della Sera, 18 giugno 2022 I Tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato già da qualche anno hanno raccolto la sfida. Un giorno non molto lontano, verosimilmente, un’automobile a guida autonoma ci condurrà direttamente all’indirizzo desiderato scegliendo in autonomia il percorso più veloce; il frigorifero di casa sarà collegato al carrello della spesa del supermercato e i prodotti arriveranno in automatico a casa; gli interventi chirurgici saranno eseguiti solo da robot, le città saranno “smart” con gestione e organizzazione del traffico, dei rifiuti, delle problematiche ambientali affidati a sistemi di intelligenza artificiale; infine, i rapporti con le pubbliche amministrazioni saranno automatizzati e non sarà più necessario recarsi presso gli uffici pubblici per istanze e documenti perché tutti i procedimenti saranno digitalizzati e disponibili dal computer di casa. Naturalmente i vantaggi che la vita segnata dagli algoritmi, di apprendimento o meno, non sarà senza costi: significherà aver risolto in qualche modo i dilemmi etici che la tipologia di istruzioni da impartire alle macchine pongono, aver sacrificato almeno un po’ della nostra riservatezza e corso il rischio, alla lunga, di vedere indebolita la nostra capacità decisionale, consegnandoci ai vantaggi delle cosiddette decisioni “robotiche”. Questo il futuro prossimo venturo visto che la strada per la digitalizzazione, la telematica e l’informatica corre veloce e che inevitabilmente sarà la tecnologia a soddisfare i nostri bisogni. Il problema che si pone da subito, in disparte il possibile approccio emotivo al tema, è quello della tutela dei diritti della persona e delle situazioni giuridiche soggettive per come oggi siamo abituati a intenderle e a tutelarle. Il tema dei temi sarà, in particolare, quello di assicurare al cittadino il rispetto dei suoi diritti e delle sue prerogative allorquando saranno le macchine a farsi carico delle sue istanze e delle richieste di beni, servizi e prestazioni. Il tema si pone già oggi e in modo rilevante nei rapporti con la pubblica amministrazione, per i quali il cittadino si aspetta che i principi, consacrati nel 1990 con la legge 241 per la sede procedimentale, continuino a trovare applicazione. Sarà la macchina (per come progettata dall’uomo) in grado, con la sua procedura algoritmica, di assicurare partecipazione, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, chiarezza ed esaustività della motivazione della scelta amministrativa? Resisteranno, quali principi insormontabili, di fronte al “miraggio” dell’efficienza, della speditezza e della semplificazione amministrativa? La tutela dell’interesse legittimo che segna il rapporto tra cittadini e amministrazione, rappresenta la moderna sfida non solo dell’Amministrazione 4.0 ma anche della Giustizia 4.0, soprattutto di quella amministrativa. Una sfida che comunque sia i Tribunali amministrativi regionali che il Consiglio di Stato hanno già da qualche anno raccolto con le proprie pronunce provando a dare risposte di giustizia al cittadino, anche con riguardo a decisioni amministrative algoritmiche. L’utilizzo di piattaforme telematiche e di procedure digitali nell’ambito degli appalti pubblici e nelle procedure concorsuali per il reclutamento di personale nelle amministrazioni, il cui utilizzo ha visto negli ultimi tempi una forte accelerazione, complice anche la pandemia, ha già portato ad alcuni interventi giurisprudenziali che hanno a loro volta alimentato un vivace dibattito dottrinale. Che un procedimento amministrativo sia affidato a un software risponde a canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e si pone certamente in linea con il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa, in quanto consente di realizzare i fini istituzionali con minor dispendio di risorse e riduzione dei tempi procedimentali. Ma il digitale non è senza limiti. L’attività amministrativa che ha occasionato il “futuristico” filone giurisprudenziale, riferita in particolare a una procedura di trasferimento di insegnanti da parte del Ministero dell’Istruzione, ha condotto il giudice amministrativo a riconoscere al cittadino il diritto di accedere al linguaggio sorgente del software utilizzato dall’amministrazione per disporre i trasferimenti e quindi ad affermare i principi che devono essere assicurati quando si utilizzano strumenti informatici: conoscibilità, comprensibilità, non esclusività della decisione algoritmica (prevedendo il contributo umano nel processo decisionale), tutela dei dati personali, divieto di discriminazioni. Non solo, alcune recenti procedure concorsuali hanno rappresentato l’occasione per affermare che l’utilizzo dell’informatica e delle procedure digitalizzate nell’ambito della pubblica amministrazione se, da una parte, comportano efficienza, dall’altra non possono rappresentare una limitazione dei diritti dell’interessato in quanto devono collocarsi in una posizione servente rispetto ai procedimenti in cui si inseriscono non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e amministrazione. Insomma, l’interesse legittimo è al banco di prova dell’algoritmo, sperando che sia una sfida che si possa comunque vincere. Consulta: l’avvio di un procedimento penale non basta per perdere il lavoro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2022 La Corte costituzionale, sentenza n. 152 depositata ieri, ha dichiarato parzialmente illegittima la norma secondo cui gli addetti all’attività di controllo del “biologico” non devono “essere interessati da procedimenti penali in corso”. La Consulta boccia la previsione secondo cui gli addetti all’attività di controllo della produzione agricola e agroalimentare biologica non devono “essere interessati da procedimenti penali in corso” pena la perdita del lavoro. La sentenza n. 152 depositata oggi ha infatti ritenuto non corretto il bilanciamento degli interessi in gioco fatto dal Legislatore rilevando un difetto di “coerenza e ragionevolezza intrinseca”. I delitti interessati sono quelli previsti dagli articoli 513 (Turbata libertà dell’industria o del commercio), 515 (Frode nell’esercizio del commercio), 516 (Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine), 517 (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci), eventualmente aggravati ai sensi dell’articolo 517-bis, oppure dei delitti previsti dagli articoli 640 (Truffa) e 640-bis (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) del Cp o, comunque, delitti non colposi per i quali è comminata la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni. La disposizione censurata, spiega la decisione, “collega conseguenze pregiudizievoli per la persona, privandola del requisito di idoneità morale …, in modo automatico per il solo fatto di “essere interessata da procedimenti penali in corso”, anche a prescindere da una formale imputazione e dal relativo vaglio del giudice; ciò che certamente è all’inizio del procedimento penale con l’iscrizione della persona nel registro delle notizie di reato (art. 335 cod. proc. pen.), ma lo è anche in seguito con la notifica dell’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis cod. proc. pen.)”. Diverso invece era il caso della Legge Severino dove è stata riconosciuta l’adeguatezza del bilanciamento e dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11, comma 1, lettera a), del Dlgs. n. 235 del 2012. La norma infatti, prosegue il ragionamento, prevede la sospensione di diritto dalla carica di amministratore locale di coloro i quali siano stati condannati in via non definitiva per determinati reati contro la pubblica amministrazione. Vi è dunque almeno il requisito della condanna benché non definitiva. Con la sentenza n. 236/2015 la Consulta aveva affermato che di fronte a una grave situazione di illegalità nella Pa, “una condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un “inquinamento” dell’amministrazione e per garantirne la “credibilità” presso il pubblico … talché la scelta operata dal legislatore … si colloca all’interno dei confini di un ragionevole bilanciamento dei vari valori costituzionali …”. Invece, prosegue la Corte, nella fattispecie in esame, il bilanciamento è stato operato in maniera “non equilibrata, con sacrificio non proporzionato di chi, essendo in possesso dei requisiti di moralità per esercitare l’attività di controllo, si trova ad essere “interessato da procedimenti penali in corso” per determinati reati”. La valutazione dell’interesse ad evitare che l’attività di controllo “è anticipata a tal punto da impedire lo svolgimento di un’attività lavorativa, quale conseguenza già dell’essere la persona “interessata” da un procedimento penale”. Il principio di ragionevolezza viene così “posto in sofferenza proprio dall’estensione, coniugata all’automatismo della misura”. E sul punto la Corte ricorda che l’esigenza secondo cui “la mera iscrizione del nome della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo” è stata tenuta presente dal legislatore nella recente delega legislativa conferita al Governo per le modifiche al Cpp in materia di indagini preliminari e di udienza preliminare e alle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, tanto da essere elevata a specifico principio e criterio direttivo per il legislatore delegato. In conclusione la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20, recante “Disposizioni di armonizzazione e razionalizzazione della normativa sui controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, predisposto ai sensi dell’articolo 5, comma 2, lett. g), della legge 28 luglio 2016, n. 154, e ai sensi dell’articolo 2 della legge 12 agosto 2016, n. 170”, limitatamente alle parole “o essere interessati da procedimenti penali in corso”. Padova. Muore in cella a 2 mesi dalla libertà. I testimoni: “Poteva essere salvato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2022 Era un marocchino di 26 anni, recluso al Due Palazzi di Padova. I detenuti raccontano che il medico è arrivato 40 minuti dopo l’allarme, e l’ambulanza un’ora più tardi. Poteva essere salvato il detenuto morto mercoledì scorso nel carcere di “Due Palazzi” di Padova? Dalle testimonianze dei detenuti stessi sembrerebbe di sì. Se verranno confermati i loro racconti, sembra che il soccorso sia avvenuto in forte ritardo. Il fatto è accaduto al quarto piano A. Parliamo di un ragazzo marocchino di 26 anni, al quale mancavano poco meno di tre mesi per finire di espiare la pena. Le testimonianze raccolte dalla redazione di “Ristretti Orizzonti” - La redazione di Ristretti Orizzonti è riuscita a raccogliere la testimonianza dei detenuti del blocco 4A della Casa di Reclusione di Padova. Si apprende così, che il ragazzo deceduto si chiamava Muhamed Elhabchi, di nazionalità marocchina. Aveva scontato quasi 4 anni e gli mancavano 2-3 mesi per finire la condanna. I detenuti raccontano che ha cominciato a sentirsi male verso le 17 di mercoledì 15 giugno. Dopo le urla dei detenuti, il medico sarebbe arrivato dopo 40 minuti. “Lo ha guardato e ha chiamato le barelle che non sono mai arrivate. È andato giù e dopo è salita con la faccia pallida una dottoressa in evidente difficoltà”, testimoniano i detenuti del quarto piano. Secondo i detenuti del carcere di Padova sarebbe morto in carcere - Dopo un’ora è arrivata la Croce Rossa, hanno provato a fare la rianimazione cardiaca alle 19.40. Ai detenuti pare che il ragazzo sia deceduto in carcere, però e stato detto loro che era vivo e che avrebbero fatto sapere notizie dall’ospedale. “Dopo 2 ore circa ci hanno detto che il ragazzo non ce l’ha fatta ed è deceduto. Dopo tutto questo hanno chiuso i campanelli d’allarme che avevamo acceso tutti noi. Dei detenuti qualcuno è svenuto, qualcuno si è tagliato. Il ragazzo non aveva nessuna malattia, non fumava, assumeva terapie per dormire”, così testimoniano sempre i reclusi del blocco 4A. L’unica ipotesi che ha provocato la morte, (dicono i suoi compagni), potrebbe essere l’assunzione d’un miscuglio di farmaci diversi probabilmente non prescritti da un medico. La procura di Padova ha aperto un fascicolo sul caso - Resta il fatto che tutti i ragazzi di quella sezione sostengono che se fossero arrivati i soccorsi giusti e in tempi giusti, Muhamed sarebbe ancora vivo e fra 2 mesi avrebbe potuto riprendersi la sua vita in libertà a soli 26 anni e con una lunga vita davanti. Sulle dinamiche che hanno portato al decesso del giovane - si apprende dal Corriere del Veneto - è ora al lavoro la procura di Padova, che ha ufficialmente aperto un fascicolo d’inchiesta su quali farmaci o sostanze abbiano materialmente causato la morte del detenuto, chi sia riuscito a fornirgliele sin dentro le mura del carcere e soprattutto se sia da imputare ad un’overdose accidentale o se si sia trattato piuttosto di un suicidio. Però, a questo punto, visto la testimonianza raccolta da Ristretti Orizzonti e riportata ora da Il Dubbio, dovrebbe aggiungersi anche una indagine per fare chiarezza sulla dinamica dei soccorsi. Padova. Detenuto morto, allarme del Garante: “È il terzo caso in meno di 2 mesi” di Rashad Jaber Corriere del Veneto, 18 giugno 2022 “Purtroppo è il terzo caso in meno di due mesi, la situazione deve essere tenuta sotto controllo. I disagi nelle strutture carcerarie sono una realtà drammatica, con cui si deve fare i conti”. Nessuna polemica nelle parole con cui il professor Antonio Bincoletto, garante dei detenuti di Padova, ha voluto commentare il decesso di Muhamed Elhabchi, ventiseienne marocchino morto nel pomeriggio del 15 giugno al quarto piano della casa circondariale di Padova, probabilmente per aver ingerito una quantità letale di farmaci. Mancavano solo tre mesi alla sua scarcerazione. Non è ancora chiaro se il suo gesto sia stato o meno volontario. “Ci sono anche episodi che non arrivano agli onori della cronaca - ha proseguito il professor Bincoletto - come la storia di un detenuto che ha letteralmente salvato il proprio compagno di cella che si stava per suicidare, ma sono tutti sintomi di una situazione che non deve essere ignorata, in nessun modo”. I riflettori sono puntati sul Due Palazzi da quando, nel tardo pomeriggio di mercoledì, tutti i detenuti del quarto piano sono esplosi in una grande protesta dopo aver appreso della morte del ventiseienne marocchino. Oltre ad aver lamentato infatti un intervento ritenuto tardivo da parte del personale medico, le ragioni della rabbia e dell’insofferenza di queste persone risiederebbero nelle condizioni sempre più precarie in cui versano gli istituti penitenziari italiani. Anche i sindacati della Polizia penitenziaria hanno cercato nei mesi scorsi di focalizzare il dibattito pubblico sullo stato di salute della realtà carceraria, un argomento che fin troppo spesso si sceglie di ignorare, condannando sia chi vi lavora sia chi vi è rinchiuso ad una quotidianità precaria e degradante. Appena pochi mesi fa, il 12 di aprile, il coordinamento unitario dei sindacati di polizia penitenziaria era sceso in piazza proprio a Padova, per chiedere rinforzi ad un organico che vive ormai una carenza cronica. Sul decesso del ventiseienne è al momento aperta un’indagine da parte della procura, grazie alla quale si confida di poter ricostruire l’esatta dinamica dei fatti quanto prima. “Sono sicuro che l’autorità giudiziaria farà luce su tutta questa tragica vicenda - ha aggiunto Mirco Pesavento, segretario provinciale del sindacato autonomo di polizia - come sono altrettanto sicuro del comportamento professionale e corretto degli operatori intervenuti”. Pavia. Indagine interna e della procura sul quarto suicidio in carcere in 8 mesi di Maria Fiore La Provincia Pavese, 18 giugno 2022 Il detenuto in isolamento anche se aveva manifestato disturbi di comportamento. La presidente di Antigone: “Grave disagio, in Lombardia già 14 casi in un anno” Una doppia inchiesta sul detenuto morto suicida nel carcere di Torre del Gallo, il quarto caso in otto mesi (14 in tutta la Lombardia da giugno dello scorso anno). Una indagine interna è stata avviata dai vertici della struttura, ma anche la procura ha aperto un fascicolo. L’obiettivo è fare luce sulle circostanze in cui è avvenuto il dramma e la sua dinamica, ma anche su eventuali responsabilità. L’uomo, Emilio Di Fabio, di 40 anni, aveva infatti manifestato in passato problemi di comportamento. Ciononostante era stato collocato in cella da solo, nella sezione chiusa dei reclusi per reati comuni. Di fatto si trovava in isolamento. Gli accertamenti dovranno stabilire se la sua situazione fosse seguita in modo adeguato dal servizio di medicina interna del carcere oppure se possa esserci stata una sottovalutazione delle condizioni di salute psicologica del recluso. Gli agenti della penitenziaria ieri hanno effettuato una ispezione della cella, nella sesta sezione del carcere, che è quella destinata a ospitare i detenuti che si sono macchiati di reati comuni. Una relazione sarà poi inviata al magistrato, che dovrà decidere se disporre l’autopsia. Da quanto è stato ricostruito il 40enne, descritto come una persona introversa, si trovava nella sua cella quando ha deciso di mettere in atto il suo proposito legando un lenzuolo alle sponde del letto. Un agente si è accorto che qualcosa non andava ma quando è entrato in cella era ormai troppo tardi. Inutile l’intervento dei medici della struttura e dell’ambulanza del 118. La situazione del carcere di Torre del Gallo, come di altre strutture lombarde, è seguita da mesi da Antigone, l’associazione che tutela i diritti dei detenuti. “Questo quarto caso a Pavia si somma a una serie di gravi fragilità che abbiamo riscontrato a livello regionale in tutte le case circondariali e che richiedono forse una maggior presa in carico delle difficoltà del post Covid - dichiara Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia -. Ogni suicidio è a sé, ma i numeri stanno diventando troppo significativi. Il dato che abbiamo è di un aumento della sofferenza nelle carceri, con cui bisogna fare i conti”. In un anno, da giugno 2021 a oggi, si sono registrati nelle strutture carcerarie 14 suicidi, compreso l’ultimo avvenuto a Torre del Gallo. “La Lombardia rimane una regione con un tasso di sovraffollamento significativo - aggiunge Verdolini -. Sicuramente devono essere fatte riflessioni di più ampio respiro. A Pavia, ad esempio, durante l’ultima visita, a gennaio, avevamo riscontrato diverse criticità. Servono interventi strutturali e un aumento del numero di educatori e di progetti verso l’esterno”. Cassino (Fr). Morto in carcere, il Gup riapre il caso di Mimmo D’innocenzo di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 18 giugno 2022 La decisione è arrivata dopo una lunga camera di consiglio: la famiglia aveva fatto opposizione alla richiesta di archiviazione arrivata dopo una lunga indagine della Procura. Il Gup del tribunale di Cassino ha disposto la riapertura dell’indagine sulla morte di Mimmo D’Innocenzo, il trentunenne romano deceduto nel carcere di Cassino il 27 aprile del 2017. La decisione è arrivata al termine di una lunga camera di consiglio e dopo la richiesta di opposizione all’archiviazione avanzata dai familiari del giovane. La Procura di Cassino, a conclusione di una lunga indagine, aveva ritenuto che non ci fossero elementi per aprire un processo a carico di tre persone, tutte dipendenti della struttura penitenziaria di via Sferracavalli. Gli elementi forniti dalla difesa della famiglia, rappresentata dall’avvocato Giancarlo Vitelli, sono stati ritenuti validi dal Gup Marco Marcopido che ha quindi disposto l’apertura di un processo a carico di un medico, un infermiere ed un detenuto che al momento del malore prima e della morte poi erano accanto al 31enne. I tre hanno sempre riferito una versione che oggi non sembra essere ritenuta attendibile. I fatti risalgono alla sera del 27 aprile quando Mimmo D’Innocenzo viene portato in infermeria, a seguito di un malore e qui sarebbero stati presenti un medico ed un’infermiera. I sanitari, invece, ascoltati dal magistrato riferiscono di non aver visitato nessuno. Un altro mistero riguarda l’improvvisa sparizione, come riferisce l’avvocato Vitelli, che rappresenta la famiglia D’Innocenzo, “di tutto il carteggio del diario clinico del carcere del mese di aprile”. Infine e non meno importante è stato l’esito dell’autopsia che ha confermato l’avvenuta iniezione sul ragazzo. Il foro sul braccio, come refertato dal medico legale, era stato praticato nell’arco delle 24 ore precedenti la morte del giovane”. Ora con la riapertura del caso la madre di Mimmo, Alessandra Pasquire, può finalmente trovare quel minimo di serenità. La donna, insieme a tutta la famiglia, si è battuta in ogni modo per accendere i riflettori su una vicenda assurda. Mimmo è finito in carcere per una tentata rapina commessa in un supermercato vicino casa ed in uno stato di alterazione psico-fisica. Il giovane, infatti, quando aveva venti anni rimase vittima di un tragico incidente stradale al quale è sopravvissuto ma che lo profondamente segnato. Bolzano. Nuovo carcere, ora il governo accelera. Cartabia: “Urgente sbloccare i fondi” di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 18 giugno 2022 Sovraffollato, con poco personale, locali angusti e per certi versi fatiscenti. Usando le parole della ministra della Giustizia Marta Cartabia, “inadeguato, non soltanto per le condizioni, ma anche per gli spazi”. Il carcere di via Dante ha ospitato ieri la visita della guardasigilli, accompagnata tra gli altri anche dal presidente Arno Kompatscher, dall’assessore provinciale Massimo Bessone e dal sindaco Renzo Caramaschi. Un sopralluogo fortemente voluto sia dalla Provincia che dalla Cartabia, dato che le parti sono arenate da troppo tempo nel dibattito sulla realizzazione del nuovo penitenziario, non lontano dall’aeroporto. Questione di fondi e di appalti: la nuova struttura dovrebbe costare sui 110 milioni di euro, e il progetto è andato in mano a Fincantieri dato che l’azienda vincitrice del bando (la Condotte Spa) è finita in amministrazione straordinaria dopo aver rischiato il fallimento. Per far partire il cantiere serve capire chi mette quanto e quando, come ribadisce anche il presidente Kompatscher: “Nel giro di pochi giorni avremo un incontro a Roma per cercare di mettere d’accordo il Ministero dell’economia, quello della giustizia e la Provincia stessa. Sarà un incontro sia politico che tecnico, speriamo che possa essere risolutivo”. Semaforo verde che dunque sembra vicino, anche se il Landeshauptmann non si sbilancia su un’eventuale tabella di marcia: “Le tappe saranno stabilite al momento dell’incontro, intanto era importante rendere partecipe la ministra Cartabia della situazione del carcere cittadino: una struttura impossibile da ristrutturare qui sul posto” ribadisce. I numeri parlano da soli: secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero, la casa circondariale di via Dante ospita poco più di un centinaio di detenuti, contro gli 88 posti previsti da regolamento. Sul fronte del personale i numeri sono ancora più impressionanti: in organico ci sono 57 agenti di polizia penitenziaria (ne servirebbero 75), 7 dipendenti amministrativi e un educatore (ce ne vorrebbero rispettivamente 25 e 4). Da qui la necessità di dotarsi di una nuova struttura, tramite un progetto di partenariato pubblico-privato: secondo le stime originali, ospiterà fino a 200 detenuti, 100 operatori di polizia penitenziaria, 30 posti per agenti in caserma e 25 unità di personale civile. Ora anche la ministra dice che bisogna fare presto: “Avevo promesso al presidente Kompatscher che sarei venuta, e questa visita mi conferma la necessità di intervenire prontamente per dotare Bolzano di una nuova struttura” scandisce l’esponente del Governo Draghi. “Non ci sono spazi trattamentali e spazi all’aperto. Sentiamo l’urgenza di risolvere gli ultimi problemi, che riguardano aspetti finanziari, per poter portare a termine il progetto del nuovo carcere”. Dalla ministra poi un ringraziamento al personale: “Gli agenti di polizia, la direttrice, il provveditore, stanno facendo quasi l’impossibile, ma dobbiamo affrontare l’inadeguatezza di fondo della struttura”. Sulle condizioni del carcere si è espresso anche il deputato bolzanino della Lega Filippo Maturi: “Occorre tutelare chi lavora all’interno di una struttura non idonea, anacronistica e sotto soglia rispetto agli standard minimi. Le difficoltà burocratiche ci sono, ma il nostro territorio è un esempio concreto di ciò che la politica possa ottenere con la giusta dose di determinazione” commenta in una nota. Dalla Cartabia intanto è arrivata un’apertura importante: “C’è convergenza, ora bisogna andare avanti” hanno ribadito più volte i protagonisti della vicenda durante la visita: il tour parte dalla cinta muraria, che si affaccia da un lato sui prati del Talvera e dall’altro sul cortile interno del carcere. I detenuti sembrano incuriositi dall’arrivo delle istituzioni: qualcuno ci tiene a raccontare la sua esperienza, con la ministra che ascolta in silenzio mentre il gruppetto si snoda tra una cella e l’altra (e qualche sala che non sarebbe pensata per ospitare carcerati, ma bisogna fare di necessità virtù). Sulla carta l’unità di intenti c’è, ora resta da capire se questo si tradurrà in finanziamenti. E anche in tempi certi visto ormai da anni il progetto di un nuovo carcere è bloccato. Forlì. “Donne oltre le mura”: l’arte urbana arriva in carcere con il murales di Pax Paloscia forlitoday.it, 18 giugno 2022 Il soggetto scelto per l’opera di street art è una fenice mitologica e simboleggia l’auspicio di “rinascere dalle proprie ceneri”. È stato inaugurato venerdì il murales di “Donne oltre le mura: arte urbana in carcere”, il progetto a cura di Città di Ebla in collaborazione con il Centro Donna del Comune di Forlì e la Casa Circondariale di Forlì, co-finanziato dalla Regione Emilia-Romagna e dalle imprese che hanno contribuito con il loro supporto materiale, con il patrocinio della Fondazione Dino Zoli. Il progetto - iniziato nel 2020 ma che ha avuto una sua battuta d’arresto a causa della pandemia Covid-19 - si basa su un percorso di sensibilizzazione alla parità tra uomo e donna, contro la violenza e la discriminazione di genere, attraverso la produzione di un murale a tema collocato in un punto particolare della Casa Circondariale di Forlì: il corridoio all’aperto che permette agli ospiti di visitare i/le detenuti/e. Il murale è stato realizzato grazie alla partecipazione di alcune detenute della Casa Circondariale di Forlì nell’arco alcuni giorni (13-17 giugno) coordinate da Pax Paloscia, artista il cui lavoro è influenzato dalla cultura di strada ed è una continua contaminazione di linguaggi che vanno dalla pittura alla fotografia e dai collage ai video. Pax ha già avuto un’analoga esperienza con il progetto Outside/Inside/Out - Arte a Regina Coeli, dove alcuni detenuti hanno avuto la possibilità di lasciare un segno della loro creatività sulle pareti interne del carcere romano. La realizzazione dell’opera, oggi visibile, chiude idealmente un percorso iniziato da Città di Ebla nel 2017 e proseguito negli anni successivi con il ripristino di due murales cileni in città e la realizzazione di tre murales ex-novo nell’area dell’Ex Fabbrica Battistini, oggi Piazzetta delle Operaie. “Agire in questo contesto - dichiara Claudio Angelini, direttore di Città di Ebla - per noi significa portare la pittura muraria verso un’esperienza viva. Non è il risultato estetico, pur pregevole, che ci interessa, ma il processo a cui abbiamo dato vita nei diversi contesti. Nel caso dei murales cileni è stato attivato un percorso di coinvolgimento con gli studenti del Liceo Artistico e Musicale Canova di Forlì, per i murales realizzati all’Ex Fabbrica Battistini con gli attuali residenti della zona del centro storico ed infine, in quest’ultima situazione, con tre ragazze detenute insieme a Pax Paloscia, ideatrice del bozzetto e conduttrice dell’azione pittorica, e da Barbara Longiardi, coordinatrice del progetto. Pertanto per noi il precipitato su muro non è altro che la testimonianza di un percorso vivo e che da questa vitalità trae forza”. Il soggetto scelto, una fenice mitologica, riguarda l’auspicio di “rinascere dalle proprie ceneri”, ad indicare un periodo difficile ed infausto della vita. Grazie ad esso l’individuo si forgia per rinascere più forte di prima. La sua collocazione, nel punto di congiunzione fra il “dentro” e il “fuori” - siamo nel corridoio da cui entrano in carcere i visitatori dei detenuti - getta idealmente un ponte di collegamento affinché il tempo di detenzione sia il prodromo di una nuova vita le cui azioni seguano strade diverse da quelle che hanno portato le persone, le donne in particolare, all’interno di questa struttura. Spoleto (Pg). Inaugurata “Evangelium intra moenia”, la mostra dei detenuti umbriacronaca.it, 18 giugno 2022 È stata inaugurata ieri nella Basilica Cattedrale di Spoleto la mostra “Evangelium intra moenia”, ossia le interpretazioni grafiche sul Vangelo realizzate dai detenuti del Carcere di Spoleto per le schede di catechesi utilizzate dai bambini e dalle famiglie nell’anno pastorale 2021-2022. Nel Salone dei Vescovi del Palazzo Arcivescovile è stato illustrato il progetto. Erano presenti: l’arcivescovo Renato Boccardo; il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia Antonio Minchella; il Procuratore della Repubblica di Spoleto Alessandro Cannevale; i tre Magistrati di Sorveglianza di Spoleto (Nicla Flavia Restivo, Grazia Manganaro e Fabio Gianfilippi); il Direttore del Carcere di Spoleto Chiara Pellegrini; il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Spoleto Maria Letizia Angelini Paroli; il Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici dell’Umbria Simone Budelli; Autorità militari e di polizia; alcuni Dirigenti scolastici. Il progetto è stato curato dall’ufficio catechistico e dalla Caritas diocesana, diretti rispettivamente da Sabrina Guerrini e don Edoardo Rossi. Il progetto e le motivazioni della mostra. Nell’anno liturgico 2021-2022 l’Ufficio catechistico e la Caritas diocesana hanno realizzato alcune iniziative con il carcere di Spoleto. “In particolare - afferma Sabrina Guerrini direttore dell’ufficio catechistico - abbiamo pensato di far arrivare la Parola di Dio all’interno delle famiglie dei bambini della catechesi inviando ogni settimana una scheda contenente il Vangelo della domenica, una breve catechesi ed una attività: il tutto accompagnato dall’illustrazione grafica del Vangelo realizzata da alcuni detenuti. Questo iniziale spunto, così proficuo e apprezzato dalle famiglie, si arricchisce grazie alla mostra allestita nel Duomo, nata dal desiderio di testimoniare nell’oggi quel “visitare i carcerati” di cui parla l’evangelista Matteo (Mt 25,31-46) e che costituisce una delle opere di misericordia corporali. La risposta che ci siamo dati - prosegue la Guerrini - è quella che la “visita” è un’attenzione particolare che si riserva a chi fa parte di una stessa famiglia, di uno stesso gruppo, di una stessa comunità. Visitare i “carcerati, allora, nel senso evangelico vuol dire far sentire a chi vive dietro le sbarre che non è escluso dalla comunità: anzi, con la loro testimonianza di sofferenza possono offrire a tutti una ricca occasione di meditazione e crescita spirituale. Così è nata l’idea di questa mostra: l’umanità che soffre al di là delle sbarre - conclude il direttore Guerrini - offre a quella parte di comunità che rimane al di qua dei cancelli la propria lettura grafica di alcuni episodi del Vangelo”. L’Arcivescovo nel suo saluto ha sottolineato che questa mostra “è un gesto concreto di fiducia ai nostri fratelli detenuti, è una grande operazione di umanità che fa vedere che anche nella parte più buia dell’esistenza c’è una scintilla di luce. Se mettiamo insieme le scintille diamo vita ad un grande sole di speranza, di cui tutti abbiamo bisogno”. Orari mostra e ringraziamenti. Al termine un detenuto, Roberto, a nome di tutti gli altri ha letto il brano del Vangelo di Matteo (25, 31-46) dove si parla anche del visitare i carcerati. La mostra è visitabile nella Basilica Cattedrale di Spoleto, transetto di S. Ponziano, tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.00, fino al 31 luglio. Un particolare ringraziamento va all’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto, al Carcere di Spoleto, in particolare ai detenuti, ai docenti del Liceo Artistico di Spoleto e alle due catechiste che hanno seguito il progetto all’interno del Carcere. Sovraffollamento in carcere: un libro spiega che qualche soluzione c’è di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2022 A volte si ha l’impressione che il problema del sovraffollamento carcerario sia “irrisolvibile”, come recita il sottotitolo di un bel libro di Alessandro Albano, Anna Lorenzetti e Francesco Picozzi: “Sovraffollamento e crisi del sistema carcerario”. E invece leggendo il lavoro dei tre studiosi ci si rende conto che così non è. Il volume prende le mosse da una breve ma densa ricostruzione dell’orizzonte costituzionale e storico del fenomeno, per poi spiegare come, ancora una volta, la spinta a prendere consapevolezza del problema e della non rinviabilità della soluzione è giunta dalle sentenze di condanna della Corte europea, relative alle condizioni della detenzione (scarso spazio disponibile e precarie condizioni igieniche). Determinare lo “spazio minimo vitale” - In un racconto semplice da seguire anche per i non esperti, gli autori analizzano il concetto di densità detentiva consolidatosi a Strasburgo relativamente alla determinazione dello “spazio minimo vitale” da garantire ad ogni internato, alle conseguenze derivanti dalla disponibilità di una superficie inferiore e ai relativi criteri di calcolo, con la profonda influenza che l’approccio multifattoriale e la relativa metodologia di calcolo infine adottati dalla Corte europea nel leading case Murši? contro Croazia. Per non parlare, ovviamente, delle pronunce intervenute nei confronti del nostro Paese con riferimento all’endemico dramma del sovraffollamento carcerario: dalla condanna nel caso Sulejmanovic contro Italia, ove la Corte si è “limitata” a riscontrare una violazione nel caso concreto dell’art. 3 Cedu, sino alla sentenza pilota Torreggiani contro Italia, ove i Giudici europei hanno censurato il nostro Paese per il carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento e hanno imposto l’adozione di misure di carattere generale. Proprio la forza propulsiva proveniente dalla Corte sovranazionale, con l’invito a limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere, ad ampliare l’utilizzo di misure punitive non privative della libertà personale ed adottare vie di ricorso interne che garantissero una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione, ha propiziato una decisa accelerazione sulla strada di interventi legislativi attesi da tempo, nell’ottica di una progressiva diminuzione della popolazione detenuta e del contemporaneo rafforzamento dei diritti degli internati. Nel volume di tutto questo si tratta ampiamente, senza dimenticare quanto sia problematico il recepimento da parte dei giudici interni della giurisprudenza sovranazionale. Il trend della popolazione carceraria - A seguito dell’articolato insieme di misure adottate la popolazione carceraria italiana è sensibilmente diminuita, tanto da portare il Comitato dei Ministri a chiudere nel 2016 la procedura di monitoraggio dell’esecuzione della sentenza Torreggiani. A partire dal 2017 si è tuttavia registrato un consistente aumento delle presenze in carcere sino ad arrivare, a febbraio 2020, al superamento della preoccupante soglia delle 61.000, a fronte di una capienza di circa 51.000 posti. Ciò, senza considerare le preoccupanti condizioni igieniche delle nostre carceri. In questa situazione già di per sé allarmante è arrivata la crisi sanitaria che ha reso inderogabili nuovi interventi “emergenziali”: dall’interruzione dei contatti con l’esterno, alla scarcerazione di detenuti particolarmente anziani e con patologie pregresse, di quelli con un minimo residuo di pena da scontare e di quelli reclusi per reati minori o non violenti, dall’applicazione di iter più snelli per l’accesso alla misura della detenzione domiciliare per chi dovesse scontare una pena residua inferiore ai 18 mesi fino alla concessione di licenze premio straordinarie per chi già si trovasse in semilibertà. Questo senza dimenticare il ruolo determinante svolto dalla magistratura di sorveglianza soprattutto nella prima fase pandemica attraverso l’utilizzo di istituti già in essere come l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare. I dati al 30 aprile - Ebbene, al 30 aprile 2022, secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.595 a fronte di una capienza regolamentare di 50.853 posti, con un tasso di sovraffollamento carcerario pari al 107,35%: una situazione di sovraffollamento che, seppur migliorata rispetto al livello raggiunto allo scoppiare della pandemia, rimane a tutt’oggi molto preoccupante. Di fronte a questa situazione gli autori prendono le mosse dalla nozione di sovraffollamento non mancando di proporre soluzioni, che qui non si vogliono “svelare”. Quel che invece preme sottolineare, sono le parole che concludono questo articolato studio secondo cui “il sovraffollamento carcerario è stato più gridato che approfondito, considerato come un dato quasi assiomatico che non necessitava di essere prima compreso per essere poi consapevolmente contrastato e superato”. In realtà, come tutti i fenomeni umani, esso rappresenta una “contingenza, certo non trascurabile, ma altrettanto sicuramente non irrisolvibile”, purché “studiata e compresa”, in modo tale da essere “affrontata con consapevolezza”. Una conferma, l’ennesima, che a problemi complessi non corrispondono soluzioni semplici e che queste ultime gemmano dalla competenza, unico terreno su cui si può esercitare la fantasia. Lamorgese: “Flussi migratori aumentati per la crisi del grano e c’è il rischio di ulteriore povertà” di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 18 giugno 2022 La crisi del grano provocata dalla guerra in Ucraina sta già avendo un impatto sui flussi migratori verso l’Italia. A lanciare questo allarme è stata la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, a margine della visita di ieri a Washington, dove ha incontrato il segretario alla Homeland Security Alejandro Mayorkas e la vice segretaria alla Giustizia Lisa Monaco. Nelle stesse ore anche una delegazione del Copasir, guidata dal presidente Urso, è stata nella capitale americana per parlare con diversi interlocutori nel settore della sicurezza. “Già ora - ha detto Lamorgese - vediamo incrementati i flussi migratori rispetto a prima, anche per la crisi alimentare. C’è il timore di avere un rischio di povertà ulteriore, oltre a quella vissuta in Paesi dove c’è già il razionamento del pane. La preoccupazione certamente esiste”. Quindi ha aggiunto: “Spero che la visita del nostro premier Draghi e degli altri leader europei a Kiev abbia dato un impulso maggiore, per fare in modo che nei tempi più rapidi possibili si possano aprire i corridoi nel Mar Nero, per far arrivare le forniture in questi Paesi che dipendono per quasi il 90% dal grano ucraino e russo”. La ministra ha anche risposto alle nuove polemiche del leader della Lega Matteo Salvini su questi temi: “Dico sempre che l’immigrazione è problema strutturale e non emergenziale. Certo, in questo periodo c’è una preoccupazione maggiore per una serie di concause, come la crisi alimentare e la situazione geopolitica in Libia e in Tunisia”. Ma poi ha spiegato: “Con l’accoglienza dei profughi ucraini, abbiamo visto l’Europa come vorremmo vederla, un’Europa unita, solidale, ospitale”. Quindi ha ricordato “l’accordo storico” raggiunto il 10 giugno tra 15 Paesi per un programma di redistribuzione dei migranti, che prevede anche l’impegno ad adottare al più presto una piattaforma informativa dove ogni paese darà le proprie disponibilità. Lamorgese ha poi rivelato che l’Italia collaborerà con l’inchiesta avviata all’Aja sui crimini di guerra commessi dai russi, inviando quattro tecnici. Commentando i problemi emersi ai seggi durante le ultime elezioni, Lamorgese ha smentito divergenze col presidente della Regione: “Nessuna polemica con Nello Musumeci. Il presidente della Regione siciliana ha ragione quando dice che non ha competenza in materia di elezioni. Ma io non ho mai detto, e non avrei mai potuto dire, che lui è responsabile. Ho detto al question time che la Regione ha una competenza legislativa esclusiva, ma ho anche detto che la composizione dei seggi è un problema che va in capo prima alle Corti d’appello e poi ai Comuni, e sul quale il ministero dell’Interno non ha alcun potere sostitutivo. È stato comunque un episodio gravissimo, perché quando si va a toccare la procedura elettorale si tocca un principio basiliare della nostra democrazia. La magistratura farà sicuramente la sua parte”. La ministra ha discusso con gli interlocutori americani i temi della lotta alla criminalità organizzata, il terrorismo, il cyber crime e il narcotraffico, l’immigrazione, e i reati d’odio. “Sono stati incontri molto utili, che hanno dimostrato quanto forte sia la cooperazione tra Italia e Usa, e una grande sintonia di intenti. Abbiamo discusso di cooperazione in materia di criminalità organizzata. Si è parlato anche di collaborazione in seno alla rete operativa anti mafia sviluppata con Europol, che vede l’Fbi come partner prezioso per il contrasto alle organizzazioni criminali e di stile mafioso, con risultati come ‘Mafia connection’ e la ‘New Mafia connection del 2020. Ci siamo promessi ulteriori interlocuzioni su punti specifici, anche con incontri a Roma”. In questi giorni ha visitato Washington anche una delegazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, guidato dal presidente Adolfo Urso. Nel comunicato pubblicato alla fine degli incontri si legge che il Copasir “ha inteso svolgere una missione a Washington al fine di poter approfondire, attraverso un confronto con gli organi omologhi del Congresso americano, le istituzioni e la comunità intelligence degli Stati Uniti, il tema della sicurezza nazionale nel contesto dei rapporti transatlantici in un momento storico segnato dal conflitto tra Russia e Ucraina. Si è avuto modo di confrontarsi sulle modalità con cui svolgiamo l’esercizio del controllo parlamentare sulla comunità intelligence degli USA, sulle prospettive di sviluppo del conflitto in Ucraina, sulle forme di collaborazione in ambito intelligence tra i nostri Paesi e, più in generale, sui temi delle indagini conoscitive in corso. Si è condivisa la necessità di una piena e continuativa collaborazione tra il Copasir e gli organismi americani, nelle modalità consentite dalla legge, e l’opportunità di un rafforzamento della collaborazione tra i servizi di intelligence del nostro Paese e quelli degli Stati Uniti”. Al Pentagono c’è stato “un confronto con il Sottosegretario alla Difesa con delega su intelligence e sicurezza, Ronald Moultrie, e con il direttore Ilan Goldemberg, responsabile per gli affari di sicurezza internazionale per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Si sono condivise valutazioni sullo svolgimento del conflitto tra Russia e Ucraina, sulla prospettiva di una difesa comune europea, sulle forme di collaborazione in ambito intelligence, e sull’importanza assunta dal dominio aerospaziale quale fattore di competizione anche in ambito militare”. Il Copasir ha sottolineato “il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo allargato e l’importanza di una politica occidentale e transatlantica sull’Africa, in considerazione della rilevanza cruciale che il continente sta progressivamente assumendo”. Alla Casa Bianca c’è stato un appuntamento con John Inglis, Direttore nazionale per il ciberspazio: “Con lui si sono esaminate le direttrici lungo le quali costruire una maggiore resilienza cibernetica da parte delle democrazie occidentali, attraverso una costante sinergia tra il settore pubblico e gli attori privati, ma anche con un uso più consapevole degli strumenti digitali a tutti i livelli. Il confronto si è anche esteso a possibili interventi sulla disciplina che regolamenta l’utilizzo delle piattaforme social, il cui uso distorto si è tradotto in diversi casi in veicolo di minaccia alla sicurezza nazionale”. Al dipartimento di Stato, infine, la delegazione ha visto Shawn Crowley, nuovo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Roma, e il gruppo di lavoro del Global Engagement Center: “Si sono condivise ampie ed utili valutazioni, rilevanti per l’indagine conoscitiva sulle forme di disinformazione e sulle minacce ibride anche di natura cibernetica che il Comitato sta conducendo. Si è poi tenuto un incontro con Howard Solomon, direttore per l’Europa occidentale. Il confronto ha consentito di condividere valutazioni sulle forme di ingerenza e di minaccia ibrida da parte di attori statuali ostili, sugli sviluppi del conflitto in Ucraina e le ricadute sulla sicurezza energetica, sulle prospettive di una difesa comune europea”. Secondo Urso, “abbiamo certificato che non esiste alcuna lista di proscrizione, né alcuna attività di intelligence su cittadini italiani, parlamentari e giornalisti, e che invece esiste una macchina della disinformazione che agisce in Italia come negli Stati Uniti, dove già la presidenza Obama aveva creato nel 2016 una task force per fronteggiarla, e altrettanto ha fatto la Commissione europea dal 2015 dopo l’invasione della Crimea”. Il presidente del Copasir ha spiegato che “abbiamo sollecitato una maggiore integrazione tra servizi di intelligence, anche in riferimento ad un dibattito che si era già aperto nel Congresso Usa lo scorso anno, sulla possibilità di allargare l’alleanza “Five Eyes” (tra le intelligence di Usa, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda) ad altre nazioni, oltre alle cinque che ne fanno parte sin dall’inizio. Abbiamo fatto capire quanto importante sia l’Italia, proprio perché terra di frontiera e di cerniera rispetto alla proiezione russa e cinese, ma anche alla minaccia islamica e alle questioni della sopravvivenza dell’Africa”. Minori non accompagnati: date di nascita modificate per renderli maggiorenni e respingibili La Repubblica, 18 giugno 2022 Il rapporto di Save the Children, dal titolo “Nascosti in piena vista”. L’Europa è terra di respingimenti, confini blindati e violenti per i minori che arrivano da Paesi diversi dall’Ucraina. In occasione della Giornata mondiale del rifugiato - che sarà il 20 giugno prossimo - Save The Children presenta il secondo rapporto dal titolo “Nascosti in piena vista” per documentare storie di minori soli e di famiglie in arrivo o in transito alla frontiera Nord, a Trieste, Ventimiglia e Oulx, per denunciare le disparità di trattamento e chiedere la fine delle violenze lungo le frontiere. Save the Children chiede alla Commissione europea l’adozione di una Raccomandazione agli Stati Membri per l’adozione e l’implementazione di politiche volte ad assicurare la piena protezione dei minori non accompagnati ai confini esterni ed interni dell’Europa e sui territori degli Stati Membri. Viaggi che durano mesi o anni, passando da uno Stato all’altro da ‘invisibili’, attraverso montagne, boschi, lungo i binari e superando confini violenti, macchiati di sangue, dove ragazzi e ragazze soli, a volte poco più che bambini, e famiglie con figli piccoli - in fuga da guerre, conflitti, povertà estrema, alla ricerca di un futuro possibile - conoscono l’orrore delle percosse, dei cani aizzati contro, della morte dei compagni di viaggio, dentro e fuori l’Europa. Come è successo a Javed. Il 17enne afghano che alla frontiera tra Turchia e Bulgaria ha subito trattamenti violenti e umilianti: “I poliziotti hanno sguinzagliato il cane su di me, questo mi ha tirato e io mi sono messo a urlare perché mi aveva morso due volte il piede […]. Si radunavano attorno al fuoco a bere vino e ci facevano sdraiare nudi sulla schiena”. Javed durante il lungo percorso migratorio ha più volte filmato i suoi trasferimenti. Questi video, uniti al dettagliato, empatico e sconvolgente racconto del viaggio che Javed ci ha rilasciato, sono documenti fondamentali per fissare l’atrocità dei viaggi di minori non accompagnati e famiglie nel pieno del XXI secolo. Il suo lungo racconto dall’Afghanistan all’Italia passa per Pakistan, Iran, Turchia, Bulgaria (sono stati ben 23 i tentativi di superare il confine bulgaro, ovvero l’ingresso nell’Unione Europea), Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia. Per capire cosa è cambiato. Un anno dopo la ricerca effettuata alle zone di confine della frontiera Nord d’Italia - a Trieste, per chi arriva nel nostro Paese attraverso la cosiddetta rotta balcanica e in uscita verso la Francia, a Ventimiglia in Liguria e a Oulx in Piemonte - Save the Children è tornata a raccogliere testimonianze e a raccontare storie di passaggi e respingimenti di minori soli o con le loro famiglie nel rapporto “Nascosti in piena vista”, curato anche quest’anno dal giornalista Daniele Biella e diffuso oggi, per capire cosa è cambiato. Testimonianze di violenze, respingimenti, umiliazioni. Sono gli abusi subiti durante il viaggio, vere e proprie violazioni dei diritti umani e dei diritti dei minori, che fanno emergere un’Europa a due livelli: in uno scenario mondiale profondamente mutato, l’Europa e i suoi Paesi hanno dimostrato di saper spalancare braccia e porte alla popolazione in fuga dalla guerra in Ucraina, ma al contempo si sono dimostrati brutali e disposti a usare forza ingiustificata contro gente inerme, “colpevole” di non avere documenti validi per l’ingresso, ma bisognosa allo stesso modo di un posto sicuro. Il diverso trattamento riservato agli ucraini. “I profughi ucraini, con ammirabile solidarietà, vengono accolti ai valichi autostradali con donazioni di cibo, vestiti e un trattamento dignitoso che fa onore all’Italia e all’Europa. Ma nei rilievi del Carso triestino, così come sul Passo della Morte tra Ventimiglia e Mentone e tra i sentieri del colle del Monginevro, numerosi vestiti, documenti e altri oggetti abbandonati testimoniano il passaggio di persone analogamente in fuga da privazioni e violazioni dei loro diritti, ma provenienti da altri Stati, obbligati a viaggiare nell’ombra, attraversando nel buio le frontiere in un’Europa che chiude loro le porte” dichiara Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. Sono stati 35 i minorenni stranieri non accompagnati respinti alle frontiere interne o esterne dell’UE nei primi tre mesi del 2022, che la coalizione di enti non profit europei Protecting Rights at Borders ha intercettato nelle sue attività. Probabilmente la punta di un iceberg, se si pensa che solo ad aprile sono stati segnalati 38 minori non accompagnati in transito a Trieste (oltre a quelli accolti dal sistema istituzionale di protezione) e - sempre ad aprile - 24 sono stati registrati in transito a Ventimiglia e 35 a Oulx. Minorenni “nascosti in piena vista”. Il trucco del cambio della data di nascita. I respingimenti non si presentano all’ingresso in Italia a Trieste e dintorni, ma vengono registrati ancora alle frontiere con la Francia: il team di ricerca di Save the Children ha raccolto evidenze dirette di trattamento differenziato a seconda dei luoghi di transito. A Claviere un minore non accompagnato ha più probabilità di essere ammesso presentandosi direttamente alla polizia di frontiera francese, a Mentone invece viene segnalata ancora la pratica della polizia di modificare la data di nascita per fare risultare la persona maggiorenne e quindi espellibile tramite il refus d’entrée, il foglio di via. In ogni caso, se la frontiera francese rimane comunque permeabile - il numero di tentativi dipende spesso dalla fortuna - rimangono praticamente insuperabili gli accessi dall’Italia a Svizzera e Austria. “Sono in viaggio da due anni...” “Il disperato si appiglia a qualunque speranza” dice Mahmoud, padre giordano-palestinese che il team di ricerca incontra con moglie e cinque figli dopo il terzo respingimento al confine tra Mentone e Ventimiglia. Sono in viaggio da due anni, destinazione Germania. In Croazia hanno superato il game - il passaggio tra le frontiere - dopo 20 tentativi. “Nessuno provava compassione per noi (…) sia che fossimo stanchi, affamati o assetati”. “La cosa più importante è farmi stare in una casa e mandare i miei figli a scuola, non voglio nient’altro” aggiunge Mariam, sua moglie. Un’avventura pericolosa senza madre, né padre: nessuno. Con questa seconda edizione della ricerca, Save the Children, attraverso i volti e le storie di un’umanità ferita ma non rassegnata, vuole riportare l’attenzione sulle disparità di trattamento e chiedere la fine delle violenze lungo le frontiere. “È difficile arrivare da soli in altri Paesi. Senza padre, senza madre, senza fratello e nessun amico. Ma dobbiamo farlo, perché abbiamo un sogno: vogliamo avere un futuro, vogliamo essere brave persone”. Sono parole di Naweed*, costretto a fuggire dall’Afghanistan, 14 anni, forse meno, che gli operatori di Save the Children hanno incrociato i primi di maggio a Claviere, nell’alta Valle di Susa, in Piemonte, all’ennesimo confine da valicare, quello con la Francia, verso Mongenevre, attraverso montagne ancora innevate, determinato a proseguire in direzione Finlandia, dove vive il fratello. Con sé ha un foglio informale che indica la minore età, da consegnare ai poliziotti di frontiera francesi nella speranza di non essere respinto, in quanto minore straniero non accompagnato. I numeri dell’accoglienza. - Ad aprile sono 14.025 i minori stranieri non accompagnati presenti nel sistema di accoglienza italiano, secondo i dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di cui il 16,3% sono bambine e ragazze, quasi il 70% hanno tra i 16 e i 17 anni e oltre il 22% sono sotto i 14 anni. - Per quanto riguarda le nazionalità, la novità di quest’anno è rappresentata dagli ucraini al primo posto (3.906, pari al 27,9%, la cui quasi totalità è ospitata presso parenti o famiglie affidatarie), poi ci sono gli egiziani con il 16,6% e a seguire bengalesi, albanesi, tunisini, pakistani, ivoriani. - Gli afghani sono 306 pari al 2,6%, a testimonianza della loro volontà di raggiungere altri Paesi in Europa. - Ad aprile sono entrati nel territorio italiano 1.897 minori soli - di cui solo 272 con gli sbarchi alla frontiera Sud e i restanti 1.625 entrati evidentemente dalla frontiera terrestre - in maggioranza ucraini (1.332, pari al 70,2%), egiziani (169, pari all’8,9%), afghani (71, pari al 3,7%). Le regioni che ne accolgono di più sono Lombardia (19,6%), Sicilia (18%) ed Emilia-Romagna (8,8%). - Con l’arrivo della bella stagione il flusso di minori non accompagnati è aumentato notevolmente in un solo mese in tutti e tre i territori monitorati: a Trieste (dalla rotta balcanica) dai 38 passaggi di aprile ai 60 di maggio, a Ventimiglia da 24 a 47, a Oulx addirittura da 35 a 150, per lo più ragazzi afghani, che arrivavano sia dalla rotta balcanica che dalla frontiera marittima, cioè dal Mar Mediterraneo, le cui traversate risultano sempre più letali e dove di recente ha ripreso vigore la tratta dalla Turchia alla Calabria. L’incontro con Anastasya. In provincia di Trieste il team di ricerca ha incontrato Anastasya, 14enne fuggita dalla guerra in Ucraina con la mamma e la sorella 11enne. Al Valico Fernetti - come a quello transfrontaliero di Tarvisio - Save the Children, in partenariato con Unicef, collabora con Unhcr e altre associazioni nella primissima accoglienza a chi arriva dall’Ucraina in auto o pullman. Poco distante, lo stesso giorno, un suo quasi coetaneo afghano, Ghulam, dopo una camminata di otto giorni iniziata al confine tra Bosnia Erzegovina e Croazia 260 chilometri prima - la Croazia è la frontiera più dura per l’ingresso in Europa assieme a quella sul fiume Evros tra Turchia da una parte, e Grecia o Bulgaria dall’altra - sbucherà dalla parte slovena del bosco carsico e sarà condotto da militari italiani nei centri di accoglienza per la quarantena. Potrà poi chiedere accoglienza in Italia o, come la maggior parte dei ragazzi arrivati soli in questi anni a Trieste, andarsene in un’altra nazione, riprendendo però la strada dell’invisibilità e del superamento delle frontiere di nascosto. Anastasya e Ghulam. Che hanno in comune la necessità di un posto sicuro dove stare. Ma se la ragazza può circolare liberamente in Europa con la famiglia grazie ad una direttiva della UE, attivata dall’Italia e dagli altri Stati dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, riconoscendo la protezione temporanea per i cittadini di quel Paese, per il ragazzo afghano, così come per i minori soli di altre nazionalità è tutto più complicato. E rischioso. Testimonianze raccolte in quella che i volontari hanno ribattezzato piazza del Mondo a Trieste riportano per esempio di un tragico incidente lungo il fiume al confine con la Croazia, dove un minorenne africano è annegato. Una testimonianza shock di morte in frontiera, non l’unica raccolta durante l’attività di ricerca, di cui non si trova traccia nei registri ufficiali. Come non vengono rilevate ufficialmente le persone quando escono dai boschi - “fantasmi” in piena vista, appunto - se non da un’efficace rete di enti no profit, che collabora scambiandosi buone prassi e informazioni per migliorare la situazione delle persone migranti che passano o si fermano a Trieste, dando luogo a un’attività di “antenne dei diritti” e solidarietà. Dal 2006 ad oggi il codice Schengen è stato sospeso 332 volte. Nonostante la crisi dei rifugiati siriani sia finita da tempo e le deroghe a Schengen non sarebbero dovute durare più di due anni, Paesi come Germania, Francia, Austria, Svezia, Danimarca e Norvegia non hanno smesso di adottarle. Dal 2006 ad oggi il codice Schengen è stato sospeso 332 volte. Così il passaggio di migliaia di persone alla ricerca di migliori condizioni di vita alle frontiere interne della UE, e in particolare alla frontiera italo-francese è rallentato, non bloccato, ma più pericoloso e traumatico e soprattutto affidato alla fortuna e al caso: una famiglia afghana è riuscita ad arrivare dall’altra parte del confine, dopo essersi fermata al Rifugio di accoglienza temporanea Massi, mentre un’altra famiglia afghana ha dovuto provare tre volte, prima di passare. Ad aprile 2022 sono state riportate a Oulx da Claviere o dal Frejus 287 persone, quasi 10 al giorno, mentre a maggio 520, quasi 17 al giorno. C’è anche chi, dopo avere visto le montagne, torna sui suoi passi: come due sorelle iraniane con il figlio di 9 anni di una delle due. Sono fuggite da un soffocante matrimonio combinato di Fatma, la madre del ragazzo, il quale sta vivendo in modo traumatico il viaggio estenuante. Scarso spazio e promiscuità nel container. Per le famiglie sul confine non è cambiato nulla rispetto a un anno fa, dall’altra parte della frontiera il trattamento riservato ai migranti è lo stesso, scarso spazio e promiscuità nel container in cui le persone vengono trattenute. Per i minori stranieri non accompagnati, invece qui, a differenza del confine Ventimiglia-Mentone, sembra che la Polizia di frontiera francese abbia seguito una prassi che l’anno scorso non era adottata a Claviere, accogliendoli come richiedenti asilo minorenni in Francia. Nei giorni durante i quali il team è stato tra Oulx e Claviere, nessun minore è stato respinto degli almeno 30 incrociati, ma ha invece incontrato un ragazzo respinto da Modane, sebbene il refus d’entrée lo riconoscesse come minore, indicando la sua data di nascita correttamente. I numeri dei minorenni in transito a Oulx sono cresciuti toccando a maggio quota 150 a fronte dei 35 di aprile, per oltre il 90 per cento provenienti dall’Afghanistan. C’è chi, purtroppo, lungo queste strade ha perso la vita: come Ullah, 15enne afghano, morto sotto le rotaie di un treno lo scorso gennaio. Uno dei posti peggiori per chi emigra. La frontiera a Ventimiglia continua a essere uno dei posti peggiori per un migrante, un cono d’ombra dei diritti umani e una zona di affari per i trafficanti. Le associazioni presenti, da Diaconia Valdese all’ong WeWorld a Caritas Intemelia, forniscono orientamento e consulenza e cercano di soddisfare i bisogni primari, con la distribuzione, tra l’altro, di vestiti e pasti. E’ presente anche Save the Children per dare una risposta immediata, in collaborazione con UNICEF, ai bisogni essenziali di bambini e adolescenti, delle loro famiglie e delle donne in arrivo in Italia e in transito, tramite l’allestimento, per esempio, di uno Spazio a misura di bambino dove gli operatori forniscono informazioni sicure, primo soccorso psicologico, orientamento sui diritti, nonché sui servizi e sulle opportunità disponibili, valutazione tempestiva delle potenziali vulnerabilità e specifici fattori di rischio, tra cui quelli connessi alla violenza di genere, oltre che immediata distribuzione di kit contenenti materiali utili per il viaggio e l’igiene personale. Le richieste all’Europa e all’Italia 1) - “Accoglienza estesa a tutti”. La straordinaria solidarietà dimostrata verso il popolo ucraino, anche in termini di rapidità della risposta nell’accordare alle persone in fuga la giusta protezione, dovrebbe mostrare la via per un’Europa migliore, capace di apertura e accoglienza di chi fugge da guerre, persecuzioni e fame. Gli scenari che emergono dalle crisi globali impongono di non derubricare la fuga dall’emergenza fame o da quella climatica, che costringono tante persone a lasciare le proprie case e i propri Paesi, a “migrazione economica” verso la quale i Paesi europei hanno sempre adottato un approccio repressivo. 2) - “Europa, per favore, cerca di parlare con una sola voce”. “Il 10 giugno i ministri presenti al Consiglio Europeo Giustizia e Affari Interni hanno discusso di un meccanismo volontario di distribuzione dei migranti - sottolinea Raffaela Milano - ma sullo stesso tavolo si discuteva di estendere, a determinate condizioni, la possibilità di derogare al codice Schengen per un periodo più lungo di due anni. Chiediamo alle istituzioni europee e ai Paesi Membri di avere una voce univoca in materia di protezione dei minorenni. In particolare chiediamo alla Commissione europea l’adozione di una Raccomandazione agli Stati Membri per l’adozione e l’implementazione di politiche volte ad assicurare la piena protezione dei minori non accompagnati ai confini esterni ed interni dell’Europa e sui territori degli Stati Membri, promuovendo il loro benessere e sviluppo psicofisico anche mediante strategie tese all’inclusione scolastica e formativa e velocizzando le procedure che riguardano i minorenni non accompagnati, tra cui i ricongiungimenti familiari”. 3) - “Non esistono categorie diverse di rifugiati”. “Chiediamo, altresì, ai governi europei di astenersi dall’utilizzo di pratiche che erroneamente distinguono fra categorie di rifugiati, rispettando il diritto internazionale e il principio del non respingimento, consentendo l’accesso a tutti i richiedenti asilo, e di estendere le buone pratiche istituite per i rifugiati ucraini a tutti i richiedenti asilo, introducendole anche nelle discussioni sull’approvazione o revisione dei provvedimenti del Patto sull’Asilo e la Migrazione. Infine, riteniamo fondamentale l’adozione di sistemi di monitoraggio delle frontiere, che permettano anche di perseguire i casi di violazione dei diritti umani” aggiunge Raffaela Milano. Guerra ucraina, carestia africana di Francesca Mannocchi La Stampa, 18 giugno 2022 La Tunisia è uno dei primi Paesi che potrebbe pagare caro l’aumento dei prezzi dei cereali inflazione, piani di austerità e disoccupazione fanno traballare la giovane democrazia. Tra il dicembre del 1983 e il gennaio del 1984 la Tunisia visse una violenta stagione di émeutes du pain, le rivolte del pane. L’economia del Paese aveva bisogno di aiuti e le condizioni del Fondo Monetario Internazionale avevano imposto un rigido programma di austerità, così il governo aveva interrotto l’erogazione di sussidi su grano e semola e il prezzo del pane era rapidamente aumentato, fiaccando il potere d’acquisto delle famiglie. I costi dei beni di prima necessità aumentarono in poche settimane di oltre il 100% e la gente si ribellò, scendendo in piazza in massa da Tunisi a Sfax, da Nefzaoua a Al-Mabrouka e altre aree emarginate e povere nel Sud del paese. L’allora presidente Habib Bourguiba dichiarò lo stato di emergenza, impose il coprifuoco dal tramonto all’alba, vietò assembramenti pubblici per più di tre persone e nel giro di pochi giorni le rivolte furono represse con la forza. Morirono in cento. Pochi giorni dopo Bourguiba annunciò in televisione l’inversione di rotta, vennero ripristinati i sussidi, il costo del pane tornò quello delle settimane che avevano preceduto le rivolte e il presidente disse che il Paese stava “tornando dov’era”. Lo disse sperando che fosse così ma le rivolte ebbero effetti politici, il potere di Bourguiba cominciò a vacillare e tre anni dopo il generale Zine El Abidine Ben Ali salì al potere e lì rimase fino al 2011, quando una crisi economica simile e una simile rabbia portarono di nuovo in piazza la frustrazione dei tunisini, dando vita alla stagione delle rivoluzioni maghrebine e mediorientali, le Primavere Arabe. Sono passati quasi quarant’anni da quei dieci giorni di rivolte del pane, eppure lo scenario che caratterizzò quei fatti porta direttamente all’odierna crisi tunisina, gli elementi sono gli stessi: la crisi economia e valutaria, i piani di supporto sponsorizzati dalla Banca Mondiale, le severe prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale, un presidente che approfitta della crisi per accentrare i poteri e le conseguenti rivolte di piazza. Elementi che però, oggi, sono aggravati dall’onda lunga della crisi pandemica e dalla guerra in Ucraina. La settimana scorsa a manifestare, a Tunisi, è stato il grande e potente sindacato generale del lavoro (Ugtt), centinaia le persone in piazza nonostante i tentativi del presidente Kais Saied di impedire lo svolgimento dello sciopero. Tre milioni di lavoratori del settore pubblico si sono fermati bloccando aeroporti, trasporti pubblici, porti, uffici governativi, scuole e ospedali. Si sono radunati di fronte alla sede del sindacato nella capitale e hanno gridato la loro rabbia contro i piani di riforma economica del governo: salari congelati, revoca dei sussidi e privatizzazione delle aziende pubbliche. È il prezzo dell’austerità richiesta dal Fondo Monetario Internazionale per garantire un prestito di quattro miliardi di dollari che, se era importante fino a qualche mese fa, è oggi diventato necessario perché la Tunisia - che importa il 50% del suo grano da Russia e Ucraina - è uno dei Paesi su cui maggiormente stanno pesando le conseguenze della guerra, con l’aumento dei prezzi di grano e dell’energia. Come annota Hamza Meddeb, ricercatore del Carnegie Middle East Center: “Il grano prezzo del grano ha superato i 12 dollari per staio, un livello che non si vedeva da marzo 2008, e che rappresenta un aumento del 44% dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Anche il prezzo del greggio è aumentato, di un ulteriore 40 per cento, aggravando ulteriormente il deficit di bilancio. Nella preparazione del bilancio statale per il 2022, le autorità avevano previsto che un barile di petrolio sarebbe costato 75 dollari, mentre il prezzo di un barile di greggio Brent era di circa 130 dollari già il 9 marzo, circa il doppio del prezzo di un anno fa”. Aumento del prezzo dunque del grano che si combina all’aumento del prezzo del carburante e rallenta o interrompe le catene di distribuzione in un Paese che dipende da grandi volumi di importazioni che però oggi si sono drasticamente ridotte: dall’inizio del conflitto le importazioni di grano dall’Europa Orientale dirette in Tunisia sono diminuite del 60%. Sebbene recentemente il ministro del Commercio abbia cercato di placare la popolazione annunciando che ci siano sufficienti riserve di grano fino alla fine di giugno, i panifici hanno iniziato a razionare il pane e sugli scaffali dei supermercati cominciano a mancare grano, zucchero e olio di girasole. Il timore è che un ulteriore aggravamento della situazione economica destabilizzi ancor di più la Tunisia che vive nell’incertezza politica da un anno, da quando cioè il Presidente Kais Saied ha destituito il governo. Nel luglio dello scorso anno Saied, un ex professore di giurisprudenza, aveva sospeso il parlamento del Paese, destituito il primo ministro ed emesso un decreto d’urgenza, con il quale ha da allora governato. Di fronte a chi definisce le sue azioni un colpo di Stato, Saied ha affermato che le sue mosse erano necessarie per salvare la Tunisia dalla crisi e il suo intervento inizialmente sembrava avere un ampio sostegno pubblico dopo anni di stagnazione economica, paralisi politica e corruzione. Forte del consenso che in effetti aveva da parte di un’ampia fascia di popolazione stanca di nepotismo e corruzione, da luglio del 2021, Saied ha attuato una serie di riforme fortemente criticate. Quanto più si aggravava la crisi economica tanto più riduceva l’espressione democratica della vita politica e sociale del Paese. A fine settembre ha sospeso la Costituzione del 2014 assumendo di fatto nuovi poteri, poi ha licenziato 57 giudici in una vera e propria epurazione della magistratura, e poi ha nominato tre dei sette membri della commissione elettorale dell’Alta Autorità indipendente per le elezioni (Isie), tra uomini della sua cerchia ristretta. A marzo - di fronte all’aumento dei prezzi e alle riduzioni sulle scorte di grano - ha emanato una legge che introduce pesanti sanzioni per gli speculatori, pene che vanno da dieci anni di carcere all’ergastolo e che però, dice la legge, possono essere applicate anche a chi “diffonde deliberatamente informazioni false o errate sulla situazione economica e i prezzi dei beni”. Un modo per punire il dissenso interno sfruttando l’emergenza globale. Oggi ci sono tutti gli elementi per un esito potenzialmente esplosivo: l’inflazione è vicina a un livello record, il deficit è destinato a raddoppiare, il 40% giovani che hanno meno di 25 anni è disoccupato, i colloqui con il Fondo monetario internazionale su un pacchetto di salvataggio sono di fatto fermi. Il grande interrogativo è cosa succederà alla giovane democrazia, spesso citata come l’unica storia di successo delle Primavere arabe, alla democrazia imperfetta in cui per molti, troppi, gli effetti della rivoluzione non si sono mai visti. È a loro, evidentemente, che Saied ha saputo parlare, è così che ha vinto nel 2019, salvo centralizzare il potere solo due anni dopo. I prossimi mesi e gli effetti della guerra in Ucraina saranno decisivi per capire se la Tunisia saprà emanciparsi dalla deriva autoritaria in atto o se la rivoluzione avrà fatto il giro completo, come in Egitto, ripristinando una dittatura, magari morbida, ma decisamente lontana dal percorso democratico che tutti si aspettavano dal Paese della Rivolta dei ciclamini. Prostituzione, sanzioni e carcere per i clienti. Un nuovo ddl targato M5S di Shendi Veli Il Manifesto, 18 giugno 2022 Multe salate o addirittura mesi di carcere (fino a sei) ai clienti delle prostitute. È quanto prevede il disegno di legge, a firma della senatrice Alessandra Maiorino (M5S), presentato al convegno “Prostituzione, l’Italia pronta per il modello nordico?” che si è tenuto ieri, venerdì 17 luglio, nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, a Roma. Il testo della proposta è ispirato alle legislazioni adottate da Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda, Francia e di cui si discute attualmente anche nel parlamento spagnolo. L’approccio è quello “abolizionista” che mira a eliminare la prostituzione anziché regolamentarne l’esercizio. Lo stesso che ispira la legge Merlin, l’attuale normativa italiana in materia, in vigore dal 1958. La Merlin non vieta in via diretta la prostituzione ma punisce lo sfruttamento e il favoreggiamento, facendo rientrare in questa fattispecie tutte le attività collaterali all’esercizio del lavoro sessuale, relegando di fatto chi offre prestazioni sessuali nella sfera dell’illegalità. La novità introdotta dal ddl Maiorino sarebbe la possibilità di perseguire legalmente i clienti, tramite sanzioni pecuniarie e, in casi estremi, anche pene detentive. Lo scopo, secondo i promotori del progetto, è colpire la domanda, “vero motore del commercio di esseri umani e in particolare di donne, che costituiscono il 77% delle vittime di tratta a livello globale”, spiega a il manifesto la senatrice del M5S. “La prostituzione è il vero ostacolo alla parità di genere, visto che è quasi sempre un uomo che acquista il corpo di una donna”, secondo Maiorino. Ma i dati riportati dal “Gruppo Esperti contro sfruttamento e tratta” indicano che circa il 30% delle persone che si prostituiscono in Italia sono transessuali con transizione non completata. Il ddl è frutto di un’indagine conoscitiva avviata nel 2019 dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, e prende le mosse anche dalla sentenza n°141/2019 con cui la Corte costituzionale ha confermato l’impianto abolizionista della legge Merlin, descrivendo la prostituzione un’attività lesiva della dignità umana e trattando chi la esercita, anche fuori da una costrizione fisica, come un soggetto fragile da tutelare, vittima di un disagio che, quando non socioeconomico, è sicuramente di natura psico affettiva. Questa impostazione, che tende a non riconoscere il libero arbitrio delle sex worker, divide gli schieramenti politici, il movimento femminista e a volte anche gli stessi partiti. “Dentro il Pd non ne abbiamo ancora discusso”, dice Valeria Valente a il manifesto. La senatrice dem, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Femminicidio, è intervenuta al convegno per esprimere il suo appoggio all’impostazione del ddl. “Probabile che ci sarebbero disaccordi, ma credo che ci sia una maggioranza del partito che è favorevole a una legge che punisca i clienti”, dice la senatrice. Intanto, fuori dalle mura di Palazzo Giustiniani il collettivo di sex worker Ombre Rosse insieme ai Radicali italiani, a Non Una Di Meno e all’associazione Certi Diritti ha protestato proprio contro il ddl Maiorino. “I modelli abolizionisti si sono rivelati fallimentari nel combattere la tratta”, spiega Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali italiani e avvocata. “Lo abbiamo visto con le delibere comunali che criminalizzavano i clienti e che non hanno fatto altro che marginalizzare il lavoro sessuale, costringendolo ancora di più alla clandestinità”, aggiunge Crivellini. Nel documento pubblicato dal Gruppo “Esperti/e contro sfruttamento e tratta”, viene apertamente criticata l’impostazione del disegno di legge:”il cosiddetto modello nordico concentra l’attenzione delle istituzioni sulla punizione dei clienti, mentre le politiche sulla prostituzione dovrebbero essere mirate all’empowerment delle donne e di tutte le persone che si prostituiscono, in quanto prioritariamente considerate come titolari di diritti”. Gran Bretagna. Nessuna clemenza per Julian Assange: sarà estradato negli Usa di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 18 giugno 2022 Via libera della ministra britannica Priti Patel. Accusato di spionaggio, il fondatore di Wikileaks rischia fino a 175 anni di carcere. Julian Assange terminerà dunque i suoi giorni in una prigione federale degli Stati Uniti d’America. Il governo britannico, rappresentato dalla grinta tetragona della ministra dell’interno Priti Patel, ha infatti deciso di concedere l’estradizione oltreoceano al fondatore di Wikileaks. A nulla sono serviti gli appelli della difesa o di importanti ong come Amnesty International per cui Assange è vittima di persecuzione politica e a Washington non avrebbe garantito né un giusto processo né una detenzione umana, né tantomeno un trattamento adeguato ai suoi problemi di salute. Non la pensano così le autorità britanniche per le quali negli Stati Uniti avrebbe tutte le garanzie per essere giudicato equamente. Era difficile aspettarsi un esito diverso, l’alleanza anglo-americana è più solida che mai, una relazione speciale fortificata dalla guerra che Putin ha scatenato in Ucraina che, tra i tanti nefasti effetti che ha prodotto, ha rianimato i fervori atlantisti di Londra e Washington. Assange accusato di spionaggio, di pubblicazione di documenti riservati e attentato alla sicurezza nazionale statunitense, reati perseguiti pesantemente dalla giustizia Usa: rischia infatti fino a 175 anni di carcere è c’è da giurare che i prouratori faranno di tutto perché gli venga affibbiato il massimo della pena. I fatti risalgono a 12 anni fa quando il giornalista australiano divulgò migliaia di cablogrammi riservati del Pentagono sulle missioni militari in Iraq e Afghanistan. La “talpa”, l’analista informatico Bradley Manning (poi diventata Chelsea Manning) che copiò su dei cd i documenti secretati per poi inviarli a Wikileaks. Manning subì una condanna pesantissima: 35 anni di reclusione ma ne fece solo sette in virtù della grazia concessa dal presidente Obama. In quei cablogrammi, peraltro pubblicati dalle principali testate occidentali come il New York Times, The Guardian, Le Monde, La Repubblica, El Paìs, emergono diversi crimini di guerra commessi dai marines, come i bombardamenti intenzionali di civili iracheni e i successivi tentativi per insabbiarli, il sostegno ai signori della guerra afghani, lo spionaggio ai danni dell’Onu, il dossier che la Segretaria di Stato Hillar Clinton aveva fatto redigere sulla “salute mentale” della presidente argentina Cristina Kirchner, la tolleranza verso i finanziamenti sauditi ad al Qaeda. Ma soprattutto, e questo probabilmente è l’atto considerato più grave dal dipartimento di Stato, Assange rivelò l’identità di centinaia di agenti americani sotto copertura e attivi nello scacchiere mediorientale. Per questo è lecito aspettarsi un trattamento esemplare nei suoi confronti. “Chiunque in questo Paese tenga alla libertà di espressione dovrebbe vergognarsi profondamente del fatto che la ministra dell’Interno ha approvato l’estradizione di Julian Assange negli Usa, il Paese che ha complottato per assassinarlo”, si leggeva ieri sul portale di Wikileaks. Mentre la compagna di Assange, l’avvocata sudafricana specializzata in diritti umani Stella Morris parla di “giorno nero per la democrazia” e di attacco alla libertà di informazione: “Julian non ha fatto nulla di male è un giornalista e un editore punito per aver fatto il suo dovere, rivelando documenti riservati e informazioni imbarazzanti su atti compiuti da diverse nazioni. La ministra Patel aveva il potere di fare la cosa giusta, invece sarà ricordata come complice degli Stati Uniti, del loro progetto di trasformare del giornalismo investigativo in un’impresa criminale”. L’ultima, fragile speranza che rimane al fondatore di Wikileaks per evitare l’estradizione è il ricorso presso l’Alta Corte britannica che potrà essere presentato dai suoi avvocati entro due settimane. Moris è convinta che la battaglia non sia ancora finita e chiama tutti i sostenitori di Assange a scendere in piazza e a esercitare pressioni sul governo britannico. Julian Assange. Un vergognoso finale di partita di Vincenzo Vita Il Manifesto, 18 giugno 2022 Quando è arrivata la temuta notizia della firma per mano dell’ultraconservatrice ministra degli interni britannica Priti Patel in calce all’atto di estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti la rabbia si è unita subito all’angoscia. Ne va della vita di una persona, in ballo dal 2009 con la giustizia per accuse che - se mai - dovrebbero essere la base di un premio Pulitzer, avendo rotto il muro di silenzio che aveva sotterrato i crimini di guerra in Iraq e in Afghanistan. Sì, proprio quelli perpetrati dalla parte del mondo che suppone di esportare la democrazia, violandola spesso e volentieri. Assange è a rischio suicidario, come ha sottolineato la competente perizia medica che ne ha evidenziato la pericolosa sintomatologia. Del resto, il trattamento riservato al fondatore di WikiLeaks dall’11 aprile del 2019 ospite del carcere speciale di Belmarsh di Londra è stato chiaramente definito dal relatore generale dell’Onu come una vera e propria tortura. Non a caso la prigione è soprannominata la Guantanamo inglese e lì vengono reclusi coloro che passano per essere i peggiori criminali. Dopo il lungo faticoso soggiorno iniziato nel 2012 nell’ambasciata dell’Ecuador nel regno unito, si dischiusero le porte dell’orribile penitenziario. Lì, poi, nelle annesse aule del tribunale, si sono consumati i gradi di giudizio che hanno avuto il suggello della ministra nota per la crudele idea di mandare i migranti in Ruanda. Curiosa la giurisdizione d’oltre Manica, che pure passa per una delle fonti storiche del pensiero liberale: la conclusione del procedimento è a cura del governo. L’estradizione americana significa una probabile condanna del giornalista australiano, in un tribunale della Virginia - non insensibile alla ben nota Central Intelligence Agency (Cia) - dove pende l’accusa di spionaggio. Per non dover fare i conti con il primo emendamento della costituzione di Washington con la sacralità da esso attribuita al diritto di cronaca, e a differenza del caso omologo dei Pentagon Papers (le 7.000 pagine fatte arrivare da Daniel Ellsberg allora analista militar, al New York Times e al Washington Post), oggi l’accusa si basa sull’Espionage Act del 1917. Peccato che le notizie raccolte da WikiLeaks siano state utilizzate da molti importanti quotidiani, che ora si voltano dall’altra parte. Julian Assange è il perfetto capro espiatorio, utile a buttare benzina sul fuoco bellicista e aggressivo in atto, a siglare ulteriormente la subalternità britannica verso l’imperialismo maggiore, a dare un pesante ammonimento al giornalismo. Colpirne uno per educarne cento, diceva il motto. Infatti, l’eventuale condanna farà giurisprudenza e coloro che eludono, rimuovono o non vogliono vedere magari saranno le prossime vittime. Lo strisciante autoritarismo, fondato sulla riduzione della rappresentanza e sul ridimensionamento dell’indipendenza di chi svela gli arcani del potere, sta facendo le prove generali. Il linguaggio della guerra pare entrato nella comune sintassi e la verità esiste a corrente alternata. Se, poi, si ficca il naso sui retroscena dei conflitti, arriva la punizione. Il padre di Assange ha invitato alla mobilitazione mondiale. Come ha ragione. Il nuovo primo ministro australiano Anthony Albanese aveva annunciato fuochi d’artificio quando era all’opposizione. Si è già rimangiato tutto? E Jean-Luc Mélenchon, in corsa per i ballottaggi francesi, ha sottolineato un impegno fortissimo se vincerà. La commissaria per i dritti umani del consiglio d’Europa si era pronunciata nettamente. Dunque, la lotta continua. Come ha reso noto il collegio di difesa guidato dalla consorte di Assange Stella Morris verrà inoltrato ricorso contro la decisione della ministra inglese e vi sarà certamente un’iniziativa rivolta alla corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma è fondamentale che i mezzi di informazione parlino finalmente del pericolo che corrono essi stessi. A questo punto, se non si racconta ciò che sta accadendo, si finisce con l’essere complici di un misfatto. Sono giornate, queste, che verranno ricordate. Un altro caso Dreyfus è alle viste. Ma a poco servirà se la storia darà ragione tra qualche anno a un coraggioso giornalista adesso vicino alla condanna a morte. La questione si pone con drammatica urgenza. Piovono appelli e si stanno organizzando sit in e manifestazioni. Ha fatto sentire la sua voce anche l’organizzazione internazionale dei giornalisti, recentemente a congresso in Oman. Presso la federazione nazionale della stampa si terrà una conferenza il prossimo martedì 21 giugno in collegamento con il premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, autore di uno dei più prestigiosi tra i documenti contro l’estradizione. Qualche fermento si coglie davanti all’enormità della slavina che scende veloce verso l’incosciente cittadella dell’ovest. Julian e gli altri, i leaks di Manning e di Snowden di Roberto Zanini Il Manifesto, 18 giugno 2022 Era un paio di guerre fa, più o meno. Un felice 2010 in cui l’Afghanistan era conquistato, l’Iraq occupato, la pacificazione marciava a tappe forzate, afghani e iracheni un po’ si organizzavano per votare e un po’ per ammazzarsi. Finché, il 5 aprile, tutti vedemmo quel filmato atroce di due elicotteri Apache che macellavano di mitragliate una dozzina di iracheni a terra, tra cui due giornalisti della Reuters con una telecamera che all’elicotterista sembrò un’arma. Quel video svegliò qualche milione di coscienze addormentate da anni di guerra non più guerreggiata ma non meno sanguinosa, fece capire cosa significava essere un civile in tempi di occupazione americana, fece partire una caccia all’uomo durata tre presidenze (Obama, Trump e Biden). Fu il primo grande botto di Wikileaks. Che lavorava alle soffiate tecno-internazionali già da qualche anno, rivelando a destra e a manca complotti in Somalia, attività hacker in Cina, corruzione in Kenya, prigionieri senza nome o diritti a Guantanamo e altri dettagli della prassi democratica del pianeta. Quel video di 17 minuti, presentato in una conferenza stampa a Washington da un curioso individuo coi capelli di platino chiamato Julian Assange, aveva una provenienza precisa, un militare di nome Bradley Manning, analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq. Manning venne arrestato, accusato di aver consegnato migliaia di documenti riservati a Wikileaks, detenuto in condizioni inumane e infine condannato a 35 anni. Il giorno della sentenza disse di riconoscersi nel genere femminile e di voler essere chiamata Chelsea Manning. Obama la graziò dopo 4 anni e mezzo - un altro anno lo fece nel 2019 per essersi rifiutata di testimoniare al grand jury contro Assange. Tre anni dopo il video di Manning, nel 2013, un analista della Cia si licenziò dall’ultimo incarico da 10mila dollari al mese presso un contractor della Difesa Usa, visse per qualche mese alle Hawaii covando i dubbi sull’intero lavoro dei suoi ultimi anni, poi prese un aereo per Hong Kong e da là rivelò al mondo che eravamo tutti spiati: telefoni di casa, cellulari, email e traffico Internet, di comuni cittadini come di capi di stato e di governo, tutto quanto finiva sotto gli occhi e nei computer della National Security Agency americana. Quell’uomo era Edward Snowden, aveva trent’anni e 145 di quoziente di intelligenza, e lo sapeva per certo perché lo faceva lui, attraverso programmi clandestini di sorveglianza elettronica. Altro giro del mondo di scandali, altro armageddon mediatico e politico, altra caccia all’occidentale infedele che metteva in discussione la prassi dell’Ovest libero e democratico. Snowden non finì come Manning. Riuscì a squagliarsela da Hong Kong anche grazie a Wikileaks: mentre Assange dichiarava ai quattro venti che lo avrebbero portato in Islanda, lui e un’altra dirigente di Wikileaks salivano su un volo verso Mosca. Gli americani non capirono più niente, cercarono persino di dirottare l’aereo del presidente boliviano Evo Morales, convinti che Snowden fosse a bordo. Non era lì. Vive ancora in Russia. Libia. Ancora lontana la verità per il massacro di Abu Salim di Tommaso Meo africarivista.it, 18 giugno 2022 Non è ancora arrivato il giorno della verità e della giustizia per le vittime del massacro del carcere di Abu Salim a Tripoli. Qui, nel 1996, quando al potere c’era il rais Muammar Gheddafi, vennero giustiziati 1.269 detenuti, secondo le stime, a seguito di una rivolta. Ci si aspettava un tanto atteso pronunciamento e invece lo scorso 15 giugno una corte d’appello della capitale libica si è dichiarata incompetente sul caso chiedendo che il fascicolo del processo passi a una corte militare. La corte di Tripoli stava esaminando il caso da maggio 2021 ma, il giudice “ha stabilito che l’intero caso aveva un carattere militare”, visto che molti degli implicati appartenevano all’esercito. Il giudice per questo ha quindi deciso di trasferire l’intero caso a un tribunale militare competente. Sul banco degli imputati ci sono figure importanti del passato regime: tra tutti spiccano l’ex capo dei servizi di intelligence e cognato dell’allora dittatore Muammar Gheddafi, Abdullah al Senussi, e l’ex capo dell’Agenzia di sicurezza interna, Mansour Daou. La storia del massacro di Abu Salim è lunga e travagliata, piena di insabbiamenti e incertezze, ma ancora senza nessun responsabile. La dinamica dei fatti, frutto soprattutto di alcune testimonianze, ricostruisce un quadro abbastanza preciso dei fatti. Il 28 giugno 1996 scoppiò una rivolta di detenuti ad Abu Salim, la più grande prigione del Paese, che ospitava in tutto 1.700 persone. I detenuti protestavano contro le condizioni di detenzione e le restrizioni sulle visite dei familiari. La sicurezza del carcere riuscì a sedare la rivolta sparando colpi di arma da fuoco e uccidendo sei persone. La direzione accettò di incontrare i rappresentanti dei prigionieri e promise che alcune loro richieste sarebbero state accolte. La mattina successiva, centinaia di prigionieri provenienti furono portati in un cortile della prigione. Qui uomini armati sui tetti aprirono il fuoco con armi automatiche per almeno un’ora. Un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) ha rivelato che le autorità iniziarono a informare alcune famiglie della morte dei loro parenti solo nel 2001, senza però restituire i corpi né fornendo dettagli sulla causa dei decessi. Alcune famiglie hanno raccontato a Hrw di avere portato cibo e vestiti alla prigione per settimane, ignari della morte del loro cari. La maggior parte delle vittime fu sepolta in fosse comuni nel cortile della prigione di massima sicurezza, ma i corpi furono poi spostati e mai identificati con certezza. Anche per questo negli anni successivi è diventato polarizzante nel Paese ed è cresciuta la narrazione secondo cui il massacro non avvenne mai o fu molto ingigantito. Nel 2016, tuttavia, l’ong libica Human Rights Solidarity (Hrs), pubblicò quelli che sostiene essere i nomi delle persone uccise nel massacro del 1996. Il massacro di Abu Salim contribuì anche a dare il via alla rivolta del febbraio 2011 che ha rovesciò Gheddafi. L’arresto di un leader dell’associazione delle famiglie delle vittime il 15 febbraio a Bengasi provocò infatti proteste che si diffusero rapidamente quando il governo rispose con la forza. Dal 2012, ogni giugno, le famiglie delle vittime celebrano la ricorrenza del massacro senza timore di repressioni. La storia giudiziaria di Abu Salim, iniziata solo qualche anno fa, è già stata piena di ostacoli. Nel 2019 un tribunale libico aveva dichiarato il caso inammissibile, a causa della prescrizione, assolvendo di fatto tutti i 79 imputati. La Corte suprema, dopo un ricorso delle famiglie delle vittime, ha poi ribaltato la sentenza e successivamente consegnato il fascicolo a un nuovo tribunale. Nel frattempo, Hrs sta cercando di far ammettere il caso davanti alla Corte penale internazionale come caso di sparizione forzata di massa. Ora, con l’ennesima svolta, il rinvio deciso dalla corte d’appello, allontana un’altra volta una ricerca della verità che dura da 26 anni. Egitto. L’Europa guarda al gas e dimentica i prigionieri politici di Catherine Cornet Internazionale, 18 giugno 2022 Da quando il presidente Abdel Fattah al Sisi ha preso il potere, nel 2014, l’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah ha trascorso la maggior parte del tempo in fasi alterne in prigione o agli arresti domiciliari. È stato arrestato l’ultima volta a settembre del 2019 e a dicembre del 2021 è stato condannato a cinque anni di carcere per “aver diffuso notizie false” dopo aver condiviso un post su Facebook sulle violazioni dei diritti umani nelle carceri egiziane. Grazie alla solidarietà internazionale da parte di ricercatori e attivisti è stato pubblicato un suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, che testimonia la forza intellettuale del pensiero di Abdel Fattah. L’attivista il 1 aprile di quest’anno ha cominciato uno sciopero della fame. Il 13 giugno, quando alla sua famiglia è stato permesso di fargli visita per venti minuti, si è detto pronto ad andare fino in fondo. In un tweet, sua sorella Mona Seif scrive: “Ci provo da giorni, ma faccio fatica a elaborare questo ricordo. La voce di Alaa, che mi grida con frustrazione e rabbia: ‘Devi abbandonare l’idea che mi salverai: morirò qui, concentrati su come fare in modo che la mia morte abbia un prezzo politico alto’”. Se il suo stato di salute è preoccupante, il prezzo politico per lasciarlo morire in carcere non sembra per ora essere molto elevato per il regime di Al Sisi: malgrado il dinamismo della solidarietà civile internazionale nei suoi confronti, gli interventi del governo britannico e di quelli europei rimangono molto al di sotto delle aspettative. La delusione nei confronti del governo britannico - Nel Regno Unito - Alaa ha ricevuto pochi mesi fa la cittadinanza britannica e dovrebbe quindi poter usufruire della protezione consolare di Londra - una lettera firmata da oltre mille celebrità e personalità culturali, tra cui Judi Dench, Riz Ahmed, Emma Thompson, Angela Davis e Stephen Fry, chiede alla ministra degli esteri Liz Truss di “usare il suo potere per garantire l’immediato rilascio di Alaa”. La sorella minore di Alaa, Sanaa Seif, durante una conferenza stampa al parlamento britannico, nel 74° giorno di sciopero della fame, si è detta “profondamente perplessa dal modo in cui siamo stati trattati dal ministero degli esteri britannico”. Per Seif i funzionari britannici, con la loro immobilità, sono “perfino peggiori del governo egiziano”. Il regime del Cairo nega addirittura che il prigioniero faccia uno sciopero e il ministero dell’interno afferma che “mangia tre pasti al giorno”. Per contrastare questa menzogna, Mona Seif ha deciso di cominciare anche lei uno sciopero della fame, almeno quello non potrà essere negato. Anche se, insiste: “Non mi interessa affatto il riconoscimento da parte del governo egiziano dello sciopero di Alaa o del mio. Il punto è che il corpo di Alaa non può essere nascosto in una cella lontana, isolata dal mondo e dalle persone”. Colpevolmente silenziosi - Insieme a Mona, oltre 70 attivisti in Italia hanno organizzato su iniziativa di Amnesty international “un digiuno solidale di 24 ore a staffetta, per sostenere lo sciopero della fame di Alaa”. Per la giornalista e storica Paola Caridi, che insieme ad altri ha organizzato la campagna, “l’idea che sottende al digiuno solidale è quello di provare e condividere, almeno per 24 ore, la privazione del cibo come strumento contro la privazione della libertà”. Negli Stati Uniti, il Washington Post ha scritto un editoriale dichiarando che Joe Biden non “deve parlare ad Al Sisi senza parlare di Alaa”. Ma davanti a questi appelli e iniziative i governi europei, a cominciare dall’Italia, rimangono vergognosamente silenziosi, o forse addirittura “colpevolmente silenziosi”, accusa il gruppo EgyptWide, che ha appena pubblicato un rapporto intitolato Complici ufficiali che denuncia la stretta collaborazione della polizia italiana con quella egiziana dal 2010 al 2020. Questo nonostante il caso Giulio Regeni e la crisi diplomatica che è seguita tra i due paesi. La ricerca ha analizzato i dati presentati dal ministero dell’interno italiano sulle iniziative bilaterali e attesta “una progressiva proliferazione delle iniziative volte al rafforzamento delle capacità operative della polizia e degli apparati di sicurezza egiziani, che includono la fornitura di equipaggiamento di polizia e paramilitari a titolo gratuito, l’erogazione di corsi di formazione e addestramento, a cui si sommano numerose collaborazioni, scambi di esperti, conferenze e convegni, vertici bilaterali tra autorità di polizia”. L’attuale ambiguità dell’Unione europea è ancora più preoccupante, dato che per non comprare gas russo - sottolineando giustamente la violazione dei princìpi di diritto internazionale - si chiudono gli occhi davanti alle terribili violazioni dei diritti umani dei paesi del Mediterraneo: un accordo a tre è stato firmato il 15 giugno al Cairo, spiega il sito egiziano indipendente Mada Masr, in presenza della presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, del ministro dell’energia egiziano Tarek el Molla e della sua controparte israeliana Karen Harar. L’accordo consentirà di trasportare in Egitto il gas israeliano che poi, una volta liquefatto, partirà tramite navi cisterna per l’Europa. “Questo è un grande passo avanti nella fornitura di energia all’Europa”, ha detto Von der Leyen citata da Reuters dopo aver incontrato il presidente egiziano. Per ora quindi, il famoso “prezzo politico” lo pagano solo i numerosi attivisti che si trovano dietro le sbarre in Egitto. La retorica sui diritti umani e sul diritto internazionale sbandierata dall’Unione europea per la crisi in Ucraina non ha evidentemente lo stesso valore per l’area del Mediterraneo. Turchia. Amnesty International dichiara sette detenuti “prigionieri di coscienza” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 giugno 2022 Sette persone in carcere in Turchia per false accuse sono state dichiarate “prigionieri di coscienza” da Amnesty International, per riconoscere la lunga serie di ingiustizie che essi hanno subito negli ultimi anni: arresti arbitrari, procedimenti giudiziari politicamente motivati, processi farsa e condanne. Amnesty International ha preso questa decisione dopo la condanna in appello dei sette imputati, precedentemente assolti, e la pubblicazione delle motivazioni del verdetto, prive di alcun fondamento. Il 25 aprile il filantropo Osman Kavala è stato condannato all’ergastolo per “tentativo di rovesciare il governo”. Secondo l’accusa, sarebbe stato tra gli ispiratori delle proteste di massa, ampiamente pacifiche, svoltesi nel 2013 al Gezi Park di Istanbul ma non è mai stata prodotta alcuna prova per sostanziare il reato. Kavala è in carcere dal 2017. Gli altri sette coimputati sono stati condannati a 18 anni di carcere per aver collaborato con Kavala. Di essi, l’unico ancora a piede libero ma contro il quale è stato spiccato un mandato di cattura è l’accademico Yi?it Ekmekçi. L’annuncio della nomina dei sette prigionieri di coscienza è stato fatto durante una visita ai prigionieri da parte di una delegazione di alto livello di Amnesty International, guidata dal presidente dell’associazione in Turchia, l’avvocato Kerem Dikmen. Le sei persone nominate prigionieri di coscienza insieme a Kavala sono: Mücella Yap?c?, architetta e, all’epoca delle proteste di Gezi Park, segretaria della sede di Istanbul dell’Ordine degli architetti. È una delle 26 persone già processate per “aver trasgredito alla legge sulle riunioni e sulle manifestazioni” e una delle cinque accusate anche di “aver fondato e diretto un’organizzazione illegale”, reati per i quali vennero assolte nel 2015. Il processo al termine del quale è stata condannata è il terzo indetto nei suoi confronti per le proteste di Gezi Park. Tayfun Kahraman, urbanista ed esponente del movimento “Solidarietà per Taksim”, successivamente coordinatore degli urbanisti del progetto della Grande Istanbul. Can Atalay, già avvocato del movimento “Solidarietà per Taskim” ed esponente della sede di Istanbul dell’Ordine degli architetti. Ha rappresentato i parenti delle vittime in alcuni noti processi, terminati con l’impunità, come quello per l’esplosione della miniera di carbone di Soma nel 2014 in cui restarono uccisi oltre 300 minatori e quello per il deragliamento di un treno a Çorlu, nel 2018, nel quale persero la vita 24 persone. Mine Özerden, esponente della “Piattaforma Taskim”, un’altra organizzazione della società civile turca nata nel 2011 per contrastare il progetto di riqualificazione di piazza Taksim. Autrice di documentari, ha lavorato nel campo della pubblicità sociale e per vari gruppi della società civile. Çi?dem Mater, produttrice cinematografica, interprete e collaboratrice di varie testate internazionali come The Boston Globe, Le Nouvel Observateur, The Los Angeles Times, Radio France Internationale e Sky News. Un’opera da lei prodotta, “Burning days”, è stata premiata quest’anno a Cannes ma lei non ha potuto ritirare il premio poiché era in carcere. Hakan Alt?nay, direttore della Scuola europea di politica e presidente della Global Civics Academy. Fondatore della Fondazione Open Society in Turchia, ha scritto per Financial Times, International Herald Tribune e New York Times. Afghanistan. L’Onu: “Milioni di sfollati hanno urgente bisogno di aiuto” di Marjana Sadat* La Repubblica, 18 giugno 2022 Il numero di sfollati interni nel Paese, l’anno scorso, era di 700mila persone. Kelly T. Clements, vice alta commissaria dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in visita in Afghanistan, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di assistenza umanitaria. “Sono qui nel Paese per chiedere di sostenere queste persone, anche quelle che tornano a casa, e difendere i loro diritti, in particolare i diritti delle donne e dei bambini e la possibilità per loro di prendere parte alla vita pubblica”, ha detto, aggiungendo che milioni di afghani sono sfollati e hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria. Secondo la Clements, gli afghani, in particolare donne e bambini, sono privati dei loro diritti e devono avere la possibilità di prendere parte alla vita pubblica. Le sue osservazioni arrivano nel momento in cui l’Onu ha comunicato che il numero di sfollati interni nel Paese, l’anno scorso, era di 700mila persone. In base a questo rapporto, negli ultimi anni 5,5 milioni di persone sono state costrette a lasciare la loro casa per guerra, siccità e disastri naturali. Secondo l’Unhcr, 2,2 milioni di afghani vivono in Iran e in Pakistan con i documenti necessari, mentre il numero di rifugiati che non hanno documenti è stato stimato in più di 3 milioni. Secondo l’Onu, il numero di afghani che vogliono lasciare il Paese è cresciuto dopo la presa del potere da parte dei Talebani. L’Unhcr stima che dopo la Siria e il Venezuela l’Afghanistan sia il Paese con il maggior numero di profughi al mondo. *Traduzione di Fabio Galimberti