Csm, la riforma è legge. Mal di pancia di Lega e Iv: “Anacronistica e inutile” di Simona Musco Il Dubbio, 17 giugno 2022 Il Carroccio vota sì ma critica il provvedimento, astenuta Italia viva. L’Anm: “A rischio l’indipendenza della magistratura”. La riforma del Csm è legge. Dopo una discussione durata poco meno di due ore, il Senato ha dato via libera con 173 voti a favore, 37 contrari e 16 astenuti, garantendo dunque la possibilità di votare a settembre il nuovo Csm e consentire allo stesso di “svolgere appieno la funzione che gli è propria”, ha affermato la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Italia viva ha mantenuto la linea dell’astensione, mentre, dopo il blitz andato a vuoto sia in Commissione giustizia sia in Aula, la Lega ha votato sì al provvedimento. Un sì sofferto, dopo il niet dell’Aula agli emendamenti proposti dal Carroccio, dal momento che questa riforma, ha sottolineato la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, “sarebbe stata ottima” prima dello scandalo Palamara. E nonostante “una serie di aspetti positivi” - piccole “correzioni” che hanno consentito alla Lega di votare sì turandosi il naso - la riforma “è anacronistica e non tiene conto delle novità”. Ovvero una perdita di credibilità della magistratura, soprattutto per la sua mancanza di “imparzialità”, di cui adesso, afferma in soldoni Bongiorno, le stesse toghe non si vergognano nemmeno più. Per sconfiggere le degenerazioni del correntismo sarebbe stata dunque necessaria una “riforma costituzionale”, che avrebbe consentito di discutere “non solo su come si va al Csm, ma su chi è meritevole di andare al Csm”. La Guardasigilli ha ricordato il lungo applauso tributato lo scorso 3 febbraio da tutti i parlamentari al Presidente della Repubblica, che per l’ennesima volta invocava l’approvazione, in tempi brevi, della riforma. “Oggi siamo qui per mantenere quell’impegno - ha affermato -, un passaggio importante nella storia del nostro Paese, in cui troppo a lungo la giustizia è stata terreno di scontro”. Ed è stato in questo momento che Cartabia ha ricordato il patto di maggioranza, parlando di “un articolato ampiamente condiviso, in cui ciascuna forza politica può riconoscere il proprio apporto”, un modo per richiamare “all’ordine” le forze di governo. Ma oltre alla Lega, a criticare il provvedimento è stato anche il leader di Italia viva Matteo Renzi, secondo cui la riforma è incapace di scalfire il potere delle correnti e di responsabilizzare i magistrati. Una riforma “più inutile, che dannosa”, incapace di garantire quello scatto di reni che avrebbe smarcato il Paese da una narrazione giustizialista e che vede nell’azione della politica un tentativo di “fermare la magistratura”. Renzi ha ricordato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, osteggiati non dalla politica, ha sottolineato, ma dalla “parte politica della magistratura”. La stessa, ha dunque incalzato, che oggi parla di “cordone sanitario contro avversari politici” - il riferimento è alle dichiarazioni dell’ex segretario di Magistratura Democratica Nello Rossi nei suoi confronti - e che ha chiuso la vicenda Palamara trovando un “buon capro espiatorio, che paga per tutti”. Ma il “metodo” dell’ex leader dell’Anm è lo stesso “con cui si continua ad agire e si è agito per decenni, in un rapporto costante tra politica e magistratura”. Renzi ha puntato il dito contro quei magistrati che non fermano un omicidio annunciato per dedicarsi a blitz mediatici, contro quelli del caso David Rossi e quelli “che molestano sessualmente le colleghe” - gli stessi che lo vogliono a processo per il caso Open -, parlando di “questione etica” e di assenza delle istituzioni. “C’è bisogno di punire chi sbaglia”, ha dunque sottolineato, accusando la politica di pavidità, “che si misura anche nel fatto che troppo spesso abbiamo utilizzato indagini tutte a scopo giustizialista”. E il riferimento più recente è quello al caso del padre di Maria Elena Boschi: “Qualcuno del M5S potrebbe avere il coraggio di chiedere scusa alla famiglia Boschi, ma non lo farà”. Un passaggio lo ha dedicato anche al Referendum: “Sette milioni di italiani sono andati a votare e sono stati presi in giro, perché sette milioni di italiani sono una minoranza - ha concluso -. Ricordatevi che le battaglie sui diritti le fanno le minoranze, che poi diventano maggioranze; e quei sette milioni di italiani saranno decisivi alla prossima campagna elettorale per avere una giustizia giusta e un Paese diverso”. Ma a difendere il lavoro della maggioranza ci ha pensato la vicepresidente del Senato, la dem Anna Rossomando. “Da oggi nessuno potrà non sapere o far finta di non sapere che il Parlamento fa le riforme sulla giustizia. Le fa e le ha fatte”, ha detto riferendosi all’ostruzionismo della Lega che invocava la politica delle mani libere. Da qui la paura - ora accantonata - che qualcuno potesse affossare la riforma: “Non potevamo e non possiamo permetterci che tutto rimanga uguale. Lo abbiamo detto anche a quella parte della magistratura che, secondo noi sbagliando, ha avuto una posizione di arroccamento e non ha voluto capire quanto di importante e di innovativo ci fosse in questa riforma”. Che pur non essendo risolutiva, permette di contrastare “una lotta di potere per il potere”, grazie allo stop alle nomine a pacchetto, al diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari e una maggiore articolazione nella valutazione dei magistrati sulla base delle macroscopiche smentite processuali, “in collegamento con la norma che prevede che nel processo penale non si chieda il rinvio a giudizio se non c’è una ragionevole convinzione di ottenere una condanna”. Una scelta garantista, ha sottolineato, ricordando anche la riforma della custodia cautelare del 2015 che metteva più paletti sulla reiterazione, riforma oggi invocata dalla Lega e però all’epoca osteggiata proprio dal Carroccio. La reazione della magistratura non si è fatta attendere. Per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, si tratta di una riforma che in alcuni aspetti “si pone in contrasto con il principio dell’indipendenza dei magistrati”, caratterizzata da “una sostanziale indifferenza all’architettura costituzionale dello statuto del magistrato” con “potenziali scostamenti di fatto da un’idea di magistratura fortemente delineata in Costituzione, che il legislatore non ha tenuto nella doverosa considerazione”, ha detto all’AdnKronos. Mentre per il Cnf, “anche se non è la migliore possibile, è certamente un passo avanti verso un maggiore equilibrio tra funzioni e poteri degli operatori del diritto - ha commentato la presidente Maria Masi -. La legge Cartabia tiene conto delle indicazioni che il Cnf ha portato negli anni, con particolare riferimento al diritto voto avvocati nei Consigli giudiziari”. Nuovo Csm, la legge c’è ma forse non basta di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 giugno 2022 Approvata definitivamente la riforma, al senato la Lega si adegua e vota a favore. Ora possono essere convocate le elezioni, a settembre, per i consiglieri “togati”. Ma la difficile mediazione in parlamento per scegliere i “laici” rischia di ritardare tutto e tenere in vita il Consiglio eletto con le vecchie regole. Nella nuova legge sul Csm e l’ordinamento giudiziario “ciascuna forza politica può riconoscere il proprio apporto”, dice la ministra Cartabia benedicendo nell’aula del senato l’approvazione definitiva della sua terza riforma (dopo i codici di procedura civile e penale). È un modo possibile di raccontarla. L’altro è che nessuna forza politica della maggioranza rivendica fino in fondo la riforma. Il meno scettico è il Pd, che però è soddisfatto soprattutto per quello che ha evitato: il sorteggio come metodo di selezione dei magistrati nel Csm e la separazione totale e definitiva delle funzioni tra giudici e pm. Avremo però un sistema elettorale che molto probabilmente rafforzerà il peso delle due correnti della magistratura più forti e una separazione delle funzioni quasi totale. La riforma passa così con 173 voti favorevoli, un centinaio meno di quelli previsti. Appena 16 sono gli astenuti, i renziani e cinque leghisti immarcescibili tra i quali Calderoli, Pillon e il presidente della commissione giustizia Ostellari. Tutti gli altri voti che mandano sono quelli degli assenti. Contrari 37: Fratelli d’Italia e gli ex 5S del gruppo misto. La Lega alla fine, in prevalenza, vota a favore, dimostrando che quelle di Salvini e Bongiorno erano solo manovre di confusione per far dimenticare la sconfitta nei referendum. Protesta l’Associazione nazionale magistrati, che contro questo testo era arrivata a proclamare uno sciopero come solo nel 2005, sostanzialmente fallito. Il disegno di legge non è stato cambiato di una virgola e così l’Anm denuncia gli “aspetti fortemente negativi che mettono a rischio l’indipendenza dei magistrati”. Non solo, secondo il presidente dell’Anm Santalucia “non si sono tratte le conseguenze del voto referendario. Se il corpo elettorale boccia la separazione delle carriere, non capisco perché si insista”. In un vertice martedì scorso, Cartabia ha spiegato ai rappresentanti della maggioranza perché non si poteva cambiare niente. Solo con la riforma approvata definitivamente può partire l’iter per la costituzione del nuovo Csm. Quello uscente scade il 25 settembre, adesso il ministero della giustizia ha un mese di tempo per disegnare i nuovi collegi elettorali delle toghe. Impiegherà assai meno tempo: i collegi territoriali sono solo sei (più due nazionali, uno per la Cassazione e uno per il recupero proporzionale), due per i pm e quattro per i giudici di merito. Dopo di che il presidente della Repubblica potrà convocare le elezioni del Consiglio con le nuove regole. Che l’obiettivo fosse questo Cartabia l’ha ripetuto anche ieri nell’aula del senato: “Lo scorso 3 febbraio le camere rispondevano con un lungo e sentito applauso all’invito del Presidente della Repubblica ad approvare in tempi brevi la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, oggi siamo qui per mantenere quell’impegno”. Mattarella convocherà le elezioni per la componente togata del Csm a settembre, non troppo presto per consentire ai magistrati un minimo di campagna elettorale oltre agosto, non troppo tardi per provare a rispettare la scadenza del 25. Dopo di che, però, le camere in seduta comune dovranno eleggere i dieci componenti (novità, prima erano otto) “laici”. E qui rischia di saltare tutta l’urgenza del rinnovamento che ha portato ad accelerare l’approvazione della riforma. Perché è molto difficile che questo parlamento riesca a trovare facilmente l’accordo per scegliere i consiglieri laici con la maggioranza richiesta dei tre quinti. La composizione delle camere a pochi mesi dallo scioglimento non rispecchia le aspettative dei partiti. Fratelli d’Italia con i numeri attuali avrebbe diritto a un solo consigliere come i centristi, meno di Forza Italia e Pd mentre Lega e 5 Stelle continuerebbero a fare il pieno malgrado i sondaggi negativi. Non aiuta il fatto che a settembre, con una maggioranza ugualmente ampia se non di più, dovrà essere eletto dalle camere anche un giudice costituzionale. La prova delle difficoltà sta nel fatto che per rispettare la scadenza dei quattro anni la seduta comune di camera e senato potrebbe essere convocata già a luglio, ma è un’eventualità che nessuno in parlamento considera e che anche fonti di governo smentiscono. Il rischio è che sia proprio il parlamento a ritardare l’insediamento del nuovo Csm. Senza i consiglieri laici, infatti, resteranno in carica gli attuali consiglieri. Eletti con la vecchia legge. La riforma del Csm è legge: dalle porte girevoli alle nomine, cosa cambia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2022 Il Senato ha approvato la riforma confermando il testo Camera: i sì sono stati 173, i no 37, gli astenuti 16. Cartabia: “Passaggio importante nella storia del Paese”. Bongiorno (Lega): “Occasione mancata”. Caiazza (Ucp): “Fatto il possibile ma serve riforma radicale”. Il Senato ha approvato la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, confermando il testo Camera, che è dunque legge. I sì sono stati 173, i no 37, gli astenuti 16. “Solo pochi mesi fa - ha detto la ministra Marta Cartabia in Aula prima dell’iniuzio delle dichiarazioni di voto - le Camere rispondevano con un lungo applauso all’appello del presidente Matterella che sollecitava l’approvazione di questa riforma. Oggi siamo qui per mantenere l’impegno di trasformare in legge un provvedimento che viene da lontano e che è stato costruito con il contributo di molti”. “Questo è un passaggio importante nella storia del nostro Paese - ha aggiunto Cartabia - in cui troppo a lungo la giustizia è stata terreno di scontro. L’approvazione di questa legge - il terzo grande pilastro delle riforme della giustizia vòlte a rinsaldare la fiducia dei cittadini nell’amministrazione della Giustizia - consentirà - ha detto ancora Cartabia - che l’imminente rinnovo del Consiglio superiore della magistratura si svolga con nuove regole affinché questa istituzione, presidio costituzionale e imprescindibile dei principi dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, principi irrinunciabili, “possa - per riprendere proprio le parole del presidente Mattarella - svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare. Un grazie sentito a tutti e a ciascuno di voi”, ha concluso. Bongiorno, sì a riforma ma sono solo ritocchi - “Manca qualcosa all’appello in questa riforma: noi votiamo a favore di questi ritocchi, ma all’appello manca una riforma costituzionale. C’erano i tempi per farlo, ci avrebbe permesso di dire non solo chi va al Csm, ma chi è meritevole di andare al Csm. Lei, signor ministro, sarebbe passata alla storia convocando un tavolo costituzionale”. Lo ha detto in Senato Giulia Bongiorno annunciando il voto favorevole della Lega alla riforma definita “una occasione mancata”. “Noi non ci crediamo più - ha aggiunto - che improvvisamente la magistratura si autoriformerà. Noi crediamo che una riforma efficace sia dovere del legislatore e crediamo che una riforma costituzionale doveva essere avviato da lei”. Caiazza, legge massimo possibile, serve riforma radicale - “Il Paese ha bisogno di una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, dalla separazione delle carriere alla interruzione del flusso di magistrati nell’esecutivo, ad un profondo ripensamento dei meccanismi di valutazione di professionalità e degli avanzamenti in carriera. Comprendiamo bene che non vi sono, ad oggi, le condizioni politiche perché questo possa avvenire, e diamo atto alla Ministra Cartabia di aver forse ottenuto il massimo possibile da una difficilissima mediazione nella maggioranza che proprio sui temi della giustizia sconta le distanze più incolmabili”. Lo ha dichiarato il presidente dell’Unione delle Camere penali Giandomenico Caiazza. Aiga, bene ok riforma ma si poteva fare di più - L’Associazione Italiana Giovani Avvocati pur esprimendo “un giudizio positivo per l’approvazione della riforma della giustizia”, sottolinea che “si poteva fare di più”. Per il presidente di Aiga, Avv. Francesco Paolo Perchinunno, “è necessaria una riforma organica dell’ordinamento giudiziario e occorre ancora fare molta strada per correggere le tante storture del sistema. Oggi ringraziamo il Parlamento per la sensibilità al tema della Giustizia, ma già da domani solleciteremo la politica ad osare maggiormente”. L’Avv. Gianluca Nardulli, coordinatore del Dipartimento Nazionale Aiga Ordinamento Giudiziario ritiene il provvedimento legislativo approvato oggi un significativo punto di partenza che necessita di essere proseguito. “Considerare quanto legiferato oggi un traguardo sarebbe uno sbaglio. Occorre continuare il confronto con i gruppi parlamentari affinché si arrivi a garantire ai cittadini una Giustizia nella quale porre piena fiducia “. Ecco le principali novità Si torna a 30 componenti - I consiglieri togati salgono da 16 a 20 e saranno ripartiti tra 2 magistrati di legittimità, 5 pm e 13 giudici. I laici diventano 10: oggi sono 8. Cambia il sistema elettorale - Il sistema elettorale sarà misto: binominale maggioritario, con una quota proporzionale (per eleggere 5 dei 13 giudici di merito). Non sono previste liste, ma candidature individuali, senza firme di sostegno. In ogni collegio binominale dovranno esserci un minimo di 6 candidati, di cui almeno la metà del genere meno rappresentato: in mancanza ci sarà un sorteggio. Basta con le nomine a pacchetto - Per impedire accordi spartitori tra le correnti della magistratura, si impone al Csm di procedere in base all’ordine cronologico delle scoperture. In nome dalla trasparenza saranno obbligatorie le audizioni dei candidati e la pubblicazione online degli atti e dei curriculum. Non potranno far parte della Commissione che si occupa delle nomine i componenti della Sezione disciplinare: esclusa la loro presenza anche dalle Commissioni che decidono sui trasferimenti d’ufficio ordinari e per incompatibilità. Stop alle porte girevoli politica-giustizia - Tutti i magistrati che hanno ricoperto incarichi elettivi non potranno più tornare a indossare la toga: saranno collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o le sezioni consultive del Consiglio di Stato, le sezioni di controllo della Corte dei Conti e il Massimario della Cassazione. Chi non è stato eletto non potrà per 3 anni lavorare nella regione dove si è candidato, né fare il capo di un ufficio giudiziario, il pm, il gip e il gup. E non sarà più possibile continuare a fare il magistrato mentre si ricoprono incarichi elettivi e governativi: obbligatoria l’aspettativa, senza assegni in caso di incarichi locali. Stretta sui passaggi giudice-Pm - Sarà possibile un solo cambio di funzione da giudice a pm e viceversa nel penale entro i 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Giro di vite sui magistrati fuori ruolo - I magistrati potranno andare fuori ruolo solo dopo 10 anni di effettivo lavoro sul campo e al massimo per 7 anni (10 per chi è distaccato presso organi costituzionali e di governo). Si abbasserà il numero massimo dei fuori ruolo, oggi pari a 200, ma non è stato quantificato il taglio. Pagelle, fascicolo magistrato e voto avvocati - Arriva un giudizio ad hoc, graduato in discreto, buono, ottimo, sulla capacità di ogni magistrato di organizzare il proprio lavoro. E si introduce il voto degli avvocati nei consigli giudiziari sulla professionalità dei magistrati, ma con alcuni paletti: sarà unitario e possibile solo in presenza, a monte, di un deliberato del Consiglio dell’Ordine. Il fascicolo personale del magistrato sarà aggiornato ogni anno (non più ogni 4) con provvedimenti a campione e statistiche sull’attività svolta: la novità è che si darà conto anche degli esiti, per avere una fotografia a tutto campo del lavoro, non per un giudizio sui singoli provvedimenti. Albamonte: “La nuova legge non elimina il peso del correntismo. E mette i pm nel mirino” di Conchita Sannino La Repubblica, 17 giugno 2022 Intervista al magistrato, coordinatore di Area: “Il prossimo Csm? Deve essere quello della rifondazione”. Intanto la corrente di sinistra si presenta spaccata alle prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio: “Una frattura che amareggia”. “La riforma Cartabia ha qualche pregio, non lo nego. Ma purtroppo pesano di più i difetti: che colpiscono l’indipendenza del magistrato e puntano a farne più un “incolpato” da processare che un autonomo servitore della giustizia sottoposto a valutazione professionale. Il nostro parere è che bisognerà intervenire con particolare saggezza a correggere, in fase di decreti attuativi”. Eugenio Albamonte, pm a Roma, è il segretario di Area, ovvero la corrente progressista che esce proprio in questa stagione dalla rottura del sodalizio con Magistratura democratica. Come tutte le altre componenti, si prepara ormai alla prima campagna elettorale post-riforma per il Consiglio che si formerà sulle nuove norme. “Una frattura che amareggia”. Segretario Albamonte, scalfiamo l’immagine dei magistrati eterni scontenti. Partiamo dai pregi della legge appena approvata? “Questa riforma riporta il concorso in magistratura al livello di primo grado, quindi con l’accesso consentito anche a chi è semplicemente laureato in Legge, e magari eccelle nello studio. Mi sembra una visione più democratica e anche coerente con l’idea che un magistrato non debba per forza arrivare dagli strati più avvantaggiati o protetti della società. È un bene”. Anche se, realisticamente, chi si prepara con un corso post-laurea ha più chance: specie a registrare l’andazzo generale di molte Università, per non parlare del boom di alcune telematiche... “Il tema esiste, ma almeno torniamo a come funzionava il nostro concorso prima del 2006. Così si elimina, per norma e speriamo anche di fatto, uno steccato che istituiva automaticamente dei filtri di censo: in un sistema-Paese dove purtroppo già le disuguaglianze dilagano e l’ascensore sociale è paralizzato da decenni”. Un altro elemento positivo non è anche la scelta di sprangare le porte per quei magistrati che dondolavano tra uffici giudiziari e politica? “Sì, lo è e, d’altro canto, con l’Anm lo abbiamo chiesto inviano per anni, ma il legislatore fingeva impegno e rinviava. Perché alla politica serviva questo vuoto, in cui l’unico argine era rappresentato dall’etica personale di alcuni. La stretta era profondamente necessaria”. Immagino non conceda altro ai “pregi”. Siamo già ai difetti? “Sì. E voglio partire dai rischi legati all’apertura del fascicolo della performance per i magistrati: estremamente pericoloso”. Che però non si chiama così, nella nuova legge... “Ma poiché quello significa, e poiché negli altri Paesi in cui esiste il meccanismo è così definito, per adesione al vero lo chiamerei così...” Servirebbe a monitorare la vita professionale della toga, più che a tenerla nel mirino... “In realtà è una introduzione che favorisce ed anzi spinge al conformismo nelle decisioni del magistrato dei vari livelli, compresi Tribunali e Corti di Appello; che paralizza la indispensabile dialettica e impedisce alle toghe, quando il legislatore latita come pure accade, di intercettare una domanda di giustizia non ancora codificata o di farsi interprete di mutate istanze sociali. Nella nuova norma si fa riferimento ad eventuali sconfessioni nei successivi gradi di giudizio: ma in che termini, quantitativi o qualitativi, peseranno? Ecco perché bisogna intervenire con grande lucidità e criterio in sede di decreti attuativi. Ed aggiungo: tutto questo non è affatto una buona notizia per i cittadini”. Cosa intende, concretamente? “Un esempio. La vicenda dei rider e dei loro diritti calpestati. In tempo di lockdown e di vita esterna totalmente congelata, abbiamo compreso a quali ritmi fossero costretti e quanta ipocrisia vi fosse nel considerarli liberi professionisti. Un magistrato magari più prudente, legato al timore di sconfessioni successive e quindi di perdere quota nel fascicolo, avrebbe trattato la tutela dei diritti di quei “nuovi” lavoratori, con la medesima libertà?”. Passiamo all’altra spina, per voi: quella che l’Anm definisce “l’eccesso della leva disciplinare”.. “C’è un costante slittamento, in questa riforma, dalla figura del magistrato da valutare sotto il profilo professionale a quella dell’incolpato che si trova dentro un vero e proprio processo. Per esempio; deve essere punito se non trasmette al giudice, in fase di indagini preliminari, atti ritenuti rilevanti. Ma siamo in un generico un po’ inquietante. Perché il giudice disciplinare, a quadro profondamente evoluto, può ben ritenere rilevante qualcosa che oggettivamente non si presentava tale mentre si analizzavano gli elementi”. E poi c’è l’illecito disciplinare legato al decreto sulla presunzione d’innocenza: un bavaglio che non piace neanche ai giornalisti... “Una superfetazione della sanzione disciplinare. II concetto generale lascia davvero riflettere: si chiede qui ai soli procuratori di valutare l’interesse pubblico di una notizia: come se dare una notizia o Pavia o a Cantù o all’Italia intera sia la stessa cosa, e vigessero pochi ed inequivocabili criteri. Così si impedisce qualunque comunicazione ai sostituti procuratori che si ostinano a considerare legittimo il controllo dell’opinione pubblica sul proprio operato. Non solo non vi era alcun bisogno di questa norma, creata appositamente contro i pubblici ministeri, ma confligge, duole dirlo, anche con il tema delle libertà personali vigenti nei regimi democratici. Solo nelle dittature, se ci pensiamo, un arresto è considerato come una notizia da tacere, a meno che non si sia proprio costretti a darla”. Arriviamo alle norme per l’elezione del nuovo Csm. Continua a non piacervi il sistema maggioritario, seppur corretto con quota proporzionale? “Non è un capriccio: è un’autentica delusione. È il sistema maggioritario che ha dato il potere ai gruppi dirigenti più permeabili delle correnti, è quella dinamica ad aver prodotto lo scandalo Ferri-Palamara, e la correzione proporzionale non riesce assolutamente a scardinare questi rischi. Per dirla in breve? Due correnti faranno la voce grossa spartendosi 14 posti, e tre correnti, quelle minori, si prenderanno i restanti 5”. Forse si chiede a maggioritario o proporzionale di fare quello che solo una rigenerazione etica della magistratura potrebbe produrre? “Non c’è dubbio che quello sia il lavoro centrale, e doveroso, da portare avanti. E va riconosciuto che quello che chiude ora i battenti è un Consiglio che ha già fatto passi avanti, che la riforma assorbe e fa abilmente propri: la trattazione delle nomine secondo ordine cronologico per evitare gli accordi e scambi per “pacchetti”, la valorizzazione delle audizioni, i criteri di maggior trasparenza. Ma il nuovo Csm dovrà scrivere pagine ulteriormente nuove. Dovrà essere il Consiglio di un riscatto, di una più compiuta rifondazione”. Scusi se obietto: voi non cominciate benissimo. Come nella miglior tradizione della sinistra, per la prima volta andate divisi ad elezioni cruciali. C’è una frattura tra Area e Magistratura democratica... “Sì, purtroppo è inevitabile pensare alla vecchia e abusata “maledizione” della sinistra. Ed è un motivo, personale e pubblico, di dispiacere che arriva alla vigilia di elezioni così impegnative. Spero ci sia un’assunzione di responsabilità collettiva e che il dialogo non venga mai meno: ma c’è un dovere di verità e trasparenza anche nelle relazioni. L’unità certo, servirebbe eccome, tra noi: io non mi illudo, la politica non ha smesso i suoi conflitti, il ridimensionamento dei poteri di indagini, dei pm, resta una precisa volontà. E chi è uscito sconfitto clamorosamente dai referendum coltiva più affilate ambizioni di rivincita”. I referendum bocciati per difetto di chiarezza di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 17 giugno 2022 Questioni tecniche e di difficile comprensione non hanno coinvolto la popolazione. I referendum sulla giustizia hanno raggiunto il record di mancata partecipazione. Diverse sono le ragioni di questo sonoro No che l’elettorato ha rivolto ad un referendum proposto su complessi temi di giustizia. Si dice: è mancato l’”effetto traino” dei quesiti su cannabis e eutanasia. Ma pensiamo di essere ad un supermarket ove i consumatori, attratti dai prodotti elegantemente presentati all’inizio delle corsie oppure offerti in “sottocosto”, riempiono poi il carrello di altri prodotti magari inutili? Questo argomento dovrebbe, al contrario, far riflettere sulle distorsioni indotte da tornate referendarie in cui già di per sé la somma di numerosi quesiti rendeva più difficile la valutazione di ciascuno, soprattutto quando i temi sono molto diversi tra loro. Si è lamentata la scarsa attenzione dei media: i mezzi di comunicazione possono stimolare il dibattito, ma non creare un interesse che sia assente o debole. E poi i quesiti sulla giustizia riguardavano tematiche sulle quali il dibattito è sempre vivo. Legge Severino e processi a sindaci con diversi esiti in appello rispetto al primo grado hanno riempito pagine di giornali e notiziari Tv. Custodia cautelare è costante terreno di dibattito e scontro tra sostenitori di “legge e ordine” e “garantisti”; negli ultimi mesi è stata sullo sfondo del dibattito molto vivo, in Parlamento e nella società, sulla presunzione di innocenza. Per non dire di Consiglio superiore della magistratura e “correnti” dell’Associazione Magistrati oggetto di libri, tanto poveri di analisi quanto ricchi di polemiche che hanno raggiunto per qualche giorno le vette nelle classifiche delle vendite. Ma non sono mancati diversi libri di approfondimento, con diversi accenti, come quelli recenti di Sabino Cassese e Luciano Violante. Il problema era quello della formulazione dei quesiti sulle singole questioni. Sulla legge Severino la gran parte dei sostenitori del sì ha citato la obbligatoria sospensione di amministratori locali dopo la sola condanna di primo grado, omettendo accuratamente di aggiungere che si abrogava tutta la normativa anche con riferimento a condannati definitivi. Non è mancato però chi, più correttamente, ha motivato il suo sì sottolineando che anche la scelta di candidare o meno condannati per fatti gravi dovrebbe essere rimessa alla responsabilità della politica. Argomento in linea di principio ineccepibile. Nel 2011 Karl-Theodor zu Guttenberg dopo la notizia del plagio di brani della sua tesi di dottorato si è dimesso da ministro tedesco della difesa e da ogni ruolo di partito. In Austria Sebastian Kurz, nel 2021 si è dimesso dal cancellierato ed ha annunciato il ritiro dalla vita politica a seguito dell’accusa di aver usato fondi pubblici a fini di partito. Da noi le cose vanno diversamente. “Come è possibile che nel 2022, a 30 anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, siamo capaci di accettare che un candidato sindaco a Palermo raccolga voti con l’aiuto esplicito di due persone condannate per reati connessi alla mafia come Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro?” (Così Annalisa Cuzzocrea su questo giornale il 13 giugno). È possibile, è avvenuto: in attesa di un mutamento del costume politico meglio mantenere la Severino. Un elemento di fragilità e, aggiungerei, di distorsione di questi referendum è che, nonostante il sostegno di un partito politico di primo piano come la Lega, è da ritenere che le firme necessarie non siano state raccolte. Infatti non sono state depositate ed il referendum si è tenuto perché richiesto da diverse Regioni, quelle governate da maggioranze di centro destra. È una facoltà prevista dalla Costituzione, ma è difficile sfuggire all’impressione che qui si sia trattato di un soccorso in extremis in pura logica di schieramento politico. Tanto più quando si legge, come ad esempio nel verbale della seduta del 3 agosto 2021 della Regione Piemonte, che la delibera è stata adottata frettolosamente a maggioranza su una relazione di poche righe, senza reale dibattito e addirittura a scrutinio segreto. I referendum abrogativi per definizione intervengono su leggi, ma a votare sono tutti i cittadini e non solo i giuristi. Questo impone un onere di chiarezza. Vi sono grandi temi che interrogano valori profondi o questioni cruciali nell’organizzazione della società e dell’economia (aborto, divorzio, ma anche scala mobile o nucleare) sui quali può formarsi una opinione diffusa informata, anche a prescindere dai dettagli della normativa regolatrice. Ma vi sono temi sui quali anche i dettagli della normativa regolatrice sono essenziali: così era per i due aspetti della legge Severino e così anche per la custodia cautelare, tanto che su quest’ultimo quesito taluno dei sostenitori è sembrato fare marcia indietro dopo averne colto tutte le ricadute. Così era, e forse ancor più, per i tre quesiti sulla organizzazione della giustizia. La questione dell’intervento dell’avvocatura sulla valutazione dei magistrati, se si va oltre gli slogan, pone il problema essenziale del “come” ciò deve avvenire in organismi, come i Consigli giudiziari, che, questi sì a differenza del Csm, sono istituzioni ignote al largo pubblico. Si è raggiunto il paradosso di forze politiche che alla Camera hanno votato una disciplina ragionevole e raffinata e poi sostengono un quesito che avrebbe portato ad una soluzione rozza e non priva di inconvenienti. Con il sostegno a questo quesito e a quello sul sistema elettorale del Csm si coglie ancora una volta la distorsione indotta nell’utilizzo del referendum abrogativo, con tutti i limiti di uno strumento che non può trasformarsi in propositivo, da parte di grandi forze politiche rappresentate in Parlamento e addirittura facenti parte della maggioranza di governo. Si è giocato su due tavoli indebolendoli entrambi. La Resistenza di Gratteri di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 giugno 2022 La nuova lotta partigiana del procuratore di Catanzaro è contro Draghi e Cartabia. Quale il vero terrore? Che qualche avvocato (come da riforma) metta il naso su tutte le sue inchieste finite nel nulla. Dal “resistere resistere” del Procuratore Saverio Borrelli contro Berlusconi, alla “Nuova Resistenza” di Nicola Gratteri contro Draghi e il ministro Cartabia. Dobbiamo temere che il Procuratore di Catanzaro voglia andare in montagna, visto che nell’intervista a Marco Travaglio fa riferimento esplicito al fatto che “quasi 80 anni fa, per conquistare la nostra democrazia, hanno perso la vita migliaia di donne e uomini”? Forse non è questa l’intenzione, ma le alternative paiono alquanto preoccupanti, se provengono da uomini in toga o in divisa. Anche perché il nuovo partigiano afferma con sicurezza che “Ogni stagione ha la sua resistenza”. Chissà a quale forma di conquista di democrazia adatta ai nostri tempi sta pensando il Procuratore. Non a quella parlamentare, evidentemente, dal momento che la sua nuova lotta partigiana parte da una forte critica rispetto alla riforma del ministro Cartabia (che nel frattempo ieri è stata approvata al Senato), rispetto alla quale dice che “non dobbiamo abbassare la guardia”. Ma neppure attraverso il passaggio dalle urne, visto che il referendum ormai è andato secondo le sue aspettative e non ci sono elettorali immediate. Una cosa però è certa, che la nuova lotta partigiana dovrà passare prima di tutto attraverso una forte presa di distanza da questo governo. Nicola Gratteri già in precedenti interviste aveva definito Mario Draghi come un esperto di economia ma inadeguato su tutto il resto. Ieri ha precisato meglio, lamentando il fatto che “i media hanno diffuso un’aura di intoccabilità attorno a questo governo, che invece - almeno sulla giustizia - non funziona”. Voce dal sen di Travaglio fuggita. Che cosa sarà mai della morbida riforma Cartabia a far imbufalire, e soprattutto preoccupare il prestigioso magistrato? La valutazione anche da parte degli avvocati sulle carriere e sulla professionalità dei magistrati. Un bel punto dolente, per il procuratore di Catanzaro. Potrebbe capitare che qualcuno di buona memoria o con un buon archivio andasse a rispolverare tutte le cantonate di una lunga storia. Quella iniziata da quel mattino del 12 novembre 2003 a Platì, quando l’intero paesino della Locride fu svegliato da centinaia di uomini in divisa i quali in diretta televisiva perquisirono, frugarono e poi arrestarono 150 persone, tra cui due sindaci, dodici ex assessori e poi segretari comunali e tecnici. La storia ci testimonia come finì. Nessuno fu condannato per mafia, e solo 8 su 150 risultò responsabile di reati di piccola entità. Ma un grande risultato politico, con un’intera classe dirigente distrutta e la fama di un paese di essere capofila della mafia, una reputazione negativa che resterà attaccata a un Comune in cui nessuno si vuol più nemmeno candidare alle elezioni amministrative. Se quello di Platì fu l’esordio, l’elenco delle inchieste-bolla di sapone è lungo, e termina con quella clamorosa nei confronti del Presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini. Mandato agli arresti come amico dei mafiosi il 19 novembre del 2020, assolto perché “il fatto non sussiste” il 18 febbraio 2022. Una di quelle storie che si ripetono, con le manette (in questo caso i domiciliari) che conquistano le prime pagine, con il Fatto scatenato nell’apertura del giornale, e il Presidente del consiglio regionale qualificato come “facilitatore politico amministratore della ‘ndrangheta”. E Nicola Morra, Presidente della commissione bicamerale antimafia che lo qualifica subito come “impresentabile”. È il solito discorso sul terzo livello, quello in cui non credeva Giovanni Falcone. È la storia di Giancarlo Pittelli, privato della libertà da due anni e mezzo e che tra poco rischia di passare dai domiciliari al carcere (e sarebbe un vero scandalo, considerati anche la sua età e le condizioni di salute). È stata la storia di Tallini, una vita politica distrutta. Tutti “mafiosi”, come l’ex vicepresidente della Provincia di Catanzaro Giampaolo Bevilacqua, assolto nello stesso giorno di Tallini, come l’ingegnere Ottavio Rizzuto, funzionario del Comune di Cutro, cui quelle accuse di abuso d’ufficio e concorso esterno in associazione mafiosa spezzarono per sempre il cuore, insieme all’assoluzione, nel settembre di un anno fa. E tralasciamo la buffonata politica dell’informazione di garanzia a Lorenzo Cesa. Per tutto questo e altro noi la capiamo, dottor Gratteri. Fosse mai che qualcuno come un avvocato, fuori dalla protezione della sua casta, quella con la toga “giusta” dei magistrati, vada a mettere il naso nel suo curriculum processuale. Chissà se non è già capitato al Csm, quando le è stato preferito il collega Melillo per il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Lei è molto bravo a difendere con le unghie e con i denti il suo ruolo, e il suo potere. E arriva fino al punto - e torniamo al concetto di “resistenza” - di fare un appello alla mobilitazione. Di chi? “In Italia - dice ci sono ancora tante personalità di grande levatura morale: facciano sentire la loro voce”. Il problema è: in montagna o nelle istituzioni democratiche? Enzo ne morì, e i Pm non erano innocenti di Francesca Scopelliti* Il Riformista, 17 giugno 2022 Enzo Tortora, come Dante, è entrato nell’Inferno del carcere, non come visitatore, non come scrittore bensì come dannato: ma lui non è violento, non è fraudolento, non è iracondo, non è lussurioso, non è avaro o goloso. Lui non è colpevole, come invece sono quei due magistrati che dopo essere stati collocati sul piedistallo della popolarità, dopo essere stati definiti i Maradona del diritto nell’anno in cui il “Pibe d’oro” aveva portato lo scudetto al Napoli, dopo aver goduto dei riflettori più insaziabili, non possono perdere la faccia. Meglio fottere Tortora. E così è stato. “Nel mezzo del cammin di sua vita si ritrovò per una selva oscura chè la diritta via (altri) avean smarrito ahi quanto a dir qual era è cosa dura”. Versi memorabili che ben si arrangiano con quel brutto fattaccio della procura napoletana, dove a entrare nell’Inferno è stato Tortora ma a perdere la diritta via o meglio la via del diritto, sono i magistrati napoletani e dove quelle tre belve incontrate da Dante non sono sufficienti - per numero e per ferocia - a rappresentare la barbarie di tutti gli attori in scena, dai magistrati (Lucio Di Pietro, Felice Di Persia, Luigi Sansone, Diego Marmo, Armando Olivares) che con protervia e fraudolenza perseguono un innocente sapendo quel che fanno, a quei famelici giornalisti che, per benevolenza nei confronti della procura, “divagano” sulla pelle di un uomo perbene, a quei farabutti collaboratori di giustizia che per un patto scellerato con la procura napoletana recitano una sceneggiatura scritta da altri. Enzo Tortora, come Dante, è entrato nell’Inferno del carcere, non come visitatore, non come scrittore bensì come dannato: ma lui non è violento, non è fraudolento, non è iracondo, non è lussurioso, non è avaro o goloso. Lui non è colpevole, come invece sono quei due magistrati che dopo essere stati collocati sul piedistallo della popolarità, dopo essere stati definiti i Maradona del diritto nell’anno in cui il “Pibe d’oro” aveva portato lo scudetto al Napoli, dopo aver goduto dei riflettori più insaziabili, non possono perdere la faccia. Meglio fottere Tortora. E così è stato. Come Dante anche Tortora ha il suo Virgilio, la sua guida, la sua forza: non è un maestro o un autore di classici ma semplicemente se stesso, la sua innocenza, la sua moralità, la sua dignità, la sua inconfutabile onestà intellettuale, culturale e sociale. Ma è stata dura. E nelle sue lettere Enzo ripete spesso la parola “inferno” proprio per esprimere la grande sofferenza: “...travasato dall’inferno di Roma a questo più vivibile (ma non meno duro, intollerabile) carcere, perfino il mio fisico ha dovuto riadattarsi.... credimi, qui nessuno può star bene. Soprattutto un innocente...”, “ho parlato con i legali. Occorre accettare il gioco. E sarà lungo. All’inferno ci sono: non vedo ancora il biglietto di ritorno”. Come nel viaggio dantesco, Enzo racconta di dannati che incontra in questa sua infernale vita carceraria e lo fa con la stessa compassione del sommo poeta: “Oggi all’aria (un gelo polare) parlavo con un ragazzo che aspetta la sentenza: il pm ha chiesto l’ergastolo. È un “politico”. Abbiamo parlato un poco: in questo viaggio all’inferno ho conosciuto, e, se non capito, visto, da vicino, creature di ogni sorta. Quello che mi spezza il cuore sono i ragazzi. “Politici”, figli di una sanguinaria illusione”. “L’altro giorno è arrivato un vecchio di 84 anni. S’erano dimenticati che doveva, vent’anni fa (!), scontare ancora un anno di colonia penale! No, Francesca. Non comprerai mai più un libro. Sentirai solo quello che ti racconterò io. I libri non esistono, sono carta e sogni. Cioè niente, davanti alla verità, alla realtà”. E ancora: “Mi hanno messo come vicino di cella un imbecille presuntuoso, che vive in calzoni corti, ha gli occhiali, ha strangolato una vecchia professoressa dalla quale si faceva mantenere, e ha vissuto trenta giorni col cadavere in una cassa, in casa. Ti stupisci? Te l’ho detto: non comprerai mai più un libro in vita tua”. “A Regina Coeli prendevo l’aria con un ragazzo calabrese (venticinque anni per omicidio), malato, e gli scrivevo io le domande di grazia. Si chiamava A. (non farò mai nomi) e non sapeva il significato del suo nome. Allora gliel’ho spiegato, e così mi è divenuto caro passeggiare in quel torrido pozzo solo perché lui era nato dove tu sei nata. Ne ho conosciuto un altro, un boss, ma di quelli tremendi, e con me era un agnellino, e mi diceva (mi ha anche mandato un telegramma, qui) che non capiva il mio tifo per la Calabria. Posso garantirti che ho incontrato, all’inferno, un rispetto e un amore sconosciuti fuori.” Perché, citando ancora Dante, la galera è “amara che poco più è morte”, ancor più se vissuta da innocente. Tutto ha inizio il 17 giugno 1983: Enzo Tortora viene arrestato con accuse gravi, appartenenza alla Nco e spaccio di stupefacenti, ma senza uno straccio di prova. Non una intercettazione, una indagine patrimoniale fiscale o quant’altro. Nulla, solo la parola di due pentiti: Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Il primo, definito O’ Animale, e il secondo “paranoico, schizofrenico, con smanie di protagonismo”. Su queste due “colonne” i magistrati napoletani costruiscono il maxi blitz contro la Camorra di Raffaele Cutolo con 800 arresti di cui 200 omonimi: un castello di carte, come disse Leonardo Sciascia, dal quale non si poteva togliere la carta Tortora per non far cadere tutto il resto. “E così una vita come la mia, tutta piena di una tensione morale addirittura puritana, stoica, di ferro, viene prostituita a parabola di malfattore”, disse Enzo. Dopo sette giorni dall’arresto, il primo confronto con i due procuratori Felice Di Persia e Lucio Di Pietro: “è mai stato a Ottaviano?”, “ha mai conosciuto questa donna?”, e infine, con visibile soddisfacimento, una lettera che parla di “roba”, mai restituita né saldata... viene dal carcere di Pianosa ed è firmata da tale Domenico Barbaro, camorrista, ma scritta dal suo compagno di cella Giovanni Pandico. È la storia dei famosi centrini inviati a Portobello e smarriti. Raffaele della Valle, con grande sollievo produce a sua volta una lettera di risposta nella quale Enzo si rammaricava della perdita dei centrini e comunicava al detenuto Barbaro un risarcimento di 800mila lire. A quel punto il cancelliere attonito smette di scrivere e i due magistrati di parlare, Enzo e Raffaele, con uno sguardo, pensano di aver risolto l’equivoco. E in effetti, se quei due magistrati fossero stati onesti avrebbero chiesto scusa… e invece no. Attaccato al nome di Tortora c’è la credibilità dell’intera inchiesta. La credibilità del loro operato. Se cadesse Tortora si spegnerebbero gli applausi ai Maradona del diritto, le copertine dei settimanali, le interviste a quei tutori della legge che non “guardano in faccia nessuno”. E quindi Tortora deve essere colpevole a qualunque costo: inizia così, il 23 giugno 1983, la brutta storia di un crimine giudiziario. Per renderlo colpevole “a qualunque costo” le prove vengono sostituite dalle dichiarazioni dei cosiddetti collaboratori di giustizia che al processo diventano 18, diciotto falsità rivestite di verità “storica” in quanto “concordanti”, scriverà il presidente della Corte Luigi Sansone nelle motivazioni della sentenza. In verità sono concordanti perché quei pentiti vivono tutti insieme, a celle aperte, nella caserma dei carabinieri di Napoli. In appello sarà il giudice Michele Morello a smontare il valore probatorio di tutti quei pentiti. Anche il contributo di una compiacente stampa tesa a creare nell’opinione pubblica il “colpevole” da condannare diventa fondamentale. Gli atti, diceva l’avvocato Della Valle, “vengono depositati in edicola e non in procura”: notizie false e calunniose che puntualmente dopo qualche mese vengono smontate. Per renderlo colpevole “a qualunque costo” necessita un giudice compiacente in grado di sostenere in processo la tesi accusatoria (alla faccia della terzietà del giudice). E questo è Luigi Sansone. Enzo viene condannato a dieci anni di galera in primo grado con una sentenza letta il 17 settembre del 1985 ma scritta già nel giugno 1983 e assolto l’anno dopo in appello con formula piena. Assoluzione confermata poi nell’86 in Cassazione. La verità ha trionfato ma non per questo “giustizia è stata fatta” perché l’errore giudiziario non è rimediabile, è una cicatrice che non si cancella. Ad Enzo era scoppiata dentro una “bomba al cobalto”, un brutto tumore che lui domina per cinque anni per assolvere a degli impegni irrinunciabili: il riconoscimento della sua estraneità alle accuse, la battaglia insieme a Marco Pannella per la giustizia giusta e per la civiltà delle carceri, il ritorno in TV, al suo pubblico, il referendum sulla responsabilità dei magistrati, un risultato emozionante ma tradito da una timorosa legge inadeguata quanto inapplicata. Un tradimento che Enzo non vive: morirà prima, il 18 maggio 1988. Quel giorno, il suo amico Leonardo Sciascia scrive un emozionante editoriale che si conclude così: “… Per come potevo, ho poi seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. Parole profetiche: il sacrifico di Enzo è una illusione. E se proviamo a rispondere a Tortora “dove eravamo rimasti” beh, possiamo rispondere che siamo caduti nell’ultima bolgia infernale dove il giustizialismo la fa da padrone, con una stampa forcaiola e squadrista che ha in Marco Travaglio la sua migliore espressione, con giudici che affermano che “non ci sono innocenti che vanno in galera ma solo colpevoli che la fanno franca”, e politici che “si adeguano”. Questo è l’inferno che ha vissuto Enzo Tortora, questo è l’inferno che vive il nostro Paese. Il 22 giugno scorso abbiamo avuto una grande occasione: votare 5 quesiti referendari, cinque SÌ che non avrebbero certo risolto tutti i problemi della giustizia ma sarebbero stati un buon inizio. E invece si sono persi, sono stati abbattuti come le case di Kiev. Ha vinto il potere. Quel potere che ha imposto ai media, tutti, Rai in testa, il silenzio stampa. Quel potere che ha ordinato alla politica di boicottare i referendum creando confusione e disinformazione. Quel potere che, come le bombe russe, ha soppresso un fondamentale strumento di democrazia diretta. Quel potere che si era già manifestato con la pronuncia della Corte Costituzionale. Mala tempora currunt! Per il presente e per il futuro. I garantisti sono stati sconfitti, ma come diceva John Belushi “quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare”. Una nuova partita, quindi, politico-istituzionale per affermare lo stato di diritto partendo da due correttivi fondamentali: anticipare la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti referendari prima della raccolta firme (non si può tirare lo sciacquone su un milione di firme, come è avvenuto per il quesito sull’eutanasia) e abolire il “quorum” perché in nessun’altra consultazione popolare è previsto quel “tetto” che privilegia una parte a discapito di un’altra. La partita sarà lunga e faticosa, con avversari “potenti” che non rispettano le regole, sarà difficile ma non impossibile. Una partita da giocare, da vincere per poter dire, come Dante, “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. *Presidente Fondazione Enzo Tortora Detenuti: in cella va garantito spazio individuale adeguato di Simone Marani altalex.com, 17 giugno 2022 Nella superficie minima pro capite di 3 metri quadrati per detenuto non è computabile lo spazio occupato anche dai letti singoli, se ancorati al suolo (Cassazione n. 18681/2022). Ai fini della determinazione della superficie minima pro capite di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione ECU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, non è computabile lo spazio occupato, oltre che dai letti a castello, anche dei letti singoli, ove questi siano ancorati al suolo. Questo è quanto emerge dalla sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione del 11 maggio 2022, n. 18681. Da tempo, infatti, le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo il quale, nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto, si debba avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello (Cass. pen., Sez. Un., 24 settembre 2020, n. 6551). Secondo la giurisprudenza della Corte EDU si può attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, quale è la cella, ad un armadio fisso oppure ad un pesante letto a castello che equivalgono ad una parete; in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono spazio inaccessibile. Detta regola può essere interpretata nel senso che, quando si afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, ci si intende riferire soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella ed è escluso dal calcolo lo spazio occupato dagli arredi fissi. L’importanza attribuita al movimento del detenuto, ovvero alla possibilità di camminare e di spostarsi nella stanza si comprende, ovviamente, alla luce della condizione carceraria; le persone non detenute dimorano tranquillamente in stanze nelle quali la superficie pro capite è inferiore a quella stabilita nella sentenza ma hanno la possibilità di uscire da quella stanza e di muoversi liberamente nell’abitazione o fuori dall’abitazione. Qualora la camera sia una cella nella quale il detenuto è obbligato a rimanere per un lungo periodo di tempo senza poter uscire, la possibilità di movimento, il poter compiere alcuni passi per spostarsi, diventa vitale, rilevantissimo e la relativa impossibilità rischia di essere intollerabile, degradante ed inumana. È del tutto irrilevante ai fini del sovraffollamento carcerario che il letto ancorato al suolo possa essere utilizzato per finalità ulteriori rispetto al riposo, come leggere, parlare o giocare a carte perché se il letto è ancorato al suolo i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e per spostarsi. Qualora il letto singolo non sia ancorato al suolo, sussiste la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e dei tavolini, e quindi di poter utilizzare il relativo spazio. Strasburgo condanna l’Italia: “Silvia picchiata dal marito, lei e i figli andavano difesi” di Roberta Polese Corriere della Sera, 17 giugno 2022 Otto denunce, per l’unica accolta processo dopo sette anni. La corte europea: “Violazione dell’articolo 3 della convenzione dei diritti umani”. La Corte europea dei diritti dell’uomo lo ha chiamato l’”affaire De Giorgi”: 27 pagine di istruttoria e quattro di sentenza. Verdetto: Strasburgo ha condannato lo Stato italiano per non aver protetto una donna padovana che aveva più volte denunciato l’ex marito che era stato violento con lei e con i suoi tre figli. “Violazione dell’articolo 3 della convenzione dei diritti umani”, quello che punisce i paesi che applicano la tortura e trattamenti disumani e degradanti, lo Stato italiano dovrà risarcire Silvia De Giorgi, 44 anni, con 10mila euro, più le spese legali. Tempi lunghi - “Leggo ogni giorno di donne uccise da uomini violenti, ma so bene quello che le donne devono passare quando denunciano: non vengono credute, vengono abbandonate al loro destino - commenta Silvia, designer che oggi vive a Milano con i suoi tre ragazzi - io avevo denunciato il mio ex otto volte perché mi picchiava e mi spiava con registratori dappertutto, sono finita in ospedale, una sola denuncia è stata accolta, la prima udienza davanti al giudice si terrà tra pochi giorni, ha alzato le mani anche sui miei figli, i carabinieri che raccoglievano le mie testimonianze le facevano cadere nel vuoto, non sono stata creduta”. Nel 2019 Silvia, vedendo che tutte le sue denunce non portavano a niente, e sentendosi inascoltata dalla giustizia italiana, si è affidata all’avvocato Marcello Stellin di Treviso, e ha presentato la sua istanza alla Corte di Strasburgo, che ieri le ha dato ragione. “Lo Stato italiano doveva proteggere la ricorrente e i suoi figli. Il modo in cui l’autorità italiana ha trattato Silvia Di Giorgi, l’eccessiva durata dell’istruttoria e in particolare la sua incapacità di condurre un’indagine efficace sulle accuse credibili della donna, hanno creato una situazione di impunità”. L’iter - Silvia e il suo ex si erano sposati nel 2002, hanno avuto tre figli, ma nel 2010 i rapporti iniziano a incrinarsi. “Lavoravamo insieme nella sua azienda, non ero economicamente autonoma perché non avevo nemmeno un conto corrente mio, per cui nel 2013 il giudice della separazione ha stabilito che, visto che avevamo una casa grande, potevamo convivere, dividendo le stanze, è stato un inferno. Nel 2015 lui voleva costringermi a firmare un documento di vendita dell’azienda, quando gli ho detto di no mi ha minacciata di morte con un coltello, a quel punto sono scappata da mia suocera perché nel frattempo i rapporti con miei si erano interrotti anche per colpa del mio ex, e ho fatto denuncia. Tre giorni dopo è venuto sotto la casa dei miei suoceri e mi ha picchiata con un casco, sono finita in ospedale, nuova denuncia, ma tutto cade nella totale indifferenza dei carabinieri di Padova”. “Mi sono sentita giudicata” - Passano i mesi, la causa per il divorzio va avanti, il marito di Laura non le passa il mantenimento dei figli, e in più la segnala ai servizi sociali. “Mi sono sentita sempre giudicata da tutti, anche dai Servizi sociali che quando hanno scoperto che il mio ex picchiava anche i figli mi hanno fatta sentire colpevole, “signora mia, lei doveva denunciare prima suo marito, non voleva bene ai suoi figli?”, nel frattempo le segnalazioni dei carabinieri sono finite sul tavolo del giudice del divorzio che ha stabilito che le violenze erano “normale conflittualità tra coniugi”, nessuna azione per proteggere me e i miei figli, anche quando i servizi sociali hanno denunciato i maltrattamenti sui ragazzi, ho detto basta, ho trovato l’avvocato Stellin e siamo andati fino in fondo”. “Risultato non scontato” - Ora Silvia ha cambiato vita, se ne è andata da Padova ha un nuovo compagno e i ragazzi sono sereni. “Ma una cosa mi sento di dirla- chiude - a noi donne non crede nessuno, ci guardano con diffidenza, siamo solo l’ennesima donna che denuncia, altro che scarpe rosse, corriamo rischi enormi”. “Siamo molto soddisfatti - chiude l’avvocato Maurizio Stellin - è un risultato che non era per niente scontato, ma abbiamo vinto noi, la Corte ha accolto tutti i nostri rilievi”. Sullo sfondo restano tre donne morte per mano di ex violenti nelle ultime tre settimane. Anche le loro voci, come quelle di Silvia, erano rimaste inascoltate. In cella per mafia, difendo la memoria di Falcone e Borsellino di Claudio Conte* Il Riformista, 17 giugno 2022 Nonostante io sia in carcere ininterrottamente da quasi 33 anni non mi addolora l’ulteriore rinvio della Corte costituzionale che sospende fino all’8 novembre 2022 gli effetti della sua ordinanza del 2021 sull’illegittimità dell’articolo 4-bis dell’Ordinamento Penitenziario in relazione alla liberazione condizionale. Non che io sia d’accordo sul dare altro tempo al legislatore per una riforma che, dopo la sentenza Viola contro Italia della Corte di Strasburgo, attendiamo dal 2019. O che io non condivida le rilevatissime “questioni costituzionali” che solleva la sospensione di una decisione favorevole in materia di libertà, di cui hanno scritto Andrea Pugiotto e Davide Galliani e alle quali aggiungerei quella sulla compatibilità di un giudice costituzionale che decide su una legge “sostenuta” dal Governo che ai tempi presiedeva. Non mi addolora il rinvio per altri due motivi. Il primo è che né la sentenza sospesa né la legge auspicata cambieranno il destino del 71,1% dei 1.750 condannati alla pena dell’ergastolo che papa Francesco definisce una “pena di morte nascosta”. Perché, in ventuno anni - dal 2001 al 2022 - si contano solo 32 ergastolani usciti in “condizionale”. Altri 111 sono usciti pure, ma “coi piedi davanti”. Il secondo motivo è l’intempestività di una decisione che avrebbe fatto cadere nel pozzo delle illegittimità la norma simbolo della lotta alla mafia in coincidenza con il mese e nel trentennale della morte di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Sarebbe stato un atto di insensibilità umana e istituzionale. Come è pure quello di assegnare la paternità di tale norma ai due magistrati. Non vi è traccia documentale né alcuna intervista in tal senso. Anzi. Per la loro cultura giuridica e umana, Falcone e Borsellino mai avrebbero partorito o consigliato una legge palesemente incostituzionale. Ma nessuno poteva farlo poiché la modifica del 4-bis con l’introduzione della “ostatività” è avvenuta con il decreto-legge dell’8 giugno 1992 n. 306 e, dunque, dopo l’uccisione di Falcone. E solo per coincidenza, nel 1991, l’alto magistrato arrivò agli Affari Penali di Via Arenula quando l’art. 4-bis rientrava in vigore con il decreto-legge del 13 maggio 1991 n. 152 che era alla sua quarta reiterazione. Esso prevedeva un regime più gravoso rispetto alle soglie di pena da espiare, all’assenza di attualità di collegamenti da dimostrare e alla pericolosità sociale da valutare. Aggravamenti che resterebbero intatti anche se il Parlamento da qui a novembre non legiferasse e la Consulta rendesse esecutiva la sua pronuncia di incostituzionalità del 4-bis (versione 1992) senza “diaboliche” o “magiche” interpolazioni additive. Dunque, nessun rischio di equiparazione agli altri detenuti, i condannati per mafia resterebbero soggetti a regime aggravato. In sintesi, “entrerebbe in vigore” l’equilibrata proposta di legge n. 1951 presentata il 2 luglio 2019 dalla senatrice Bruno Bossio e che le Commissioni giustizia hanno ignorato. Coinvolgere oggi Falcone e Borsellino fa effetto ma non aiuta né i loro familiari, né la loro memoria, né gli italiani. Non sono loro i “padri” dell’ergastolo ostativo, come ripete Fiammetta Borsellino e come ricordo personalmente, poiché ai tempi ero già in carcere e ne seguivo il pensiero in TV quando erano attaccati quasi da tutti. Ricordo la professionalità, la pacatezza e l’ironia dei due magistrati che oggi vedo trasformati in fanatici giustizialisti quasi ignoranti dei valori costituzionali per i quali invece sono morti. A quel tempo, avevo 19 anni di età ed ero io che ignoravo finanche l’esistenza della Costituzione. L’ho scoperta in carcere dove mi sono laureato in Legge e sono ora impegnato in un Dottorato di ricerca sul nuovo paradigma della Giustizia riparativa: un modo per pensare meno alla punizione e più alle vittime, alla “Verità e Riconciliazione”. Quella a cui si riferisce il presidente del Tribunale di Roma Alberto Cisterna che, dopo l’incontestabile vittoria dello Stato sulle mafie, parla di necessaria “pacificazione”, perché - sottolinea - non si può essere sempre in “guerra”. Ed è paradossale che, in carcere dal 1989, condannato, salentino, lontano dalle storie siciliane, debba essere io, quasi, a difendere la “verità” in omaggio alla memoria dei due magistrati siciliani. O, forse, paradossale non lo è perché come le “buone idee” restano, così, anche le “persone cattive” cambiano. *Ergastolano detenuto a Parma, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino Toscana. Assistenza psicologica in carcere, stanziati 340mila euro per attività e progetti di Maria Antonietta Cruciata toscana-notizie.it, 17 giugno 2022 Per garantire la continuità e incrementare il servizio di assistenza psicologica nelle carceri, la Regione Toscana ha messo a disposizione circa 340mila euro di risorse. Il documento, che prevede il finanziamento complessivo di 338.745 mila euro per tutte e tre le Asl, che dovranno realizzare progetti dedicati, è stato approvato nell’ultima seduta di giunta regionale, in seguito a proposta di delibera dell’assessore al diritto alla salute Simone Bezzini. Il finanziamento è così suddiviso: 201.216 euro alla Asl centro; 100.000 alla Asl nord ovest; 37.259 alla Asl sud Est. “Le risorse che abbiamo messo a disposizione delle aziende sanitarie variano in ragione delle caratteristiche degli istituti presenti nei territori di loro competenza, dal numero e dalle tipologie di persone in essi detenute e dalla continuità dei progetti già avviati negli anni precedenti - spiega Bezzini. Il nostro obiettivo è rafforzare e dare continuità all’assistenza psicologica nelle carceri a tutela della salute dei detenuti e a supporto di tutte quelle attività che contribuiscono a individuare i fattori di rischio, che possono causare disagio psico-fisico”. Padova. Mix di medicine fatale in cella, detenuto muore al Due Palazzi di Rashad Jaber Corriere del Veneto, 17 giugno 2022 Tensione dopo il decesso per protestare sulle condizioni di vita. Un detenuto è morto nel carcere dei Due Palazzi, nonostante i vani tentativi di soccorrerlo. La vittima è un uomo, nemmeno trent’enne, di origini nordafricane, che secondo le prime indiscrezioni avrebbe ingerito diversi farmaci che lo avrebbero in breve tempo condotto alla morte. Era rinchiuso al quarto piano della Casa di Reclusione di Padova, dove in molti sia tra i compagni di braccio che tra gli agenti della polizia penitenziaria hanno subito dato l’allarme e tentato di prestargli almeno un primo soccorso, purtroppo invano. Dopo la notizia della morte dell’uomo, nel carcere è iniziata una protesta dei detenuti, già esasperati per le condizioni sempre più precarie della reclusione, che hanno reagito con rabbia alla tragedia tra le mura del carcere del capoluogo euganeo. Gli agenti di polizia penitenziaria sono riusciti a riportare la situazione alla calma solamente intorno alla mezzanotte. Sulle dinamiche che hanno portato al decesso del giovane è ora al lavoro la procura di Padova, che ha ufficialmente aperto un fascicolo d’inchiesta su quali farmaci o sostanze abbiano materialmente causato la morte del detenuto, chi sia riuscito a fornirgliele sin dentro le mura del carcere e soprattutto se sia da imputare ad un’overdose accidentale o se si sia trattato piuttosto di un suicidio. La tensione nel carcere di Padova è tanto alta quanto palpabile: già poco più di un mese fa un detenuto di origine tunisina aveva appiccato un fuoco nella propria stessa cella, rimanendo gravemente ferito e provocando un’intossicazione da fumo ai tre agenti intervenuti per trarre in salvo gli altri quattrodici carcerati presenti al momento del rogo. “Sono momenti che non vorremmo mai dover vivere commenta Leonardo Angiulli, segretario dell’unione dei sindacati di polizia penitenziaria del triveneto - purtroppo questa volta non siamo riusciti a intervenire prima che succedesse l’irreparabile, nonostante gli agenti abbiano reagito con prontezza. Per il momento non riteniamo sia opportuno rilasciare altre dichiarazioni, abbiamo completa fiducia nel l’attività della procura che sicuramente farà piena luce su quanto accaduto”. Padova. Decesso in carcere, queste le notizie che arrivano da “dentro” Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2022 Il ragazzo deceduto si chiamava Muhamed Elhabchi, di nazionalità marocchina, aveva 26 anni. Aveva scontato quasi 4 anni e gli mancavano 2-3 mesi per finire la condanna. Ha cominciato a sentirsi male verso le 17.00 del 15.06.2022. Dopo le urla dei detenuti è arrivato il medico dopo 40 minuti. Lo ha guardato e ha chiamato le barelle che non sono mai arrivate. È andato giù e dopo è salita con la faccia pallida una dottoressa in evidente difficoltà. Dopo 1 ora è arrivata la Croce Rossa, hanno provato a fare la rianimazione cardiaca alle 19.40. il ragazzo pare sia deceduto in carcere, però è stato detto che era vivo e che ci avrebbero fatto sapere notizie dall’ospedale. Dopo 2 ore circa ci hanno detto che il ragazzo non ce l’ha fatta ed è deceduto. Dopo tutto questo hanno chiuso i campanelli d’allarme che avevamo acceso tutti noi. Dei detenuti qualcuno è svenuto, qualcuno si è tagliato. Il ragazzo non aveva nessuna malattia, non fumava, assumeva terapie per dormire. L’unica ipotesi che ha provocato la morte, (dicono i suoi compagni), potrebbe essere l’assunzione d’un miscuglio di farmaci diversi probabilmente non prescritti da un medico. Tutti i ragazzi di quella sezione sostengono che se fossero arrivati i soccorsi giusti e in tempi giusti Muhamed sarebbe ancora vivo e fra 2 mesi avrebbe potuto riprendersi la sua vita in libertà a soli 26 anni e con una lunga vita davanti. Milano. Suicida in cella a San Vittore, lo Stato ora ammette: furono violati i diritti umani di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 giugno 2022 La conferma per chiudere il ricorso della famiglia alla Corte europea di Strasburgo: l’Italia ammette di avere violato l’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita). L’Italia ammette in un documento ufficiale, di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu), di avere violato l’articolo 2 della Convenzione (diritto alla vita) quando nel 2009 nel carcere milanese di San Vittore non ha saputo adottare le misure sanitarie e penitenziarie necessarie a tutelare la salute psicofisica e a prevenire gesti autolesionistici di un detenuto di 28 anni con problemi psichiatrici, impiccatosi in cella a mezzanotte e mezza del 12 agosto 2009 poche ore dopo che i colloqui con una psicologa e una psichiatra le avevano indotte a revocare la sorveglianza a vista e a declassarne il regime di controllo. Il governo lo fa in una lettera dell’Avvocato dello Stato, Lorenzo D’Ascia, nel procedimento alla Cedu scaturito dal ricorso presentato dalla famiglia del detenuto con gli avvocati Andrea Del Corno, Alice Pisapia e Emanuela Strina: e lo fa nonostante nei tre processi italiani l’iniziale condanna-pilota in Tribunale a Milano nel 2014 di una psicologa e del Ministero della Giustizia (come responsabile civile per mezzo milione di euro di danni) fosse stata poi ribaltata dall’Appello nel 2015 e dalla Cassazione nel 2016 in una assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, nell’assunto che il suicidio fosse stato un esito imprevedibile e rispetto al quale era stato fatto tutto il possibile. Ma per scongiurare che il ricorso della famiglia a Strasburgo potesse invece sfociare ora in una condanna europea dell’Italia, ecco che Roma - per chiudere la procedura in base al regolamento della Corte - ha scelto di ammettere la violazione della Convenzione e di offrire alla famiglia un risarcimento dei danni morali, pari a 32.000 euro. Iniziativa che il padre e i fratelli accettano soprattutto perché vi valorizzano (accanto al riconoscimento della violazione dei diritti del figlio) la terza componente: e cioè l’impegno che l’Italia promette a Strasburgo di mettere in atto le misure, comprese quelle legislative, idonee a garantire in carcere la migliore assistenza alle persone con patologie psichiatriche. Luca Campanale, 28 anni, affetto da un “disturbo organico della personalità derivato da pregresso grave trauma cranico” in un incidente stradale a 17 anni, e peggiorato poi dall’abuso di alcol e stupefacenti, dopo l’arresto per uno scippo era stato in custodia cautelare due mesi a Pavia, fino a essere trasferito a San Vittore. Il suo posto “giusto”, e cioè il posto idoneo per un detenuto che arrivava con “un ben evidente quadro psicotico persecutorio” e con una cartella clinica martoriata da 9 atti di autolesionismo o tentativi di suicidio in 4 mesi, sarebbe dovuto essere nel reparto di massima sorveglianza a vista. Ma nell’estate 2009 non c’era posto: il sovraffollamento di tutto il carcere (1.400 detenuti stipati all’epoca in una capienza teorica da 800 posti) era sovraffollamento anche di quello specifico delicato reparto. E in questo contesto il 30 luglio la psicologa “aveva revocato la sorveglianza a vista e l’inserimento nelle celle a rischio”, mentre la psichiatra “non aveva disposto alcun regime di sorveglianza ma aveva ridotto il presidio farmacologico sulla base di una non riscontrata alleanza terapeutica”. Partito dall’iniziale contestazione in Corte d’Assise di “abbandono di persona incapace” a provvedere a se stessa, e approdato poi alla riformulazione in “cooperazione in omicidio colposo” di competenza del giudice monocratico Fabio Roia (oggi presidente vicario del Tribunale) milanese, il complicato processo si era sviluppato tra diari clinici, consulenze tecniche e circolari penitenziarie fino alla sentenza che in primo grado aveva assolto la psichiatra ma condannato a 8 mesi la psicologa e (in solido responsabile civile) il Ministero a risarcire ai genitori del detenuto un anticipo di quasi 530 mila euro. Statuizioni civili però cadute con le assoluzioni in Appello e Cassazione. Milano. Cosimo Di Lauro è morto al 41bis per “deperimento fisico” napolitoday.it, 17 giugno 2022 L’autopsia sul corpo senza vita di Cosimo Di Lauro conferma quello che si pensava. Nessun segno di violenza autoinflitta sul figlio di Ciruzzo o’ milionario. L’ex reggente dell’omonimo clan di camorra di Secondigliano è morto a 49 anni nel carcere di Opera, dov’era detenuto in regime di 41bis, per deperimento fisico. Le sue condizioni di salute erano precarie. Attesa per gli esiti degli esami istologici e tossicologici, che potranno fornire un quadro completo sulle cause del decesso di Di Lauro. I funerali dell’ex boss saranno solo in forma privata, come disposto dalla Questura di Napoli. La denuncia dell’avvocato - Saverio Senese, che era il suo avvocato, ha sottolineato che “anche se un criminale, Cosimo Di Lauro aveva dato negli anni segni di squilibrio” sui quali lo stesso legale aveva “cercato di attirare l’attenzione”. Ma nessuno gli aveva creduto. Il suo stato venne reso noto anche a “Nessuno Tocchi Caino”, associazione che a difesa dei diritti dei detenuti. Di Lauro da tempo aveva comportamenti sospetti, definiti “bizzarri” a volte dalla polizia penitenziaria. “Ansia e confusione mentale”, secondo un medico del carcere. Il detenuto venne ricoverato due volte per accertamenti: a Padova e a L’Aquila, su autorizzazione della terza Corte d’Assise di Napoli. Gli furono prescritte terapie neurolettiche, ma col tempo è solo andato peggiorando. Milano. Cosimo Di Lauro, il fratello: “È irriconoscibile, condizioni fisiche disastrose” vesuviolive.it, 17 giugno 2022 È stata eseguita l’autopsia sul corpo di Cosimo Di Lauro, ex reggente dell’omonimo clan di Secondigliano deceduto lo scorso lunedì all’interno del carcere Opera di Milano. In attesa della relazione conclusiva dei medici legali, è già stata esclusa la morte per infarto e suicidio. Non sono ancora chiare le cause del decesso del detenuto che gli inquirenti definiscono l’artefice della prima faida di Scampia, motivo che ha spinto la Procura di Milano ad aprire un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti in via prudenziale. L’autopsia si è resa necessaria per accertare eventuali eccessi di farmaci o altre sostanze e se vi siano segni di inappropriate cure e scarsa sorveglianza del detenuto. Già dai primi accertamenti è stata esclusa una delle ipotesi inizialmente più accreditate: quella della morte per infarto. Il cadavere non presenta nemmeno segni di violenze autolesionistiche dunque pare che Cosimo non si sia suicidato. I medici avrebbero trovato il corpo in uno stato di deperimento eccessivo, dovuto probabilmente anche al suo stile di vita. Cosimo Era detenuto al 41 bis dal 2005 in condizioni psicologiche estremamente critiche. Sembra che nel corso degli anni abbia man mano sempre più rifiutato di mangiare e lavarsi, mentre i suoi denti sarebbero diventati neri a causa dell’eccessiva quantità di sigarette fumate. Non solo, di notte pare che fosse solito ululare. A riconoscere il cadavere in obitorio è stato suo fratello Antonio, l’unico ad averlo incontrato negli ultimi mesi durante i colloqui in carcere, che vedendolo avrebbe commentato: “E’ irriconoscibile, in condizioni fisiche disastrose”. Durante la detenzione Cosimo è stato trattato con più farmaci, tranquillanti ma anche psicofarmaci. Non è escluso un peggioramento della sua malattia che, unitamente ad uno stato di abbandono, avrebbe potuto causare il decesso: a Cosimo, infatti, era stata diagnosticata la polineuropatia cronica infiammatoria demielizzante, una patologia che danneggiando gli arti e il sistema nervoso periferico può causare immobilità e insufficienza respiratoria. Parma. Al 41bis con il cancro, trasferito al centro clinico ma senza terapie mirate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2022 È al 41bis, in area riservata che è un ulteriore restrizione. Da tempo gli hanno diagnosticato un tumore maligno e i medici hanno chiesto il trasferimento presso un ambiente ospedaliero per le cure. Ma è al centro clinico del carcere di Parma (conosciuto per le sue gravi criticità) dove - secondo quanto segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus - non gli effettuano nessuna terapia e intervento mirato. Di recente ha subito un ulteriore peggioramento, tanto da essere trasportato in ospedale. Poi dimesso e rimandato al carcere con un cerotto di morfina che gli va cambiato ogni 48 ore. Una sofferenza immane, attendendo l’esito nefasto. Al detenuto E.F., classe 1969, già ad aprile scorso i medici del carcere de L’Aquila hanno inviato una relazione al magistrato di sorveglianza, evidenziando che risulta affetto di una neoplasia del pancreas ed è stato richiesto il trasferimento presso un centro clinico, ora chiamato Servizio Assistenza Intensificata (Sai), per affrontare le eventuali cure oncologiche. Da lì è poi stato trasferito presso quello del carcere di Parma. Il problema è che - come relazionato dal medico chirurgo sollecitato dai famigliari per un parere - E. F. è affetto da una forma di neoplasia al pancreas estremamente grave e che necessita di un trattamento presso strutture specialistiche adeguate con alti flussi in termini di pazienti che afferiscono a tali strutture. L’associazione Yairaiha, a inizio giugno, ha inviato una prima segnalazione alla ministra della giustizia Marta Cartabia, al Dap e al Garante nazionale delle persone private della libertà, sottolineando che ha ricevuto una segnalazione da parte dei familiari di E. F., attualmente detenuto presso il centro clinico di Parma, in merito alle gravissime condizioni di salute in cui versa da diversi mesi. “È stata riscontrata - scrive l’associazione - una neoformazione alla testa del pancreas di natura adenocanciromatosa (maligna), estremamente grave, che necessita di interventi mirati, e soprattutto immediati, per poter scongiurare la formazione di metastasi”. Prosegue Yairaiha: “Sappiamo che, sulla scorta delle analisi strumentali - eseguite nel mese di aprile presso l’ospedale de L’Aquila - e in base alla perizia medica, il legale del sig. F. ha presentato istanza di trasferimento presso un centro altamente specializzato per la cura dei tumori al pancreas”. Osserva l’associazione: “Allo stato attuale il sig. F. è ancora collocato presso il Sai dove sembrerebbe essere curato con semplici antidolorifici e nessuna terapia mirata per il tumore al pancreas”. Per questo Yairaiha invita le autorità a voler intervenire al più presto “al fine di scongiurare ulteriori aggravamenti delle condizioni del sig. F. e permettere allo stesso di poter essere curato adeguatamente”. Passano giorni, ma tutto tace. Poi, la settimana scorsa giunge notizia di peggioramento. Il 10 giugno i familiari del detenuto F. vengono informati tramite il comando dei carabinieri di Taurianova del ricovero urgente presso l’Ospedale di Parma “per cure e/ o accertamenti non derogabili”. L’associazione Yairaiha, segnala che visto la gravissima patologia da cui è affetto (ricordiamo che ha un tumore maligno al pancreas), l’avvocato di fiducia ha inviato una pec per avere maggiori informazioni circa lo stato di salute del proprio assistito ma non ha ricevuto nessuna risposta. Lo stesso avvocato difensore ha più volte provato a telefonare alla casa di reclusione di Parma per avere le informazioni richieste senza, però, ottenere nulla. A quel punto, qualche giorno fa l’associazione invia un ulteriore segnalazione alle autorità, denunciando “che i familiari non possono essere tenuti all’oscuro in merito alle condizioni di salute effettive, tanto più che la patologia è gravissima e per la stessa, ormai da diverse settimane, sono stati sollecitati dallo specialista (e richiesti dal legale) interventi tempestivi da eseguirsi presso strutture altamente specializzate”. L’associazione osserva che “d’altra parte il fatto che il detenuto in questione sia sottoposto al regime di 41 bis, in area riservata, non può costituire una pregiudiziale ai fini del diritto di cura sancito dalla nostra Costituzione e più volte ribadito sia dalla Corte di Cassazione e sia dalla Corte EDU; né, tanto meno si possono lasciare i familiari nell’incertezza rispetto alle condizioni del proprio congiunto”. Dopo questo sollecito, i familiari ricevono finalmente notizie. Il detenuto è stato dimesso e rimandato al carcere di Parma. Ora è con un cerotto di morfina che va cambiato in 48 ore. Ha senso il 41 bis nei confronti di una persona morente e senza che venga trasferito in un ambiente ospedaliero adatto per la cura oncologica? Lo scopo del cosiddetto carcere duro, sulla carta, è per evitare che il recluso comunichi all’esterno con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Ma, di fatto, sembra che sia utilizzato per ben altro. Molto vicino a una tortura e, grazie a una propaganda efficace fatta dai mass media, anche ben accetta dall’opinione pubblica. Asti. Minacciò con il bastone un altro ospite della Casa di riposo, a 90 anni vive in carcere di Massimo Coppero La Stampa, 17 giugno 2022 Aveva ucciso un vicino di casa e scontava la pena nella Casa di riposo “Maina”. Con i suoi 90 anni è uno dei detenuti italiani più anziani. Isidoro Schillaci, ex operaio metalmeccanico in una fabbrica astigiana, deve la condizione a un episodio particolare: condannato in via definitiva a 17 anni per l’omicidio del vicino di casa nel 2013 in corso Alfieri, aveva ottenuto gli arresti domiciliari per motivi di età alla casa di riposo Città di Asti. Ma nei reparti del “Maina” non avrebbe mancato di farsi notare per la sua indole aggressiva. Circa due anni fa, secondo le accuse ha minacciato con un bastone durante un litigio un altro pensionato ospite. I responsabili della casa di riposo avevano segnalato la circostanza ai carabinieri che quasi ogni giorno passavano dalla struttura di via Bocca per verificare il rispetto, da parte dell’omicida, delle prescrizioni della detenzione domiciliare. I militari avevano denunciato in procura Schillaci per minacce aggravate dall’uso di un’arma impropria e inviato un rapporto al tribunale di Sorveglianza di Torino. I giudici sono stati severi: l’anziano, hanno stabilito, non poteva restare alla casa di riposo e doveva tornare dietro le sbarre. Da oltre un anno, il metalmeccanico in pensione è detenuto nel carcere San Michele di Alessandria. E ieri in tribunale ad Asti si è aperto il processo per le minacce al degente del “Maina”, subito rinviato per motivi procedurali. Schillaci ha rinunciato a farsi accompagnare dalla polizia penitenziaria in udienza. Il suo avvocato, Maurizio La Matina, non drammatizza: “Certo, stare in una cella a 90 anni non è piacevole. Però il mio assistito non ha chiesto di tornare alla casa di riposo. In carcere è trattato con rispetto sia dagli agenti sia dai compagni di detenzione”. L’omicidio per il quale il pensionato venne condannato in via definitiva risale al 16 luglio di 9 anni fa: di prima mattina Schillaci scese un piano di scale, si appostò sul pianerottolo impugnando un vecchio revolver e sparò numerosi colpi contro Calogero Pirrello, 57 anni, fabbro che stava uscendo di casa per andare al lavoro. L’assassino poi andò al cimitero a pregare sulla tomba della moglie e confessò il delitto ad un custode del camposanto, mentre era già ricercato dalla polizia. Schillaci da tempo si era convinto di essere vittima di dispetti da parte del vicino, anche se non sono mai emerse prove. Una perizia psichiatrica ordinata dai giudici accertò che era capace di intendere e di volere: fu ritenuto colpevole di omicidio volontario con le aggravanti della premeditazione e dei futili motivi. Il revolver era stato comprato dall’ex operaio circa 40 anni prima, e il possesso comunicato alla questura. Schillaci, originario del Nisseno, nel 1963 era stato arrestato per rissa dalla Squadra mobile: venne però poi prosciolto e quindi la polizia ebbe nulla da obiettare sull’acquisto della pistola a tamburo. Udine. 49 detenuti positivi al Covid, sospese le visite dei parenti Messaggero Veneto, 17 giugno 2022 Un focolaio di Covid al carcere di Udine, dove sono 49 i detenuti risultati positivi al coronavirus. Come conferma Franco Corleone, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Udine, a seguito dei contagi sono stati sospesi i colloqui con i parenti e annullate tutte le attività programmate. “Devono essere stabilite delle regole - riferisce Corleone - non possiamo pensare ai detenuti chiusi nelle celle con questo caldo. Secondo me chi ha contratto il virus e ha dei sintomi, con le misure disposte dal magistrato di sorveglianza, dovrebbero uscire dal carcere nel periodo di isolamento in una struttura apposita o a casa. Bisogna trovare delle soluzioni”. Per Corleone, inoltre, “bisogna inoltre tenere conto del sovraffollamento dal momento che ci sono 86 posti e 135 detenuti. L’isolamento che in parte è stato fatto dei 49 positivi al piano terreno è difficile da gestire”. Parma. Carcere, lo sportello dei volontari fa da ponte per rientrare nella comunità di Alessia Ciccotti csvnet.it, 17 giugno 2022 Voluto da una rete di nove associazioni, nell’ambito del progetto “Nessuno si salva da solo” realizzato in collaborazione con Csv Emilia e finanziato dalla Regione, ascolta e sostiene detenuti, ex detenuti e i loro familiari. A Parma è ora attivo uno sportello dove le persone detenute ed ex detenute possono avere consigli, informazioni su servizi e opportunità, un aiuto per trovare un lavoro o, ancor prima, per scrivere un curriculum e ri-orientare le proprie competenze professionali. È lo sportello In Con-tatto, un nuovo punto di riferimento, uno spazio protetto per un colloquio tranquillo, ma soprattutto il nodo di una rete più grande che connette le diverse realtà formali e informali del territorio. Si trova in strada Quarta 37, ospitato dall’associazione San Cristoforo e a gestirlo saranno i volontari della Rete carcere; nasce nell’ambito del progetto “Nessuno si salva da solo” in cui opera una rete di nove associazioni ed è realizzato in collaborazione con il Csv Emilia e finanziato dalla Regione Emilia Romagna. “In Con-tatto è un servizio gratuito - dicono i promotori - ma soprattutto è un ponte fra il dentro e il fuori che connette il carcere e la comunità e cerca di ricucire lo strappo avvenuto con la società. Chi fa esperienza di carcere, infatti, non perde soltanto la libertà individuale, - spiegano - ma vede recisa bruscamente ogni relazione familiare, emotiva, sociale smarrendo il proprio mondo e a volte anche la propria identità”. I volontari dello sportello accompagnano e ascoltano le persone che vi si rivolgono, sostenendone i bisogni anche materiali, aiutandoli a mantenere le relazioni familiari e con gli avvocati, favorendo percorsi di maturazione, in vista di un reinserimento sociale. Il punto di ascolto è aperto su appuntamento, tutti i giovedì dalle 15 alle 17. È possibile scrivere alla mail sportelloretecarcere@gmail.com o chiamare il 375/7416675. Suicidio assistito. Federico Carboni ha donato il suo corpo alla giurisprudenza italiana di Chiara Valerio La Repubblica, 17 giugno 2022 Di un essere umano con nome e cognome non si può dire ciò che si dice della Regina o del Re - la Regina è morta, viva la Regina - gli esseri umani, con i loro nome e cognome, e al netto delle omonimie, non sono funzioni, non possono essere sostituiti. Nei loro limiti, nelle loro eccezionalità, e nelle loro rinunce e nelle loro ambizioni gli esseri umani sono irripetibili. Non possiamo dunque dire oggi Federico Carboni è morto, viva Federico Carboni. Anche se dovremmo. Perché Carboni è tra i cittadini che hanno donato il proprio corpo alla giurisprudenza italiana. Lo ha fatto Cloe Bianco, professoressa trans, lo fanno i migranti nel Mediterraneo, lo fanno le madri senza sufficienti infrastrutture sociali, lo fanno i padri ai quali viene negato il congedo parentale, lo fanno i cittadini che chiedono la liberalizzazione della cannabis, lo fanno le coppie omosessuali che non hanno possibilità di adozione, o le coppie che non riescono ad avere figli, lo fa chi combatte per lo ius soli. Opponiamo i corpi alla mancanza di immaginazione politica in una democrazia occidentale che prospera in tempo di pace. Opponiamo i corpi sottolineando che nessuno dovrebbe promettere nulla che non abbia già mantenuto. E che non sia già nei fatti. E che nel suo essere già nei fatti non leda le possibilità di vita di nessuno ma solo viete ideologie. Prima di opporre il corpo, ovviamente, chi può, paga. E pagare per un diritto è la fine di una democrazia. Là dove le leggi possono essere fermate, per questioni di capannelli parlamentari o mancanza di immaginazione politica, i corpi no. I corpi rinchiusi, con le loro possibilità, pensieri e competenze, non possono essere fermati, i corpi possono ancora morire, e morendo trasformarsi. E speriamo sia sempre così. L’esperienza del corpo ci tocca perché ne abbiamo uno. L’esperienza del corpo ci tocca perché lo sentiamo solo quando qualcosa disfunziona. L’esperienza del corpo ci tocca perché col corpo tocchiamo. Racconta Marguerite Yourcenar, in Novelle orientali (BUR, traduzione di M. L. Spaziani), che il pittore Wang-Fo, non potendo scappare, abbia dipinto una feluca e un fiume e su quella sia fuggito. Federico Carboni non poteva dipingere, ma poteva ancora spingere un bottone, e lo ha fatto ieri mattina, abbandonando quella gabbia che pure, talvolta, è il corpo. Ha dichiarato che non era una decisione facile di attuare. Federico Carboni ha detto, con una voce che viene descritta sui giornali come stentorea e chiara: “Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere il meglio possibile e cercare di recuperare il massimo dalla mia disabilità ma ormai sono allo stremo sia mentale sia fisico”. Wang-Fo avrebbe potuto disegnare altro, Federico Carboni avrebbe potuto non spingere il bottone, ma vivere è ancora sinonimo di valutare le proprie possibilità. Federico Carboni ha valutato che nelle proprie possibilità ci fosse il suicidio. Quando, da bambina, chiedevo a mia nonna Tina “sei vecchia, non hai paura di morire?” (non lo era, aveva cinquantacinque anni), nonna rispondeva “muoiono solo i vivi”. Federico Carboni era vivo abbastanza da aver conservato la forza per morire. Nonostante non fosse autonomo in niente, era vivo abbastanza da ricordare la vita prima dell’incidente. Non in generale, la sua vita. Se è difficile essere meno felici con le persone con le quali si è stati molto felici, quanto è complicato, insopportabile addirittura, rimanere in una vita nella quale non è possibile riconoscere alcuna felicità? Non in generale, ma in particolare, sé stessi rispetto a sé stessi. Se la medicina e un maggiore benessere economico hanno consentito un allungamento della vita media e la possibilità di riparare i viventi, allora la giurisprudenza deve occuparsi di garantire a quei viventi che vogliono abbandonare la vita che è stata riparata, di poterla abbandonare. Senza pagare. Non il privilegio di morire, il diritto. Federico Carboni ha portato avanti le sue istanze insieme all’associazione Luca Coscioni che lo ha affiancato nelle questioni legali successive alla sentenza della Consulta su DjFabo. E l’associazione ha raccolto i fondi per il dispositivo che ha consentito a Federico Carboni di agire il proprio suicidio medicalmente assistito. I romanzi e i racconti di Fleur Jaeggy (tutti pubblicati da Adelphi) sono pieni di suicidi e avendoli letti da quando sono molto giovane, e rileggendoli sovente, ho appreso - questo fanno i romanzi, e per questo bisogna leggerli - che capire e perdonare sono sinonimi, che la fede e la speranza senza la carità sono la cosa peggiore del mondo, che se non si può guarire si cura, e se non si può curare, si consola. Parlo di romanzi perché, ribadisco, non c’è immaginazione in una democrazia che non abbia ancora legiferato, nonostante le promesse, per garantire il suicidio medicalmente assistito. C’è stata immaginazione però in Federico Carboni. E in questo sì, viva Federico Carboni. Suicidio assistito. “Politica senza pietà, se mi riducessi così lasciatemi andare” di Giovanna Casadio La Repubblica, 17 giugno 2022 Parla la leader radicale Emma Bonino: “In Italia le questioni dei diritti e delle libertà non trovano mai spazio. C’è sempre un’altra emergenza da affrontare”. “La latitanza della politica sul suicidio assistito mostra che i legislatori hanno perso la testa, hanno perso la pietà e la compassione. E la destra la smetta di usare strumentalmente questi temi”. Emma Bonino, storica leader radicale e di + Europa, ex ministra degli Esteri, una vita spesa per le battaglie sui diritti civili sin dall’arresto per l’aborto nel 1975, è un fiume in piena. Dice: “L’ho scritto nel mio testamento biologico e anche dal notaio, se mi ritrovo a vivere come una zucchina, per favore lasciatemi andare”. Bonino, è morto “Mario”, primo caso di suicidio assistito in Italia. Conservatori e clericali gridano contro l’eutanasia... “A chi grida contro l’eutanasia dico che non volerlo fare non implica automaticamente che altri non possano e non debbano farlo. Si chiama libertà di scelta. Nel caso di Mario, è il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, perché reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 sul caso Cappato-Antoniani. Federico Carboni, “Mario”, immobile da 12 anni a causa di un incidente stradale, l’ha scelto volontariamente, trovandosi nelle condizioni molto restrittive definite dalla Consulta”. La politica è latitante da decenni: non si riesce a fare una legge sul fine vita, perché? “In Italia le questioni dei diritti e delle libertà non trovano mai spazio. Non è il momento perché c’è un’emergenza o l’altra da affrontare. Da Englaro e Welby a Dj Fabo sono quarant’anni che se ne parla. Ma il dolore e la sofferenza non aspettano. Questo atteggiamento mostra che i legislatori non hanno testa, non hanno pietà, né compassione. La destra poi la smetta di usare strumentalmente questi temi. E la lontananza dall’Europa aumenta”. Le norme bloccate al Senato sul suicidio assistito però a lei non piacciono? “Mi preoccupano molto, perché si divide la sofferenza in categorie. Ma non ci sono categorie tra malati terminali e oncologici, ad esempio, e bisogna essere liberi di scegliere anche sul fine vita, se fatto consapevolmente. La realtà poi, è che quel testo rischia ancora di peggiorare”. Non è sempre meglio un piccolo passo piuttosto che nessuno? “Nella mia vita politica ho fatto molte battaglie e ho sempre sostenuto che sia meglio raggiungere piccoli avanzamenti che nessuno. Lo è stato per la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, con tutti i limiti che dopo 40 anni sono palesi. Meglio sarebbe però una buona legge a tutela di tutti, non sulla base del caso o della patologia di cui si soffre”. La Chiesa definisce una sconfitta il suicidio di “Mario”. “Penso che la vera sconfitta per Mario e i suoi familiari sarebbe stata continuare a soffrire”. Quanto tempo dovremo aspettare sui diritti civili? “Mi rifiuto di assecondare la tesi per cui occorra aspettare. Ho sempre sostenuto che i diritti civili sono anche diritti sociali, nella misura in cui chi è più abbiente non avrà difficoltà ad andare in Svizzera o altrove. Serve un balzo di civiltà, riconoscendo quanto i cittadini chiedono oramai da troppo tempo”. Ripresenterete un referendum eutanasia, che è comunque cosa diversa rispetto al suicidio assistito? “Seguiremo intanto la proposta sul suicidio assistito. Il referendum abrogativo sull’eutanasia non si può fare, semplicemente perché l’eutanasia non è disciplinata dalla legge. Ma sicuramente continueremo a batterci, perché tutti, fino alla fine, possano autodeterminarsi e scegliere. Scegliamo la vita dignitosa”. A lei capita di pensare alla dignità nella morte? “L’ho scritto nel mio testamento biologico e anche dal notaio: se mi ritrovo a vivere come una zucchina, lasciatemi andare. È una mia scelta” La Caritas per i profughi, ora e sempre accoglienza. “Siamo tutti ucraini” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 17 giugno 2022 Il Papa e il cardinale Zuppi hanno esortato, dopo la fase dell’emergenza, a garantire aiuti nel lungo periodo. Il direttore nazionale Marco Pagniello: “Si continui a sostenere anche i bisognosi di Africa e Medio Oriente”. La sorte delle donne afghane, i naufraghi inghiottiti dal Mediterraneo. La pietà, l’orrore, e poi l’abitudine, magari l’oblio. Ricordate l’Ucraina? Il cardinale Matteo Zuppi, appena nominato da Francesco presidente della Cei, ha ricordato “l’accoglienza che tantissime comunità hanno compiuto” dopo l’invasione russa e parlato della “grande sfida della durata”. Si tratta di proseguire anche quando il coinvolgimento emotivo dei primi tempi sfuma nella società, come è già successo: “Abbiamo passato settimane a parlare della tragedia dell’Afghanistan, e ora rischiamo che quella sofferenza non ci colpisca più, come la tragedia dei dispersi nel Mediterraneo”. Papa Francesco, del resto, ne ha parlato fin dall’inizio, all’Angelus del 20 marzo: “Non stanchiamoci di accogliere con generosità, come si sta facendo: non solo ora, nell’emergenza, ma anche nelle settimane e nei mesi che verranno. Perché voi sapete che nel primo momento tutti ce la mettiamo tutta per accogliere, ma poi l’abitudine ci raffredda un po’ il cuore e ci dimentichiamo”. Tutto questo, la Caritas lo sa bene. “Sì, questo è un pericolo, come ci mostra la storia di tante cosiddette “emergenze”. Nel frattempo, per dire, gli sbarchi dal Sud del mondo non si sono fermati”, considera don Marco Pagniello, direttore della Caritas italiana. Così, dallo scoppio della guerra in Ucraina, ci si è organizzati per tempo. “Come Caritas Italiana, finora abbiamo raccolto più di dieci milioni di euro attraverso le parrocchie e le diocesi, il finanziamento della Cei, le donazioni e le raccolte fondi attraverso i media. Di questi, oltre quattro milioni hanno sostenuto gli aiuti mandati in Ucraina e il resto serve e servirà anche all’accoglienza di chi è arrivato in Italia. Abbiamo detto subito che oltre al cuore bisognava usare la testa: l’emergenza sarà lunga e complessa da affrontare, si tratta di pensare alla sua sostenibilità nel tempo”. In questo periodo, don Marco ha compiuto due viaggi. “La prima volta, poco dopo l’invasione russa, siamo andati in Polonia, Romania e Moldavia per capire come sostenere il lavoro delle Caritas locali che da subito hanno accolto i rifugiati ed evitare sovrapposizioni. Un’esperienza difficile. Tutt’intorno, sguardi di persone strappate dalla loro vita, gettate in situazioni inimmaginabili fino a poche ore prima. La seconda è stata a Leopoli, il punto di smistamento degli aiuti che arrivano attraverso la Polonia. Siamo andati a sostenere le due Caritas locali, la Caritas Spes della Chiesa cattolica latina e la Caritas Ucraina dei greco-cattolici”. Più di 80 tonnellate - Finora la Caritas italiana ha inviato in Ucraina 84 tonnellate di cibo e beni di prima necessità, pasta, riso, legumi, cereali, biscotti, omogeneizzati e latte in polvere per i bambini, carne e pesce in scatola, olio, zucchero, e ancora disinfettanti, coperte, biancheria e materassi. Attraverso la rete delle Caritas diocesane, in Italia sono state accolte 10.500 persone, tra le quali 4.800 minori, in 148 diocesi. Il progetto “Apri agli ucraini”, sul modello di quello già sperimentato per altre emergenze, si ispira ai quattro verbi che Papa Francesco ama ripetere in tema di migranti: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Questo riguarda solo, si fa per dire, la rete italiana Caritas. Perché, impossibili da calcolare, ci sarebbero da aggiungere tutti gli innumerevoli “aiuti in cibo, vestiti denaro, volontariato e accoglienza che sono arrivati e arrivano dalle singole diocesi, dalle varie parrocchie e comunità di fedeli”. I numeri - Del resto, la situazione in Ucraina è spaventosa. Le Nazioni Unite stimano 15,7 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Le vittime civili sono almeno quattromila e continuano ad aumentare come i feriti. Si calcolano 6 milioni di rifugiati oltre confine e 7,7 milioni di sfollati interni. Già un mese dopo l’invasione, l’Unicef registrava 1,8 milioni di bambini rifugiati all’estero e 2,2 milioni sfollati altrove nel Paese, più della metà della popolazione infantile ucraina. Tutta la rete Caritas europea si è messa in moto, a cominciare dai Paesi confinanti e soprattutto dalla Polonia, che da sola ha accolto finora 3 milioni e 358mila rifugiati. Grazie al sostegno ricevuto, le due Caritas ucraine sono riuscite a aiutare direttamente un milione e duecentomila persone sfollate, almeno 900 accoglienze al giorno, 41mila bambini assistiti, pasti caldi, vestiti e scarpe per 965mila persone, acqua e servizi igienico-sanitari per 276mila, farmaci e kit di prima assistenza per 62mila, e 3.372 tonnellate di beni di prima necessità trasportati fino ai centri di soccorso. Ci sarà ancora da lavorare, molto. “Basti pensare solo ai bambini accolti nelle scuole. Per questo parliamo di un intervento straordinario che deve diventare ordinario e passa attraverso l’inclusione sociale e culturale, per chi sceglierà di fermarsi nel nostro territorio”, spiega ancora don Marco. “La situazione è in evoluzione continua. In Ucraina la gente, se possibile, voleva restare nel suo Paese. Ora il flusso di arrivi si è ridotto, registriamo delle ripartenze. Ma anche ucraini accolti al Sud che nel frattempo si spostano nel Nord Italia perché là ci sono parenti e amici, comunità più numerose. Intanto le diocesi del Mezzogiorno continuano a sostenere i profughi che arrivano da Africa e Medio Oriente. Fenomeni diversi, che vanno capiti e accompagnati nella loro diversità. Ci tengo a dirlo: è essenziale far sì che non ci siano profughi di serie A e di serie B. Per noi, come Chiesa, è importante l’accoglienza di tutti”. L’Italia mette da parte i diritti e rafforza l’apparato repressivo dell’Egitto di Laura Cappon Il Domani, 17 giugno 2022 Secondo un rapporto di Egyptwid dal 2010 al 2020 il nostro Paese ha fornito armi, equipaggiamento di polizia e corsi di formazione al Ministero dell’Interno egiziano e in particolare alla National security agency, l’agenzia di intelligence cardine della repressione. Elicotteri ceduti a titolo gratuito, equipaggiamento di polizia e paramilitare, decine di corsi di formazione curati dal Dipartimento centrale affari generali dello stato e dall’Arma dei carabinieri. È quello che Roma ha fornito al ministero dell’Interno egiziano tra il 2010 e il 2020. Lo dice il rapporto “Complici ufficiali”, diffuso da Egyptwide, iniziativa egiziana-italiana per i diritti umani e le libertà civili, che ha ricostruito la collaborazione dei due paesi analizzando i vari accordi sulla cooperazione in materia di difesa e sicurezza a livello bilaterale e multilaterale. Dall’analisi di fonti istituzionali pubbliche italiane ed europee, emerge che questa collaborazione è diventata sempre più stretta all’interno di programmi creati per prevenire l’immigrazione nel Mediterraneo e il terrorismo. E queste iniziative sono andate avanti nonostante proprio in questo decennio l’Egitto abbia conosciuto la repressione più dura della storia moderna del paese. La National security agency - Dopo la rivoluzione del 2011, che ha posto fine alla trentennale dittatura di Hosni Mubarak, e il colpo di stato nel 2013 da parte dell’allora capo del Consiglio militare supremo Abdel Fattah al Sisi, i detenuti politici sono arrivati a essere almeno 60mila, e le torture in carcere e nelle stazioni di polizia hanno colpito una parte di popolazione sempre più ampia. E così le condanne a morte: l’Egitto, nel 2020, è diventato il terzo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Uno dei cardini della repressione del paese è rappresentato dagli uomini della National security agency, l’agenzia di intelligence egiziana che fa capo al ministero dell’Interno. Come spiega Egyptwide, sono loro i beneficiari di molte delle iniziative di cooperazione tra Roma e Il Cairo. “Per tutto il decennio esaminato, l’Italia ha collaborato attivamente con l’Egitto, contribuendo a rafforzare il potere e la legittimazione degli stessi apparati statali a cui le agenzie delle Nazioni unite per la tutela e la promozione dei diritti umani imputano la soppressione dello stato di diritto e delle libertà democratiche in Egitto”, scrive l’organizzazione. “Ogni attività orientata a potenziare le capacità operative e l’equipaggiamento in dotazione al National security service comporta il rafforzamento del sistema di potere responsabile del deterioramento dello stato di diritto e dei diritti umani in Egitto”. I corsi di formazione - Secondo il rapporto, l’Italia ha ceduto a titolo gratuito 20 elicotteri dismessi dalla polizia di stato italiana, dei quali almeno 16 di tipo Augusta Bell. Nell’ambito di numerosi programmi bilaterali e multilaterali ha fornito vedette, veicoli di terra e altro equipaggiamento per il pattugliamento del territorio e delle acque nazionali, tecnologie Afis per l’identificazione delle persone migranti prima del loro arrivo alle frontiere esterne europee, la cui installazione e manutenzione annuale sono state curate dal Servizio di polizia scientifica italiano. Durante tutto il decennio in esame sono stati realizzati anche programmi di addestramento e formazione regionali e bilaterali con paesi della sponda sud del Mediterraneo, principalmente volti a rafforzare le capacità istituzionali e operative delle Autorità incaricate della gestione dei flussi migratori. I corsi di formazione sono stati 62, curati dal Dipartimento centrale affari generali della polizia di stato o dall’Arma dei carabinieri, presso centri di addestramento in Italia ed Egitto. Nel 2016, per esempio, l’Italia ha messo a disposizione del partner egiziano una ricca e articolata offerta formativa presso le strutture di addestramento della propria polizia di stato tra cui Brescia, La Spezia, Pescara e Abbasanta. I corsi di formazione sono continuati anche negli anni successivi, nonostante nell’aprile del 2016 Roma avesse ritirato il suo ambasciatore dall’Egitto dopo il depistaggio sulle indagini relative alla morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato senza vita alla periferia del Cairo con evidenti segni di tortura. Al Cairo, invece, alla Nasser Academy di polizia è stato istituito un centro specializzato dove si è svolto il programma Itepa con la partecipazione di agenti e ufficiali delle polizie di frontiera di 22 paesi africani. “La militarizzazione dei confini e l’esternalizzazione delle frontiere, insieme alla crescente preoccupazione per i nuovi scenari del terrorismo internazionale, hanno portato l’Italia, come molti suoi vicini dell’Europa centro-meridionale, a vedere nell’Egitto un partner ineludibile nella gestione integrata dei flussi migratori e in altre questioni di sicurezza”, dice il rapporto. “Le preoccupazioni da parte di attori internazionali sui diritti umani nel paese contraddicono lo stato attuale dei rapporti tra Unione europea e Il Cairo, che si sono intensificati negli ultimi anni”. Libia. In memoria di due vite perdute: la resa di Mohamed, il coraggio di Said di Roberto Saviano Corriere della Sera, 17 giugno 2022 Centro di detenzione ad Ain Zara, in Libia. Uomini uno accanto all’altro, su giacigli improvvisati. Le persone anziane, le donne e i bambini sono altrove. Qui è morto, si è suicidato, Mohamed Mahmoud Abdel Aziz, aveva 19 anni. Tutto ciò che viviamo e che ci circonda si nutre di complessità. Credere di riuscire con poche parole, pochi concetti, a spiegarci i drammi della vita è un’offesa alla sofferenza. E forse è un’offesa anche alla felicità, soprattutto alla sua ricerca costante cui tutti, con esiti diversi, tendiamo. È difficile, ma non impossibile, far comprendere a chi ha difficoltà a trovare lavoro e un posto in questa società, che la colpa non è di chi sta peggio, del più povero che vuole sottrarci quel che abbiamo. E, allo stesso tempo, dovremmo cercare di comprendere che non esiste un unico colpevole, la persona, o la categoria di persone, che ci hanno rovinato la vita. Ci sono storie da conoscere per avere coordinate. Ci sono nomi che, almeno una volta nella vita, dobbiamo leggere e ripetere ad alta voce per rendere onore a chi ha lottato per sé stesso e per la propria comunità, che poi è anche la nostra. La foto che ho scelto questa settimana ritrae un centro di detenzione in Libia. Uomini uno accanto all’altro, su giacigli improvvisati. Le persone anziane, le donne e i bambini sono altrove. Nel centro di prigionia di Ain Zara è morto, si è suicidato, Mohamed Mahmoud Abdel Aziz, aveva 19 anni ed era nato in Darfur. Ricordo una puntata delle Iene di tanti anni fa in cui chiedevano ai politici cosa fosse il Darfur: con sorpresa apprendemmo che trattavasi di “uno stile di vita”. Erano gli anni il cui un Salvini sudaticcio bofonchiava qualcosa in risposta a chi fosse Al Baghdadi... “mio zio, mio cugino, un tifoso dell’Inter”. Incredibile per uno che ha fatto del disprezzo per lo straniero, anche di quegli stranieri che scappavano e scappano dalle atrocità dell’Isis, la sua bandiera. Mohamed Mahmoud Abdel Aziz si è impiccato a Tripoli. In quella Libia ritenuta troppo a lungo un porto sicuro, in quella Libia che l’Europa, capofila l’Italia, finanzia perché segni un confine invalicabile tra Africa e Italia. Quanti soldi dati a criminali, soldi che si sarebbero potuti investire per creare speranza e non disperazione. Mohamed Mahmoud Abdel Aziz, a soli 19 anni, era già stato sfruttato, maltrattato, imbrogliato, ingiustamente detenuto e, nonostante questo, ha partecipato a un presidio davanti agli uffici dell’Unhcr. Pare assurdo a chi starà leggendo queste mie righe, ma spesso chi arriva in Libia capisce che l’unica vera speranza non è nemmeno più l’Europa, ma lasciare la Libia e tornare sui propri passi. Spesso è questa la richiesta avanzata all’Unhcr: il rimpatrio. Ma niente da fare: Mohamed Mahmoud Abdel Aziz, a soli 19 anni, decide che della vita, della sua vita, non ne può più. E poi c’è Rahhal Amarri, per tutti Said: era un 42enne di origini marocchine che da quattordici anni aiutava i proprietari del Lido dei gabbiani a Castel Volturno. Said ha perso la vita, o meglio, ha dato la propria vita. Quando ha visto due bambini in difficoltà in mare, portati via dalla corrente, non ha esitato e si è tuffato, pur non sapendo nuotare. I bambini si sono salvati, non è stato così invece per lui, che - forse colto da malore - a riva non è mai tornato. È importante raccontare storie come quella di Said perché sono un antidoto alle sirene della destra sovranista e alla sua comunicazione urlata, alle condanne che arrivano nei 280 caratteri di un tweet. La storia di Said ci ricorda quale sia la quintessenza dell’agire umano: tende spesso all’errore ma è capace - talvolta - di gesti meravigliosi. Di un coraggio che ridà dignità a tutti. A proposito di coraggio, stavolta nell’esprimere le proprie idee: mi viene in mente una notizia di qualche settimana fa, e mai smentita, secondo cui papa Francesco non avrebbe partecipato all’incontro finale fra vescovi e sindaci del Mediterraneo, che si è svolto lo scorso 27 febbraio a Firenze, per la presenza di Marco Minniti. Il Papa è stato tra i primi a esprimersi sui centri di detenzione in Libia, definendoli campi di concentramento e luoghi di tortura. Non se la sarebbe sentita di partecipare a un consesso in cui era presente anche chi, dopo Berlusconi e Gheddafi, aveva ripristinato un orrore che ha causato sofferenze e non ha risolto il dramma dell’attraversamento del Mediterraneo, legittimando, in Italia, la destra sovranista più becera e cialtrona. Coraggio è una parola su cui ho a lungo riflettuto. Avere coraggio non semplifica la vita, la complica. E molto. Ma la via del coraggio, ovunque porti, è l’unica che valga la pena percorrere. Romania. Storditi dalla colla per dimenticare la fame: la favela dei bambini rom di Alissa Claire Collavo L’Espresso, 17 giugno 2022 In quello che fu il ricco distretto minerario di Baia Mare sorgono le baraccopoli di Craica, il ghetto romanì. La scuola è un miraggio e i piccoli sniffano sostanze tossiche. “Qui lo Stato non mette piede”. C’è una linea ferroviaria dismessa che taglia a metà la periferia di Baia Mare, capoluogo della contea di Maramures, terra di confine tra le più povere d’Europa, fino a una ventina di anni fa leggendario eldorado, traino economico dell’intera Romania per via delle risorse minerarie. Lungo le rotaie, baracche fatiscenti di legno e lamiera, ognuna con la propria recinzione sgangherata, i panni stesi e l’antenna parabolica, dalle quali sbucano curiosi tanti piccoli dai capelli arruffati, sporchi, il volto intenso, corrucciato, a un primo impatto diffidente. Sono i bambini della baraccopoli di Craica, ghetto di lingua e cultura romanì dove i sogni, i progetti e le ambizioni, anche le più semplici, non esistono perché l’infanzia termina presto, soffocata dall’odore dei rifiuti e della colla. “Eppure basterebbe poco, un’istruzione continua, un’applicazione costante”, spiega suor Gabriela, insegnante carismatica e appassionata, che ha fatto del futuro scolastico e della crescita personale di questi bambini la sua missione. Nicoleta saltella con spavalderia tra le assi del binario, dice di avere otto anni, “nu…noua”, no nove, si corregge, aiutandosi con le dita delle mani, ma non ne è così tanto sicura. Quando vede la macchina fotografica, si ferma e si mette in posa davanti all’obiettivo, mani sui fianchi e bocca a cuore, come a imitare le it-girl dei social. A scuola non ci va, “nu…nu”, ripete stizzita scuotendo il capo, allungando le vocali quasi a volerne allontanare l’idea, “nuuu…nuuu”; dopotutto, non ci vanno nemmeno i suoi coetanei. “È normale”. Daniel siede invece su un muretto, la schiena appoggiata a una parete di lamiera, la felpa nera di una squadra americana di basket e l’espressione mogia, triste, lo sguardo perso. Non ha molta voglia di parlare. “Non mi sento bene”, sono le uniche parole che riesce a dire; ha appena inalato della colla. Nella baraccopoli la usano in tanti, sollievo istantaneo e dilaniante che permette ad adulti e bambini di evadere per qualche ora da una quotidianità amara fatta di miseria e degrado, abbandono ed emarginazione sociale. Saper leggere e scrivere non serve a nulla; a Craica si impara a sopravvivere. Chi ci vive si trascina dietro, spesso inconsapevolmente, il peso di una storia lunga oltre cinquecento anni, quella dei romanì, “gli zingari”, schiavi da sempre, dal 1385, stando ad alcune testimonianze storiche, quando in Europa la schiavitù era ancora una pratica diffusa e legale. “Gli zingari sono nati per essere schiavi - stabiliva il Codice della Valacchia nel XIX secolo - e chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo”. Un destino al quale ancora oggi sono condannati. “Questa di Craica è una delle sei baraccopoli di Baia Mare”, racconta suor Gabriela, mentre costeggia il binario, circondata da decine di bambini: “Viene considerata la più selvaggia per via della droga. Qui sniffano tutti, adulti, bambini, adolescenti; non solo colla, anche le etnobotaniche”, ovvero allucinogeni ricavati dalle piante. È una catena difficile da spezzare, lo sa bene il ragazzino che barcolla in punta di piedi sulla barra destra della rotaia, ogni tanto improvvisa un inchino, incrociando le gambe, la destra dietro la sinistra, il cappuccio della felpa a nascondere capo e fronte, le mani e le narici screpolate. Avrà quindici anni, ne dimostra trentacinque. Succede sempre così, “attorno ai dodici, tredici anni, con l’arrivo delle prime mestruazioni, le ragazzine si sposano e fanno figli presto, alcune vengono anche costrette a prostituirsi; i ragazzini iniziano a rubare e ad avvicinarsi alla malavita”. Non ci sono regole, “qui lo Stato non mette piede, nessuno viene a controllare e loro non devono rendere contro a nessuno”; e poi “mancano modelli da seguire”. Dopo la caduta di Ceausescu e la fine del regime comunista si è infatti persa una grande occasione per favorire l’integrazione dei rom alla società romena che, d’altro canto, è rimasta diffidente. “Lo Stato non ha fatto nessuna politica di integrazione c’è soltanto un accordo riguardo l’accesso all’istruzione superiore, una sorta di quota che consente a 2-3 ragazzi di etnia romanì di poter frequentare liceo e università anche con voti bassi”, spiega suor Gabriela. Ma non è così semplice, a quei livelli non ci arriva quasi nessuno. Quei pochi che riescono a studiare arrivano alla seconda forse anche terza elementare, ma non hanno vita facile: “Vengono emarginati e presi di mira dagli altri studenti” e finiscono per abbandonare quella che sembra essere una scommessa già persa in partenza. “Qui la gente ha poca fiducia nelle istituzioni”, spiega George Jiglau, politologo e professore di scienze politiche all’università Babes-Boyai di Cluj-Napoca, tra le più prestigiose della Romania: “In questa regione c’è ancora un rapporto molto problematico tra cittadini e Stato e le istituzioni più in generale, incluse quelle scolastiche, vengono percepite in maniera negativa”. Non è solo un fattore etnico-culturale, ma anche storico dato che nell’era comunista nelle scuole veniva fatta propaganda politica: “Oggi poi c’è un populismo molto diffuso, uno degli strascichi del comunismo”. Nel 2011, dopo quasi un decennio di dibattito politico, è entrata in vigore una legge che porta da otto a quattordici gli anni di scuola dell’obbligo ma il tasso di analfabetismo rimane sempre elevato, soprattutto tra la popolazione rom delle aree rurali. “Sarà un lavoro lungo, i risultati certo non si possono vedere adesso, ma solamente con le prossime generazioni. Servirà molto tempo”, puntualizza suor Gabriela. La formula dell’istruzione come strumento di emancipazione e riscatto sociale, unico appiglio salvavita capace di regalare un’opportunità ai bambini di Craica e chissà, “magari anche ai loro figli e ai figli dei loro figli”. Con questa motivazione, suor Gabriela, arrivata a Baia Mare sette anni fa da Roman, una cittadina del nord-est della Romania a settanta chilometri dalla ben più nota Iasi, dopo essere stata responsabile di un centro diurno per ragazzi poveri e anziani, trascorre tutti i pomeriggi nelle aule de “La Centrale”, una scuola di strada allestita grazie all’interessamento e alla collaborazione della Fundatia de voluntari somaschi, un centro di educazione per l’integrazione sociale diretto da padre Albano Allocco, torinese, con alle spalle una lunga esperienza in situazioni di emarginazione, definite “difficili”. Quest’anno sono riusciti a coinvolgere ottanta bambini: “Alcuni di loro la mattina frequentano persino la scuola ufficiale, ce ne sono due, tre in terza media e sette o otto in seconda media”, dice orgogliosa. Suor Gabriela fa quel che può, consapevole che partecipare alle attività, fare gruppo, a questi bambini apre la mente, allarga gli orizzonti ma “non basta” perché molto, se non tutto, “dipende poi dalle famiglie, dall’ambiente circostante”. Nelle baraccopoli le famiglie si amalgamano tra di loro, diventano clan, nuclei ramificati, caotici e complessi dove i padri spesso sono assenti per lavoro o per aver commesso qualche reato, oppure si sono allontanati, anche se di poco, per formare altre famiglie; difficile contarne con esattezza i figli. Qui sono tutti fratelli, supporto e punto di riferimento uno dell’altro, soprattutto i più piccoli, nella buona e nella cattiva sorte. Alle donne, il compito di tenere assieme questa realtà cruda e frammentata, non semplice da gestire, che scivola via, sfugge di mano e per questo diventa più facile sniffare, vendersi, dimenticare. Suzana ha trent’anni e cinque figli, “tre maschi e due femmine”, dice indicandoli uno ad uno, dalla maggiore di tredici anni alla più piccola di due. A Craica ci è arrivata giovanissima, “sedici anni fa, dopo essermi sposata con un ragazzo del posto”, racconta col sorriso che le illumina il volto, pieno, un fazzoletto bianco a farne il contorno e lo sguardo buono e risolto di chi ha accettato il proprio destino. Eppure sembra avere qualcosa di speciale che la distingue dalle altre donne della baraccopoli e che è riuscita a trasmettere ad almeno due dei suoi ragazzi, Maria e Gageo, “straniero” in lingua romanì, nome, forse solo un soprannome, che gli è stato dato per via degli occhi azzurri, da straniero, appunto. Li manda a scuola, giusto? “Sì, li mandavo fino a qualche mese fa. Ma adesso sono riuscita a comperare loro dei vestiti nuovi, puliti, allora presto ci torneranno”, dice. Ma cosa desidera per i suoi figli? “Non so. Difficile immaginare una vita diversa, un futuro fuori da qui”.