Messa alla prova, per i giudici della Consulta si può estendere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2022 “Non esclude d’altronde che l’istituto conservi la propria fisiologica funzione deflattiva anche in questa ipotesi, determinando comunque l’interruzione del processo e l’estinzione del reato nel caso di esito positivo della messa alla prova”. È un passaggio della sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità costituzionale parziale, estendendo così la possibilità di ricorrere alla messa alla prova. La Consulta, nello specifico, ha infatti dichiarato illegittimo l’articolo 517 Cpp nella parte in cui non prevede, in seguito alla contestazione di reati connessi (articolo12, comma 1, lettera b), Cpp), la facoltà dell’imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento a tutti i reati contestatigli. Come si legge nella sentenza, con l’ordinanza del 25 marzo 2021, il Tribunale ordinario di Palermo ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova, relativamente al reato concorrente oggetto di nuova contestazione. Il giudizio a quo è stato instaurato mediante decreto di citazione diretta a giudizio nei confronti di D. L. P., chiamata a rispondere del reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), del d. P. R. 6 giugno 2001, n. 380 recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”. Successivamente all’apertura del dibattimento e a seguito dell’escussione di un testimone della lista del pubblico ministero, quest’ultimo ha proceduto, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., alla contestazione di ulteriori reati - connessi al primo ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. - di cui agli artt. 71 e 95 del d. P. R. n. 380 del 2001, per la violazione, rispettivamente, degli artt. 64, 65 e 93 del medesimo d. P. R., avvinti dal nesso della continuazione ex art. 81, secondo comma, del codice penale. A seguito della nuova contestazione, il difensore dell’imputata, munito di procura speciale, ha presentato istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, rispetto alla quale è stato acquisito un programma di trattamento da parte dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Chiamato a decidere su tale istanza, il rimettente ha osservato che l’art. 464- bis, comma 2, cod. proc. pen. prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere formulata solo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, così escludendo implicitamente che la relativa istanza possa essere avanzata a seguito di una nuova contestazione ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen. Ed è qui che si solleva la questione. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ha osservato anzitutto che i rapporti tra le nuove contestazioni dibattimentali e il recupero da parte dell’imputato della facoltà di chiedere l’applicazione di riti alternativi sono stati interessati da plurimi interventi della Consulta, caratterizzati da una tendenziale e graduale apertura verso l’esercizio di prerogative che risulterebbero altrimenti precluse. I giudici della Consulta, nel pronunciarsi, sono partiti dalla constatazione che diversamente da quanto accade nel rito abbreviato, nella messa alla prova convivono un’anima processuale e una sostanziale. E che “proprio tale accentuata vocazione risocializzante, si oppone alla possibilità di una messa alla prova ‘ parziale’, ossia relativa ad alcuni soltanto dei reati contestati”. I giudici delle leggi hanno infine sottolineato che “l’imputata dovrà essere rimesso in condizione di optare per la messa alla prova anche con riferimento alle imputazioni originarie, intraprendendo così quel percorso al quale avrebbe potuto orientarsi sin dall’inizio, ove si fosse confrontato con la totalità dei fatti via via contestatigli dal pubblico ministero”. Quando “Report”, solo un anno fa, criticava il 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2022 Proprio Sigfrido Ranucci, presentando un bel servizio di Bernardo Iovene, diceva che il carcere duro è “ai limiti della violazione dei diritti umani”. Ora punta l’indice contro chi ne disapprova l’abuso. Puntare l’indice nei confronti di chi critica l’abuso del 41 bis come fa Report per insinuare il sospetto di indebolimento alla lotta alla mafia, o peggio ancora di complicità, è una operazione pericolosa perché indebolisce sempre di più lo Stato di Diritto e rende la politica ostaggio del populismo penale. Ancora peggio quando si usa la teoria del complotto che, come i regimi totalitari insegnano, diventa funzionale allo Stato di polizia. Sorprende che Report abbia puntato l’indice su chi critica il 41 bis - Come ha raccontato il nostro direttore, Davide Varì, Report è partito dall’intervento che Alessandro Barbano fece alla Leopolda e nel quale osò criticare l’abuso del 41 bis. Sorprende che Report abbia puntato l’indice su questa riflessione, quando proprio Sigfrido Ranucci stesso - in bel servizio sul carcere realizzato l’anno scorso da Bernardo Iovene - ha pronunciato queste testuali parole: “Perché lo Stato deve mostrare il pugno di ferro con i duri, già l’esercizio del 41 bis, la sua applicazione, è ai limiti della violazione dei diritti umani. Si regge solo in base ad una considerazione, cioè a quella della tutela della sicurezza della collettività, ma se uno è morente, o è malato, insomma, che cosa tuteli?”. Tutti gli organismi internazionali che vigilano sui diritti umani hanno denunciato gli abusi al 41 bis - Parole coraggiosissime, ma soprattutto veritiere quelle denunciate a suo tempo da Ranucci. Sì, perché tutti gli organismi internazionali che vigilano sui diritti umani hanno denunciato ciò. Come ha sottolineato più volte il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, infatti, le restrizioni alle attività e alla socialità interna all’istituto, disposte con il 41 bis, se prolungate nel tempo, possono pregiudicare gravemente la salute fisio-psichica del detenuto, determinando forme di alienazione e di vero e proprio decadimento cognitivo. Alcune degenerazioni determinatesi nell’applicazione del 41-bis, rischiano di far sfumare quella distinzione essenziale tra giustizia e vendetta, che è il presupposto irrinunciabile di uno Stato di diritto. Non solo. Se ogni qual volta, grazie all’indignazione a comando indotta da taluni mezzi di informazione, arrivano critiche contro ogni flebile iniziativa che punta a far ritornare il regime differenziato al suo scopo originario (ovvero vietare che il detenuto possa comunicare con il proprio gruppo criminale d’appartenenza) togliendo tutte quelle inutili afflizioni in più, si rischia che per davvero la Consulta lo dichiari incostituzionale. La lotta alla mafia di oggi deve essere diversa da quella durante il periodo stragista - Infatti, come disse Sigfrido Ranucci, il 41 bis è “ai limiti della violazione dei diritti umani”. Quindi ci vorrebbe un coraggio maggiore, partendo dal fatto che la lotta alla mafia di oggi deve essere diversa da quella durante il periodo stragista. Quella mafia lì che ha giustificato il ripristino del 41 bis (tra l’altro doveva essere emergenziale, ma il governo Berlusconi lo rese ordinario), non esiste più. Dopo Riina, ci fu un cambio di strategia: quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme. Come ha raccontato il pentito Antonino Giuffrè relativamente a un summit indetto da Provenzano nell’estate del 2000, ci fu Pino Lipari (il mafioso con il colletto bianco, regista degli appalti) che disse: “Bisogna muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore”. Far credere che la mafia sia quella stragista e rimanere fermi a 30 anni fa per mantenere il 41 bis così com’è, è una operazione disonesta. Puntare l’indice contro chi lo critica, insinuando il sospetto di collusione, è qualcosa di inaccettabile. Come disse Leonardo Sciascia, è impensabile pensare che la terribilità della pena funzioni da deterrente. Pensarla diversamente è profondamente reazionario, e la criminalità organizzata ne trae beneficio. Sì, perché lo Stato si differenzia da essa usando il Diritto e non il supplizio. La nostra Costituzione ammette la forza, ma vieta la violenza. Se non ci si differenzia dalla ferocia della criminalità organizzata, quest’ultima ha l’alibi perfetto. Quella di sentirsi addirittura migliore dei nostri apparati. La banda larga dei detenuti di Riccardo Luna La Repubblica, 16 giugno 2022 Fino a qualche anno fa, la banda larga era la nostra terra promessa e il digital divide, il divario digitale fra chi è connesso e chi no, ci appariva come il primo problema del Paese. Oggi i problemi principali sembrano molto più complessi anche perché portare Internet ad alta velocità in tutta Italia è diventato un obiettivo improvvisamente raggiungibile. Un po’ dipende dai fondi del Pnrr e un po’ dal fatto che i rapporti fra TIM e Open Fiber, dopo una rivalità distruttiva, sono entrati in una fase di collaborazione. Insomma già adesso nelle grandi città è abituale vedere persone che guardano una partita in diretta sul telefonino; entro il 2025 potremo farlo anche nelle località balneari o nei tantissimi minuscoli comuni di cui è fatta l’Italia. L’unico ostacolo sulla strada dell’Italia digitale pare essere la mancanza di manodopera. Qualche giorno fa l’amministratore delegato di Open Fiber ha annunciato oltre 1000 assunzioni di operai per i cantieri, ma ha aggiunto che non ci sono. Nonostante la disoccupazione in Italia sia sempre a livelli record rispetto all’Europa e agli Stati Uniti, Open Fiber fatica a trovare 1000 operai da assumere. E per questo sta valutando due contromosse: la prima, includere la qualifica di operaio di telecomunicazioni nel decreto flussi che regola l’immigrazione; la seconda, rivolgersi ai detenuti. Questa cosa ha incuriosito tutti quelli che non sanno che ormai da moltissimi anni in diverse carceri è in corso un progetto di Cisco per formare i detenuti all’informatica. Di fatto sono corsi che consentono alla fine della pena di trovarsi un lavoro. Ed è uno dei progetti di alfabetizzazione più belli del nostro paese: parte dal concetto che lo scopo della detenzione non si esaurisca nella pena, ma debba prevedere la crescita e il reinserimento di chi ha sbagliato. In assenza di iniziative analoghe, l’esperienza del carcere diventa soltanto la prima di una lunga serie. Per questo l’idea di Open Fiber va sostenuta. I bambini detenuti con le madri di Luca Sofri ilpost.it, 16 giugno 2022 Gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri ne ospitano in tutto 18, e una nuova proposta di legge vorrebbe ridurli ancora. Il 30 maggio la Camera ha approvato una proposta di legge che ha l’obiettivo di evitare che i figli fino a sei anni di donne condannate o in attesa di giudizio finiscano con loro in carcere. La proposta, che ha come primo firmatario il deputato del Partito Democratico Paolo Siani, medico e fratello di Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, prevede il ricorso a case famiglia protette e, solo in casi di “eccezionale rilevanza”, a Icam, cioè a Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Sono luoghi in cui l’ambiente dovrebbe essere accogliente e assomigliare il meno possibile a un carcere. La proposta, per diventare legge, dovrà ora essere approvata anche dal Senato. L’approvazione della proposta alla camera è stata commentata da molti come una importante e radicale novità, ma in realtà non è proprio così. Già una legge del 2011 prevedeva per le donne detenute che sono anche madri il ricorso alle case famiglia protette, come misura detentiva da preferire. Secondo quella legge, attualmente in vigore, la realizzazione delle case famiglia protette doveva però avvenire senza oneri per lo Stato: in pratica, la questione veniva affidata agli enti locali. Dal 2011 ne sono state aperte solo due, a Milano e Roma, nel 2016 e 2017. La proposta di legge ora approvata elimina il vincolo normativo connesso alla realizzazione delle case famiglie protette senza spese per lo Stato, e prevede invece la possibilità - ma non l’obbligo - di finanziarne a livello statale la realizzazione. La legge del 2011 prevedeva - modificando il codice di procedura penale - esigenze cautelari di eccezionale rilevanza che potevano comportare la decisione di destinare le detenute madri a un Icam anziché alla casa famiglia protetta. La nuova proposta di legge elimina quel comma dell’articolo del codice, ma ne prevede comunque un altro in cui è scritto che il giudice può “stabilire tale misura nel caso sussistano esigenze cautelari di particolare rilevanza”. “L’ultima parola”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone che ogni anno pubblica l’osservatorio sulle carceri, “spetta al giudice che, come avveniva prima, può decidere che ci siano esigenze cautelari di particolare rilevanza”. Le regole non valgono per le donne eventualmente sottoposte a 41 bis: in quel caso sarebbe il giudice tutelare a stabilire la collocazione del minore. Secondo i dati riportati dal ministero di Giustizia, al 31 maggio 2022 erano 18 i bambini che vivevano in carcere con le proprie madri. Di questi, nove erano ospitati nell’Icam di Lauro, in provincia di Avellino, unico Icam autonomo e non dipendente da un istituto penitenziario. Due bambini erano invece nel nido della Casa circondariale di Rebibbia, a Roma. Due bambini erano nell’Icam di San Vittore, a Milano, tre a Torino, uno a Genova e uno a Venezia, al carcere della Giudecca. Non ci sono bambini detenuti insieme ai padri. Si tratta di un numero esiguo, soprattutto se rapportato al 2019 quando i bambini ospitati in carcere erano oltre 50. “È ovvio però”, dice Maretti, “che non bisogna guardare ai numeri ma alle singole storie che quei numeri rappresentano”. Le due case famiglia protette attualmente attive in Italia sono a Roma e a Milano. A Roma si chiama Casa di Leda (in onore di Leda Colombini, presidente dell’associazione A Roma insieme morta nel 2011), si trova all’Eur in una proprietà sottratta alla mafia e può ospitare un massimo di sei detenute madri. A Milano la casa famiglia protetta è nel quartiere Stadera e ospita cinque donne detenute che provengono dall’Icam di San Vittore. La prima volta che lo Stato italiano realizzò una normativa che si occupasse delle donne in gravidanza e delle madri di figli piccoli fu nel 1975 con la legge numero 354 che regola tutto l’ordinamento penitenziario. Consentiva alle madri di tenere con sé i figli finché non avessero raggiunto i tre anni di età. “Consentiva”, sottolinea Maretti, “non è mai stato e non è un obbligo. I bambini possono lasciare gli Icam in qualsiasi momento”. Fino al 1975 non esistevano nelle carceri sezioni con la funzione specifica di accogliere donne gestanti o con bambini. Vennero anche introdotte, con un decreto del 1976, figure professionali come pediatri, ginecologi, ostetriche e assistenti d’infanzia. Nel 1986 la legge 663, la cosiddetta legge Gozzini, introdusse la possibilità della detenzione domiciliare in caso di buona condotta delle madri con pene fino a due anni di reclusione. Nel 1998 una nuova legge, la Simeoni-Saraceni, a cui venne anche dato il nome di “svuota carceri”, aumentò per le madri da due a quattro anni il limite di pena che era possibile scontare ai domiciliari, portando a dieci il limite d’età del figlio purché fosse convivente con la madre. La legge 40 dell’8 marzo 2001 (legge Finocchiaro) introdusse nuove misure e in particolar modo la possibilità della carcerazione domiciliare nell’abitazione della donna detenuta o in strutture di assistenza, estesa questa volta a tutte le detenute, anche quelle condannate per reati gravi. Non fu però risolto il problema delle donne senza fissa dimora, che non potevano quindi usufruire della detenzione domiciliare, e non era possibile l’applicazione della norma per donne con numerosi precedenti penali, a rischio quindi di recidiva. “La misura alternativa fu concessa in pochi casi, perché prevedeva che il magistrato valutasse che non sussistesse “un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti” e “la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli”“ spiega Marietti. “Molte donne però erano senza fissa dimora e quindi la misura è stata riconosciuta raramente”. Nel 2011 una nuova legge, la numero 62, introdusse l’innalzamento del limite d’età dei bambini che possono vivere in carcere con le proprie madri da tre a sei anni e la custodia in istituti Icam e in case famiglia protette come alternative possibili alle sezioni Nido delle carceri femminili. Gli Icam sono dentro o fuori dagli istituti penitenziari e sono arredati e strutturati per assomigliare il meno possibile a un carcere: i muri sono colorati, il personale di sorveglianza lavora solitamente senza uniforme e armi, e ci sono educatori specializzati che aiutano le madri nella cura dei propri figli. Gli Icam però in Italia sono solo cinque: San Vittore a Milano, Giudecca a Venezia, Lauro (in provincia di Avellino), Torino e Cagliari. Al compimento dei sei anni il bambino viene obbligatoriamente allontanato. Se non ci sono parenti fuori dal carcere, viene affidato all’esterno: ai parenti, a una famiglia affidataria o a un istituto, secondo le decisioni del giudice minorile. La legge aveva poi istituito, come detto, le case famiglia protette che, a differenza degli Icam, sono veri appartamenti in cui la madre può stare con il bambino. Nella legge di bilancio del 2020, grazie un emendamento proposto sempre da Paolo Siani, è stato istituito un fondo di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023, destinato a contribuire all’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case famiglia protette. Il problema è che finora nessuna regione ha utilizzato il finanziamento. Siani ha spiegato in un articolo pubblicato dall’Espresso che la sua proposta di legge si basa sull’idea di fondo che “non si può condannare a una vita da recluso, in un momento decisivo per la sua crescita, nessun bambino, perché l’ambiente in cui vive nei primi anni influenza anche la sua vita da adulto”. Il mondo sommerso dei bambini in carcere: un docu-film lo racconta di Vera Mantengoli La Repubblica, 16 giugno 2022 Si intitola “Affiorare” ed è il documentario realizzato da Rossella Schillaci negli istituti di pena tra Torino, Milano e Venezia dove le detenute vivono insieme ai figli. Un progetto che racconta una realtà dura senza perdere la poesia. Mentre il Parlamento sta varando una nuova legge abbiamo intervistato la regista. Un mondo sommerso e lontano, fatto di pensieri, sogni e incubi. È il carcere visto dalle mamme e dai loro bambini raccontato nel documentario Affiorare della regista torinese Rossella Schillaci, tra le poche in Italia a sperimentare la realtà virtuale (VR). Prodotto da Mybosswas e Laranja Azul il film sarà proiettato in prima visione in Francia nel prestigioso Festival Internazionale di Animazione di Annecy (dal 13 al 18 giugno). Dopo anni di lavoro, Affiorare è venuto alla luce proprio nei giorni in cui la Camera ha approvato (241 voti favorevoli e 7 contrari) la proposta di legge del deputato dem Paolo Siani di istituire delle case protette dove le donne in gravidanza e le mamme con figli possano scontare la pena al posto del carcere. Se il Senato approverà il testo verrà finalmente spianata la strada per un percorso che ha l’obiettivo di rendere i primi sei anni di vita dei piccoli più umani. Attualmente infatti i bambini fino a quell’età vivono con le loro mamme dietro le sbarre. Escono per andare a scuola, ma poi tornano dentro, come piccoli reclusi. Il documentario unisce l’intensità della realtà (sembra di essere seduti nella cella con le mamme) alla poesia delle immagini realizzate con le animazioni che ricostruiscono quel mondo sommerso da cui affiorano le speranze e le paure. “Mia figlia è stata con me fino ai 4 anni” racconta nel film una mamma detenuta. “So che si sentiva sola. Non c’erano altri bambini. Eravamo solo io e lei. Guardavamo i muri e l’aria, su nel cielo”. Piccoli, ma già grandi. “Una notte mi sono ritrovato senza la mamma. Me l’avevano portata via senza che potessi salutarla” ricorda un bambino. “È stato come essere stati traditi”. E una piccola: “Io vorrei una stanza con un terrazzo perché dal terrazzo si vede il mondo”. La paura del distacco incombe ogni giorno su questi bambini: “Io vorrei stare solo con mia mamma e non separarmi mai”. Da sempre sensibile alle questioni sociali, come dimostrano i precedenti lavori Altra Europa, Ninna Nanna Prigioniera e Libere, Schillaci torna ad affrontare il carcere dando la parola per la prima volta ai bambini. I loro volti non si vedono mai, ma si sentono le loro voci affiorare da un mondo sommerso e lontano dalla nostra quotidianità. Raccontano cosa provano, senza mai chiedere alle loro mamme perché si trovano lì. A modo loro sanno che la risposta a quella domanda farebbe troppo male. Da dove comincia l’idea di Affiorare? Qualche anno fa ho cominciato a guardare i documentari realizzati con la realtà virtuale e ne sono rimasta colpita perché mi sembrava che le possibilità espressive fossero di gran lunga maggiori rispetto a quelli tradizionali. Così, durante il mio dottorato a Lisbona in Nuovi media applicati alle scienze sociali e antropologiche, nel 2018 ho scritto il progetto. Avevo già lavorato nel carcere Lorusso e Cotugno per Ninna Nanna prigioniera, ma sentivo che mi mancava qualcosa da raccontare e quel qualcosa erano i bambini. Volevo che lo spettatore sentisse cosa si prova a essere in una cella, che fosse lì vicino alle mamme e ai bambini, che ascoltasse le loro voci. La VR dà questa possibilità e spero che chi lo guarda possa comprendere cosa significhi per i bambini stare dentro. Cosa ne pensa della nuova proposta di legge? Penso che sia una legge attesa da molto e quindi considero ottimo che sia passata alla Camera. Tuttavia ho visto che sono stati proposti alcuni emendamenti restrittivi che, se venissero approvati, toglierebbero ad alcune mamme questa possibilità. In pratica alcune donne non potrebbero accedere alle case famiglia protette. Non metto in discussione la colpevolezza e la pena, penso soltanto che i loro figli continueranno a rimanere dietro alle sbarre. Spero che su questo si rifletta molto bene e che ci si domandi se non sia il caso di concedere lo stesso trattamento a tutte le mamme con figli. Tornando al suo documentario. Dov’è stato girato? In parte nell’Icam e nell’ex carcere Le Nuove a Torino, poi in una casa famiglia protetta a Milano e, infine, a Venezia. Per Venezia ho utilizzato delle immagini di edifici diroccati a Poveglia. Molte delle mamme con le quali ho parlato provenivano dal carcere di Venezia, descritto come un luogo sommerso, come se fosse un altro mondo. Ho iniziato a lavorare su questa suggestione, sempre presente nel film con il rumore dell’acqua e la presenza di diverse creature immaginarie disegnate dall’illustratrice portoghese Beatriz Bagulho. Come si è avvicinata ai bambini? Ho pensato subito alle animazioni perché è un modo per raccontare l’immaginario dei bambini. Mi sono accorta del loro immaginario perché passavano molto tempo alla finestra e a volte mi mettevo vicino a loro. Ho realizzato che vedevano tante cose che io non vedevo come uccelli, cani e altri animali. Così è nata l’idea di entrare in contatto con loro attraverso i disegni. Insieme all’illustratrice veneziana Anna Forlati abbiamo tenuto molti laboratori nell’Icam di Torino e da quei disegni e racconti sono riuscita a entrare nel loro mondo. Inoltre le immagini sono più delicate rispetto al racconto diretto di un vissuto che viene svolto in carcere con uno psicologo. Com’è stato girare in VR? È un’esperienza totalmente nuova come regista. Con la VR hai una macchina che riprende a 360 gradi con sei obiettivi che registrano in ogni direzione e quindi bisogna inventarsi dei nuovi modi per esempio per l’illuminazione, altrimenti si vedono le luci. Per me è stata una sfida perché ero abituata a stare vicino alle persone, mentre in questo caso ero nascosta o dietro a un albero o a una tenda o a un balcone! Si lavora molto di preparazione con le persone e poi anche di improvvisazione. Un altro aspetto strano è che non ho potuto montare nulla delle riprese, come invece ero solita fare, perché servono dei computer molto potenti. Il montaggio consiste poi nel mettere insieme le immagini di sei obiettivi e cucirle ai margini. Nonostante la difficoltà realizzare un documentario in VR ti spinge ad affrontare una serie di questioni dal punto di vista autoriale e a collaborare molto di più con tutti. È complicato portarlo in Italia? No, i visori si possono noleggiare. Ci piacerebbe portarlo nelle scuole. Mi piacerebbe portarlo nelle carceri e farlo vedere a quei bambini che spero che possano al più presto trascorrere la loro infanzia a casa loro o in una casa protetta e non in un luogo di detenzione. Riforma del Csm, la Lega tenta il blitz con l’aiuto di Casellati di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 16 giugno 2022 Bocciato dal Senato un emendamento, votato a scrutinio segreto grazie all’ok della presidenza, che rilanciava la proposta referendaria sulla custodia cautelare. È fatta per la riforma del Csm, votati tutti gli articoli, nonostante la Lega. Che, come dicono nel Pd, da Malpezzi a Rossomando a Mirabelli, “si è comportata più da partito d’opposizione che di governo”. Anche tentando un agguato, con l’espressa complicità della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, l’unica cui spetta il via libera sull’ammissibilità degli emendamenti. A sorpresa, eccone uno - il 6.1 - che alle 19 fa rientrare dalla finestra il testo del referendum sulla custodia cautelare, fermo al 20% dei votanti. L’emendamento ripropone lo stop al carcere di fronte al pericolo di commettere lo stesso reato. Non c’entra col Csm e le nuove regole sull’ordinamento giudiziario. Ma 4 leghisti lo sottoscrivono, Urraro, Pillon, Pepe e Pellegrini. Pure FdI, con Ignazio La Russa, piglia le distanze. Il blitz finisce nel nulla, bocciato con 136 voti contro 70. La Lega, che conta 61 senatori, resta da sola. Si astiene Iv. Ma lo scontro è durissimo. Nella reazione sorpresa dell’autonomista Julia Unterberger c’è tutta la contraddizione politica della proposta: “Mi meraviglio che il partito del law and order voglia abolire il pericolo di reiterazione del reato. È un’assurdità”. Inutilmente ci mette la faccia Giulia Bongiorno. Che si scontra con la Dem Valeria Valente. Perché la presidente della commissione femminicidio insorge contro l’emendamento. “Abbiamo necessità che le misure cautelari vengano adottate di più, e bisogna che l’assemblea si metta una mano sulla coscienza - dice accalorandosi - Negli ultimi dieci giorni sono state ammazzate dieci donne perché nella maggior parte dei casi non sono state rispettate le misure cautelari”. Grida di rimando la Bongiorno: “Mi dispiace se una donna sbaglia clamorosamente a leggere un testo. E questo testo non attiene allo stalking. Leggete e poi parlate. È una vergogna dire cose campate in aria”. Ma dal Pd non fanno sconti alla manovra leghista. Lo dice la capogruppo Simona Malpezzi quando nota la contraddizione “di una richiesta che viene da una forza politica che dice di voler sostenere l’esecutivo e che alla Camera ha votato la riforma, cercando di portarla a casa, cosa che al Senato sembra non voler fare”. Eh già, perché la Lega del post referendum si comporta più da partito di opposizione che di governo. Glielo rimprovera Franco Mirabelli, capogruppo dei Dem in commissione Giustizia: “Caro Pillon, conosco Gramsci e Berlinguer, ma non ho mai conosciuto un partito di governo che fa l’opposizione”. È la contraddizione della giornata. Impersonata da Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia auto nominatosi relatore del ddl, che dovrebbe portare nell’emiciclo di palazzo Madama il voto favorevole uscito a mezzanotte dalla commissione, e invece non spende una parola sulla futura legge che il suo gruppo sta cercando di affondare. Marina Castellone, capogruppo M5S, ironizza “su un relatore tutt’altro che imparziale e una forza di maggioranza che piega l’iter di una legge ai suoi disperati tentativi di propaganda, in coda a un clamoroso flop referendario”. È tutto da vedere con quale faccia oggi i leghisti voteranno a favore della riforma. La Bongiorno lo ha via via garantito, “vogliamo solo migliorarla”, continuava a ripetere. Ma l’insistenza sugli emendamenti aveva messo in agitazione il segretario del Pd Enrico Letta che a Draghi e Cartabia ha consigliato il voto di fiducia. Quando la giornata si chiude è tranchant il commento della responsabile Giustizia dem Anna Rossomando: “La Lega? Durante tutto l’iter della riforma al Senato mi è sembrato un partito in stato confusionale. Hanno votato non solo i loro emendamenti, ma addirittura quelli dell’opposizione, con il parere negativo del governo sia in commissione che in aula. Poi hanno richiesto il voto segreto su un emendamento, pratica che normalmente mette in campo l’opposizione. Tutto questo con il rischio di affossare la riforma Cartabia che due mesi fa avevano comunque votato alla Camera. Un comportamento davvero incomprensibile”. Giustizia, la Lega abbaia ma non morde di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 giugno 2022 Al senato. Nessun ostruzionismo: i leghisti mantengono i loro emendamenti alla riforma del Csm ma è proprio Calderoli a condurre velocemente in porto senza incidenti il testo Cartabia. Nessun problema per il resto della maggioranza, neanche a voto segreto. Oggi l’ok definitivo. Faccia feroce ma modi più che cortesi. La Lega non si mette di traverso all’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, malgrado gli annunci di battaglia di Salvini e della senatrice Bongiorno. Non ritira gli emendamenti al testo Cartabia, come non li ritira Iv, ma i suoi senatori intervengono il minimo indispensabile in aula, evitano anche di accennare l’ostruzionismo. È un senatore leghista che conduce velocemente in porto il disegno di legge: Calderoli, specialista degli sprint. Talmente nella parte da fare il disinvolto: “Abbiamo fatto un po’ tardino”, dice dopo aver chiuso 184 votazioni in quattro ore. Bocciati tutti gli emendamenti, testo della camera confermato, riforma pronta per le dichiarazioni di voto finali e l’approvazione, oggi. Fingeva Salvini quando diceva che voleva portare in aula la voce di “dieci milioni di elettori favorevoli ai referendum sulla giustizia” (che erano nove, mentre gli altri 41 milioni hanno detto altro), faceva scena Bongiorno quando prometteva battaglia contro il testo Cartabia “non una riforma ma una correzione blanda”, esagerava anche Letta chiedendo che Draghi mettesse la fiducia contro la Lega che si metteva di traverso: Draghi non ci ha pensato per un attimo e la Lega non si è messa di traverso, il segretario Pd provava a infierire sulle ambiguità leghiste. Ambiguità ben riassunte dall’atteggiamento del relatore in aula. È il leghista presidente della commissione giustizia Ostellari, il ruolo se lo è dato da sé. Martedì sera poco prima della mezzanotte si è chiuso l’esame del disegno di legge in commissione, ieri pomeriggio tocca a lui riferire il parere negativo sugli emendamenti, tutti bocciati anche in sede referente. Ma non lo fa, si rimette all’aula. Anzi, nella sua relazione, in teoria di maggioranza, dice “basta presentare i provvedimenti come bandierine”. Non è un’autocritica leghista, ce l’ha con Letta e la sua richiesta di fiducia. Caso vuole che in quel momento a presiedere l’aula ci sia Anna Rossomando, che è la responsabile giustizia del Pd dunque una con la presa salda sul provvedimento. Interrompe Ostellari, gli dice che così non va bene. Ma poi Ostellari continua, non dà mai un parere sugli emendamenti e alla fine tutti gli altri smettono di farglielo notare. Tanto le votazioni scorrono via velocissime. Passa senza danni anche l’unico voto segreto, in teoria con Lega e Iv favorevoli poteva essere un problema. È il voto su un emendamento leghista che riprende alla lettera il quesito referendario numero due, quello per limitare le misure cautelari. Proprio per questo, però, Fratelli d’Italia che al referendum numero due aveva scelto di votare No, non può votarlo adesso. Per non passare dalla parte della maggioranza, i senatori di Meloni non partecipano al voto, mentre i renziani si astengono, qualche leghista si assenta, i forzisti si distraggono. Alla fine l’emendamento prende appena settanta voti segreti. Una cosa è minacciare tempesta contro il governo in tv, un’altra è pensare di creare problemi veri in aula. Così il disegno di legge sarà approvato definitivamente oggi. Era arrivato (alla camera) nei primi giorni del governo Conte 2, quello giallorosso, firmato dall’allora ministro Bonafede. Cartabia l’ha riscritto, al prezzo di una serie infinita di mediazioni con la sua confusa maggioranza. Lo aspetta per la promulgazione il presidente Mattarella. Subito dopo, con le nuove regole, convocherà lui stesso le elezioni del nuovo Csm. A settembre. La politica ascolti quei milioni di Sì che chiedono una giustizia diversa di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 16 giugno 2022 Il risultato del referendum di domenica scorsa va valutato a mente fredda come ogni accadimento complesso per il quale è difficile dare una risposta immediata I commenti affrettati di questi giorni sono tutti validi ma sono tutti parziali o semplicistici e certamente marginali. La data di giugno, il sole, il mare, le vacanze scolastiche, una sola giornata per votare e, a mio parere, anche la scarsa informazione che pure è fondamentale nelle imprese politiche, non danno una risposta completa e convincente che va ricercata nelle modalità con le quali è venuto fuori il referendum. Le firme raccolte dai radicali sono ineccepibili per il valore che è giusto dare alla consultazione, ma si sono aggiunte quelle della lega che sono state chiaramente strumentali, false, senza una strategia. Salvini è un bullo inaffidabile che si è mobilitato in un momento in cui contestava la “giustizia e i magistrati” per le note vicende e poi ha detto in campagna elettorale che vi erano altre questioni più importanti. E i cittadini hanno capito che “un capo” che vuol manovrare il suo partito e i cittadini non è quindi degno di fiducia: Salvini pensava di oscurare radicali con il loro intento limpido e saggio, per essere l’unico vincitore. I quesiti non erano punitivi in sé perché si tratta di questioni delle quali tanti di noi discutono da anni, ma sono apparsi punitivi perché chiesti da un signore che dopo è stato costretto a fare marcia indietro o ci ha ripensato, pure avendo fatto spendere allo Stato una rilevante somma e strumentalizzato i cittadini elettori. Questo il problema intrinseco al referendum così come proposto con le modalità dette che ha reso scettico l’elettorato. Alcuni hanno eccepito che i quesiti erano difficili, ma la storia dei referendum dal dopoguerra in poi, ci porta a dire che anche i quesiti più difficili sono stati compresi del corpo elettorale nella loro ratio profonda, nel loro significato generale. Il referendum sulla modifica della Costituzione patrocinato dal governo nel 2016 e ossessivamente propagandato da Renzi è ancora incompreso da molti ma aveva un chiaro valore strumentale da convincere tanti a votare contro, e la grande propaganda ha incentivato gli elettori a votare. D’altra parte dobbiamo prendere atto, sempre con grande meraviglia, che partiti come il PD che dovrebbero essere appunto democratici e amanti delle riforme le quali servono a far funzionare meglio la democrazia, sono stati ostili al referendum e hanno scoperto che le riforme le deve fare il Parlamento… ma sono stati inattivi per oltre quarant’anni! Ora a cose fatte dobbiamo ragionare, come ho detto, con obiettività e freddezza. Da anni la partecipazione cittadina al voto è molto scarsa e questo è un problema serio per la democrazia che è fatta di partecipazione la quale esprime la rappresentanza che più è corale e più è forte. Anche a livello locale, come abbiamo potuto constatare per le elezioni comunali la partecipazione elettorale ha superato complessivamente di poco 50% e tradizionalmente le battaglie per il campanile grande o piccolo hanno interessato tutti. Vi è questo problema, che è indubbiamente un deficit per la democrazia. Per il passato tanti hanno chiesto e chiedono che si elimini il quorum del 50 + 1% non più realistico, e nonostante la proposta abbia una sua ragione, credo che istituiti così delicati come il referendum che possono alterare l’ordinamento statale e l’equilibrio istituzionale debbano trovare la partecipazione della maggioranza. Pur tuttavia nell’ultimo mio scritto in cui incitavo il voto, consapevole delle difficoltà di un risultato formale, dicevo che la risposta del cittadino doveva costituire una sollecitazione per il Parlamento. Orbene il risultato non è un voto contrario, ma per tutti i cinque referendum è altamente positivo e se si fa una proiezione sul possibile risultato, nel caso tutti avessero votato, si otterrebbe un responso valido anche sul piano anche formale. Allo stato abbiamo un risultato sostanziale. Il rispetto della democrazia ha un valore formale perché determina e codifica le regole, ma ha anche un valore sostanziale nel senso del dovere di “ascoltare le indicazioni del corpo elettorale” proprio per curare i mali della magistratura, le anomalie del processo che nessuno più dei giudici sa che sono profondi e seri. Questi problemi riguardano la democrazia, il rapporto tra i poteri, e l’ordinamento giudiziario stabilisce le regole interne della categoria. L’Associazione Nazionale dei Magistrati non rappresenta tutte le categorie se lo sciopero indetto a maggio anche lì non ha visto la partecipazione della maggioranza, perché vi sono certamente sfumature culturali diverse, idee diverse nel ruolo del giudice e del magistrato. E quindi è sperabile che al di là della vittoria celebrata improvvidamente, si riuniscano le varie correnti per discutere di questi problemi ridando vigore culturale alle loro organizzazioni; ed è auspicabile che dopo la riforma approvata dalla Camera dei Deputati si confermino al Senato le norme già approvate in prima lettura per poi proseguire sui temi più impegnativi e decisivi di cui abbiamo scritto molte volte. La giustizia è malata. E i referendum non bastavano di Gianluigi Paragone Il Tempo, 16 giugno 2022 Siccome i referendum sono andati come peggio non potevano, ecco che la Lega e i renziani pensano di prendersi la rivincita in aula a colpi di emendamenti. Come se il tema fosse di bandierine da piantare. La giustizia del Palazzo - anzi, dei Palazzi perché quello delle toghe è un potere a tutti gli effetti - è distante anni luce dalla giustizia che vorrebbero i cittadini. I quali, negli ultimi decenni, si sono ritrovati a prendere parte a una bagarre dove le loro questioni erano solo minimamente sfiorate. È vero che lo strapotere dei magistrati spazia dalle logiche interne nel Csm a un esercizio di vita e di morte cui pare difficile sottrarsi a fronte di un abuso o un errore delle toghe. Ed è vero che di queste criticità si è parlato a lungo. Ma è altresì vero che mentre il dibattito corre tra una riforma (?) e un’altra, tra un dibattito e un altro, tra uno scontro politico e un altro, ci sono pezzi di diritto, pezzi di economia e pezzi di società che si accartocciano irrimediabilmente. Faccio alcuni esempi. Nel recente tempo dell’emergenza Covid, con semplici atti amministrativi sono stati piegati diritti e libertà che nessun giudice a Berlino ha voluto affrontare e riaffermare in modo uniforme allo spirito della Costituzione e non solo. È proprio nelle emergenze che la tenuta della ripartizione dei poteri deve dare prova di essere bilanciata; è proprio in questo stress che l’esecutivo dev’essere controllato del legislativo ma soprattutto da un giudiziario maturo e compiuto. Invece è accaduto che lavoratori e piccoli imprenditori sono rimasti bloccati da decisioni arbitrarie, in conseguenza delle quali tutto il resto ha subito lesioni. La magistratura italiana è vittima di una immaturità operativa e “politica”. I cittadini normali non possono assistere a un ritorno di un potere assoluto del Sovrano governativo senza poter contare sul check and balance: la giustizia ha questa funzione, se la fallisce diventa altro. La giustizia non può restare senz’armi quando le multinazionali comprimono i diritti del lavoro, così come un imprenditore non può assistere che l’attore più grosso ha la strada spianata se si parla di transazione fiscale o dumping sindacali. Il lavoratore non può subire un piano licenziamenti perché il grosso gruppo americano o cinese sposta baracca e burattini in un altro Stato. Di contro il piccolo imprenditore non può nemmeno subire la strafottenza con cui un lavoratore si fa scudo di malattie o intoccabilità strambe. E che dire del mondo delle esecuzioni, delle aste giudiziarie su cui nessuno vuole accendere un faro? O la tutela della prima casa, tolta la quale si entra nell’invisibilità sociale. Oltre la legge c’è insomma bisogno di operatori del diritto maturi del loro ruolo sociale. Capisco bene che amministrare la giustizia sia difficilissimo, ma la giustizia non può oscillare tra il protagonismo delle toghe e l’invisibilità di giudici che si fanno burocrati. Lo ripeto, è proprio quando le crisi mordono che i cittadini debbono essere protetti da una giustizia con un senso sociale spiccato. Entrare in un palazzo di Giustizia è persino peggio che entrare in un ospedale perché almeno tra denunce e scandali la Sanità viene “attenzionata”; sulla Giustizia invece i più hanno paura perché sanno o hanno capito che la magistratura non ha un controllore degno della credibilità nella funzione di controllo. Una giustizia malata avvelena non solo la vita dei singoli ma avvelena il sistema economico e sociale, perché non è vero che in Italia i grandi capitali non investono per colpa della giustizia; anzi talvolta i grandi si avvantaggiano di queste mollezze. Sono i piccoli a essere sempre schiacciati. E questo è deleterio. Il solo fatto di aver pensato di rivendicare una giustizia giusta con cinque quesiti referendari è stato un atto arrogante o ipocrita. Gli italiani hanno bisogno di una magistratura che rimetta in equilibrio il diritto, e di una giustizia che non sia nelle mani di correnti e carrierismi. Costa (Azione): “Caro Letta, il campo largo non si fa senza una giustizia garantista” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 giugno 2022 “Allora Enrico, cominciamo dalla giustizia. Sono curioso di conoscere il punto di sintesi. Lo stop alla prescrizione? Il fine processo mai? Il trojan indiscriminato? Il traffico di influenze? I garantisti liquidati come impunitisti?’: così da twitter il deputato e vice segretario di Azione Enrico Costa ha commentato ieri un articolo de La Stampa dal titolo ‘La strategia di Letta: sei punti per unire Conte e Calenda’. Onorevole cosa voleva dire con quel tweet? Ho letto nell’articolo che Enrico Letta si sarebbe posto l’obiettivo di avvicinare le posizioni di Conte con Calenda. Stranamente tra quei sei temi - lavoro, Europa, scuola, sanità, diritti, ambiente - manca la giustizia. Allora mi sono chiesto come sia possibile trovare una sintesi sul grande tema della giustizia. E come si fa? Innanzitutto ricordiamo che Giuseppe Conte è il Presidente del Consiglio della spazza- corrotti, del fine pena mai, che in più occasioni ha evidenziato come le lungaggini processuali sia determinate non dalle inefficienze della macchina giudiziaria ma dai cavilli messi su dagli avvocati. Il Movimento Cinque Stelle poi ha bloccato la discussione in Commissione sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere promossa dall’Unione Camere Penali. Si tratta di temi fondamentali nell’ambito di un programma politico e al momento la distanza è abissale. Però Lei nel suo tweet ha fatto riferimento anche alla frase del segretario del Pd che ha equiparato garantisti e impunisti... Certo, ho fatto un riferimento anche a lui. Quella frase a mio giudizio era profondamente sbagliata. Essere attenti alla presunzione di innocenza non significa non essere attenti contemporaneamente alla certezza della pena e/ o alla tutela delle vittime di reati. La responsabilità di chi ha sbagliato deve essere accertata, ma lo si deve fare in tempi contenuti: esiste il principio di rieducazione della pena che deve essere applicata alla stessa persona che ha commesso il reato non a quella che diventerà a 10 o 20 anni dai fatti. Si tratti di principi basilari di uno Stato di Diritto, della nostra Costituzione e vederli sbeffeggiati credo non sia affatto politicamente corretto. Quindi non si può pensare ad una alleanza prescindendo dal tema della giustizia? Si tratta di una questione che non può rimanere nascosta nelle menti e nei cuori dei parlamentari. Molti miei colleghi spesso in Aula non votano quello che in realtà pensano realmente, obbediscono invece alle logiche di partito. E vedo molta sofferenza in alcuni parlamentari del Pd per questa alleanza con il Movimento Cinque Stelle. A questo punto, dati anche i risultati delle amministrative, a Letta non conviene scaricare Conte? Credo sia sbagliato fare valutazioni politiche solo con la calcolatrice. Quando presento una coalizione devo chiedermi “dove voglio andare” e faccio salire a bordo di conseguenza quelle realtà che sono compatibili con i miei obiettivi. È impensabile far salire su una nave due persone che si scazzottano dal primo all’ultimo momento. Letta sceglie il M5S? Buon viaggio. Un commento sull’assoluzione del padre dell’onorevole Boschi? Accade ormai purtroppo troppo spesso che processi e sentenze di condanne anticipate sui giornali poi si rivelino fallaci. Nell’immaginario collettivo poi resta quella narrazione che si è consolidata con il marketing giudiziario, mentre alle assoluzioni non viene restituito lo stesso spazio. Il Movimento Cinque Stelle chiederà scusa per la campagna fatta contro Boschi padre e figlia? Se dovessero chiedere scusa per ogni espressione forcaiola che hanno pronunciato dovrebbero fare solo quello dalla mattina alla sera. Oggi verrà approvata al Senato la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: ma che fatica... Ho contribuito molto al testo approvato alla Camera. E doveva rimanere quello per accordi di maggioranza presi da tempo. Si tratta di una riforma che fa passi avanti e che non era in contraddizione con i referendum, che avrebbero permesso di fare ancora di più. Auspico che il risultato di oggi sia un punto di inizio per continuare a lavorare per migliorare il sistema giustizia. Brava Cartabia, adesso il Gip garantirà i diritti degli indagati di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 16 giugno 2022 Tra le numerose novità che la Riforma Cartabia vorrebbe introdurre, v’è la rivitalizzazione del ruolo, nodale nella penna del Legislatore del Codice di Rito, dell’Ufficio del Giudice per le indagini preliminari e del Giudice dell’udienza preliminare, riabilitato dalla Riforma come snodo all’interno del procedimento penale. Nel codice Rocco del 1930, di stampo marcatamente inquisitorio, non era immaginabile l’esistenza nella fase delle indagini della figura del Gip né tantomeno di quella del Gup poiché il vaglio delle imputazioni infondate avveniva senza soluzione di continuità, all’esito dell’istruzione, dal giudice cd. istruttore. Quest’ultimo, sovrintendendo all’intera formazione del processo, conduceva il procedimento probatorio, acquisendo le prove che riteneva pertinenti e necessarie (tra le quali spiccava il mandato di cattura, impiegato come autentico mezzo di ricerca della prova) e alla fine decideva se prosciogliere o rinviare a giudizio. L’entrata in vigore del nuovo codice di rito, tutt’ora vigente, segna il tramonto della figura “ibrida” del giudice istruttore e l’avvento, in fase di indagini, del giudice per le indagini preliminari, preposto a garanzia dei diritti dell’indagato e, con l’esercizio dell’azione penale, del giudice per l’udienza preliminare, deputato a pronunciarsi mediante una valutazione prognostica sul corretto esercizio dell’azione stessa e sulla “sostenibilità” dell’impianto accusatorio, nel contraddittorio tra le parti. Un ruolo di filtro, dunque, anche in un’ottica deflattiva, quello affidato al Gup, a garanzia di imputazioni cd. “azzardate” o “pilota” ovvero che sarebbero destinate ad una evaporazione all’esito del dibattimento, con pronunce pienamente assolutorie. Unico limite: non sconfinare in un giudizio sul merito dell’accusa - colpevolezza o innocenza dell’imputato - proprio del giudice della cognizione. Da più parti, oggi, si lamenta il costante appiattimento delle pronunce Gip e Gup alle richieste avanzate dai Pubblici ministeri, tanto in fase d’indagine - si pensi alle richieste di applicazione di misure cautelari, quasi mai disattese dall’organo giudicante, ovvero alle stesse richieste di archiviazione, soprattutto se opposte, quasi sempre accolte e raramente destinatarie di provvedimenti di integrazione probatoria - quanto, in sede di udienza preliminare, con il pressoché costante richiamo del decreto che dispone il giudizio alla richiesta di rinvio del PM. Molteplici le cause di queste derive: in parte, come è stato rilevato, le pronunce del giudice di legittimità, che negli ultimi anni hanno sistematicamente annullato le sentenze di non luogo a procedere, contestando al Gup di aver mal impiegato la regola di giudizio di cui all’art. 425, c. 3 c. p. p.; da qui, dunque, una certa ritrosia nel pronunciare sentenze liberatorie che, per inciso, richiedono una motivazione ben più gravosa di quella richiesta nel caso di rinvio a giudizio con il rischio di vedersele poi cassate; si sottolinea, poi, che nell’attuale sistema di valutazione dei magistrati, in termini di punteggio assegnato, un procedimento che si conclude con il rinvio a giudizio è perfettamente equivalente ad un altro che si conclude con una pronuncia di non luogo a procedere, elemento che certamente non ‘ stimola’ il giudicante; da ultimo, la sempre maggior pervasività dei media, già a partire dalle primissime fasi delle indagini preliminari, che tendono a ratificare come necessaria ogni decisione o richiesta del PM e, al contrario, a delegittimare, gridando allo scandalo, quei giudici che, nell’adempiere al proprio ruolo costituzionalmente tutelato di garanzia dei diritti dell’indagato, “osano” rigettare le richieste cautelari avanzate dalle Procure; lo scrivente già scrisse, su queste pagine circa le riassegnazioni “punitive” a carico di taluni Giudici troppo garantisti. A queste storture tenta di porre rimedio la Riforma Cartabia, investendo sulla centralità dell’ufficio Gip- Gup come anello strategico dell’intero procedimento penale, prima di tutto nella prospettiva di una piena affermazione della ragionevole durata del processo e delle garanzie dell’indagato/ imputato. Due le direttrici: da un lato, l’imprescindibile incremento, sul fronte organizzativo, delle risorse concretamente a disposizione per l’esercizio nei tribunali delle funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell’udienza preliminare; dall’altro, l’introduzione della regola di giudizio secondo cui “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna” come presupposto tanto della richiesta di archiviazione quanto della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. La Ministra Cartabia sta svolgendo la funzione più alta dell’Ordinamento: riconsegnare al Popolo, per il quale la Giustizia è amministrata, la fiducia nel processo penale, cancellando i pensieri per i quali l’udienza preliminare è utile solo a tenere le agende delle sezioni di Tribunali. Dunque, una sfida che la Riforma ha lanciato, indubbiamente complessa e gravosa ma che, se opportunamente colta, consentirà di coniugare giusto ed equo processo con quella certezza e ragionevole durata che la Costituzione richiede e i cittadini - legittimamente - reclamano. *Avvocato, Direttore Ispeg In carcere senza richiesta del pm. Per una (sola) volta il Gip paga di Riccardo Radi* Il Dubbio, 16 giugno 2022 A fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per un danno erariale da 10mila euro nei confronti di una toga. La vicenda è accaduta a Salerno ed è stata “scoperta” leggendo la relazione della Corte dei Conti sulle spese sostenute dallo Stato per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari negli anni 2017-2020. Nella relazione si indica il caso in maniera generica senza entrare nei particolari. Noi siamo riusciti a ricostruire la storia giudiziaria recuperando anche l’atto di citazione per danno erariale, unico caso in Italia dal 1992 ad oggi, notificato dal ministero della Giustizia al giudice disattento che ha emesso una misura cautelare di arresti domiciliari senza che il pubblico ministero ne avesse fatto richiesta. In pratica un giudice delle indagini preliminari, non di prima nomina, riceve una richiesta di misura cautelare per un signore accusato in concorso con la figlia di false fatturazioni. Non si sa come è perché, il Gip emette una misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della figlia in assenza di una richiesta del pubblico ministero che la riguardasse. La polizia giudiziaria esegue la misura e arresta la donna, che solo in sede di interrogatorio di garanzia, su istanza difensiva, verrà liberata in “assenza dei presupposti di legge”. La malcapitata, di fatto sottoposta a un sequestro di persona, propone richiesta di risarcimento del danno per illegittima detenzione che viene accolta con la liquidazione della somma di euro 21.170,91. La Corte dei Conti, sul presupposto della esistenza di danno erariale a carico del giudice che ha emesso la misura cautelare senza l’esistenza dei requisiti di legge, e a carico del pm che la ha comunque eseguita senza averla richiesta, notifica a entrambi una richiesta con contestazione del danno per i comportamenti tenuti. La tragicomica avventura si è definita all’italiana. Il pubblico ministero ha evitato la richiesta di danno erariale sostenendo con particolare vigore la sua completa estraneità ai fatti accaduti. In pratica in sua discolpa ha dedotto: “Quando la misura cautelare gli è stata portata per la esecuzione, non aveva il relativo fascicolo, trattenuto dal Gip per gli adempimenti successivi (interrogatorio di garanzia). A sostegno della sua tesi ha depositato attestazione del cancelliere”. Vi chiederete: e allora? Come puoi chiedere la misura cautelare per un uomo e la ricevi emessa, e la esegui, nei confronti di una donna e ritieni che “non avendo il fascicolo” sei esente da ogni responsabilità? Eppure la tesi difensiva ha funzionato, e il ministero della Giustizia ha ritenuto che le argomentazioni del pm consentono di “escludere la gravità della colpa”. Quindi è rimasto solo il Gip a dover rispondere del fattaccio, e il ministero non ha potuto esimersi, con linguaggio burocratico, dal sottolineare che “l’errore emerge laddove il Pm ha richiesto la applicazione della misura della custodia cautelare in carcere solo nei confronti di C. G.” e non della donna. Quindi la colpa grave è riscontrabile avendo emesso la “misura cautelare senza i presupposti di legge”. In conclusione il giudice ha definito la propria colpa grave pagando il 50% dell’iniziale richiesta di risarcimento, e con circa 10.000 euro ha “patteggiato” il danno erariale. Possiamo concludere che l’episodio, più che un errore, sia un gesto simbolico del Gip che, facendo a meno del Pm, esprime la sua solidarietà alla battaglia dell’avvocatura per la separazione delle carriere? A parte il sarcasmo, proviamo a riflettere su un dato inquietante: in Italia dal 1992 al 31 dicembre 2021 ci sono stati 30.133 innocenti indennizzati dallo Stato per errori giudiziari o ingiuste detenzioni. Badate bene che il numero rappresenta la punta di un immenso iceberg, in quanto solo il 24% delle domande di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta. In ogni caso, per gli innocenti conclamati e indennizzati lo Stato ha pagato 894 milioni e spicci di euro. Su questi dati la Corte dei Conti ha posto l’attenzione, evidenziando la mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. La magistratura risulta essere una sorta di isola felice in cui l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario. Ebbene, a fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato recuperando la somma di euro 10.425,68. Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? Questo è il tema focale sotteso alla storia che abbiamo raccontato. È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti. *Avvocato Femminicidi, il giudice Roia: la donna che si separa unilateralmente rischia la vita di Giusi Fasano Corriere della Sera, 16 giugno 2022 Ce lo chiediamo ogni volta. Che cosa non ha funzionato? Ce lo chiediamo soprattutto quando i numeri impongono attenzione: cinque donne uccise in quest’ultima settimana, per esempio. Dove stiamo sbagliando? E come se ne esce? L’ultimo report della Direzione centrale della polizia criminale dice che fra l’1 gennaio e il 12 giugno di quest’anno sono cadute per mano di un uomo violento 50 donne, di cui 43 in ambito familiare/affettivo. Ma fra il 12 e oggi all’elenco se ne sommano altre tre, quindi siamo a 53 vite spezzate, 46 da assassini che hanno a che fare con la famiglia o con le relazioni sentimentali. L’anno scorso erano 49 ma nessuno osa leggere quel -3 come un successo, perché anche un solo femminicidio è comunque troppo e poi perché sappiamo tutti che alla fine dell’anno - tirate le somme - lo scostamento rispetto agli anni passati non è mai decisivo, mai indicativo di un’inversione reale di tendenza. E dunque? Cosa si può fare più di quanto sia già stato fatto? Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano è fra i più preparati magistrati italiani sul tema della violenza di genere. Si occupò per la prima volta di violenza domestica nel lontano 1991, da giovane pubblico ministero. Ogni tanto racconta di quell’imputato italiano che gli disse: “Signor giudice io non lo sapevo che picchiare la moglie fosse un reato!”. Non stava mentendo, quell’uomo. Aveva davvero la concezione proprietaria nei confronti della donna che aveva sposato: lei è mia e io ne faccio quello che voglio, compreso picchiarla se non fa cosa e come dico io. “Ecco. Io credo che ne usciremo quando faremo lo switch: ci serve lo scatto della maturazione culturale, il cambio di approccio, di mentalità. Abbiamo fatto passi avanti ma la strada è ancora lunga”, dice Roia. “Ci ho riflettuto” annuncia. “Mi sento di dire che oggi una donna che decide unilateralmente di abbandonare una relazione di coppia è in una potenziale situazione di pericolo di vita. Mi rendo conto che una frase del genere ha un effetto molto forte ma è una considerazione che va fatta con chi è vicino a quella donna in quel momento. Tutti: dalle amiche ai parenti, dall’avvocato al sistema giustizia. Le leggi ci sono, sono le competenze che vanno migliorate”. Chiunque si occupi di violenza di genere sa bene che saper individuare e valutare le situazioni di rischio è oggi una delle priorità. Un’altra è occuparsi, finalmente in modo serio, degli uomini violenti, perché la non violenza passa (anche) per il loro recupero e la consapevolezza del disvalore dei loro comportamenti. E poi sarebbe urgente aiutare le donne a riconoscere la violenza che troppo spesso negano o sminuiscono. Senza puntare il dito contro di loro, come invece sembrerebbe fare la gran parte della popolazione del nostro Paese. Fu l’Istat nel 2019 (ultimo dato disponibile) a farci sapere che per oltre la metà degli italiani una donna che subisce violenza in qualche misura se l’è cercata. “Quel dato era impressionante” commenta Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio. “Era l’espressione degli stereotipi, dei pregiudizi, della giustificazione dei violenti...Non siamo all’anno zero, è vero, ma purtroppo ci sono ancora resistenze al cambiamento”. Chi sbaglia? “Alla base di tutto c’è il tema della mancata adeguata valutazione del soggetto e della sua pericolosità sociale”, risponde. “Sbagliano tutti gli operatori del sistema giudiziario che non hanno formazione e specializzazione sufficiente. Ma la pericolosità sociale è il presupposto per le misure cautelari e una volta stabilite quelle io dico che usiamo ancora troppo poco il braccialetto elettronico anche se adesso li abbiamo”. L’uso rafforzato del braccialetto elettronico e il fermo anche senza la flagranza di reato (nei casi di maltrattamenti, lesioni e stalking) sono due punti-chiave del pacchetto di norme antiviolenza voluto dalle ministre Marta Cartabia, Luciana Lamorgese ed Elena Bonetti, assieme alle colleghe Erika Stefani, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Quel disegno di legge adesso è in Commissione Giustizia. La ministra per le Pari Opportunità Bonetti dice che è “urgente” approvarlo “in via definitiva”, che è stato “voluto per dare una stretta antiviolenza” e che “oggi il testo attende l’esame del Senato, e so che i relatori Cucca e Unterberger stanno lavorando perché avvenga rapidamente”. Aggiunge che “lo dobbiamo a tutte le donne che sono a rischio della vita e ai loro figli. Ogni giorno di ritardo pesa sulle nostre coscienze e sulla nostra coscienza di Paese”. Femminicidi. Dovevamo salvare Betta e le altre di Mara Carfagna La Stampa, 16 giugno 2022 Il sentimento dell’indignazione, l’orrore per i dettagli - l’ultima vittima, la signora Elisabetta Molaro, è stata accoltellata mentre dormiva a pochi metri dalle sue bambine - non bastano più per commentare la strage di donne a cui assistiamo con cadenza quasi quotidiana. Sono vicende accomunate da una serie di costanti: denunce senza esito da parte delle vittime, minacce sottovalutate dall’autorità, violenti scarcerati sulla base dell’adesione a percorsi di rieducazione evidentemente inefficaci. C’è un pacchetto di norme concordato nel dicembre scorso dalle ministre che offre strumenti più incisivi per arginare la violenza, incoraggiare le donne a denunciare e al tempo stesso dare alla magistratura e alle forze dell’ordine la possibilità di fermare gli aggressori prima che feriscano e uccidano. Estende l’uso del braccialetto elettronico e consente al giudice di tenere o mettere in carcere chi lo rifiuta. In caso di gravi indizi di maltrattamento o atti persecutori permette il fermo dei violenti anche fuori dai casi di flagranza. Dispone specifici controlli sui corsi di recupero per evitare che i responsabili di abusi usino la rieducazione come scappatoia dal carcere e dopo un paio di incontri tornino a perseguitare le loro ex. Sono passati poco più di sei mesi dalla messa a punto di quel disegno di legge e dalla sua presentazione alla stampa, che vide sullo stesso palco le ministre dell’Interno, della Giustizia, delle Pari Opportunità, dei Giovani, degli Affari Regionali, della Disabilità, dell’Università e Ricerca, oltreché la sottoscritta. Ricordo che il premier Mario Draghi partecipò all’iniziativa stando in platea, in segno di rispetto e condivisione. In questi sei mesi, secondo il report del Servizio analisi criminale della Polizia aggiornato al 12 giugno, quasi cinquanta donne e ragazze sono state assassinate “in ambito familiare/affettivo”, cioè da ex-partner o ex-mariti. Non so se e quanti di quegli omicidi avrebbero potuto essere evitati: so che è urgente, indifferibile, accelerare l’iter dell’approvazione di quelle misure, attualmente ferme alla fase delle audizioni in Commissione Giustizia del Senato. Sotto il profilo politico, il pacchetto anti-violenza è sostenuto da autorevoli esponenti di tutti i partiti della maggioranza e dunque, non dovrebbero esserci problemi per una rapida discussione e approvazione. Sotto il profilo dell’interesse pubblico è innegabile l’urgenza di agire, non solo per evitare altri lutti, altri orfani, altri orrori, ma anche per difendere la reputazione dello Stato. Sì, perché ogni volta che leggiamo di una donna che ha denunciato, non è stata protetta a sufficienza, è stata uccisa, non ci confrontiamo solo con un orribile delitto ma anche con una ferita alla credibilità delle istituzioni. Non possiamo più dire alle donne “denunciate chi vi minaccia” e poi lasciarle sole ad affrontare i loro potenziali assassini. Baby gang. Se la violenza di strada diventa forma di espressione sociale di Leonardo Di Paco e Massimiliano Peggio La Stampa, 16 giugno 2022 Violenza di strada come forma di espressione sociale. Torino si colloca al terzo posto della classifica nazionale per reati commessi da minori, dopo Milano e Roma, ma con densità di abitanti di gran lunga superiore. L’82% delle persone, rimaste vittime di un’aggressione in città, non ha presentato denuncia. Perché? Un po’ per sfiducia nelle forze dell’ordine, o perché “i colpevoli non si trovano mai”, o semplicemente perché fare una denuncia rischia di essere solo una perdita di tempo. Radiografia di un fenomeno informe e sfuggente, quello delle baby gang e delle devianze giovanili. Stanno provando a realizzarla i ricercatori torinesi che hanno aderito al progetto europeo di sicurezza urbana Icarus, partendo dai big data elaborati dall’unità scientifica della polizia municipale. Progetto che coinvolge tre assessorati: sicurezza, politiche sociali, politiche educative. Sul web la questione appassiona. Analizzando il flusso informativo pubblicato su tutte le fonti aperte, social media e siti informativi professionali, le notizie e i commenti sul tema baby gang hanno conquistato vette altissime di attenzione. Tra il 2020 e il 2021 si è registrato un incremento di interesse del 1251%, solo a Torino. Da una decina di giorni, in sordina, i ricercatori di Icarus hanno lanciato un sondaggio anonimo con passaparola. Partendo dall’ambiente universitario. Le domande: hai subito un’aggressione da parte di una baby gang o ne hai sentito parlare? Dov’ è accaduto? In quale fascia oraria? Hai fatto denuncia? Ecco i primi risultati. La maggior parte delle aggressioni è avvenuta tra le 23 e mezzanotte, poi tra le 12 e le 19. Così raccontano le persone che hanno vissuto in prima persona un fatto. Dove? Per chi ha avuto un’esperienza diretta soprattutto sui mezzi di trasporto, metro e tram; poi nelle vie del centro, e infine nelle zone di movida, San Salvario e Santa Giulia. Stando agli intervistati del “sentito dire”, la classifica si capovolge: in cima ci sono le zone della movida, poi i quartieri di periferia, a seguire i mezzi di trasporto e subito dopo le vie del centro. Domanda cardine: qual è l’età stimata degli aggressori? Sia chi ha avuto un’esperienza diretta, sia quelli del “sentito dire” rispondono in maggioranza 14-18 anni. In quanti erano gli assalitori? Qui il risultato si fa interessante. Stando alle risposte di chi ha vissuto sulla propria pelle un reato si toccano gli estremi: o per mano di un branco di “sette o più persone” o per opera un rapinatore “solitario”. Per l’opinione pubblica il fenomeno si connota per lo più in branco. Il Comune di Torino, al pari della città di Lisbona, nell’ambito del progetto europeo di sicurezza urbana, ha scelto di studiare a fondo le devianze giovanili. Non solo per comprenderne le origini, ma anche per individuare delle cure, migliorare le condizioni sociali della città e prevenire derive incontrollabili. Da qui parte la radiografia del fenomeno, cui ieri educatori, investigatori, assistenti sociali, giornalisti, hanno dedicato una giornata di studi, portando ognuno in dote la propria esperienza. Perché occorre trovare rapidamente una soluzione all’ondata di baby gang e microcriminalità minorile? Perché, dicono i ricercatori, è un fenomeno in aumento; tra i giovani si sta diffondendo una scarsa sensibilità per le ingiustizie, e si sta radicando troppa tolleranza alla violenza, che si traduce in omertà e mancanza di solidarietà. I correttivi ci sono. Educatori ed esperti, messi a confronti propongo vari tipi di interventi, ma quasi tutti concordano nel chiedere alla politica strategie stabili, a lungo termine, anche visionarie; il superamento della gestione in bandi dirottando più fondi alle attività sociali di prossimità, ai progetti di sostegno delle famiglie, soprattutto straniere, e ai percorsi educativi. Per insegnare che la violenza non è un linguaggio. È solo una sconfitta. Ingiusta detenzione: nuova condanna Cedu per l’Italia di Valter Vecellio lindro.it, 16 giugno 2022 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha reso definitiva l’ennesima condanna contro lo Stato Italiano, colpevole di aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha reso definitiva l’ennesima condanna contro lo Stato Italiano: colpevole di aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. Aldo Di Giacomo, va al di là della “notizia” specifica: “La condanna della CEDU è per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti. Questo accade mentre sono 750, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i detenuti in lista d’attesa per fare ingresso in una della trentina di Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza,) ma molti di più quanti hanno problemi psichici”. Il tempo medio di attesa è di 304 giorni; ma in alcune regioni (Sicilia, Puglia, Calabria, Campania, Lazio) l’attesa arriva fino a 458 giorni. Le regioni con più detenuti in attesa sono la Sicilia (circa 140 detenuti), la Calabria (circa 120), e la Campania (un centinaio). La percentuale più alta dei detenuti con disturbi psichiatrici soffre di nevrosi; il 30% di malattie psichiatriche collegate all’abuso di droghe e di alcool; il 15% di psicosi. La Corte Costituzionale (sentenza 22 del 27 gennaio scorso) dichiara inammissibili le questioni di legittimità sollevate: accoglierle avrebbe creato un intollerabile vuoto di tutela; però esorta il legislatore a intervenire con una riforma organica del sistema. “I problemi”, dice ancora Di Giacomo, “si sono dunque aggravati per responsabilità di politica e Parlamento che periodicamente annunciano impegni di riforma per poi disattenderli e rinviarli ad altri. Il risultato è che il personale penitenziario è lasciato solo a fronteggiare questa situazione e troppo spesso diventa oggetto su cui scaricare tensioni e malessere attraverso aggressioni. Inoltre, gli episodi di autolesionismo di detenuti con difficoltà psichiatriche sono circa dieci ogni giorno, quattro sono le aggressioni che quotidianamente i poliziotti penitenziari subiscono da detenuti con problemi psichiatrici e due in media sono i tentativi di suicidio che la polizia penitenziaria riesce ad evitare. È tempo che Ministero Grazia e Giustizia e Ministero alla Salute se ne occupino seriamente non delegando alla Cedu di occuparsene”. Pavia. Quarto suicidio in cella in meno di un anno di Adriano Agatti e Maria Fiore La Provincia Pavese, 16 giugno 2022 Vittima un 40enne trasferito a Pavia da poco tempo. Altri tre detenuti si sono impiccati tra ottobre e dicembre. Quarto suicidio in otto mesi nel carcere di Torre del Gallo. Ieri pomeriggio un detenuto di 40 anni si è tolto la vita impiccandosi al letto della sua cella: quando gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno scoperto era tardi per salvarlo. Il medico del carcere ha constatato il decesso. Sulla vicenda, che sembra confermare alcune criticità già emerse mesi fa sulle condizioni dei detenuti all’interno del carcere, sono stati avviati accertamenti. Ancora da precisare i particolari della tragedia, l’ennesima avvenuta all’interno del carcere pavese. L’uomo avrebbe approfittato di un momento in cui il compagno di cella era assente. La tragedia - Il suicidio è avvenuto ieri verso le 17 nella sesta sezione del carcere di Pavia. Il detenuto, di cui non è stato rivelato il nome, è un 40enne italiano che era stato trasferito da un altro istituto di pena. L’uomo era rinchiuso in una parte della struttura carceraria riservata alla criminalità comune ma con maggiori restrizioni rispetto alle altre sezioni che ospitano lo stesso tipo di detenuti. Le celle ospitano due carcerati ma in quel momento il 40enne era da solo. Ha approfittato dell’assenza del suo compagno per mettere in pratica un piano forse già meditato da tempo. Ha annodato le lenzuola e le ha attaccate alla sponda del suo letto. Nessuno si è accorto subito della tragedia, il corpo è stato scoperto diversi minuti dopo. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno chiesto l’intervento del personale sanitario interno. Poi è arrivato anche il medico del 118 ma per il detenuto non c’è stato niente da fare. Non si sa se il detenuto fosse seguito dagli psicologi del carcere. Tre suicidi tra ottobre e dicembre - Il dramma di ieri fa salire a quattro i suicidi registrati a Torre del Gallo in pochi mesi. Il 25 ottobre si era tolto la vita un detenuto di 36 anni. Il 18 novembre un altro detenuto si era impiccato nella sua cella. Nella notte del 2 dicembre, alle 3.30, il terzo caso: un detenuto, che aveva 37 anni, si era tolto la vita nella sua cella con la cintura dell’accappatoio. Avrebbe finito di scontare la sua pena ad aprile del 2023. Una escalation che aveva acceso un faro sulla carenza di personale medico, in particolari psicologi in grado di garantire assistenza ai detenuti più fragili. Le associazioni che si occupano di carcere avevano lanciato l’allarme e diverse delegazioni, anche di politici, erano entrate a Torre del Gallo. Reggio Emilia. Suicidio in carcere, il Garante: “Punta dell’iceberg di una sofferenza diffusa” assemblea.emr.it, 16 giugno 2022 Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, interviene sul suicidio all’interno del carcere di Reggio Emilia di Osborne Antwi Tukpeh, 36 anni, liberiano ex giocatore professionista di football americano. Nelle prime ore del pomeriggio di ieri, nel reparto dei detenuti comuni, l’uomo si è tolto la vita nella sua stanza di pernottamento. A nulla è servito l’immediato intervento dei soccorsi. L’uomo si trovava in carcere dallo scorso 22 marzo per aver ucciso a coltellate, davanti al figlioletto di 5 anni, la suocera Tiziana Gatti, che era venuta come ogni mattina a prendere i nipotini. Questo, spiega Cavalieri, “è il terzo suicidio che si verifica nelle carceri emiliano-romagnole nel 2022. Sui casi legati all’abuso di farmaci sono in corso accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria”. In Italia ogni anno in carcere, in media, su 10mila detenuti sono in 10,6 a togliersi la vita. Fuori dal carcere, invece, i suicidi sono 0,6 ogni 10mila cittadini. I gesti di autolesionismo arrivano in media a 20 ogni 100 detenuti. “Questi dati - sottolinea il Garante regionale - rappresentano la punta dell’iceberg della sofferenza che si vive in carcere. Serve un maggiore coinvolgimento della società e dei territori”. Le direzioni degli istituti penitenziari presenti in regione e le locali aziende sanitarie, rimarca Cavalieri, “devono potenziare i protocolli per il rischio autolesivo e suicidario, attraverso l’incremento nelle strutture di personale sanitario con adeguate competenze rispetto a queste problematiche, per l’intero arco della giornata e anche del volontariato penitenziario, troppo spesso non coinvolto nei processi di accompagnamento alla vita detentiva dei reclusi, questo anche al fine di superare il massiccio ricorso a terapie e psicofarmaci”. Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, interviene sul suicidio all’interno del carcere di Reggio Emilia di un detenuto di 36 anni di origini liberiane. Nelle prime ore del pomeriggio di ieri, nel reparto dei detenuti comuni, l’uomo si è tolto la vita nella sua stanza di pernottamento. A nulla è servito l’immediato intervento dei soccorsi. L’uomo si trovava in carcere dallo scorso 22 marzo, accusato di omicidio (all’interno del contesto famigliare). Questo, spiega Cavalieri, “è il terzo suicidio che si verifica nelle carceri emiliano-romagnole nel 2022. Sui casi legati all’abuso di farmaci sono in corso accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria”. In Italia ogni anno in carcere, in media, su 10mila detenuti sono in 10,6 a togliersi la vita. Fuori dal carcere, invece, i suicidi sono 0,6 ogni 10mila cittadini. I gesti di autolesionismo arrivano in media a 20 ogni 100 detenuti. “Questi dati - sottolinea il garante regionale - rappresentano la punta dell’iceberg della sofferenza che si vive in carcere. Serve un maggiore coinvolgimento della società e dei territori”. Le direzioni degli istituti penitenziari presenti in regione e le locali aziende sanitarie, rimarca Cavalieri, “devono potenziare i protocolli per il rischio autolesivo e suicidario, attraverso l’incremento nelle strutture di personale sanitario con adeguate competenze rispetto a queste problematiche, per l’intero arco della giornata e anche del volontariato penitenziario, troppo spesso non coinvolto nei processi di accompagnamento alla vita detentiva dei reclusi, questo anche al fine di superare il massiccio ricorso a terapie e psicofarmaci”. Napoli. Estate nelle carceri, sarà un inferno senza precedenti di Francesca Sabella Il Riformista, 16 giugno 2022 Esiste un inferno più inferno del carcere? Sì, esiste e si chiama estate nelle carceri. Se normalmente le celle strapiene di detenuti (ricordiamo che i penitenziari campani sono tra i più affollati d’Italia) senza impianti di areazione, con docce che funzionano a singhiozzo, rappresentano la mortificazione dei diritti dell’uomo, con l’arrivo dell’estate la situazione, se è possibile, peggiora e diventa invivibile. Le carceri si trasformano in un girone dell’inferno dantesco. Brucia l’umanità, i diritti, la dignità, l’umana compassione. In fumo qualsiasi legge e normativa sul trattamento dei detenuti. Devono morire di caldo. E morire non è un eufemismo, in cella si muore per davvero. A lanciare l’allarme sull’ondata di calore che sta per abbattersi sulle carceri campane è il segretario regionale dell’Associazione Sindacale Polizia Penitenziaria (As.P.Pe) della Campania Luigi Castaldo. “Con molta probabilità questa sarà un’estate di fuoco nelle carceri campane, tra le peggiori estate degli ultimi cinque anni” ha dichiarato Castaldo. E insieme con le temperature, salgono le preoccupazioni per una situazione che diventerà presto ingestibile. “Purtroppo persistono ataviche criticità organizzative che metteranno a dura prova le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria durante quest’estate - spiega Castaldo - Il grave sovraffollamento delle strutture penitenziarie campane, specie in quelle obsolete prive di climatizzazione e spazi idonei per le attività ricreative, connesso alla grave carenza di personale di Polizia Penitenziaria, determina un mix esplosivo durante questo periodo estivo che mette in allarme la polizia penitenziaria”. Per Castaldo saranno messe in seria discussione “sia le attività trattamentali che i diritti soggettivi del personale di Polizia Penitenziaria, il tutto a discapito dell’interesse collettivo e della sicurezza di tutti, nonché del buon andamento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Come al solito, non c’è personale. Ci sono migliaia di detenuti in più rispetto ai numeri che la legge consente, ma non c’è personale. Secondo il sindacalista, in Campania servono circa 1000 unità di Polizia Penitenziaria “per compensare il grave scompenso tra diritti e doveri del personale di Polizia Penitenziaria investito in molteplici competenze che complicano l’espletamento del mandato istituzionale, mettendo in seria discussione l’aspetto rieducativo e trattamentale, senza sottovalutare il forte stress correlato ai carichi di lavoro”. Da qui la richiesta di uno svuota-carceri immediato: “Servirebbe una concreta e tangibile operazione di sfollamento dei penitenziari più critici con azioni giudiziarie equilibrate da mettere in campo da una politica che dovrebbe attenzionare maggiormente i penitenziari campani durante questo periodo - conclude Castaldo - I numeri sono allarmanti, destano serie preoccupazioni e meritano una cosciente presa di posizione”. Sì, una presa di posizione che non dovrebbe arrivare insieme con la calura estiva, ma a prescindere: le carceri non servono, non rieducano, non riabilitano, mortificano. E non nascevano con questo scopo, o sì? Napoli. Vietati i funerali pubblici per Cosimo Di Lauro, morto in carcere di Nico Falco fanpage.it, 16 giugno 2022 Sono stati ufficialmente vietati i funerali pubblici per Cosimo Di Lauro, il boss dell’omonimo clan di camorra e primogenito di Paolo Di Lauro, deceduto a 49 anni lunedì mattina, 13 giugno, nel carcere milanese di Opera, dove stava scontando l’ergastolo. Il provvedimento è stato firmato dal Questore di Napoli, Alessandro Giuliano, e notificato alla famiglia Di Lauro questa mattina dagli agenti del commissariato di Secondigliano della Polizia di Stato; si tratta in questo caso di una decisione scontata, di prassi nel caso di personaggi ritenuti, in passato o al momento della dipartita, ai vertici della malavita organizzata. La data per i funerali non è stata ancora fissata, probabilmente si dovrà attendere almeno la fine della settimana; per domani è in programma l’autopsia, disposta dalla Procura di Milano che sulla morte di “Cosimino” ha aperto una inchiesta con l’ipotesi di reato di omicidio colposo: obiettivo degli inquirenti è non solo determinare le cause della morte del 49enne, che sarebbe stato stroncato da un infarto, ma stabilire le sue condizioni di salute negli ultimi anni e capire se avesse ricevuto le dovute cure mediche e psicologiche. Ululava di notte e fumava 100 sigarette al giorno - Cosimo Di Lauro era in carcere dal 2005, quando fu arrestato, da latitante, nei pressi del “Terzo Mondo”, roccaforte del clan. Per gli inquirenti sono state le sue decisioni a scatenare la Faida di Scampia: quando il padre Paolo Di Lauro, alias Ciruzzo ‘o Milionario, gli cedette la reggenza, l’allora trentenne rivoluzionò quella che era una “macchina perfetta” per lo spaccio di droga, causando frizioni con gli altri clan che portarono ad una guerra da decine di morti. Negli ultimi anni Di Lauro, da quanto è trapelato in questi giorni, era stato vittima di un drastico tracollo psicologico durante la detenzione, al 41bis: farneticava in cella, fumava fino a cinque pacchetti di sigarette al giorno, rifiutava l’igiene personale e di notte ululava. Praticamente irriconoscibile, aveva perso 30 chili. Già dal 2008 i suoi legali avevano sostenuto che non fosse più in grado di partecipare ai processi e avevano richiesto più volte perizie psichiatriche. L’avvocato Saverio Senese lo aveva incontrato l’ultima volta nel 2019, dopo aver ricevuto da lui una lettera su cui non c’era nemmeno una parola: in quella circostanza Di Lauro se ne andò dicendo di dover prendere parte a una “riunione importante di imprenditori” in veste di “capo di un mondo parallelo”. Torino. Carcere, la Garante: “Troppi psicofarmaci ai giovani detenuti” di Rosita Rijtano lavialibera.it, 16 giugno 2022 Affrontare la detenzione con il sostegno di ansiolitici è “ormai consuetudine”, ma “si tratta di un fenomeno molto preoccupante”, dice Monica Gallo. “Troppo uso e abuso di psicofarmaci tra i ragazzi che si trovano nel carcere minorile Ferrante Aporti”. È quanto denunciato da Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, durante un’audizione della Commissione legalità del capoluogo piemontese, in cui si è fatto il punto sulla condizione degli istituti penitenziari in città. “I giovani rappresentano il 14 per cento della popolazione detenuta nella casa circondariale Lorusso e Cutugno, una percentuale mai registrata negli ultimi anni. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio sempre, ma quando parliamo di ragazzi ancora di più”. Un “clima positivo” lo registra nel penitenziario Lorusso-Cutugno, che nei mesi scorsi ha cambiato direzione dopo lo scandalo che ne ha travolto i vertici, accusati di aver coperto gli abusi commessi da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Il carcere di Torino rimane però “il più complesso d’Italia”. Colpisce un dato: nel 2021 il Servizio delle dipendenze dell’Azienda sanitaria locale di Torino ha preso in carico oltre 900 detenuti tossicodipendenti. Sulle presunte violenze nei confronti di alcuni reclusi, la garante dice: “Ho fatto ciò che sono stata chiamata a fare, cioè garantire i diritti delle persone private della libertà. Certo, mi stupisce che il tribunale abbia deciso di far iniziare il processo nel 2023”. Nel frattempo, gli agenti coinvolti nell’inchiesta continuano a lavorare nello stesso istituto, come denunciato da lavialibera. Gallo, in audizione ha fatto presente che i giovani nel carcere minorile Ferrante Aporti assumono terapie farmacologiche molto pesanti. Come mai vengono prescritte? Ci hanno segnalato che la somministrazione di psicofarmaci, soprattutto ansiolitici, per rendere sostenibile la detenzione è ormai consuetudine. Un fenomeno molto preoccupante, in particolare modo per i più giovani. Molti ragazzi che entrano in carcere abusano già di psicofarmaci all’esterno, spesso associati all’uso di sostanze stupefacenti. Altri escono con una pesante terapia impostata dentro. Una condizione che vale per i ragazzi detenuti sia nell’istituto minorile sia in quello per adulti. Crede che queste terapie siano necessarie? A mio avviso è necessario lavorare su più fronti per contenere il problema. Fuori dal carcere, con azioni mirate dirette alla prevenzione e all’informazione in merito all’uso di psicofarmaci. Dentro il carcere, cercando di non indurre una dipendenza o, se già esiste, di ridurla. Di contro, le attività educative destinate a ragazzi e ragazze sono sufficienti? Il Ferrante Aporti è un istituto attento alle esigenze dei giovani ma, come spesso ha sostenuto la stessa direzione, negli anni la popolazione reclusa è cambiata. Oggi ci sono molti minori non accompagnati che hanno dei passati tormentati, esigenze complesse e una rabbia sociale difficile da gestire. Su di loro si è investito poco in termini di inclusione. In ambito educativo, sono necessarie più professionalità preparate a impostare un trattamento che tenga conto del passato e del contesto di provenienza di questi giovani. Non solo. In estate, così come nei fine settimana, le attività si impoveriscono. Un aumento di progetti artistici, culturali, sportivi e formativi permetterebbe di colmare quel tempo vuoto che causa sofferenza. Negli ultimi mesi l’ufficio del garante ha aumentato le visite in istituto per verificare alcune criticità che i giovani ci hanno raccontato, come il tempo all’aria, le attività, e la qualità del cibo. Tre studenti che lo scorso 18 febbraio hanno partecipato a un corteo di protesta realizzato a Torino contro l’alternanza scuola-lavoro sono stati arrestati in seguito a degli scontri con la polizia. Uno di loro è ancora in carcere, gli altri due sono ai domiciliari. Crede che le misure siano adeguate? Parto da un dato: i giovani rappresentano il 14 per cento della popolazione detenuta nella casa circondariale Lorusso e Cutugno, una percentuale mai registrata negli ultimi anni. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio sempre, ma quando parliamo di ragazzi ancora di più. La detenzione crea una frattura importante, soprattutto se si entra in un istituto complesso come la casa circondariale di Torino. Inoltre, la carcerazione di giovani incensurati, come nel caso in questione, risulta inadeguata sotto più profili. Un’alternativa sono i braccialetti elettronici: purtroppo la loro disponibilità è di molto inferiore alla richiesta. Ha definito il carcere di Torino il più complesso d’Italia. Perché? La definizione non è mia, ma del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le ragioni sono molte, come la presenza di tanti circuiti diversissimi tra loro: dai sex offender all’alta sicurezza passando per le donne madri, manca solo il 41 bis. Ogni sezione ha delle sue particolarità e andrebbe gestita a sé. Inoltre, il Lorusso-Cutugno è una casa circondariale dove dovrebbero essere recluse le persone in attesa di giudizio o condannate con pene inferiori ai cinque anni, ma c’è un’alta percentuale di condannati con sentenza definitiva a pene lunghe. La percentuale di coloro che sono impegnati in attività lavorative resta molto bassa. La mancanza di un impiego è la condizione più sofferta dai detenuti. Una delle nostre proposte prevede con urgenza la creazione di uno sportello dimettendi, cioè un luogo fisico all’interno del carcere a cui può rivolgersi chi è al fine della pena: al suo interno ci saranno operatori, anche del Comune di Torino, con cui programmare il rientro in società. Al momento la direzione dell’istituto è affidata a una sola persona. Pensa sia sostenibile? Non è un carcere che può essere gestito da una sola persona. La maggior parte dei presunti abusi, da lei segnalati e ora al centro di un’inchiesta, si sono verificati nel padiglione C, destinato anche agli autori di reati sessuali. È una sezione molto complessa? Alle persone detenute in questo specifico circuito sono dedicati diversi progetti ad hoc. Negli anni passati abbiamo realizzato un progetto di valore con il museo Egizio che speriamo riprenda, ma di certo si tratta di un circuito ancora molto chiuso. In generale però il clima sta cambiando. Anche se molto lentamente si sta tornando a respirare un’aria più distesa per la ripresa di una normalità, che pur essendo ridotta all’interno delle carceri, è fatta di attività e relazioni che danno speranza. Infine, lei ha segnalato anche un aumento dei Tso in città. Crede che la pandemia abbia inciso sulla salute mentale dentro e fuori dalle carceri? La chiusura, la solitudine, la paura e la lontananza dagli affetti hanno creato condizioni di forte disagio per tutti, per i detenuti di più. Durante tutto il periodo pandemico le attività educative e di trattamento si sono interrotte. Le attività rieducative e trattamentali hanno subito un ritardo e una riduzione sostanziale, che si riscontra ancora oggi. Le persone detenute hanno vissuto in alcuni casi un doppio isolamento, che non ha fatto bene. Gela (Ag). In tutta la Regione non c’è un posto letto per il detenuto malato di mente di Liliana Blanco Gazzettino di Gela, 16 giugno 2022 Non c’è posto nella rete ospedaliera psichiatrica della Sicilia per un detenuto malato di mente. Il caso è scoppiato qualche giorno fa nel carcere di contrada Balate dove un detenuto quarantenne di origine bulgara ha dato in escandescenze. L’episodio ha messo in subbuglio in primis il personale del carcere che si è trovato davanti un caso clinico da trattare opportunamente, l’Asp che ha coinvolto il personale specializzato, il Ministero della Giustizia che ha chiesto il trattamento sanitario obbligatorio viste le condizioni dell’uomo, il Comune in quanto il sindaco firma il Tsl come figura istituzionale garante della sanità e tutta la rete ospedaliera della psichiatria siciliana. Per non parlare della serenità delle persone che vivono nel carcere. Il caso è scoppiato la scorsa settimana quando l’uomo ha mostrato chiari i segni della crisi psichiatrica. Si è messa in moto la macchina dei soccorsi per attivare il TSO previsto in questi casi. Il concetto di T.S.O. psichiatrico basato su valutazioni di gravità clinica e di urgenza e, quindi, inteso come una procedura esclusivamente finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza del paziente, ha sostituito la precedente normativa del 1904 riguardante il “ricovero coatto” (legge n. 36/1904, basato sul concetto di “pericolosità per sé e per gli altri e/o pubblico scandalo”, concetto maggiormente orientato verso la difesa sociale. Il T.S.O. viene disposto dal sindaco del comune presso il quale si trova il paziente, su proposta motivata da due medici, di cui almeno uno appartenente alla ASL territoriale del comune stesso; può essere eseguito sia in ambito ospedaliero sia presso l’abitazione o altra sede. La procedura impone, infine, la convalida del provvedimento del sindaco da parte del giudice tutelare di competenza. Vista la norma per il Tso, dunque, è previsto il ricovero coatto. Ma a Gela non esiste più il reparto di diagnosi e cura di psichiatria quindi è iniziata la ricerca in provincia ed in tutta la Sicilia. E qui arriva la notizia: non c’è in Sicilia un posto letto per il detenuto bulgaro. È difficile crederlo ma è andata così. L’Asp comunque ha inviato il personale specialistico che è intervenuto tempestivamente con le cure appropriate. Il Tso non è stato completato con il ricovero nonostante l’intervento del Ministero della Giustizia rappresenta l’organo di controllo delle carceri. L’uomo comunque si è sottoposto alle cure, ha instaurato un buon rapporto col personale medico e sta meglio. Resta il fatto che in Sicilia non ci sono posti letto per i malati di mente Ferrara. La manutenzione del verde affidata ai detenuti Il Resto del Carlino, 16 giugno 2022 Siglato il patto tra Comune, associazioni e casa circondariale per il reinserimento sociale. Balboni: “Solidarietà e tutela ambientale”. A Ferrara il reinserimento sociale dei detenuti passa anche attraverso il lavoro di cura dell’ambiente e del verde urbano. Con una convenzione, approvata ieri dalla Giunta, il Comune di Ferrara, la Casa Circondariale cittadina e le associazioni: ‘La Voce degli Alberi’, ‘Fare Verde’, ‘Difesa Ambientale Estense’, ‘Ferrara Progea Aps’, Associazione K, cooperativa sociale Il Germoglio Onlus, e Rete Lilliput Ferrara, assieme a Zerbini Garden, si apprestano, infatti, a dare il via a un nuovo progetto per l’affidamento ad alcuni detenuti di piccoli lavori di manutenzione e messa a dimora di piante in una serie di aree verdi del territorio comunale. L’iniziativa dal titolo ‘Manutenzione e piantagione solidale’ avrà una durata di due anni e coinvolgerà una decina di partecipanti, individuati dall’amministrazione della casa circondariale di Ferrara. “Questo progetto - spiega l’assessore comunale all’Ambiente Alessandro Balboni - unisce due aspetti molto importanti per la nostra città, ossia la solidarietà e la difesa dell’ambiente. Le modalità previste all’interno di questo progetto per le attività di forestazione urbana non hanno precedenti a Ferrara: il loro valore aggiunto sta nell’unire associazioni ambientaliste, amministrazione comunale, direzione della casa circondariale e carcerati, per la giusta causa della difesa dell’ambiente. Coniugando il reinserimento in società e lavori utili per la collettività e l’ambiente otteniamo un risultato duplice e virtuoso”. Intento della convenzione è, infatti, quello di rispondere al bisogno di reinserimento e integrazione sociale delle persone sottoposte a misure di esecuzione penale attraverso la realizzazione di un progetto finalizzato, da un lato, ad individuare percorsi di accompagnamento al lavoro di alcuni detenuti e, dall’altro, a sensibilizzare la cittadinanza, attraverso le attività delle associazioni di volontariato, ai temi ambientali, dell’inclusione sociale e della solidarietà tra le persone. tra le mansioni previste per i partecipanti figurano: la creazione e la cura di piccole aiuole, la messa a dimora di nuove essenze arboree, annaffiature di piante, piccole potature e la pulizia di aree verdi da foglie, plastiche e altri rifiuti abbandonati. Ancona. Fattoria del Barcaglione: il formaggio del carcere conquista il Mercato Dorico vivereancona.it, 16 giugno 2022 Meno di un’ora e già le scorte finite. Tra curiosi che hanno voluto provare l’abbinamento tra caciotta e millefiori e altri avventori che già avevano sperimentato i prodotti dell’azienda agricola del Barcaglione, questa mattina è stato un successo per lo stand speciale allestito al Mercato Dorico di Campagna Amica. “Il rapporto di collaborazione con Coldiretti e Campagna Amica - spiega Manuela Ceresani, direttrice della casa circondariale di Barcaglione - si è consolidato negli anni fino ad arrivare oggi alla vendita dei nostri prodotti qui al Mercato Dorico. La nostra attività e dare ai detenuti un’opportunità di lavoro da poter spendere una volta usciti per potersi reinserire a pieno titolo nella società”. Un’iniziativa che Coldiretti ha sposato fin dalle prime battute coinvolgendo la sua Federpensionati. Proprio Antonio Carletti, presidente dei pensionati Coldiretti, è il tutor dell’orto che spiega ai detenuti i rudimenti della coltivazione nell’orto sociale. “Nel giro di un’ora abbiamo quasi finito le scorte portate - racconta - Non prevedevamo un successo così. Il fine di queste attività è far crescere i detenuti, sperando che sia loro di stimolo per un domani, per avere una possibilità in più”. Totale: 20 chili di formaggio e 20 chili di miele. I prodotti del carcere torneranno al Mercato Dorico anche mercoledì prossimo. Milano. Carcere e diritto allo studio: l’impegno della Statale di Tommaso Agasisti Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2022 L’Ateneo è coinvolto da sette anni presso le case di reclusione di Milano-Opera, e Milano-Bollate, Pavia, Vigevano e Monza. Con tutti i suoi Dipartimenti coinvolti, i 23 corsi universitari frequentati e i 127 studenti ristretti iscritti che costituiscono oltre il 10% del totale nazionale (1.246), l’Università degli Studi di Milano è il primo Ateneo italiano per numero di studenti ristretti iscritti ai propri corsi. I dati sono stati resi pubblici nell’ambito dei lavori dell’assemblea annuale della Cnupp - Conferenza nazionale dei Poli universitari penitenziari, che si è appena tenuta presso l’Università di Padova, nell’ambito dell’ultimo monitoraggio sulle attività dei Poli Penitenziari, relativo all’anno accademico 2021/22. Diritto allo studio in carcere - L’Università Statale di Milano, che aderisce alla Conferenza, è impegnata da tempo sul tema del diritto allo studio in carcere: da sette anni, infatti, l’Ateneo è coinvolto presso le case di reclusione di Milano- Opera, e Milano-Bollate, Pavia, Vigevano e Monza. Stefano Simonetta, docente di Storia della Filosofia e referente di Ateneo per il sostegno allo studio universitario delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, spiega: “I dati che riguardano in particolare il nostro Ateneo, il cui Polo è nato alla fine del 2015, ci riempiono di soddisfazione: grazie all’impegno di tutte le componenti attive nel nostro Progetto carcere - soprattutto allo straordinario lavoro svolto dalle centinaia di studentesse e studenti del nostro Ateneo che si sono impegnati nel ruolo di tutor - la Statale risulta nettamente l’Università italiana con il più alto numero di studenti ristretti e il maggior numero di Dipartimenti coinvolti”. I tutor - I tutor attualmente attivi nei diversi istituti penitenziari sono 107 (55 a Bollate, 47 a Opera, 5 a Pavia). Il loro ruolo risulta fondamentale nella traduzione pratica del diritto allo studio, poiché ovvia alla maggior parte delle limitazioni che caratterizzano la condizione detentiva: supportano infatti gli studenti ristretti in ogni fase del loro percorso accademico, aiutandoli nella costruzione di un metodo di studio efficace, affiancandoli nella preparazione degli esami e occupandosi della gestione dei materiali didattici tra carcere e Biblioteche di Ateneo. Open Day - Tra le prossime iniziative, gli Open day negli istituti penitenziari cittadini (giovedì 16 giugno a Milano-Bollate, martedì 5 luglio a Milano-Opera), preludio alle nuove immatricolazioni e a nuova offerta didattica nelle carceri che per l’a.a. 2022-2023 vede un ciclo di lezioni dal titolo Per una antropologia del “come se”: finzione, invenzione e rappresentazione e uno dal titolo Parlare, immaginare, scrivere all’interno del carcere. Il Tempo, nel linguaggio, nel mito, nella letteratura, nell’arte tra i 7 corsi proposti agli studenti ristretti, per rendere sempre più concreto l’esercizio del diritto allo studio per le persone private della libertà. Torino. Rimaniamo umani, anche nelle carceri di Massimiliano Quirico comune.torino.it, 16 giugno 2022 Riportare l’umanità anche negli ambienti più difficili, come gli istituti penali minorili e le carceri. È quanto si propone di fare l’associazione Essere Umani, nata come movimento di giustizia sociale, audita il 15 giugno 2022 nella seduta congiunta delle Commissioni Legalità e Cultura, presieduta da Luca Pidello (PD). L’occasione dell’audizione è stata la presentazione della mostra “Art. 27”, dedicata all’articolo della nostra Carta Costituzione che tratta il tema della rieducazione della pena detentiva. L’esposizione, inaugurata a margine della seduta di Commissione nel Loggiato antistante la Sala Colonne di Palazzo Civico, è stata realizzata in collaborazione con il Corso di Arte del fumetto dell’Accademia Albertina tenuto dal professor Pierpaolo Rovero, come ha spiegato Juri Nervo, presidente dell’associazione. “È un modo per promuovere la cultura della legalità e della riconciliazione, attraverso l’arte, e per dialogare con il mondo del carcere” - ha affermato la vicesindaca di Torino, Michela Favaro. “Come Istituzioni non dobbiamo infatti dimenticarci di chi sta scontando la propria pena - ha dichiarato il presidente della Commissione Legalità Luca Pidello - anche favorendo iniziative educative e culturali come la mostra appena allestita a Palazzo Civico. Per permettere che si possa vivere pienamente nella società una volta usciti dal carcere”. Durante la riunione sono anche stati presentati i “passaporti” della riconciliazione e della legalità, con la partecipazione di rappresentanti del movimento delle Agende Rosse e - in collegamento streaming da Roma - della figlia di Aldo Moro, Agnese, che ha rilanciato le iniziative per favorire una comunità riparativa, senza odio, che prevede la possibilità di un incontro, in cui, in un dialogo franco, siano dette e ascoltate verità scomode e difficili per entrambe le parti coinvolte. Bergamo. Con lo spettacolo “Fine pena ora”, il teatro entra nel carcere di via Gleno di Lorenzo Catania bergamonews.it, 16 giugno 2022 Il progetto nasce dalla sinergia tra il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo, la Fondazione istituti educativi, il Centro di Servizio per il Volontariato e l’Associazione Carcere e Territorio. I saluti, le strette di mano, i sorrisi e i “grazie” pieni di sincerità quando le luci della sala si riaccendono. Era dedicato anche e soprattutto a loro, i detenuti della casa circondariale di Bergamo, “Fine Pena Ora”, la rappresentazione teatrale portata in scena mercoledì pomeriggio proprio all’interno del carcere di via Monte Gleno. E loro, una settantina di detenuti - compresa una componente femminile - hanno apprezzato e ringraziato gli artisti. Perché Fine Pena Ora parla ai detenuti della storia di un detenuto, raccontando il dramma umano più intimo di un ergastolano attraverso la narrazione dello stesso giudice che lo ha condannato. Nato nell’ambito della Terza Missione del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bergamo, la rappresentazione teatrale chiude un ciclo di cinque incontri inaugurato lo scorso settembre e che ha coinvolto non solo i detenuti ma tutta la cittadinanza e anche le scuole. Lo spettacolo è una riduzione drammaturgica del romanzo Fine pena: ora scritto dall’ex magistrato del Csm e senatore del Partito Democratico Elvio Fassone. Un adattamento toccante e commovente quello portato nel carcere di Bergamo, grazie alla voce narrante di Michele Marinini e alle musiche - originali - composte da Michele Agazzi e Marco Azzerboni. La storia - Nel 1985 si celebra a Torino un maxiprocesso alla mafia catanese: Elvio Fassone è Presidente della Corte d’Assise, Salvatore uno dei più pericolosi imputati ed esponente di spicco della cosiddetta “bocca di fuoco”. Sulla sua scheda personale è riportata la scritta “fine pena: mai”. Il giorno dopo la sentenza che condanna Salvatore al carcere a vita il giudice Fassone ripensa alla voce dell’imputato quando gli ricordava: “Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia”. D’impulso decide di scrivergli una lettera a cui allega un libro. È l’inizio di uno scambio epistolare che durerà per ben 26 anni: “Nemmeno tra due amanti” ammette l’autore, “è possibile uno scambio di lettere così lungo”. Tra i due nasce un rapporto di reciproco rispetto e di fiducia. L’inizio della corrispondenza fra i due non è un pentimento del giudice per la condanna inflitta, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. Un gesto che si accompagna a una continua riflessione di Fassone sul senso della pena. Negli anni Salvatore cerca di riprendere in mano la sua esistenza tra la sua voglia di emanciparsi con lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. Salvatore è diventato un’altra persona, ma da una casa circondariale all’altra lo sconforto si fa disperazione fino a un tentativo di suicidio. “Fine pena: ora” non è dunque un’invenzione letteraria ma la rielaborazione di una storia vera. Non è un saggio sulle carceri ma un avvincente romanzo che riflette su come sia possibile conciliare la domanda della sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena. È il medesimo valore che lo spettacolo ha cercato di trasmettere agli ospiti esterni della casa circondariale, ma soprattutto a quelli interni. Il progetto, coordinato dalla professoressa Daniela D’Adamo dell’Università di Bergamo, nasce dalla sinergia tra il dipartimento di Giurisprudenza nell’ambito del Public engagement e la Fondazione istituti educativi di Bergamo, con la collaborazione del Centro di Servizio per il Volontariato di Bergamo e dell’Associazione Carcere e Territorio Bergamo. “Questo spettacolo è nato per sensibilizzare su temi nostri, su cui facciamo ricerca e didattica - spiega D’Adamo. La cosa meravigliosa però è che abbiamo invitato esterni e detenuti. Volevamo fortemente che l’ultimo atto del percorso fosse qui perché i detenuti si sentissero al centro, e per far capire che non si fa ricerca e didattica arroccati in un’acropoli ma che la nostra è un’attività di inclusione”. Un’inclusione che passa attraverso l’arte e la capacità di trasmettere la bellezza. “Il codice del linguaggio è fondamentale. Il teatro è un veicolo di emozioni e di riflessione, forse un veicolo privilegiato. Tramite l’emozione si suscita la riflessione e insieme si vive un’esperienza. È impattante anche per gli artisti”. La preparazione dello spettacolo non è stata solo quella di narratore e musicisti. Sono stati in particolare i detenuti i destinatari dell’attenzione maggiore, a testimonianza del forte legame di collaborazione sociale tra carcere e Università. “Abbiamo lavorato con la Direzione e con la psicologa del carcere per preparare i ragazzi. Sono temi che non possono essere affrontati senza un adeguato approfondimento. Questo è il nostro obiettivo: creare progetti di contenuto insieme. Perché è da qui che si parte”. Milano. A Bollate la prima pista di atletica per i detenuti in un carcere di Manuela D’Alessandro agi.it, 16 giugno 2022 A buttare giù i muri per farle posto sono stati gli stessi reclusi nel carcere considerato modello in cui si provano a ridisegnare gli spazi. Abbattere i muri e correre, farsi spingere dal vento sul rosso morbido di un’elegante pista di atletica. La prima in un carcere italiano, ed è, non per caso, a Bollate, uno dei pochi istituti di pena ‘costituzionali’ che prova a riconsegnare davvero al mondo persone nuove. Per disegnare questa linea sinuosa, che rimanda agli ultimi successi più folgoranti dello sport olimpico italiano, il cemento armato è stato proprio buttato giù. “L’idea, promossa dal Politecnico di Milano, è di rivedere gli spazi per i detenuti - spiega all’AGI Francesco Maisto, il garante per le persone ristrette del Comune -. Intervenire sui cosiddetti ‘cortili di passeggio’, vaste aree limitate e caldissime, fatte con la pece. E fare dei buchi nei muri dove, eccola, spunta la pista in tutta la sua bellezza”. C’è voluto il fiore dell’ingegno del Politecnico. Rappresentato dall’architetto Andrea Di Franco, docente dell’ateneo, e dal suo gruppo di studio. “Al Politecnico facciamo ricerche sull’architettura con finalità sociali che incida in ambiti abitativi con particolari problematiche. Così come sono, le carceri non sono adatte per consentire di svolgere delle attività che permettano una crescita personale, della comunità formata da chi ci sta e con la società esterna. La maggior parte dei reclusi ha problemi di salute, che siano fisici o mentali”. E allora si è pensato di andare oltre la classica palestra, che si trova più o meno in tutti i luoghi di pena. Ci voleva “inventiva”, dice Di Franco che su questo orizzonte c’è rimasto per un paio di anni, prima che spuntassero la pista e altri paesaggi di luce a Bollate. “Volevamo fare spazio ad attività di gruppo e aerobiche che incidessero sulla salute delle persone facendo breccia nel cemento armato. La pista di atletica è la più suggestiva: evoca la libertà di correre”. Ci hanno lavorato anche i detenuti - Ci sono anche altri nuovi territori, per giocare a basket e a pallavolo e pure una palestra ‘diffusa’, cioè ritagliata in vari punti del carcere, che invogli a considerare la cura del corpo in ogni momento del proprio passaggio ‘dentro’. Per demolire e costruire c’è voluto un impegno collettivo: “Abbiamo dialogato con una commissione di esperti di sport, con l’amministrazione regionale e locale per conciliare l’idea con la sicurezza del carcere. E i soldi sono arrivati, oltre che dall’ambito penitenziario, dal Politecnico attraverso il premio ‘Polisocial’ che abbiamo vinto con questo progetto nel 2019, e dalle imprese coinvolte che si occupano di spazi e materiali sportivi”. A costruire la loro pista ci si sono messi anche i carcerati. E così hanno abbassato di un poco il loro muro. Correndo, va tutto più veloce. Sempre più poveri, senza giustizia né diritti di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 16 giugno 2022 Il caso. Istat: nel 2021 aumentate le persone che non riescono a soddisfare i bisogni fondamentali. I poveri assoluti erano già tornati al livello del 2020. L’anno prossimo, con la pandemia e la guerra, aumenteranno. Stranieri residenti da meno di 10 anni esclusi dal reddito, 1 lavoratore su 3 sotto i 10 mila euro. La necessità di una riforma del Welfare e di un allargamento del “reddito di cittadinanza”, ora. Nel 2021, ha sostenuto ieri l’Istat, i “poveri assoluti” (le famiglie e le persone che non possono permettersi di soddisfare i bisogni fondamentali per condurre una vita dignitosa) erano 5 milioni e 600 mila persone distribuite in 1,9 milioni famiglie. Il dato va storicizzato. Dopo i primi dodici mesi della pandemia, dichiarata a partire da febbraio-marzo 2020, i poveri assoluti sono rimasti gli stessi, almeno statisticamente, del 2020. In attesa dei dati del 2022 - saranno resi noti l’anno prossimo e presumibilmente registreranno un aumento della povertà a causa della nuova crisi e dell’inflazione alle stelle - il 2021 ha confermato il massimo storico raggiunto da questo tipo di povertà l’anno precedente. Questo significa che il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, e il suo effimero gemello chiamato “reddito di emergenza” deciso dal governo “Conte 2” per evitare l’estensione della misura principale verso un reddito di base incondizionato, non sono riusciti a diminuire il tasso di povertà. Senza contare il fatto che, ieri come oggi, il “reddito di cittadinanza” non raggiunge tutti i poveri assoluti censiti ufficialmente in Italia. NEL 2021, infatti, questa misura ha raggiunto la massima estensione con 1,8 milioni di famiglie e 3,9 milioni di percettori complessivi. Ad aprile 2022, cioè nel momento della ricaduta in un’altra crisi, i percettori sono diminuiti: 1.522.879 famiglie e 3 milioni 362.180 persone coinvolte. Importo medio: 558,17 euro (dati Inps). La domanda è: se i poveri assoluti erano 5 milioni e 600 mila già nel 2021 perché ancora oggi sono solo poco più di 3 milioni a ricevere un sussidio che tenderà a essere sempre più ristretto, soprattutto per coloro che sono giudicati “abili al lavoro” (all’incirca 1,1 milioni)? Così ha deciso il governo Draghi nell’ultima legge di bilancio. Tutto questo accade a causa dei “paletti” fiscali e patrimoniali (tra i quali una soglia Isee a 9.360 euro e patrimonio immobiliare non superiore a 30 mila euro, esclusa la prima casa) imposti dalla legge voluta dal governo “Conte 1” (Cinque Stelle+Lega) che ha istituito la misura nel 2019. Senza contare che esistono anche i “poveri relativi”, cioè le persone che sono escluse di fatto dalle attività e modi di vita comuni e svolgono lavori poveri e attività intermittenti. Secondo l’Istat sono l’11,1% della popolazione attiva e nel 2021 erano già aumentate dal 10,1% del 2020. Le famiglie povere relativamente erano circa 2,9 milioni (2,6 milioni nel 2020). Riportiamo questi dati per dare un esempio della gravissima crisi sociale in cui versa questo paese e che nessuno, fino ad oggi, è riuscito a contenere. Anzi, i dati dicono che la crisi era già peggiorata tra i “poveri relativi” nel primo anno della pandemia nonostante gli “aiuti” erogati attraverso i bonus e gli incentivi occasionali e aleatori tipici dello stato sociale neoliberale e compassionevole, adottati dai due ultimi governi in Italia. Un esempio è sufficiente per dimostrare l’inefficacia delle misure populiste adottate. Riguarda l’indennità per i lavoratori autonomi chiamata “Iscro”. Secondo un rapporto della Cgil e dell’associazione Apiqa la misura festeggiata due anni fa sotto il governo “Conte 2” si è rivelata com’era ampiamente annunciato, un completo fallimento. Nel primo anno della “sperimentazione”, il 2021 appunto, le domande accolte sono state inferiori alle attese: 3.471 su 9.443. Erano state previste 43.500. Parliamo del lavoro autonomo povero devastato dalla crisi innescata dalle misure prese per contenere la diffusione della pandemia. Avrebbe avuto bisogno, anche questa misura, di ben più ampi fondi (70,4 milioni per il 2021 a scalare fino ai 3,9 milioni per il 2024) per una platea di gran lunga più grande. Nonostante l’emergenza, un disastro politico. È questa la realtà messa sotto il tappeto dalla violenta, quanto surreale, contesa tra chi intende mantenere il “reddito di cittadinanza” perché sarebbe servito a contenere la povertà (non è vero, dato che nel 2021 è tornata al livello del 2020) e chi vuole abolirlo per regalare le risorse alle imprese che sfruttano il lavoro povero a cominciare da quello stagionale. Nella commedia degli equivoci si rimuove l’esigenza di un’estensione universale e incondizionata del Welfare, dunque anche del “reddito di cittadinanza”. E non va dimenticato lo scandalo razzista sul quale è costruito il “reddito di cittadinanza”. Lo ha denunciato Roberto Rossini dell’Alleanza contro la povertà: “I 10 anni ancora previsti per fare richiesta di accesso alla misura per gli stranieri extracomunitari sono uno scandalo”. Nessuna giustizia per loro. Nessuna giustizia per “un lavoratore su tre che ha una retribuzione lorda annua inferiore a 10 mila euro” ha ricordato la Cgil. In compenso lo Stato sociale sarà più condizionato mentre le diseguaglianze cresceranno. Un mondo alla rovescia. Da ribaltare. Povertà, i divari che crescono di Chiara Saraceno La Repubblica, 16 giugno 2022 I dati confermano che Nord e Sud del Paese sono sempre più distanti, e le donne con figli in casa sempre più penalizzate. Il 2021 è stato l’anno dell’inizio della ripresa post-pandemica, con la diminuzione dei tassi di disoccupazione e inattività, un rialzo dei consumi e, soprattutto, il mutamento di orizzonte consentito dai fondi per il Pnrr. I dati sulla sostanziale stabilità della povertà assoluta - per altro già anticipati dall’Istat a maggio in occasione del Rapporto annuale, costringono a rivedere meglio le caratteristiche di quella ripresa. Caratteristiche tanto più problematiche alla luce di quanto è successo negli ultimi mesi, con il drastico aumento dell’inflazione guidato dall’aumento dei costi dell’energia, accentuato, ma non esclusivamente causato dalla guerra russo-ucraina, con effetti non solo sul potere d’acquisto delle famiglie, ma anche sul sistema produttivo e di conseguenza sul mercato del lavoro. In primo luogo, la ripresa dell’occupazione ha riguardato in larga misura quella a tempo, spesso precaria, in un contesto di salari bassi, spesso molto bassi, aumentando il numero di lavoratori poveri perché con un basso salario neppure sempre garantito su base annuale. Ha, inoltre, riguardato più il Centro-Nord del Mezzogiorno. Ciò spiega come mai l’incidenza della povertà assoluta, che nel 2020 era aumentata più al Nord che al Sud, stante che il numero di lavoratori interessati dalle riduzioni di orario e dalla chiusure era più alto nelle prime che nelle seconde regioni, nel 2021 sia diminuita sensibilmente (oltre un punto percentuale) al Nord, anche se ancora a livelli sensibilmente superiori - 8,2% - a quelli di prima della pandemia, suggerendo indirettamente la fragilità e disomogeneità sociale dell’impatto della pandemia sulla popolazione anche nelle regioni più ricche e dinamiche. È invece aumentata di un punto percentuale (dall’11,1% al 12,1%) nel Mezzogiorno, riconfermando la strutturalità dei divari regionali. Infine, il gap tra tasso di occupazione delle donne con figli (in casa) rispetto a quelle senza figli, che si era allargato con la pandemia non sembra essersi ridotto. Di conseguenza, la povertà minorile e delle famiglie con figli minorenni, specie se più di due, non solo non è diminuita, ma è persino un po’ aumentata: per i minorenni si è passati dal 13,7% al 14,2%, un aumento che sembra inarrestabile dalla crisi 2008. Anche in questo caso, si conferma una caratteristica specifica della povertà in Italia: il suo essere un fenomeno eminentemente familiare, che riguarda soprattutto le famiglie con più figli, specie se minorenni, a causa non solo o tanto della assoluta mancanza di lavoratori in famiglia, ma della forte incidenza di famiglie mono-percettore, soprattutto se numerose, se vivono nel Mezzogiorno e se gli adulti sono a bassa qualifica. Insieme ai bassi salari e alla precarietà del lavoro, il ridotto tasso di occupazione delle madri, specie se con forte carico familiare (quindi di lavoro gratuito) a bassa qualifica e se vivono in regioni con scarsi o nulli servizi di cura e di educazione (nidi, scuola a tempo pieno) è una delle cause della povertà e delle sue caratteristiche nel nostro Paese, come Benassi, Morlicchio ed io abbiamo segnalato in un recente volume, La Povertà in Italia (il Mulino). Invece di analisi fantasiose e basate su dati impressionistici sugli effetti negativi del Reddito di cittadinanza sulla disponibilità a lavorare, un serio dibattito pubblico e la formulazione di proposte di policy dovrebbe partire da questi dati. Fa invece letteralmente cascare le braccia l’ipotesi di ridurre l’altissima aliquota marginale (80%) applicata ai beneficiari del reddito che trovino una occupazione temporanea solo se questa è nel turismo o in agricoltura, a differenza di quanto suggerito dal comitato scientifico per la valutazione del RdC che, ovviamente riguardava tutte le occupazioni. Come se il problema fosse venire incontro agli imprenditori di particolari settori, non di incentivare le persone a lavorare legalmente, in qualsiasi settore offra loro delle opportunità. Ci aspettano mesi difficilissimi, e il rischio di un ulteriore aumento della povertà appare fin troppo realistico. Evitiamo di criminalizzare i poveri e di creare nuove iniquità. I clochard? Addio nel 2030. Prima di tutto una casa come percorso di inclusione di Paolo Riva Corriere della Sera, 16 giugno 2022 Attiva anche in Italia la rete europea di “Housing First” per i senza dimora. “Inutile portare loro cibo e coperte ma lasciarli in strada: prima serve un alloggio”. Per la Federazione italiana erano 50mila nel 2015, ultimo dato Istat pre-pandemia. Gli investimenti del Pnrr e l’obiettivo da centrare: niente più homeless entro il 2030. Giuseppe viveva sotto un portico di Bologna, da anni. Gli operatori sociali lo conoscevano tutti: la sera gli offrivano del the caldo o una coperta. Quelli li accettava. Il posto in dormitorio invece no, per diffidenza o per qualche disturbo di salute mentale. Poi, un giorno, gli è stato proposto di andare ad abitare in un piccolo appartamento, tutto per lui. E, per la sorpresa degli stessi operatori, ha accettato, lasciato la strada e iniziato un percorso di inclusione sociale. Ha persino invitato alcune educatrici a cena. Giuseppe è un nome di fantasia, ma la sua storia è vera. È una delle tante esperienze di housing first che in Italia, negli ultimi anni, si stanno moltiplicando. A Bologna è dal 2012 che questa pratica innovativa viene sperimentata. “La casa non è un premio ma al contrario arriva subito”, spiega Ilaria Avoni, presidente della cooperativa Piazza grande. Con l’housing first l’inserimento abitativo è immediato, non legato a trattamenti terapeutici o inserimenti lavorativi. Alle persone senza casa che ne beneficiano può essere chiesto un contributo di affitto, compatibile col loro reddito. “Oggi - riprende Avoni - abbiamo 70 persone in housing first. Da quando abbiamo iniziato ne sono passate 133 e ne sono uscite dal progetto meno di una decina”. Il modello funziona. E non solo a Bologna. La pratica è nata negli Usa ed è ormai molto diffusa anche in Europa, in particolare in Finlandia che è riuscita a ridurre drasticamente il numero degli homeless grazie a questo schema. “Housing First è l’unico approccio basato sull’evidenza che ha dimostrato di aiutare gli utenti dei servizi a mantenere con successo i loro affitti nel 70-90 per cento dei casi”, ha dichiarato Samara Jones, coordinatrice dell’Housing First Europe Hub. Anche in Italia esiste una rete di organizzazioni per l’housing first. Tra 2017 e 2019 le persone accolte sono state 420: nove su dieci hanno mantenuto la casa e il 23 per cento ha raggiunto l’autonomia. “Housing First dovrebbe essere visto come un modello di governance che intende eliminare il fenomeno dei senza dimora, non gestirlo”, ha dichiarato Juha Leppänen, direttore generale del think tank finlandese Demos Helsinki, che sul tema ha curato un recente rapporto. Il punto è centrale ed è condiviso anche da Fiopsd, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. In Italia se ne contano circa 50mila, di homeless, ma l’ultimo dato ufficiale Istat è del 2015 e nel frattempo la pandemia ha causato un aumento della povertà assoluta, che si stima tocchi 5,6 milioni di persone. Di fronte a questo scenario, Fiopsd ha appena pubblicato un manifesto in sette punti con il quale si stabilisce l’obiettivo di “porre fine alla condizione di senza dimora entro il 2030”. Il fatto è che per riuscirci, secondo la presidente Cristina Avonto, bisogna “ribaltare la logica dell’emergenza e della bassa soglia”. “I primi dormitori - riflette - sono nati secoli fa e sono la stessa risposta che diamo ancora oggi a molti homeless. Dobbiamo trasformare in maniera profonda la struttura territoriale dei servizi, per portare via le persone dalla strada”, spiega Avonto. Il frangente attuale, con a disposizione i fondi del Pnrr, potrebbe essere a suo parere propizio. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina infatti 450 milioni di euro per assistere almeno 25mila persone senza dimora per almeno sei mesi entro il 2026. L’obiettivo va raggiunto tramite due misure. La prima sono le stazioni di posta: 250 centri da costruire in tutta Italia che, si legge nel piano, offriranno “oltre a un’accoglienza notturna limitata, servizi importanti come quelli sanitari, di ristorazione, distribuzione postale, mediazione culturale, consulenza, orientamento al lavoro, consulenza legale, distribuzione di beni”. L’altra misura è proprio l’housing first, per il quale sono previsti duecentocinquanta interventi. Ci sono però anche delle criticità. Il Pnrr non prevede grandi interventi per l’edilizia residenziale pubblica, soprattutto per la costruzione di nuovi alloggi popolari, che per molte persone senza dimora sono un’opzione abitativa fondamentale. Inoltre il piano spinge fortemente sulla dimensione territoriale della sanità e sull’integrazione sociosanitaria, ma la realizzazione degli interventi varierà molto da regione a regione e quindi bisognerà valutare caso per caso quanto i nuovi servizi saranno effettivamente accessibili anche ai senza dimora. Da un lato quindi, riprende la presidente Avonto, ci sono “provvedimenti importanti, inimmaginabili solo qualche anno fa, che indicano un effettivo e reale cambiamento di percezione nell’affrontare il tema homeless”. Dall’altro però la sanità è “una sfida” e la questione case popolari “una sconfitta pazzesca”. Certo, non tutto si esaurisce nel Pnrr. Un altro punto del manifesto di Fiopsd è dedicato ai servizi sociali. La Federazione sta lavorando con l’ordine degli assistenti sociali perché queste figure migliorino le competenze per lavorare con gli homeless. “Gli assistenti sociali - conclude Avonto - sono le porte d’ingresso ai servizi e quindi ai diritti garantiti dalla Costituzione. Perché questa non resti una dichiarazione teorica, devono essere una porta aperta, accogliente e competente”. Diminuiscono i viaggi dei migranti nel Mediterraneo. Ma aumentano i morti di Luca Attanasio Il Domani, 16 giugno 2022 I dati che emergono da “No End In Sight” la Rappresentazione grafica pubblicata lo scorso 10 giugno dall’Unhcr, parlano di un aumento dei morti tra i migranti che attraversano il Mediterraneo per provare a raggiungere l’Europa. La notizia, già di per sé allarmante, diventa inquietante se si aggiunge che ciò avviene a fronte di una netta diminuzione, dal 2015 a oggi, del numero di individui che attraversano il Mare Nostrum. In altre parole, sebbene il numero di rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere il vecchio continente sia in netto calo, le traversate stanno diventando sempre più fatali. Dopo il picco del 2015, infatti, quando più di un milione di rifugiati e migranti raggiunsero il vecchio continente (in gran parte in fuga dalla Siria) via mare, il numero delle persone che affrontano le traversate marine ha registrato una chiara decrescita, anche ben prima della pandemia. Dal milione del 2015 siamo passati a 373mila attraversamenti individuali nel 2016, 185mila nel 2017, 141.500 nel 2018, 95.800 nel 2020 e 123.300 nel 2021. Sono modelli di vera solidarietà le Ong che mettono in acqua navi che soccorrono e salvano migranti in mare aperto e si battono per l’accoglienza nei porti. Le vittime - Purtroppo, però, il numero di morti e dispersi resta sempre molto alto: nel 2021, poi, ha raggiunto la cifra di 3.231, più del numero toccato nel 2017 (3.140) quando, però, gli attraversamenti erano stati decisamente maggiori. La rappresentazione grafica dei dati si concentra in particolare sulla rotta che va dall’est e dal Corno d’Africa al Mediterraneo centrale. Il report, spiega bene le rotte che i migranti africani battono e, soprattutto, sottolinea che tutti, a prescindere da censo, sesso, paese di provenienza, età, sono costretti ad affrontare il viaggio affidandosi ai trafficanti. Non esiste un metodo legale per raggiungere l’Europa. Un dato certificato da barriere burocratiche e fisiche ormai evidenti che perpetua un sistema assurdo di regolare i flussi migratori. A tutti i morti in mare, poi, si aggiungono i dispersi, i traumatizzati per un viaggio su imbarcazioni precarie che, oltre agli enormi pericoli potenziali, crea danni irreversibili sulle menti di individui e sui loro corpi (una delle conseguenze più usuali e atroci dei viaggi sui barconi sono le ustioni che occorrono agli arti a contatto con acqua salata e carburante sul fondo della barca), si aggiungono quelli che muoiono, si disperdono, subiscono ogni sorta di abusi, prima di raggiungere le coste. Dispersi lungo il cammino - Dalle interviste raccolte da chi vi scrive dal 2014 a oggi, così come da dati di organismi specializzati, risulta che per uno arrivato vivo all’imbarco sul Mediterraneo o sull’Egeo, almeno due o tre si perdono lungo il cammino. Se è complesso tenere il triste conteggio di morti in mare - secondo calcoli per difetto sarebbero circa 35mila le persone che hanno trovato sepoltura nel Mediterraneo dal 2000 a oggi, il cimitero a cielo aperto più grande dell’epoca contemporanea - aggiornare il novero di quelli che muoiono nei deserti, nei passaggi di confini tra i più pericolosi al mondo (Mali/Algeria, Etiopia/Eritrea/Sudan, Ciad/Libia etc), nelle carceri o nei lager ciadiani, sudanesi o libici, per citarne solo alcuni, è praticamente impossibile. Flussi controllati e legali - Questa macabra danza di centinaia di migliaia di individui, quasi la metà dei quali sono bambini (molti non sono accompagnati da adulti), è uno dei più grossi e terrificanti paradossi dei nostri tempi. Da questa parte del mondo assistiamo a questa mattanza senza senso alcuno, a questo fabbrica di traumi, ferite e morti, ormai assuefatti. Bene fa l’Unhcr in un documento di maggio a indicare tutta una serie di misure atte a provvedere sbarchi sicuri, rispetto dei diritti del mare e delle relazioni internazionali, a richiamare le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare dell’Organizzazione marittima internazionale. Ma la questione da affrontare, il problema dei problemi, è a monte. Per essere credibile, l’Unione europea dovrebbe osservare per l’ultima volta il fenomeno e dire basta, non è più possibile che per chi fugge da situazioni ad alto rischio per la propria vita, l’unica alternativa per tentare un approdo nel vecchio continente siano i trafficanti. Pensare canali legali, gestire i flussi, fare accordi per una redistribuzione equa e rispettosa dei desideri dei migranti, è l’unica vera soluzione. L’accoglienza riservata a milioni di ucraini in fuga dalla guerra (nel caso dei migranti che cercano di arrivare in Europa da Africa o Asia, parliamo di poche centinaia di migliaia) attraverso un decreto che ha aperto i confini e garantito l’ingresso legale in un giorno, è lì a dimostrarci che si può fare. “Giustizia” o “pace”: si aprono crepe nell’opinione pubblica europea di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 giugno 2022 Sondaggio dell’European Council on Foreign Relations. Gli italiani sono i più scettici riguardo le responsabilità di Putin e i più preoccupati della recessione economica. Dopo i primi 100 giorni della guerra russa contro l’Ucraina, l’opinione pubblica europea è ancora unita nel sostenere la posizione politica e le scelte dell’Unione europea? Quali popolazioni sono più attente ad una risoluzione “giusta” del conflitto, e quali si dicono più “pacifiste” costi quel che costi agli ucraini e ai loro diritti? Quante persone invece preferirebbero una giusta mediazione tra il silenzio delle armi e il ripristino della legalità internazionale? Il sondaggio pubblicato ieri dall’Ecfr (European Council on Foreign Relations, un tink tank fondato nel 2007 da intellettuali, attivisti e ex membri delle istituzioni di 27 Paesi europei) dal titolo “Pace contro giustizia: l’imminente spaccatura europea sulla guerra in Ucraina”, rileva che l’unità dell’opinione pubblica europea inizia a mostrare nuove crepe, nuove fratture che dividono i Paesi e attraversano le stesse nazioni. E che - per quel che ci riguarda - l’Italia è il Paese più “pacifista”, ma anche più restio a riconoscere la responsabilità di Putin. “Oltre l’80% degli intervistati in Polonia (83%), Svezia (83%), Finlandia (90%) e Gran Bretagna (83%) considera la Russia responsabile di questa guerra”, è uno dei risultati chiave dell’indagine pan-europea svolta in nove Stati membri dell’Ue (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia) e in Gran Bretagna. Una percentuale che si riduce un po’ in Germania (66%) e in Francia (62%), ma crolla decisamente in Italia con un 56%. Inoltre, in tutti i Paesi coinvolti “la maggioranza, o una pluralità di cittadini, vede la Russia come l’ostacolo principale ad eventuali accordi di pace, con alte percentuali in Finlandia (87%), Svezia (82%), Gran Bretagna (76%), Polonia (74%) e Spagna (69%). Quest’opinione è meno diffusa in Romania (42%) e in Italia (39%), ma è comunque prevalente in entrambi i Paesi. Gli italiani - si legge ancora nel rapporto - sono i più scettici riguardo al ruolo della Russia nello scoppio della guerra: il 35% degli intervistati incolpa l’Ucraina, gli Stati Uniti o l’Ue”. Retaggio ideologico o frutto delle politiche sovraniste e anti europee che sia. Mediamente, tra gli 8.172 intervistati europei tra il 28 aprile e l’11 maggio 2022, “il 35% è a favore della pace ed il 22% della giustizia. Un altro 20% può essere considerato come un gruppo composto da “indecisi”, dove sono inclusi coloro che non sanno scegliere tra gli imperativi di pace e giustizia, ma sostengono comunque ampiamente l’azione dell’Europa in risposta alla guerra”. Il gruppo della “pace” è sostenuto, rivela il sondaggio, “principalmente dagli italiani, precisamente il 52%”, mentre “i polacchi sostengono fortemente il gruppo della giustizia, con il 41% che desidera punire la Russia ed è a favore del ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. In ogni caso, “la maggioranza degli intervistati ritiene che i governi nazionali dovrebbero interrompere le relazioni economiche, diplomatiche e culturali con Mosca”. In testa a quest’ultima particolare classifica c’è la Polonia, per ovvie ragioni di affinità e anche perché, spiega il Consiglio europeo delle relazioni estere, il governo di Varsavia ha accolto “più della metà degli ucraini in fuga”. E sulla questione dei profughi, mentre sostiene gli sforzi del proprio governo nazionale per il reinsediamento dei rifugiati ucraini il 91% dei cittadini in Finlandia, il 90% in Svezia, l’83% in Portogallo e Spagna, l’82% in Gran Bretagna e il 76% in Germania, il dato si riduce invece proprio in Polonia, con “solo” il 71% degli intervistati propenso ad accogliere i profughi ucraini, e in Italia con il 75%. Il 58% degli europei vuole poi che l’Ue riduca la sua dipendenza dal petrolio e dal gas russo, “anche a scapito degli obiettivi climatici”. Lo vogliono in particolare coloro che vivono in Finlandia (77%), Paese “che importa la maggior parte del gas dalla Russia”. In generale, sembra però che gli europei inizino ad abituarsi alla guerra e a preoccuparsi soprattutto dell’”interruzione dei commerci, l’aumento dei prezzi dell’energia e l’inflazione”. Oltre che delle armi nucleari in mano al Cremlino. Il 42% degli intervistati ha affermato infatti “che i propri governi dedicano troppo tempo alla guerra in Ucraina” invece che ad altri problemi; solo il 4% ritiene che sia troppo poco. Ma la guerra, avverte l’Ecfr, “è come le montagne russe: l’opinione pubblica può cambiare ad ogni svolta, ed è anche un motore estremamente potente”. La Gran Bretagna sospende il primo volo con migranti diretti in Ruanda di Antonello Guerrera La Repubblica, 16 giugno 2022 Decisivo l’intervento della Corte europea dei diritti umani. Londra per ora deve rinunciare alla prima espulsione di richiedenti asilo verso il Paese africano, un piano controverso che ha scatenato una marea di ricorsi e polemiche. Un colpo di scena e uno smacco inaspettati. Soprattutto per un Paese che si vanta di aver abbandonato le regole europee dopo la Brexit. Eppure, è proprio la corte Europea dei Diritti Umani, cui il Regno Unito fa ancora parte, a dare la mazzata al governo di Boris Johnson. Che così deve piegarsi e rinunciare alla prima espulsione di migranti irregolari verso il Ruanda, come il primo ministro aveva simbolicamente annunciato in Kent lo scorso aprile. Un volo che, secondo le stime dello stesso ministero dell’Interno britannico, sarebbe costato 500mila sterline, inclusa l’accoglienza degli espulsi nel Paese africano. Ora, il piano è nel caos. I ministri dell’esecutivo promettono che il programma di espulsioni verso il Ruanda riprenderà presto, ma non si sa quando. La realtà è molto più amara per il governo britannico. Perché dopo una marea di ricorsi degli espulsi e delle ong tutti respinti in patria nelle ultime ore, alla fine ha dovuto cedere a una fulminea sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che ha bloccato il primo volo di migranti irregolari dal Regno Unito verso il Ruanda. Volo per il quale c’è stato un mistero fino alla fine: inizialmente, dovevano essere diverse decine i migranti, arrivati irregolarmente nel Regno Unito, ad essere espulsi nel Paese africano. Poi sono diventati sette, per varie complicanze legali. Alla fine, invece, nessuna espulsione, almeno per il momento. Perché per la Corte Europea dei Diritti Umani, “i danni sarebbero irreversibili” per almeno un migrante imbarcato sul volo pronto per decollare ieri notte. Questa decisione ha innescato l’immediato ricorso per gli altri sei espulsi a bordo. Così, almeno per stanotte, Johnson e il governo britannico hanno dovuto rinunciare al loro nuovo, controverso progetto contro l’immigrazione irregolare per cui però, stando a un sondaggio YouGov, la maggioranza dei britannici è d’accordo, soprattutto tra i conservatori. Il piano del governo britannico ha scatenato grosse polemiche in patria, ma Boris Johnson lo ha sempre difeso, nonostante la ferma opposizione per esempio della Chiesa di Inghilterra. L’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby ieri lo ha definito “immorale” e “aberrante”, chiedendo al contrario al governo corridoi sicuri per i migranti nella Manica e i richiedenti asilo. Persino il Principe Carlo, l’erede al trono, secondo indiscrezioni dei giornali che hanno ottenuto sue conversazioni private, avrebbe definito questa politica dell’esecutivo britannico “sconvolgente”. Tra l’altro, e non solo per il piano di espulsioni in Ruanda, i rapporti tra il primogenito di Elisabetta II e il primo ministro sarebbero pessimi, apparentemente segnati da incomprensioni, offese ed insulti. Secondo la legge attuale del governo Johnson, una volta che si viene bollati come “illegali” nel Regno Unito, i migranti possono essere spediti in Ruanda, con il quale Londra ha un accordo multimiliardario (almeno 15 i miliardi pagati a Kigali sinora) e pluriennale, dove possono chiedere di rimanere e chiedere asilo/accoglienza in Africa, oppure essere rispediti nella loro patria di origine. Ma non possono tornare, in base a queste regole, mai più nel Regno Unito. Regole che però da ieri notte sono precipitate nel caos. Regno Unito. Il “no” dei vescovi ai trasferimenti forzati in Ruanda dei migranti di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 16 giugno 2022 In una lettera, i religiosi si rivolgono alla camera dei Lord e criticano i trasferimenti forzati. Intanto il primo tentativo di ricollocamento è stato bloccato da una decisione della Corte Suprema dei Diritti dell’Uomo. Il programma di trasferimento forzato dei richiedenti asilo in Ruanda “è una politica immorale e una vergogna per il Regno Unito come nazione”. Lo hanno scritto i 25 prelati che siedono nella Camera dei Lord del Parlamento britannico in una lettera inviata al quotidiano The Times. La pensa così anche la Corte Suprema dei Diritti dell’Uomo, che ha bloccato all’ultimo momento il volo diretto a Kigali, in partenza ieri, martedì 14 giugno. Ma l’accordo bilaterale tra Regno Unito e Ruanda, che prevede il pagamento di circa 120 milioni di sterline al Paese africano per l’integrazione dei migranti nelle comunità locali, rimane in piedi. “Contraddice il retaggio cristiano”. Le critiche all’accordo sono piovute da ogni parte, e anche i vescovi britannici si sono fatti sentire. Nella lettera inviata al Times, osservano come questo provvedimento contraddica “il retaggio cristiano che dovrebbe ispirarci a trattare i richiedenti asilo con compassione, equità e giustizia”. Invece i rifugiati “non si sono visti riconosciute le loro richieste di tutela”, nonostante molti di loro siano “iraniani, eritrei e sudanesi”, ovvero persone provenienti da Paesi che hanno una percentuale di asilo politico riconosciuto “di oltre l’88 per cento”. Firmatario del testo anche l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, massima autorità della Chiesa anglicana. Percorsi sicuri. Secondo i religiosi, la soluzione per combattere il traffico illegale di migranti non è una misura come quella voluta dal governo di Londra, quanto “creare percorsi sicuri”. Nella lettera il Ruanda viene definito “un coraggioso Paese che si sta ancora riprendendo da un disastroso genocidio”. Russia. Ricompare Navalny: “Sono in un carcere duro, qui torturano” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 16 giugno 2022 L’oppositore è stato trasferito nella famigerata prigione Ik-6 Melechkovo, a circa 250 chilometri a Est da Mosca. “Priviet”. Stavolta l’iconico saluto di Aleksey Navalny arriva “dal severo regime carcerario”: la famigerata prigione Ik-6 Melechkovo, nei pressi di Vladimir, a circa 250 chilometri a Est da Mosca. “Una delle più spaventose della Russia”, secondo la portavoce dell’oppositore, Kira Jarmish: “I detenuti lì vengono torturati e uccisi”. È stato lo stesso oppositore russo a confermare con un post su Instagram di essere stato trasferito dopo che è entrata in vigore la sentenza pronunciata lo scorso marzo in uno dei numerosi casi giudiziari che lo vede coinvolto. Martedì collaboratori e legali avevano lanciato l’allarme. Di Navalny nessuna notizia. All’avvocato che era andato a trovarlo nella colonia di Pokrov, a 100 chilometri da Mosca, dove era precedentemente recluso, era stato detto che lì “non c’era più nessun detenuto con quel nome”. Per ora Navalny sdrammatizza: “Il mio viaggio nello spazio continua. Sono stato spostato da una nave all’altra. Sono in quarantena, non c’è molto da dire”. Racconta di essere riuscito a portare con sé decine di libri. E che, tra la lista di professioni in cui può abilitarsi durante la prigionia, può scegliere di diventare, in tre mesi, un sarto o un “macellaio di carcasse di uccelli”. Rassicurazioni che non sono bastate agli Stati Uniti che ieri sono tornati a chiedere la liberazione “immediata e senza condizioni” dell’attivista anti-corruzione, arrestato nel gennaio 2021 dopo essere sopravvissuto a un avvelenamento da agente nervino e condannato a nove anni da scontare in un carcere di massima sicurezza. Nel Rojava, dove i curdi temono l’assalto della Turchia di Erdogan di Daniele Raineri La Repubblica, 16 giugno 2022 Il reportage: i droni Bayraktar che in Ucraina aiutano a combattere i russi, nel Nord della Siria sono l’arma utilizzata dagli invasori per spingere la resistenza ad abbandonare le terre lungo il confine. Il timore dei curdi è di essere abbandonati come gli afghani a Kabul. “Fino alla chiesa distrutta non ci possiamo arrivare - dice l’ufficiale delle forze di sicurezza curde - perché i droni ci seguono dall’alto e osservano tutte le macchine. Ormai non ci sono quasi più civili in questa zona, quindi fanno attenzione anche ai singoli veicoli. I droni seguiranno la nostra macchina, vedranno dove andiamo e così scopriranno dove sono i nostri soldati. Finisce male. O ci bombardano adesso oppure ci bombardano dopo assieme ai soldati”. L’ufficiale è uno smilzo in borghese, parla dal sedile posteriore di un Suv civile mentre il guidatore sbircia dal finestrino se ci sono droni in cielo. Siamo parcheggiati in una piazzola nel Rojava, la regione autonoma dei curdi nel nord della Siria. Il presidente turco Erdogan ha annunciato due volte, prima il 23 maggio e poi il primo giugno, che ordinerà un’operazione militare per occupare un altro pezzo di territorio curdo - dopo che già nel 2019 i soldati turchi si erano presi con la forza una trentina di chilometri di terreno - e tutti si aspettano che l’invasione riprenda da un momento all’altro. Nel Rojava, come già nel Donbass ucraino semi dimenticato per otto anni, la guerra a bassa intensità tra curdi e turchi sta accelerando. La chiesa da vedere è quella di Tal Tawil, un paesino a cinque chilometri di distanza, ed è stata bombardata una settimana fa. Un colpo ha centrato una parete in fondo e ha fatto volare calcinacci per tutta la navata fino ai piedi dell’altare, per ora la zona è inaccessibile. Troppa sorveglianza turca, troppi bombardamenti con i droni, si rischia di compromettere la posizione dei soldati curdi. I droni che il curdo menziona con timore reverenziale sono i Bayraktar, il best seller dell’industria bellica della Turchia, di recente celebrati sui social e con canzoncine pop perché nella guerra in Ucraina danno un contributo fondamentale contro l’invasione russa. Qui nel nord della Siria però i Bayraktar non fanno venire in mente storie di resistenza gloriosa. Sono l’arma dell’invasore turco e sorvolano tutti i giorni un territorio che sembra fatto apposta per facilitare le operazioni di caccia dall’alto: una pianura di stoppie e senza ripari, dove è possibile inquadrare un bersaglio da distante. Siccome non si può proseguire verso Tal Tawil e non si può stare fermi nello stesso posto, come a questo punto si sarà già capito, l’ufficiale dice al guidatore di infilarsi nelle vie di Umm el Keif, che in tempi normali è un paese di campagna abitato da cinquemila arabi ma adesso è un luogo deserto. Tra le case e nei campi non c’è nessuno. All’ingresso c’è una base dell’esercito siriano del presidente Bashar el Assad - i militari assadisti possono stare qui nel nord della Siria grazie a un accordo con i curdi e non fanno nulla. Due giorni fa davanti alla base sono arrivati alcuni colpi di artiglieria turca, “ma loro non hanno risposto, non possono muovere un dito”, dice l’ufficiale. “Ecco, là c’è il mio paese, al Kasimiye, adesso è occupato dai gruppi di ribelli siriani che stanno con i turchi. È da lì che sparano”. Indica un gruppetto di case nella piana a due chilometri. Non c’è nessun fronte a dividere la zona turca da quella curda. Per convenzione, la linea di separazione è l’autostrada M4 che procede da est a ovest, parallela al confine con la Turchia, “per 160 km in quella direzione”, punta il dito verso ovest. È deserta. In fondo ci sono Tal Rifat e Manbij, le due città che Erdogan ha annunciato di voler prendere in questo round di conflitto. Poi ce ne saranno altri. Un soldato delle forze di polizia curde Asaysh a piedi viene incontro al Suv, dietro di lui c’è una casa con il tetto sfondato e due muri crollati. Un drone, due giorni fa. A cinquanta metri: altre macerie, stessa cosa ma quattro giorni fa. Erdogan vuole conquistare altro terreno nel Rojava per riversarci dentro i milioni di sfollati siriani che da anni sono fermi in Turchia. Deve fare in fretta perché gli elettori detestano gli sfollati e fra un anno esatto ci sono le elezioni presidenziali. Sarebbe un’operazione di ingegneria etnica: mettere milioni di arabi siriani al posto dei curdi e cacciare i curdi più a sud. In teoria con un colpo solo Erdogan si libererebbe degli sfollati e cancellerebbe il Kurdistan siriano. Per un allineamento degli astri, in questo momento il presidente turco può mettere il veto all’ingresso della Finlandia e della Svezia nella Nato e quindi in queste settimane quando parla con Washington e con Mosca riceve il massimo dell’attenzione. Prima o poi russi e americani, che sono in quest’area con piccoli contingenti militari, se ne andranno e la Turchia vorrà estendere la propria influenza sul nord e sull’est della Siria. I curdi temono che Erdogan abbia fatto un accordo sottobanco con la Russia: bloccare le nuove adesioni alla Nato in cambio del via libera alla guerra nel Rojava. Ieri i russi hanno smentito con tono sdegnato. L’ufficiale curdo strizza l’occhio: “Avevano anche detto che erano soltanto esercitazioni, quelle al confine ucraino”. Un colpo di cannone ha fatto saltare una conduttura dell’acqua, che ora singhiozza in mezzo al paese. C’è movimento in una via, passano quattro lavoratori con gli stivali, “sono qui per scavare pozzi per l’acqua” dice il soldato curdo. È un’espressione in codice. Lo sanno tutti, si occupano di scavare tunnel difensivi in vista dell’invasione turca, unica salvezza contro i caccia e i droni. Si vedono scavi dappertutto e cumuli di terra fresca. Nelle città di Qamishli e di Hasake i tunnel hanno creato una seconda rete viaria che scorre sotto la pavimentazione delle strade. L’idea è quella di rendere molto costosa e difficile un’avanzata turca, sul modello della resistenza ucraina contro la Russia. C’è un tono di disperazione in più: il timore è che se l’invasione turca comincia, i governi occidentali e l’Amministrazione Biden tratteranno il Rojava più come Kabul, lasciata nelle mani dei talebani, che come Kiev, aiutata in ogni modo. Afghanistan. Dopo quasi un anno i corridoi umanitari devono ancora partire di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2022 La promessa dell’Italia di non abbandonare gli afghani in fuga dal regime talebano ad oggi non è stata mantenuta. I 1.200 che dovevano partire con i corridoi umanitari attivati in Iran e Pakistan ancora aspettano. Negli altri Paesi confinanti, dove non ci sono uffici dell’Unhcr ai quali rivolgersi, chi chiede aiuto all’Italia si vede sbattere la porta in faccia. L’Arci: “Col passare dei mesi i riflettori sulla crisi si sono spenti e da parte dei nostri governanti non c’è stato più interesse a riaccenderli”. “Non abbandoneremo gli afghani”, aveva detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio il 15 agosto 2021, mentre Kabul cadeva e i talebani riprendevano il controllo dell’Afghanistan. A un anno di distanza nemmeno uno degli appena 1200 afghani inseriti nei corridoi umanitari attivati in Iran e Pakistan è arrivato in Italia, e nonostante le associazioni coinvolte si siano fatte carico di ogni spesa, volo compreso. “Alle sedi diplomatiche mancava la strumentazione per rilevare le impronte, che dovrebbe essere partita oggi”, spiega Valentina Itri, responsabile immigrazione di Arci, una delle realtà che lo scorso 4 novembre ha firmato il protocollo sui corridoi per i 1200 sfollati in Iran e Pakistan. Che nell’attesa rischiano di essere espulsi e di morire per mano del regime talebano. Ma l’insostenibile lentezza delle procedure non è l’unica responsabilità dell’Italia. Il ministero degli Esteri ha infatti deciso di opporsi al rilascio di visti umanitari a cittadini afghani fuggiti in paesi dove i corridoi non esistono, né è presente un ufficio delle Nazioni Unite al quale rivolgersi. E il Tribunale di Roma per ora gli ha dato ragione. Quando il 14 agosto scorso la città di Mazar-i-Sharif, nel nord dell’Afghanistan, è stata occupata dai talebani, come molti altri concittadini anche una coppia di medici ha attraversato il confine più vicino, quello con l’Uzbekistan che inizialmente aveva mostrato una certa apertura. Troppo rischioso restare per due persone impegnate politicamente, lei in attività di sostegno all’emancipazione delle donne, lui anche come giornalista. Ma la loro permanenza nel vicino Uzbekistan è legata a un visto di breve durata, che una volta scaduto li avrebbe esposti al rischio di espulsione e alla consegna nelle mani dei talebani. Nel Paese non ci sono corridoi umanitari per i quali fare domanda, né un ufficio dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati che ha più volte sollecitato la necessità di protezione internazionale per le migliaia di afghani in territorio uzbeko. Così marito e moglie tentano la strada del visto umanitario e con l’assistenza di un avvocato italiano fanno richiesta al nostro ministero degli Esteri. La risposta? Non c’è. Niente, nemmeno un no. La palla passa allora al tribunale di Roma, che però nega la possibilità citando una recente ordinanza dello stesso foro. Si tratta di una decisione collegiale del 28 febbraio 2022 che accoglie il reclamo del ministero degli Esteri contro una precedente sentenza che a dicembre aveva imposto il rilascio di visti umanitari ad altri due cittadini afghani, allora in Pakistan. Il caso era quello di due ventenni, fratello e sorella, entrambi giornalisti e attivisti e per questo ad alto rischio in caso di espulsione verso l’Afghanistan. Anche loro hanno fatto domanda di visto umanitario all’Italia e anche loro non hanno ricevuto risposta dalla Farnesina. Considerata la loro condizione e tutte le prove allegate dalla loro legale, l’avvocato Nazarena Zorzella, il tribunale di Roma decide per l’immediato rilascio dei visti. Ma lo stesso ministero si oppone e un mese dopo il tribunale fa marcia indietro. “La loro fortuna è che nel frattempo i visti erano arrivati, appena dieci giorni prima che fosse accolto il reclamo del ministero”, spiega la legale. La buona notizia: i due giovani sono arrivati in Italia. Quella cattiva è che intanto il ricorso vinto dal ministero ha fatto da precedente: le successive domande di visto umanitario continuano a infrangersi su quella decisione. Compresa la richiesta della coppia di medici bloccati in Uzbekistan, che nel frattempo ha schierato le sue truppe e dichiarato chiuso il confine afghano, salvo per l’espulsione degli irregolari. “Il loro visto turistico è scaduto, non hanno risorse, vivono nascosti. Noi siamo la loro unica speranza”, spiega l’avvocato Dario Belluccio, che li rappresenta. Ma cosa sono i visti umanitari e perché l’Italia li nega a cittadini afghani in pericolo? Il diritto d’asilo, tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, non prevede un sistema perché chi necessita di protezione internazionale possa raggiungere legalmente le nostre frontiere. Una possibilità potrebbe essere quella prevista dal Regolamento europeo noto come Codice dei visti, che all’art. 25 consente a uno Stato membro di rilasciare a un cittadino di Paese terzo un visto per motivi umanitari detto “di validità territoriale limitata”. L’applicazione dell’art. 25 non è però un obbligo, ma una facoltà dei singoli Stati, e così è intesa anche della Corte di giustizia europea che pur pronunciandosi in merito ha lasciato irrisolta la questione del rischio di violazione di diritti fondamentali Ue, che riconoscono il divieto di tortura, di subire trattamenti inumani o degradanti e lo stesso diritto d’asilo. Anche in virtù del pronunciamento della Corte, il ministero degli Esteri ha opposto reclamo contro i visti accordati ai due ventenni assistiti dall’avvocato Zorzella. Il tribunale di Roma, smentendo un giudice dello stesso foro, gli ha dato ragione, stabilendo che la normativa Ue non impone obblighi su una materia che resta esclusiva competenza dello Stato. E i corridoi umanitari, allora? Visto che l’Europa si limita a prevedere la possibilità senza disciplinarla, di fronte all’emergenza umanitaria a settembre l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha chiesto al ministero di Di Maio indicazioni sul rilascio di visti d’ingresso per cittadine e cittadini afghani. A rispondere con una nota è il direttore generale del ministero, Luigi Maria Vignali, che scrive: “L’Italia fa ricorso a tale tipo di visto esclusivamente nell’ambito degli strutturati programmi di apertura di canali legali che, oltre ai corridoi umanitari, includono il programma nazionale reinsediamenti e le evacuazioni umanitarie gestite dal ministero dell’Interno”. E limita le richieste alle rappresentanze diplomatiche e consolari ai visti per ricongiungimento familiare, reingresso, studio e invito. Sui corridoi umanitari, le considerazioni da fare sono parecchie. Intanto l’Italia ha attivato un protocollo firmato da Arci, Caritas italiana, Comunità di Sant’Egidio, Fcei/Tavola valdese per l’ingresso di 1200 persone, per lo più donne e bambini, ma limitatamente ai Paesi di Iran e Pakistan. Ma il corridoio umanitario, a otto mesi dalla firma del protocollo non ha ancora visto decollare un solo aereo. Per le complicate procedure di sicurezza affidate alle sedi diplomatiche, ha spiegato la Farnesina. Salvo poi accorgersi che in quelle sedi mancano anche le attrezzature per rilevare le impronte digitali che devono poi essere inviate in Italia per l’ok del ministero degli Interni. “Domani abbiamo una riunione operativa con i ministeri e sapremo se riusciremo a far partire i primi voli a luglio”, spiega Valentina Itri di Arci, che ricorda come “l’80 per cento delle persone in attesa sono donne attiviste, omosessuali, giornaliste, che rischiano quotidianamente di essere rimandate in Afghanistan e così la maggior parte vive nascosta, e molte di loro hanno già subito forme di violenza nei paesi ospitanti”. E aggiunge: “Col passare dei mesi i riflettori sulla crisi afghana si sono spenti e da parte dei nostri governanti non c’è stato più interesse a riaccenderli. E paesi come Iran e Pakistan sono più abituati a rimpatriare gli afghani che a pensare a corridoi umanitari, per i quali il ruolo preponderante è stato delle associazioni firmatarie del protocollo, e non tanto delle nostre istituzioni”. Tornando ai visti che il ministero nega perché esterni ai corridoi, Itri è categorica: “È una strumentalizzazione dei corridoi umanitari”. Concorde anche Chiara Favilli, docente di Diritto dell’Unione all’Università di Firenze: “Quello che fa il governo è un’operazione inaccettabile, perché affermare che in Italia esiste lo strumento d’ammissione perché attiviamo i corridoi umanitari è una mistificazione della realtà, perché i numeri sono esigui, perché non sono attuabili in molti paesi e perché c’è una selezione dei soggetti a monte”. E spiega che a differenza di altri Stati membri l’Italia non si è mai preoccupata di disciplinare la questione da un punto di vista giuridico. E non è tutto. Secondo quanto riferiscono alcune delle realtà firmatarie del protocollo, nei corridoi di visti umanitari se ne vedono ben pochi. “Il ministero preferisce rilasciare visti turistici”, spiegano. Non esiste una legge a regolare la materia e nemmeno il tribunale di Roma si preoccupa di indicare una norma dirimente. “Non ci può essere arbitrarietà nella scelta di un’autorità amministrativa come il ministero, i criteri per accedere a un visto umanitario devono essere stabiliti da una legge con la quale cittadini e giudici possano confrontarsi, altrimenti decade anche la possibilità dell’autorità giudiziaria di controllare quella amministrativa”, ragiona l’avvocato Belluccio, che per la coppia di medici afghani continua a battersi e ha presentato un ulteriore ricorso al tribunale di Roma perché imponga al ministero degli Esteri di rilasciare i visti. “Negando di fatto la possibilità di richiedere visti individuali, la politica sancisce che l’unico modo di arrivare in Italia per chiedere la protezione è quello di viaggiare per migliaia di chilometri e a volte per anni in modo irregolare, superando pericoli e violenze, in mano alla criminalità, senza alcuna certezza di arrivare. Ma se a questo si riduce, allora il diritto d’asilo garantito dall’Unione europea è solo il diritto dei sopravvissuti”.