L’epidemia dei suicidi nelle carceri italiane, ha un vaccino? di Luca Cereda vita.it, 15 giugno 2022 Dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita in carcere già quasi 30 persone. Secondo l’avvocata Antonella Calcaterra “Il problema principale è il funzionamento del sistema carcere che ha lunghe liste di attesa per i detenuti con disturbi mentali prima di ricevere le cure specialistiche”. Nelle ultime settimane due giovani uomini, entrambi detenuti nel carcere milanese di San Vittore, si sono tolti la vita: si tratta di Abou El Mati, italiano di origine egiziana, aveva 24 anni. E Giacomo Trimarco, che di anni ne aveva 21, e in carcere non doveva nemmeno starci. Già 15 giorni prima aveva tentato il suicidio e da otto mesi era stato destinato a una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dal 2014 hanno progressivamente sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Il problema è che le Rems sono poche (sol 36) e i posti disponibili sono meno di quelli di cui ci sarebbe bisogno. “Non essendoci posto, come nel caso di Trimarco, queste persone vengono portate dove non dovrebbero: in carcere”, spiega l’avvocata Antonella Calcaterra, peraltro difensore di una delle due vittime. Il quadro della situazione - “Il fenomeno dei suicidi in carcere è una delle grandi “malattie” del sistema carcerario italiano - aggiunge avvocata Calcaterra -. Dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita in carcere già quasi 30 persone. I suicidi in cella sono stati almeno 54 nel corso del 2021, più di 60 nel 2020. Si tratta solo dei suicidi accertati: ma per molte morti in carcere la causa è difficile da attribuire con precisione. Sono numeri inaccettabili in uno Stato di diritto”. Sono giorni che in molti, anche colleghi avvocati e magistrati, che le chiedono cosa stia succedendo a San Vittore con due giovanissimi che si sono tolti la vita in meno di una settimana: “Rispondo così. La presenza di persone con forme di sofferenza mentale, spesso con doppia diagnosi, nell’Istituto milanese ha raggiunto livelli molto preoccupanti e la condizione detentiva non fa che acuire il problema. Le Rems hanno lunghe liste di attesa e l’intervento psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente. I servizi territoriali per la salute mentale non riescono a garantire un intervento adeguato e la continuità terapeutica. Resta la positiva esperienza dei centri diurni attivi all’interno degli istituti penitenziari milanesi, ma senza una forte ed effettiva collaborazione con i servizi pubblici per la salute mentale e senza un potenziamento degli interventi della sanità all’interno degli istituti, con una più adeguata presenza di psicologi e psichiatri, sarà impossibile evitare tragedie come queste”. Trimarco aveva una diagnosi di “disturbo borderline di personalità a basso funzionamento”, incompatibile con il carcere. Era stato arrestato nell’agosto del 2021 per il furto di un cellulare. La disposizione di trasferirlo in una Rems era stata inoltrata a ottobre 2021: eppure ancora il 31 maggio 2022, giorno del suicidio, non era stata trovata una collocazione disponibile. “Se i servizi di salute mentale facessero il loro dovere, questi ragazzi al carcere non arriverebbero neanche”, hanno detto i genitori di Trimarco al Corriere della Sera. “Non sono criminali. Per le loro condizioni psichiche non sarebbero neanche in grado di progettare reati”. Secondo dati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in tutta Italia i detenuti in attesa di entrare in una Rems sono 750. Il tempo medio di attesa è di quasi un anno, 304 giorni. Ma ci sono regioni come Puglia, Campania, Calabria, Lazio e Sicilia dove arriva a 458 giorni. A gennaio la Corte costituzionale ha scritto in un documento che è necessario “il potenziamento e la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente”, “in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività”. Servirebbe, insomma, una nuova e apposita legge. Suicidi, tentati suicidi e autolesionismo - Quello di suicidi, dei tentati suicidi e dell’autolesionismo è un altro grave problema nello stato di salute - non ottimale, anzi - del sistema penitenziario italiano, secondo il rapporto dell’associazione Antigone sulla situazione del 2021. Ogni anno in carcere si tolgono la vita 60 nel 2020, 57 nel 2021 con un rapporto pari a 10,6 suicidi ogni diecimila detenuti. Fuori dal carcere i suicidi sono 0,6 ogni diecimila cittadini. Secondo Antigone, dal Dap dicono che i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo sono molti molti di più: 11.315 episodi di autolesionismo nel 202: 20 ogni cento detenuti. In alcune situazioni si è arrivati quasi al cento per cento di casi di autolesionismo. Questo è - in parte - dovuto anche al fatto che il 40 per cento degli istituti di pena è stato costruito prima del 1950, un quarto prima del 1900. E quelli più moderni (anni 70-80) corrispondono a un’idea della pena molto arretrata: parallelepipedi di cemento e acciaio buttati in campagne desolate nelle immediate periferie delle città: lontani dagli occhi e dal contesto sociale. Il contrario di quello che sarebbe necessario. E dentro, non sono molto meglio: nel 5 per cento degli istituti ci sono ancora i water nelle celle a vista. Il regolamento del 2000 ne prevedeva la fine entro il 2005. Ma sono ancora lì rendendo le carceri e le celle invivibili. Gli spazi della pena, per restituire dignità a quanti vi abitano di Saverio Migliori Il Manifesto, 15 giugno 2022 “Oggi, in Italia, le carceri si chiamano casa. L’idea di questo appellativo sorse durante i lavori preparatori che sfociarono nella Riforma del 1975. Si trattava dell’ennesima riforma carceraria che i politici del tempo volevano far apparire come un impegno di rinnovamento più marcato di tutte le riforme precedenti”. È così che Giuseppe Di Gennaro, già magistrato e tra i dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, scriveva in un articolo dal titolo: La casa dei detenuti, apparso sulla Rivista della Fondazione Giovanni Michelucci: “La Nuova Città” nel dicembre 1998 (VII Serie, n. 2/3). “Ma la gente, il popolo - proseguiva Di Gennaro - non sembra si faccia convincere da questa cosmesi verbale e con brutale sincerità conia espressioni che non velano la sostanza”, continuando ad appellare il carcere come gabbio, serraglio, galera. Quell’articolo seguiva un interessante convegno organizzato a Fiesole, il 22 novembre 1997, dalla medesima Fondazione, dalla Regione Toscana e dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dal titolo: Architettura e carcere: gli spazi della pena e la città. A molti anni di distanza, il tema dell’architettura penitenziaria appare ancora di estrema attualità, sia per l’effettivo stato in cui versano molte strutture, sia per i disagi aperti dall’emergenza pandemica, sia per le risorse previste dal PNRR per l’edilizia carceraria e indirizzate, nel periodo 2022-2026, alla costruzione o al miglioramento di padiglioni e spazi presso gli istituti detentivi per adulti e minori. Questo orientamento ripropone il consueto, annoso, dibattito circa l’opportunità di edificare nuovi spazi entro carceri esistenti, con il rischio di aggravarne vivibilità e gestione complessive, e la prospettiva di costruire nuovi edifici. Il tema dell’edilizia penitenziaria è delicato, complesso, e si agita assieme agli allarmi sociali, sovente sollecitati e declinati dalla ricerca di un consenso politico, quasi mai colto quale elemento centrale di una discussione volta a dare concreta attuazione a quel che resta, per l’appunto, della Riforma penitenziaria. Gli spazi ed il tempo della pena danno forma alla quotidianità delle persone, al loro benessere, al trattamento generale, così come al trattamento rieducativo e alla possibilità di aspirare ad un autentico reinserimento sociale. Gli ultimi anni, caratterizzati dalle Sentenze della CEDU, dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale e dalle mancate riforme, dalle nuove spinte al sovraffollamento e da una problematica gestione delle carceri che ha visto il succedersi di gravissimi episodi di violenza e di morte negli istituti penitenziari, rendono urgente una nuova ed incisiva riflessione sull’architettura carceraria, volta a restituire piena dignità a quanti abitano i luoghi della pena. L’idea di ieri di individuare gli istituti di pena come Case circondariali o di reclusione, deve oggi interrogare su quanto dette strutture continuino ad essere distanti dal rappresentare autentici luoghi di vita, dignitosi e non esposti ad alcuna declinazione afflittiva. Il Convegno nazionale promosso dalla Fondazione Michelucci, in collaborazione con Sapienza Università di Roma, intitolato: Abitare il carcere - Gli spazi della pena nella società digitale, in programma il 16 giugno 2022 a Roma, intende quindi promuovere una riflessione sul rapporto tra la fissità del carcere e il dinamismo della società contemporanea. Il Convegno vuole sviluppare un’analisi critica sull’architettura e sull’edilizia penitenziaria, a partire dagli esiti e dalle effettive ricadute dei Piani carceri, dalle proposte mosse dagli Stati generali, nonché dai recenti lavori delle Commissioni per l’Architettura penitenziaria e per l’Innovazione del sistema penitenziario. Cara Report, criticare il 41bis non è reato di Davide Varì Il Dubbio, 15 giugno 2022 Ora anche la riforma Cartabia e il giornalista Alessandro Barbano finiscono nel mirino della trasmissione. Che è riuscita a trasformare anche la ministra in una radicale antitoghe. Dopo averci spiegato le ragioni dei carnefici di Mosca - con tanto di ringraziamento da parte dell’ambasciata russa in Italia - e dopo aver fatto strame di diritti e garanzie, lunedì sera Report ha provato ad affossare la riforma della giustizia Cartabia perché - udite, udite - “mina per sempre la separazione dei poteri”. E per svelare il disegno occulto che si nasconderebbe dietro la riforma Cartabia, Report ha deciso di partire da una sua vecchia e mai sopita passione: Matteo Renzi (sic!). Anzi, dall’intervento che Alessandro Barbano - intellettuale, giornalista e straordinario commentatore del nostro giornale - fece alla Leopolda e nel quale osò criticare sia l’abuso del 41bis (critica condivisa con i giudici della Cedu) sia la gestione dei beni confiscati alla mafia. Ora, che la confisca dei beni della mafia sia un pozzo nero nel quale si celano arbitrio e opacità, è un fatto riconosciuto anche dalle prime file dell’antimafia da parata; così come è facilmente dimostrabile che le confische, gli scioglimenti dei comuni e le interdittive antimafia non solo abbiano avuto scarsi effetti sulla lotta al potere mafioso, ma nella gran parte dei casi hanno ridotto in poltiglia un’economia, quella meridionale, che di tutto aveva bisogno fuorché di un intervento di questo tipo. Non è certo un mistero, infatti, che le interdittive antimafia stiano massacrando l’economia di Calabria, Campania, Sicilia e Puglia. Interdittive che non nascono da processi ma da semplici segnalazioni di presunte infiltrazioni mafiose per una parentela “sbagliata” o per un caffè consumato con persone “discutibili”. Insomma, voci, chiacchiericci e spifferi che vengono ingigantiti da informative mai passate al vaglio di un giudice, ma che pure finiscono sulla scrivania dei prefetti che con una semplice firma, e sulla base di un semplice sospetto, hanno il potere di azzerare un’azienda e con essa migliaia di posti di lavoro. Ma come nel più classico dei pamphlet populisti, dire queste cose, secondo Report, significa sostenere la mafia. E a puntellare il teorema, a metà puntata, è arrivata l’immancabile carrellata di Pm: da Nino di Matteo a Nicola Gratteri, i quali non hanno grandi successi investigativi alle spalle, ma di certo una “buona stampa”, quella sì. Ma come dicevamo il vero obiettivo di Report era la riforma Cartabia perché, come ha spiegato sicuro Ranucci - mette in discussione, anzi mina, la separazione tra potere giudiziario ed esecutivo. Il motivo? Il fatto che il parlamento indichi quali siano i reati da perseguire, e un non meglio specificato ruolo di coordinamento che dovrebbe assumere il ministero della giustizia. Una cosa che non dovrebbe preoccupare poi molto, visto che le poltrone che contano di via Arenula sono occupate da magistrati fuori ruolo. Ma è nel gran finale di puntata che il tono di Ranucci si fa grave e serio: “Da questa sera chi voterà la riforma Cartabia - ha dichiarato - non potrà dire io non sapevo”: Applausi! Insomma, ci voleva Report per trasformare Cartabia in una radicale antitoghe. “Minori che sbagliano, cambiare rotta” di Luciano Moia Avvenire, 15 giugno 2022 La Garante dell’infanzia Carla Garlatti: più spazio alla giustizia riparativa e all’educazione. Nella Relazione annuale al Parlamento le cinque emergenze da fronteggiare. Crisi internazionali, povertà, preoccupazioni per la salute mentale, allarme per la devianza e la micro criminalità giovanile, abuso di Internet e cattivo utilizzo degli ambienti digitali. Sono le cinque emergenze indicate dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, nella Relazione annuale al Parlamento. Un documento che è anche un appello alle istituzioni e agli adulti in generale perché ci sia un impegno più concreto per dare speranza e futuro ai minorenni, coinvolgendoli direttamente nelle scelte che li riguardano. Le crisi internazionali. Pandemia e guerra stanno facendo sentire i loro effetti devastanti anche sulla situazione dei minori stranieri non accompagnati. Sono più che raddoppiati. Erano 6.054 al 31 dicembre 2019, mentre alla fine dello scorso aprile ne sono stati censiti oltre 14mila. È cambiato anche il Paese di provenienza. Ora, come già sottolineato, è l’Ucraina a guidare la graduatoria, con circa 5mila minorenni, per la metà tra i 7 e i 14 anni. Ecco perché il nostro sistema di accoglienza dev’essere rafforzato. “Serviranno più tutori volontari - ha spiegato la garante - formati dai garanti regionali e nominati dai tribunali per i minorenni, si prendono carico di accompagnare i minori soli nel percorso di crescita e di inclusione nella nostra società”. Le povertà. Secondo le stime pubblicate da Istat a marzo, il totale dei minorenni in povertà assoluta nel 2021 è pari a 1 milione e 384mi1a: l’incidenza si conferma elevata (14,2%), stabile rispetto al 2020 ma maggiore di quasi tre punti percentuali rispetto al 2019 (11,4%). “La presenza di figli minori - ha sottolineato Carla Garlatti - continua a rappresentare un fattore che espone maggiormente le famiglie al disagio: l’incidenza di povertà assoluta si mantiene alta (11,5%) proprio in quelle che hanno almeno un figlio di minore età. Nel caso di coppie con tre o più figli sale al 20%”. Da qui l’auspicio della garante per dare seguito alle misure di sostegno al reddito previste dal Family Act e all’attuazione al Piano infanzia e alla Child guarantee. La salute mentale. Gli effetti della pandemia hanno generato nei minorenni una condizione generalizzata di crisi che si è manifestata con segnali di malessere e disagio. Carla Garlatti ha fatto riferimento alla ricerca condotta dalla stessa Autorità, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e il Ministero dell’istruzione, da cui è emerso un peggioramento delle condizioni di benessere dei bambini e dei ragazzi. “Tra le raccomandazioni per fronteggiare questa emergenza - ha ricordato - la necessità che le azioni di programmazione, prevenzione e cura superino la frammentarietà regionale e locale. Vanno poi previste adeguate risorse per i servizi, fornite risposte specifiche in base all’età, garantito un numero di posti letto in reparti dedicati ai minorenni e istituiti servizi di psicologia scolastica”. La ricerca è durata un anno e proseguirà per altri due, coinvolgendo fino a 35.000 minorenni dai 6 ai 18 anni. Devianza minorile. Fenomeno a macchia di leopardo. In alcune zone con carattere episodico e allarme sociale talora sovradimensionato, in altre invece si manifestano casi che richiedono una particolare attenzione. Carla Garlatti ha ricordato i casi di Milano, Brescia, Roma, Bologna, Catania, Firenze, Palermo, mettendone in evidenza le varie specificità. Come rispondere a queste situazioni? Per esempio con giustizia riparativa, “che consente agli autori di reato di comprendere la sofferenza della vittima a partire dal suo vissuto, acquisendo consapevolezza di aver agito non contro qualcosa (la legge) ma contro qualcuno. E quindi può essere uno strumento per contenere i casi di recidiva”. Non a caso la giustizia riparativa rappresenta uno degli aspetti più significativi della riforma Cartabia. E la garante ha formulato una serie di proposte al Tavolo di lavoro che sta preparando gli schemi di decreto legislativo. Tra l’altro la possibilità per il minorenne di decidere autonomamente, anche senza il consenso dei genitori, se partecipare o meno a un percorso di giustizia riparativa. E poi un maggiore coinvolgimento delle famiglie e l’estensione dell’accesso anche agli autori di reato con meno di 14 anni. Attenzione a Internet. Dalla pandemia in poi il mondo è cambiato. Il grande utilizzo di web, social e dintorni comporta anche dei rischi per i diritti dei minori. Secondo la garante c’è l’urgenza di evitare che bambini troppo piccoli utilizzino servizi online e social non adatti per la loro età con la definizione di un meccanismo di age verification sul modello dello Spid. Con riferimento alla condivisione delle immagini dei figli da parte dei genitori (il cosiddetto sharenting), ha poi proposto di riconoscere ai ragazzi oltre i 14 anni la possibilità di chiedere in autonomia la rimozione delle foto. Tra gli altri suggerimenti l’applicazione delle norme in tema di lavoro minorile per contenere il fenomeno dei baby influencer. “Fondamentale, infine - ha sottolineato la garante - la realizzazione di campagne di sensibilizzazione che, per essere efficaci, dovranno essere portate avanti con la partecipazione dei minorenni”. Per promuovere l’educazione a un uso corretto e sicuro di internet e dei social, l’Autorità garante ha promosso, tra l’altro, un progetto di educazione digitale per le ultime tre classi della scuola primaria che utilizza un libro ad hoc di Geronimo Stilton. I referendum, la riforma, la vera giustizia (che non c’è) di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 15 giugno 2022 Per ragioni che affondano nella nostra storia, il sistema del diritto è un vulnus permanente per la democrazia italiana. Per l’inefficienza e per i suoi tratti autoritari. I referendum sulla giustizia hanno fatto la fine prevista. Se ci fosse stata una vera campagna referendaria e, pertanto, una informazione diffusa, la percentuale di votanti sarebbe stata molto più alta ma il quorum non sarebbe stato ugualmente raggiunto. Basta che i fautori del “no” si astengano e la somma fra astensione fisiologica e astensione del “no” è sufficiente per vanificare un referendum. Ma il fallimento non elimina il problema, la malattia di cui soffre il sistema giudiziario. È stato interessante vedere diversi magistrati che, insensibili al richiamo delle sirene corporative, hanno votato “sì”. Si trattava di professionisti consapevoli della malattia. Il funzionamento del sistema giustizia ci dice ciò che c’è da sapere sulla qualità di una democrazia. I diritti del cittadino diventano carta straccia quando, da un lato, chiunque abbia un diritto leso, non trovi, con la massima rapidità possibile, un giudice, penale o civile, che gli renda giustizia. Inoltre, e qui mi riferisco alla giustizia penale, un cittadino indagato o inquisito conserva intatti i suoi diritti costituzionali solo a certe condizioni: se ci sono garanzie contro gli arresti ingiustificati, tutela del suo diritto a non essere trattato da colpevole prima che intervenga una sentenza definitiva e, per conseguenza, un equilibro fra i poteri dell’accusa e quelli della difesa, e un giudice sicuramente terzo, non per buona volontà ma per necessità. Per ragioni che affondano nella nostra storia il sistema giustizia è un vulnus permanente per la democrazia italiana. Per l’inefficienza sistemica e per i suoi tratti autoritari. L’inefficienza è testimoniata dalla lunghezza dei procedimenti. Per ciò che riguarda i tratti autoritari l’elenco è lungo. Pubblici ministeri i cui eventuali comportamenti scorretti, lesivi dei diritti del cittadino, non sono sanzionati (il Csm, dominato dalle correnti, ha dimostrato di essere un controllore inefficiente o inesistente), irresponsabilità di chi si dice sottomesso solo alla legge (ma, in realtà, alla “interpretazione” della legge sua e dei suoi colleghi), arbitrarietà nelle scelte di quali inchieste fare o non fare (al riparo della finzione detta “obbligatorietà dell’azione penale”), principio di non colpevolezza travolto nella pratica mediante la carcerazione preventiva. E travolto nella consapevolezza generale, per effetto dell’unità delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, dall’uso di chiamare “giudici” i pubblici ministeri (ricordate il “giudice Di Pietro”? Mai stato un giudice). Talché gli atti dei procuratori diventano per tanti l’equivalente di sentenze e l’inquisito un colpevole a prescindere dal fatto che ci sia poi o no un processo. Da tutto ciò deriva uno squilibrio radicale fra i poteri della accusa e quelli della difesa, incompatibile con i principi della democrazia liberale. Ci sono svariati modi di fare un uso autoritario della giustizia. C’è quello “classico” del controllo governativo sui giudici (la strada oggi praticata da Polonia e Ungheria) e c’è il modo, sui generis ma ugualmente autoritario, che mette la vita delle persone alla mercé delle decisioni di altri i quali, in questa delicatissima attività, non sono controllati né, eventualmente, sanzionati, da alcuno. L’Italia repubblicana non ha mai avuto un sistema di giustizia coerente con i principi democratici. È passata da uno squilibrio all’altro. In età democristiana vigeva il predominio della politica (dei partiti di governo) sull’attività giudiziaria. Nell’età post-democristiana si è affermata una radicale autonomizzazione del corpo giudiziario che, non accompagnata da meccanismi di limitazione del potere dei singoli magistrati, ossia da adeguati contrappesi, si è risolta nella affermazione di un potere corporativo che intimidisce la politica e che, quando rispetta i diritti del cittadino, lo fa solo per il buon cuore del singolo magistrato o per il suo rispetto “spontaneo” (non imposto dall’esterno) dell’etica professionale. Aspirazioni a riportare il nostro ordinamento giudiziario nell’alveo dei principi della democrazia liberale ci sono (ed è lodevole) tanto in settori della destra che della sinistra politica. Ma è difficile disfarsi delle tare originarie. A causa della diffusa accettazione da parte di ampi settori della pubblica opinione, di una concezione populistico-autoritaria dei compiti della giustizia che si è sedimentata nel tempo. Ma anche a causa della potenza di una corporazione che possiede i mezzi coercitivi per impedire che tale potenza venga intaccata. E per la ricorrente tentazione dei partiti di assecondare l’azione delle procure quando colpiscono il rivale politico. Bisogna dire che la scelta del segretario del Pd, contestata da settori del suo partito, di pronunciarsi per il “no” a tutti i quesiti ha avuto un evidente significato politico. Sarebbe bastato un “sì” (puramente simbolico, data l’impossibilità di raggiungere il quorum) al più importante dei referendum, quello sulla separazione delle funzioni, per segnare una rottura con il passato. Ma tutti sono prigionieri del loro passato. C’è stato un tempo, a partire dagli anni Settanta, che l’allora Pci si trovò ad essere fiancheggiato da un pugno di magistrati che praticavano un “uso alternativo” del diritto, ossia usavano l’arma giudiziaria per spostare a sinistra gli equilibri politici. Vero che c’era allora il terrorismo e magistrati coraggiosi (alcuni dei quali pagarono con la vita) lo combatterono. E il Pci li sostenne con sacrosanto rigore. In epoca successiva, però, da quell’incontro non derivarono conseguenze positive per la democrazia. Da Mani Pulite in poi gli eredi del Pci non hanno mai smesso di fiancheggiare la ormai potentissima Associazione nazionale magistrati. Neanche questa volta ci sono stati strappi (eccezion fatta per la componente liberale del Partito democratico). La riforma Cartabia è una buona cosa. Forse migliorerà, per aspetti non trascurabili, il funzionamento della giustizia, correggendo alcune delle più plateali disfunzioni. Ma l’assetto illiberale del sistema giustizia non potrà essere davvero intaccato. Forse lo sarà un giorno (magari fra qualche generazione) quando nuove circostanze obbligheranno la classe politica a rimettere mano ai fondamenti della Repubblica, a riscrivere le regole della convivenza civile. Lega e Iv “sfidano” Cartabia: “La riforma del Csm così non va” di Simona Musco Il Dubbio, 15 giugno 2022 Nervi tesi in maggioranza: i due partiti non ritirano gli emendamenti. L’allarme di Sisto: “Così rischiamo un Consiglio eletto con le vecchie regole”. Nervi tesi e trattative andate a vuoto. Quella di ieri è stata una giornata di nuove fibrillazioni per la maggioranza, che ancora una volta si spacca sulla riforma del Csm. Lega e Italia Viva hanno infatti deciso di non raccogliere l’invito della ministra Marta Cartabia a ritirare gli emendamenti e percorrere in tranquillità e speditezza “gli ultimi 100 metri” che portano all’approvazione della legge delega. Un’esortazione ai partiti di maggioranza che la Guardasigilli ha fatto nel vertice di ieri mattina, prima che in Commissione giustizia partisse la votazione delle oltre 260 proposte di modifica al testo della riforma già approvata dalla Camera il 26 aprile scorso, quando a seguire le indicazioni del governo fu anche il partito di Matteo Salvini, oggi in prima fila nel dichiarare guerra al testo. Il tentativo di Cartabia, in mattinata, era stato “addolcito” con la promessa fatta dal ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà di non usare l’arma della fiducia, che già non poche polemiche aveva generato quando il testo era fermo alla Camera. Ma l’appello è comunque caduto nel vuoto: quando attorno alle 19 è iniziato il voto in Commissione, i 61 emendamenti della Lega - pensati nel solco dei temi referendari - e i circa 80 di Italia Viva erano ancora tutti sul piatto. E ciò nonostante la richiesta della ministra sia legata anche alla necessità di votare a settembre per le elezioni del nuovo Consiglio superiore della magistratura con le nuove norme: qualsiasi modifica al testo, infatti, implicherebbe un ritorno della riforma a Montecitorio e ciò allungherebbe i tempi in maniera eccessiva. Anche perché senza lo stop concesso alla Lega per portare avanti in maniera più incisiva la campagna per i referendum sulla giustizia si sarebbe potuti procedere col voto già a luglio, evitando dunque di prolungare la vita di una consiliatura devastata da scandali e giochi di potere. Da qui l’esigenza di evitare incidenti di percorso, non fatta propria, però, dal Carroccio e da IV. Tale ostruzionismo non dovrebbe però mettere a repentaglio l’approvazione della legge delega - il cui arrivo in Aula è previsto per domani -, dal momento che i numeri non consentirebbero ai due partiti di mandare sotto il governo, almeno sul fronte del voto. Così in Commissione gli emendamenti sono stati respinti per 14 voti a 10 (nel momento in cui scriviamo si stanno votando le proposte di modifica dell’articolo 5), con Lega, Fdi, Iv e Alternativa che hanno votato contro le indicazioni del governo, che nel primo pomeriggio aveva formalizzato il proprio parere negativo. Nessun rischio concreto, dunque. Ma dopo l’astensione di Italia Viva alla Camera - posizione che quasi certamente verrà mantenuta anche in Senato - la scelta della Lega, rimasta scottata dal flop del referendum, rappresenta comunque una spia d’allarme per la stabilità della maggioranza del governo Draghi. “Le proposte della Lega sono migliorative e vogliamo che sia il Parlamento ad esprimersi nel merito, come previsto dalla nostra Costituzione - avevano fatto sapere in giornata i senatori leghisti presenti in Commissione, Simone Pillon (capogruppo), Emanuele Pellegrini, Pasquale Pepe e Francesco Urraro. Il nostro intento è garantire alla stragrande maggioranza di magistrati liberi di poter continuare a svolgere il loro compito. Peraltro non possiamo ignorare il segnale di quei 10 milioni di italiani che hanno votato i referendum e hanno dato un’indicazione chiara in tema di giustizia. Crediamo che sia necessaria una svolta su questo fronte ed è giusto che ci sia una discussione in Parlamento, organo preposto a tale funzione”. L’atteggiamento di Lega e Italia Viva, per tutta la giornata di ieri, ha fatto stare sul chi va là le altre forze di maggioranza. A partire da voci autorevoli come quella del sottosegretario alla Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto, secondo cui se il Csm venisse eletto con le vecchie regole “il Parlamento ne uscirebbe a pezzi”. Ma nulla da fare: “Noi vogliamo migliorare il testo, se sui nostri emendamenti c’è una maggioranza bene, altrimenti ne prendiamo atto”, ha detto il presidente della Commissione e relatore, il leghista Andrea Ostellari, prima di rimettersi al voto dei colleghi. E fuori dalle stanze del Senato il caos politico è stato palpabile per tutta la giornata, tant’è che dal Pd è arrivata l’accusa a Lega e Iv di voler affossare la riforma. Per la capogruppo al Senato Simona Malpezzi, “sarebbe irresponsabile se qualcuno decidesse di far saltare l’accordo”, mentre per il capogruppo in commissione Franco Mirabelli “c’è solo questa riforma, nessun’altra”. Più deciso il j’accuse della vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia per il Pd, Anna Rossomando. “Mi pare evidente - ha evidenziato - che qualcuno, dopo la sconfitta al referendum, punti all’affossamento della riforma Cartabia”. E in serata è arrivato anche l’affondo del segretario dem Enrico Letta, che ha addirittura esortato il governo a rivedere la decisione di non usare l’arma della fiducia, accusando il Carroccio di voler bloccare la riforma dopo il flop alle urne di domenica scorsa. “Sono colpito dal fatto che la reazione Lega, rispetto a un referendum che ha voluto e ha perso, è quella di continuare a rendere impossibile la riforma in Parlamento - ha detto il segretario dem ospite a diMartedì, su La7 -. Lo dico a presidente del Consiglio e al governo: se continua così, l’unico modo per fare la riforma sarà mettere la fiducia al Senato e poi di nuovo alla Camera. Perché la giustizia è un tema fondamentale. È uno dei problemi di competitività del nostro Paese”. Ma ad essere preoccupati sono anche i senatori del Movimento 5 Stelle, che nel corso del vertice di maggioranza hanno evidenziato come la politica delle “mani libere” di Lega e Iv sarebbe “inaccettabile” e rischiosa in vista di altri passaggi parlamentari delicati, come quelli relativi alla guerra in Ucraina, il dl concorrenza e il decreto aiuti. Salvini reagisce al voto delle Comunali con la guerriglia sulla riforma del Csm di Liana Milella La Repubblica, 15 giugno 2022 La Lega, insieme a Iv, non ritira gli emendamenti al testo della ministra Cartabia che deve essere votato in Senato: “Lo dobbiamo a chi ha votato i referendum”. Letta: “Si metta la fiducia”. In serata respinte tutte le modifiche. È ancora in salita - ma è noto che Marta Cartabia sia una provetta scalatrice di montagne - il sentiero che tra oggi e domani dovrebbe consentire al governo di portare a casa la riforma del Csm. Proprio quella sollecitata da Mattarella. Con tanto di standing ovation quando l’ha chiesta alla Camera il giorno della rielezione. Ma Salvini ha deciso di rovinare la festa, scatenando la sua donna per la giustizia, l’avvocato Giulia Bongiorno, che tra i piedi di Cartabia ha confermato i suoi 60 emendamenti vecchi di un mese. Come tanti soldatini, i leghisti del Senato, da Ostellari a Pillon, si sono messi all’opera. Vogliono votare le modifiche per rispettare “i 10 milioni di voti degli italiani messi nell’urna dei referendum”. E a nulla sono valsi gli appelli al senso di responsabilità verso la maggioranza, ma purer il richiamo alla coerenza, visto che alla Camera, il 27 aprile, la Lega ha votato sì alla stessa riforma. Ma tant’è. La sconfitta congiunta - le amministrative da una parte, che consegnano alla storia il successo a destra della Meloni che scavalca la Lega, il flop dei referendum dall’altra, che si fermano al 20% dei votanti - spinge la Lega ad alzare il prezzo sulla giustizia. Anche se - come conferma la stessa Bongiorno a Repubblica quando ormai sono le 21 - alla fine in aula la Lega voterà sì alla legge perché “noi siamo costruttivi, il nostro obiettivo è migliorarla. Avete capito? L’ho detto in dozzine di interviste, anche a voi. Noi vogliamo migliorarla, adesso invece è una riforma blanda, noi la vorremmo più incisiva”. In questa partita a scacchi, alla fine dovrebbe vincere Cartabia. Anche se Iv e Lega oscurano la festa. Perché nel film di ieri la Lega parte lancia in resta contro la ministra della Giustizia che, in una riunione della maggioranza, chiede a tutti di ritirare gli emendamenti. Sono 257, e giacciono in commissione Giustizia dal 24 maggio. Avrebbero potuto già essere votati, ma la Lega ha chiesto di non farlo prima del referendum, per non farle fare brutta figura. Perché se chiedi agli italiani di sopprimere del tutto i passaggi da pm a giudice (e viceversa) rispetto ai quattro possibili oggi, poi sembra brutto che voti per consentirne uno solo. Cartabia acconsente. Il voto slitta dopo il referendum. E che fa la Lega? Come dice Bongiorno, a questo punto, ““portiamo avanti i nostri emendamenti, e votiamo oltre che i nostri, anche tutti quelli in linea con i temi referendari. Proprio come abbiamo già fatto alla Camera”. E ancora: “Barra dritta. Forti dei 10 milioni di Sì, arriveremo alla vera riforma che sarà fatta dal centrodestra”. La mossa irrita il Pd. Tant’è che a sera s’arrabbia Enrico Letta: “Sono colpito dal fatto che la reazione della Lega rispetto a un referendum che ha voluto e che ha perso, sia quella di continuare a rendere impossibile la riforma in Parlamento. Lo dico al premier e al governo: se continua così, l’unico modo per fare la riforma sarà mettere la fiducia al Senato e poi di nuovo alla Camera”. Le ore passano, e la Lega finisce all’angolo. Iv, con Giuseppe Cucca, pensa di ritirare i suoi 86 emendamenti, ma un altolà di Renzi lo ferma. “Sì, li stiamo votando” conferma Cucca dalla commissione. Assieme ai 92 dei meloniani. Il forzista Giacomo Caliendo era stato il primo di mattina a dire che avrebbe rinunciato alle sue quattro modifiche. Piero Grasso, che pure teneva molto ai suoi sette emendamenti, li ritira in chiave anti Lega. Molti punti della riforma non lo convincono, come la riduzione dei passaggi tra giudice e pm, ma trova insopportabili i giochetti di Salvini. M5S, obtorto collo, rinuncia a fatica alle sue otto modifiche, ma Giulia Sarti, la responsabile Giustizia, non si trattiene dal dire che “questa riforma non è affatto adeguata alle aspettative, e sui temi dirimenti non è corretto che rimangano le posizioni di Lega e Iv. Stiamo tutti al governo. E se qualcuno vuole ancora giocare dopo la bocciatura dei cittadini ai referendum, è bene che la finisca”. Comunque, ieri sera, pochi minuti dopo le 23, la commissione Giustizia del Senato ha chiuso l’esame degli emendamenti. Tutti respinti. Ma la Lega e Italia viva hanno votato i propri e anche alcuni di quelli presentati da FdI. In aula il testo va con il relatore leghista e presidente della commissione Andrea Ostellari. Iv non dovrebbe ripresentare in aula i suoi 88 emendamenti e mantenere l’astensione già data alla Camera. Alle 15.30 comincia la discussione generale. Voto finale giovedì. Con il sì della Lega. Referendum, fallimento annunciato. Ma ora la giustizia va riformata di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 15 giugno 2022 Adesso la sfida delle vere questioni è già in corso: il “pacchetto” Cartabia non comprende solo la riforma del Csm, ma ha già posto le basi per la trasformazione dei processi civile e penale. Il fallimento era largamente previsto. Il record negativo di partecipazione permette di guardare direttamente ad alcune questioni di fondo sino ad ora sottovalutate. In questo caso, non ci si può giustificare dando la colpa al quorum strutturale di validità. Previsto in Costituzione all’articolo 75, ritenuto troppo elevato: se l’80% circa degli aventi diritto al voto non hanno risposto al quesito, evidentemente, la ragione è da ricercare nel “tipo” di domande formulate e nella distanza tra queste e la realtà percepita dal corpo elettorale. In fondo basta pensare al fatto che il referendum, così come ogni appello al popolo, necessariamente comporta una semplificazione: la risposta non può che essere univoca, sì o no. Questo è accettabile a condizione che la portata politica e culturale del quesito sia di immediata evidenza. Così è stato o potrebbe essere - al netto dell’ammissibilità - in molti casi (divorzio, aborto, nucleare, ergastolo, beni comuni, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia). Nei casi in cui, invece, il quesito diventa tecnicamente complesso e assolutamente specifico, l’unica possibilità di successo è affidata alla demagogia, che è spesso figlia dell’inganno. Questo è avvenuto per i cinque quesiti sulla giustizia. Non solo di difficile comprensione, ma anche per nulla idonei a perseguire gli scopi dichiarati. Come si fa in effetti a pensare che una questione tanto particolare com’è la possibilità di attribuire il diritto di voto agli avvocati e ai professori nei Consigli giudiziari e nel Consiglio direttivo della Corte di Cassazione possa garantire un più equo processo? In realtà, è questo un tema che riguarda principalmente i rapporti tra magistratura e avvocatura, non le più immediate preoccupazioni dei cittadini. Così anche gli altri quesiti proposti, nessuno dei quali tale da porre fine alle reali difficoltà che sono alla base del cattivo funzionamento della giustizia. Abbandonati i referendum al loro inglorioso destino, dovremmo adesso cominciare ad affrontare le vere questioni, che sono sotto gli occhi di tutti. La sfida è già in corso, il “pacchetto” Cartabia non comprende solo la riforma del CSM, ma ha già posto le basi per la trasformazione dei processi civile e penale. L’ambizione è alta: ci si è impegnati con l’Europa a ridurre del 40% i tempi dei processi civili e del 25 % quelli del penale. Se questi sono gli auspicabili obbiettivi come conseguirli? Se si vuole superare la prospettiva aziendalistica, che troppo spesso inquina la discussione, dovremmo rivendicare una riforma “costituzionalmente orientata”, ovvero in grado di garantire autonomia e indipendenza dell’ordine della magistratura (art. 104 Cost.); assicurare una “ragionevole durata” dei processi che però non contraddica il principio del “giusto processo” (art. 111 Cost.), né pregiudichi la tutela dei diritti e le garanzie di difesa (art. 24 Cost). Abbreviare dunque i tempi, ma senza compromettere le garanzie. Non è una sintesi semplice da raggiungere e c’è un doppio rischio da evitare. Quello di avere una sentenza rapidamente, però sbagliata oppure di avere una sentenza giusta, ma dopo troppo tempo. Un’alternativa diabolica cui si sfugge solo se si riuscirà ad ottenere una sentenza argomentata in tempi ragionevoli. Ma per ottenere questo risultato non basta intervenire sulle regole dei processi è necessario operare su più piani. Quello del “diritto penale minimo” in grado di ridurre l’incidenza della repressione penale a favore di altre forme di tutela sociale, prevedendo un’ampia depenalizzazione di tutte quelle fattispecie ritenute ormai di scarsa pericolosità sociale, riqualificando l’azione penale con riferimento ai reati di maggiore impatto e disvalore sociale. Ridurre la litigiosità nel processo civile incentivando misure e forme alternative, ma evitando la degenerazione della giustizia privata ovvero ostacoli eccessivamente punitivi all’esercizio dell’azione civile, garantendo comunque nel corso del processo il contraddittorio tra le parti in condizione di parità (art. 111 Cost.). Si dovrebbe, inoltre, intervenire sulle carceri per ridurre il sovraffollamento, incentivando il reinserimento sociale e assicurare la rieducazione del condannato (art. 27 Cost). Si dovrebbe infine prestare maggiore attenzione alla formazione dei magistrati, senza limitarsi ad estendere il ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, ma utilizzando anche altri canali formativi. In questo contesto non deve essere sottovalutata la responsabilità anche della formazione universitaria che si caratterizza sempre meno in chiave problematica e sempre più si accontenta di una preparazione puramente nozionistica, che non regge alla prova dei fatti. I dati dell’ultimo concorso in magistratura sono inquietanti: il 95% dei candidati non ha superato la prova. Referendum, il blocco liberale e democratico ha lasciato soli i Radicali di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 15 giugno 2022 Porre i quesiti così come è stato fatto senza porsi la questione dello “Stato” e la politica delle alleanze non ha avuto senso alcuno. I referendum non hanno raggiunto il quorum e i “sì” ai cinque quesiti posti sono stati maggioranza tra gli elettori che si sono recati alle urne. Coloro che non sono andati a votare non possono essere conteggiati né tra i sostenitori del “si” e tantomeno tra quelli del “no” ma ci dicono semplicemente che una larga parte del popolo italiano non crede più all’attuale forma di democrazia e si chiama fuori dai suoi riti, a volte, noiosi ed inutili. La percentuale decisamente bassa dei votanti alle comunali ne è la conferma. Qualche PM s’è affrettato di dire che gli elettori sono contro ogni ipotesi di riforma della Giustizia dimenticando però di usare un metodo di indagine su cui costoro hanno da sempre basato le loro analisi e cioè che nei cosiddetti paesi di mafia la percentuale dei votanti al referendum non è andata oltre il dato nazionale. Se fosse questo (e non lo è) un metodo di analisi valido per capire il voto, bisognerebbe concludere che alla mafia e alla ndrangheta la giustizia va bene così com’è! C’è chi ha scritto (Piero Sansonetti) che ha vinto il partito dei Pm, ma è veramente così? Veramente ci potrebbe essere un partito dei PM senza avere alle spalle un solido blocco sociale e politico di cui ne è l’espressione? Non c’è dubbio che il “1992” sia stato uno spartiacque: “muoiono” i partiti che avevano fatto la Costituzione ed emergono nuovi partiti senza popolo e che grazie ad un una legge elettorale truffaldina porteranno in Parlamento personaggi decisamente inconsistenti. Il consenso si forma attraverso un circuito mediatico perverso che crea e distrugge “personaggi” con uguale velocità. La parabola di Salvini (o di Renzi) ne è la prova. Intanto però il lavoro è diventato precario, le ceti medio-bassi ed a vantaggio della rendita finanziaria, i partiti sono artificiali, il “centrosinistra” è presente sulle schede elettorale ma assente dalla Politica, i diritti sociali, iniziando da scuola e sanità, progressivamente messi in discussione, il “Mezzogiorno” sparito da ogni agenda di governo. La guerra è ritornata una ipotesi sul tappeto e le spese per armamenti sempre più attuali. Questo blocco sociale utilizza i Pm e da questi viene utilizzato. A volte si lottano (per finta) ma solo per questioni di spazio e sempre all’interno dello stesso “ordine”. I “radicali” (sono scritto al partito radicale da moltissimi anni) promuovendo i referendum sulla giustizia hanno operato solo alla foce e in questa ottica i “sì” ottenuti sono stati un risultato eccezionale. Basta riflettere: non ci sarebbe stata la vittoria sul divorzio del 1974 se non ci fossero stati i radicali ma accanto a loro i tantissimi socialisti e libertari, la forza del partito comunista, il contributo di liberali autentici ed infine l’apporto dei cattolici che non si sono riconosciuti nel blocco d’ordine degli anni 50. Oggi i “radicali” si sono ritrovati da soli con qualche esponente della “Lega”. Troppo poco e troppo innaturale. Nel 1974 ha vinto il blocco riformista che poi è lo stesso che ha varato la riforma sanitaria, quella (pur discutibile) della scuola di massa, lo Statuto dei lavoratori, la legge sull’equo canone, la riforma Gozzini sulle carceri, il diritto di famiglia. Il blocco d’ordine egemone oggi è quello che sta mettendo in discussione non solo le conquiste del passato ma anche e soprattutto la stessa Costituzione. Porre i quesiti referendari così come è stato fatto senza porsi la questione dello “Stato” e la politica delle alleanze non ha avuto senso alcuno. Su questo è bene che i radicali e l’intero “mondo” garantista facciano qualche riflessione e qualche autocritica. Per esempio, i Pm, soprattutto quello più scomposti e deliranti, hanno un ruolo preciso ma non sono la nostra controparte perché il loro ruolo finirebbe nello stesso momento in cui coloro che lo li hanno creati, li foraggiano e li aiutano decideranno di non fornire loro copertura, “armi” e “vettovaglie”. La nostra controparte è altra. Ho decenni di militanza nel fronte democratico e garantista e vedo sul campo i successi e le prepotenze del partito dei Pm che c’è ed è attivo, (basterebbe rivedere “Report” di ieri sera per convincersi) ma è solo un reparto di artiglieria pesante di un esercito ben più agguerrito e consistente e che ha come fine l’imposizione di un ordine eversivo rispetto alla Costituzione. C’è un invisibile filo rosso che collega le immense rendite finanziarie ed alle conseguenti disuguaglianze, alla guerra, alla produzione di armi, alla galera facile, al ruolo delle caste, alla fine dello stato sociale, all’irrilevanza del Parlamento, alla formazione del partito dei PM, ai governi non eletti. Sconfiggere questo fronte deve essere la nuova “frontiera” d’un movimento democratico che ponendosi il drammatico problema della “giustizia giusta” sappia difendere l’intero impianto Costituzionale. Se non fosse retorico mi verrebbe da ricordare “scarpe rotte eppur bisogna andar!”. Referendum. Radicali contro penalisti, mentre le toghe esultano di Giulia Merlo Il Domani, 15 giugno 2022 Scontri nei comitati per il sì, con Caiazza delle Camere penali e Boni dei radicali italiani, che attaccano il partito radicale e la Lega per il metodo usato, definito “estemporaneo e improvvisato”. Esulta invece la magistratura associata. I gruppi associativi, infatti, hanno esultato contro “Chi pensava di lucrare dagli scandali della magistratura un consenso elettorale”, ha detto Eugenio Albamonte, segretario di Area. L’insuccesso alle urne di questi referendum rischia di provocare un effetto imprevisto: dividere nella sconfitta i sostenitori del Sì, allontanando così per il futuro l’ipotesi di usare lo strumento per riforme in materia di giustizia. All’indomani del flop referendario, in casa dei sostenitori del sì volano stracci. Se i comitati sono rimasti uniti fino alla tarda sera del 12 giugno, già la mattina dopo sono emerse tutte le crepe in un mondo che ha interiorizzato male i referendum nati da una strana alleanza tra radicali e leghisti e che sono stati percepiti come gestiti in modo proprietario dal partito di Matteo Salvini. Queste incongruenze ma anche l’esito fallimentare dei quesiti hanno toccato poco la base leghista, di cui per altro solo una minoranza ha scelto di votare e una parte di questa ha addirittura disatteso gli orientamenti indicati dal suo leader. Si è invece aperto uno scontro nel mondo di chi ha storicamente sostenuto battaglie per la riforma della giustizia: da una parte il partito radicale di Maurizio Turco, dall’altra l’Unione camere penali italiane di Giandomenico Caiazza e i radicali italiani di Igor Boni. A scatenare lo scontro è l’intervista al Corriere della Sera in cui Caiazza - che con Marco Pannella ha partecipato a molte iniziative referendarie - ha parlato di “atto politico avventato” che rischia di essere “pagato carissimo” il cui insuccesso è anche “frutto del modo con cui è stato organizzato: estemporaneo, improvvisato. Chi ha scelto i quesiti? Con chi li ha discussi?”. Le Camere penali, infatti, non sono state interpellate per un parere tecnico e la cosa è stata scoperta alla conferenza stampa Turco-Salvini e Caiazza ha stigmatizzato anche la scelta della Lega di non depositare le firme ma di procedere con i voti dei consigli regionali di centrodestra. Le critiche puntuali - in particolare sul fatto che i quesiti non siano stati discussi con chi da sempre si occupa di giustizia e di eccessiva politicizzazione della contesa sbilanciandola sul centrodestra - però sono state percepite come tardive e hanno diviso al suo interno anche l’Ucpi, con alcune Camere penali locali che hanno preso posizione contro il presidente. Le critiche non sono state gradite nemmeno da Turco, che ha ringraziato Salvini per “la generosità, la linearità e la correttezza con la quale si è comportato” e ha attaccato Caiazza che con le sue parole avrebbe esposto le Camere penali “a cancellare decenni di rapporti del Partito Radicale”. In realtà, le critiche al modo con cui sono stati proposti i referendum è arrivata anche dai radicali italiani (nati con la scissione del 2001 dal partito radicale) di Igor Boni, che hanno sì contestato il “boicottaggio del cosiddetto servizio pubblico della Rai” e il quorum quasi insuperabile, ma si sono uniti alle critiche di Caiazza sostenendo che “i promotori ci hanno messo del loro: questa campagna à stata organizzata in modo estemporaneo e improvvisato”. I contrasti nei mondi che più hanno spinto, negli anni, per una riforma dell’ordinamento giudiziario e il flop del referendum hanno contribuito a rimettere in gioco la magistratura associata. I gruppi associativi, infatti, hanno esultato contro “Chi pensava di lucrare dagli scandali della magistratura un consenso elettorale”, ha detto Eugenio Albamonte, segretario di Area. Il segretario di Magistratura indipendente, Angelo Piraino, si è spinto oltre chiedendo che “la politica si interroghi seriamente sulle cause di questo esito, assumendosi le sue responsabilità e cercando di comprendere il senso del messaggio che gli elettori hanno voluto inviare”. Il referendum, quindi, rischia di essere un vero e proprio boomerang: l’astensionismo, infatti, può venire letto anche come favorevole alla categoria delle toghe e rafforzarla nella sua opposizione alla riforma Cartabia, che con le sue riforme dell’ordinamento giudiziario non ha orientamenti lontani da quelli del referendum. Come ha detto a Repubblica l’ex magistrato Nello Rossi, di Magistratura democratica, il parlamento e la ministra dovrebbero misurarsi “con i meditati consensi e le critiche argomentate fin qui ricevute. C’è spaio per migliorare il testo legislativo, e ce n’è bisogno”. L’ipotesi che la riforma Cartabia venga rimessa in discussione alla luce del fallimento referendario (tre quesiti bocciati su cinque riguardano questioni modificate anche dal ddl) sembra un auspicio improbabile e dal ministero non trapelano margini di intervento, nonostante Lega abbia annunciato che non ritireranno i loro emendamenti. Il testo è già stato approvato alla Camera e ora manca solo il via libera del Senato, in tempo per non fare slittare troppo in là l’elezione del Consiglio superiore della magistratura con la nuova legge elettorale. Ma io dico: in Italia spira il vento del garantismo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 giugno 2022 Spira sull’Italia il vento del garantismo? Pare di sì, nonostante solo un cittadino su cinque sia andato a votare per i referendum sulla giustizia. Intanto perché stiamo sempre parlando di circa dieci milioni di persone, donne e uomini che hanno sfidato il silenzio elettorale del sistema informativo pubblico, la data unica nel giorno più caldo dell’anno, il boicottaggio esplicito di quotidiani come Repubblica, Il Fatto e Domani, la pusillanimità di quelli a maggiore diffusione, la disobbedienza civile di quello che il suo leader Enrico Letta definisce “il primo partito d’Italia”, il Pd. Ma soprattutto l’ostilità feroce e ricattatoria dei veri detentori del potere - quello di toglierti la libertà e quindi la vita - cioè gli uomini in toga. Dieci milioni di eroi, comunque abbiano votato, per il Sì o per il No. L’altro motivo per cui pensiamo che, nonostante le apparenze, il venticello del garantismo stia spirando e si stia facendo sentire, è stata la qualità del voto e del suo risultato. La percentuale “schiacciante”, come l’ha definita Carlo Nordio, dei voti positivi su ordinamento giudiziario, separazione delle funzioni e Csm, è lo specchio di una critica forte da parte di molti cittadini sulla fisionomia e il funzionamento della magistratura. È risibile che i rappresentanti del sindacato delle toghe gongolino perché non è stato raggiunto il quorum. Il fatto stesso che i voti siano stati differenziati, e che percentuali intorno al 75% abbiano bocciato l’attuale amministrazione della giustizia, dovrebbe far loro riflettere, perché si tratta dell’altra faccia della medaglia rispetto al fallimento della manifestazione del 16 maggio contro la riforma Cartabia. Sono tanti i motivi per cui anche l’Italia, buona ultima dopo la Francia, dove un cittadino su due non va alle urne, più o meno come negli Stati Uniti, rivela sempre più una sostanziale pigrizia, che è ormai sfiducia, sia nei confronti degli istituti della democrazia rappresentativa che in quella diretta (cioè i referendum). Se solo la metà dei cittadini va a votare per un sindaco stimato come quello di Genova, per quale motivo lo stesso 50% dovrebbe correre alle urne per esprime la propria opinione su quesiti di cui si ritiene non riguardi direttamente la vita quotidiana dei cittadini? Cioè quello di cui si parla la sera a tavola o con gli amici. Immaginate le percentuali se si fosse trattato di decidere sul fine vita, o le frotte di giovani a votare sulla cannabis? Siamo pronti a scommettere anche sulla responsabilità diretta dei magistrati. E qui entriamo nel secondo motivo che tiene tanti cittadini lontani dalle urne. Ancora una volta è la sfiducia. Si dirà che il clima di oggi non è lo La percentuale schiacciante di Sì su ordinamento giudiziario, separazione delle funzioni e Csm, è lo specchio di una critica forte da parte di molti cittadini alla magistratura. Il garantismo è una pianticella ma diventerà presto un albero... stesso di quello che nel 1987, in tempi in cui il quorum dei votanti era il 65%, ben otto cittadini su dieci si era espresso perché i magistrati pagassero personalmente per i propri errori. Certo, c’era stato il “caso Tortora”. Ma quanti, reali o probabili, casi Tortora esistono oggi, dopo che Luca Palamara ha scoperchiato gli altarini dietro cui si nascondono certe decisioni di alcuni pm o giudici? Che cosa è successo dopo quel voto di allora? Non solo il fatto che la legge sancisce che sia lo Stato a mettere le toppe, pagando di tasca propria, per gli strafalcioni dei magistrati, ma anche che comunque tutti, ma proprio tutti (le famose maggioranze bulgare) restano impuniti. Sia sul portafoglio che sulla carriera. Inutile ripetere per la millesima volta le percentuali e i dati ufficiali. Il risultato del referendum è diventato carta straccia. Benché non ci sia stato consentito dalla Corte Costituzionale, e soprattutto dal suo nuovo Presidente Giuliano Amato, di votare su fine vita, cannabis e responsabilità civile, quelle percentuali così alte (stiamo sempre parlando di sette-otto milioni di voti, quasi l’intera Lombardia) di Sì su ordinamento giudiziario, separazione delle funzioni tra magistrati e Csm, mostrano come ormai il vento del garantismo miri a scompigliare le chiome delle toghe. E come, lo dice il professor Sabino Cassese, la questione giustizia sia diventata questione sociale. Per i tempi dei processi certo, ma anche perché i magistrati sono visti come troppo politicizzati e poco indipendenti, oltre che troppo inseriti negli altri corpi dello Stato, come il Parlamento e il Governo. Il Partito delle procure in particolare, è percepito come troppo vicino ad alcune forze politiche. Si dirà che, nei risultati di domenica scorsa, se la stragrande maggioranza dei votanti ha bocciato l’ossatura medesima dell’ordinamento giudiziario, risultati diversi hanno riguardato i primi due referendum, quello sull’abrogazione della “legge Severino” e l’altro sull’attenuazione delle misure cautelari prima del processo. Si è premurato di farlo notare un articolo apparso ieri su Repubblica, in cui si constata che a Napoli, Torino e Modena sui primi due quesiti ha prevalso il NO. Beh, non è una così cattiva notizia, visto che si tratta solo di tre città, e che, da Trento a Trapani, passando per Venezia, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Ascoli Piceno, Perugia, Bari, Catanzaro, Palermo, Cagliari, è prevalso il Sì. E stiamo parlando comunque sempre del 54-55% di consensi, quindi in ogni caso di un’ampia maggioranza. E dei due quesiti su cui un partito, Fratelli d’Italia, decisamente in ascesa, ha dato una esplicita indicazione di votare No. Parliamo di una forza politica conservatrice, che non ha mai dato segnali critici nei confronti di certi comportamenti della magistratura. E parliamo anche di tematiche come la custodia in carcere e la sospensione di pubblici amministratori condannati che attengono molto ai problemi della sicurezza e della moralità pubblica. Sono due punti che probabilmente non sono passati inosservati neppure all’interno dell’elettorato della Lega. E su cui occorrerà ancora un po’ di tempo per spiegare anche a chi non è stato toccato da vicino, come siano questioni che ci riguardano tutti. Un po’ come i rischi di brutte malattie: si comincia a interessarsi sulla ricerca, sulla sua importanza fondamentale per la cura ma anche per la prevenzione, solo dopo che è successo qualcosa in famiglia. Ecco perché questo vento del garantismo che inizia a spirare non va trascurato. È una pianticella, ma siamo fiduciosi che diventerà un albero, molto presto. Non è vero che i referendum, annegati nell’astensionismo domenicale, non siano serviti a nulla. O, peggio, che siano stati uno spreco di risorse pubbliche in gran parte d’Italia (dove non si votava per le amministrative), vista la modesta percentuale di cittadini andati alle urne. È vero, invece, che dal voto del 12 giugno occorra trarre almeno tre lezioni fondamentali. La prima è che, in una democrazia in grande sofferenza di partecipazione popolare, lo strumento referendario sembra definitivamente giunto al proprio capolinea politico e costituzionale. Per carità, la democrazia diretta, l’appello al popolo, il sentimento della gente, tutte cose nobili in una società polarizzata, ideologizzata, in cui fazioni antagoniste si contrappongono. Ma, in questo torbido e controverso Terzo millennio, quella società del 1947 semplicemente non esiste più, non è sopravvissuta alla modernità e alla secolarizzazione. La mediazione, la conciliazione, la composizione degli interessi ha preso il posto delle opzioni nette, delle scelte recise. Un’aura chiaroscurale avvolge tutti i temi fondamentali della società: dall’eutanasia agli orientamenti sessuali, dalle opzioni educative a quelle familiari, dal solidarismo economico al liberismo sorvegliato. In un mondo di valori così complesso e frammentato il Si/No referendario appare arcaico, sorpassato, inadeguato. Gli elettori non sono indifferenti al tema della giustizia, ma si sono ritirati sull’Aventino dell’astensione nella convinzione che, per un verso, le abrogazioni non avrebbero migliorato il funzionamento della macchina e che, per altro, la punizione da infliggere alle toghe fosse eccessiva in un tempo in cui la mafia esce dal torpore di un lungo letargo e bazzica nuovamente per le urne e gli scranni. Erano quesiti chirurgici, non impossibili da comprendere sia chiaro, ma le cui ricadute sono apparse remote, eventuali, incerte. Si fosse affondato il bisturi sulle norme che regolano i tempi dei processi e il ristoro dei danni da ritardo, si fosse discusso del limite di reddito per accedere al patrocinio a spese dello Stato, si fossero toccate le disposizioni disciplinari per i magistrati che sbagliano, eliminando qualche impunità di troppo, allora. Allora, forse, il popolo elettore avrebbe colto la diretta correlazione tra referendum e condizione della giustizia, tra le proprie cause, civili e penali, e l’abrogazione di qualche disposizione di legge che vi nuoce. I promotori hanno lavorato di fino. Troppo. Come Ulisse polymetis (dalle mille astuzie) hanno ragionato alla Calderoli e guardato ai suoi famigerati, temuti emendamenti. Un taglio qui, un taglio là e l’abito nuovo è bello e pronto. Ma un conto è organizzare imboscate parlamentari e defatiganti ostruzionismi, altro convincere e motivare milioni di elettori. Tranne il referendum sulla custodia cautelare, tutto il resto era roba da chierici, da esperti di giustizia e la mancata “traduzione” e divulgazione politica di questi arzigogoli hanno favorito il partito della spiaggia in un giugno caldo e soleggiato. Ammesso che fossero traducibili e divulgabili, nell’era di Twitter, alcune centinaia di parole dei quesiti. La seconda lezione riguarda i protagonisti del pianeta giustizia attraversato in modo più ravvicinato dalla battaglia referendaria. In molti hanno assistito compiaciuti al disintegrarsi dei meteoriti referendari nell’atmosfera rarefatta di un’astensione mai registrata prima. Toghe e avvocati erano ben consapevoli dell’importanza di alcuni dei temi sul tappeto e, per ragioni contrapposte, attendevano l’esito delle urne con una certa apprensione. Nelle ore seguenti la debacle sembra essersi aperta una sorta di gelido regolamento dei conti con la solita caccia al colpevole. Probabilmente Salvini ci ha messo del suo, ma è innegabile che da tempo versa in una serie negativa di risultati e qualsiasi impegno avesse profuso per i referendum la sorte ne sarebbe stata ugualmente segnata. Anzi, un certo distacco potrebbe persino essere stato positivo, lasciando spazio a frange e settori più credibili, su questo versante, dell’agone referendario. Escluso che un risultato così catastrofico possa essere addossato a questo o a quello, è vero che l’avvocatura - e più in genere una più ampia vocazione garantista della pubblica opinione - appare giunta al capolinea di una strategia movimentista che ne aveva connotato l’agire politico in questi anni. Sit-in, raccolte di firme, manifestazioni di piazza sembrano destinate a un’ingloriosa archiviazione dopo il tracollo del 12 giugno. Roba da riporre in soffitta tra i cimeli di un ‘68 ormai dimenticato, prima che concluso. Questo non vuol dire che non si debbano intraprendere o continuare campagne di denuncia e di sensibilizzazione nel paese, ma se dopo l’affaire Palamara e l’ondata mediatica che ancora lo sorregge solo un italiano su cinque è andato a votare, è chiaro che occorre un brusco cambiamento di rotta. Come attuarlo è questione complessa. Innanzitutto pare necessario portare in emersione quella parte (cospicua) della magistratura italiana che ha mostrato - con una considerevole astensione allo sciopero indetto dall’Anm - insofferenza acuta verso lo status quo e chiede riforme radicali. La “liberazione” delle toghe italiane dai lacci e lacciuoli che hanno finito per porle in soggezione verso le correnti in questi anni - tramite i più volte denunciati meccanismi di produzione di norme secondarie da parte del Csm che rendono, talvolta, operativi questi propositi egemonici di matrice correntizia - è un passaggio ineludibile di questo progetto di cambiamento. È, forse, l’unico terreno in cui sia possibile una leale e sincera collaborazione tra magistrati e altri soggetti della giurisdizione che hanno un interesse vitale al confronto con un giudice reso terzo e indipendente non solo rispetto alle parti (incluso il pm), ma soprattutto verso spinte gerarchizzanti e modelli omologanti di dubbia costituzionalità. Cosimo Di Lauro, morto sepolto al 41bis, e la retorica sul camorrista sanguinario di Ciro Cuozzo Il Riformista, 15 giugno 2022 Per il suo legale, “Cosimo Di Lauro o era pazzo o era un grande attore”. Sul primogenito del superboss Paolo, detto Ciruzzo ‘o milionario, in queste ore si sprecano giudizi carichi di retorica. Era un boss, un sanguinario, un uomo che ha ordinato (grazie al racconto di numerosi pentiti) omicidi e stragi di camorra che hanno coinvolto anche persone innocenti. È stato l’artefice della prima, sanguinosa, faida di Scampia (oltre 60 morti in appena sei mesi tra il 2004 e il 2005). È stato colui che ha bruciato in tre anni l’impero costruito da papà Paolo, mafioso sempre lontano dai riflettori ma in quel periodo latitante e stanato, pochi mesi dopo “F1”, a poche centinaia di metri di distanza. Cosimo era un criminale che a 32 anni venne arrestato (21 gennaio 2005) nel suo fortino, il rione dei Fiori di Secondigliano, e sepolto al 41bis, a quel carcere duro che equivale quasi a una condanna a morte. E per “F1” così è stato. Giorno dopo giorno, per 17 anni, le sue condizioni fisiche e mentali sono degenerate fino all’epilogo della mattina di lunedì 13 giugno 2022 quando via pec è stato comunicato al suo avvocato, Saverio Senese, la notizia del decesso, avvenuto nella cella del carcere di massima sicurezza di Opera a Milano. Da tempo, per i suoi difensori già a partire dal 2008, era affetto da una grave patologia psichiatrica. Ma le perizie di parte e le istanze presentate dai suoi avvocati sono sempre state rigettate dai giudici che vedevano nel comportamento di Di Lauro jr una simulazione volta a ottenere agevolazioni in carcere. Eppure fino a pochi anni fa Cosimino stava scontando solo una condanna per associazione mafiosa, poi con le ricostruzioni dei vari collaboratori di giustizia sono arrivate le condanne a più ergastoli. Cosimo con il passare degli anni è stato abbandonato da tutti, lasciato marcire in cella dove si è consumato giorno dopo giorno. Stando a quanto ricostruito, negli ultimi anni “F1” farneticava di giorno e ululava di notte. Era arrivato a fumare quasi 100 sigarette al giorno che - sottolinea l’Ansa- avevano reso i suoi denti neri come il carbone. L’ultima volta che i suoi legali, Saverio Senese e Salvatore Pettirossi, l’hanno visto da vicino risale al giugno del 2019: si recarono nel carcere di Opera dopo aver ricevuto da lui un foglio bianco, una lettera “pulita”. Quando gli avvocati gli chiesero il motivo, Cosimo Di Lauro rispose con frasi farneticanti, prima di salutarli per - disse ai professionisti attoniti - “una riunione importante con alcuni imprenditori che doveva sostenere nella veste di capo di un mondo parallelo”. Cosimino è morto nell’indifferenza di tutti, anche dei suoi familiari che da tempo - pare - rifiutava di vedere ai colloqui saltuari consentiti ai detenuti reclusi in regime di carcere duro. Non voleva incontrare nessuno. Mangiava poco ed era probabilmente perseguitato dagli orrori commessi in libertà. Per recuperarlo, almeno dal punto di vista mentale, nulla o quasi è stato fatto. Perizie e istanze dei legali a parte, nessuno ha mosso un dito. Nessuna richiesta al garante dei detenuti di Milano negli ultimi anni (Cosimo ha cambiato almeno 5-6 carceri ma era recluso a Opera da diversi anni). Al Riformista Franco Maisto spiega: “Non abbiamo mai seguito la sua vicenda perché non è mai arrivata nessuna richiesta da parte dei suoi familiari o dei suoi legali. Ho controllato nel mio ufficio e da quando era a Milano non ce ne siamo mai occupati”. Emblematiche in quest’ottica le parole di don Maurizio Patriciello, parroco di frontiera (e sotto scorta) del parco Verde di Caivano, altra zona trasformata dalla malavita in una piazza di spaccio a cielo aperto dopo la repressione dello Stato attuata a Scampia, fortino della famiglia Di Lauro (e non solo di Cosimino). Scrive Patriciello: “È morto. Solo. Dopo 17 anni di carcere duro. Era ancora giovane. È morto. Senza un conforto. Senza una carezza. Senza una preghiera. È morto come un miserabile. Eppure fu ricchissimo. Si chiamava Cosimo Di Lauro. Fu un camorrista spietato, vigliacco, sanguinario. Un vero terrorista. Nessuno mai lo amò. Nemmeno i genitori. Nemmeno i suoi fratelli. Suo padre firmò la sua condanna a morte. Giovani camorristi, fermatevi. Riflettete. Tornate indietro. Pentitevi. Godetevi la vita. Il fantasma di Cosimo Di Lauro vi tolga la pace e il sonno. Fratello Cosimo, so che tanti ti augurano l’inferno. Io, povero prete, ti affido alle mani del buon Dio. Che abbia pietà di te e della tua vita scellerata. E abbia pietà di noi, costretti a convivere con chi, come te, ha insanguinato e insanguina la nostra terra generosa e bella”. Parole che squarciano la retorica di queste ore che attribuisce a Cosimo Di Lauro la responsabilità di una guerra di camorra avallata in realtà (oltre che dagli stessi Scissionisti) anche dai suoi fratelli (sono 10 i figli di Ciruzzo ‘o milionario e Luisa D’Avanzo, la maggior parte dei quali negli anni successivi ha portato avanti la linea sanguinaria avviata dalla famiglia già negli anni ‘90) e dallo stesso papà Paolo, latitante dal 2002 ma arrestato il 16 settembre 2005 (otto mesi dopo “F1”), guarda caso sempre a Secondigliano e a poca distanza da via Cupa dell’Arco e dal Terzo Mondo (o rione dei Fiori). Una retorica che descrive il primogenito come un ragazzo incompreso e voglioso di riscatto criminale, di dimostrare al papà e ai fratelli più piccoli che lui ci sapeva fare. Cosimo non ha sfasciato nessun impero del clan ma è stato sfasciato dalla camorra che presto o tardi presenta il conto. Faceva parte di un sistema criminale che porta solo a sangue, morte e dolore e che, dagli anni 70 ad oggi, dà luogo a faide, carneficine e stragi. Cosimino è stato vittima di queste logiche perverse della criminalità organizzata che, vuoi o non vuoi, trasformano umani in persone disumane, disposte a tutto per una vita che viene goduta solo pochi anni prima di finire sotto terra o sepolto in carcere, come Cosimo Di Lauro. Penalisti in sciopero il 27 e 28 giugno: no a cedimenti sui diritti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2022 L’Unione delle Camere Penali Italiane denunzia la compromissione del diritto dell’imputato a essere giudicato dal medesimo giudice che ha raccolto la prova in dibattimento: una prassi ormai “abituale”. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha indetto due giorni di astensione - il 27 e 28 giugno prossimi - degli avvocati penalisti per chiedere un immediato intervento legislativo a salvaguardia della concreta attuazione dei principi cardine del giusto processo. In particolare, i legali denunciano la compromissione del diritto dell’imputato a essere giudicato dal medesimo giudice che ha raccolto la prova in dibattimento. Una prassi ormai “abituale” denunciano i penalisti in quanto a seguito del mutamento del giudice non viene disposta la rinnovazione della prova. (Sono esclusi dall’astensione i circondari di Benevento e Napoli Nord interessati da astensioni indette dalla Camera Penale di Benevento per il 15 giugno e dalla Camera Penale di Napoli Nord per il 6 luglio 2022). Con la legge delega n. 134/2021, si legge nella nota delle Camere penali, firmata dal Segretario, Eriberto Rosso, e dal Presidente Gian Domenico Caiazza, il Parlamento ha stabilito il principio per il quale il giudice che procede può valutare di non rinnovare la prova nella ipotesi in cui le dichiarazioni rese in dibattimento siano state videoregistrate e sia dunque possibile procedere alla loro visione e al loro ascolto, al fine di percepirne il contesto e anche tutti gli elementi che compongono la comunicazione non verbale. In buona sostanza, spiega l’Unione, la “delega Cartabia” ha inteso recepire le indicazioni che provengono dalla sentenza della Corte costituzionale n. 132/2019. Dove, la Corte delle leggi, tramite un obiter dictum, ha prospettato al Legislatore la possibilità di una limitazione dell’operatività dei principi di immediatezza e oralità a fronte di particolari condizioni quando vi sia quantomeno la possibilità per il nuovo giudice di esaminare la videoregistrazione della testimonianza. Nonostante il principio di diritto vigente nel nostro ordinamento in quanto oggetto della legge delega, prosegue il comunicato dei penalisti, ogni giorno continua a verificarsi nelle nostre aule di giustizia il fenomeno determinato dalla regola stabilita dalla Suprema Corte di Cassazione con la nota sentenza Bajrami (Sez. Un. 41736/2019). Secondo tale pronuncia è possibile per il nuovo giudice non procedere alla rinnovazione dell’acquisizione della prova, limitando tali ipotesi al solo caso che la parte abbia indicato il teste nella sua lista o intenda indicarlo in una nuova lista testi, a condizione che siano diverse le circostanze rispetto a quelle oggetto della prima testimonianza. “Conseguenza di tale pronuncia sono le devastanti prassi in atto per le quali con inquietante frequenza mutano le composizioni dei collegi e dei tribunali monocratici, di fatto così bilanciando principi costituzionali con esigenze organizzative, trasferimenti a richiesta dei singoli magistrati, esigenze private degli stessi giudici”. È già stata richiesta - proseguono - la previsione di una disciplina transitoria che releghi la necessità della videoregistrazione quale precondizione per la rinuncia alla rinnovazione della prova ai casi futuri mentre, nell’attesa che gli Uffici si dotino degli adeguati strumenti tecnici, sarebbe sufficiente la sola trascrizione della registrazione dell’udienza. Ma i penalisti italiani “intendono reagire a questo stato di cose e, proprio nell’imminenza della chiusura dei decreti delegati, richiedono che siano previste quantomeno misure che diano certezza che il giudice della decisione abbia nel suo bagaglio di conoscenza la concreta visione delle videoregistrazioni”. I provvedimenti attuativi debbono dunque prevedere l’obbligo, sanzionato da nullità, della visione pubblica, in una udienza dedicata, di quelle videoregistrazioni. Inoltre, l’Unione delle Camere Penali chiede un “immediato intervento nell’ambito della riforma dell’ordinamento giudiziario volto a prevedere l’obbligo per il giudice richiedente il trasferimento di previamente esaurire il proprio ruolo portando a termine i processi già iniziati”. “Tale onere, in realtà, è già contemplato in una precisa direttiva del CSM, semplicemente rimasta inattuata. Laddove il previo esaurimento del ruolo assumesse la forma di un preciso obbligo avente forza di legge troverebbero immediata soluzione almeno le più gravi storture determinate dalla infausta decisione delle Sezioni Unite”. Contestazione in dibattimento di reati connessi, sì alla messa alla prova di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2022 La Corte costituzionale, sentenza n. 146 depositata ieri, ha esteso la possibilità di ricorrere alla messa alla prova. La Consulta ha infatti dichiarato illegittimo l’articolo 517 Cpp nella parte in cui non prevede, in seguito alla contestazione di reati connessi (articolo12, comma 1, lettera b), Cpp), la facoltà dell’imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, con riferimento a tutti i reati contestatigli. La questione è stata sollevata dal Tribunale di Palermo. Il giudice rimettente ha ricordato che il 517 Cpp consente al Pm di procedere, durante il dibattimento, a contestazioni suppletive che possono consistere nell’aggiunta di un’aggravante, ovvero - come nel caso verificatosi nel giudizio a quo - nell’addebito di uno o più reati connessi a quello originariamente indicato nell’imputazione, e cioè commessi con la medesima azione od omissione, ovvero con condotte diverse, ma in esecuzione di un medesimo disegno criminoso. Tuttavia, nel momento della nuova contestazione il termine per avanzare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova è sempre già spirato. L’istanza, infatti, deve essere di regola formulata prima dell’apertura del dibattimento di primo grado (articolo 464-bis, comma 2, Cpp), così determinandosi una violazione degli articoli 3 e 24 Costituzione. Nel dichiarare fondata la questione la Consulta ricorda che un “fitta serie di pronunce” ha adeguato il principio di “fluidità dell’imputazione” al diritto di difesa. In particolare, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli articoli 516 e 517 Cpp nella parte in cui non consentono all’imputato l’accesso a riti alternativi nell’ipotesi di nuove contestazioni. Così, il patteggiamento oggi può essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso (ex articolo 516 Cpp), di una circostanza aggravante (ex articolo 517 Cpp) o di reati connessi (ex articolo 517 Cpp); e il giudizio abbreviato può essere richiesto a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso (ex articolo 516 Cpp), di una circostanza aggravante (ex articolo 517 Cpp) o di reati connessi (ex articolo 517 Cpp). Quanto invece alla sospensione del procedimento con messa alla prova, prosegue la decisione, essa può essere richiesta a fronte della nuova contestazione di un fatto diverso (ex articolo 516 Cpp) e di una circostanza aggravante (ex articolo 517 Cpp). Mentre “nulla ha ancora la Corte deciso in relazione alla nuova contestazione in dibattimento di reati connessi ex art. 517 Cpp”. A tale questione il Giudice delle leggi ha risposto oggi. E partendo dalla constatazione che diversamente da quanto accade nel rito abbreviato, nella messa alla prova convivono un’anima processuale e una sostanziale, ha affermato che “proprio tale accentuata vocazione risocializzante, si oppone alla possibilità di una messa alla prova ‘parziale’, ossia relativa ad alcuni soltanto dei reati contestati” (Cassazione, n. 24707/2021). “Piuttosto - continua la decisione -, l’imputato dovrà essere rimesso in condizione di optare per la messa alla prova anche con riferimento alle imputazioni originarie, intraprendendo così quel percorso al quale avrebbe potuto orientarsi sin dall’inizio, ove si fosse confrontato con la totalità dei fatti via via contestatigli dal pubblico ministero”. Una tale scelta, conclude la Corte, “non esclude d’altronde che l’istituto conservi la propria fisiologica funzione deflattiva anche in questa ipotesi, determinando comunque l’interruzione del processo e l’estinzione del reato nel caso di esito positivo della messa alla prova”. Bologna. Nessuno poteva vigilare il detenuto morto per overdose di farmaci durante la rivolta di Manuela D’Alessandro agi.it, 15 giugno 2022 “Prevalenti le ragioni di sicurezza generale”, scrive il Gip di Bologna che archivia il caso di un giovane tunisino. Intanto a Modena si indaga per tortura. Perquisire la cella di Khedhri Haitem, morto per un’overdose di farmaci” avrebbe significato “dare adito a nuovi scontri” in un “contesto drammatico” nel quale “il preminente interesse da salvaguardare era la messa in sicurezza del penitenziario e delle persone detenute”. Per questo, scrive il gip di Bologna che archivia il caso nel decreto letto dall’Agi, la dirigenza della Casa circondariale ‘Rocco D’Amato’ non avrebbe potuto evitare la morte del giovane uomo di 29 anni di origini tunisine, uno dei 13 reclusi deceduti durante e dopo le rivolte che insanguinarono le carceri nel marzo del 2020. “Le istituzioni costrette fuori dal carcere” - Quella del giudice Alberto Gamberini è una motivazione molto articolata che va ‘oltre’ la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura per il reato di ‘morte come conseguenza di un altro delitto’. Il 9 marzo, dopo il fallito incontro di ‘conciliazione’ coi vertici del carcere, “cresceva lo scontento generale e gruppi sempre più corposi e agguerriti di detenuti iniziavano a insorgere, rifiutandosi di rimare nelle proprie celle e pretendendo venisse riconosciuto il loro diritto ai colloqui”, che il governo aveva appena negato nell’ambito delle restrizioni per il Covid. Le forze dell’ordine erano costrette ad abbandonare l’istituto e “nel giro di due giorni il penitenziario risultava allagato, privo di sistema elettrico, incendiato in numerosi settori e completamente privo di controllo video per la distruzione delle telecamere”. I reclusi, al 30 per cento tossicodipendenti, “avevano la disponibilità di un altissimo numero di farmaci e sostanze psicoattive” Il 9 e il 10 marzo “le istituzioni rimanevano all’esterno del muro di cinta cercando di rientrare in possesso del penitenziario”. L’ultima cena di Khedhri - Alla mezzanotte del 10, Khedhri Haitem preparava nella sua cella la cena per il coinquilino Matteo G. dal cui racconto sappiamo che il giovane tunisino aveva partecipato alla rivolta ed era tornato a dormire, nascondendo qualcosa che, visti i trascorsi con la droga, aveva immaginato fossero medicinali. Alle 10 e 30 del mattino successivo, Khedhri smetteva di russare. Un paio d’ore dopo, Matteo G. gli buttava dell’acqua addosso. Era morto. Nei mesi precedenti, riferiva il medico del penitenziario, aveva manifestato l’intenzione di uccidersi. La domanda del giudice, stimolata dall’opposizione all’archiviazione del Garante Nazionale dei Detenuti, era se il carcere, facendo intervenire gli agenti, avrebbe potuto impedire l’assunzione di psicofarmaci. “Risulta ragionevole - è la risposta che si dà il magistrato - la scelta della Direzione di non procedere immediatamente a una perquisizione generalizzata quantomeno sotto il profilo del mantenimento della situazione di sicurezza” perché “violare la privacy dei detenuti avrebbe manifestato una totale insensibilità delle istituzioni alle istanze avanzate da loro”. Inoltre, non c’è la certezza, prosegue, su quando il giovane abbia ingerito i farmaci, se prima o dopo la ripresa del controllo della casa circondariale e quindi se una perquisizione “tempestiva” avrebbe potuto impedire la morte. Le accuse di tortura a Modena - Nei giorni scorsi, come anticipato dal ‘Domani’ e letto dall’AGI nel documento firmato dal pm, la Procura di Modena ha svelato, attraverso una richiesta di proroga delle indagini, di avere iscritto nel registro degli indagati 5 agenti della polizia penitenziaria con le accuse di tortura e lesioni aggravate per i fatti accaduti nella città emiliana il 19 marzo. Tutti sono ancora in servizio al ‘Sant’Anna’. Le persone che avrebbero subito le presunte violenze sono sette. Un altro fascicolo avviato a Modena è stato archiviato anche se l’associazione Antigone ha presentato ricorso alla Corte internazionale dei Diritti dell’Uomo. Roma. Residenze ai senza dimora, serve uno scatto di Luigi Manconi La Repubblica, 15 giugno 2022 A Roma molte persone, soprattutto quelle che frequentano le associazioni del terzo settore, hanno sentito nominare almeno una volta Modesta Valenti. Ma in pochi conoscono la sua storia. Il suo nome è inciso su una targa che si trova presso il binario 1 della stazione Termini, sul lato di Via Marsala. Sul marmo è scritto: “in memoria di Modesta Valenti. Anziana senza dimora simbolo delle persone che vivono per strada. Morta in questo luogo il 31 gennaio 1983. La città di Roma la ricorda perché nessuno muoia più abbandonato”. Modesta Valenti aveva lasciato Trieste, la città dove era nata e cresciuta, dopo un ricovero in ospedale psichiatrico. Era giunta a Roma e qui aveva vissuto molto tempo per strada. È morta a 71 anni, dopo quattro ore di agonia e dopo che, nonostante gli allarmi e le chiamate, nessun mezzo di soccorso si era assunto la responsabilità di portarla in ospedale. Quasi vent’anni dopo la morte della donna l’amministrazione capitolina decise di sostituire il nome di via della Casa Comunale con quello di via Modesta Valenti. Si tratta della via convenzionale che il Comune ha messo a disposizione per fornire una residenza ai senza dimora. È una pratica diffusa in moltissime città e permette a chi non ha un domicilio di non rimanere totalmente escluso dal sistema di cittadinanza. Sono numerosi i casi in cui le vie hanno cambiato nome in memoria di persone morte per strada o di chi si è impegnato ad assistere i senza dimora. A Bologna via dei Senzatetto è stata rinominata Via Mariano Tuccella, morto il 30 settembre del 2007 in seguito a una violenta aggressione; a Firenze la via per i senzacasa è dedicata a Libero Leandro Lastrucci, assistente sociale e direttore dell’Albergo Popolare; a Napoli si trova Via Alfredo Renzi, un clochard morto di freddo; a Brindisi, via Francesco Fersini, rimasto ucciso nel 1994. È grazie a queste vie “inventate”, non rintracciabili sulle mappe delle città, che le persone senza dimora non vengono escluse dall’iscrizione anagrafica, che costituisce lo strumento essenziale per esercitare il diritto di voto, ottenere documenti, inoltrare domande di sussidi, accedere a prestazioni sanitarie, richiedere o rinnovare il permesso di soggiorno. Nel corso del tempo le procedure degli uffici anagrafici a Roma - ma non solo - sono cambiate in senso restrittivo, richiedendo requisiti e documenti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge e creando uno scarto tra la popolazione “di fatto” e quella “di diritto”. C’è da aggiungere, in particolare, che dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Piano Casa (2014), la situazione è precipitata. L’articolo 5 della normativa, infatti, vieta l’iscrizione anagrafica a chi occupa abusivamente e senza titolo un immobile, alimentando una prassi che richiede la dimostrazione di un titolo di godimento legale dell’immobile. A essere escluse dal diritto alla residenza sono quindi non solo coloro che vivono “in occupazione”, ma anche chi, per esempio, abita in una casa senza un contratto di locazione (si pensi ai numerosi casi di affitti “in nero”). A Roma tale dinamica ha costretto molte persone a dover chiedere l’iscrizione anagrafica presso l’indirizzo di via Modesta Valenti, che dovrebbe invece avere la funzione di garantire l’accesso ai diritti connessi alla residenza a coloro che effettivamente non hanno dimora e che vivono per strada. Da qui la necessità - ineludibile e urgente - di affrontare le conseguenze perverse di quell’articolo 5 del Piano Casa per arrivare alla sua abolizione. In molte città sono in corso iniziative di mobilitazione collettiva e negoziati con le amministrazioni comunali: e numerosi sindaci si sono impegnati a trovare una soluzione. Il 7 giugno scorso, grazie all’azione e alla pressione di movimenti e associazioni (come Asgi e A Buon Diritto onlus), che da anni si occupano del tema - si pensi alla campagna nazionale “Batti il 5!” - il Consiglio comunale di Roma Capitale ha approvato una mozione dove si impegnano il Sindaco e la Giunta capitolina a derogare all’art. 5 del Piano Casa in presenza di persone fragili e a farsi portavoce di un dialogo con il governo per procedere alla sua abrogazione. In altre parole, si vuole evitare che una norma che pretendeva di affermare la legalità si trasformi definitivamente in un fattore di irregolarità e disordine sociale. Torino. Il teatro torna in carcere. “Anche qui c’è posto per la bellezza” di Marina Lomunno Avvenire, 15 giugno 2022 Per due anni a causa della pandemia è stato adibito ad hub vaccinale, ad aula per ospitare la Dad dei detenuti studenti, a luogo di culto per la Messa pasquale con cui con l’arcivescovo emerito Cesare Nosiglia ha desiderato salutare i ristretti al temine del suo mandato alla guida dell’arcidiocesi di Torino, a sala di preghiera per i reclusi musulmani. Finalmente dal 6 al 9 giugno il grande teatro della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, uno dei penitenziari con 1.400 ristretti tra i più affollati della Penisola, grazie all’allentarsi dell’emergenza Covid, è ritornato alla sua funzione ospitando uno spettacolo messo in scena dai detenuti ed aperto al pubblico: in quattro serate sono accorsi ben 450 torinesi proseguendo, come è nella tradizione del penitenziario subalpino - riconfermata e rafforzata dalla nuova direttrice Cosima Buccoliero - a considerare il teatro in carcere come punto d’incontro e dialogo “perché il carcere è un pezzo di città”. E così con “Trolley”, come spiega il regista Claudio Montagna anima della “Compagnia Teatro e Società” che da 30 anni opera nelle carceri italiane “siamo risaliti sul palco con l’emozione di ritornare liberi dopo un periodo di prigionia come è stata la pandemia per noi “di fuori” ma ancora di più per chi è “dentro”. Per questo l’attesa di queste sere preparata da tempo è stata forte per i trenta detenuti attori alcuni stranieri, per gli agenti molto collaborativi, gli educatori e la direzione. Un grazie speciale alla Compagnia di San Paolo che contribuisce alla realizzazione delle nostre attività”. “Trolley” è la storia di un gruppo di amici che si mettono in viaggio alla ricerca del senso della vita ma vengono sorpresi dalla pioggia torrenziale: che fare? Fermarsi e farsi travolgere dal diluvio o tirare fuori dal bagaglio a mano di ciascuno - “cioè che non va dentro di sé” - e provare con i compagni a superare i marosi e intravedere la speranza all’orizzonte? E con questa forza che il gruppo, prendendosi per mano, raggiungere “la terra promessa” - cioè se stessi - per ricostruirsi accorciando le distanze con il mondo. “Ecco il carcere che vorremmo - ha detto commossa al termine dell’ultima serata Rita Monica Russo, provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta: un carcere che funziona non ha le celle chiuse”. Anche uno degli attori ha ringraziato a nome dei compagni la presenza “del pubblico dei liberi, tra cui alcuni parenti e figli dei reclusi perché ci fate sentire meno diversi”. E, scendendo dal palco per tornare in cella, vedendo su una sedia il quotidiano Avvenire che ogni giorno entra in omaggio con un pacco di copie per le sezioni ci dice: “Sarebbe bello che sui giornali e in televisione - come fa Avvenire - si scrivesse che in carcere non ci sono solo delinquenti incalliti, abusi, mala gestione ma che c’è posto per la bellezza come abbiamo vissuto questa sera: tanti di noi vogliono lasciarsi alle spalle il passato e ricominciare ma abbiamo bisogno che il tempo vissuto qui dentro ci dia stimoli, opportunità di studio per imparare un mestiere, fiducia per ripensare alla nostra vita: il teatro ci aiuta a tirare fuori ciò che non pensavamo ci fosse dentro di noi e non tutto è da buttare”. Crotone. Diritto alla salute in carcere, convegno del Garante dei detenuti lanuovacalabria.it, 15 giugno 2022 Venerdì scorso si è tenuto in modalità webinar, il Seminario Nazionale, accreditato ai fini della formazione forense presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Distrettuale di Catanzaro. Il tema fondamentale e sentito oggetto dell’iniziativa di formazione per avvocati, è stato quello del “Diritto fondamentale alla salute in carcere, anche alla luce dell’emergenza pandemica. A moderare l’incontro è stato l’avv. Luciano Giacobbe - Consigliere dell’Ordine Distrettuale degli Avvocati di Catanzaro - che ha portato i saluti del Presidente avv. Antonello Talerico. L’iniziativa è stata proposta dall’avv. Federico Ferraro, Garante dei detenuti del Comune di Crotone - in sinergia con la d.ssa Raffaela Dattolo - Coordinatrice del Movimento “Uniti per migliorare la salute”. Numerosi i relatori presenti dalle diverse Regioni d’Italia, tra Autorità di garanzia, Magistrati, Accademici, Dirigenti Sanitari ed Istituzioni. Hanno fatto pervenire i saluti istituzionali il Sindaco di Crotone l’ing. Vincenzo Voce e l’avv. Filly Pollinzi, Assessore Politiche Sociali Comune Crotone, nonché gli altri due Garanti territoriali calabresi il dott. Paolo Pratico, Garante metropolitano dei detenuti di Reggio Calabria e l’avv. Giovanna Russo -Garante comunale dei detenuti di Reggio Calabria. Nella sessione di lavoro hanno preso parte al seminario giuridico l’Avv. Emilia Rossi -­ Componente del Collegio del Garante Nazionale dei detenuti, prof. Stefano Anastasìa - Garante detenuti Regione Lazio, il prof. Samuele Ciambriello - Garante detenuti Regione Campania, il prof. Gianmarco Cifaldi - Garante detenuti Regione Abruzzo, il prof. Paolo Pittaro - Garante dei diritti della persona Regione Friuli Venezia Giulia. Nella seconda sessione hanno relazionato il dott. Andrea Giordano - Magistrato presso la Corte dei Conti, la d.ssa Eleonora Monte - Medico del Presidio Sanitario presso la Casa Circondariale di Crotone e l’avv. Agostino Siviglia, già Garante detenuti Regione Calabria. L’occasione ha permesso di soffermarsi sui tanti temi che caratterizzano il Settore Sanitario legato al mondo carcere : quali i dati nazionali forniti dal Garante Nazionale sulla presenza di detenuti affetti da disturbi psichici, la continuità terapeutica tra presidi sanitari penitenziari e presidi ospedalieri, tempistiche nell’erogazione dei servizi sanitari, le carenze dei posti nelle Rems, la carenza di mediatori linguistici a Crotone, l’atavico problema del sovraffollamento, la carenza di camere di sicurezza presso i presidi di Polizia, solo per citarne alcuni. Un dato preoccupante è stato certamente quello relativo al fenomeno dei suicidi, da ultimo quello di due giovani detenuti presso la Casa Circondariale di San Vittore di Milano, in attesa del trasferimento in una Rems, Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, nonostante avessero già tentato il suicidio. Per quanto riguarda Crotone sono stati dati aggiornamenti sulla situazione attuale: è stata monitorata l’evoluzione del Focolaio - Covid-19, sono stati accolti i ripetuti appelli del garante comunale Ferraro, che hanno permesso ripetute donazioni di gel igienizzante e dispositivi di protezione individuale da parte di associazioni enti e privati cittadini. Catanzaro. Detenuti in campo con il proprio figlio: al carcere la “partita con papà” catanzaroinforma.it, 15 giugno 2022 Il direttore della Casa Circondariale Paravati: Sapere che qualcuno li aspetta fuori, che qualcuno vuol loro bene, diventa un motivo forte per andare avanti su una strada migliore. Giocare a pallone tenendo in braccio il proprio bambino. Tirare in porta ridendo come si fa nel cortile di casa. Queste scene di tenerezza familiare oggi pomeriggio si sono svolte nel campo di calcio del carcere di Catanzaro: va in scena “la partita con papà”, consueta manifestazione organizzata da anni ormai in varie carceri d’Italia dall’associazione Bambinisenzasbarre onlus e dall’Amministrazione penitenziaria. Il direttore della Casa Circondariale Angela Paravati ha spiegato il significato dell’iniziativa: “I due anni di emergenza epidemiologica da Covid 19 hanno limitato moltissimo, per motivi di cautela sanitaria, i colloqui visivi con i familiari: questa partita, che ha visto la partecipazione di ben sessanta bambini, che oggi hanno potuto trascorrere un pomeriggio “normale” con i loro papà, è stata un ritorno alla normalità, agli abbracci”. E ancora: “Essere genitori è uno stimolo importante nel percorso trattamentale, rieducativo: si ha un motivo importante per migliorarsi, si compie “per qualcun altro” un percorso di crescita. L’affetto delle famiglie è fondamentale per le persone che stanno scontando una pena detentiva. Sapere che qualcuno li aspetta fuori, che qualcuno vuol loro bene, diventa un motivo forte per andare avanti su una strada migliore”. Carmela Rosato, referente dell’Associazione Bambinisenzasbarre onlus si è resa portavoce del messaggio dell’associazione: “I bambini sono tutti uguali, anche i 100mila figli di genitori detenuti. Dal 1° giugno 2022 negli istituti penitenziari italiani si disputa la Partita con papà, tra i papà detenuti e i loro figli, all’interno dell’annuale campagna “Carceri aperte, dopo due anni di sospensione per la pandemia”. Essere detenuti e continuare ad essere genitori è difficile, ma possibile. L’associazione Bambinisenzasbarre onlus da anni si occupa di tutelare il legame affettivo tra i bambini e i genitori ristretti attraverso varie iniziative. A Catanzaro oggi pomeriggio sul campo erano presenti anche il comandante facente funzione sostituto commissario Giacinto Longo, il funzionario giuridico pedagogico Giusy Froio, il coordinatore di reparto Tommaso Proganò. Non è mancato un rinfresco a bordo campo, con le bibite offerte dal cappellano don Giorgio Pilò e i dolci preparati nel laboratorio di pasticceria interno al carcere, uno dei tanti percorsi trattamentali in corso, a testimonianza del fatto che in carcere si può imparare a fare qualcosa di “buono”, di utile per il reinserimento sociale, per giocare meglio “un secondo tempo”. Le mie prigioni (senza sbarre): esiste un modello virtuoso di carcere? di Irene Famà La Stampa, 15 giugno 2022 Il primo libro della direttrice del Lorusso e Cutugno Cosima Buccoliero: “Serve contatto con l’esterno e comunicazione con la città”. “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto”. Il titolo del libro della direttrice del carcere circondariale Lorusso e Cutugno (edito da Einaudi) e presentato ieri al Circolo dei lettori riassume a pieno il suo modo di condurre la struttura e di intendere la detenzione. Un “carcere senza sbarre”. Utopia? “Le sbarre non si possono eliminare, questo è certo. Ma nella mia idea, il carcere cerca respiro e contatto con l’esterno, si apre e comunica con la città”. Uno scambio complesso. Quale la difficoltà maggiore? “Il pregiudizio. Bisogna lavorare perché le persone non pensino che dietro le sbarre ci sono i “cattivi” e fuori i “buoni”. Un reato non coincide quasi mai con la totalità della persona”. Tutto questo come si traduce nel concreto? “In una maggiore conoscenza della realtà carceraria, di chi ci lavora e di chi è detenuto. Chi sta scontando una pena, poi tornerà libero e dovrà essere accolto. Ecco, questo percorso di accoglienza deve iniziare già prima”. Il tutto si traduce nell’importanza del reinserimento sociale. È la sua missione? “Più che una missione, direi che il mio è un servizio per i detenuti e per la comunità. Dotare le persone di una sorta di “cassetta per gli attrezzi”, con cui reinserirsi e ricostruirsi”. Il libro parla della sua esperienza al carcere di Bollate, a Milano. Cosa le ha lasciato? “A Bollate sono stata 16 anni, come vice e poi come direttrice. Mi ha dimostrato che questo modo di intendere il carcere è un modo che paga. Perché la detenzione non sia inutile”. Un esempio? “Stefania si è laureata dietro le sbarre: l’incontro con l’università e i docenti ha fatto la differenza nella sua vita. All’esterno, forse, sarebbe stato più difficile riscattarsi”. Il riscatto è possibile per tutti? “Sì”. Davvero per tutti? “Alcune situazioni sono più difficili, ma non impossibili. Come dice la legge, a ciascuno serve un trattamento personalizzato. A volte siamo impreparati ad affrontare certe situazioni, non sappiamo come fare”. Il suo lavoro le è valso il riconoscimento, nel 2020, dell’Ambrogino d’oro. Si ricorda quel giorno? “Come dimenticarlo, è stata una tale soddisfazione”. Se l’aspettava? “No, perché sono stata candidata da un gruppo di operatori e volontari di Bollate. È stato un riconoscimento del lavoro di gruppo, una conferma che mettere insieme competenze e risorse permette di fare la differenza”. Accoglienza e umanità: parole chiave per lei. Che si è portata anche a Torino. Come si trova? “Questa è una realtà interessante. C’è organizzazione, competenza, desiderio di far funzionare le cose. Un lavoro di gruppo all’interno e con l’esterno del carcere. C’è una grande sensibilità”. “Senza sbarre” è il suo primo libro. Cosa l’ha spinta a scriverlo? Cosa vuole trasmettere? “Spesso ci si ritrova a parlare di lavoro con i colleghi. Io volevo raccontare il carcere non solo agli addetti ai lavori, che già sanno, ma a chi questa realtà non la conosce. E raccontare che un modello di carcere, diverso da quello che si vede in televisione, è possibile. Bisogna incidere sulle relazioni con i detenuti”. Anche la sua vita, in fondo, è scandita dalle sbarre… “A Milano vivo in una zona popolare e capita spesso di incontrare chi è stato detenuto. In molti mi riconoscono, si fermano a parlare. Un uomo, mentre ero sul bus con mio figlio, si è avvicinato per raccontarmi ciò che aveva costruito una volta libero. Poi mio figlio mi ha chiesto chi fosse e gli ho spiegato. In famiglia, come fuori, cerco di trasmettere un messaggio: in carcere non c’è il male assoluto. C’è chi ha sbagliato e ha il diritto di essere recuperato”. Fine vita, l’indifferenza della politica di Luigi Manconi La Repubblica, 15 giugno 2022 Nelle vicende di Fabio Ridolfi, Mario, Antonio La Forgia e gli altri il dolore è il Grande Rimosso. Ma cosa c’è di più politico della sofferenza delle persone quando potrebbe essere sedata, lenita o limitata da adeguate scelte mediche? Mariachiara Risoldi, moglie di Antonio La Forgia, morto a seguito di una sedazione profonda durata quasi 90 ore, dopo che gli era stato negato l’accesso al suicidio assistito, ha detto: “Il suo corpo è costretto a stare qui, ma la mente è già arrivata in un luogo più leggero”. Questo perché “uno Stato ipocrita” (ancora parole di Risoldi) impone questa scissione tra il corpo e la mente, alimentando una sorta di feticismo dell’organismo fisico e di culto pagano (anche quando si vorrebbe intensamente cristiano) del soma, della corporeità e dell’anatomia umana. Perché, appunto, cos’è un corpo quando la mente è già in un “luogo più leggero”? È un mero involucro, ormai privo di ogni spirito vitale e di ciò che rende persona la persona: ovvero la capacità di esperienza e di relazione. È questo il crudele paradosso cui conduce l’intransigentismo dei custodi della “intangibilità della vita dal concepimento alla morte naturale”: chiamare vita la sopravvivenza meccanica - e spesso solo artificiale - di un corpo ridotto alle sue elementari funzioni fisiologiche e a una inarrestabile decadenza. O a un solo grumo di dolore. Come è il caso di Fabio Ridolfi, tetraplegico da 18 anni, morto ieri (lunedì 13 giugno); e di “Mario”, completamente paralizzato da 12, il primo a essere autorizzato a ricorrere al suicidio medicalmente assistito. L’Associazione Luca Coscioni - cui va il merito di aver sottratto alla clandestinità questo mondo di angosce e sofferenze - ha denunciato il fatto che “lo Stato italiano non si fa carico dei costi: non eroga il farmaco e non fornisce la strumentazione idonea”. Il costo dei mezzi necessari a garantire una morte rapida e indolore ammonterebbe a circa 5 mila euro, che, secondo l’azienda sanitaria regionale, dovrebbe essere a carico dello stesso Mario. Sul punto, grazie al cielo, il ministro della Salute Roberto Speranza ha dichiarato che “non è ipotizzabile che i costi” ricadano sul paziente (La Stampa). Tutto questo accade nonostante che la sentenza della Corte Costituzionale del 22 novembre del 2019 abbia previsto la possibilità del suicidio assistito, indicando circostanze e condizioni che lo consentono e sollecitando il Parlamento a legiferare in materia. Ciò non è accaduto e, in assenza di una legge, quella della sedazione profonda resta l’unica strada. Ma essa può rivelarsi - come ha detto ancora Risoldi a proposito della morte del marito - una “inutile tortura”, che ha protratto il dolore per tre giorni e mezzo. Ecco, il dolore è il Grande Rimosso di queste vicende. Sembra persistere nella mentalità collettiva, in certi settori della cultura nazionale e in una parte della classe medica l’idea che la sofferenza fisica sia una componente “necessaria” della malattia, un effetto collaterale ineludibile: e non una vera e propria patologia distinta che, come tale, va considerata e contrastata secondo precisi protocolli ed efficaci terapie. Non dico che il dolore sia considerato tuttora come una forma di espiazione e una via per l’ascesi, secondo una cupa concezione religioso-penitenziale, ma è altrettanto vero che non lo si tratta come una specifica patologia invalidante da affrontare prioritariamente per rendere dignità al corpo che decade o per porre fine alla sua agonia. Ne è una conferma lo stato assai arretrato delle cure palliative in Italia e la carenza di strutture per i malati terminali. Intanto, sul piano politico, è possibile, se non probabile, che anche l’attuale legislatura si concluda senza che venga approvato un provvedimento sul suicidio assistito: e ciò in spregio non solo della pronunzia della Corte costituzionale, ma anche di un chiaro orientamento della opinione pubblica che, secondo rilevazioni attendibili, risulta maggioritariamente favorevole. A cosa si deve questa indifferenza, così simile alla diserzione, di grandissima parte della classe politica? I motivi in genere citati ricorrono a un linguaggio futile-mondano che vorrebbe essere solenne: quelle tematiche (il fine vita così come l’aborto e il matrimonio omosessuale) sarebbero “divisive” in quanto rimanderebbero a “questioni eticamente sensibili”. È vero, si tratta di problematiche che interpellano la coscienza di ognuno, ma - ancor prima - di fondamentali diritti civili. E sono questi ultimi a essere disattesi e negati dalla pavidità del ceto politico che tradisce un acuto deficit culturale. Emerge nitidamente che il legislatore, nella sua grande maggioranza, ritiene che non si tratti di questioni politiche, quasi che la politica fosse essenzialmente economia e socialità. Ma cosa c’è di più politico del dolore delle persone quando quel dolore potrebbe essere sedato, lenito o limitato da adeguate scelte mediche? Cosa c’è di più politico - nel senso di bene comune come incontro di molti beni individuali - del consentire l’autodeterminazione dei cittadini in quella fase cruciale della loro esistenza, quando è in corso un processo di degradazione del fisico e della psiche? Cosa c’è di più politico del dare sollievo alla sofferenza terminale, dell’assecondare il ritorno alla “casa del padre”, del consolare chi sopravvive, evitando lo strazio di quella “inutile tortura”? Suicidio assistito, la Puglia propone una legge regionale di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 giugno 2022 In attesa che si sblocchi il testo sul fine vita arenatosi al Senato, alcuni consiglieri tentano di “normare il nuovo servizio sanitario”. Il dem Amati: “Abbiamo il dovere di rispettare la sentenza della Consulta”. Il giorno dopo della morte di Fabio Ridolfi, il 46enne tetraplegico di Fermignano (Pesaro-Urbino) che ha deciso di ricorrere alla sedazione profonda e continua e ha revocato il consenso alla nutrizione e alla idratazione artificiali, non riuscendo ad ottenere dalla Regione Marche l’accesso al suicidio assistito a cui pure aveva il riconosciuto diritto, arriva dal Consiglio regionale della Puglia la proposta di una legge regionale che norma l’”Assistenza sanitaria per la morte serena e indolore di pazienti terminali”. La proposta, avanzata per primo dal presidente della commissione Bilancio della Regione, l’avvocato Fabiano Amati (Pd), intende “organizzare il servizio sanitario pugliese” per fare fronte ad eventuali richieste simili a quella di Fabio Ridolfi, ed “eliminare ogni dubbio di tipo interpretativo sulla sentenza della Corte costituzionale 249 del 2009” (Cappato/Dj Fabo) che ha depenalizzato l’aiuto medico al suicidio e ha indicato la via per garantire un tale servizio pubblico in attesa di una legge ad hoc. Che nel frattempo si è però arenata al Senato. “La possibilità di una morte dolce e serena per malati terminali si può garantire anche con legge regionale”, afferma il consigliere Amati. Perché, argomenta con il manifesto, il pronunciamento della Consulta del 2019 - che ribadisce concetti espressi già nell’ordinanza del 2018 che avvertiva il legislatore nazionale del diritto costituzionale negato - “è autoesecutivo”. Quella decisione “aggiunge una “nuova prestazione” assistenziale a carico del Servizio sanitario nazionale pubblico”. Il quale “ha il dovere di prestare l’assistenza e l’aiuto necessari per malati terminali o cronici alle condizioni elencate dalla Corte costituzionale”, puntualizza Amati che si definisce “credente” ma fermamente convinto che “chi legifera non può pensare a sé o alla sua opinione ma alla libertà che la sua legge realizza per gli altri”. Fabio Ridolfi, per esempio, completamente immobilizzato da 18 anni per una tetraparesi, “dopo una lunghissima attesa - come spiega l’associazione Luca Coscioni che lo ha assistito legalmente - il 19 maggio scorso aveva ottenuto il via libera dal Comitato etico delle Marche che aveva verificato la sussistenza dei requisiti ma non aveva indicato le modalità né il farmaco che Fabio avrebbe potuto auto somministrarsi”. L’uomo non poteva più attendere perché il dolore fisico e psichico si era fatto insopportabile, e alla fine ha rinunciato alla sua battaglia civile e ha scelto di morire nel modo che avrebbe voluto evitare per non protrarre la sofferenza dei suoi cari. Nella regione che ha per assessore alla Sanità il leghista Filippo Saltamartini, l’accesso al diritto sancito dalla Consulta è ostacolato, come dimostrano i tre casi arrivati alle cronache (“Antonio” e “Mario”, prima di Ridolfi). “L’azione della Regione Marche non è legittima - afferma il consigliere pugliese Amati - perché le Regioni, che possono essere concorrenti in materia dei principi costituzionali inderogabili, sono i gestori delle strutture sanitarie e hanno perciò il dovere di eseguire le disposizioni statali derivanti dalla sentenza della Consulta. Una legge regionale non può certo andare oltre i limiti imposti dalla Corte, come può fare invece il legislatore nazionale, ma può regolarizzare l’organizzazione del “nuovo” servizio”. Non la pensa così il deputato M5S Nicola Provenza che insieme al dem Alfredo Bazoli è stato relatore del testo di legge sul fine vita (“sottodimensionato” rispetto alle indicazioni della Consulta) licenziato dalla Camera l’11 marzo e attualmente in stand by al Senato: “Non vorrei rivedere ciò che abbiamo vissuto durante l’emergenza pandemica, con 21 sistemi sanitari regionali che agivano in modo differente e autonomo”. Se la proposta dei consiglieri regionali pugliesi, Amati ed altri, “è un monito per rendere celere il percorso della legge che attende in Senato o vuole essere uno sprone per sollecitare chi, come le Marche, non si sta attenendo alle disposizioni della Consulta, allora ben venga. Ma - aggiunge Provenza - affinché si possa concludere l’iter del ddl, e come abbiamo sempre sostenuto, non bisogna strumentalizzare l’argomento con posizioni di parte. Il tema non va ideologizzato e non va innalzato il livello di conflittualità. Perché l’Italia deve dotarsi di una legge sul fine vita e casi come quelli di Fabio Ridolfi non devono più ripetersi. È una questione di civiltà. Di fronte a scelte che interrogano le nostre coscienze, dobbiamo garantire a tutti il diritto di poter compiere una scelta di dignità”. La solitudine di Cloe Bianco, la prof transgender che si è uccisa dando fuoco al suo camper di Enrico Ferro La Repubblica, 15 giugno 2022 La docente era stata allontanata dall’insegnamento. Lavorava nelle segreterie scolastiche e viveva nella “piccola casa a quattro ruote”. Sul blog l’annuncio del suicidio: “Così termina tutto ciò che mi riguarda”. L’avvocata: “In Veneto mancano tutele per le persone transessuali”. Lo scheletro di un camper divorato dal fuoco in mezzo a un bosco tra Auronzo e Misurina, con all’interno un cadavere carbonizzato. È stato scoperto l’11 giugno scorso in provincia di Belluno e quella che si cela dietro quei rottami è una storia di sofferenza che nessuno ha saputo intercettare, capire, risolvere. Una storia che comincia nel 2015, nel giorno in cui Luca Bianco, insegnante di laboratorio dell’istituto Scarpa di San Donà di Piave, si presenta ai suoi studenti vestito da donna e dice: “Buongiorno a tutti, da oggi sono Cloe”. Sette anni dopo, cercando attraverso i rottami di un incendio misterioso, si inciampa sul dramma di una persona che prima di morire ha scritto questo: “Il possibile d’una donna brutta è talmente stringente da far mancare il fiato, da togliere quasi tutta la vitalità. Si tratta d’esistere sempre sommessamente, nella penombra. In punta di piedi, sempre ai bordi della periferia sociale, dov’è difficile guardare in faccia la realtà. Io sono brutta, decisamente brutta, sono una donna transgenere. Sono un’offesa al mio genere, un’offesa al genere femminile. Non faccio neppure pietà, neppure questo”. Non è stato un incidente, quindi, la morte di Cloe Bianco, 58 anni, di Marcon (Venezia) trovata carbonizzata all’interno del suo camper chiamato “la piccola casa a quattro ruote”. Cloe si è uccisa e, prima di farlo, lo ha annunciato in un post nel suo blog dedicato alle persone transgender. Nello stesso post allega copia del testamento biologico e di quello olografo, documenti che spiega di avere lasciato accanto al suo corpo assieme al libro che aveva scritto sulla sua esperienza e sulla decisione di diventare Cloe. Una decisione che le era costata la sospensione dal lavoro di tre giorni, oltre all’allontanamento definitivo dall’insegnamento. Per lei, da quel momento in poi, solo posti di lavoro nelle segreterie di vari istituti della provincia veneziana. “Oggi la mia libera morte, così termina tutto ciò che mi riguarda”, è il titolo del post in cui ha annunciato di togliersi la vita. “In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono” scrive sempre Cloe. “Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica... Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto”. Le indagini sono state affidate ai carabinieri di Auronzo, che sono arrivati a Luca Bianco controllando l’intestatario del mezzo bruciato. L’esito del Dna darà la certezza, anche se già oggi non ci sono più dubbi sull’identità di quel corpo distrutto dal fuoco. “In Veneto mancano le tutele per le persone transessuali e la vicenda di Cloe, lasciata sola dalle istituzioni e dalla Regione di Luca Zaia, lo dimostra”, dice alla Nuova Venezia l’avvocata transgender Alessandra Gracis, 64 anni, di Conegliano. “Purtroppo, per quanto riguarda la cura delle persone affette dalla disforia di genere, siamo all’anno zero. Il vero problema è che nel Veneto, nonostante le promesse di Zaia e i suoi obiettivi o tentativi di dar voce a un centro regionale che affronti questa tematica a fianco delle famiglie, non è stato fatto nulla. La legge regionale 22 del 1993 c’è, per tutta l’assistenza necessaria. È rimasta però una lettera morta, dato che la giunta avrebbe dovuto individuare i centri entro 30 giorni. Di giorni ne sono passati oltre 10 mila, senza i necessari adempimenti. Ora siamo davanti al suicidio di una persona transessuale”. Gran Bretagna. La Corte suprema conferma le deportazioni di migranti in Ruanda di Leonardo Clausi Il Manifesto, 15 giugno 2022 La ministra dell’Interno, Priti Patel, l’ha avuta vinta. Il primo volo per (de)portare in Ruanda i migranti che approdano illegalmente in Gran Bretagna potrà andare avanti come se nulla fosse la prossima settimana. 31 persone dovranno salire a bordo del primo volo già martedì: è il verdetto della Corte suprema di Londra pronunciato venerdì, dopo che il giudice Jonathan Swift (!) aveva respinto i tentativi degli attivisti di ottenere un’ingiunzione che lo fermasse. Nella generale indignazione dei gruppi per i diritti umani e dei parlamentari dell’opposizione che avevano intentato l’azione legale, fino a 130 persone sono state informate che potrebbero essere inviate nel paese centroafricano per l’”elaborazione delle richieste d’asilo”, con il ministero dell’Interno che prevede di programmare altri voli nell’anno corrente. La corte ha poi concesso ai gruppi per i diritti umani il permesso di impugnare la decisione. Lunedì è previsto un appello. Motivando un verdetto che va ben al di là delle satire cui è dovuta la celebrità del suo omonimo, il giudice Swift ha affermato che alcuni dei rischi che corrono i richiedenti asilo espulsi sarebbero minimi e, letteralmente, “nel dominio della speculazione”. Ha detto, inoltre, che sussiste un “interesse pubblico materiale” nel consentire mano libera al ministero. Questa policy, che gli attivisti hanno definito un “progetto neocoloniale di “denaro in cambio di esseri umani”, sarà sottoposta a una revisione giudiziaria completa il prossimo mese. Ancora venerdì, l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati aveva fatto un intervento in extremis per cercare di bloccare l’operazione. Secondo l’Unhcr, Patel aveva ingannato i rifugiati assicurando loro che l’organizzazione era favorevole al piano. L’agenzia aveva ha affermato che il programma non soddisfa gli standard richiesti di “legalità e adeguatezza” per il trasferimento di richiedenti asilo da un paese all’altro. Più di 90 personaggi pubblici - tra cui il frontman dei Cure Robert Smith, l’ex calciatore Gary Lineker e l’artista Tracey Emin - avevano scritto pubblicamente a Titan Airways, Privilege Style e Iberojet, compagnie aeree note per aver collaborato in precedenza con il ministero degli Interni sui voli di espulsione, esortandole a non prestarsi. La compagnia Air Tanker, che aveva in precedenza effettuato voli del genere, si è sfilata dopo le proteste. Perfino il futuro re Charles avrebbe definito privatamente, secondo il Times, la politica del governo “orrida”: sa che fare le veci della monarca alla riunione dei capi di governo del Commonwealth in Ruanda - in visita ufficiale alla fine del mese - sarà quantomeno imbarazzante. Fonti ufficiali si sono affrettate a insistere che l’erede al trono rimane “politicamente neutrale”, come mamma sua. Mentre il Labour di Keir Starmer, invece di condannare le pratiche totalitarie di Johnson & Co., si affanna a ribadire la contrarietà del partito agli sbarchi, parlando di collaborazione con le autorità francesi come possibile soluzione al problema. Dal punto di vista politico, questi scellerati piani di offshoring - il trattare i migranti da capitali, fabbriche o rifiuti - sono carne cruda per il pitbull xenofobo che sostiene, a Westminster e fuori, il governo e che - dopo la smilza fiducia nella propria leadership, ottenuta da Boris Johnson pochi giorni fa - lo tiene sostanzialmente tra le fauci. Ma sono anche un familiare rimando a consolidate pratiche di traslazione della manodopera di milioni di persone da un canto all’altro dell’impero dopo l’abolizione della schiavitù. “La Francia respinge donne e bambini migranti”, la denuncia di Medu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2022 Arrivano traumatizzati dalle guerre, con arti amputati e, anche alcuni minori, vittime di violenze sessuali. Molti di loro vengono reclusi in container senza nessuna garanzia per il rispetto dei loro diritti, altri vengono respinti e non mancano le morti. Parliamo dei respingimenti dei migranti che avvengono al confine tra Italia e Francia. Nei primi quattro mesi dell’anno, il team di Medici per i diritti umani (Medu) a Oulx ha registrato 1814 arrivi al rifugio Fraternità Massi, tra cui 66 famiglie e 132 minori stranieri non accompagnati. Parliamo di un nuovo report redatto da Medu dopo aver avviato, dall’inizio dell’anno, nella cittadina di Oulx, in Alta Val di Susa, il progetto Frontiere Solidali per fornire assistenza medica alle migliaia di persone che ogni anno attraversano la frontiera alpina nord- occidentale per raggiungere la Francia. La militarizzazione della frontiera francese e il timore dei transitanti di rimanere intrappolati a causa della difficoltà degli spostamenti continuano a causare tragedie durante l’attraversamento: l’anno 2022 è iniziato con due incidenti mortali sulle Alpi, entrambi nel mese di gennaio: Fathallah Blafhail, 32 anni di origine marocchina, annegato nella diga del Freney nei pressi di Modane e Ullah Rezwan Sheyzad, 15 anni di origine afghana, stritolato sotto le rotaie del treno. Nei primi quattro mesi di intervento (gennaio-aprile 2022) il team multidisciplinare di Medu ha operato quattro giorni a settimana presso un ambulatorio messo a disposizione dall’associazione Rainbow for Africa all’interno del Rifugio Fraternità Massi, gestito dalla cooperativa Talità Kum. Nei quattro mesi presi in considerazione dal report, si sono registrati 1814 arrivi - tra cui 66 famiglie e 132 minori stranieri non accompagnati (Msna). Sono state 1.079 le persone che hanno avuto accesso ad uno screening sanitario e di queste 320 sono state visitate in maniera più approfondita dal team di Medu. Le principali criticità sono le violazioni dei diritti sulla frontiera italo - francese. A livello europeo, il diritto alla circolazione è sancito dal Codice frontiere Schengen (Cfs), in particolare nel suo articolo 22: “Le frontiere interne possono essere attraversate in qualsiasi luogo senza che siano effettuati controlli di frontiera sulle persone, qualunque sia la loro nazionalità”. Il ripristino dei controlli alle frontiere interne è consentito solo in circostanze eccezionali e, ad ogni modo, per una durata inferiore ai 2 anni. In Francia i controlli persistono da quasi sette anni. A partire dal 2015, in occasione della Cop21, le autorità francesi hanno ripristinato i controlli alle frontiere giustificandone poi l’estensione per la lotta al terrorismo e infine per questioni legate alla pandemia. Come emerge dai dati ricavati da Medu relativi ai passaggi e ai respingimenti sul confine, è evidente che i refus d’entrée (respingimenti) da parte della Francia avvengano in maniera sistematica, nonostante la non ammissibilità sia prevista solo nel caso in cui la persona non soddisfi le condizioni per l’ingresso nel territorio Schengen e/ o francese. Solo in questo caso può essere notificato un refus d’entrée, fatta comunque eccezione per il caso in cui la persona chieda asilo alla Francia. Pertanto, qualsiasi rifiuto di ingresso di una persona richiedente asilo costituisce una violazione al diritto di asilo e di libera circolazione. Queste violazioni invece vengono commesse senza distinzione alcuna, al punto che, negli ultimi mesi, a seguito del conflitto in Ucraina, sono stati respinti dalla Francia anche alcuni stranieri che soggiornavano nel Paese con un regolare visto di studio. Per quanto riguarda invece i minorenni, poiché l’obbligo di possedere un visto è richiesto solo per “qualsiasi straniero di età superiore ai diciotto anni che desideri soggiornare in Francia per un periodo superiore a tre mesi” (art. L. 312- 5 del Code de l’Entrée et du Séjour des Étrangers et du Droit de Asile - Ceseda), nessuno di loro può essere considerato “irregolare” e la polizia di frontiera francese dovrebbe garantire loro protezione e tutela. Anche in questo caso però le violazioni sono molto frequenti e, se trovati lungo i sentieri, anche i minori non accompagnati vengono respinti, esattamente come gli adulti. Se si presentano direttamente in frontiera, la Paf (Police aux frontieres) non sempre raccoglie le loro dichiarazioni di minore età e si limita a rimandarli indietro. Il team di Medu ha raccolto diverse testimonianze di respingimenti in cui, in assenza di documenti identificativi, non è stata presa in considerazione la dichiarazione di minore età espressa dal minore e sul refus d’entrée è stata apposta una diversa data di nascita che lo identificava come maggiorenne. Le altre criticità che emergono dal rapporto Medu sono la presenza di numerose famiglie, di neonati, di persone anziane, di minori non accompagnati e di uomini e donne vulnerati nel corpo e nella mente rappresenta un ulteriore elemento di criticità (oltre che di offesa umanità), soprattutto se si pensa che il loro unico e inderogabile obiettivo è quello di attraversare il confine. Non sono poi mancati casi di bambini che hanno subito incidenti o sono rimasti traumatizzati per le violenze subite. Secondo il rapporto di Medu, tra i minori vi sono poi casi di violenza sessuale sofferta: non è facile documentarla, ma sulla base di testimonianze raccolte in Bosnia e Serbia sembra sia un fenomeno ricorrente. La presenza di donne incinta è una costante, nel solo mese di aprile ne sono arrivate sei e diverse altre con altri figli da accudire. Nonostante la gravidanza, non v’è impedimento che induca a desistere dalle partenze. Tuttavia, mantenendo uno spazio medico di ascolto femminile, Medu ha potuto compiere diagnosi, limitare i rischi, ricorrere a terapie temporanee ma utili per affrontare il cammino in montagna. Per molti il degrado esistenziale, le condizioni di promiscuità e mancanza di igiene comportano anche parassitosi, infezioni alla pelle e scabbia. Altrettanti denunciano con pudore e rabbia le violenze subite: il taglio delle dita in Afghanistan, la perdita di una mano, fratture non ricomposte per le percosse in Turchia, dolori al busto per i maltrattamenti in Bielorussia, difficoltà nella deambulazione per la violenza della polizia croata, piaghe, cicatrici e ustioni per gli abusi in Libia. Si tratta di casi documentati nei primi mesi del 2022 e di cui, per ovvi motivi, Medu mantiene l’anonimato nel report. Russia. Navalny sparito. È in un carcere duro di Roberto Fabbri Il Giornale, 15 giugno 2022 Si teme sia finito nella prigione di massima sicurezza di Melekhovo. Mentre in Ucraina fa tuonare i suoi cannoni, Vladimir Putin non interrompe l’altra sua guerra, quella condotta sul fronte interno contro chi si azzarda a portare avanti un’opposizione politica contro di lui. Il suo unico vero avversario, il solo che Putin veramente teme per la sua capacità (peraltro relativa) di mobilitare l’opinione pubblica russa contro le “verità” spacciate dal regime, è com’è noto Aleksei Navalny. Ebbene, l’ultima notizia che riguarda questo fiero oppositore è piuttosto inquietante: Navalny è sparito, non solo non si trova più nel penitenziario di Pokrov dove era stato detenuto dal gennaio dello scorso anno, ma nessuno ha fornito spiegazioni su dove sia stato trasferito. Il timore dei suoi familiari e dei suoi sostenitori è che sia stato inviato nel campo di Melekhovo, temuto e famigerato in quanto luogo di detenzione di pericolosi criminali e teatro di brutalità e violenze. Ieri Navalny non si è presentato al previsto incontro con i suoi avvocati. I legali sono stati fatti attendere per ore, poi come ha riferito la portavoce dell’uomo politico, Kira Yarmish - è stato loro burocraticamente comunicato che nella colonia penale non era presente alcun detenuto di nome Navalny. Nessun’altra informazione è stata fornita: “Non sappiamo dove si trovi ha detto semplicemente Yarmish in quale luogo di detenzione sia finito”. Questo “trattamento speciale” fa seguito a una lunga sequenza di persecuzioni ai danni di Navalny, cominciate ben prima del suo imprudente ritorno in patria nel gennaio 2021 al termine di mesi di soggiorno in Germania per curarsi dopo l’avvelenamento a mezzo dell’agente nervino Novichok subito a bordo di un aereo in Russia nell’agosto 2020. Al suo arrivo in volo all’aeroporto moscovita di Sheremetievo, Navalny era stato immediatamente arrestato con il pretesto della sua mancata presentazione in tribunale nel periodo in cui era in cura in Germania. Da allora, non è più uscito di prigione: una serie di processi basati su accuse di palese origine politica gli sono costati una condanna detentiva via l’altra, in un crescendo culminato poche settimane fa con un prolungamento di ben 9 anni della sua pena detentiva per “appropriazione indebita di donazioni versate alle sue organizzazioni che combattono la corruzione”. In precedenza, la sua pena originaria di circa tre anni era già stata prolungata sotto l’accusa di “aver creato un gruppo estremista allo scopo di alimentare l’odio contro funzionari e oligarchi”. A quel punto, era stato lo stesso Navalny a far sapere che si aspettava di essere destinato entro breve al trasferimento a Melekhovo, ufficialmente definito “a regime severo”. Con il suo ben conosciuto atteggiamento di sfida, il mancato rivale politico di Putin (che ha sempre fatto in modo di evitare un normale confronto democratico con lui e il suo movimento) aveva detto di sapere che in quella colonia penale i carcerieri torturano i detenuti strappando loro le unghie, e aveva promesso di cogliere l’occasione per dipingerle con decorazioni alla moda. L’etichetta di “estremista” affibbiata sia alla rete degli uffici regionali del movimento di Navalny sia alla sua Fondazione Anticorruzione ha lo scopo di rendere illegale la loro attività di opposizione e di poter perseguitare legalmente chi vi lavora. Navalny non ha mai usato un linguaggio misurato nei confronti di Putin, che denuncia regolarmente come ladro e corrotto, anche attraverso la diffusione di filmati visti online da milioni di persone in Russia che mostrano il lusso di cui il leader del Cremlino si circonda nelle sue residenze segrete. Afghanistan. I taleban puntano sul mercato della droga per trainare l’economia di Emanuele Bonini La Stampa, 15 giugno 2022 Tornano i signori della guerra, e con loro torna il mercato della droga. I taleban, che hanno ripreso il contro dell’Afghanistan dopo la ritirata anche precipitosa delle forze occidentali, sembrano voler puntare sulle piantagioni di papaveri per trainare l’economia nazionale, con tutto ciò che ne deriva per il mercato mondiale di sostanze stupefacenti e loro consumo, anche in Europa. L’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda) lancia l’allarme nel consueto rapporto annuale sulle dinamiche e le tendenze di un commercio mai in crisi e anzi sempre fiorente. Con l’offerta afghana che può giocare un ruolo non indifferente. La relazione dell’organismo europeo evidenza diversi fattori di preoccupazione. La ripresa della domanda dopo la pandemia e i confinamenti, una domanda forte di cocaina, la comparsa di droghe tutte nuove, al ritmo di “una alla settimana, ponendo così una sfida per la salute pubblica”. Nel 2021 sono state segnalate per la prima volta 52 nuove sostanze psicoattive (Nps), portando a 880 il numero totale di nuovi prodotti monitorati dall’Emcdda. Ma c’è anche un altro campanello d’allarme, che merita un paragrafo a parte. “Nonostante il divieto imposto dai talebani nel 2022 alla produzione, alla vendita e al traffico di sostanze illecite in Afghanistan, la coltivazione del papavero sembra proseguire”. Dal papavero si producono oppio e derivati, e in chiave comunitaria la situazione non va presa sottogamba, visto che nel 2020, con l’Afghanistan strappata al controllo dei signori della guerra e il mercato della droga fermo, è stato stimato un milione di consumatori ad alto rischio di oppiacei nell’Ue. Sempre nel 2020 l’Osservatorio stima che gli oppiacei siano stati tra le cause dei 5.800 decessi nell’Ue per overdose di sostanze illecite. Considerata la debole economia afghana, l’Emcdda ritiene che “gli attuali problemi finanziari del Paese potrebbero rendere le entrate derivanti dalle droghe una fonte di reddito più importante, che potrebbe portare a un aumento del traffico di eroina verso l’Europa”. L’Afghanistan dei taleban dunque potrebbe fare delle piantagioni di papaveri la principale forma di sostegno al Pil nazionale. A detta degli esperti dell’Osservatorio anche più di una mera ipotesi, dato che in Afghanistan “recentemente è stata registrata anche una produzione su larga scala di metamfetamina basata sull’efedra”, altra pianta utilizzata per la produzione di sostanze stupefacenti per via dell’efedrina contenuta al proprio interno. Il rapporto 2022 quindi non può fare a meno di chiedere se “l’Europa diventerà un mercato di consumo per la metamfetamina prodotta in Afghanistan”, invitando Stati membri e istituzioni Ue ad agire sin da subito. Data l’Afghanistan del nuovo corso, “sarà necessario un monitoraggio mirato della situazione per orientare le politiche e le risposte”.