Ancora morti in cella: l’assistenza sanitaria è una corsa a ostacoli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2022 Si continua a morire in carcere di suicidio, incuria, di malattia e abbandono. L’ultimo, stroncato da un infarto, è morto nel carcere di Poggioreale. Aveva 47 anni ed era senza fissa dimora. Ma non è l’unico caso riguardante una persona che appartiene a una minorità sociale, ovvero povera. Molti di loro, per via delle pene breve, avrebbero diritto a una misura alternativa, ma non hanno gli strumenti per accedervi e, in mancanza di domicilio, il magistrato non può concederla. A questo si aggiunge l’insostenibile tutela della salute in carcere. Sempre a Poggioreale, a maggio, è morto per infarto un sovrintendente - È stato il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, a dare la notizia del decesso. Si chiamava Sinka Sada. Il quarantasettenne, intorno all’una di venerdì notte, avrebbe avvertito un dolore toracico e addominale, una forte sudorazione e un senso di nausea. Per lui è stato subito richiesto l’intervento del 118, che lo ha trasportato d’urgenza in ospedale, dove poi è deceduto intorno alle 5. La causa della morte sarebbe, appunto, un infarto fulminante. “Il detenuto deceduto era un senza fissa dimora - racconta il garante Ciambriello -, non aveva parenti e non faceva colloqui da tempo con nessuno. Nell’ultimo incontro avuto con il suo legale era sereno e tranquillo e non le avrebbe lamentato alcun problema di salute”. Sempre a Poggioreale c’è stato il rischio che ne morissero altri due. Il garante regionale rivela che nelle ultime settimane altri due detenuti del carcere napoletano, uno dei quali di 72anni, hanno rischiato di morire per arresto cardiocircolatorio. Il più anziano versa ancora in condizioni precarie di salute ed è ricoverato in ospedale. Sempre a Poggioreale, nel mese di maggio, è deceduto per infarto un sovrintendente della polizia penitenziaria. Il Garante Ciambriello: “due detenuti su tre hanno seri problemi di salute” - In molte circostanze, a poco serve il pronto intervento dei medici e degli agenti. “Per questo - denuncia Ciambriello - invoco un’inversione di tendenza: due detenuti su tre hanno seri problemi di salute (48% malattie infettive, 32% disturbi psichiatrici, 20% malattie cardiovascolari), quindi per loro e per gli anziani devono essere applicate misure alternative alla detenzione in carcere; bisogna potenziare l’area penale esterna, concedere maggiormente i permessi premio. È chiaro che, affinché tutto questo si realizzi, è necessario incrementare il personale del Tribunale di Sorveglianza e gli stessi magistrati di sorveglianza, in carenza organica e gravati di moltissime richieste”. Per chi è dietro le sbarre serve un sistema di assistenza sanitaria adeguato - Il carcere non può essere l’unica risposta. Il carcere è extrema ratio. Per coloro che sono dietro le sbarre, però, deve essere pensato un sistema di assistenza sanitaria adeguato. Due cose il garante Ciambriello reclama negli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano: manca il medico h24 in ogni reparto, gli ambienti in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento, questo specialmente a Poggioreale, sono angusti. “Si trovano a vivere in camere di pernottamento non ariose - denuncia sempre il garante -, non possono usufruire più volte al giorno della doccia e questo, specie nella stagione più calda, può provocare dei disagi e malori. Non è possibile che ci siano, nelle carceri, così pochi medici generici e specialistici e manchino quasi completamente attrezzature di diagnostica, che consentirebbero ai detenuti di potersi sottoporre a visite più accurate, quindi avere prima una diagnosi, senza dover attendere tempi lunghissimi”. Antigone: “Molti lamentano difficoltà di accesso alle cure” - Il Garante Ciambriello si augura che questa ennesima morte sensibilizzi le istituzioni. Si augura soprattutto che l’Asl di Napoli 1 quanto prima provveda ad assumere medici generi e specialistici, infermieri e Oss, nonché acquistare attrezzature specialistiche da destinare all’interno delle carceri. La sanità in carcere è oggetto di attenzione ormai da tempo, basti pensare al 18esimo rapporto di Antigone dove rivela che, nell’ambito delle sue attività, al Difensore Civico dell’associazione capita di frequente di imbattersi nelle storie di coloro che lamentano difficoltà di accesso alle cure. Gli ostacoli incontrati dai detenuti iniziano spesso a monte di tutto il processo che potrebbe aiutarli a ricevere diagnosi tempestive e adeguate. Spesso, infatti, coloro che prendono contatti con il Difensore richiedono supporto nell’ottenere il rilascio della cartella clinica necessaria per valutare la condizione di salute complessiva in cui versano e cercare di comprendere la tipologia di intervento più adeguata. Già sotto questo profilo - si legge nel rapporto di Antigone - non mancano problematiche e difficoltà di accesso, nonostante ottenerne copia sia un diritto del soggetto detenuto che la richiede, come sancito dalla Circolare dell’ 11 giugno 2003 n. 1907, Direzione Generale Detenuti e Trattamento. La necessità di ricevere prontamente copia della cartella clinica è spesso connessa alla volontà di sottoporre il proprio quadro clinico a un medico di fiducia, come previsto dall’art. 11 dell’ordinamento penitenziario, al fine di arginare le difficoltà di accesso alle cure nell’attesa di un intervento dell’amministrazione penitenziaria. Tale esigenza, tuttavia, si scontra con la carenza di personale e con il fatto che il suddetto rilascio ha un costo parametrato alla consistenza della cartella stessa: chi presenta una storia clinica particolarmente articolata, da cui deriva una cartella di dimensioni consistenti, si trova a pagare prezzi elevati cui non tutti riescono ad avere accesso. Antigone osserva che il costo è pari in media a 0,30- 0,50 euro a pagina. Ancora una volta, a rimetterci sono i detenuti meno abbienti, soprattutto quelli senza famiglia. Il supporto del difensore civico di Antigone ha migliorato la situazione - Sotto tale profilo, il Difensore civico interviene con diverse modalità. Si può concretizzare un supporto nella redazione dell’istanza volta a ottenere tale documentazione, che poi il detenuto stesso firmerà e rivolgerà alla Direzione e, ove sia trascorso un consistente lasso di tempo in assenza di risposte dall’amministrazione, tramite solleciti alla Direzione stessa. Una volta ottenuta la cartella clinica, la stessa viene sottoposta all’analisi dei medici volontari che collaborano ormai attivamente con il Difensore Civico. Il loro intervento consente di ottenere una valutazione clinica delle patologie che i detenuti si trovano ad affrontare e fornisce un supporto fondamentale per motivare le eventuali richieste di intervento da rivolgere all’amministrazione. Il supporto offerto dallo staff medico del Difensore Civico ha consentito di migliorare la qualità dei suoi interventi, seppur non bisogna dimenticare che si tratta di volontari che offrono un supporto che di certo non si può sostituire a interventi attivi nel sistema. La collaborazione tra volontari con formazioni e conoscenze diverse, su cui si regge il lavoro del Difensore Civico, consente di migliorare l’attività svolta ma mette anche in luce come, per ottenere un risultato che sia significativo per i detenuti, le carenze e debolezze del sistema penitenziario debbano essere considerate e affrontate nella loro globalità, coinvolgendo aree di competenza differenti. Non appena completata la valutazione medica, i volontari incaricati di seguire il caso si occupano di redigere segnalazioni e mediare con l’amministrazione al fine di sollecitare gli interventi sanitari e gli eventuali ulteriori accertamenti necessari tramite la programmazione delle visite del caso. Tutto bene? No. Ancora una volta ci si scontra drammaticamente con la carenza di personale che inevitabilmente rende questo passaggio accidentato e ben lontano dalla tempestività che si vuole sollecitare. Le Asl competenti faticano ad assecondare le molteplici richieste, si scontrano quotidianamente con ricambi frequenti di personale, arrancano nella ricerca di personale sanitario da adibire all’ambito penitenziario e chi ne paga le conseguenze sono sempre i detenuti che vedono programmare le proprie visite urgenti a distanza di 5- 6 mesi. Giustizia, le urne quasi vuote impegnano il Parlamento di Angelo Picariello Avvenire, 14 giugno 2022 Democrazia partecipativa, maneggiare con cura. È un monito inequivocabile quello che ci restituisce l’ultima consultazione referendaria sulla giustizia, in cui la affluenza si è attestata al 20,9%. Un dato, tutto sommato “nella tendenza di fondo di questo ultimo ventennio”, annota Sabino Cassese, che da ex giudice costituzionale aveva messo in gioco tutta la sua autorevolezza perché non andasse sprecata questa finestra di opportunità per sollecitare un’incisiva riforma in un settore nevralgico delle nostre istituzioni che ne ha molto bisogno. Matteo Salvini ringrazia i “dieci milioni di cittadini” che sono andati a votare. Matteo Renzi, che si era speso anche lui per il sì, si rivolge più specificamente ai “sette milioni” di votanti che si sono schierati, sia pur con alcune oscillazioni fra i vari quesiti, per l’accoglimento delle proposte. E tuttavia, per onestà, a dare la misura per intero del flop referendario il dato andrebbe decurtato dei votanti ai referendum nei Comuni chiamati alle urne. YouTrend rileva che a trascinare l’affluenza oltre il 20% ha contribuito in modo decisivo il fatto che nei Comuni chiamati al voto amministrativo a ritirare le schede referendarie è stato il 50,9% dei votanti, altrimenti il dato si sarebbe fermato al 14,7%, un vero record al ribasso. Ciò significa anche, però, che se si fosse votato per le Comunali in tutto il territorio nazionale un referendum verso il quale i cittadini hanno mostrato scarsissimo interesse avrebbe superato il quorum. Ma questo sarebbe avvenuto aggirando il requisito indicato dalla Costituzione, volto a validare la consultazione nel solo caso che la maggioranza degli elettori si rechi alle urne. Ora, tutto si può provare a modificare, o ad aggirare, ma le esperienze più recenti dovrebbero averci insegnato che il dettato costituzionale non si può cambiare pasticciando. Lo stesso Cassese nota che “nella prima parte della storia repubblicana la partecipazione ai referendum abrogativi ha oscillato fra il 43 e l’87%”. Ma se siamo arrivato al picco più basso del 14,7% (reale) una domanda bisogna porsela: non è che si sia abusato di questo istituto a rischio di snaturarlo? In una democrazia parlamentare come la nostra, consapevoli del fatto che una dittatura ha spesso avuto un periodo di incubazione in Parlamento, si è previsto questo istituto di fatto ‘anti-parlamentare’ - ricordano i giuristi - contro i rischi di deriva autoritaria, sempre possibile. A patto però di non usarlo in eccesso, e stavolta l’abuso ha assunto connotati ancor più marcati. Si era infatti nel pieno di un dibattito parlamentare, coordinato da una figura ‘terza’ autorevolissima come la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale, e tutti i partiti avevano dato il loro contributo, anche e soprattutto quelli che poi invece hanno scelto di cavalcare l’onda referendaria. E questo è avvenuto, perdipiù, facendo uso di un altro espediente, schierando un numero sufficiente di Regioni, tutte di una precisa parte politica, a sostegno dei quesiti. Tutto lecito, è vero, ma certo la titolarità riconosciuta a cinque Regioni, in alternativa a 500mila elettori, nelle intenzioni dei costituenti voleva essere una facoltà concessa alle istanze di una fetta importante del territorio e non a una parte politica che per esprimersi ha già il Parlamento come luogo per far valere le proprie ragioni. Ora, che la riforma della giustizia sia urgente ce lo ricorda l’intollerabile numero di cittadini in carcere, da presunti innocenti, non in virtù di una sentenza, ma in relazione a provvedimenti di custodia cautelare. Per questo le parti politiche, invece di eccitare le proprie tifoserie, avrebbero il dovere di muoversi in modo corale e senza altri indugi, per portare avanti una riforma seria, a partire da quella del Csm, più volte sollecitata dal capo dello Stato. E nel frattempo sarebbe doveroso mettere a disposizione, con il consenso di tutti, un serio piano di ammodernamento tecnologico dei Tribunali che avrebbe effetti immediati sulla lunghezza dei processi e sulla certezza del diritto in una giustizia è ancora ferma su questo piano, per precise colpe di (non) legislatori e (non) decisori, al secolo scorso. Csm, Cartabia pronta a resistere. Iv e Lega: “Testo da migliorare” di Simona Musco Il Dubbio, 14 giugno 2022 Oggi vertice di maggioranza, poi il voto degli emendamenti in Commissione. La ministra decisa a chiudere già mercoledì notte. Il governo ha le idee chiarissime: chiudere subito la riforma del Csm, possibilmente anche mercoledì notte. Ma sul voto sono ancora diverse le incognite, all’esito di una riunione - quella di ieri in Commissione giustizia - servita sostanzialmente per illustrare i 264 emendamenti depositati. Nessuna discussione, in un clima di “distrazione” legato anche allo spoglio per le amministrative, banco di prova per gli equilibri di coalizioni e partiti. Quel che è certo, allo stato attuale, è che Lega e Italia Viva non hanno intenzione di fare passi indietro sulle proprie battaglie. Ed è proprio per questo che 61 degli emendamenti presentati sono riconducibili al Carroccio, intenzionato a riproporre per altra via i temi referendari, mentre Italia Viva ne ha messi sul piatto circa 80, ribadendo il proprio giudizio sulla riforma già approvata alla Camera. Se gli emendamenti non dovessero passare - come appare probabile, non essendoci i numeri -, il gruppo di Matteo Renzi si asterrà dal voto così come fatto il 26 aprile scorso alla Camera. Ma il palcoscenico di Palazzo Madama rappresenterà una nuova occasione per il leader di Italia Viva per esporre il proprio punto di vista sulla giustizia e, in particolare, sulla magistratura, finita nel suo mirino ormai da tempo. Il mantra i due partiti ripetono è lo stesso: “Il testo deve migliorare”. Ma per chiarire la situazione toccherà attendere il vertice di maggioranza previsto questa mattina alle 10.30 in Senato, al quale parteciperanno i capigruppo, la guardasigilli e il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, per poi tornare in Commissione - che ha rinviato la prima convocazione delle 10 - alle 14.30. In quell’occasione si dovrebbe valutare il ritiro o meno degli emendamenti presentati. Ma sarà necessario attendere i pareri del ministero, che dovrebbero arrivare entro le 15.30. La tensione sul testo Cartabia, dopo il flop dei referendum, rimane dunque alta. “Noi gli emendamenti li abbiamo presentati - sottolinea laconico il senatore renziano Giuseppe Cucca - ora staremo a vedere che succede”. Mentre sul fronte leghista, l’intento sembra essere quello di attendere l’esito del voto di oggi per decidere quale atteggiamento assumere. “Questa riforma è nell’interesse di tutti, sarà un percorso più tortuoso ma si farà - ha affermato Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile Giustizia della Lega, commentando i risultati del referendum ai microfoni della Rai -. Quella della Cartabia non è una riforma, ma una correzione ad alcuni punti del sistema. È positiva ma è blanda e poco incisiva sul sistema. È una correzione, noi vogliamo renderla più incisiva, ha aspetti positivi ma va migliorata. Non aspettiamoci la rivoluzione, quella era possibile con il referendum e ora richiederà percorso più lungo”. Fonti leghiste non escludono né confermano che il Carroccio possa decidere di astenersi o addirittura votare contro il testo Cartabia in Senato. Ma tutto verrà deciso oggi, sulla base dei lavori della Commissione, con la prospettiva di riprendere la battaglia “per cambiare la giustizia” dopo “aver vinto le prossime elezioni Politiche”, recita una nota. “Grazie ai milioni di italiani che hanno votato per i referendum sulla giustizia: la loro voce è un impegno per tutti affinché si facciano vere e profonde riforme - fanno sapere dal Carroccio -. Meritano riconoscenza perché hanno scelto di esprimersi nonostante un vergognoso silenzio mediatico (a cominciare dalla tv di Stato), al caos in troppi seggi a partire dallo scandalo di Palermo, alla codardia di tanti politici. Grazie a chi ha informato e partecipato, ai governatori schierati in prima linea insieme ad amministratori locali - di tutti i colori politici - e a molti parlamentari. Il tutto senza dimenticare donne e uomini di legge, associazioni culturali e intellettuali”. La sensazione, in Commissione, è che però la Lega abbia accusato in maniera pesante il colpo inflitto alle urne. E questo potrebbe comunque rappresentare un vantaggio per la ministra Marta Cartabia, che dopo il differimento concesso in attesa del referendum proprio al Carroccio vuole chiudere la partita al massimo entro giovedì. Anche perché il Csm è in scadenza a luglio, e l’intento è quello di eleggere il nuovo consiglio con una nuova legge elettorale. È necessario dunque far approvare in tempi strettissimi la riforma e “il governo non ha intenzione di demordere sull’approvazione”, confida un senatore. Dalla sua parte la ministra ha senza ombra di dubbio il Pd, che ieri ha recitato il requiem per i referendum. “Il flop dei risultati è evidente - ha commentato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd. Chi ha provato a strumentalizzare la giustizia, ha perso. Avevamo ragione a dire che le riforme Cartabia rappresentano la strada giusta. Ora è necessario approvare subito la riforma del Consiglio superiore della magistratura”. Ma la discussione prosegue anche fuori dal Parlamento, dopo il commento del presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, che ha criticato “l’improvvisazione” con la quale è stata organizzata la campagna referendaria. Polemiche alle quali ha replicato il Movimento Forense, che ha auspicato un nuovo inizio nel segno dell’unità, con lo scopo di raggiungere gli obiettivi di giustizia giusta prefissati dai referendum. Unità che ha caratterizzato soprattutto l’avvocatura e che rappresenta “il vero punto di forza, dal quale ripartire con convinzione, soprattutto perché - ferma restando la doverosa valutazione sull’alto tasso di astensionismo - gli elettori si sono espressi per il “Sì”, con una significativa maggioranza - ha affermato il presidente Antonino La Lumia. Per questa ragione, da avvocati e da cittadini, non possiamo trovarci d’accordo con chi oggi, piuttosto che cogliere l’occasione per sottolineare l’opportunità di proseguire sulla linea dell’unità e della condivisione, ha preferito riproporre la solita filosofia associativa dell’esclusività - per non dire della primazia - delle proprie posizioni su alcune tematiche, legate principalmente al processo penale. Non è il momento dei distinguo, né tantomeno si può (continuare a) ritenere che determinate questioni riguardino soltanto una parte degli avvocati. Le vere battaglie di democrazia e di diritto si combattono, in ogni caso, per gettare il seme e per favorire la crescita della pianta: il percorso è iniziato e l’Avvocatura - nella sua dimensione unitaria - non deve certamente fermarsi, perché la libertà, quella senza finzioni, resta la più autentica chiave di volta”. Csm, la frustrazione dei leghisti sulla strada della riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 giugno 2022 Oggi vertice di maggioranza al Senato, il governo punta ad approvare velocemente la legge delega e senza modifiche. Sconfitta con il fallimento dei referendum quella parte della maggioranza che, in senato, si era messa di traverso alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario già approvata alla camera, il governo e soprattutto la ministra della giustizia Cartabia sperano di riuscire ad approvare definitivamente il testo della legge delega, rapidamente - entro la settimana - e senza modifiche. Ma devono verificare una preoccupazione: che la Lega (e con un peso assai minore Italia viva) invece che rassegnarsi possa trovare nella sconfitta motivi per insistere nella sua opposizione. L’appuntamento per verificare questi dubbi è già questa mattina, in un vertice di maggioranza con il governo. L’obiettivo della ministra e del responsabile per i rapporti con il parlamento D’Incà è confermare il calendario d’aula: il testo è atteso per l’ultimo passaggio domani pomeriggio e il programma è quello di chiudere giovedì - ma è probabile che ci sarà bisogno di qualche altro giorno. Tramontata la possibilità di approvare le nuove regole in tempo per andare alle elezioni del Csm nel rispetto della scadenza ordinaria - luglio - resta l’intenzione di convocare le urne per la componente togata a settembre, slittamento non particolarmente penalizzante dal momento che a settembre è prevista anche l’elezione, in parlamento, dei consiglieri laici. A convocare le elezioni dei togati sarà il presidente della Repubblica (presidente anche del Csm) che in ogni occasione - non ultima il discorso solenne al parlamento per il giuramento del secondo mandato - ha ribadito come sia fondamentale procedere al rinnovo del Consiglio con le nuove regole. Ma la Lega manda ancora segnali di battaglia. “La riforma Cartabia è solo una correzione di alcuni punti del sistema, una correzione positiva ma poco incisiva, blanda. Noi vogliamo renderla più incisiva e cercheremo di migliorarla”, dice la senatrice Bongiorno. Gli emendamenti la Lega li ha presentati tutti e subito dopo la riunione di maggioranza comincerà la maratona dei voti in commissione al senato. La linea di sostegno al testo Cartabia, un testo già di compromesso, la esprime invece la responsabile giustizia del Pd Rossomando: “Chi ha provato a strumentalizzare la giustizia ha perso, ora bisogna approvare presto la legge”. Bongiorno: “In linea con i referendum. Siamo pronti a votare tutti gli emendamenti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 14 giugno 2022 La riforma Cartabia è solo un restyling del sistema. Quella vera non può che essere costituzionale. L’intento è assicurare all’Italia una giustizia degna di uno Stato liberale. Fratelli d’Italia non ha appoggiato i referendum? Ciascuno ha dato il proprio contributo. “Siamo coerenti. Voteremo tutti gli emendamenti in linea con i referendum. I nostri e quelli degli altri partiti”. Giulia Bongiorno, penalista e responsabile Giustizia della Lega, ha sempre detto che “la via maestra per cambiare la giustizia erano i referendum”. Ora che è fallito non cambierete strada? Magari diminuendo il numero degli emendamenti? “Siete voi che lo chiamate flop”. Per voi è un successo? “Distinguiamo: il quorum non raggiunto è un fallimento ascrivibile al silenzio e alla disinformazione che li hanno accompagnati. Ma in tutti e cinque i quesiti hanno vinto i sì. Questo conferma che dobbiamo andare avanti”. Quindi voterete anche gli emendamenti di FdI? “È già successo alla Camera. Voteremo sempre in coerenza con i referendum”. Anche a rischio di fare andare sotto il governo? “Non so se esiste questo rischio. Per noi l’obiettivo era e resta una riforma della giustizia incisiva. Quella vera”. La Cartabia non lo è? “È solo un restyling del sistema. Quella vera e propria non può che essere costituzionale e la faremo noi del centrodestra. Non votiamo però “contro”, ma per migliorarla”. Quindi c’è da aspettarsi battaglia in Aula? “Continueremo a dare il nostro contributo in Parlamento in un’ottica costruttiva, insieme con chi crede nell’esigenza di un rinnovamento profondo, secondo gli intenti per i quali sono stati promossi i referendum: assicurare all’Italia una giustizia degna di uno Stato liberale”. L’astensione alta non dimostra che agli italiani della separazione delle carriere e del resto importa poco? “L’assordante silenzio che ha avvolto questi referendum non ha precedenti. Il paradosso è che prima ci oscurano e poi ci accusano di non aver fatto abbastanza”. Vi accusano anche di aver proposto e poi abbandonato i referendum... “Noi ci siamo sempre stati. Negli ultimi mesi non ho parlato che di questo. Certo, se poi le interviste non venivano trasmesse o andavano in onda nel cuore della notte...”. L’unione con il garantismo radicale, anche su temi come la custodia cautelare, non è stata una contraddizione che può aver giocato contro i referendum? “L’unica cosa che ha giocato contro è che non si sapesse che c’erano i referendum. Non vedo contraddizioni: siamo convinti che ci siano abusi nell’adozione delle misure cautelari, in carcere si deve andare soltanto dopo il processo. Prima solo in casi eccezionali. I referendum si proponevano di imprimere una svolta liberale al nostro sistema, nell’interesse di tutti. Con pazienza e determinazione ci arriveremo, anche se sarà un percorso lungo, tortuoso, difficile”. Referendum. Quesiti respinti con perdite, astensione come scelta attiva di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 giugno 2022 Sono stati referendum dei record, tutti negativi per i promotori. L’affluenza più bassa della storia delle votazioni nazionali, appena 9.660.586 elettori (per il quesito meno votato, il quinto) che significa (in media sui cinque quesiti) il 20,8% degli aventi diritto, circa un milione e mezzo di elettori meno del peggior precedente (il primo quesito dei referendum elettorali del 2009). Ma il fallimento dei referendum voluti dalla Lega e dal partito radicale - e sostenuti, sulla carta, da uno schieramento di partiti che nei sondaggi è accreditato della maggioranza assoluta dei consensi - va ben oltre. È la prima volta che, malgrado la grande maggioranza dei contrari abbia fatto, com’è ormai abitudine, la scelta tattica dell’astensione, dallo scrutinio il No non esca travolto ma in qualche caso sfiori la vittoria o addirittura vinca. Non è l’unico elemento che descrive un rifiuto netto delle proposte referendarie che si è espresso anche, ma non solo, con l’astensione. Un’astensione dunque “attiva”, scelta politica ragionata che si è aggiunta ai già visti disinteresse e rassegnazione. Per questo il non voto raggiunge una vetta. Il primo dato interessante è che la partecipazione ai referendum è rimasta bassa anche dove gli elettori erano chiamati alle urne per le amministrative. Su 26 capoluoghi coinvolti nel voto amministrativo, solo in 8 casi il referendum ha raggiunto il quorum di validità. Con uno scarto in negativo che in città come Rieti, Pistoia, Padova, Lodi, Cuneo e Catanzaro ha superato, talvolta di molto, il 7%. Stiamo parlando di una significativa percentuale di cittadini elettori che sono andati al seggio per votare alle comunali, ma hanno esplicitamente rifiutato le schede del referendum. Scelta, evidentemente, consapevole. Il risultato è tanto più significativo considerato che l’affluenza alle amministrative è tenuta artificialmente bassa dalla presenza nelle liste elettorali dei residenti all’estero. Una conferma di questa lettura arriva dalle altre grandi città non coinvolte dal turno amministrativo, città dove tradizionalmente è più forte la quota di voto informato e di opinione. Lì la percentuale di affluenza è rimasta al di sotto della media nazionale: dall’8,4% di Napoli al 17% di Firenze. Guardando allo spoglio, nelle grandi città metropolitane come nei 26 capoluoghi che hanno rinnovato i consigli comunali, i No hanno raggiunto percentuali mediamente più alte. Addirittura affermandosi - malgrado i contrari, ripetiamolo, abbiano soprattutto disertato le urne - nei primi due quesiti, quelli più immediatamente politici (e comprensibili): abolizione della legge Severino e limitazione delle misure cautelari. Su questi due referendum i No sono risultati in maggioranza a Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Genova, Palermo, Parma, Taranto, Messina. A Roma, a Torino e a Verona c’è stata una maggioranza di Sì al primo quesito e di No al secondo. Unica eccezione tra le grandi città Milano, dove il Sì è risultato in maggioranza in tutti i quesiti, primi due compresi. A livello nazionale, la percentuale dei Sì nei primi due quesiti è anche in questo caso la più bassa della storia referendaria: 53,09% al primo e 55,37% al secondo. Per avere un metro di paragone, si deve considerare che nella storia dei referendum abrogativi, nei (tanti) casi di quorum fallito i Sì hanno oscillato tra il 91,5% e il 69%. E guardando con attenzione allo scrutinio del primo quesito, si scopre che malgrado i contrari si siano anche in questo caso soprattutto astenuti, anche tra i pochi che al seggio ci sono andati una maggioranza ha fatto una scelta contro il Sì, che dunque risulta percentualmente in vantaggio solo rispetto ai voti validi, ma è in svantaggio considerando anche le (tante) schede bianche e le schede nulle. Sono stati allora cinque referendum, nel complesso, respinti con forza dagli elettori ben oltre il disinteresse (che ha dominato tra gli elettori all’estero, con meno del 16% che ha restituito le schede esprimendo un voto). Neanche la riforma di cui si è più volte parlato sarebbe servita a nulla. Se si fosse preso come riferimento il numero degli elettori alle ultime politiche, infatti, e non il totale degli aventi diritto, l’affluenza sarebbe salita al 28,4%, restando però lontanissima dalla soglia di validità. Referendum giustizia, la sorpresa dei tanti No su legge Severino e custodia cautelare di Conchita Sannino La Repubblica, 14 giugno 2022 I contrari ai due quesiti vincono a Napoli, Torino e altre città e salgono dove si è votato anche per le amministrative: doppia sconfitta per i promotori. Mentre il Sì dei proponenti annaspava, lontanissimo dall’approdo del quorum, il No inaspettatamente segnava il suo sorpasso. Almeno sui primi due quesiti, e in città importanti. Bersaglio inesorabilmente fallito: è la pagella finale. Hanno votato solo 2 su dieci: il 20, 95 per cento, record negativo. Ma è la doppia bocciatura in alcune aree, forse, il dato che brucia di più per Lega, radicali e renziani che (come alcuni fedelissimi berlusconiani, oltre che frange di centristi e persino amministratori dem) avevano puntato tutto sulla frattura tra cittadinanza e magistratura. Invece. Non solo l’affluenza colloca il referendum sulla Giustizia al minimo storico della partecipazione, solo 9 milioni 670mila e 95 votanti, ben sotto la metà del 50 per cento più uno. Ma il conteggio finale svela, ad esempio, che da Torino a Napoli, passando per Modena, ha vinto o ha quasi pareggiato il voto contrario: proprio sui due interrogativi che avrebbero dovuto dare la spallata, i più legati ai temi della questione morale in politica, o della sicurezza. Si tratta del primo quesito, scheda rossa, che chiedeva la cancellazione dell’intera legge Severino, (che prevede incandidabilità, sospensione o decadenza dei politici condannati), e del secondo, scheda arancione, che mirava alla drastica limitazione dei presupposti su cui chiedere carcere o arresti domiciliari preventivi. In particolare: Torino (con un’affluenza al 15,89 per cento) ha detto No al primo quesito col 51, 94 dei voti ed è arrivata coi No al 49, 41 sul secondo. Gli altri tre volano invece sul Sì tra il 68 e i 70. A Napoli, sia nella metropoli sia in provincia (pur con affluenze diverse: rispettivamente 8,4 e 14) hanno scritto No per l’abrogazione delle norme Severino: Nell’area metropolitana la bocciatura raggiunge il 53,23 per cento, percentuale che in città sale al 57,05; stesso verdetto, seppur più trattenuto, per il quesito sul freno alle misure cautelari che vede ancora i No prevalere: 52,68 per cento nel capoluogo che cala al 50,54 nell’area metropolitana. Analogamente, a Modena (affluenza al 19), gli elettori cassano il primo quesito col 54, 58 per cento ed il secondo col 51, 82. Dettagli che illuminano il doppio flop, nel generale bilancio della prevalenza del Sì per tutti e cinque i quesiti. Ma anche nel dato generale del Paese, sui primi due quesiti, i No sono alti: 46 per cento per non cancellare la Severino, il 43, 8 per non spuntare le armi dei magistrati su arresti e carcere cautelare. Eppure, sul banco degli imputati non finiscono i promotori, ma l’istituto referendario col suo quorum. Dalla destra a +Europa, parte il coro di chi vuole rivedere la quota del 50 più uno. Forza Italia, col sottosegretario alla Giustizia, avverte: “Non bisogna mica confondere la scarsa affluenza con la volontà del No”. E Matteo Salvini offre la sua interpretazione. “Una riflessione va fatta, perchè se si va avanti di questo passo”, ipotizza, non sarà valido “nessun referendum”. Una preoccupazione cui si associa persino Leu, con la capogruppo al Senato Loredana de Petris, secondo cui l’esito pone “un problema serio sul quorum”. Ma si tratta di letture “davvero singolari e forse fuorvianti” stando all’analisi tecnica del presidente dell’Associazione costituzionalisti italiani, il professore Sandro Staiano. “Rispetto a risultati così chiari, bisogna cogliere la volontà popolare. Sento dire spesso in queste ore: l’elettore non ha capito. Invece l’elettore capisce benissimo e ha disertato le urne in maniera avvertita: quando si trova di fronte a materie complesse, esprime in questo modo un giudizio consapevole, e negativo, sull’uso che è stato fatto dello strumento”. Per il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, insomma, “il contesto politico-partitico ha pensato di fare un uso strumentale del referendum, ha usato temi polemici per scaricare sugli elettori un conflitto di politica giudiziaria. Ed il corpo elettorale lo ha compreso ed ha reagito di conseguenza. Ma tutto questo poggia sulla premessa che l’appello a questo tipo di referendum non è uno strumento di democrazia diretta, come si dice, ma di partecipazione alla vita pubblica: e visto che si prevede il raggiungimento del quorum, si apre alla scelta della non partecipazione. Come responso, quello sì, da consegnare ai suoi rappresentanti che forse nella sede congrua del Parlamento avrebbero meglio potuto districare quei nodi”. Intanto l’Anm ne approfitta per chiedere alla ministra Cartabia e al Parlamento di “modificare la riforma”, a partire dalla “bocciatura categorica della separazione delle funzioni” che si legge nel flop del voto. Il messaggio più netto girava però ieri in una chat di pm. “Volevano cristallizzare con questo referendum la sfiducia degli italiani verso la magistratura. Hanno scoperto che il boomerang era tutto per loro”. Referendum, hanno vinto i pm. Lo Stato di diritto è una chimera di Piero Sansonetti Il Riformista, 14 giugno 2022 Sui quesiti più importanti (Severino e carcerazione preventiva) i No superano il 40%. Il Referendum è stato vinto dal partito delle Procure. Che oggi festeggia e rilancia. Il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha rilasciato una dichiarazione nella quale annuncia battaglia anche contro la riformina Cartabia. È chiaro che ora i Pm punteranno a una vera e propria riscossa reazionaria. I referendum li ha vinti il partito delle Procure. A me sembra sciocco negare questa evidente realtà. Va riconosciuta per due ragioni: la prima, quella semplice: per onestà. I giornali (anche se non è così) dovrebbero essere onesti. La seconda è perché bisogna prepararsi a quello che succederà. Già ieri il capo dell’Anm (che è il nucleo centrale del partito dei Pm) ha dichiarato che ora è aperta la battaglia addirittura per fermare la mini-riforma Cartabia. Nessuno può dubitare che da questo momento è iniziata la controffensiva delle Procure, che nell’ultimo anno e mezzo avevano ricevuto diverse botte e ne erano uscite un po’ ammaccate. Rialzano la testa e si preparano al grande attacco reazionario. Con un discreto sostegno popolare. I dati parlano chiarissimo. L’ottanta per cento degli elettori, cioè quasi 40 milioni di persone, si sono dichiarati disinteressati o addirittura contrari a una serie di provvedimenti che avrebbero potuto ridurre il potere delle Procure e delle correnti in magistratura. Parlo delle astensioni. Poi a questi elettori si sono aggiunti altri milioni che hanno votato No. Il referendum più importante - perché carico di valore ideale - era quello che puntava a ridimensionare le possibilità per i Pm di usare la carcerazione preventiva come strumento di indagini o di punizione anticipata. In quel referendum il 45 per cento degli elettori che non si è astenuto ha votato No. Ha detto in modo esplicito: più carcere. Il numero dei Sì è stato davvero ridottissimo. Credo inferiore ai cinque milioni. È giusto partire da qui per cercare di interpretare senza tanti sofismi il risultato del referendum. Il rapporto di forza tra Italia garantista e Italia giustizialista è più o meno questo: uno a nove. È inutile dire: no, ma ci sono le sfumature. Non c’è nessuna sfumatura: volete lasciare ai Pm il potere di mettere in prigione la gente senza che sia stata condannata, pur sapendo che ogni anno vengono arrestati 1000 innocenti? Questa era la domanda. Non esiste una risposta mediana. Esiste chi pensa che questa situazione sia un abominio e perpetui una condizione di sopraffazione e di potere fisico incontrollato da parte di circa 2000 persone (i Pm) sul resto della popolazione, e che quindi vada radicalmente cambiata; e chi pensa che invece non è poi detto che quei 1000 innocenti siano innocenti davvero, ma magari sono solo salvi perché hanno bravi avvocati, e che comunque anche se fossero innocenti sarebbe il giusto prezzo da pagare alla sicurezza o alla dittatura dell’etica. L’alternativa è secca, e il referendum l’ha fotografata. Ha vinto il partito delle prigioni. Ha perso il partito del diritto e della Costituzione. Ed è anche inutile dire che il potere ha fatto di tutto per far fallire questo referendum. Verissimo: il potere ha fatto di tutto. Ma il potere fa sempre di tutto per portare l’acqua al mulino proprio, e il mulino dove oggi scorre l’acqua impetuosa è quello: quello delle Procure. Potevamo anche ottenere qualcosa di più dalla Rai, dai giornali, ma forse no. La Rai e i giornali, da 30 anni almeno, sono al servizio delle Procure. E comunque, anche se avessero dato un po’ più di spazio ai referendum, il quorum non sarebbe aumentato di molto. Chi voleva votare sì, perché era convinto, è andato a votare. E oggi è sconfitto. Il mio non è cupo pessimismo. Cerco di essere realista. La battaglia garantista resta viva, ma di sicuro oggi sappiamo quanto sia una battaglia di esigua minoranza. La stessa differenza tra i risultati dei tre referendum più tecnici e forse meno essenziali (quelli sul Csm, sulla separazione delle carriere e sulla valutazione dei magistrati) e quelli dei due referendum più politici (Severino e custodia cautelare) ci dimostra che anche nel cuore di un presunto fronte liberale il tampone del garantismo da esito negativo. Un terzo di coloro che hanno votato Si ai referendum tecnici, hanno poi votato no alla liberalizzazione delle carceri e all’abolizione della Severino. Vogliamo tenerne conto? Cosa vuol dire questo dato? Che anche un certo venticello di sfiducia verso la magistratura, che negli ultimi due anni, dal caso Palamara in poi, aveva dato un po’ di freschezza alla discussione sulla giustizia, era un venticello e basta. Un modo, probabilmente anche un po’ qualunquista, di tirare sul quartier generale, non di mettere in discussione l’autoritarismo e di sollecitare una svolta garantista e favorevole al Diritto. Molta gente si è limitata ad assimilare la magistratura agli altri poteri, e dunque a giudicarla corrotta. Ma infischiandosene del valore della libertà. La maggioranza degli elettori resta convinta che il problema non sia quello di ridurre la repressione da parte dello Stato ma invece quello di reprimere di più i propri nemici e di meno i propri amici. Non so se è stato un errore promuovere un referendum con così poche possibilità di vincerlo. Io, per esempio, in questo referendum ci credevo. Sicuramente c’è stato un errore di valutazione. In politica succede. Non mi sembra che sia una discussione interessante, a questo punto. La discussione deve riguardare il futuro e deve riguardare i rapporti da stabilire tra garantisti e mondo politico. Il mondo politico si è comportato in modo vigliacco di fronte al referendum. Ha mostrato al solito la sua paura, la sua subalternità al partito dei Pm. Tranne poche eccezioni: pochissime. Diciamo un pezzettino di Lega e un pezzo di Forza Italia. Oltre, naturalmente ai radicali. Gli altri, o assenti, o trincerati dietro alle lance del fronte giustizialista. Come ha fatto il Pd. Questo è un problema. Io non credo che possa avere successo nessuna battaglia garantista, senza l’appoggio della sinistra. Oggi invece la sinistra, guidata da Letta, è alla coda dei reazionari, dei 5 Stelle, di Fratelli d’Italia. Come è possibile? Credo che questa sia una questione cruciale. La sinistra, se non recupera la sua vocazione garantista, rischia di diventare un blocco conservatore senza respiro e senza anima. Travolta dai suoi riflessi democristiani o dai suoi riflessi stalinisti o da tutti e due. Se non c’è una svolta nella sinistra il garantismo non ha futuro. E la sinistra nemmeno. Io ricordo il mio passato. Ricordo il Pci. E ricordo anche che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta fu protagonista di due grandi riforme: l’abolizione dei manicomi, secondo un progetto di Franco Basaglia, e la liberalizzazione delle carceri, secondo un progetto di Mario Gozzini. Due riforme importantissime. Di gigantesco valore culturale. Sapete chi si oppose? Credo solo la destra di Almirante: il Msi. Il Pd deve scegliere: sta con Basaglia e Gozzini o sta con Almirante? Sono due scelte dignitose entrambe, intendiamoci: ma non intercambiabili. Il referendum certifica che il centrodestra è giustizialista di Nicola Imberti Il Domani, 14 giugno 2022 Nei comuni al voto governati dalla coalizione, dove la mobilitazione per il Sì doveva essere maggiore, i quesiti su legge Severino e misure cautelari vedono spesso prevalere il No. “La partecipazione di questi dieci milioni di italiani al referendum non è un punto di arrivo, ma di partenza”. Matteo Salvini poteva dire che “ogni crisi è un’opportunità”, invece ha preferito affidarsi a un altro luogo comune per commentare il fallimento epocale dei referendum promossi dalla Lega sul tema della giustizia. Perché la partecipazione democratica è sempre importante ma nel caso specifico non somiglia affatto a un punto di partenza. Tre dei cinque quesiti riguardavano temi che verranno comunque toccati e riformati dal testo messo a punto dalla ministra Marta Cartabia (che la Lega potrebbe trovarsi a votare e approvare tra domani e giovedì al Senato). Mentre gli altri due rimarranno parole stampate sulle schede rossa e arancione che poco più del 20 per cento degli aventi diritto ha depositato nelle urne domenica. E questo non perché non siano degni di una battaglia parlamentare, ma perché Salvini ha dimostrato, ancora una volta, di conoscere poco o nulla il suo elettorato. L’affluenza - Alla vigilia tutti sapevano che sarebbe stato impossibile raggiungere il quorum. La Lega, dopo averli promossi, ha fatto poco per mobilitare il suo elettorato. L’accorpamento con le elezioni amministrative ha favorito, come ovvio, l’affluenza nei comuni chiamati al voto, mentre negli altri ha vinto la voglia di trascorrere una giornata di riposo, magari al mare. Tra gli oltre 970 enti locali in cui si è votato 26 erano città capoluogo. Diciassette, prima di questa tornata elettorale, erano governate dal centrodestra (Alessandria, Asti, Genova, La Spezia, Monza, Lodi, Como, Gorizia, Verona, Piacenza, Pistoia, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catanzaro, Messina e Oristano). Lecito quindi aspettarsi che lì dove Salvini e i suoi erano in corsa per rieleggere i propri candidati sindaci, il referendum abbia avuto un esito diverso. E così forse è stato, ma non nel senso auspicato dal leader della Lega. A parte Genova, dove l’affluenza si è fermata al 38 per cento, in gran parte delle altre città le percentuali si sono avvicinate al 50 per cento. In cinque casi hanno addirittura superato il quorum con “l’eccellenza” di Frosinone (62 per cento). Quasi tutte però hanno evidenziato lo stesso trend: nei primi due quesiti la vittoria dei Sì è stata di pochi punti percentuali e, in diversi casi, si è registrata addirittura una prevalenza di No. I quesiti - Il primo e il secondo quesito riguardavano l’eliminazione delle misure cautelari in caso di rischio di “reiterazione dello stesso reato” quando non si tratti di reati gravi e l’abrogazione della legge Severino. Gli altri tre, invece, erano relativi alle carriere dei magistrati. Ovviamente non c’è una sovrapposizione totale tra elettori di centrodestra e votanti al referendum, ma certo colpisce che, mentre sulle toghe i Sì siano in netto vantaggio ovunque, sugli altri la battaglia sia così serrata. Si potrebbe sostenere che a fare la differenza siano stati Giorgia Meloni e i suoi che fin dall’inizio si sono espressi per tre Sì e due No. Ma se così fosse, sarebbe solo la conferma della leadership della leader di Fratelli d’Italia all’interno del centrodestra. Comunque non una buona notizia per Salvini. Di certo c’è che l’elettorato di centrodestra mantiene la vecchia antipatia nei confronti dei magistrati, eredità della stagione berlusconiana (e non a caso Silvio Berlusconi, rompendo il silenzio elettorale, al seggio ha rispolverato il ritornello sulla “giustizia politicizzata”). Ma nel frattempo ha interiorizzato anche il giustizialismo sovranista fatto di chiavi “buttate” e persone che dovrebbero trascorrere “una notte in carcere” quando si macchiano di reati, anche se si tratta di ragazzini di 12 anni, meglio se si tratta di immigrati clandestini e spacciatori. Logico quindi che, quando si parla di cancellare misure cautelari e cause di incandidabilità, reagisca di conseguenza. Con buona pace di Berlusconi che della legge Severino è stato “vittima” eccellente. Insomma, prima di proporre certi referendum, forse Salvini doveva ricordarsi dei suoi slogan elettorali, dei suoi blitz al citofono e, magari, di quando Umberto Bossi e i suoi agitavano il cappio in aula attaccando “Roma ladrona”. Si sarebbe almeno risparmiato una brutta figura. Visibilità - Il leader della Lega si è anche lamentato della scarsa visibilità che le televisioni hanno dato al confronto sui referendum. In realtà non è proprio così. Confrontando i dati forniti da Agcom si vede che, in termini di minuti, nei telegiornali si è parlato della consultazione di domenica esattamente come si era fatto nel 2016 per il referendum sulle trivelle. Che era terminato anch’esso senza il raggiungimento del quorum ma con una percentuale di votanti del 31 per cento. Lo spazio dedicato ai quesiti sulla giustizia è addirittura aumentato nelle reti Mediaset, di proprietà del leader di Forza Italia che sosteneva le ragioni del Sì. Chi ha “silenziato” la battaglia di Salvini e Radicali sono invece stati i talk show. Cioè quelli che in questi anni, più di una volta, hanno fatto da megafono alle urla belluine dei leghisti su colpevoli o presunti tali da “sbattere in galera”. Referendum. La politica è cambiata, ora cambiamo anche le regole di Francesco Damato Il Dubbio, 14 giugno 2022 Per demerito della politica e per un’evoluzione laica dei costumi, oggi il quorum è un sogno. Magari si potesse liquidare il naufragio dei referendum sulla giustizia nell’astensionismo, per la mancata affluenza alle urne della metà più uno degli elettori aventi diritto al voto come frutto inevitabile del “cinismo” e dei “pasticci” della Lega. Lo hanno fatto anche il nuovo e il vecchio giornale di Carlo De Benedetti: Domani prevedendo di domenica il risultato e Repubblica commentandolo lunedì. La Lega, in effetti, sin dal primo momento era apparsa una curiosa alleata dei radicali di consolidata tradizione garantista - tradita solo nella campagna del 1978 contro Giovanni Leone al Quirinale nella promozione dei quesiti abrogativi e nella raccolta delle firme. Alle quali peraltro, quasi per diminuirne l’importanza o per timore che non potessero risultare valide abbastanza, i leghisti preferirono l’anno scorso, per il deposito alla Cassazione, le richieste abrogative formulate dalle regioni governate da un centrodestra neppure compatto nel contestare le norme e leggi prese di mira dall’iniziativa referendaria. La destra di Giorgia Meloni, che peraltro contende ormai la guida della coalizione alla Lega in retrocessione, non se l’è notoriamente sentita di contestare anche la cosiddetta legge Severino, pur costata il seggio del Senato al Cavaliere nel 2013 per la condanna definitiva ma contestata per frode fiscale, e le norme sulla “custodia cautelare”, cioè sulle manette, nella fase delle indagini preliminari. Magari, dicevo, potessimo liquidare il naufragio referendario attribuendone la colpa al Carroccio e a Salvini in persona - aggiungo - per le troppe cause disinvoltamente sostenute negli ultimi mesi, fra cui il velleitario e confuso progetto di viaggio a Mosca, con tanto di assistenza anche economica dell’ambasciata russa a Roma, per sorpassare di fatto il governo Draghi nei contatti con Putin. Dal quale è incontrovertibilmente partita la guerra di aggressione all’Ucraina secondo valutazioni condivise in Parlamento anche dalla Lega e servite per partecipare agli aiuti militari occidentali a Kiev. I referendum sulla giustizia non c’entrano, d’accordo, col pacifismo avvertito e cavalcato da Salvini, ma - ripeto - qualche ricaduta su di essi non può essere esclusa per la ridotta credibilità di un leader che si stenta francamente a inseguire all’interno del suo stesso partito, tanto fitte sono le sue agende, a dir poco. La verità è che - per fortuna della magistratura più politicizzata interessata a proteggere le sue abitudini di lavoro e le sue prerogative anche dall’abrogazione popolare delle norme che le tutelano - i referendum sono stati ormai uccisi in via generale dall’astensionismo. Si è consumato domenica un referendicidio, ormai. Se lo metta in testa anche Matteo Renzi, che pensa di praticare questa strada anche contro il reddito di cittadinanza, visto l’uso che se n’è fatto. Quella metà più uno degli elettori partecipanti al voto come condizione di validità del risultato di una prova referendaria abrogativa era logica, naturale più di 70 anni fa, quando fu messa nella Costituzione e l’affluenza alle urne nelle elezioni di ogni tipo, dopo più di vent’anni di dittatura, e nelle condizioni persino emotive di mobilitazione popolare nel primo dopoguerra, era generalmente di oltre l’80 per cento, e persino 90. Oggi per demerito della politica, ma anche per una lunga, naturale evoluzione dei costumi, laica potremmo dire se della stessa politica si avesse una concezione quasi religiosa, quelle percentuali sono semplicemente da sogno. E così pure il quorum dei referendum abrogativi, di cui non a caso si è progettata - senza riuscire, come al solito, a realizzarla una modifica costituzionale per rapportarlo alla media di affluenza alle urne delle ultime tornate elettorali politiche. Sino a quando non si farà un cambiamento del genere, sarà semplicemente inutile puntare sui referendum abrogativi, nonostante i grandi servizi resi da essi nella causa del divorzio, nel 1974, o nello stesso campo della giustizia nel 1987, con un risultato sulla responsabilità civile dei magistrati scandalosamente tradito in pochi mesi dalle Camere con una nuova legge. Bisognerà puntare solo sulla capacità riformatrice del Parlamento. Ma al solo pensarci mi viene l’orticaria, nella confusione politica che temo cominci a far paura anche a uno della solidità di nervi come Mario Draghi. Referendum sulla giustizia: le tre lezioni di un flop storico di Francesco Bei La Repubblica, 14 giugno 2022 La Lega come proponente si è dimostrata poco credibile, i quesiti non hanno appassionato i cittadini e forse lo strumento referendario non è il più appropriato per sanare la magistratura. Le dimensioni del fallimento sono storiche. Scorrendo la serie dei 79 referendum che si sono tenuti nel nostro Paese, il bagno di affluenza che si è registrato ieri sui 5 quesiti promossi dalla Lega e dai radicali è qualcosa di incredibile. Il 20 per cento (20,9%) non si era mai visto, battendo l’altro record storico di disinteresse registrato nel 2009 dal referendum sulla legge elettorale che aveva fermato il fixing al 23,7%. Se tuttavia vogliamo uscire dalle banalità sulla giornata di sole e dalla solita litania degli italiani che non si appassionano a questioni complesse, possiamo forse enucleare tre lezioni da trarre da questa batosta. La prima riguarda i proponenti. Fatta salva la buonafede del partito radicale, che non può essere accusato di strumentalità visto che si batte da quarant’anni per il garantismo e la giustizia giusta, faceva un po’ ridere vedere i leghisti proporsi in tv come campioni dei diritti degli imputati. Se nasci come forza politica che agita in Parlamento il cappio e la forca, se cresci come forza di estrema destra che propone di “buttare via la chiave” per ogni reato (tranne naturalmente la sottrazione di fondi pubblici per il partito), se difendi i secondini che picchiano i detenuti e tratti i “drogati” alla Stefano Cucchi come gente che “se l’è cercata”, beh diventa un po’ più difficile indossare la maschera di Enzo Tortora. Se lo sciopero della fame lo fanno Pannella e Rita Bernardini la gente ci crede, se lo fa il vicepresidente del Senato di un partito che ha occupato la Rai, governa mezza Italia e il cui leader vive accampato in televisione, diventa tutto una barzelletta. Gli elettori ti pesano ed è inutile, oltre che poco elegante, prendersela ora con il Capo dello Stato. La seconda lezione ha a che fare con la presunta scarsa informazione. Non c’è niente da fare, se un argomento interessa poco non c’è informazione coatta che tenga, il pubblico sbadiglia. Quello che scalda è lo scontro politico, che non può essere surrogato da dibattiti tra tecnici del diritto. Come Repubblica (ma anche per gli altri giornali è lo stesso) abbiamo dato ampio spazio ai quesiti, alla loro spiegazioni, alle ragioni del Sì e del No, ma la maggioranza degli italiani non si è appassionata. Un po’, ovviamente, perché ci sono i carri armati di Putin che sparano in Europa, un po’ perché è sembrata una battaglia distante dalla vita reale delle persone. Scommettiamo che un referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia o della cannabis arriverebbe facilmente al quorum? Il problema dunque non è la disinformazione: ripetere come una giaculatoria le invettive del passato sulla censura è, per citare Marco Pannella, buona coscienza a buon mercato, una scorciatoia per evitare di affrontare a viso aperto i problemi di una campagna nata male, impostata peggio e con i compagni di strada più sbagliati. Una lezione per l’unione delle camere penali e per il mondo radicale. Terzo post-it per i promotori. Quando c’è una riforma a metà strada in Senato, che dà una risposta a quasi tutti i quesiti proposti, è inutile biasimare gli elettori che dicono: ma perché non ve ne occupate voi in Parlamento? Soprattutto se la forza politica che ha lanciato la campagna referendaria partecipa al governo che ha scritto quella riforma e l’ha votata alla Camera. Ci sarebbe poi da aggiungere che la giustizia, anzi il rapporto tra politica e giustizia, è diventata una materia più fredda rispetto a qualche anno fa. Con Berlusconi sul viale del tramonto, per fortuna ci siamo lasciati alle spalle la stagione delle leggi ad personam. I cittadini sono insoddisfatti del servizio giustizia e tra gli stessi magistrati, finiti in fondo alla classifica della fiducia (vedi il caso Palamara), serpeggia un diffuso malessere. Un segnale lampante è stata la scarsa adesione allo sciopero di categoria contro la riforma Cartabia. Ma forse non è la scimitarra dei referendum lo strumento più appropriato per sanare un settore malato dello Stato che certamente ha bisogno di cure urgenti. Servirebbe il bisturi del riformismo, da esercitare in Parlamento. E il lievito sinceramente garantista di molti promotori dei referendum, insieme alla spinta di quei dieci milioni di elettori che si sono comunque recati alle urne, possono essere un alleato nell’impresa, non un ostacolo. Referendum giustizia, un flop memorabile per Lega e Radicali di Domenico Gallo micromega.it, 14 giugno 2022 A essere punito è stato l’uso strumentale dello strumento referendario. Ecco perché il “non voto”, in realtà, è stato a tutti gli effetti un voto. Ogni volta che il corpo elettorale viene chiamato alle urne, il risultato - che piaccia o meno - è un bagno nella realtà. La realtà che emerge dalle urne del 12 giugno, con l’affluenza che si è fermata al 20% dimostra, ancora una volta, che il popolo italiano si ribella all’uso strumentale del referendum. Questo non è il tramonto dell’istituto del referendum ma è la sconfitta di una politica che, nel tempo e ripetutamente, ha cercato di impugnare a contrario lo strumento della democrazia diretta: non per far emergere domande politiche e bisogni diffusi nella società, ma per tutelare interessi di ristrette oligarchie, svincolandoli dai pesi e dalle procedure della democrazia rappresentativa. Esempio tipico di questa inversione della funzione del referendum è stata la richiesta, promossa dai radicali, di abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Questo referendum fu bocciato dagli elettori nella consultazione del 21 maggio 2000, assieme ad altre farneticanti richieste che, allora come ora, miravano a soffocare l’autonomia della magistratura, aggredendo il sistema proporzionale nelle elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, postulando la separazione delle carriere dei magistrati, pretendendo l’esclusione dei magistrati ordinari da ogni incarico extragiudiziario. Dopo questa sonora batosta, si sono realizzate le condizioni per restituire all’istituto del referendum abrogativo quella centralità e autorevolezza che gli deriva dalla Costituzione. Il referendum è l’unico strumento di democrazia diretta che esiste nel nostro ordinamento in cui è fissato il principio che la sovranità spetta al popolo, che la esercita, di norma, attraverso la rappresentanza. Attraverso il referendum la sovranità popolare può correggere o integrare l’indirizzo politico espresso dalle assemblee legislative, facendo entrare nell’ordinamento esigenze o domande politiche presenti nel corpo sociale ma non adeguatamente rappresentate. Perché venga compiuto un atto abrogativo attraverso il referendum è necessario che alla base del pronunciamento ci sia un’esigenza fortemente sentita dal popolo italiano. Quando sono state fatte emergere delle domande politiche importanti, che coinvolgevano direttamente i bisogni, i diritti e gli interessi dei cittadini, bisogni non rappresentati o addirittura contraddetti dall’ordinamento politico, come nel caso del nucleare o dell’acqua pubblica, i referendum hanno avuto successo e hanno realizzato (almeno per l’energia nucleare) la loro funzione costituzionale di raccordare la volontà popolare con gli indirizzi legislativi e di governo. Quest’ultima tornata elettorale si è rivelata un flop colossale per i promotori perché i quesiti proposti, al di là del fumo sollevato con il ricorso ad argomenti mitici (come la rigenerazione della giustizia), non proponevano alcuna domanda presente nel corpo sociale, né introducevano alcuna innovazione volta a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini. Tutti i quesiti esprimevano, con gradi diversi, diffidenza nei confronti dell’esercizio della giurisdizione e del controllo di legalità ma, quel che è più grave, tendevano a smantellare il contrasto alle attività criminali in corso ed a svincolare il ceto politico dagli effetti negativi del controllo di legalità. In sostanza il complesso dei quesiti esprimeva soltanto esigenze (poco commendevoli) fortemente radicate in una parte del ceto politico. Ancora una volta lo strumento del referendum è stato impugnato a contrario, per tutelare l’esigenza di una oligarchia politica volta a spuntare quelle armi del controllo penale che possono limitare la libertà di azione dei colletti bianchi. Esigenza particolarmente evidente nella richiesta di abrogazione del Decreto Severino ed in quella relativa alle misure cautelari. Che interesse avrebbero avuto i cittadini italiani ad abrogare un presidio (come la Severino) contro la penetrazione della corruzione nel Governo e nelle istituzioni parlamentari? Semmai l’interesse genuino del popolo italiano è che sia data attuazione al principio costituzionale che prevede che: “I cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di esercitarle con disciplina ed onore”. L’approvazione del quesito sulle misure cautelari, che si è cercato di mascherare usando abusivamente l’etichetta di “limiti agli abusi della custodia cautelare”, respinta dall’Ufficio centrale del Referendum, avrebbe avuto l’effetto di smantellare qualsiasi forma di contrasto ad attività criminose in corso, esclusi i delitti di mafia e quelli con uso delle armi. A quale parte della popolazione italiana poteva andare bene un effetto come questo che - ripetiamo - non ha nulla a che vedere con il ricorso eccessivo alla custodia cautelare? Che interesse avrebbero avuto i cittadini italiani ad abolire delle misure di contrasto ad attività dannose per tutti, quali sono per esempio i reati contro il patrimonio? Lo stesso discorso vale per il quesito sul Pubblico Ministero, che, non solo per la generalità dei cittadini, ma anche per gli addetti ai lavori, esprimeva un tema esoterico, come i dibattiti fra i dotti medioevali sul sesso degli angeli. Anche in questo caso si trattava di un’esigenza presente in alcuni settori del ceto politico, a cui non corrispondevano diritti o bisogni reali dei cittadini che, anzi, hanno interesse a conservare al Pubblico Ministero il ruolo di un magistrato imparziale, non di un persecutore privato. Ma il sogno di chi vuole una giustizia giusta non muore di Andrea Indini Il Giornale, 14 giugno 2022 C’è una maggioranza silenziosa che, per quanto scoraggiata, continuerà a sognare e a lottare affinché il miracolo di un sistema giudiziario equo possa prima o poi essere realtà. Nonostante la scelta, tanto assurda quanto colpevole, di fissare il referendum sulla giustizia non solo in un fine settimana di metà giugno (con trenta e passa gradi sulla testa), appena quarantotto ore dopo la chiusura delle scuole, ma di confinarlo addirittura in un solo giorno di voto senza dare la possibilità a chi optasse per qualche giorno di relax al mare o in montagna di recarsi in extremis alle urne il lunedì mattina. Nonostante la Rai si sia dimostrata, ancora una volta, del tutto incapace di fare servizio pubblico preferendo insabbiare il dibattito sulla giustizia anziché spiegare il significato e la portata dei cinque quesiti referendari agli italiani. Nonostante Luciana Littizzetto, dimentica di essere sulla tv di Stato, si sia autoproclamata madrina dei week-end fuori porta invitando gli elettori ad andare al mare non tanto per far girare l’economia dopo due anni di pesanti restrizioni ma al solo (bieco) fine di disertare le urne. Nonostante Enrico Letta, Rosy Bindi e tutta la giostra del Partito democratico abbiano scientemente disertato il confronto sapendo che sarebbe stato più facile mettere tutto a tacere piuttosto che confutare un referendum che qualsiasi persona con giudizio avrebbe appoggiato per avere un Paese più giusto. Nonostante Repubblica, sulla scia della linea piddina, abbia apertamente invitato i lettori a “votare no” o a non recarsi affatto a votare “per non consentire il raggiungimento del quorum”. Nonostante tutto questo, alla fine di una giornata segnata dai tristi ritardi di Palermo, dove gli elettori si sono visti “rimbalzare” ai seggi chiusi causa assenza dei presidenti, quasi dieci milioni di persone (poco più del 20% degli aventi diritto) sono andate a votare. La maggioranza di queste lo ha fatto perché credeva che così non si può più andare avanti, che il sistema giudiziario italiano va rivoltato come un calzino, che serve una sferzata allo strapotere della magistratura. Lo credeva e lo crede ancora. Il non voto di ieri non ha certo fatto cambiare loro idea. Come non l’hanno cambiata quelli che, forse perché certi che si sarebbe mai raggiunto il quorum o perché demoralizzati da un Sistema che non cambia mai, hanno preferito la spiaggia e il mare allo sforzo di programmare la domenica con tappa al seggio elettorale. Chi è andato a votare e ha messo la “x” sui cinque sì fa parte di un esercito che non può essere dimenticato. Se la Corte Costituzionale avesse dato il via libera anche al quesito principe, quello della responsabilità civile dei magistrati, avrebbero sicuramente votato sì anche a quello. In tutte queste persone resta il sogno di una giustizia migliore libera dagli scandali e dalle guerre di potere, dalle inchieste a orologeria e dagli avvisi di garanzia usati come clava politica, dagli errori e dagli orrori giudiziari che hanno messo nei guai cittadini innocenti e messo in libertà cittadini colpevoli. Una giustizia più giusta, insomma. È questo che sognano. E chi non la vuole? La sinistra, sicuramente, che ha sempre ostracizzato qualsiasi riforma. La stessa magistratura (per ovvie ragioni). E il Sistema in generale che trae giovamento da certe storture. Gli altri, ne siamo certi, sono una maggioranza silenziosa. Che, per quanto scoraggiata, continuerà a sognare e a lottare affinché il miracolo di un sistema giudiziario equo possa prima o poi essere realtà. Referendum. “Silenzio, propaganda ma anche leggerezze. Ecco i motivi del flop” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2022 Per il Presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza sono molteplici le cause che hanno portato al fallimento della campagna referendaria promossa da Lega e Partito Radicale. Non solo la disinformazione ma soprattutto l’aver messo tutto in mano al Carroccio per quanto ha riguardato la scelta e la formulazione dei quesiti. Si sarebbe dovuta coinvolgere una platea più ampia di soggetti interessati alle tematiche del diritto penale liberale. Avvocato Caiazza quali sono le cause di questa sconfitta? La prima causa è senza alcun dubbio la congiura del silenzio su questo evento di rilievo costituzionale. È una censura che va rivolta principalmente al servizio pubblico radio-televisivo della Rai che è venuta meno al suo dovere di informare i cittadini. La seconda ragione risiede nel non aver organizzato campagne elettorali degne di questo nome nemmeno da parte degli stessi proponenti, con l’aggravante di non aver depositato le firme dei cittadini in Cassazione dopo averle raccolte. Poi c’è una terza causa che è la decisione della Corte Costituzionale di bocciare i referendum più popolari. Queste sono le ragioni immediate. Ce ne sono altre quindi? Noi abbiamo espresso fin dal primo momento, anche attraverso documenti pubblici e in tempi non sospetti, che le modalità di questa iniziativa politica contenessero i germi di una sua inevitabile debolezza. È stata decisa a tavolino con un appalto esclusivo ad una sola forza politica per quanto ha riguardato la scelta dei temi e la formulazione dei quesiti. hi paga le conseguenze di questo fallimento? Dobbiamo tutti impegnarci affinché le conseguenze siano il meno dannose possibili. Occorre ora che l’impegno politico dei liberali di questo paese per una giustizia più giusta sappia trovare da subito la forza per rilanciare le proprie idee e le proprie battaglie. Inoltre deve essere chiaro che questo risultato non è decodificabile politicamente perché, per tutte le ragioni già espresse, si è andati al voto completamente inconsapevoli. La responsabile giustizia del Pd, la senatrice Anna Rossomando, invece ha dichiarato che i cittadini hanno scelto le riforme giuste’... Non condivido minimamente questa analisi perché gli italiani non hanno scelto proprio nulla. Il crollo dei voti per il referendum è frutto della non conoscenza dell’oggetto della convocazione alle urne. Guardando però al merito dei quesiti il Sì ha vinto rispetto a tutti e cinque. Questo cosa ci dice? Ad esempio l’alta percentuale a favore della separazione delle funzioni rilancia la vostra campagna sulla separazione delle carriere? Questo risultato conferma le nostre perplessità sulle scelte di alcuni temi che avrebbero meritato una discussione più ampia, più approfondita, più condivisa. Non è un caso che i temi sulla separazione delle funzioni, sul voto dei laici nei consigli giudiziari e sulla elezione del Csm, che sono quelli maggiormente condivisi dal mondo dell’avvocatura e dell’accademia, abbiano avuto un risultato così significativo. E i quesiti sulla custodia cautelare e sulla Severino? Il primo è stato affrontato con una ipotesi abrogativa che avrebbe meritato maggiore discussione: aver pensato di poter intervenire sul pericolo della reiterazione del reato è stata una scelta tecnica poco convincente e che ha offerto soprattutto il destro alla peggiore retorica giustizialista. Questo vale anche per il decreto Severino: sarebbe stato più prudente ridurre l’abrogazione alla sola ipotesi della incandidabilità dopo una sentenza di primo grado. L’idea di chiederne l’abrogazione totale ha indebolito il senso del quesito. È qui che si sconta il prezzo di non aver condiviso la scelta dei quesiti con una platea più ampia di soggetti interessati alle tematiche del diritto penale liberale. Dal 1997 ad oggi solo un referendum ha raggiunto il quorum, quello del 2011. A ciò si aggiunge che anche l’UCPI nel 2000 ha sostenuto i referendum sulla giustizia insieme ai radicali. Lì il quorum fu del 32%. Poi nel 2013 sempre insieme al Partito Radicale non si è riusciti a raccogliere le firme anche su temi simili. C’è una crisi dell’istituto referendario e della partecipazione popolare, soprattutto in tema di giustizia? Esiste certamente un problema di adeguatezza dello strumento referendario abrogativo su questi temi. Le esperienze passate dovrebbero aiutare a riflettere meglio sull’efficacia dello strumento politico che si preferisce per portare avanti le proprie battaglie. Tanto è vero che noi sulla separazione delle carriere abbiamo scelto di percorrere lo strumento della proposta di legge di iniziativa popolare. Purtroppo anche quella pdl giace nei cassetti di Montecitorio... Perché esiste una avversione della politica verso ogni proposta che coinvolga direttamente i cittadini. È evidente che anche verso le pdl di iniziativa popolare esiste un profondo ostracismo da parte dei partiti. Si tratta di un problema di cultura politica del Paese. Secondo Lei all’Anm conviene cantare vittoria per questo fallimento? Credo che l’Anm sia l’ultimo soggetto che in questo momento possa vantare un successo politico, soprattutto se basato su una diserzione alle urne dovuta ad ignoranza sui temi. Referendum. “Gli elettori hanno capito e bocciato i quesiti” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2022 Nessun trofeo in mano, nessun festeggiamento, solo la consapevolezza che i cittadini hanno condiviso le critiche ai quesiti mosse dalla magistratura associata. Il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia è netto nella riflessione sui referendum Lega/ Partito radicale: “L’elettorato ha compreso i quesiti ma ha scelto consapevolmente di non andare a votare per la loro marginalità e inadeguatezza”. Presidente secondo Lei quali sono le cause di questo fallimento? Nelle competizioni referendarie chi non va a votare esprime un convincimento, ossia di dissentire radicalmente dal quesito. Come Anm, ma non solo noi, avevamo rappresentato l’assoluta inadeguatezza dei quesiti a risolvere i problemi della giustizia, che pure ci sono e che i cittadini avvertono. Però la Rai tra aprile e maggio ha dedicato - dati Agcom alla mano - circa due ore alla campagna referendaria. Non crede che i cittadini sarebbero dovuti essere messi nelle condizioni di conoscere meglio le tematiche? Non ho titolo per dire quanto spazio la televisione di Stato e i media in generale avrebbero dovuto concedere all’iniziativa. Da parte nostra, quando siamo stati invitati abbiamo animato i dibattiti perché abbiamo ritenuto fosse giusto contribuire alla discussione. Credo però di poter dire che ci sono quesiti referendari che si impongono all’attenzione del corpo elettorale perché toccano materie vive, interessi importanti che non hanno bisogno di una grande campagna mediatica per essere conosciuti, tipo quelli sul divorzio o sull’aborto. Poi ci sono quelli che possono essere percepiti come pretestuosi o di eccessivo dettaglio tecnico sui quali un coinvolgimento referendario è molto meno sentito, al di là dell’attenzione mediatica. Non si può interpellare, per esempio, il corpo elettorale sul problema delle sottoscrizioni per candidarsi al Csm. Sostenere che siano troppo tecnici per essere affrontati non significa sminuire le capacità di comprensione dell’elettorato? Il mio pensiero va proprio nella direzione contraria: l’elettorato ha compreso i quesiti ma ha scelto consapevolmente di non andare a votare per la loro marginalità e inadeguatezza. Entriamo nel merito. Ha vinto il sì. Come interpretare questi numeri? La separazione delle funzioni avrebbe potuto avere una percentuale molto più alta di favorevoli (ha ottenuto il 73,38% di Sì, ndr) se consideriamo che quelli che sono andati a votare hanno accettato il quesito. Non si tratta neanche delle percentuali raggiunte negli anni ‘ 80 sulla responsabilità civile dei magistrati (il Sì ottenne l’80%, ndr). Se si ragiona sul 73% del 20%, che è il dato sull’affluenza, si capisce chiaramente che il corpo elettorale ha dato una precisa indicazione politica: oggi, come nel 2000, non vuole la separazione delle funzioni/ carriere tra pm e giudicanti. Ieri il nostro vice direttore Novi in un suo editoriale ha scritto: ‘Festeggiare l’altolà ai quesiti: una scelta che può peggiorare l’immagine dell’Anm. Mostrarsi come un sindacato che resiste al cambiamento potrebbe non pagare’. Che ne pensa? Con tutto il rispetto per questo editoriale, lo considero un po’ concettoso. Noi non stiamo festeggiando nulla, né innalzando trofei. Stiamo avendo conferma della bontà di alcune idee che proponiamo da tempo. Abbiamo ripetuto insistentemente alla politica che alcune scelte sono sbagliate: credo di poter dire, senza alcun trionfalismo, che il corpo elettorale è su questa linea. Al Senato è ripresa la discussione sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Il risultato referendario può aprire alla possibilità di rivedere il testo a vostro favore? Penso che il risultato dovrebbe essere tenuto in considerazione dalle forze politiche parlamentari e dalla ministra Cartabia. Siamo dinanzi a una chiara volontà del corpo elettorale, come dicevo, sulla separazione delle funzioni. Il legislatore invece ha intrapreso un percorso opposto, ma ora credo ci sia ancora il tempo per rimediare. In generale credo che piccoli aggiustamenti al testo in discussione al Senato possano essere fatti rispettando il calendario dei lavori per arrivare al rinnovo del Csm con una nuova legge elettorale. Qualche sua collega ha avuto da ridire sul nostro pezzo di ieri in cui abbiamo scritto che il flop referendario è diverso da quello dello sciopero dell’Anm, che pur è stato da voi negato. Ci è stato rimproverato che non si tratta di ‘una guerra tra bande’ e che invece ‘se non si viaggia uniti - magistratura e avvocatura - non si va da nessuna parte’. Ma come è possibile lavorare uniti se l’Anm non vuole il voto degli avvocati nei consigli giudiziari, ad esempio? Non è che abbiamo rifiutato di parlare di flop. Abbiamo evidenziato che un magistrato su due ha aderito all’astensione e non è poco, in un momento di difficoltà della magistratura che non nego. E anche l’altro 50% non è d’accordo sulla riforma. Quindi credo che parlare di flop sul 20% dell’affluenza per i referendum è giusto, mentre non lo è per il nostro 50%. I promotori dei referendum avrebbero dovuto portare alle urne oltre 25 milioni di elettori per raggiungere il quorum in condizioni di partenza difficilissime, mentre l’Anm non è riuscita a far scioperare diecimila magistrati su un argomento condiviso e nella massima consapevolezza... Il quorum è previsto dalla Costituzione, non è che lo si può abbassare a seconda delle attese di chi promuove i referendum. Forse andrebbe ripensato il quorum visto che dal 1997 solo un referendum lo ha raggiunto... Questo è un altro problema su cui non mi misuro. Mi misuro solo a Costituzione invariata. Tornando al nostro sciopero, la percentuale non è delle migliori ma consideri anche quelle degli scioperi nel pubblico impiego o quelle degli avvocati che sono fruitori maggiori dello strumento dell’astensione. Ma torniamo alla mancanza di fiducia nei confronti degli avvocati nei Consigli giudiziari... Io credo che sia necessario che avvocatura e magistratura si siedano allo stesso tavolo per riformare la giustizia. Credo che esista un dovere più alto rispetto agli interessi di categoria, che è quello di concorrere a costruire qualcosa di buono. Dopo di che non c’è alcun pregiudizio nei confronti degli avvocati. Sostenere che c’è un problema di incompatibilità all’interno dei Consigli giudiziari non significa sfiduciarli o pensare che siano il demonio. Le incompatibilità sono un fatto fisiologico nell’assunzione di incarichi pubblici. Noi sosteniamo che un avvocato che esercita la sua funzione, a differenza di quello che accade al Csm dove gli avvocati sono sospesi dall’Albo per 4 anni, difficilmente può essere ammesso a votare per le valutazioni di professionalità dei magistrati. Referendum. “Sconfitto il populismo. Ora riforme senza strappi” di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2022 Il giurista ed ex pm Nello Rossi: “Sulle regole del Csm mi auguro che la ministra Cartabia e il Parlamento ascoltino le critiche più argomentate”. “I referendum, lo dice la Costituzione, sono validi solo se vivificati da una genuina e ampia partecipazione popolare al voto”. Nello Rossi, oggi direttore di Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica, ma per tutta la sua vita pubblico ministero, dice “no” all’ipotesi di abbassare il quorum. È andato a votare o no? “Si, e ho votato cinque no. Ma l’ho fatto con la sensazione di prendere parte a referendum non solo criticabilissimi ma anche nati morti, vittime dell’enfasi, del rumore e della furia con cui sono stati presentati”. Lei ha scritto che il non voto non è “frutto d’inerzia e apatia politica”, ma “risponde alla logica del referendum abrogativo disegnato dalla Costituzione”. Ne è sempre convinto? “Più che mai. I referendum, lo dice la Carta, sono validi solo se vivificati da un’ampia partecipazione popolare al voto. È questo il valore e il significato del quorum. E se i quesiti sono astrusi e ingannevoli, un elettore razionale è libero di “partecipare” al referendum non recandosi alle urne”. Il sottosegretario forzista alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, noto avvocato e delegato dalla ministra Marta Cartabia a seguire in aula la riforma del Csm, dice che “chi non è andato a votare non è detto che disapprovi il contenuto dei quesiti”. E che “il mancato voto non significa voto contrario”. Ma è proprio così? “Nel vivo della campagna Sisto aveva detto: non votare è “un illecito costituzionale”. Un’affermazione - voglio essere sobrio - totalmente infondata. Ora s’impegna nella ricerca dei possibili significati del non voto. Non lo seguo in questa arrampicata sugli specchi. Un dato però è certo: tra chi non è andato a votare ci sono moltissimi che hanno detto di non voler stare al gioco di referendum artificiosi o pericolosi”. Quanto “valgono” i Sì - 53,9% per eliminare la Severino, 56,12% per vietare la carcerazione preventiva di fronte al pericolo di ripetere il reato - ma espressi dal 20% che ha votato, come segnale “politico” per cambiare quelle leggi? “La vera sorpresa della consultazione è l’esito sul filo di lana di questi due referendum. I promotori li avevano presentato come l’avvio di una rivoluzione e come un appello al popolo per cambiare la giustizia. Puro populismo referendario. Beh, non solo hanno risposto in pochi all’invito, ma in questa minoranza i ‘no’ sono stati numerosissimi. Ha pesato la giusta preoccupazione per gli esiti disastrosi che un successo di queste due iniziative avrebbe avuto per la tenuta della legalità”. E come giudica il 74,01% per separare le carriere? “Se nell’epoca della microchirurgia c’è chi ancora preferisce affidarsi ai segaossi bisogna prenderne atto. Ma la separazione delle funzioni che sarebbe scaturita dal referendum era la soluzione più inefficiente. Se non altro perché avrebbe cristallizzato la divisione sin dal momento della graduatoria del concorso iniziale. Uno sproposito in termini di buona amministrazione delle risorse umane”. La ministra Cartabia è più forte con la sua riforma del Csm da votare al Senato? “Dopo i referendum le prove di forza e gli esercizi muscolari dovrebbero essere messi da parte. Mi piacerebbe che la ministra e il Parlamento si misurassero con i meditati consensi e le critiche argomentate sin qui ricevute. C’è spazio per migliorare il testo legislativo, e ce n’è bisogno”. I referendum sono stati importanti nella storia italiana. È giusto chiedere che il quorum passi dal 50 addirittura al 25%? “Così una legge approvata dalla maggioranza dei rappresentanti del popolo potrebbe essere cancellata da una minoranza di elettori? No, grazie. Sarebbe un rilancio dettato da pura protervia. Teniamoci stretto l’equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta voluto dal Costituente. E non coinvolgiamo lo strumento prezioso del referendum in operazioni spericolate e fallimentari. Stavolta la prima vittima è stato proprio l’istituto del referendum”. Cosimo Di Lauro è morto: il boss di camorra deceduto in carcere di Irene de Arcangelis La Repubblica, 14 giugno 2022 Era detenuto a Milano, al 41 bis. Aveva 49 anni, ancora non note le cause della morte. Era erede e primo dei dieci figli del boss Paolo di Lauro Ciruzzo ‘o milionario. Genny Savastano. Anzi no. Cosimo Di Lauro. Uno finto l’altro vero. Il primo di fama internazionale, il secondo, quello vero, potentissimo (fino all’arresto) con un bilancio da milioni di euro in traffico di stupefacenti al mese. Il boss dai mille soprannomi, il fascino della crudeltà che viene sospettato di aver fatto rapire, torturare e uccidere una giovane indifesa, Gelsomina Verde, colpevole di essere stata fidanzata con un nemico del clan. Prima condannato, poi assolto, non ammise sue responsabilità nel delitto, ma risarcì la famiglia con la somma di 300mila euro. L’ultimo narcos dei Di Lauro - Giovane e bello, tenebroso e senza scrupoli anche verso il padre Ciruzzo ‘o milionario. Fonte infinita di spunti per una fiction estrema che diventa la storia di Genny Savastano. Ma intanto quella storia finisce e nel peggiore dei modi. Prima la mente che si ottenebra, il fisico che si abbandona alla sporcizia e alla trascuratezza. Poi ieri, a soli 48 anni, la morte in cella nel carcere di Opera (Milano). Cosimo di Lauro “il principe”, lo “zoppo” (ma era solo un’andatura irregolare) e poi il “designer don” a causa del suo amore per il lusso eccentrico ha probabilmente chiuso gli occhi su una mente che, a dire dei suoi avvocati, aveva già perso ogni equilibrio. Scampia, due donne assistono a delitto della faida - Non ricordava più nulla del passato di milionario criminale. Nulla della sua tracotanza dei tempi d’oro della camorra di Scampia (finanche lo sguardo volto alle telecamere durante l’arresto) era rimasto nell’uomo che spaccò in due la camorra di Napoli Nord. Dice di lui ora il suo avvocato Saverio Senese: “Ormai non rispondeva alle domande, era sempre sporco, assente; sin dall’inizio ho sempre avuto la sensazione che fosse uno squilibrato. Durante i colloqui mi fissava ma dava la sensazione che non fosse in grado di comprendere. L’autorità giudiziaria riteneva stesse fingendo. Se così è stato allora era anche un grande attore...”. Un patto fra Cosa nostra e Camorra per rifornire di cocaina la Palermo bene - E infatti i legali avevano chiesto ai giudici della terza Corte d’Assise di Napoli di “sospendere il giudizio e di disporre una perizia psichiatrica” per accertare “le condizioni di salute psicofisica” e la capacità “di stare coscientemente al processo”. “Assume dosi massicce di psicofarmaci somministrati da anni come a un paziente psichiatrico”, avevano scritto. Per i legali non doveva restare in prigione, e doveva essere sottoposto a cure specifiche. Oltre dieci anni fa, il 15 gennaio 2008, la prima perizia di parte dimostrava che “le attuali condizioni di salute, lungi dall’essere nate improvvisamente o per effetto di una simulazione, ma siano piuttosto il risultato di un lento processo”. I medici elencavano ansia, disturbi mentali e comportamenti bizzarri “come ridere a crepapelle anche nel cuore della notte”. Napoli, colpo al clan Di Lauro - Una morte, quella di Di Lauro, comunque avvolta nel mistero vista l’età del boss. Per questo la Procura di Milano ha aperto una inchiesta. Disposta l’autopsia e gli esami tossicologici per non escludere alcuna possibilità, dalla morte naturale all’avvelenamento. Se ne va il capoclan più giovane e famoso di Napoli, in carcere dal 2005, quando venne stanato nel buio di uno sgabuzzino di casa di una settantenne nel quartiere fortino del Terzo Mondo. Quasi vent’anni in carcere, tre ergastoli, gli omicidi commessi durante la faida di Scampia, da lui voluta per svecchiare il clan ed eliminare i fedelissimi del padre. E intanto con il potere va via la lucidità e la consapevolezza di essere stato uno dei narcos più crudeli e potenti di Napoli. È morto in carcere Cosimo Di Lauro. Voleva “conquistare” Napoli di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 14 giugno 2022 Gli avvocati avevano chiesto da anni di sottoporre Cosimo Di Lauro a una perizia psichiatrica, sempre negata. Il pm di Milano Roberto Fontana ha deciso di disporre l’autopsia. La morte per ora resta un mistero. Era tormentato dagli incubi. Per riuscire a dormire prendeva psicofarmaci da oltre dieci anni. Diceva di sentire voci che gli sibilavano nelle orecchie. A volte rideva all’improvviso e, poi, senza motivo piangeva a dirotto. La sua vita, dal 2005, era tutta tra le quattro mura di una cella in un carcere di massima sicurezza. Isolato dal resto del mondo aveva deciso di non incontrare neanche più sua madre. E viveva asfissiato dal peso delle anime che si affollavano nella sua mente, forse le stesse che aveva deciso di spazzare via quando era il capoclan di Secondigliano e ordinava omicidi. Cosimo Di Lauro, il boss che ha scatenato una delle più atroci e violente faide degli anni Duemila a Napoli, è morto ieri in carcere a Milano a 48 anni, in circostanze misteriose. Stava scontando due ergastoli e altri due erano già dietro la porta. Era uno stratega del male. La settimana prima del suo arresto - raccontano i pentiti - aveva scritto a penna su un foglio di carta strappato da un quaderno a quadretti una lista di nomi: era il suo testamento di morte. Da quel momento il fratello Marco, che sarebbe finito in carcere 14 anni dopo di lui, aveva avuto il compito preciso di scatenare l’inferno e uccidere tutti quelli segnati su quelle righe. E non c’erano solo boss, ma anche vittime innocenti: cugini, amici, padri, madri, sorelle, amanti. La lista della morte l’aveva pensata proprio Cosimo Di Lauro, perché non voleva rischiare di lasciare a metà quello che aveva cominciato nell’ottobre del 2004. Partì così la mattanza degli innocenti, delle vendette trasversali, lo sterminio dei nemici: chiunque capitasse a tiro in strada, affacciato al balcone, nei circoli, in sella a uno scooter, a piedi, negli obitori andava eliminato. Perché “più ne ammazzate più sono contento”, diceva sorridendo al suo esercito di killer che la mattina uccideva e la notte si nascondeva nelle villette sul Litorale Domitio. A Scampia e Secondigliano, tra la fine del 2004 e la metà del 2005, morirono in 100. La faida tra Di Lauro e scissionisti ha riempito pagine e pagine di cronache nei quotidiani locali e nazionali e ha ispirato il libro Gomorra. Cosimo Di Lauro, nella fiction rappresentato da Genny Savasorti stano, lo chiamavano il chiatto perché da piccolo era goffo, proprio come il personaggio interpretato nella prima serie, da Salvatore Esposito. Primogenito di Paolo Di Lauro, il boss che aveva costruito un regno milionario con i traffici di eroina, cocaina e hashish. Ciruzzo ‘o milionario sperava che il figlio Cosimo potesse un giorno ereditare il suo impero senza troppi scossoni. A lui aveva lasciato il compito di controllare le vite dei dieci fratelli. Niente di più. Ma invece voleva altro, molto altro. Perché sapeva bene quanto la cosca di suo padre guadagnasse ogni mese dai traffici di sostanze stupefacenti. Tre milioni di euro a settimana per il lavoro delle 100 e più “basi” dello spaccio di droga, nel mercato all’aperto più grande d’Europa. E allora decise di svecchiare il clan. Chi aveva superato i 40 anni doveva lasciare spazio a chi era giovane e i primi a dover cedere dovevano essere gli uomini di Raffaele Amato detto ‘a vicchiarella, che reagì subito. Il 28 ottobre del 2004 colpì al cuore Cosimo uccidendo il suo migliore amico, Fulvio Montanino, che quel pomeriggio era assieme a Claudio Salierno. Da quel momento la guerra non si fermò neanche per un giorno, con strascichi nella seconda faida del 2007 e quella dei “girati” del 2012. Cosimino fu arrestato dai carabinieri il 21 gennaio del 2005 nel “terzo mondo” al rione dei Fiori, nel quartiere dove era nato e cresciuto. Quando uscì di casa in manette indossava un soprabito di pelle; codino, volto teso e sguardo di ghiaccio. Aveva 32 anni e solo in pochi, anche tra gli affiliati fedeli, conoscevano la sua identità. Un pentito ha raccontato che quella sera, mentre veniva caricato in auto e portato in carcere, c’erano anche tre killer. Schivo, riservato, non aveva il cellulare e non aveva mai partecipato a feste, riunioni con tanta gente e mai si allontanava troppo da Secondigliano. La sua immagine (soprabito e sguardo di sfida) diventò la prima icona del male che rimbalzò di cellulare in cellulare. Fino a pochi anni fa era in carcere solo con l’accusa di associazione camorristica, poi i pentiti hanno iniziato a ricostruire i primi omicidi e a fare il suo nome. Secondo la procura di Napoli era anche il mandante dell’omicidio di due innocenti: Gelsomina Verde, torturata e uccisa nel tentativo di farle rivelare dove fosse nascosto Gennaro Notturno; e di Attilio Romanò, commesso di un negozio di telefonia, assassinato al posto del genero del boss Antonio Prestieri. Per entrambe le accuse è stato assolto. È stato condannato, invece, al carcere a vita per gli omicidi di Massimo Marino, cugino di Gennaro, e di Mariano Nocera, degli Abete-Abbinante. Era imputato per l’omicidio di Carmela Attrice, mamma di un ras che per nascondere il figlio dalla furia della camorra, fu assassinata al suo posto. E ancora per gli omicidi di Raffaele Duro e Salvatore Panico e del delitto di Federico Bizzarro. Sulla sua morte si addensano ombre. Cosimo Di Lauro, chi era il boss della guerra a Scampia: ritratto di un camorrista di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 giugno 2022 È morto dopo 17 anni di carcere duro a Milano. Nel 2004 scatenò gli omicidi contro gli scissionisti. La notizia della morte di Cosimo Di Lauro, Cosimino, mi ha riportato direttamente nei giorni della faida di Scampia, quando lui si fece Generale di una delle più sanguinose guerre interne accadute in un’organizzazione criminale, una delle più sanguinose della storia umana. Era nato fortunato e incoronato: primo figlio del boss Paolo Di Lauro. Era nato l’8 dicembre del ‘73, e questo era sembrato al padre un segnale miracoloso: il primo figlio maschio che nasce il giorno dell’Immacolata Concezione. Cosimo ha tradito tutte le aspettative di suo padre. Cosimo ha sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare. Ha tradito persino il suo nome - Cosimo - che viene da kòsmios, moderato. Non fu moderato mai, neanche per un istante, nella sua vita. Cosimo è rispettato solo perché è il figlio di Paolo. È chiamato “‘o Chiatto”, cresce grosso, goffo, non ha mai sparato in vita sua. Sì, certo, in strada ci si “vatte”, ci si picchia spessissimo, è un modo per misurare la propria mascolinità, corteggiare, mostrarsi vincenti. Ma Cosimo, se non fosse figlio di re, non riuscirebbe neanche a fare l’autista per una famiglia di camorra. Dentro di sé ha voglia di emergere, ha una grande rabbia, brama ad essere rispettato da suo padre per ciò che è, non semplicemente perché è nato dal suo sangue. Ha vissuto una vita in competizione, cercando di essere amato dal genitore, che fra tutti i figli, probabilmente, preferiva Vincenzo, trovandolo più capace di gestire la responsabilità del potere. E la madre, fra tutti, era molto legata ai più piccoli, Antonio, e Giuseppe l’unico incensurato. Proprio mentre il padre è assente, accade l’episodio destinato a diventare cruciale, ce lo raccontano i pentiti: Nunzio, il litigiosissimo fratello di Cosimo, si picchia con un affiliato del clan Licciardi. Lello Amato viene mandato a parlare con questa persona dei Licciardi, per dire che non si devono permettere di toccare Nunzio. È stata la regola aurea di tutta la storia della camorra degli ultimi anni: il sangue dei Di Lauro non viene mai messo a terra, perché è il sangue di coloro che portano qui la droga di qualità, e quindi sono i fornitori di ricchezza e lavoro per tutti. Chi fornisce è intoccabile. Ma questo affiliato dei Licciardi, gli risponde minacciandolo di morte: “Se vieni qua un’altra volta ti sparo in bocca”. Lello amato va da Cosimo, riporta quella minaccia, gli dice che una cosa simile non è accettabile e che lui, quindi, avrebbe ucciso questo affiliato dei Licciardi. Cosimo glielo impedisce, dicendo che è lui a decidere chi muore adesso. È il primo atto in scena di Cosimino, che inizia una lenta rivoluzione maltrattando tutti i colonnelli del padre. Il senso è: basta potere ai vecchi. I liberi imprenditori diventano dipendenti. Cosimo dà l’ordine: tutti a stipendio, riceveranno soltanto un salario, le piazze tornano alla gestione diretta dei Di Lauro, non si è più liberi tra pari, ma c’è un re e tutti gli sono sudditi. Avviene la scissione. Fulvio Montanino viene mandato a uccidere Luigi Aliberti, con cui divideva una piazza, ‘o Luongo. Chiunque si pone contro di lui deve essere ucciso. Un killer degli Scissionisti, Gennaro Notturno, scappa, e gli uomini di Cosimo tortureranno una ragazza bruciandola, Mina Verde, perché non rivela il luogo dove è nascosto Notturno, con cui ha avuto una relazione. La Scissione cerca di far rientrare Paolo Di Lauro a tutti i costi, gli scissionisti vogliono che il padre riprenda il potere, ma Cosimo continua la guerra. Settanta morti in un anno soltanto, in un fazzoletto di terra. Muoiono moltissimi innocenti, persone uccise per scambio di persona, come Dario Scherillo e Attilio Romanò, o Antonio Landieri, che si trovava semplicemente sulla linea di tiro in un agguato. Cosimo considera tutto questo come la sua vittoria: lo vedevano come un chiattone incapace di uccidere, e invece ora tutti hanno paura di lui. Ma gli affari iniziano ad andare male. L’attenzione mediatica è tantissima, questo porterebbe qualsiasi capo clan a fermarsi, ma non Cosimo, che invece vede la sua vendetta: più violenza c’è, più lui è forte, più i suoi nemici avranno paura e cercheranno una negoziazione, andranno via e gli lasceranno il campo. È convinto che persino i morti innocenti giocheranno a suo favore, tanto che diversi pentiti diranno che la sua frase era: “Cchiù sanghe amma fa punt’”, più sangue più alto il punteggio. La morte di innocenti non è un problema, perché se la sua furia tocca persino chi non c’entra con le dinamiche di camorra significa che chi invece è coinvolto non avrà scampo di salvezza. Dopo tre anni di guerra e di ferocia tra scissionisti e Di Lauro siamo all’epilogo. Quando arrestano Cosimo, nel gennaio del 2005, i carabinieri non riescono a prelevarlo: l’Italia intera raccontò che il quartiere difese il boss, un atto di solidarietà verso il capo, ma non è così semplice. Ci fu un’effettiva rivolta, ma serviva a dire al capo: non siamo stati noi a parlare, non siamo noi i traditori, prenditela con chi ha davvero tradito il quartiere. Cosimo è stato un sovrano criminale per poco tempo. In questi 17 anni in carcere duro al 41 bis, Cosimo sembrerebbe completamente impazzito: non si lavava più, non voleva più colloqui, non rispondeva agli avvocati. Tutti, in realtà, l’hanno lasciato solo. Poteva pentirsi, provare a rimediare, però non voleva essere il primo della sua famiglia a collaborare. Il suo silenzio ha comunque protetto le imprese nate dai suoi soldi, le campagne politiche sostenute dal narcodenaro, i flussi di corruzione che in questi anni hanno deciso appalti, processi, equilibri. Tutto quello che poteva sbagliare ha sbagliato. Non sappiamo ancora il motivo della morte di Cosimo: infarto, ischemia, suicidio... qualcuno dice auto-avvelenamento. Ma qualunque sia la causa della sua morte, il senso è questo: per un camorrista neanche quando si muore arriva la pace. E ora mi sento solo di dire: è così che immaginavi sarebbe stata la vita di chi ha il potere di decidere della vita e della morte di tutti, Cosimì? Lombardia. 90 educatori per 7.000 detenuti, quale reinserimento dal carcere? di Irene Fassini milanotoday.it, 14 giugno 2022 La priorità viene data alla sicurezza. Per dare un’idea del rapporto, in Lombardia ci sono 3.750 agenti di polizia penitenziaria. “L’educatore è il pilastro del carcere per noi detenuti, una figura molto influente perché tutto passa da lui e segna il tuo percorso”, racconta Martino, nome di fantasia di un ex detenuto di 43 anni che ha accettato di parlare con Dossier di MilanoToday. Ha scontato diversi anni di pena in alcune strutture lombarde, tra le quali San Vittore a Milano e Canton Mombello a Brescia. Il sostegno degli educatori è stato fondamentale per costruire un percorso positivo di riabilitazione, anche se “dipende molto da te, da come ti poni, dal tuo atteggiamento e da quali sono le tue intenzioni perché l’esperienza della detenzione è soggettiva”, prosegue. La sua è una storia positiva. Negli anni di reclusione ha sempre lavorato: prima all’interno del carcere come giardiniere, poi all’esterno. “Non ho fatto nemmeno un giorno di pausa”, dice. “Sono uscito a dicembre del 2021 e ho continuato a lavorare, adesso con un’impresa che costruisce ponteggi”. Ma non va sempre così. Giuseppe (altro nome di fantasia, ndr) nei due anni passati a Torre del Gallo a Pavia ha visto gli educatori solo due o tre volte. In quel luogo si è sentito abbandonato. “Dovevo tagliarmi o fare qualcos’altro per ottenere qualcosa”, racconta. Li ha incontrati di nuovo poco prima di uscire. “Stai tranquillo perché in mezzo alla strada non vai”, sostiene gli sia stato detto. Ma in strada, una volta uscito a marzo del 2022, ha rischiato di finirci davvero, se non fosse stato per l’aiuto di una rete di volontari. Un ruolo dimezzato - La risposta è nei numeri. Gli educatori penitenziari, definiti nel 2010 dal Ministero della Giustizia come funzionari giuridico-pedagogici, hanno un ruolo fondamentale per la vita dei detenuti: si occupano di programmare e seguire i percorsi indispensabili per la risocializzazione e quindi per l’accesso alle misure alternative al carcere. Ma sono da anni troppo pochi. E fanno fatica. “Io lavoro in una realtà privilegiata”, spiega a Milano Today Federica Marroni, funzionaria giuridico-pedagogica a Bollate, “dove oltre a esserci più risorse, progetti e agganci con l’esterno per trovare ai detenuti un lavoro, c’è persino una segreteria tecnica a disposizione degli educatori che si occupa delle pratiche burocratiche, come l’invio delle richieste di permessi o di liberazione anticipata ai magistrati di sorveglianza”. Non in tutti gli istituti c’è, e il motivo è sempre lo stesso: vuoti di organico. Quando non deve gestire anche la burocrazia l’educatore si occupa di elaborare in équipe il programma di trattamento personalizzato per ogni detenuto dopo un periodo di osservazione, di accompagnare il detenuto nelle fasi più delicate, quelle di ingresso e uscita, di coordinare le attività di volontariato, di gestire le attività culturali, ricreative e sportive, di scrivere le relazioni richieste dalla magistratura di sorveglianza per la valutazione del detenuto. Tutte attività che richiedono una conoscenza approfondita dei reclusi, ma che è difficile garantire, come nel caso di Federica, che da sola si deve occupare di cento persone. “Ma io mi ritengo fortunata perché comunque posso fare il mio lavoro”, continua Marroni. “Ci sono colleghi che invece passano tre ore al giorno a fare fotocopie perché manca il personale amministrativo”. La Lombardia e l’Italia lontane dall’Europa - Il numero dei detenuti, tolti gli effetti dell’indulto, del decreto svuota-carceri e della pandemia, continua a crescere, ma gli educatori penitenziari non aumentano alla stessa velocità. In Italia nel novembre del 2021 i funzionari giuridico-pedagogici erano 789 per più di 54mila detenuti. In media, negli ultimi cinque anni, come si legge da una recente circolare del Ministero della Giustizia, ogni educatore si è fatto carico di 84 persone, tenendo conto anche di chi lavora temporaneamente in altre sedi dell’Amministrazione penitenziaria esterne al carcere, ma risulta nell’organico. Ma questo succede quando le cose funzionano. In alcuni casi invece gli educatori devono seguire quasi 200 detenuti. Negli istituti lombardi di Busto Arsizio e Como ci sono solo due educatori per tutto il carcere. Rispettivamente, uno per 193 e 181 detenuti. E anche se fossero il doppio, cioè quelli previsti dall’organico, non sarebbero comunque sufficienti per le oltre 350 persone recluse in ognuno dei due istituti. “Il rapporto che dovrebbe esserci tra educatore e detenuti è stabilito da una circolare che risale ancora agli anni Novanta: 1 a 50 per le case circondariali, dove si dovrebbe attendere il giudizio o scontare condanne brevi, e 1 a 100 per le case di reclusione, dove si sconta la condanna definitiva a pene più lunghe”, spiega a Milano Today Pietro Buffa, provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia. Numeri che sono stati rivisti di recente, quando “abbiamo ragionato sul superamento di questo criterio per portare a 1 a 50 il rapporto ideale educatore-detenuto”, sottolinea Francesca Romana Valenzi, dirigente del provveditorato lombardo del Dap, “per valorizzare la figura del funzionario giuridico-pedagogico e il suo lavoro, importante sia per chi ha già una condanna definitiva sia per chi è in attesa di giudizio”. Ma i numeri resterebbero comunque troppo bassi. I nuovi ingressi per concorso entro la fine del 2022 porterebbero ogni educatore a doversi occupare di circa 65 detenuti. Ed è difficile che con cifre così si possano trovare il tempo e le energie per supportare anche chi è in attesa di giudizio. “L’educatore ti parla una prima volta all’ingresso in carcere, ma in genere chiede di attendere la condanna definitiva”, continua a raccontare Giuseppe, ex detenuto. “Per esempio, se sei ancora in attesa del giudizio di appello, ti viene chiesto di aspettare perché la presa in carico avviene solo quando la condanna è definitiva”. In Europa le cose vanno diversamente: come spiega Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Brescia, un educatore segue in media 25 detenuti. “L’idea non è vederlo solo all’ingresso o prima dell’applicazione di una misura alternativa, ma affiancarlo per tutto il percorso di detenzione”, racconta. “Purtroppo in Italia succede spesso che, per mancanza di risorse, venga fatta a priori una selezione sulla base di alcuni requisiti, per esempio di accesso a una misura alternativa. E se un detenuto non li ha, può capitare che non riesca a vedere nessuno fino alla fine della pena”. Dietro ai numeri le persone - Ma non c’è solo questo. La priorità dell’educatore sono le persone e la loro storia familiare e sociale, in un’ottica pedagogica. “Non c’è un numero ideale educatore-detenuto”, rimarca Roberto Mascagni, coordinatore nazionale della Cgil per l’amministrazione penitenziaria. “Si parla di 50 o 60 detenuti per ogni funzionario, ma non si può prescindere da una valutazione che tenga conto del tipo di reato che ognuno ha commesso, della storia personale e dell’eventuale condizione di fragilità”. La complessità del lavoro cambia dunque in base al soggetto. Nel carcere di Canton Mombello a Brescia “oltre a reati minori come piccolo spaccio e furti, c’è un alto numero di condanne per violenze domestiche e in questi casi servirebbe un profilo di altissimo livello e con competenze specifiche”, racconta Marco Dotti, che svolge il lavoro di agente di rete, una figura che fa da tramite tra carcere e territorio e che esiste solo in Lombardia. Così come sono in aumento gli ingressi in carcere per persone tossicodipendenti e con disagio psichico, anche perché le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che devono sostituire gli Ospedali psichiatrico giudiziari non sono ancora a pieno regime. Situazioni complesse che richiedono tempo e personale specializzato. A Canton Mombello scarseggiano anche i mediatori culturali. Ce ne sono due per tutto il carcere e con poche ore a disposizione. “Il risultato è che si finisce per pesare tantissimo sul personale di polizia penitenziaria che non è formato per gestire casi complessi”, ci dice Ravagnani, garante dei detenuti a Brescia. “O diciamo che l’articolo 27 della Costituzione sul reinserimento sociale non lo guardiamo più oppure non stiamo tentando nulla per cambiare le cose realmente”. Priorità alla sicurezza - Per dare un’idea del rapporto, in Lombardia ci sono 3.750 agenti a fronte di 90 educatori. Numeri che mostrano una costante del sistema carcerario: l’investimento è tutto orientato sulla sicurezza delle carceri e non sul trattamento delle persone detenute. Se si guarda al rapporto tra polizia penitenziaria e reclusi, l’Italia è tra i Paesi europei con un tasso migliore, anche se comunque in sofferenza per i tanti agenti delegati a incarichi spesso burocratici. Per questo Barbara Campagna, ex educatrice a San Vittore, dal 2022 in pensione, sostiene sia solo una questione politica. “In un luogo di potere come il carcere, dove ci sono diversi interessi in gioco, quanto vale l’aspetto educativo e pedagogico? Che valore ha ormai l’educatore?”, si chiede. “Ormai il sistema carcere è del tutto sbilanciato sul fronte della custodia. Si assume personale di polizia penitenziaria, trascurando sempre più l’aspetto riabilitativo”. E forse se ne è accorto anche il Ministero della Giustizia. Nell’ultima circolare sulle nuove assunzioni di funzionari giuridico-pedagogici che dovrebbero ripianare i buchi di organico viene ribadita la centralità di questa figura. Un riconoscimento che però, spiega Stefano Graffagnino, educatore e presidente dell’Associazione nazionale funzionari del trattamento, “non va di pari passo con un quello economico e di carriera”. E anche il nuovo concorso che dovrebbe portare entro la fine dell’anno alle nuove assunzioni sfiora il paradosso: sono stati ammessi agli esami orali in 255 per 210 posti. E in ogni caso non si tratta di numeri che elimineranno le carenze strutturali del sistema. Mascagni, coordinatore Cgil per l’amministrazione penitenziaria, spiega che con questa selezione non si potrà nemmeno coprire il turn-over dei pensionamenti. “I fondi del Pnrr sono investiti sull’organizzazione giudiziaria e non sull’amministrazione penitenziaria”, aggiunge. “Di carcere si parla quando ci sono le rivolte, ma c’è poco interesse per le persone che lo fanno andare avanti nel quotidiano”. Bologna. Haitem, il tredicesimo morto nelle rivolte 2020 di Lorenza Pleuteri Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2022 Nessun colpevole per il decesso del detenuto a rischio. Nessun colpevole nemmeno per la fine tragica di Haitem Khedhri, il ragazzo tunisino morto dopo le rivolte scoppiate alla Dozza di Bologna il 9 e il 10 marzo 2020, il tredicesimo e ultimo deceduto nella lista nera delle vittime della strage carceraria di quei giorni. Era un soggetto fragile, a rischio di suicidio, con una scorta di micidiali farmaci in cella, quelli rubati nell’assalto all’infermeria. Andava protetto, anche da se stesso. E invece. Hanno avuto la priorità “la messa in sicurezza del penitenziario e il mantenimento del dialogo con i detenuti”. Il caso è chiuso. Le responsabilità sono state addossate tutte e solo a lui, il morto, “reo” di aver fatto incetta di medicinali e di avere assunto un mix letale di pillole e intrugli, la causa accidentale del decesso. Alla dirigenza e al personale dell’istituto la magistratura penale non addebita alcuna colpa, neppure per omissioni o carenze, escluse. Il gip di Bologna Alberto Gamberini, valutate integrazioni investigative e opposizioni, ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dalla procura. Lo ha fatto il 9 dicembre 2021, con il decreto notificato al Garante nazionale dei detenuti (riconosciuto dal giudice come persona offesa, diversamente che nell’inchiesta-madre modenese) e alla Camera penale di Bologna (esclusa dal ruolo di persona offesa). Il reato ipotizzato è caduto era la morte come conseguenza di altro delitto, il procedimento contro ignoti. Ora le sette pagine del provvedimento sono disponibili grazie al giudice che le ha redatte. L’8 e il 9marzo, ricorda Gamberini, il penitenziario di via del Gomito venne messo a ferro e fuoco da centinaia di reclusi, in rivolta per il blocco dei colloqui con i familiari e le altre restrizioni dovute all’emergenza Covid: “Risultava allagato, privo sistema elettrico, incendiato in numerosi settori e completamente privo di controllo-video perché i riottosi avevano distrutto tutte le telecamere installate… Diversi detenuti erano riusciti a salire sul tetto ed avevano incendiato le guaine, approfittando della posizione favorevole per lanciare oggetti contundenti ed infuocati in direzione degli agenti e facendo esplodere due automezzi dei carabinieri”. All’interno dell’istituto “tutti i cancelli di separazione tra le varie sezioni ed i diversi piani del settore giudiziario erano stati divelti, così come le porte blindate di accesso alle infermerie. Di conseguenza la popolazione detenuta - in elevata percentuale tossicodipendente - aveva la disponibilità di un altissimo numero di farmaci e sostanze psicoattive, potenzialmente rischiose per la salute. Simile contesto impediva qualsiasi accesso e controllo da parte delle istituzioni, che per tutta la giornata del 9 e del 10 marzo rimanevano all’esterno del muro di cinta cercando di rientrare in possesso del penitenziario”, riconquistato alle sette di sera. A quel punto, rileva sempre il gip Gamberini, c’erano interventi da effettuare “con assoluta tempestività”, in primis “ripristinare l’energia elettrica, liberare il passaggio nelle scale di collegamento tra i vari piani, asportare l’acqua dal pianterreno completamente allagato, assicurare la corretta allocazione dei detenuti nelle loro celle e verificarne le condizioni sanitarie, così da mettere in sicurezza coloro che fossero risultati feriti dagli scontri”. Haitem non aveva ferite. Non chiese aiuto. Ma si sentiva stordito, come disse al compagno di cella. E si stese in branda, passando dal sonno alla morte una manciata di ore più tardi. La sua cella venne perquisita dopo il decesso, non prima, sebbene si sapesse delle razzie di farmaci e delle fragilità del ragazzo straniero. Perché? Se lo domanda anche il gip, dando una risposta che chiama fuori direzione e personale. “Occorre chiedersi se, in quelle condizioni di tempo e di luogo, una tempestiva irruzione degli agenti nelle celle avrebbe scongiurato qualche rischio letale o se, piuttosto, sarebbe stata percepita come un’indebita violazione dello spazio personale dei detenuti ed avrebbe dato adito a nuove frizioni e possibili rivolte. Considerando che le ragioni scatenanti delle sommosse attenevano ai diritti più intimi della personalità, quali il mantenimento delle relazioni coi familiari e l’evitare un isolamento totale dal mondo “esterno”, forme ancora più penetranti di violazione della sfera individuale dei detenuti avrebbero ben potuto creare disordini ulteriori”. Per questi motivi, a detta de giudice, dalla direzione del carcere non si poteva esigere “un comportamento di tipo diverso, non potendosi ravvisare una culpa in vigilando per non aver tempestivamente perquisito, dopo una rivolta durata due giorni, le celle dei circa 400 detenuti coinvolti nelle sommosse. Una simile pretesa sarebbe stata anzitutto poco lungimirante, poiché avrebbe manifestato una totale insensibilità delle istituzioni carcerarie alle istanze avanzate dai detenuti, in secondo luogo pericolosa, poiché violare la privacy individuale indispone naturalmente il perquisito, sicché avrebbe rischiato di incendiare nuovamente i rapporti tra le parti. Di conseguenza risulta ragionevole la scelta della direzione di non procedere immediatamente ad una perquisizione generalizzata, quantomeno sotto il profilo del mantenimento della situazione in sicurezza. Le regole cautelari generali del caso concreto imponevano di avere come prioritario fine il mantenimento del dialogo appena riacquisito con i detenuti”. Inoltre, viene sottolineato, non c’era un obbligo di legge che imponesse al personale di perquisire in tempo reale le celle. Così Haitem rimase con una scorta di più di 100 pasticche di seroquel, tavor, akineton, liryca e stilnox (quelle inghiottite e iniettate nel cocktail letale e le 103 trovate sotto materasso) e 6 siringhe (una con ago utilizzata e 5 integre). E il suo nome si è aggiunto a quello dei tre deceduti contati al carcere di Rieti e dei 9 modenesi. Argomenta ancora il giudice Gamberini: “Il nesso causale tra l’omessa perquisizione ed il decesso non può essere accertato oltre ogni ragionevole dubbio, poiché esiste la concreta possibilità che alcun comportamento alternativo avrebbe scongiurato il rischio letale. Sotto il profilo dell’opportunità di una tale perquisizione, alla luce del contesto drammatico in cui si svolgevano i fatti, è presumibile che essa sarebbe stata percepita come ingiustificata, illegittima e prepotente dalla popolazione detenuta, dando adito a nuovi scontri. Pertanto, era inesigibile da parte della direzione un comportamento diverso. Il preminente interesse da salvaguardare in quel momento era la messa in sicurezza del penitenziario e delle persone detenute”, tra cui c’era anche Haitem, il ragazzo straniero fragile, a rischio di suicidio, il morto numero 13 dei giorni delle rivolte. Frosinone. Condannato a trent’anni per aver ucciso un compagno di cella di Clemente Pistilli La Repubblica, 14 giugno 2022 Trenta anni di reclusione. Noto alle cronache come il serial killer delle carceri, Daniele Cestra è stato condannato dalla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone. I giudici lo hanno però riconosciuto responsabile solo di uno dei due omicidi di cui era accusato e per i quali il pm Vittorio Misiti aveva chiesto l’ergastolo. Secondo gli inquirenti, l’imputato, mentre stava scontando nel capoluogo ciociaro una pena sempre per omicidio, si sarebbe trasformato in un assassino seriale, uccidendo i compagni di cella e poi simulandone il suicidio. Inizialmente il pm Misiti ha sospettato che Cestra fosse il responsabile di quattro strani decessi all’interno del carcere. Poi, però, ha ritenuto che prove vi fossero solo per la morte di due compagni di cella, quella il 17 agosto 2016, dell’anziano Giuseppe Mari, di Sgurgola, e quella del 24 marzo dell’anno precedente del 60enne Pietropaolo Bassi. Un’accusa pesantissima per Cestra, 44enne di Sabaudia, che dopo una vita randagia costellata di qualche piccolo reato, era finito dietro le sbarre per aver ucciso nel 2013, durante un furtarello in un’abitazione a Borgo Montenero, nel Comune di San Felice Circeo, la proprietaria della casa, Anna Vastola, di 81 anni, colpendola a morte con una pala. Il pm Misiti ha chiesto l’ergastolo battendo soprattutto sulla consulenza medico-legale compiuta dalla dottoressa Daniela Lucidi e sulla testimonianza di un detenuto, a cui il 44enne avrebbe confessato: “Tanto ne ho ammazzati tre e faccio anche questo che è il quarto”. A insistere invece sull’assenza di prove sono stati i difensori dell’imputato, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone. La Corte d’Assise ha quindi assolto Cestra dall’accusa di aver ucciso Bassi e lo ha condannato a 30 anni per l’omicidio di Mari, escludendo le aggravanti. E nessun risarcimento: si erano costituiti parte civile solo i familiari del 60enne. Cestra intanto è in carcere a Terni e non sembra essere ritenuto così pericoloso da non poter stare insieme ad altri, trovandosi in una cella con altri tre detenuti. Tra 90 giorni le motivazioni della sentenza. E già si profila un’altra battaglia in appello. Reggio Calabria. La Garante dei detenuti incontra i Sindacati della penitenziaria strettoweb.com, 14 giugno 2022 Si è tenuto presso Palazzo San Giorgio giorno 09 giugno 2022 il primo incontro tra il Garante dei detenuti e le sigle sindacali di Polizia Penitenziaria presenti sul territorio reggino. Le O.S. sono state invitate dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Avv. Giovanna Russo, per un confronto costruttivo su vari temi non solo di esclusiva pertinenza al mondo dei detenuti, ma che pur sempre ricadono nella tutela della loro sfera umana e giuridica. È importante sottolineare, dice la Garante, come Reggio abbia avviato in questo settore un dialogo Istituzionale a cui non vuole rinunciare: esportare il massimo livello di confronto costruttivo e democratico sulle criticità del sistema penitenziario reggino per realizzare quel welfare state di cui c’è urgente bisogno. Non a caso la stessa Garante ricorda le recenti e significative risposte da parte della Sanità Territoriale e Regionale già dopo la prima riunione del Tavolo sulla sanità penitenziaria reggina. Presenti per le sigle sindacali Policaro Maurizio O.S.A.P.P., Franco Denisi S.A.P.P.E., Iiriti Daniela, Fabio Viglianti, Giuseppe Danilo Bandiera e Luigi Saccà Si.N.A.P.P.E Ciascun rappresentante prendendo la parola, con molta dovizia di particolari, ha sottolineato i vari problemi afferenti il sistema penitenziario in una reale ottica di collaborazione e dialogo volto a cercare soluzioni alle criticità. Ci si è confrontati su varie tematiche: area sanitaria e possibile richiesta agli organi competenti di una chiusura della sezione di osservazione psichiatrica poiché, inadeguata dal punto di vista strutturale e gestionale malgrado la ristrutturazione; sollecitazione sulla costruzione della caserma agenti di Arghillà (sulle cui peculiarità e urgenze si è espresso lo scorso anno il Garante Nazionale); assegnazione ove possibile di unità del ruolo sovr. e ispettori ad Arghillà e tanto altro ancora, che per opportunità istituzionali le parti tutte hanno ritenuto corretto non diffondere. La Garante si è inoltre dimostrata disponibile a interloquire con Prefettura, Procura e rappresentanti politici/istituzionali locali e nazionali per discutere di problemi relativi all’ordine e alla sicurezza ed al fine di regolamentare alcuni aspetti critici su sicurezza e sanità pubblica finanche per l’annosa vicenda che investe il quartiere di Arghillà che ricade nelle vicinanze del Plesso medesimo. Pregevole la disponibilità delle O.S. presenti che hanno dimostrato quanto il loro sereno operato sia fondamentale per una maggiore trasparenza della vita delle persone recluse, dice la Garante. Gli agenti di polizia penitenziaria sono le persone più prossime ai detenuti e lo fanno con spirito di sacrificio e abnegazione servendo con amore lo Stato di cui sono degni rappresentanti. La rete dei rapporti istituzionali agevolerà certamente il conseguimento di questi obiettivi perché ciò che si percepiva al tavolo dei lavori era reale volontà di fare squadra. Sono queste le linee di stile dettate a livello centrale e promosse anche a Reggio Calabria. Un sistema penitenziario che voglia realmente realizzare un welfare state, migliorativo della vita di ciascuna persona che lavori al suo interno o che vive perché lì reclusa, deve rinunciare a personalismi e promuovere l’azione di squadra coesa. Coesione precisa la Garante non è confusione di ruoli e responsabilità, piuttosto aver compreso che la base per la risoluzione di ogni annosa questione sociale è il dialogo. A questo primo incontro seguiranno aggiornamenti fornendo dati concreti come quelli che di qui a breve verranno annunciati per il comparto sanitario alla presenza delle rappresentanze istituzionali preposte. La forza del nostro territorio è data dalla volontà di raggiungere insieme obiettivi per il benessere di tutti, questo è ciò che è emerso dallo spirito dei presenti al tavolo e dalle continue interlocuzioni con una sempre attenta amministrazione penitenziaria tutta. Siena. Non più garantito il presidio medico all’interno del carcere radiosienatv.it, 14 giugno 2022 Il presidio medico h24 all’interno del carcere di Ranza non sarà più garantito a partire dal prossimo fine settimana. A lanciare l’allarme sono i sindacati della polizia penitenziaria, che definiscono scellerata questa scelta compiuta dal sistema sanitario toscano. “Non c’è pace per il personale di Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di San Gimignano - scrivono le organizzazioni sindacali in un documento unitario -. Le scriventi OO.SS. sono venute a conoscenza che già a partire dal prossimo weekend la Sanità Toscana, nella sua autonomia, è intenzionata a non garantire più il Presidio Medico H24 all’interno del Penitenziario di Ranza. Solo chi, come noi, conosce bene la realtà e le difficili dinamiche di un Istituto penitenziario, è consapevole che tale scelta, a dir poco scellerata, determinerà nell’immediato innumerevoli ricorsi ai numeri di soccorso pubblico quali Guardia Medica e/o 118 che saranno inevitabilmente chiamati in causa per sopperire all’assenza del Medico di turno all’interno dell’Istituto. Guardia Medica e/o 118 avranno un notevole surplus lavorativo perché dovranno necessariamente sostituirsi al Medico dell’Istituto che, come ora, assicura la dovuta assistenza sanitaria H24 alla popolazione detenuta valutando tempestivamente qualsiasi necessità e fornendo contestualmente un preventivo screening che, il più delle volte, evita inutili ricorsi a strutture sanitarie dislocate sul territorio con relativo risparmio sulla spesa pubblica. Per capirsi meglio… per un semplice mal di testa o per la somministrazione di un banale antidolorifico a un detenuto, il personale di Polizia Penitenziaria, non avendo ovviamente alcuna competenza in materia, dovrà necessariamente chiedere l’intervento della Guardia Medica e/o 118. C’è da tenere debitamente conto, data l’età media avanzata della popolazione detenuta, che questo tipo di richieste sono a dir poco all’ordine del giorno e, conseguentemente, l’assenza di un Medico H24 andrebbe a stravolgere l’attuale status quo. Giova evidenziare che tutto ciò, se irresponsabilmente attuato, determinerà gravi rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica e destabilizzerà verosimilmente l’organizzazione e il buon andamento dell’intero sistema sanitario della Valdelsa con inevitabili ripercussioni su tutta la cittadinanza”. Gorgona (Li). Decima vendemmia sull’isola, dove il vino lo producono i detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 giugno 2022 “Un progetto che ci rende ogni anno più orgogliosi e non smette mai di regalare emozioni”. Lamberto Frescobaldi, presidente della casa vinicola Marchesi Frescobaldi, non trattiene l’entusiasmo per la produzione enologica realizzata insieme ai detenuti dell’isola di Gorgona. Un progetto di rieducazione arrivato al decimo anno. Anzi, sarebbe il caso di dire, alla decima annata, tappa celebrata con un’etichetta speciale: “È un vino inimitabile ed esclusivo in quanto simbolo di speranza e libertà”, afferma Frescobaldi. Il piccolo vigneto di due ettari, esposto a est e protetto dai venti, consente una produzione limitata: da ogni vendemmia si possono ricavare soltanto 9mila bottiglie di bianco a base di Vermentino e Ansonica. L’etichetta celebrativa riporta una “Lettera a Gorgona”, in cui si ringraziano direttori, autorità, polizia, educatori e quanti hanno unito forze e competenze per realizzare “un progetto sociale e giusto”. Tra le righe, si legge una dedica particolare “ai detenuti e agli enologi che si sono messi in gioco per imparare e insegnare un nuovo mestiere”. Roma. Inaugurato il nuovo frutteto di Rebibbia Femminile garantedetenutilazio.it, 14 giugno 2022 27 giovani alberi sono stati messi a dimora nell’area agricola del penitenziario romano. Il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, martedì 7 giugno si è recato nella casa circondariale femminile di Rebibbia “G. Stefanini”, per partecipare all’inaugurazione del nuovo frutteto donato dall’Associazione italiana architettura del paesaggio (Aiapp) al Comune di Roma Capitale. In accordo con il quarto municipio capitolino, i ventisette gli alberelli da frutto, provenienti da alcuni vivai associati all’Aiapp in tutta Italia, sono stati destinati all’area agricola che si trova all’interno del penitenziario romano. Ad accogliere gli intervenuti la direttrice, Alessia Rampazzi, e il comandante della Polizia penitenziaria, Dario Pulsinelli. All’evento inaugurale hanno partecipato anche l’assessora all’ambiente del quarto municipio, Federica Desideri, Anna Vincenzoni, membro della segreteria dell’assessora capitolina Sabrina Alfonsi, e la Garante comunale, Gabriella Stramaccioni. Collocati all’interno del perimetro del carcere, secondo un progetto degli architetti dell’Aiapp Emanuele Von Normann, Lucia Rivosecchi e Maria Beatrice Caldani, i giovani alberi da frutto, appartenenti a nove specie arboree diverse (gelso, bergamotto, cotogno, melograno, carrubo ecc.), sono stati messi a dimora da personale del Comune di Roma Capitale e dello stesso istituto penitenziario, e affidati alle cure delle undici detenute che lavorano nell’azienda agricola interna. Larino (Cb). Teatro-carcere: detenuti attori e ballerini per una Biancaneve pop primonumero.it, 14 giugno 2022 Quest’anno il laboratorio, oltre alla direzione del regista Giandomenico Sale, ha ospitato uno tra i maggiori coreografi statunitensi, Richard Move, docente di coreografia alla New York University. Torna il teatro nel carcere di Larino, con l’apertura al pubblico per due spettacoli. Sabato 25 e domenica 26 giugno alle 20.30, in scena Biancaneve, frutto del laboratorio teatrale con i detenuti della Casa Circondariale di Larino. Quest’anno il laboratorio, oltre alla direzione del regista Giandomenico Sale, ha ospitato uno tra i maggiori coreografi statunitensi, Richard Move, docente di coreografia alla New York University. “La scelta del testo di Biancaneve - spiegano da Frentania Teatri - per il nuovo spettacolo della Casa circondariale di Larino è dovuta a mantenere quel filo conduttore di leggerezza e riflessione che unisce tutti i lavori con i detenuti tenutisi in questi anni. Inoltre l’estrema attualità riscontrata in questa fiaba ci ha spinti a renderla pop. Perché una Biancaneve pop? Perché i temi centrali di tutta la vanità consumante e la gelosia ossessiva, raccontati dai fratelli Grimm, sono senza tempo e, proprio per questo, a questo stile pop si mescolano rituali arcaici di magia in uso nella prima metà del novecento nel sud Italia. Questa ossessività per il proprio aspetto è evidente più che mai oggi, nell’era dei social media. Nella società contemporanea molti di noi (la maggior parte?) sono così consumati dalla propria immagine che i confini tra realtà e finzione si mescolano facilmente. C’è un desiderio di perfezione che, spesso, si palesa attraverso un confronto invidioso con gli altri. Dallo scroll infinito dei social, ai filtri facili da usare, alla continua ricerca di più ‘like’, si può dire che siamo ossessionati dal nostro aspetto come lo è la matrigna con il proprio riflesso. Smartphone sempre alla mano e fotocamera pronta, è facile immaginare che noi, nel 2022, riflettiamo sulla nostra stessa immagine, ancor più del personaggio della matrigna, scritto dai fratelli Grimm nel 18° secolo, che scarica le sue frustrazioni su un’ignara Biancaneve. Le icone pop, da Madonna a Britney Spears a Lady GaGa, con i loro stili accuratamente realizzati, diretti dall’arte e marchiati, incarnano questo desiderio di un’immagine perfetta. E, con un certo livello di ironia, canzoni come ‘Vanity’ di Lady GaGa parlano direttamente di tali ossessioni, mentre catturano lo spirito della vita contemporanea, sia online che offline”. “Un grazie - conclude Giandomenico Sale, regista di svariati spettacoli nella casa circondariale di Larino - quanti hanno reso possibile questa ripartenza e in particolare al direttore dottoressa Rosa La Ginestra e al Funzionario Giuridico - Pedagogico dottoressa Brigida Finelli. E un grazie all’Otto per Mille Valdese per il supporto al progetto”. Per info e prenotazioni potete contattare via whatsapp il numero 349.6103282. Firenze. L’Uisp con Vivicittà nel carcere Gozzini uisp.it, 14 giugno 2022 La storica manifestazione podistica dell’Uisp ha unito unire reclusi e podisti nel segno dello sport per tutti. Detenuti e runners insieme di corsa all’interno della Casa circondariale Mario Gozzini di Firenze per ribadire, grazie alla Uisp, che lo sport unisce e supera ogni tipo di barriera e ostacolo. Dopo due anni di stop causa pandemia, venerdì 10 giugno il cancello del Gozzini si è aperto a una piccola delegazione formata dal presidente della Uisp Firenze Marco Ceccantini e dai rappresentanti di tre società sportive fiorentine: il G.S. Le Torri con la presidente Catia Ballotti, insieme a rappresentanti dell’Isolotto Apd e dell’Asd il Ponte Scandicci. Obiettivo: portare Vivicittà, storica manifestazione Uisp che ogni anno coinvolge decine di città in tutta Italia, anche nel carcere fiorentino. Ventisei i detenuti e una decina i runners che si sono sfidati simbolicamente in una gara di corsa attorno al perimetro della casa circondariale: tre i giri effettuati per una distanza di circa 2,5 chilometri. A incitare i partecipanti gli operatori Uisp che portano avanti durante tutto l’anno progetti in carcere tre volte a settimana, gli educatori e gli agenti di polizia penitenziaria. A vincere Hamza, 29 anni di Terni, di professione fabbro: intervistato da Sara Meini, nel servizio della TgR Rai Toscana, Hamza ha dedicato la vittoria alla sua famiglia: “Il carcere è un’esperienza che ti può far maturare ed essere più responsabile”. Positivo anche il commento del direttore del carcere, Vincenzo Tedeschi: “Lo sport in carcere serve molto, è una delle attività fondamentali. Aprire di nuovo il carcere ad iniziative così importanti è una cosa utile e, ci auguriamo, da ripetere”. Ma in fondo è come se avessero vinto tutti. Marco Ceccantini, nel ringraziare le società sportive, i loro presidenti ma soprattutto i corridori che si sono resi disponibili a partecipare a Vivicittà in carcere, ha ricordato le numerose attività che la Uisp porta avanti sia a Sollicciano che al Gozzini, ribadendo come lo sport sia uno strumento prezioso per dare la possibilità anche a chi ha commesso degli errori, di trovare e seguire la strada giusta. Al tempo stesso ha ricordato che lo sport, e soprattutto manifestazioni come Vivicittà, sono l’occasione per i detenuti di entrare in contatto con nuove realtà e cominciare a costruire il loro percorso futuro una volta conclusa l’esperienza in carcere. Il direttore della casa circondariale, Vincenzo Tedeschi, nel ringraziare la Uisp e le società sportive che hanno partecipato alla manifestazione, ha sottolineato l’importanza che lo sport assieme alla formazione e al lavoro ha per i detenuti e si è augurato che manifestazioni analoghe si possano svolgere ancora in futuro. Nicola Di Santo, l’italiano prigioniero in Indonesia che ora rischia la pena di morte di Giuliano Foschini La Repubblica, 14 giugno 2022 L’appello al governo: “Fatelo tornare”. Il cuoco è in carcere a Bali da più di sette mesi dove viene picchiato e torturato per un reato che giura di non aver mai commesso. L’avvocata Ballerini: “Solo in Italia potrà in caso affrontare un giusto processo”. Una strana rapina. La presunta refurtiva nascosta in un conto di criptovalute. E soprattutto la storia di un ragazzo italiano, il cuoco Nicola Di Santo, in carcere a Bali da più di sette mesi, picchiato, torturato, e che rischia fino alla pena di morte per un reato che giura di non aver mai commesso. A sollevare il caso è il senatore Gregorio De Falco che ha presentato un’interrogazione parlamentare urgente. E l’avvocato di Di Santo, Alessandra Ballerini, la legale genovese specializzata in diritti civili che tra gli altri difende anche i genitori di Giulio Regeni, Mario Paciolla e Andy Rocchelli. Sono loro a chiedere l’intervento del Governo italiano affinché il ragazzo possa ritornare in Italia ed, eventualmente, affrontare un giusto processo. La storia comincia nel marzo del 2020 quando Di Santo, che da due anni viveva e lavorava come cuoco in Australia, va in vacanza a Bali. La pandemia lo blocca però sull’isola dove fa buon viso a cattivo gioco. Conosce un italiano che da tempo viveva nell’isola e con lui immaginano una serie di business: da una parte una catena di ristoranti, visto che Di Santo era del mestiere. E dall’altro un investimento nelle criptovalute, visto che l’italiano era un esperto broker. All’inizio gli affari vanno bene. Il ragazzo italiano racconta, nelle telefonate con i genitori in Italia, che tutto sta andando come deve. I problemi sorgono a fine 2021: i rapporti tra i due soci si incrinano e così Di Santo decide di tornare in Italia. Il padre gli compra i biglietti quando perde i contatti con lui. Il perché lo capisce soltanto alcuni giorni dopo quando, finalmente, riesce a mettersi in contatto con l’ambasciata italiana: il figlio è stato arrestato con l’accusa di aver rapinato proprio il suo ex socio. A compiere materialmente la rapina sarebbero stati dei russi ma, secondo la presunta vittima che ha sporto la denuncia, Di Santo sarebbe il mandante. Il ragazzo si dice innocente, ma questo non è il punto più importante: la questione è che il cuoco in carcere racconta, e documenta, di essere stato massacrato di botte dalla polizia. Che gli avrebbe spento sigarette sul corpo, gli ha puntato la pistola alla tempia per costringerlo a confessare. Lui però continua a dire di essere innocente. E lo dice anche ai nostri diplomatici che il 16 novembre lo vanno a visitare in prigione. In quell’occasione gli viene suggerito di nominare uno studio legale in loco, cosa che Di Santo fa. I legali prendono contatti con la sua famiglia in Italia e chiedono prima 12.418 euro per le spese legali. E poi un ulteriore pagamento di un miliardo di rupie (61.500) spiegando che era il prezzo per tirarlo fuori. Una sorta di cauzione. I familiari pagano. Ma Di Santo resta in carcere. Da quel momento in poi le risposte dell’ufficio legale arrivano con il contagocce: gli avvocati indonesiani riferiscono che la polizia vuole interrogare nuovamente Nicola fino al 13 marzo quando lo studio smette di rispondere. Nel frattempo la famiglia si rende conto che nel fascicolo c’è anche una confessione del ragazzo. Ma che è stata subito ritrattata. “Me l’hanno estorta mentre mi torturavano” racconta DI Santo al padre e al suo avvocato. Il punto è che nessun documento è stato trasmesso in Italia. “Intanto le condizioni in cui si trova il ragazzo sono incredibili” spiega l’avvocato Ballerini. “La cella misura tredici passi da un muro all’altro, come riferito da Nicola, si dorme sul pavimento, non c’è una sedia, né un tavolo e i detenuti come sciacquone per il wc devono usare un secchio. Nicola mangia due ciotole di riso al giorno. Ha spesso la febbre, ha perso 12 chili ed è in condizioni di salute assolutamente precarie. Esce dalla cella solo per andare alle udienze del processo in tribunale. Gli è vietato telefonare e ricevere visite, comprese quelle degli avvocati e dei dottori, al contrario degli altri detenuti che hanno accesso anche al telefono di servizio”.