Carcere, non chiamatela emergenza di Luca Rinaldi milanotoday.it, 13 giugno 2022 Il carcere è un mondo, chi ci vive da detenuto e chi ci lavora come agente o educatore merita tutela ed è venuto il momento di scegliere che modello vogliamo. Da anni regolarmente si sente tornare l’espressione “emergenza carceri”. Niente di nuovo nel Paese delle emergenze, e che con il cappello dello stato emergenziale ha persino organizzato eventi come il G8, i mondiali di nuoto, e, per restare a Milano, Expo 2015. L’eccezionalità che permette di andare in deroga alle normative e percorrere strade altrimenti precluse dall’applicazione del diritto. Quando però un’emergenza rimane tale per anni è forse ora di mandare in soffitta una simile locuzione e accettare che siamo davanti a uno stato di cose per cui è necessario fare azioni nell’ordinario della quotidianità per cercare di risolvere la situazione. Le carceri in Italia scoppiano, non lo scopriamo di certo oggi, tanto che il numero dei detenuti presenti è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, raccontandoci che ci sono circa 8 mila detenuti in più rispetto alle capienze regolari e che ogni anno muoiono di carcere circa 130 persone, di cui poco più di 50 per suicidio. Due recentissimi a San Vittore sono l’ennesima prova. Ma il sovraffollamento e le morti sono solamente conseguenze di cause più profonde che devono essere affrontate da un sistema intero, dalla politica (nazionale ma anche e soprattutto locale) alla giustizia, passando per le forze dell’ordine, gli educatori e tutti i corpi intermedi. Perché il carcere è un mondo che non si può far finta di non vedere solo perché alte mura ci separano da un universo. A partire da oggi dedicheremo alcuni approfondimenti e inchieste al tema perché dietro ai numeri ci sono sempre le persone con le loro storie, il loro vissuto, e soprattutto la necessità di uscire dalla detenzione con l’opportunità di poter vivere nel mondo fuori. Perché nel viaggio che stiamo compiendo per raccontare quello che c’è dietro le sbarre, si vedono ancora troppo poche possibilità per continuare la vita fuori. Un dato su tutti che racconteremo nei prossimi giorni: i novanta educatori presenti in Lombardia chiamati a occuparsi di settemila detenuti. Tutto in barba alle stesse circolari ministeriali con punte che vedono istituti di pena in cui si conta un educatore ogni 193 detenuti. Il momento di decidere quale sistema vogliamo è sempre quello buono: abbandonare ogni ipocrisia e dire chiaramente che il sistema punitivo e securitario è quello che si vuole perseguire fregandosene della Costituzione, oppure sforzarsi di indirizzare gli sforzi verso istituti di pena più civili in grado di dare un futuro ai detenuti, e un lavoro più sicuro e sereno anche a educatori e agenti penitenziari. Proprio perché il carcere è un mondo a chi sta fuori spetta il compito anche di prendersi cura di chi è dentro, chiunque sia e qualunque lavoro faccia. Perché è inutile avere eccellenze sul territorio buone per cerimonie e conferenze, mentre a qualche chilometro di distanza morti e violenze sono all’ordine del giorno. Eppure, come vedremo, anche nelle scelte in vista delle spese del Pnrr sembra che l’investimento viri sempre di più nella sola ottica securitaria anziché nell’investimento volto al recupero del detenuto. Certo l’impresa non è facile, ma comprendere almeno la direzione in cui si vuole andare è fondamentale per la società tutta e non solo per un tema di civiltà giuridica. Per evitare di continuare a chiamarla emergenza e occuparsene solo quando si verificano eventi critici. Suicidi in carcere, spia di un disagio diffuso di Paolo Brivio chiesadimilano.it, 13 giugno 2022 I casi di San Vittore non sono episodi isolati: in Italia più di un detenuto su quattro risulta in terapia psichiatrica. Disagio psichico diffuso. Ma anche sovraffollamento, problema principe delle carceri italiane nell’ultimo ventennio, che prima le reprimende Ue e poi il Covid hanno condotto ad alleggerire. E che però ora si ripresenta. Secondo i dati governativi aggiornati a fine maggio, nei nostri istituti di pena sono presenti 54.771 detenuti, mentre la capienza ufficiale è 50.859 posti. In Lombardia a fine 2021 i detenuti erano 7.838 (anziché 6.129), nei 7 istituti per adulti nella diocesi di Milano 4.515 (anziché 3.651), con tassi di sovraffollamento in crescita, giunti rispettivamente a 1,279 e 1,237 (il valore “ideale” 1 identifica un numero di detenuti pari alla capienza ufficiale). Non sono casi isolati. E non solo perché si sono verificati nel medesimo luogo (la casa circondariale di San Vittore, a Milano), a pochissimi giorni di distanza, tra fine maggio e inizio giugno. I suicidi di Abou El Maati e Giacomo Trimarco, insieme ai 27 altri verificatisi nelle carceri italiane da inizio 2022, hanno costituito la drammatica spia di un malessere assai esteso (e purtroppo incontrastato) nel mondo carcerario italiano, all’interno del quale - sono stime dell’associazione Antigone risalenti a fine 2020, certamente non migliorate nel frattempo - oltre un quarto degli oltre 50 mila detenuti risulta in terapia psichiatrica. La corrosione della salute mentale dei detenuti è probabilmente il principale problema che affligge, oggi, il sistema carcerario nel nostro Paese. Ancor più del sovraffollamento, male meno acuto di un tempo, benché di nuovo in risalita. Sempre a inizio giugno, alcuni detenuti del carcere di Cremona, a causa della mancata somministrazione di uno psicofarmaco, hanno inscenato una protesta appiccando il fuoco alle celle: anche quando non arriva alle estreme conseguenze, il disagio psichico di tanti carcerati mette a repentaglio, oltre che la loro salute, il clima interno degli istituti di pena. Misure inadeguate - Per occuparsi della salute mentale dei “ristretti”, chiudendo la vergognosa e ultradecennale pagina degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), dal 2015 sono state aperte le cosiddette Rems (Residenze per le misure di sicurezza) e introdotte altre novità organizzative. Queste ultime, però, sono state sviluppate in maniera disomogenea, e in definitiva poco efficace, funzionali più a esigenze organizzative interne che alla necessità di assicurare il diritto costituzionale alla salute. Quanto alle Rems, che a differenza degli Opg avrebbero dovuto essere centri di cura e non di detenzione, il loro funzionamento si è dimostrato sempre inadeguato rispetto ai bisogni: i posti disponibili sono insufficienti, le liste d’attesa lunghissime, la durata media dei ricoveri crescente (dai 206 giorni del 2017 ai 236 di fine 2020). Il problema riguarda l’intero Paese, e viene aggravato dalla difficile reperibilità di personale specialistico disponibile a operare nelle strutture detentive (e in alcuni casi addirittura dall’indisponibilità di personale medico generico). In Lombardia, il problema della salute mentale in carcere è poi inasprito dalla scelta, assunta dalla Regione, di aprire una sola Rems nell’ex Opg di Castiglione delle Stiviere (Mantova), che per quanto replichi alcune storture del passato (cure non territorializzate, degenza lontana dalle famiglie, gigantismo della struttura in cui sono curate 151 persone) riesce a rispondere solo a poco più di un quarto delle esigenze di ricovero. E così anche le cappellanie della diocesi di Milano hanno più di un motivo per denunciare, da tempo, la preoccupazione per l’ampliarsi dell’area del disagio e il moltiplicarsi dei casi critici, quelli che possono condurre a gesti estremi. L’allarme riguarda in particolare i molti soggetti multiproblematici (caratterizzati da doppia diagnosi, povertà estreme, mancanza di reti familiari) e chi è straniero (le questioni etno-psichiatriche sono poco conosciute anche dagli specialisti). Ma in generale una convinzione è ormai assodata: il disagio mentale, sovente all’origine dell’esperienza criminale, viene non attutito, come dovrebbe essere, ma reso ulteriormente instabile dalla permanenza in carceri incapaci di cura. Un infernale circuito vizioso, che bisogna affrettarsi a spezzare. “Il carcere toglie dignità anche alla morte” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 13 giugno 2022 Don Roberto Mozzi, cappellano di San Vittore, parla dei detenuti malati (anche gravemente), commenta i recenti casi di suicidi e afferma: “Chi non è in grado di sostenere una pena solo punitiva non regge”. Non si può morire in carcere. Né da malati, né da suicidi. “Ancora prima che succedesse il secondo caso di suicido in San Vittore - ammette don Roberto Mozzi, cappellano del carcere milanese - mi sono detto: “La morte non deve far parte del carcere”, salvo la malattia fulminante che può capitare a tutti e ovunque. La morte ha bisogno di dignità e il carcere non è il luogo dove la morte può avere dignità”. Il carcere non è solo uno spazio fisico in cui scontare la pena… Il carcere è un luogo che dovrebbe aiutare le persone ad affrontare la vita in modo nuovo; dove la libertà della persona è temporaneamente sospesa, ma non è previsto che sia limitata la parte così fondamentale della vita che è la morte. Perciò dovrebbero esserci tutte le condizioni perché non avvenga, neppure quando si tratta di malattie terminali. In tanti casi purtroppo le persone vedono la loro fine in carcere, oppure ne affrontano l’intero iter, per poi arrivare alla liberazione con differimento pena solo negli ultimi due giorni di agonia. Il problema è la burocrazia per il trasferimento in una struttura sanitaria o disattenzione e superficialità? Non lo so. Posso però raccontare un caso accaduto diversi mesi fa. Una persona, malata oncologica terminale, ha vissuto reclusa, prima a San Vittore e poi nel reparto di detenzione dell’ospedale San Paolo, fino a due giorni prima della morte, in una condizione fisica di prostrazione estrema: non era neanche in grado di indossare abiti, tanto era compromesso il suo corpo. Mi domando se questa prolungata detenzione abbia avuto senso. E rispetto ai suicidi? Le statistiche già da sole dovrebbero far riflettere, perché sono 10-13 volte superiori in carcere rispetto alla popolazione libera. Il carcere, il più delle volte, è vissuto dai detenuti (sani e malati, italiani e stranieri) come una pena fine a se stessa. Invece, secondo quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario, ha una finalità nei trattamenti utili alla risocializzazione della persona condannata. La pena è un peso sulle persone che, il più delle volte, si sentono schiacciate e la vivono negativamente. Mette alla prova la personalità psicologica e anche fisica di tutti, sia di quelli più forti e abituati al carcere, sia di quelli meno preparati, più giovani e soprattutto malati dal punto di vista fisico o psicologico. I più deboli non ce la fanno, distinguendo tra psichiatrici e disabili mentali: a volte le patologie sono certificate, altre invece non lo sono, perché non è mai stata fatta una perizia, né in fase processuale, né in seguito. E così ricevono lo stesso trattamento degli altri. Chi non è in grado di sostenere la pena, solo punitiva, non regge. Molti suicidi nascono da queste situazioni. Che aria si respira in cella e in reparto dopo la morte di un compagno? C’è grande dispiacere per la persona perché la convivenza, seppure forzata all’interno di un reparto, genera relazioni che spesso sono anche di solidarietà e di reciproco aiuto. Quindi vedere che una persona non ce l’ha fatta suscita tristezza e genera un senso di colpa in chi le stava accanto. E poi crea un senso di insicurezza, perché qualcuno nei reparti vive le stesse problematiche e si chiede: “Io ce la potrò fare?”. In tutti comunque genera una mancanza di speranza, perché si vedono chiusi in un sistema che porta a un esito negativo e non dà prospettive. E il personale penitenziario come reagisce? Da una parte le pochissime figure professionali, dedite alla cura psico-fisica e al percorso socio-educativo della persona, si trovano caricate di una responsabilità e di una mole di lavoro superiore alle loro forze, anzitutto per un fatto numerico e poi per le condizioni di lavoro. Un operatore medico o socio-educativo come fa a gestire persone psichiatriche o disabili mentali in carcere? Eppure, di fronte a una situazione che finisce male, sono considerati loro quelli competenti. Invece andrebbe rivisto il sistema, che permette a persone disabili e psichicamente malate di restare in carcere. Gli stessi agenti di polizia si trovano a svolgere un lavoro che non è nelle loro competenze, cioè di prendersi cura di persone che hanno bisogno di un’assistenza di salute mentale. Quindi il personale che opera all’interno si sente estremamente frustrato di fronte a un esito di questo tipo e si chiede il senso del proprio lavoro svolto in tali condizioni. E poi ci sono le famiglie… Per loro la ferita è ancora più profonda… Per i familiari di una persona malata in carcere il dolore è doppio: è doloroso vedere che il loro parente, oltre ad avere una patologia, mette in atto comportamenti antisociali. E lo è ancora di più quando lo vedono trattato semplicemente come un criminale, mentre dovrebbe ricevere un trattamento differente. Se poi l’esito è la morte, a loro rimane solo la disperazione. Una “Seconda chance” per i detenuti di Cristina Cossu L’Unione Sarda, 13 giugno 2022 “A marzo, rinchiusa ai domiciliari nella sua casa al Tuscolano, E. patisce così tanto la povertà e la solitudine da chiedere di tornare in carcere. La Garante dei diritti dei detenuti di Roma coglie la voce, corre da lei e promette di aiutarla: in un paio di giorni le procura un lavoro da Luciano Luzzi, che ha due celebri trattorie al Colosseo, e riaccende immediatamente la vita spenta di E.”. Una storia come tante, un sogno che si realizza grazie al progetto messo su con impegno, sacrificio, ma alla fine - soprattutto - enormi soddisfazioni, da Flavia Filippi, cronista giudiziaria al tg La7. Questa bella iniziativa di inclusione sociale di cui molti parlano si chiama “Seconda chance”, e ha l’obiettivo di far incontrare domanda e offerta di lavoro in un segmento diverso dal mercato “normale”. Da un lato ci sono molti imprenditori che non trovano personale - in questi tempi, per dire, assumere stagionali per il settore turistico-ricettivo, operai, in generale gente di buona volontà, è difficilissimo - dall’altra ci sono detenuti vicini al fine pena che vogliono reinserirsi nella società, riappropriarsi di un’esistenza dignitosa e autonoma. Lo strumento è la legge Smuraglia (la 193 del 2000) che consente sgravi contributivi e fiscali ad aziende e cooperative che impiegano detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno, in virtù dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Sottolinea Maria Grazia Caligaris, portavoce dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme: “Purtroppo in Sardegna è uno strumento poco usato e poco conosciuto. Dovremmo organizzare un’iniziativa pubblica per illustrarlo agli imprenditori”. D’accordo la presidente regionale di Confartigianato Maria Amelia Lai: “Non ci abbiamo lavorato abbastanza, e questo è un danno per tutti. Parlerò con i nostri associati, per mettere a punto un progetto ad hoc”. Chi invece lo conosce e lo utilizza è don Ettore Cannavera, responsabile della comunità La Collina: “Noi portiamo avanti da diversi anni un progetto pensato dall’ex procuratore capo Mauro Mura: ci sono 8 ragazzi, alcuni che stanno da noi, altri nel carcere di Uta, che ogni mattina alle 9 si presentano al lavoro in Tribunale, dove si occupano della digitalizzazione dei documenti. Poi, alle 14.30, fanno rientro nelle rispettive strutture di detenzione”. Ancora: “Nella nostra comunità ci sono persone che scontano misure alternative e lavorano nell’azienda agricola - coltiviamo vigne e uliveti, produciamo vino e olio - e dalla vendita dei prodotti ricaviamo la loro paga, con la quale in parte contribuiscono al loro mantenimento qui”. Nell’Isola, nel 2022 sono tredici le realtà che usufruiscono degli sgravi fiscali della legge Smuraglia, tra queste, un forno in un paese dell’interno, ristoranti, società di vigilanza. Racconta Flavia Filippi: “Com’è cominciata? Grazie al mio lavoro mi sono resa conto che in carcere finiscono anche persone sfortunate che non hanno avuto la possibilità di scegliere altre strade o l’avvocato giusto, assieme ai delinquenti sono rinchiusi un sacco di individui perbene ma sfortunati. Così ho chiesto a Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti dei detenuti di Roma Capitale, di accompagnarmi da Carmelo Cantone, Provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise, per illustrargli il mio progetto e 16 mesi fa è partito tutto. Cerco posti di lavoro, anche part-time, anche a tempo determinato. E anche corsi di formazione. Tutto fa brodo quando si vuole offrire un’altra occasione a queste persone”. Ovviamente non è stato per niente facile cominciare questa missione da volontaria, c’è da abbattere il muro della diffidenza, della paura, dei tempi lunghi della burocrazia. Però col tempo qualcosa sta cambiando: “Oggi abbiamo già concluso molti contratti, ci stiamo facendo conoscere, “Seconda chance” sta volando di bocca in bocca e sui social, sto provando ad avere un punto di contatto in ogni regione d’Italia, e anche in Sardegna vorrei un appoggio, un modo per “presentarci” agli imprenditori locali, commercianti, piccoli artigiani che hanno bisogno di manodopera, vogliono fare una buona azione e contemporaneamente usufruire delle agevolazioni previste”. Ovvero, contributi per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale ridotti a zero o dell’80% (a seconda dei destinatari) per le cooperative sociali che assumono e le aziende pubbliche e private che organizzano attività produttive o di servizi all’interno dei penitenziari, e credito mensile d’imposta di 516,46 euro per le imprese che assumono o formano (e alle fine contrattualizzano) detenuti o ex detenuti nei sei mesi successivi alla scarcerazione. “Ad esempio, se un ristoratore vuole assumere un aiuto cuoco, io mando la visura camerale della società al carcere”, spiega. “Una volta fatti gli accertamenti organizziamo colloqui con i candidati selezionati in base alle esigenze dell’imprenditore, che inizialmente non è a conoscenza del reato per cui quella determinata persona è dentro, ma lo scoprirà al termine dell’incontro. A quel punto l’imprenditore decide, sceglie, e invia una lettera d’assunzione indicando il luogo e gli orari di lavoro, le mansioni e il contratto del proprio consulente del lavoro per poter accedere alle agevolazioni della legge Smuraglia. La decisione finale spetta al Tribunale di sorveglianza che deve approvare il programma preparato dagli educatori, compreso il tragitto di andata e ritorno coi mezzi pubblici dopo l’ok del magistrato di sorveglianza. L’imprenditore stipula un contratto con l’amministrazione penitenziaria e il detenuto compra un cellulare per la reperibilità, che deve essere consegnato ogni sera al rientro in carcere”. Certo, non sono iter velocissimi, ma ciò che conta è partire, far conoscere il sistema, gettare il seme e aspettare, e se non sarà per questa estate sarà per i mesi a venire e il futuro. “L’iter può partire solo dopo l’invio di una lettera d’intenti, e il tempo medio per arrivare a impiegare il detenuto, se tutto va bene, è di circa 2 mesi. Si comincia con dei colloqui in carcere (in due ore una mattina si fa tutto) per individuare la persona di potenziale interesse. Poi c’è un periodo di prova (che volendo si può saltare) al quale potrà seguire l’offerta di assunzione, anche temporanea. E se durante il rapporto professionale ci si accorge di aver sbagliato, si potrà tranquillamente tornare sui propri passi”. Prosegue: “I posti di lavoro li cerco dappertutto: bar, ristoranti, supermercati, farmacie, centri sportivi, palestre, autofficine, aziende edili, agricole, grafiche, meccaniche, perfino funebri. La svolta è arrivata quando l’Istituto superiore di Sanità, grazie al direttore generale Andrea Piccioli, ha assunto tre detenuti, con pene anche pesanti. Stanno in falegnameria ma svolgono anche tante altre attività”. Poi le storie a lieto fine sono diventate decine. Qualche esempio: il titolare dei sei ristoranti Porto a Roma sta assumendo tre camerieri; il ristorante Eggs ne ha richiesti due, il Gruppo Palombini - bar, caffetterie, ristoranti, ricevimenti - ha richiesto due banchisti e due commis; il titolare del ristorante Mediterraneo al MAXXI ha richiesto un manutentore, un altro manutentore andrà al centro sportivo Villa York Gianicolo e un altro ancora all’Empire Sport & Resort; il Parco Nazionale del Circeo sta prendendo due operai. Ancora, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli sta prendendo tre tirocinanti; Milleniumtech, azienda di Prato che produce vele, ha affidato una commessa da 300 sacchi per vele alla sartoria del carcere di Viterbo; Terna sta assumendo un tecnico. Seconda chance - conclude Flavia - ha coinvolto anche importanti realtà pubbliche: l’Istituto Superiore di Sanità, Anbi Lazio, Unione Artigiani Italiani, Orienta - Agenzia per il Lavoro, Croce Rossa, Cnel, Cnr, Rai, il Commissario Straordinario del Governo per la ricostruzione dell’Italia centrale post sisma 2016-2017, Anci, Ance, Cei. Intendono avviare protocolli d’intesa anche Federalberghi Roma e Lazio, Fnip (Federazione Nazionale Imprese di pulizia) e Cepi - Confederazione Europea delle Piccole Imprese. “Quando propongo di valutare l’assunzione di un detenuto molti restano sconcertati. E questo nonostante i grossi vantaggi economici, per non parlare di quelli morali. Allora mi tocca chiarire che ai colloqui non arriva certo Jack lo Squartatore col coltellaccio in mano: l’ispettore di polizia e le educatrici selezionano per l’imprenditore di turno soltanto persone che abbiano completato un certo percorso, uomini consci degli errori compiuti e pagati, trasformati rispetto al passato, in diritto di provare a rifarsi una vita”. Chi fa del male non può fare l’amore? di Sebastiano Santoro thesubmarine.it, 13 giugno 2022 La sessualità è l’unico aspetto della vita del detenuto che lo stato non codifica in nessun modo. Negli anni si sono susseguiti diversi tentativi legislativi, senza fortuna. Prima puntata di una serie di articoli dedicati al tabù del sesso nella società. Di sesso in Italia se ne parla poco, almeno in maniera libera e costruttiva. Figurarsi quando la sessualità si intreccia con esperienze particolarmente delicate come il carcere, la malattia oncologica e la disabilità. L’Italia è infatti uno dei sei stati membri dell’Unione Europea dove l’educazione sessuale non è obbligatoria a scuola, accanto a Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia e Romania. Ciascuna regione può scegliere autonomamente come agire, e questo espone l’educazione dei più giovani alla frammentazione regionale e alle decisioni del partito politico di turno. Per giustificare questa assenza, si dice che la sessualità afferisca alla sfera privata degli individui, e quindi dell’educazione sessuale se ne deve occupare la famiglia. Ma come dimostrano i sondaggi, nemmeno in famiglia se ne discute molto (solo uno studente universitario su quattro parla dell’argomento tra le mura di casa). Il canale principale di informazione è internet, con il rischio però di recepire i contenuti senza la mediazione necessaria di un esperto. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un’educazione sessuale insufficiente porta a un aumento del tasso di gravidanze in età adolescenziale e a una maggiore quantità di persone che soffrono di HIV e altre malattie sessualmente trasmissibili. Avere un programma scolastico di educazione sessuale, oltre a toccare aspetti che riguardano la salute, può avere poi un effetto positivo su questioni sociali più ampie come l’uguaglianza di genere, i diritti umani e il benessere della società. Ma non è solo una questione scolastica. L’educazione sessuale è più efficace se è accompagnata da campagne informative e di sostegno da parte delle istituzioni. “Educare alla sessualità ha tre livelli,” sostiene il sessuologo Fabrizio Quattrini, presidente dell’Istituto italiano di sessuologia scientifica (IISS), “significa educare in primis gli adulti di riferimento, qualunque essi siano, dai genitori agli insegnanti. Poi ovviamente educare i ragazzi e le ragazze, di ogni ordine e grado di apprendimento. E infine educare i professionisti, perché posso garantire che tanti miei colleghi del mondo accademico e scientifico quando entrano in contatto con queste tematiche potrebbero giudicare o fare degli errori”. Per questo motivo, quando parliamo di sessualità legata a esperienze già di per sé cariche di stigma, come il carcere, il cancro e la disabilità, uniamo due temi che possono creare un vero e proprio tabù al quadrato. In altre parole, succede spesso che, rispettivamente, il reato, la malattia e la disabilità eclissino totalmente l’individualità delle persone, esasperando all’estremo false credenze sulla sessualità. Avere un’idea delle problematiche che sorgono da questo intreccio può essere utile in quanto il carcere, il cancro e la disabilità sono come delle lenti di ingrandimento da cui poter osservare meglio alcuni pregiudizi sessuali diffusi. “Chi fa del male non può fare l’amore” - “Non si capisce perché l’ordinamento penitenziario abbia così paura della sessualità,” spiega a the Submarine Carmelo Musumeci, condannato nel 1991 per un omicidio a Massa Carrara e da pochi mesi primo ex detenuto condannato all’ergastolo ostativo tornato in libertà grazie a un’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Perugia. Nel 2014 Musumeci ha promosso, insieme all’associazione Antigone, una petizione a favore del diritto all’affettività e alla sessualità in carcere, perché, come ha osservato il giurista Andrea Pugiotto, “la sessualità è l’unico aspetto della vita del detenuto che non è oggetto di alcuna esplicita disciplina”. In Italia, la prima iniziativa per il riconoscimento della sessualità nelle carceri risale al 1999. Da allora si sono susseguiti vari tentativi legislativi, ma nessuno di essi è riuscito a introdurre tutele significative nell’ordinamento penitenziario. L’ultimo in ordine di tempo è uno studio di fattibilità richiesto dalla commissione Bilancio del Senato sulla possibilità di costruire nelle carceri italiane alcune strutture che garantiscono ai detenuti uno spazio libero da controlli visivi e auditivi in cui poter esercitare il proprio diritto all’affettività e alla sessualità. Il motivo di questo studio è una proposta di legge presentata nel 2020 dal Consiglio regionale della Toscana, alla quale quest’anno si è aggiunta un’altra proposta del Consiglio regionale del Lazio. Al momento, le discussioni di entrambe le proposte sono bloccate. Probabilmente quella della regione Lazio verrà discussa in autunno, non prima delle discussioni della legge sul fine vita e sull’ergastolo ostativo, sollecitate con urgenza dalla Corte Costituzionale. Nelle ultime settimane, però, a partire da questo studio di fattibilità sono circolate online alcune ricostruzioni errate secondo cui il governo avrebbe già erogato 28 milioni di euro per costruire quelle che vengono definite “casette dell’amore”. La notizia ha subito sollevato numerose polemiche, soprattutto negli ambienti politici più conservatori, ma non solo. Non esiste, dunque, una norma che tratta l’argomento in maniera dettagliata. Come dispone la riforma del 2018 della legge sull’ordinamento penitenziario le uniche tutele previste sono quelle che riguardano il diritto dei detenuti alla relazione affettiva. Gli strumenti con cui è predisposta la tutela sono la corrispondenza epistolare, le telefonate e, soprattutto, i colloqui e i permessi premio. A norma di legge, i locali destinati ai colloqui dovrebbero favorire se possibile “una dimensione riservata.” Secondo i dati forniti dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone in Italia si registra un tasso medio di affollamento del 110%, con 38 istituti penitenziari in cui questo valore è superiore al 120%. In queste condizioni è difficile garantire, non solo la riservatezza dei colloqui, ma anche qualsiasi gesto affettuoso. Lo strumento principale predisposto dall’ordinamento penitenziario per “coltivare interessi affettivi” sono i cosiddetti permessi premio, cioè la possibilità di trascorrere un breve periodo di tempo all’esterno del carcere. Questo beneficio però viene concesso solamente una minoranza dei detenuti, cioè coloro che “hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi.” La situazione è più difficile per i detenuti che sono stati sottoposti ai trattamenti penitenziari più duri. “Quando sono stato sottoposto al regime di 41 bis mi permettevano di fare solo un’ora di colloquio al mese - racconta Musumeci - li effettuavo con una parete di vetro che mi divideva da mia moglie e i miei familiari. Ricordo la mia bambina che batteva la manina sul vetro perché non poteva toccarmi, né accarezzarmi”. Introdotto in seguito alla strage di Capaci per contrastare la mafia, l’ergastolo ostativo prevede il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai condannati per delitti di criminalità organizzata, terrorismo ed eversione che non collaborano con la giustizia. A causa di questa preclusione, può accadere dunque che l’intera pena di un ergastolano sia scontata in carcere. Per questa ragione, per riferirsi all’ergastolo ostativo, spesso è usata l’espressione “fine pena mai”. Un anno fa la Corte Costituzionale ha dichiarato questo trattamento penitenziario “in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.” Secondo i giudici, la collaborazione del detenuto con la giustizia non dimostra la rottura del legame con la criminalità organizzata, né viceversa la mancata collaborazione è prova del fatto che egli abbia ancora legami con l’organizzazione. Può capitare, ad esempio, che l’ergastolano non collabori per timore di ritorsioni, oppure che preferisca barattare la propria libertà con quella altrui pur di non accusare familiari o amici. Per queste ragioni, secondo la Corte, la condizione indispensabile per accedere ai benefici penitenziari della collaborazione con la giustizia è in contrasto con il principio di rieducazione del condannato, del principio di eguaglianza e del diritto di difesa. Entro il prossimo 8 novembre, il Parlamento dovrà modificarne la disciplina e adeguarla al dettato costituzionale. Per 25 anni Musumeci non ha potuto scambiare un bacio o una carezza con la propria compagna. “Nel carcere un abbraccio, una stretta di mano, toccare una persona che ami, sentirne l’odore è importantissimo,” commenta Musumeci, “la società è convinta che chi fa del male deve ricevere altrettanto male. Bisogna invece educare la società che una pena che fa male, una pena senza amore, converte il detenuto in un uomo peggiore di quello che era prima di entrare in carcere”. Se in Italia il diritto a una vita affettiva dei carcerati sembra essere garantito solo sulla carta, all’estero le cose stanno diversamente. Lo dimostra il fatto che tale diritto, insieme al diritto alla sessualità, sono tutelati, con modalità differenti, in molti paesi europei e del mondo. In Croazia e Romania esiste la possibilità di ottenere colloqui prolungati non sorvegliati. Nella comunità autonoma della Catalogna sono predisposte ai detenuti delle stanze; in Norvegia, Danimarca e Olanda veri e propri appartamenti dove è possibile incontrare il proprio partner, ma anche figli o amici. L’ordinamento penitenziario del Canton Ticino prevede il “colloquio gastronomico”, ovvero la possibilità di consumare un pasto in compagnia di parenti e amici. In 31 paesi sui 47 che compongono il Consiglio d’Europa sono previste diverse forme di riconoscimento del diritto di affettività e di sessualità dei detenuti. La previsione di cellule per l’affettività dei detenuti è una questione dibattuta e non di facile applicazione, soprattutto dal punto di vista dei funzionari e della polizia penitenziaria. Lo sottolineava Donato Capece, segretario generale Sappe (il sindacato più diffuso tra la polizia penitenziaria) in un’intervista al Post: “dovremmo costruire i monoblocchi dove consegnare la chiave al detenuto per ricevere la visita senza nessun controllo? E se succede qualsiasi fattaccio?”. Garantire il diritto alla sessualità dei detenuti è auspicabile in quanto la sua privazione può portare a conseguenze dannose per le persone. “Più lunga e deprivata di risorse è la pena, più sono penetranti i processi di alterazione della propria identità, a fronte dell’assunzione dell’identità del prigioniero, del condannato, del delinquente,” ha dichiarato, in un recente articolo pubblicato sulla rivista Mind, Giuseppe Mosconi, docente di sociologia del diritto presso l’Università di Padova. È in questa situazione che si innescano nei detenuti forme di sessualità “compensative” o violente che spesso determinano sopraffazioni e coazioni. “In carcere tutto cambia,” ha scritto la psicologa Giuliana Proietti su Ristretti Orizzonti, storico notiziario sul carcere, “Dopo un primo periodo in cui la sessualità passa in secondo piano, il bisogno di allentare le tensioni può cominciare a farsi opprimente.” Se questo desiderio diventa ossessivo può provocare “un cambiamento indotto nell’identità di genere e anche nella scelta del proprio ruolo sessuale, che può portare a delle dissociazioni a livello psichico, e a successivi disturbi psico-patologici o psichiatrici”. Alcuni studi evidenziano come la possibilità per i detenuti di coltivare la propria sfera sessuale possa ridurre le tensioni, gli episodi violenti e i casi di masturbazione compulsiva, ma anche il numero e la gravità delle sanzioni disciplinari riportate durante la pena. Musumeci, però, non trattiene il pessimismo sulla possibilità di attuare normative più liberali sulla sessualità dei detenuti: “Probabilmente una norma del genere non verrà mai approvata in Italia. La cosa terribile è che secondo la società chi fa del male non può fare l’amore. Prima di rieducare i detenuti si dovrebbe rieducare la società”. Referendum, quorum lontanissimo di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2022 Sulla giustizia vince l’astensione. I penalisti: “Iniziativa referendaria appaltata ad una forza politica in esclusiva”. Per i referendum sulla “giustizia giusta” promossi dalla Lega e dal Partito Radicale si può parlare senza dubbio di sconfitta: l’affluenza si ferma al 18% (quando chiudiamo il pezzo mancano i risultati di 2000 Comuni). Alle 12 di domenica era stata in tutto il Paese del 6,77%, mentre alle 19 era arrivata al 14,84%. Quorum dunque lontanissimo e dato più basso di sempre. Che non lo si sarebbe raggiunto lo si sapeva già da mesi, ma probabilmente i tifosi dei cinque Sì non si aspettavano una percentuale così mediocre. Il corpo elettorale per i referendum era pari a 50.915.402 elettori, di cui 4.735.783 all’estero. Quindi per essere raggiunto il quorum si sarebbero dovuti recare alle urne oltre 25 milioni e mezzo di italiani. La regione dove si è votato di più è stata il Friuli Venezia Giulia (24% circa di affluenza) mentre quella che fotografa la minore affluenza è il Trentino Alto Adige (11% circa di affluenza). L’unica consolazione per i Comitati per il Sì è che il No ha perso rispetto a tutti i quesiti. Nel momento in cui scriviamo lo spoglio nelle circa 62mila sezioni non è terminato, tuttavia la direzione sembra segnata. Per l’abolizione del decreto Severino: Sì 56,12%, No 43,88%; contro l’abuso delle misure cautelari: Sì 57,06%, No 42,94%; per la separazione delle funzioni di pm e giudice: Sì 76,46 %, No 23,54%; per il voto dei laici nei consigli giudiziari: Sì 74,97%, No 25,03%; sulle elezioni dei componenti togati del Csm: Sì 76,34%, No23,66%. Dunque gli elettori vogliono con altissime percentuali un giudice terzo ed imparziale, che le valutazioni dei giudici e pm siano più trasparenti e quindi aperte a persone esterne al corpo della magistratura, che i gruppi deviati all’interno delle correnti non manovrino più le elezioni per il governo autonomo delle toghe di Palazzo dei Marescialli. Con percentuali più basse i cittadini chiedono che si rifletta sull’abuso della custodia cautelare e che le carriere politiche non vengano stroncate prima di una sentenza definitiva. Cosa possiamo dire a caldo in merito a questo deludente risultato? Probabilmente all’origine c’è un micidiale combinato disposto di diversi fattori: la Corte costituzionale che ha bocciato i quesiti cosiddetti portagente ossia quello sul fine vita, sulla cannabis e sulla responsabilità diretta dei magistrati; abbiamo assistito ad una scientifica distrazione e disinformazione di massa realizzata a tavolino da gran parte della stampa; c’è stata poi la scelta di votare solo un giorno e per di più nel primo week end dopo la chiusura delle scuole; grande peso ha avuto l’ostruzionismo di Enrico Letta e Giuseppe Conte, ai quali si è aggiunta la scommessa sul fallimento della magistratura associata; infine l’atteggiamento della Lega che ha gestito malissimo la campagna, prima non depositando le firme in Cassazione e poi ricordandosi di aver promosso i referendum sono nelle ultimissime settimane. Su quest’ultimo aspetto si inserisce la lucida analisi dell’Unione Camere Penali: se da un lato - scrivono in una nota - “abbiamo da subito denunciato l’incivile silenzio censorio sul voto referendario, e dunque la eclatante violazione del diritto dei cittadini a conoscere per deliberare. D’altronde, la storia dei referendum in Italia è da sempre una storia di ostracismo e di avversione al voto democratico diretto”, dall’altro lato altresì “abbiamo denunciato dal primo giorno l’assurdità di una iniziativa referendaria appaltata ad una forza politica in esclusiva, su quesiti scelti e scritti senza interpellare nessun soggetto politico, associativo, accademico, culturale tradizionalmente vicino al patrimonio delle idee liberali della giustizia”. Una scelta definita “incomprensibile, politicamente insensata” dai penalisti guidati da Gian Domenico Caiazza “perché un percorso referendario così complesso e così prevedibilmente osteggiato avrebbe preteso l’esatto contrario, cioè la più larga condivisione delle scelte, delle responsabilità, delle energie. Il rischio è che il Paese possa pagare a caro prezzo questa scelta incomprensibile, aggravata dall’abbandono di ogni seria campagna elettorale innanzitutto da parte di chi ha proposto quei referendum, e dal sorprendente mancato deposito delle firme dei cittadini che li avevano sottoscritti”. Comunque non faremo come l’Anm che nel giudicare il proprio sciopero non è riuscita ad ammettere che è stato un flop. Lo diciamo chiaramente: questo risultato è un fallimento senza “però”, su cui andranno fatte diverse considerazioni a freddo, a partire da un ripensamento del quorum. Una cosa però permetteteci di controbatterla a quei magistrati che in questi giorni hanno profetizzato con soddisfazione questo risultato: i promotori dei referendum avrebbero dovuto portare alle urne, come detto all’inizio di questo articolo, oltre 25 milioni di elettori per raggiungere il quorum in quelle condizioni su descritte, l’Anm non è riuscita a far scioperare diecimila magistrati con presupposti prettamente favorevoli - in teoria - alla buona riuscita dell’iniziativa. Oggi alle 14 inizieranno invece gli scrutini per le amministrative ma soprattutto alle 18, la commissione Giustizia al Senato riprenderà l’esame della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Occorre votare su oltre 200 emendamenti ma prima si aspettano i pareri del Governo. Tre dei cinque quesiti (separazioni funzioni, elezioni Csm, voto degli avvocati nei consigli giudiziari) intervenivano direttamente sulla riforma. I risultati di stanotte peseranno sicuramente sul dibattito parlamentare. Previste poi domani altre sedute alle 10 e alle 14.30. Il provvedimento è atteso in aula per il 15, mentre il voto finale dovrebbe esserci giovedì alla presenza della ministra Cartabia.nzio incivile, ma anche scelta politica insensata”. “Abbiamo da subito denunciato l’incivile silenzio censorio sul voto referendario, e dunque la eclatante violazione del diritto dei cittadini a conoscere per deliberare. D’altronde, la storia dei referendum in Italia è da sempre una storia di ostracismo e di avversione al voto democratico diretto”, scrive invece in una nota la Giunta dell’Unione Camere Penali. “Ma abbiamo altresì dal primo giorno denunciato l’assurdità di una iniziativa referendaria appaltata ad una forza politica in esclusiva, su quesiti scelti e scritti senza interpellare nessun soggetto politico, associativo, accademico, culturale tradizionalmente vicino al patrimonio delle idee liberali della giustizia - continua - Una scelta incomprensibile, politicamente insensata, perché un percorso referendario così complesso e così prevedibilmente osteggiato avrebbe preteso l’esatto contrario, cioè la più larga condivisione delle scelte, delle responsabilità, delle energie. Il rischio è che il Paese possa pagare a caro prezzo questa scelta incomprensibile, aggravata dall’abbandono di ogni seria campagna elettorale innanzitutto da parte di chi ha proposto quei referendum, e dal sorprendente mancato deposito delle firme dei cittadini che li avevano sottoscritti”. “Occorre ora che l’impegno politico dei liberali di questo paese per una giustizia più giusta, tra i quali in prima fila l’Unione delle Camere Penali Italiane, sappia trovare da subito la forza per rilanciare le proprie idee e le proprie battaglie”, conclude. Il peso di una sconfitta annunciata di Massimo Franco Corriere della Sera, 13 giugno 2022 La diserzione di massa nella consultazione referendaria rappresenta l’elemento più preoccupante dei risultati delle elezioni di ieri, e rischia di sgualcire uno strumento di democrazia diretta che ha contribuito a scrivere la storia dell’evoluzione della società italiana. C’è un grande sconfitto in questo 12 giugno, ed è l’istituto del referendum. Anche se sarebbe più corretto dire che è vittima dell’uso distorto fatto negli ultimi anni, e in particolare adesso in materia di giustizia. La diserzione di massa nella consultazione referendaria rappresenta l’elemento più preoccupante dei risultati delle elezioni di ieri, che riguardavano anche un migliaio di Comuni italiani. Forse, questo effetto secondario è il più preoccupante. Rischia di sgualcire uno strumento di democrazia diretta che ha contribuito a scrivere la storia dell’evoluzione della società italiana. Averlo trasformato in una frusta antiparlamentare, forzandone la funzione in modo strumentale, è stato un errore. Tra l’altro, se la riforma della Guardasigilli, Marta Cartabia, è sgradita ad ampi settori dell’ordine giudiziario, logica avrebbe suggerito di difendere la riforma, non di chiamare a una consultazione che proponeva quesiti oltre tutto difficili da valutare e da comprendere. Il problema viene restituito intatto, anzi aggravato per la carica polemica tra classe politica e magistrati, che continuerà a circondarlo sotto lo sguardo sconcertato e distante dell’opinione pubblica. Le responsabilità politiche sono evidenti e ben distribuite. In primo piano, quasi per forza di inerzia c’è Matteo Salvini. Il leader della Lega li ha organizzati insieme con i radicali, stipulando un’alleanza inedita e contraddittoria nella quale garantismo e ostilità alla magistratura “politicizzata” si sono saldati in una strana miscela. Ma dietro si scorgono anche le sagome di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi, che hanno assecondato e favorito la campagna del Carroccio e del suo leader. È la dimensione della bocciatura del quorum, soprattutto, a rendere il risultato superiore a ogni più pessimistica previsione. Non basterà accusare il presunto silenzio dei mezzi di comunicazione, o la diserzione incivile di alcuni presidenti di seggio a Palermo, per velare un insuccesso bruciante e omogeneo sul territorio nazionale. Il risultato di ieri è uno spartiacque: in primo luogo per Salvini e il suo partito, ma non solo. La narrativa di una sorta di “furto referendario”, versione nostrana del “furto elettorale” denunciato goffamente da Donald Trump dopo le presidenziali statunitensi perse nel 2020, a questo punto sa di alibi lunare. Non cancella ma accentua la sensazione di una perdita di contatto con la realtà alla quale ha contribuito una miope voglia di rivincita contro una magistratura in crisi. Quanto al voto nei Comuni, dalle prime proiezioni si conferma un centrodestra tendenzialmente maggioritario ma percorso da spinte contrastanti che ne logorano non solo la compattezza ma la credibilità come coalizione in grado di governare l’Italia: anche perché i rapporti di forza interni si stanno rovesciando a favore della destra d’opposizione. Si vedrà quando saranno noti i voti alle liste di partito se è avvenuto il sorpasso di FdI sulla Lega anche a Nord. Per il centrosinistra, il Pd forse potrà consolarsi se avrà ottenuto un buon risultato come partito. Ma lo sfondo, dalle prime proiezioni, appare poco incoraggiante. Il “campo largo” evocato dal segretario Enrico Letta continua a rimanere rattrappito, soprattutto per un declino del M5S tuttora in atto. La “cura Conte” non funziona, parrebbe, sebbene non solo per responsabilità dell’ex premier grillino. Semmai, la sua colpa è quella di avere abbracciato la parte più estremista e ostile a Mario Draghi: quella che guardando al passato raccoglie poco, nonostante al Sud si ritenesse premiata dalla gratitudine per il reddito di cittadinanza. La sponda dei Cinque Stelle si conferma friabile. E rischia di diventarlo ancora di più nelle convulsioni del dopo-voto. Insomma, lo sfondo sul quale si arriverà alle elezioni politiche del 2023 si presenta complicato per entrambi gli schieramenti. Di certo, per il governo Draghi sarà ancora più difficile gestire linee politiche divergenti, e delusioni e paure che qualcuno sarà tentato di scaricare su Palazzo Chigi, e perfino sul Quirinale, per coprire propri errori e inadeguatezze. Il problema di Draghi sarà di gestire le sconfitte di pezzi della maggioranza; e far capire che la tentazione di recuperare il consenso perduto da posizioni antigovernative è un miraggio. Referendum: quesiti poco comprensibili, “usura” dello strumento e scarsa mobilitazione di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 13 giugno 2022 Molti elettori avevano dichiarato nei sondaggi pre voto di non essere in grado di comprendere l’impatto dell’abrogazione delle norme oggetto della consultazione. Il quorum non è stato raggiunto, dunque il referendum non è valido. Non è una sorpresa, era un destino ampiamente annunciato, riconducibile ad almeno 3 fattori tra loro interconnessi: innanzitutto la limitata risonanza mediatica dell’appuntamento referendario. Per lungo tempo è stato in sordina, non ha acceso il dibattito, ha mobilitato poco i partiti (con l’eccezione dei promotori) e ancor meno gli elettori, i quali nelle ultime due settimane, pur avendo preso consapevolezza della consultazione (82% ne era a conoscenza), in larghissima misura si sono mostrati disinteressati. In secondo luogo, la complessità di alcuni quesiti referendari che hanno alimentato un sentimento di inadeguatezza rispetto alle questioni oggetto di voto: se in Italia le competenze linguistiche e matematiche sono inferiori alla media dei 36 paesi Ocse, possiamo solo immaginare quali possano essere le competenze in ambito giuridico e istituzionale. Riguardo almeno tre dei cinque quesiti referendari la stragrande maggioranza, stando alle nostre interviste, dichiarava di non essere in grado di valutare le conseguenze derivanti dalla possibile abrogazione delle norme. Quasi nessuno sapeva dell’esistenza dei Consigli giudiziari e di ciò che comporti l’esclusione degli avvocati che ne fanno parte dalla valutazione dell’operato dei magistrati e della loro professionalità; per non parlare delle procedure che consentono ai magistrati di presentare la propria candidatura al Csm. Da ultimo, quella che potremmo definire “l’usura” del referendum abrogativo, a cui nell’Italia repubblicana abbiamo fatto ricorso in 18 occasioni per un totale di 72 quesiti: si tratta di un declino molto evidente, basti pensare che dal 1974 al 1995 in Italia si sono tenute nove consultazioni referendarie, con un’affluenza media di poco superiore al 70%, delle quali una sola risultò non valida (quella del 1990 con due quesiti sulla caccia e uno sull’uso dei fitofarmaci in agricoltura), mentre negli ultimi 15 anni la situazione si è completamente rovesciata, infatti delle nove consultazioni abrogative istituite, otto sono risultate non valide (compresa quella di ieri), e tra queste ce ne furono due, nel 1997 e nel 2000, che comprendevano quesiti riguardanti la giustizia e raggiunsero un’affluenza rispettivamente del 30% e del 32%. Dunque, solo una ha superato il quorum, nel 2011, quando gli elettori furono chiamati ad esprimersi su temi giudicati di grande importanza (e di facile comprensione) per i cittadini, dall’abrogazione della gestione privata dell’acqua a quella delle norme che consentivano la produzione di energia nucleare. Insomma, questioni che suscitarono un grande dibattito politico e mediatico. Tra i motivi di questa “usura” c’è anche la disillusione di una larga parte degli italiani persuasi dell’inutilità dello strumento, dato che talora in passato furono introdotti provvedimenti legislativi che non rispettavano l’esito referendario. Insomma, ce n’è abbastanza per riflettere su un utilizzo più appropriato di questo importante strumento di democrazia diretta. Ma è ciò che inutilmente si dice sempre, come una stanca litania, all’indomani del fallimento di un referendum. Referendum, gli italiani vanno al mare. Il Pd esulta: “Meglio le riforme” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 13 giugno 2022 Un’affluenza bassa, bassissima, la peggiore nella storia dei referendum. Meno del 20 per cento di elettori andati a votare i cinque quesiti sulla giustizia, un flop che scuote la politica e soprattutto chi ha sostenuto con maggior forza il referendum, cioè la Lega e il suo leader Matteo Salvini. A metterci la faccia è Roberto Calderoli, senatore del Carroccio che per squarciare il velo di silenzio sui quesiti ha iniziato a inizio giugno uno sciopero della fame. “Ho personalmente scritto al presidente della Repubblica e non ho ancora ricevuto una telefonata o un whatssapp di conforto personale - ha detto Calderoli ragionando sulle ultime ore di voto - Spiace perché il capo dello Stato è anche garante della Costituzione: mi spiace anche per cortesia istituzionale, perché io sono vicepresidente vicario del Senato e mi sarei aspettato maggiore attenzione”. Per poi spiegare, dal suo punto di vista, i motivi del flop. “Secondo me le battaglie più difficili sono quelle più nobili da combattere - ha commentato - In questo la Lega ci ha messo la faccia e rivendichiamo quello che abbiamo fatto: lo faccio con orgoglio, a fronte di più di 200 eventi organizzati in questo mese di campagna elettorale e di mille gazebo organizzati”. Non solo, perché Calderoli ha anche ringraziato “i circa dieci milioni di cittadini che sono andati a votare esprimendo il loro diritto dovere di voto come da articolo 75 della Costituzione” e ha denunciato “un complotto organizzato da singoli soggetti, magari in forma non associativa, perché il quorum non fosse raggiunto”. E ha infine attaccato sia la Corte costituzionale che non ha ammesso i quesiti sulla responsabilità civile dei magistrati, sulla cannabis e sull’eutanasia, sia il governo, reo di aver voluto approvare riforma Cartabia a maggio “pur di rendere vani tre quesiti su cinque”. Un minimo di conforto è arrivato dai sì, che hanno vinto in tutti e cinque i quesiti: a valanga su separazione delle funzioni dei magistrati, consigli giudiziari ed elezione del Csm, con meno margine su legge Severino e limitazione delle misure cautelari. Già a metà giornata dalla Lega era filtrata una nota di ringraziamento ai “milioni di italiani che hanno votato o voteranno nonostante un solo giorno con le urne aperte, il silenzio di troppi media e politici, il weekend estivo e il vergognoso caos seggi visto per esempio a Palermo”. E Salvini aveva pure espresso “preoccupazione e sconcerto” al capo dello Stato per il caos di Palermo, con decine di sezioni senza il presidente di seggio. Il numero uno di via Bellerio in serata ha poi ringraziato gli elettori. “È nostro dovere continuare a far sentire la loro voce”, ha sottolineato. “L’uso eccessivo dello strumento del referendum l’ha logorato ha commentato a caldo il leader di Azione, Carlo Calenda - Ciò premesso, i dati di affluenza sono disastrosi e denotano un distacco pericoloso dei cittadini anche dalle competizioni comunali”. Il numero uno di Italia viva, Matteo Renzi, dopo esserci recato a votare nel tardo pomeriggio a Firenze ha rimandato a oggi qualsiasi commento “per rispetto del silenzio elettorale”. Ha parlato però il suo colonnello, Ettore Rosato, secondo cui il risultato del quorum era “scontato” perché “ci sono partiti che hanno fatto campagna elettorale, altri che si sono tirati indietro”, con riferimento alla posizione ambivalente del Pd sull’astensionismo. “Dobbiamo utilizzare al massimo tutti quei Sì e iniziare una battaglia per una riforma della giustizia ormai necessaria”, ha concluso Rosato. La risposta dai dem è arrivata per bocca della capogruppo alla Camera, Deborah Serracchiani. “I referendum sulla giustizia bocciati dagli elettori, soprattutto da quelli dei partiti che li hanno promossi - ha detto l’esponente del Pd - Una così bassa affluenza, nonostante l’abbinamento col voto per i comuni, prova la complessità dei quesiti e l’uso strumentale dell’istituto referendario: ora avanti in Parlamento per completare la riforma della giustizia che i cittadini attendono e che la Lega ha bloccato irresponsabilmente”. E con Anna Rossomando, responsabile Giustizia del partito, il Pd ha dichiarato definitamente chiusa la guerra dei trent’anni tra politica magistratura. “Noi da domani (oggi, ndr) siamo di nuovo al lavoro per approvare in Parlamento l’ultima riforma, quella del Csm - ha detto Rossomando - Abbiamo detto che la guerra dei trent’anni sulla giustizia era finita e oggi anche cittadini italiani oggi lo hanno riaffermato: possiamo dire con certezza che i cittadini hanno scelto le riforme e hanno respinto la strumentalizzazione propagandistica di chi ha promosso il referendum”. Di “occasione persa” ha parlato invece il segretario di + Europa, Benedetto Della Vedova. “I sì sulla separazione delle carriere dimostrano che quello è un tema importante, ma il quorum al 50 per cento significa portare al voto oltre i due terzi degli elettori che votano alle politiche - è il suo ragionamento - Quando partiti come Pd e M5S scommettono sul fallimento dei referendum diventa difficile: con i quesiti su cannabis ed eutanasia avremmo avuto un film diverso in termini di partecipazione ma se vogliamo salvare questo istituto di democrazia diretta dobbiamo ragionare sul quorum”. Perché l’astensionismo, oggi, è l’unico vincitore. Giustizia, ora tocca ai partiti: corsa in Aula per la riforma di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 giugno 2022 Eventuali nuove modifiche al Senato riaprirebbero il conflitto nella coalizione di governo e allontanerebbero il via libera. Lo spettro del voto di fiducia, che il governo vuole. Chiusa la parentesi referendaria, la riforma della giustizia ricomincia il suo faticoso cammino in Parlamento. E quali saranno gli effetti del fallimento della consultazione popolare a trazione leghista lo si vedrà da oggi al Senato, quando scadrà il termine per la presentazione degli emendamenti al testo approvato dalla Camera. Il voto a Montecitorio sulla riforma cosiddetta Cartabia (che in realtà è il frutto di ulteriori mediazioni e innesti imposti dai partiti della maggioranza, rispetto al testo predisposto dalla ministra) risale al 26 aprile, è stato trasmesso a palazzo Madama il 4 maggio e da allora s’è fermato tutto, proprio in attesa dei referendum: un eventuale avanzamento della discussione, o addirittura l’approvazione del testo, avrebbe reso ancora più superflui i quesiti proposti agli elettori, in almeno tre casi su cinque. Di qui la scelta di aspettare altri quaranta giorni, fino a oggi. Ora che l’attesa è finita, si tratta di vedere se il fallimento dei referendum agevolerà o renderà ancora più arduo l’iter della riforma. L’incognita sta essenzialmente nel comportamento dei partiti che puntavano sul voto popolare per “una vera riforma della giustizia”, come da slogan salviniani. Che faranno ora in Parlamento? Nonostante i 328 sì raccolti alla Camera (contro gli appena 41 no), da quella stessa sera sono cominciati gli annunci di ulteriori modifiche al Senato. Che inevitabilmente riaprirebbero conflitti all’interno della coalizione di governo e allontanerebbero ancora il via libera definitivo: esattamente ciò che la Guardasigilli, e con lei il premier Draghi, vuole evitare. Anche perché c’è una scadenza alle porte, l’elezione del prossimo Consiglio superiore della magistratura che dovrebbe avvenire con le nuove regole. I togati avrebbero dovuto votare a luglio, l’appuntamento potrebbe slittare a settembre, ma c’è comunque la necessità di fare in fretta se non si vuole prolungare l’esistenza dell’attuale Csm, già duramente screditato dallo “scandalo Palamara” e altre vicende. Nelle ultime settimane, causa campagna elettorale, i contatti tra i partiti si sono interrotti, e solo oggi si capirà che aria tira. Tuttavia la Lega aveva già avvertito con la senatrice Giulia Bongiorno che le modifiche varate alla Camera “non riescono a incidere sui nodi cruciali del Csm, per questo proporremo correzioni al Senato”. E il presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama Andrea Ostellari, esponente del Carroccio nonché relatore, aveva messo in guardia da ogni tentativo di “mettere il bavaglio a uno dei due rami del Parlamento”. Come dire che il Senato non avrebbe accettato il ruolo di passacarte. La Lega insiste sulla inefficacia della riforma elettorale del Csm, il punto più discusso e più urgente, ma anche altri partiti di governo (e referendari) potrebbero puntare i piedi. Ad esempio Forza Italia, che pure ha ottenuto di ridurre a una la possibilità di cambiare funzioni tra giudice a pm; una quasi separazione di fatto delle carriere inseguita da uno dei quesiti abortiti nelle urne. Infine c’è l’incognita renziana. Negli ultimi mesi Italia viva s’è mostrata il partito più agguerrito su questa materia, e alla Camera s’è astenuto giudicando “inutile” la riforma. Un modo per tenersi le mani libere in Senato, dove l’ex premier che non perde occasione per attaccare il sistema giudiziario (anche in qualità di imputato tramutatosi in accusatore dei pm che vorrebbero trascinarlo in giudizio) può giocare personalmente la sua partita. Davanti a questo scenario la ministra attende di conoscere la nuova collocazione dei partiti, dopo averli più volte richiamati a rispettare gli impegni presi; ad esempio quando applaudirono a lungo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che nel discorso di re-insediamento richiamò per l’ennesima volta la necessità di approvare con sollecitudine la riforma del Csm che lui stesso presiede. Era il 3 febbraio, più di quattro mesi fa. Per tutto questo periodo, fino alla sospensione delle trattative in vista dei referendum, è rimasto sullo sfondo lo spettro della questione di fiducia che metterebbe le forze di maggioranza di fronte alle proprie responsabilità senza perdere altro tempo, mettendo sul piatto la sopravvivenza stessa del governo. È la minaccia dell’arma letale che i partiti e lo stesso esecutivo vorrebbero evitare, ma più volte è stata evocata di fronte all’impasse. Ora che non c’è più nemmeno il pretesto della scadenza referendaria, nessuno può escludere che torni ad esserlo in presenza di nuovi ostacoli o rinvii. Proprio per evitare questo scenario Cartabia aveva coinvolto pure i senatori nell’elaborazione del testo approvato dalla Camera. Dove sono state introdotte quelle modifiche che hanno spinto i magistrati allo sciopero contro la riforma: un mezzo fallimento per la scarsa adesione, che rappresenta l’altra faccia del flop referendario; un’altra variabile nella disputa che da oggi si riapre in Parlamento. Cantiere giustizia, corsa contro il tempo per approvare giovedì in Senato la riforma del Csm di Francesco Grignetti La Stampa, 13 giugno 2022 Cartabia ai partiti: evitiamo lo scontro in Aula, ritirate gli emendamenti. E ora, con il flop dei referendum alle spalle, si ricomincia con la riforma della giustizia. Quella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che la Camera ha già votato a larghissima maggioranza e che il Senato due settimane fa aveva messo nel freezer per non turbare troppo i rapporti con la Lega. Il prodotto è da scongelare, ma pronto. E si comincia oggi stesso. Appuntamento in commissione Giustizia alle ore 18 per votare i primi emendamenti. La tabella di marcia è forsennata: in teoria, giovedì mattina la riforma dovrebbe essere legge definitiva dello Stato. Ma come per tutte le cose della giustizia, il condizionale è d’obbligo. Sono circa 300 gli emendamenti che i senatori della commissione Giustizia inizieranno ad esaminare. L’accordo di maggioranza è che tutte gli emendamenti su cui c’è un parere negativo del governo (parere che sarà depositato in apertura di riunione) saranno bocciati senza appello. C’è stato anche un caldo invito della ministra Marta Cartabia ai partiti di maggioranza a prenderne atto. La speranza è che si giunga a un disarmo bilanciato e che la grande maggioranza di questi emendamenti sia ritirata. Non sarà così con quelli di Italia Viva, però, che annunciano una battaglia di bandiera. Se si guarda al calendario, si capisce che a questo punto il ministero della Giustizia ha una fretta indiavolata: martedì notte, la commissione dovrà avere votato tutti gli emendamenti; mercoledì si va in Aula. C’è fretta perché con questa legge si regolamentano le elezioni del Consiglio superiore della magistratura, e l’attuale consiliatura scade con l’estate. Se si sforano i tempi, c’è il rischio che si debbano rinviare le elezioni del Csm. Quanto al merito della riforma, più che sul punto divisivo della riforma elettorale, c’è da notare che su molti altri capitoli i partiti sono d’accordo: sullo stop alle porte girevoli, ad esempio. Oppure sul tetto più rigoroso al numero dei magistrati fuori ruolo che collaborano con la politica o con i ministeri. Ci sono alcune norme, poi, che se anche non sono passate con il referendum, sono comunque comprese nella riforma. Il voto degli avvocati nei consigli giudiziari territoriali, per dire: esprimeranno anch’essi un giudizio sugli avanzamenti di carriera dei magistrati, ma solo su mandato del proprio ordine. È una piccola grande rivoluzione, che irrita non poco i togati. Lo stesso si può dire per la separazione delle funzioni. Attualmente sono concessi al magistrato 4 passaggi di funzione, dalla giudicante alla inquirente, e ritorno. Con la riforma Cartabia, sarà ammesso un solo passaggio, entro il decimo anno di carriera. E infine le candidature del magistrato per essere eletti nel plenum del Csm: la riforma prevede candidature a titolo individuale, senza bisogno di firme a sostegno. È considerato un piccolo colpo di piccone al sistema delle correnti organizzate. Il quesito referendario ne era la fotocopia. Sarà una riforma efficace? Molti giuristi ne parlano male, e la campagna referendaria ha dato anche il modo a molti di un facile tiro al piccione. Del resto, la stessa ministra Cartabia ha detto in Parlamento che questa era “la migliore riforma possibile”. Marcando la voce su quel possibile, intendeva ricordare che questa è la maggioranza con cui s’è dovuta confrontare e che insomma il suo è stato quasi un miracolo di equilibrio per portare a casa un risultato. Visto il risultato del referendum è sicuro che non si parlerà più di scelte radicali quale il possibile sorteggio per entrare al Csm oppure di responsabilità civile del magistrato. Archiviata e rinviata a tempi migliori anche la proposta di restringere il perimetro per la custodia cautelare. Nella riforma non c’è il minimo accenno. Il referendum non ha sfondato. E la politica era già più che perplessa per le possibili ricadute pratiche, enfatizzate, a volte anche esagerando, da parte dei magistrati. Infine la riforma della legge Severino. Che ci sia un vulnus, sono tutti d’accordo. Possibile che i sindaci o i governatori possano essere sospesi dall’incarico dopo una condanna in primo grado, qualunque sia la pena o il reato, e invece i parlamentari o i ministri possano decadere solo per sentenze definitive e di una certa severità? La differenza di trattamento salta agli occhi. Ora, che qualcuno volesse disfarsi con la scusa dei sindaci dell’intera legge Severino, è evidente. Silvio Berlusconi, per dire, impazzisce di rabbia al solo sentirne parlare. Fu dichiarato decaduto da senatore nel 2013 con infamia mondiale, a seguito di una condanna per frode fiscale (venne poi riabilitato). Anche ieri, Berlusconi ha ribadito: “La Severino va affossata”. In effetti i sindaci premono da tempo per una modifica chirurgica. Il Pd ha presentato ddl sia al Senato che alla Camera. Ma finché c’erano i referendum in marcia, il centrodestra ha impedito che queste leggine pro-sindaci facessero il minimo passo. Ora si può scongelare anche questa questione. Csm, riforma all’ultimo ostacolo. I dubbi della Lega: va migliorata di Liana Milella La Repubblica, 13 giugno 2022 Oggi in commissione giustizia di Palazzo Madama inizia la maratona sugli emendamenti fino all’approdo in aula del provvedimento giovedì. Voterete giovedì la riforma del Csm? Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega e “voce” di Matteo Salvini sulla materia, di solito ciarliera, stavolta risponde in modo lapidario: “Noi miriamo a migliorarla...”. E questo può voler dire che, se resta così com’è adesso, potreste anche bocciarla? “Domani ho una riunione con i miei in cui esamineremo ogni cosa...”. Clic. Il cellulare di Giulia Bongiorno, come lei stessa ammette, è bollente per le telefonate di chi vuole sapere cosa farà la Lega al Senato, fino a giovedì, sulla riforma del Csm firmata dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Da cui dipende il rinnovo del Csm a settembre con la nuova legge anti-correnti. E la reazione di Bongiorno consegna la riforma ancora a 24 ore di suspense. Perché il mantra leghista - di Bongiorno, ma anche del presidente della commissione Giustizia Andrea Ostellari, che si è auto nominato relatore della futura legge - è che il testo “va migliorato”. Per farlo, sul tavolo della commissione, ci sono 257 emendamenti, di cui ben 61 presentati proprio dalla Lega. Che al Senato può contare sull’assist di avere sui banchi dell’aula l’avvocato Bongiorno, nota per le sue arringhe focose sulla giustizia. E dunque, passerà o non passerà l’ultima delle tre riforme Cartabia? In via Arenula le bocche sono cucite. Quella della stessa Cartabia non proferisce un fiato, ma il suo attivismo per garantire un esito felice della sua legge lascia molte tracce. A cominciare dai numerosi colloqui intercorsi tra lei e Bongiorno, due donne che via sms sono solite scambiarsi una montagna di messaggi. E certo Bongiorno non ha nascosto a Cartabia la sua intenzione di “migliorare” in corner la riforma. Ma è un fatto che la riforma - come del resto la stessa Cartabia ha detto più volte pubblicamente e come ripete in queste ore nei suoi colloqui top secret - “va nella direzione auspicata dai referendum, anche se con maggiore moderazione e con interventi più sistematici”. Per almeno tre dei cinque quesiti ormai passati alla storia dei referendum falliti, in effetti la riforma Cartabia fornisce già una risposta. Sulla separazione delle funzioni, dai quattro passaggi possibili di oggi da giudice a pm (e viceversa) ne consente solo uno nei primi dieci anni di lavoro; e poi c’è il pieno via libera al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari e nel direttivo della Cassazione, nonché le firme eliminate per potersi candidare al Csm. Dei cinque referendum restano dunque solo la legge Severino e la frenata sulle misure cautelari, che però non fanno parte della legge sul Csm. La Lega chiede pure la responsabilità civile diretta, ma quella non è mai entrata nel novero delle chance possibili. Tant’è che Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori dem, in vista della maratona in commissione Giustizia che comincia alle 18, prosegue domani, e rischia di andare avanti fino a mercoledì mattina - la riforma approda in aula alle 15 e 30 per essere votata giovedì - è netto. “La Lega ha già incassato che il disegno di legge non passasse prima del voto (Cartabia lo voleva approvato addirittura entro il 24 maggio, ndr.). E dopo questo risultato non mi pare proprio che ci sia alcuna ragione di ridiscutere l’accordo raggiunto nella maggioranza, sarebbe addirittura paradossale farlo”. Quindi fiducia piena sul voto del Pd, del M5S, di Forza Italia - che a Repubblica Giacomo Caliendo conferma - di Leu, anche se Piero Grasso ha presentato otto emendamenti. E adesso dice: “Mi batterò, certo, ma anche se la situazione è fluida, penso proprio che alla fine il testo sarà approvato”. Certo è che si asterrà Italia viva, come ha fatto alla Camera. E lo conferma Giuseppe Cucca perché “alla fine questa è sempre la riforma Bonafede... Io credo alle favole e provo a cambiarla...ma se resta così ci asteniamo”. Si preannuncia un intervento show anti giudici di Renzi. Cartabia vuole andare in aula sicura del risultato e martedì riunirà, per l’ennesima volta, la sua maggioranza. Con un asso nella manica di fatto consegnato dai referendum stessi, perché la sua riforma va proprio in quella direzione. E quindi la Lega perché dovrebbe rimandarlo alla Camera dove peraltro l’ha già votata? Draghi e Mattarella contano sul via libera di giovedì. A meno che Salvini non decida di mandare in crisi questa maggioranza. Festeggiare l’altolà ai quesiti: una scelta che può peggiorare l’immagine dell’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 13 giugno 2022 Non conviene, alle toghe, questo rannicchiarsi un po’ strategico e un po’ impaurito. Non ci si può lasciar condizionare dal peso degli “scandali”. È andata come l’Anm si era esplicitamente (seppure con relativa enfasi) augurata: non si è arrivati al quorum necessario, dunque non cambiano le norme messe nel mirino dai referendari. Resta senza effetto la proposta abrogativa più temuta dall’Anm e dalle toghe in generale: la drastica e assoluta separazione delle funzioni fra magistratura giudicante e pubblici ministeri. Né arriva l’altrettanto temuta rivoluzione sulle misure cautelari, che si potrà continuare a infliggere sulla base di una lunare presunzione di colpevolezza, cioè per il rischio che l’indagato reiteri un reato del quale ancora non si ha prova. Ora però dobbiamo intenderci: è giusto annoverare l’Anm fra i vincitori della partita sui referendum? Davvero il mancato raggiungimento del quorum e, in generale, il risultato della consultazione possono compensare, per esempio, l’esito deludente dello sciopero contro la riforma Cartabia? Ecco, qui già la risposta si fa incerta. Perché per innalzare il trofeo anti- referendario, la magistratura deve rassegnarsi a un curioso slittamento: accettare cioè di farsi definitivamente “sindacato” più che soggetto politico. Con una Anm resistente al cambiamento più che protagonista costruttivo della dialettica sulla giustizia. Di fatto, destinata a giocare quasi esclusivamente in difesa. Esultare per cinque riforme che restano imprigionate nell’urna referendaria (e delle quali solo una sarà fedelmente tradotta in legge dal ddl Cartabia, quella che abolisce le firme per i candidati al Csm) significa avere una sola e unica preoccupazione: limitare il danno, ridurlo il più possibile. Tenere la porta inviolata sul fronte dei 5 referendum dopo aver dichiarato di aver subito una “goleada” con la riforma del Csm: cos’è, se non un ripiego? E allora, per rendere più diretta la domanda di cui sopra, mettiamola così: bisogna capire se alla magistratura e alla propria associazione di rappresentanza torni davvero utile mostrarsi all’opinione pubblica come chi, semplicemente, si oppone al cambiamento. E la risposta difficilmente potrà essere positiva. Difendersi, arroccarsi, può suggerire all’opinione pubblica solo un’immagine: un ordine giudiziario che vuol preservare lo status quo non solo ordinamentale ma pure correntizio. Perché al grosso dell’elettorato, dei cittadini, ancora non “arrivano” - e il referendum lo ha in parte confermato - le questioni di principio della giustizia, se non quando sono distorte in uno spirito di pura demagogia. Una cosa però è arrivata, eccome, a tutti, dopo il caso dell’hotel Champagne: che la magistratura è scivolata in prassi degenerative assai simili a quelle della detestatissima oligarchia politica. Giocare in difesa viene dunque interpretato, da questo punto di vista, come la difesa non solo delle norme su Csm e carriere ma anche dei vecchi intrecci. Non conviene, ai magistrati, questo rannicchiarsi un po’ strategico e un po’ impaurito. Non ci si può lasciar condizionare all’infinito dal peso dei cosiddetti scandali. Nelle comunità politiche, e quella delle toghe è una comunità anche politica, le derive esistono, ma non possono arrivare al punto da annientare la politica stessa. Si dirà che tanta commiserazione punta all’obiettivo sbagliato. Che i veri sconfitti sono i referendari. Certo, loro hanno perso. Ma siamo proprio sicuri che non abbiano comunque aperto una breccia nell’opinione pubblica e rafforzato la coscienza garantista del Paese? Siamo così sicuri che aver giocato all’attacco, fino a essere impallinati in contropiede, non verrà prima o poi premiato? In un’intervista al Dubbio, Carlo Nordio, presidente del Comitato per il Sì, aveva evocato una rivoluzione copernicana, di cui i quesiti erano una specie di preambolo. Si può dire, dopo ieri sera, che di strada da fare, per la “rivoluzione della giustizia”, ne resta parecchia. Ma non che ci si debba arrendere senza provarci ancora. Via un problema ne restano mille di Armando Spataro La Stampa, 13 giugno 2022 Amo altri generi musicali, ma - conosciuto l’esito del referendum, disastroso per proponenti e sostenitori del “SÌ” - mi sono venute in mente parole di una recente canzone di Orietta Berti, Fedez ed Achille Lauro: una donna, ad un certo punto, ringrazia chi le ha risolto un problema, ma ricorda che gliene “restano mille”. Mi scuso con i lettori per l’incipit “leggero” di questo commento, ma non nascondo che di leggerezza hanno bisogno tutti coloro che, almeno in quest’ultimo mese, si sono impegnati per il “NO”, in presenza e da remoto, scrivendo e parlando, dovunque fosse possibile. Si può ora tirare un sospiro di sollievo perché è stato evitato uno sfregio al Paese ed al suo assetto costituzionale. La vittoria del “SI’” avrebbe permesso che pregiudicati e condannati per gravi reati diventassero candidabili o non decadessero da cariche esercitate in Parlamento o in amministrazioni territoriali, nonché da ruoli rivestiti nel Governo. Avrebbe scardinato il contrasto giudiziario di gravi reati seriali e contro la Pubblica Amministrazione impedendo l’adozione di misure cautelari (non solo il carcere, ma anche le altre meno gravi) nei confronti di indagati ed imputati per i quali sia ragionevolmente provato il pericolo di reiterazione di condotte criminali identiche a quelle per cui si procede. La vittoria del “SI’”, ancora, avrebbe cancellato una delle caratteristiche che più fa onore al sistema ordinamentale della giustizia italiana, cioè la possibilità che i pubblici ministeri possano chiedere di cambiare funzione, passando ad esercitare - in presenza di precisi e restrittivi criteri - quelle di giudici e viceversa. Per effetto dell’unica cultura che deve unire giudici e p.m. - quella della ricerca ed affermazione della verità - il nostro è un sistema che meglio tutela garanzie e diritti dei cittadini, al punto che dal 2000 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa auspica che gli altri Stati dell’Europa lo adottino come modello verso cui tendere. E da tempo è ormai auspicata una formazione comune di giudici e pm. Solo diffidenze offensive possono spingere a dubitare dell’onestà e professionalità dei giudici, accusandoli di adeguarsi alle richieste dei PM perché appartenenti alla stessa carriera, il che non ha neppure a che fare con il principio del giusto processo. Non vale neppure la pena di commentare il quarto e quinto quesito, inutili entrambi e bizzarro l’ultimo: il disegno di legge di riforma Cartabia, già approvato alla Camera e la cui discussione riprenderà a giorni dinanzi al Senato, prevede soluzioni più serie da un lato per consentire all’Avvocatura di esprimere il proprio parere sulle valutazioni di professionalità dei magistrati e, dall’altro, per contrastare le criticità del cosiddetto correntismo che tocca innanzitutto alla magistratura demolire, posto il valore etico e culturale (nel quale credo) delle sue aggregazioni. Dunque, la bocciatura “senza se” e “senza ma” di cinque pericolose ipotesi di riforma, nessuna delle quali - sia ben chiaro - aveva a che fare con l’obiettivo strumentalmente dichiarato del miglior funzionamento della giustizia, ha risolto gravi problemi ed evitato rischi. Quali sono quelli che restano? Partiamo da quello che sarà detto dagli sconfitti: si denunceranno, come già è stato fatto, silenzio e disinformazione di Rai, canali privati e giornali! Una sciocchezza di grande dimensione per chiunque abbia potuto seguire programmi radiotelevisivi e leggere giornali: la parità tra le parti in gioco è stata rispettata e, semmai, nelle ultime settimane, ferma la libertà di stampa e di schieramento, sono stati più numerosi gli articoli e i commenti a favore del “SI”. Gli sconfitti contesteranno l’accusa di incomprensibilità dei quesiti proposti, mossa anche da tanti accademici, e sosterranno che in ogni caso servivano e serviranno a stimolare il Parlamento a legiferare nei settori oggetto del referendum. Si tratta di altra tesi di comodo. La comprensibilità dei quesiti referendari è il presupposto primo della loro legittimità sostanziale ed è indispensabile per il voto consapevole dei cittadini: non si trovino scusa allora per la scarsa affluenza al voto. Non pare, poi, che questo Parlamento, al di là di ogni possibile critica alle leggi prodotte, abbia bisogno di stimoli essendo quello che, da quando la Cartabia è Ministro della Giustizia, ha approvato più leggi in materia: leggi sull’ordinamento, su codice penale e processuale, sul codice civile, su informazione e presunzione di innocenza etc. E pendono poi altri disegni o proposte di legge anche sui temi oggetto di alcuni quesiti come quello sulla “Severino”, sulla limitazione dei passaggi di funzione tra giudici e pm, sul voto degli avvocati per valutare i magistrati e sulle procedure per eleggere i membri togati del CSM. Stupisce piuttosto che alcuni partiti sostenitori del “SI” abbiano già votato quelle leggi e disegni di legge, salvo poi spararvi contro e contraddirsi con i quesiti referendari e proposte di emendamenti modificativi. Ma quale la origine e quale la natura del problema che resta in campo e che ne vale più di mille? Cerco di spiegarlo pensando anche ad altri referendum rispetto ai quali mi sono sempre schierato per il NO: quelli sulle due pessime riforme costituzionali, berlusconiana l’una (2006) e renziana l’altra (2016), nonché quella recente sul taglio dei parlamentari (2020). Contando anche quello di ieri, il fronte del NO ha sinora vinto 3 a 1. Ma cosa ha unito questi referendum? Penso a ciò di cui Luciano Violante ha parlato in un suo recente libro, cioè il cambio generazionale, in particolare della politica, negli ultimi decenni: contano sempre meno cultura, patrimonio storico, analisi severe ed attenzione all’equilibrio tra i poteri dello Stato, nonché il dovere di conquistare consensi con coerenza rispetti ai principi declamati. Ora conta soprattutto “il culto del leader”, la sua immagine ed il suo potere da coltivare assecondando logiche populiste, enfatizzando il tema della sicurezza e marginalizzando il Parlamento. È anche per questo che l’istituto del referendum, da sempre un fondamentale strumento di democrazia, rischia di vacillare. Speriamo che i cittadini, come ieri è avvenuto, lo aiutino a riprendersi ed auguriamoci che non vinca il pensiero di Dick Cheney, Vice Presidente degli Sati Uniti durante l’Amministrazione di George W. Bush, che, come raccontato in un film del 2018 sul suo potere senza limiti e controlli, ebbe a sostenere la teoria dell’”Esecutivo unificato” che tutto decide, senza interferenze degli altri poteri. Non è così che si cambia la giustizia di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 13 giugno 2022 Che il voto referendario sui temi della giustizia potesse rivelarsi un clamoroso fallimento non lo abbiamo scoperto oggi, all’indomani del voto popolare. L’iniziativa aveva sollevato da subito molte perplessità. Intanto per lo strano connubio fra Radicali e Lega, con posizioni politiche e motivazioni ideali pressoché agli antipodi. Gli eredi di Pannella, ispirati da una politica transnazionale caratterizzata da impegno per l’affermazione dei diritti civili, la seconda ferma da tempo su posizioni omofobiche, xenofobe e giustizialiste. Per i radicali, da sempre impegnati nelle battaglie referendarie non era difficile ritrovare nelle proposte abrogative quegli slanci libertari che caratterizzano il movimento. Meno comprensibili le ragioni del Carroccio che in Parlamento votava per l’approdo della Riforma Cartabia e contemporaneamente mobilitava il paese per un voto sugli stessi temi. Evidente anche ai meno esperti e agli osservatori disattenti che il leader leghista cavalcava il tema della giustizia per ragioni che poco o nulla avevano a che fare con la “necessità di un cambiamento strutturale”. Aveva sorpreso anche il momento storico scelto per promuovere il voto. I cittadini erano ancora impegnati a fronteggiare gli effetti economici della pandemia e della guerra recente per pensare che la giustizia fosse tema altrettanto prioritario e contingente. Neppure faceva ben sperare il ripetuto astensionismo e la recente bocciatura dei referendum su eutanasia e cannabis. Una volta resi pubblici i quesiti da sottoporre al vaglio della collettività è apparso più evidente il rischio dell’insuccesso. Cosi come formulati sarebbe stato estremamente difficoltoso per i cittadini esprimere un voto consapevole e netto. Le questioni sulle quali si sarebbe dovuta incentrare la scelta ponevano in seria difficoltà persino gli “addetti ai lavori” e non solo per la estrema tecnicità delle formule. Ma è sulla raccolta delle firme che si è creata l’ulteriore perplessità. Dopo avere preannunciato numeri superiori ai cinquecentomila Salvini ha pensato bene di gettare al macero le schede scegliendo di affidare la proposizione dei quesiti ai consigli regionali a maggioranza leghista (ivi compresa la Sardegna). Rimarrà per sempre irrisolto il dubbio sull’effettivo raggiungimento del numero minimo delle firme. Mentre e’ certo lo schiaffo metaforicamente assestato ai cittadini che avevano scelto di aderire alla iniziativa ed ai volontari che si erano spesi nei banchetti per raccogliere le firme. Una volta messo al sicuro il risultato con l’approvazione da parte della Corte Costituzionale di cinque dei sei quesiti proposti, sulla iniziativa è calato un silenzio tombale. Interrotto solo nella imminenza della data fissata per il voto. A quel punto si sono moltiplicati dibattuti, spesso molto aspri Nel corso dei quali i sostenitori del referendum reagivano, anche con azioni eclatanti, al denunciato boicottaggio da parte degli organi di stampa e dei fautori dell’astensionismo e del no. Erano proprio questi, in effetti, che mettevano in guardia i cittadini (ma anche gli stessi promotori) sul rischio che le questioni così come proposte, non assicurassero quella logica binaria del sì o no tipica dei referendum abrogativi. Cosi in particolare per la legge Severino, le misure cautelare e la separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti. Sarà che i promotori si sono mossi troppo tardi, sarà che gli italiani hanno colto le tante criticità dei quesiti, ma l’iniziativa si è rivelata un terribile flop. Da oggi, prevedibilmente, inizierà il dibattito sulle ragioni dell’astensione. Che quasi certamente verranno individuate nella immaturità politica degli Italiani, nel disinteresse verso i temi della giustizia, nella loro proverbiale pigrizia, nei condizionamenti subiti dalla politica, nella posizione di alcuni partiti di maggioranza e persino nella magistratura, rea di non avere avuto il coraggio di sostenere una iniziativa che aveva il pregio di affrontare temi cruciali che la coinvolgevano E poi, al contrario, ci sarà chi vedrà in questo fallimento un segnale di grande responsabilità da parte dei cittadini che hanno deciso di “non buttare il bambino insieme all’acqua sporca” mantenendo gli impianti normativi in essere e rimbalzando al governo l’onere di affrontare i problemi di sua competenza. A questo punto probabilmente si aprirà anche una riflessione sull’uso (e abuso) dello strumento referendario e sul suo impiego in materia penale, sul rischio che possa essere utilizzato per intercettare un “sentimento popolare” piuttosto che una opinione convinta e correttamente informata. Ma anche sul rischio di trasformare il referendum in una banca dei sogni politici dei cittadini o in un pungolo per i Governi inerti. Peggio ancora in uno strumento di “vendetta” o rivalsa verso la politica e la magistratura. La consultazione popolare è importante e deve essere garantita, ma non tutti i temi possono essere affrontati con lo strumento referendario. Questo è di fatto il segnale che ieri hanno lanciato i cittadini ritenendo che non si può pensare di cambiare la giustizia attraverso interventi demolitivi. L’astensione va dunque vagliata, compresa e soprattutto rispettata in quanto espressione indiscutibile di libertà. Ora, come si sul dire, la palla torna alla politica che ha il dovere di promuovere un dibattito parlamentare serio, urgente ed approfondito per la riforma organica della giustizia che sia in grado di eliminare le tante distorsioni ed i ritardi che i cittadini vivono ogni giorno sulla stessa loro pelle. *Avvocato Lombardia. Tra morti e sovraffollamento il caos delle carceri lombarde di Irene Fassini milanotoday.it, 13 giugno 2022 In Lombardia tutti gli istituti di pena risultano sovraffollati e con la pandemia da Covid-19 i numeri e le condizioni sono peggiorate, la prova i due suicidi recenti in sei giorni. Due morti in sei giorni. E nello stesso carcere. Due detenuti di 27 e 21 anni si sono tolti la vita nella casa circondariale di San Vittore a Milano. Sono due dei 29 casi di suicidio in carcere del 2022. Un numero che continua a crescere da almeno dieci anni, con un solo picco in negativo tra il 2013 e il 2016 quando il decreto cosiddetto “svuota-carceri” è intervenuto parzialmente sul sovraffollamento degli istituti di pena. Ci sono diverse variabili che incidono sul tasso di suicidio in carcere, anche se una cosa è certa: l’andamento riflette le condizioni di detenzione. Che in molti istituti italiani e anche lombardi sono critiche. Il numero di detenuti continua a crescere, ma gli spazi rimangono sempre gli stessi. L’impatto della pandemia - Il tema del sovraffollamento è una questione che ritorna ogni volta che si parla degli istituti di detenzione. Le rivolte in alcune carceri italiane nel 2020, all’inizio della pandemia da Covid-19, l’hanno messo in luce, sottolineando un’emergenza nell’emergenza: spazi ridotti all’interno delle celle, carenza di servizi e personale esterno, difficoltà di accesso alle cure mediche. Una risposta nella prima fase dell’epidemia era stata la possibilità di scontare gli ultimi diciotto mesi di pena ai domiciliari. Questo, insieme alla riduzione degli arresti, aveva portato temporaneamente a un calo delle presenze in carcere: dalle quasi 61mila del 2019 alle 53mila del 2020. Numeri che però, finita l’emergenza, stanno già tornando a salire. Nel mese di aprile 2022 i detenuti erano già quasi 55mila, mentre le case di reclusione e circondariali sul territorio italiano ne potrebbero ospitare poco meno di 51mila: più di 4mila persone senza lo spazio necessario che dovrebbe essere garantito per legge. Le rivolte del marzo 2020 - Il 9 marzo del 2020 l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte stabilisce la chiusura di tutte le attività e il blocco degli spostamenti sul territorio italiano per far fronte ai contagi da Covid-19 che stanno aumentando in modo esponenziale. Per l’Italia inizia il lockdown, che sarebbe durato fino al 18 maggio. Più di due mesi chiusi nelle proprie abitazioni, limitando le uscite e i contatti sociali se non per necessità. Per chi era all’epoca recluso in uno degli istituti di detenzione italiani significava la sospensione dei colloqui con i familiari, del lavoro, della semilibertà, dei permessi premio, delle attività gestite dai volontari e quindi di qualunque contatto con il mondo esterno. A questo si aggiungeva la paura dei contagi. Le carceri italiane ospitavano all’epoca 11mila detenuti in più rispetto alla loro capienza: mantenere il distanziamento ed evitare assembramenti era di fatto impossibile. E anche i dispositivi di protezione individuale, come in tantissimi altri luoghi, non erano disponibili. Tutto questo contribuisce ad alimentare una situazione di tensione che scoppia il 7 marzo e prosegue per alcuni giorni con casi di particolare gravità, diversi morti, tentativi di evasione ed episodi di violenza. Le rivolte arrivano al culmine proprio il 9 marzo 2020 e coinvolgono oltre 70 penitenziari lungo tutto lo stivale, mentre in altri 30 ci sono proteste pacifiche. In Lombardia il caso di maggiore gravità si verifica nella casa circondariale di San Vittore a Milano, dove i detenuti innescano un incendio e assaltano l’infermeria per prendere metadone e altre sostanze. Anche le altre due carceri cittadine di Bollate e Opera sono coinvolte dalle rivolte, come pure quella di Torre del Gallo a Pavia. Ma le situazioni più gravi si verificano al confine con la Lombardia: al Sant’Anna di Modena perdono la vita nove detenuti per presunta overdose, alcuni all’interno del carcere e altri durante i trasferimenti verso diversi istituti. Lombardia, tra le regioni peggiori - Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che dagli anni Ottanta si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, la Lombardia presenta un affollamento carcerario tra i più alti in Italia: 129,9 per cento rispetto alla media nazionale del 107,4 per cento. Con picchi del 165 per cento negli istituti penitenziari di Varese, Bergamo e Busto Arsizio e persino del 185 per cento nella casa circondariale Canton Mombello a Brescia. “La situazione bresciana è nota da tempo perché il sovraffollamento è la nostra quotidianità degli ultimi quindici anni, con picchi anche di 600 detenuti per 189 posti”, spiega a Milano Today Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Brescia. “La struttura obsoleta e inadeguata influisce notevolmente, rendendo gli spazi poco vivibili”, prosegue. “Durante la pandemia - racconta a Milano Today Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano - si è imposto di fatto un numero chiuso alle carceri. Soluzione - precisa Maisto - suggerita di recente dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nei casi di costante sovraffollamento”. E proprio con le scelte imposte dalla pandemia di Covid-19, nonostante le criticità, si sono visti risultati significativi. “Nel 2020 e nel 2021 - prosegue Maisto - i penitenziari lombardi hanno visto la presenza di mille detenuti in meno rispetto agli anni precedenti. Questo grazie a un maggiore ricorso alle misure alternative”. Misure che, in passato, non sono state adottate con la stessa frequenza. Il calo di detenuti per rientrare nei numeri previsti è stato però un’eccezione. Come altre ce n’erano state in un passato che ha poi visto le presenze sempre risalire fino a superare di nuovo i limiti di capienza. Le misure alternative alla detenzione - La detenzione in carcere non è l’unica modalità di esecuzione della pena. In Italia, come in tutti i Paesi europei, esistono delle alternative in base al tipo di reato e alla durata della pena, anche residua. L’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare e la semilibertà sono misure che limitano comunque, anche se parzialmente, la libertà del condannato, ma che gli consentono di mantenere un contatto con il mondo esterno, favorendo il suo percorso di reinserimento sociale. Il fine è evitare o limitare l’accesso al carcere e, con questo, anche il rischio di recidiva e il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Un obiettivo che, dai dati, è anche un risultato. Chi sconta la pena fuori o parzialmente fuori dal carcere avrà un rischio tre volte più basso di commettere di nuovo un reato. Con l’affidamento in prova, chi ha una pena inferiore a tre anni può essere affidato ai servizi sociali e seguire con loro un percorso di reinserimento. La semilibertà consente al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere per lavoro o per svolgere altre attività, mentre la detenzione domiciliare permette al condannato di scontare la pena all’interno della propria casa o in un luogo di cura, assistenza e accoglienza. Un andamento altalenante - Con l’indulto del 2006 la popolazione detenuta passa da 59mila a 39mila persone, per poi tornare in soli due anni a 58mila. Nel 2013 un nuovo calo, con la sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo e la condanna all’Italia per trattamenti inumani e degradanti nei confronti di sette persone detenute. Alcune di queste proprio del penitenziario di Busto Arsizio che, nel 2011, contava 439 detenuti per 297 posti, con casi di limitazione dello spazio riservato a ciascuno e un ridotto accesso ad acqua calda e illuminazione adeguata. La Cedu nel 2013 concede all’Italia un anno per adottare rimedi strutturali contro il sovraffollamento. La risposta arriva nel 2014 con il decreto Svuota-carceri e la previsione di misure sia per favorire l’uscita dal circuito penale sia per limitare gli accessi ai penitenziari, in particolare quelli per possesso di piccole quantità di sostanze stupefacenti. Nonostante la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi ­- che equiparava droghe leggere e pesanti -, gli stupefacenti restano uno dei principali motivi di ingresso negli istituti di pena: secondo gli ultimi dati pubblicati nel Libro bianco sulle droghe, in Italia nel 2020 il 35 per cento dei detenuti era in prigione per reati di traffico, spaccio o detenzione. Un dato che è quasi il doppio della media europea, ferma al 18 per cento. Non solo. Da oltre cinque anni l’ingresso negli istituti di pena di persone tossicodipendenti è in costante aumento e ha ormai raggiunto la quota del 38,6 per cento di tutti coloro che entrano in carcere. Ma questa impronta repressiva è un filo conduttore che non riguarda solo i reati per droga. “È una deriva dell’ultimo decennio”, spiega Maisto, “con un approccio al carcere che ha portato a investimenti sulla sicurezza e non sui trattamenti”. Più controllo, meno reinserimento - Il risultato è un rafforzamento delle strutture di sicurezza e del personale di controllo. L’Italia ha, dopo l’Irlanda, il Lussemburgo e la Svezia, il miglior rapporto in Europa tra detenuti e operatori di polizia penitenziaria - 1,6 detenuti ogni agente -, ma ha tralasciato il potenziamento di strutture e personale esterni che dovrebbero supportare e sostenere il detenuto nel percorso di reinserimento sociale. Non a caso l’Italia, dopo la Bulgaria, è il Paese europeo che ha la percentuale più alta di agenti di polizia sul totale del personale: l’83 per cento. Solo il restante 17 per cento è dedicato ad altri compiti, mentre nei Paesi Bassi è il 48 per cento. Un sistema, quello italiano, improntato alla sicurezza più che al reinserimento. E forse proprio questi numeri possono aiutare a spiegare perché solo in situazioni emergenziali si faccia ampio ricorso a quelle misure alternative che per essere pienamente efficaci avrebbero bisogno di strumenti, strutture e operatori esterni. Evitare il carcere - La ministra Cartabia sembra aver fatto un passo avanti per limitare l’accesso al carcere con la riforma del sistema sanzionatorio: detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria possono essere applicate direttamente dal giudice in fase processuale, nei casi di condanne di breve durata, come pene sostitutive. Il condannato in questo modo potrebbe evitare la detenzione e non dovrebbe fare poi richiesta di applicazione di una misura alternativa al Tribunale di sorveglianza. È anche un tentativo di arginare il fenomeno dei ‘liberi sospesi’: 80mila condannati per reati di lieve entità - con pena sospesa per la breve durata - che aspettano per anni in stato di libertà la decisione del Tribunale di sorveglianza sull’applicazione di una misura alternativa. Decisione che in genere arriva dopo un tempo più lungo della durata stessa della pena. Morire di carcere - Ma non è solo un tema di reinserimento sociale: vivere all’interno del carcere può diventare una questione di vita o di morte. Tra i detenuti i casi di suicidio sono molto più numerosi: scontare una pena all’interno di un istituto penitenziario rende il rischio di togliersi la vita tredici volte più alto rispetto alle persone libere. Le condizioni di isolamento delle strutture - spesso molto vecchie o in aree periferiche delle città - e la difficoltà di relazioni umane con l’esterno rendono il carcere un luogo dove una popolazione già in condizioni di marginalità si sente ancora più esclusa dal mondo che c’è fuori. E non contribuiscono le difficoltà - acuite dalla pandemia da Covid-19 - di contatti con i parenti e con operatori esterni. Secondo Antigone, andrebbe poi prestata particolare attenzione per i momenti più delicati: l’ingresso e l’uscita dal carcere dovrebbero avvenire gradualmente. Non è forse un caso che uno dei più recenti casi di suicidio, nel carcere di Pavia, abbia riguardato un detenuto ancora giovane, che a 37 anni aveva solo poco più di un anno ancora da scontare. E non manca chi, senza arrivare a togliersi la vita, compia comunque azioni violente contro se stesso. Questi gesti sono aumentati sensibilmente negli ultimi anni, dai quasi 7mila del 2015 agli oltre 11mila del 2019 e 2020. Dati che portano l’Italia tra i primi posti per numero di suicidi nel 2020 tra i Paesi dell’Unione europea. Napoli. A 70 anni in carcere per furto, dopo aver aspettato 10 anni la sentenza di Francesca Sabella Il Riformista, 13 giugno 2022 Sei un anziano signore di 70 anni? E chi se ne frega, in gattabuia subito! Hai sbagliato dieci anni fa? Dieci! Non importa, paghi oggi. Perché ci siamo presi tutto il tempo per decidere, valutare e poi ti abbiamo fatto la gentilezza di farti conoscere il tuo destino. Quindi, caro signore anziano puoi preparare le tue valigie e venire in carcere. Sembra che chi scrive, stia sorridendo. No. E sembra una barzelletta quella che leggete. Di nuovo, no. Purtroppo è tutto vero. Accade a Pozzuoli, quando mercoledì pomeriggio gli agenti della del Commissariato locale hanno rintracciato e arrestato, presso la sua abitazione, un 70enne napoletano in esecuzione di un provvedimento per la carcerazione emesso mercoledì scorso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli - Ufficio Esecuzioni Penali - poiché condannato alla pena di 3 anni e 3 mesi di reclusione, a una multa di 600 euro e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni per il reato di furto aggravato. Quando ha commesso il fatto? La notte tra il 31 marzo e il 1° aprile del 2012. Avete letto bene, nel 2012. Dieci anni fa. Nessuno dice che si debbano risolvere i casi in dieci giorni, per carità, ma manco in dieci anni. Dieci anni di vita. Dieci anni passati in un limbo senza poter conoscer il proprio destino. Dieci anni in cui la giustizia ha tenuto in sospeso una vita. Perché di questo parliamo quando parliamo di processi, di indagati, di imputati e sì (ora i giustizialisti pronti a sventolare manette e punizioni avranno un mancamento) anche e soprattutto quando parliamo di colpevoli. Perché se il giudice dice che l’anziano ha commesso il furto, lo ha commesso, non ci piove. Però diciamo anche che sarebbe stato un suo diritto conoscere la sentenza entro tempi umani, dignitosi, ragionevoli. O no? Perché è vero, il signore, nel lontano 2012 avrà anche commesso un furto, ma la giustizia non si è comportata tanto diversamente: gli ha rubato dieci anni di vita. Gli ha rubato la dignità. Gli ha rubato i suoi diritti. E l’anziano signore pronto a varcare la soglia del carcere magari finirà in quella lista lunghissima di richieste di risarcimento che ci portano a essere una città, o meglio un Paese, incivile. Lasciamo stare le cartacce per terra, inciviltà è anche una giustizia non giusta. Un ossimoro? Una realtà. Basta dare uno sguardo ai numeri: oltre ai procedimenti arretrati, che sono sempre elevatissimi, ad allarmare è il boom delle richieste di risarcimento registrato nel 2021 per lungaggini processuali che mortificano i diritti del cittadino, sia esso imputato o parte lesa del processo. Nell’ultimo anno si sono contate ben 2.256 domande di equo indennizzo, pensare che erano 1.354 fino a qualche anno fa. Capite? È un sistema che non funziona, che stritola e ci restituisce alla realtà devastati. Ecco perché serve il Referendum, ecco perché serve una riforma radicale. Perché questa è una giustizia lenta, troppo lenta. E ricordiamoci che giustizia ritardata è giustizia negata. Eboli (Sa). Nella Casa di reclusione i detenuti coltivano e si coltivano di Antonietta Bonanno Corriere del Mezzogiorno, 13 giugno 2022 La speranza prende vita nell’orto sociale della casa di reclusione di Eboli. Grazie al progetto di agricoltura sociale Orto Condiviso, nato dalla collaborazione tra il penitenziario, la Coldiretti Salerno e l’associazione di volontariato Gramigna di Pago Veiano (Benevento), i detenuti lavorano nello spazio interno della cinta muraria del Castello Colonna, in collaborazione con i volontari. Diverse le fasi del progetto che prevedono la pulizia dello spazio assegnato, la preparazione del terreno, la concimazione e la preparazione dei solchi per la dimora delle piantine e delle sementi. Si tratta di persone coinvolte di età compresa tra i 19 e 45 anni che l’Icatt di Eboli accoglie, tossicodipendenti e/ o alcoldipendenti provenienti dalla provincia di Salerno o dal territorio della Regione Campania, nella struttura collocata all’interno del Castello medievale di Eboli coinvolgendole in iniziative trattamentali e socio-rieducative. Una bella iniziativa sociale che vede Coldiretti Salerno impegnata da anni. “Come Coldiretti abbiamo fornito piantine e diversi tipi di prodotti. - spiega il segretario di zona Coldiretti, Paolo Farace. - L’idea è anche quella di fare una sorta di commercializzazione di quello che producono, metteremo i prodotti in vendita nei mercati di Campagna Amica. Il progetto è stato fatto con l’intero carcere ma poi hanno deciso loro chi potesse partecipare. Quando siamo stati contattati dal penitenziario eravamo contentissimi perché per loro l’impegno di coltivare ed arrivare all’obiettivo è un traguardo”. Concetta Felaco è stata direttrice dell’Icatt di Eboli fino a pochi giorni fa. Ora è alla guida della casa circondariale di Avellino al posto di Paolo Pastena insediatosi alla casa di reclusione di Eboli zione - L’idea del progetto è nata due anni fa quando ho fatto un corso come manutentore del verde ad Eboli ed è nato un bel rapporto con l’ex direttore del carcere”. Il progetto è stato condiviso anche da Concetta Felaco, ex direttrice del carcere ebolitano, da pochi giorni insediatasi nella casa circondariale di Avellino prendendo il posto di Paolo Pastena che l’avvicenda ad Eboli. “È un progetto di speranza - aggiunge Meoli - seguono il corso i detenuti con art.21, quelli cioè che possono uscire fuori dalle sbarre per intenderci, sono nove i ragazzi coinvolti, che devono scontare pene non lunghe. “Orto sociale” è un corso di volontariato sociale di durata di tre anni, è iniziato a febbraio scorso e prevede lezioni teoriche, studio attrezzi della terra, per poi passare a quelle che sono lezioni pratiche, piantiamo ortaggi, dai pomodori alle melanzane, peperoncino, meloni, angurie, patate, odori, fino alle erbe officinali. Tutti prodotti biologici che al momento producono e consumano, abbiamo piantato migliaia di pomodori e c’è l’intenzione di fare anche delle passate. I ragazzi sono fortemente entusiasmati e tanti di loro scommettono sul futuro. Coltivare un orto è come coltivarsi, è questo il valore aggiunto per l’orto sociale. L’orto ha l’attesa come la detenzione, saper coltivare significa anche saper aspettare, bisogna paragonarsi ad una piantina che ha bisogno di tempo per crescere e raccogliere i suoi frutti”. Attualmente no riscontrati solo a livello sociale. Gli orti urbani di Legambiente è la campagna storica da anni portata avanti per rafforzare la rete di orti sociali (o di città) con l’obiettivo di restituire alla cittadinanza aree verdi e spazi di condivisione sociale. Grazie agli orti urbani, veri spazi pubblici condivisi, le persone coinvolte producono con metodi sostenibili ma l’idea di curare l’orto ha anche uno scopo terapeutico per soggetti con disabilità fisiche o psichiche, ambientale, per combattere l’inquinamento delle città ed il calore e finanche uno scopo didattico, attraverso laboratori di sensibilizzazione dedicati alle scuole oltre a creare la possibilità di scambio di esperienze, percorsi di formazione anche per cittadini. “Ho fatto la tesi sull’aspetto sociale degli orti qualche anno fa alla triennale di Sociologia dell’Università degli Studi di Salerno”, dice Martina Mancini, 28 anni, volontaria del Circolo Occhi Verdi Legambiente di Pontecagnano e Legambiente Campania. E aggiunge: “E ho scelto di fare la tesi sugli orti proprio perché in quel periodo stavo facendo il servizio civile presso il Parco eco- archeologico di Pontecagnano Faiano dove sono presenti gli orti urbani ormai da vent’anni. Il circolo di Legambiente Pontecagnano è nato nel 1998 e poi i volontari storici hanno pensato di portare gli orti urbani, i primi erano dieci, ciascun affidato ad un piccolo gruppo di persone, prima solo pensionati oggi anche di altre età. E ci sono orti didattici in cui ospitiamo le scolaresche, quelli per anziani sono di 100 metri quadri e quelli di non pensionati sono la metà, di 50 metri quadri. Io all’epoca della tesi di laurea mi sono concentrata sulla parte sociale e la costruzione di una comunità intorno all’orto. - conclude Martina Alcune persone però stanno facendo lavori nell’orto per uscire dalla depressione e c’è chi ha benefici alimentari mangiando con cibo a km0. Alla fine anche gli orti non strettamente sociali ma definiti urbani hanno una valenza sociale”. Lecce. Il filo di mare ricavato dalla cozza che rigenera la vita delle detenute di Emiliano Moccia vita.it, 13 giugno 2022 Il filo di mare nasce attraverso una tecnica innovativa per la lavorazione dello scarto dei filamenti delle cozze, secondo un’antica tradizione tarantina. Ad acquisire le nuove competenze sono state le donne detenute delle carceri femminili di Lecce e Taranto grazie al progetto “Innovazione Sartoriali” che Fondazione Territorio Italia porta avanti con Made in Carcere. Il filo di mare è ricavato dal filamento con cui la cozza si tiene attaccata alla roccia. Si tratta di un procedimento antico, figlio della tradizione tarantina, città simbolo della cozza, che trasforma i filamenti di scarto in intarsio tessile e bottoni. Un sistema di economia circolare che fa leva su questa tecnica inserita nel progetto “Innovazioni Sartoriali” che Fondazione Territorio Italia porta avanti in collaborazione con Made in Carcere, brand fondato da Luciana delle Donne, attraverso dei corsi di formazione dedicati alle donne delle carceri femminili di Lecce e Taranto. Sono loro che svolgono attività di inserimento sociale e lavorativo presso le sartorie sociali di periferia, occupandosi della lavorazione del cordoncino, scarto delle cozze, riconvertito in filo di mare per produrre ricami, accessori, decorazioni e bottoni. Di conseguenza, attraverso una tecnica innovativa per la lavorazione dello scarto dei filamenti delle cozze è possibile ottenere una fibra tessile simile alla seta e realizzare una linea di prodotti per moda e arredo, arte sacra e gioielli intarsiati di filo di mare. “Le donne in stato di detenzione hanno subito portato vicino al viso il filo delle cozze e hanno annusato il profumo del mare, un’emozione veramente forte, con le lacrime agli occhi. Lo stupore poi del valore di una foglia che rimane impressa sul tessuto, ognuna di loro ha realizzato il suo rosario con i semi delle ciliegie. Trasferire queste conoscenze a persone che stanno ricostruendo dignità e nuova identità ripaga di tutta la fatica quotidiana di remare contro corrente, laddove la fatica diventa un valore trasformativo e riparativo”. Luciana delle Donne ha creato nel 2007 il marchio Made in Carcere con l’obiettivo di coinvolgere le donne detenute nella Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce e della Casa Circondariale di Trani in attività di sartoria che negli anni hanno portato alla realizzazione di borse e accessori, porta-tablet e foulard originali e colorati, braccialetti e tanto altro ancora. In occasione della Giornata Internazionale degli Oceani, che si celebra ogni anno l’8 giugno, le formatrici Monica Saba, di Ovis Nigra Creazioni, e Ambra Mediati, decoratrice professionista, hanno dedicato delle giornate ai corsi in green jobs trasmettendo alle partecipanti diverse tecniche di stampa eco-imprinting rinnovabili utilizzate per stampare su tessuto l’impronta delle foglie e dei fiori, ma anche delle bucce di cipolla, tessuti per moda e arredo attraverso la riconversione degli scarti agroalimentari e boschivi. L’iniziativa ha da subito riscontrato un grande successo, tanto da allargarsi e crescere nel giro di pochi anni, favorendo un concreto inserimento occupazionale di donne detenute o in condizioni di fragilità. Nel caso della cozza, dunque, si tratta di un rifiuto che non è nobile, ma umile scarto recuperato dalle sbissatrici (macchinari che separano la cozza dal suo filamento) e messo a disposizione da Paolo Varrella e da AMA associazione mediterranea acquacoltori. Grazie a questi intrecci di collaborazioni e competenze quel rifiuto oggi viene salvato dallo smaltimento e diventa filo prezioso, memoria di mare da intarsiare nei dettagli decorativi dei tessuti delle maison dell’alta moda, sempre più vicine all’economia circolare. Le detenute, quindi, hanno partecipato con entusiasmo ai corsi di formazione, consapevoli che acquisire nuove competenze in questi settori di sartoria significa avere più occasioni di trovare posto nel mercato del lavoro. Il corso ha coinvolto donne detenute e in prossima uscita, donne inoccupate o disoccupate, donne vittime di violenza. “Abbiamo osservato il diverso approccio tra le risorse che in carcere lavorano da tempo e quelle che ancora non lavorano” evidenzia delle Donne. “Le prime cercavano uno sbocco lavorativo e quindi proponevano soluzioni, le altre felici di sopravvivere alla noia e al nulla di un carcere, in linea con la nostra ricerca scientifica in corso dell’impatto sociale generato che noi amiamo definire BIL Benessere Interno Lordo”. Quel che è certo è che dal loro impegno è nato il filo di mare, utile per produrre ricami, accessori, decorazioni e bottoni, rigenerando non solo il materiale scartato ma anche le vite che hanno pagato il conto con la società dopo gli errori commessi. “Ancora una volta la cooperazione genera evoluzione, il recupero di una tradizione antica di Taranto diventa sapere artigianale contemporaneo, opportunità di lavori verdi sempre più richiesti dal mercato. Si allenano così autostima e talenti” aggiunge Daniela Ducato, Presidente di Fondazione Territorio Italia e di recente anche presidente nazionale WWF, “perché anche nella disperazione si possa ritrovare il filo dell’innovazione e rinascere. Come fa, ancorata con il suo filo, tra terra e acqua l’instancabile cozza che ogni giorno depura e fa rinascere il mare”. Aosta. Carcere, la prima riunione dell’Osservatorio Vda: al lavoro su Brissogne dire.it, 13 giugno 2022 Rappresentare le attese e le aspettative della casa circondariale di Brissogne ma anche dare nuova forza ad “una collaborazione che non si è mai interrotta, ma che ora ritrova un’adeguata collocazione formale”. Così il presidente della Regione Valle d’Aosta Erik Lavevaz inaugura la prima riunione dell’Osservatorio per la verifica dell’applicazione del protocollo di intesa tra il ministero della Giustizia e la Regione autonoma Valle d’Aosta sulla tutela dei diritti e di attuazione dei principi costituzionali di rieducazione e reinserimento dei detenuti. Il documento è stato firmato il 4 maggio scorso a Roma dal presidente Lavevaz e dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Hanno partecipato all’incontro - oltre a Lavevaz e agli assessori regionali allo Sviluppo economico Luigi Bertschy, alla Sanità Roberto Barmasse e all’Istruzione Luciano Caveri - la direttrice reggente della casa circondariale di Brissogne con il comandante di reparto del Corpo della Polizia penitenziaria ed il capo area educativa, i rappresentanti dell’Uiepe di Torino e della sede distaccata di Aosta, del Celva e dell’Associazione valdostana volontariato carceraria, la difensora civica in qualità di garante dei detenuti Adele Squillaci e l’assessora alle Politiche sociali del Comune di Aosta Clotilde Forcellati. L’insediamento dell’Osservatorio evidenzia “l’importanza dell’impegno dell’amministrazione regionale e dell’amministrazione penitenziaria in azioni ed iniziative, anche congiunte, per il raggiungimento degli obiettivi posti dal protocollo di intesa”, si legge in una nota. A questo proposito, il focus sarà su sanità e istruzione: la Commissione paritetica opererà per il coordinamento degli interventi di assistenza sanitaria, socio-riabilitativa e di educazione alla salute dei soggetti in esecuzione penale, mentre la Commissione didattica si occuperà degli aspetti educativi. Al termine della riunione, è stato chiesto all’amministrazione della Giustizia ed al garante dei detenuti di rappresentare attese ed aspettative in merito alla situazione della casa circondariale di Brissogne. Roma. La fuga dei poliziotti dopo il pestaggio di quattro minorenni. Spunta il video di Andrea Ossino La Repubblica, 13 giugno 2022 I giovani hanno allegato alla denuncia i filmati dell’auto di servizio che si allontana a tutta velocità. “Abbiamo detto di essere minorenni, ma non gli importava”. Sono trascorsi due giorni da quando un gruppo di ragazzini, genitori al seguito, ha bussato alla porta del commissariato Aurelio raccontando l’aggressione subita ad opera di alcuni poliziotti con “alito vinoso” che li avrebbero presi di mira senza motivo. Con il passare delle ore, nella mente delle vittime i ricordi diventano più nitidi. E così i ragazzi sono pronti a integrare la denuncia raccontando particolari che in un primo momento avevano tralasciato. In particolar modo gli adolescenti, almeno tre, desiderano mettere nero su bianco una circostanza. I ragazzi sostengono infatti di aver detto agli agenti di essere minorenni, un’affermazione che non avrebbe placato l’ira dei quattro poliziotti che hanno fermato il gruppo di adolescenti “ all’altezza di via Giambattista Pagano”, per poi aggredirli. Anzi, quando uno di loro ha chiesto di chiamare un genitore, “sentendosi in pericolo “, un agente gli avrebbe strappato il telefono “ per poi gettarlo in terra e schiacciarlo con il piede”, hanno denunciato le vittime. Un altro tassello di un racconto che, se dovesse essere accertato, renderebbe la vicenda ancora più oscura. Ad ogni modo non dovrebbe essere difficile verificare quanto denunciato dai ragazzi. Secondo le vittime infatti l’aggressione potrebbe essere stata catturata dalle telecamere di sicurezza di alcuni locali della zona. Le violenze sarebbero iniziate intorno alla mezzanotte. I ragazzi stavano andando a mangiare un gelato al Mc Donald, quando i quattro poliziotti sono scesi da due diverse volanti, “ due Alfa Romeo Giulietta”. Gli agenti avrebbero vessato i giovani, tra schiaffi, spintoni, gomiti riversi dietro la schiena, teste appoggiate sul cofano della macchina ed esternazioni che mal si coniugano a un normale intervento delle forze dell’ordine: “Quando vedi la polizia devi abbassare lo sguardo”. L’aggressione sarebbe terminata all’improvviso: “In merito al loro allontanamento pensiamo che abbiano scorto delle telecamere di video sorveglianza che erano presenti sul posto, in quanto abbiamo notato un repentino cambiamento di comportamento e atteggiamento quando uno di loro ha fatto un cenno agli altri e ha detto ‘lasciamoli andare’“, si legge nella denuncia, alla quale sono stati allegati anche referti stilati dai dottori dell’Aurelia Hospital: “Cervicalgia post traumatica, escoriazione dello zigomo sinistro, contusione del gomito sinistro, distorsione del gomito sinistro, distorsione e distrazione del collo, abrasione o ustione da attrito, distorsione e distrazione del gomito e dell’avambraccio, contusione dell’emitorace sinistro, ferita lacero contusa del labbro superiore”, recitano gli atti. Oltre ai referti medici i ragazzi, che avrebbero anche chiesto di acquisire i filmati catturati dalle telecamere di un bar, hanno depositato un breve video. Nel filmato si vedono le volanti girare e allontanarsi frettolosamente. Immagini che hanno permesso alle vittime di estrapolare la targa delle due vetture, un particolare che, insieme all’identikit fornito dalle vittime, consentirebbe di risalire agli agenti che avrebbero aggredito i ragazzi. “Stiamo facendo accertamenti per ricostruire l’esatta dinamica dei fatti”, fanno sapere intanto dalla polizia. Il vero disincanto della democrazia di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 13 giugno 2022 Alla fine vien da chiedersi cosa resta del diritto di voto, in un Paese in cui oltre la metà dei cittadini sceglie di non esercitarlo. “Non è vero che va bene così”, aveva detto già nel 2018 il capo dello Stato Sergio Mattarella, riflettendo sull’aumento dell’astensionismo. Non è vero che se accade in altre democrazie mature, è normale succeda anche da noi. Perché la partecipazione al voto dà la misura dello stato di salute della Repubblica: della sua capacità di proporre soluzioni, di includere chi ne fa parte in un processo di cambiamento e miglioramento delle proprie condizioni. Da quanto tempo troppe persone nel nostro Paese hanno smesso di credere che sia così? Ci sono tre elementi da analizzare nel voto di ieri, che segna un minimo storico di partecipazione per i referendum e uno dei punti più bassi per le amministrative: elezioni in cui si vota per la guida delle proprie città, qualcosa di vicino, di tangibile, che tanto più dovrebbe richiamare alle urne e tanto più invece ormai pare allontanare. In un clima di sfiducia e disincanto che dovrebbe far risuonare un campanello di allarme non solo dentro ai partiti e nelle sedi parlamentari, ma in tutte le organizzazioni civili e sociali del Paese. Fin dentro alle nostre case, nel dialogo con i nostri figli cui dovremmo trasmettere il senso di un diritto conquistato in secoli di storia e ora trattato alla stregua di un esercizio desueto e inutile. Il primo fattore riguarda i referendum abrogativi: dal 1999, il quorum è stato raggiunto solo nel 2011 su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento. In quel periodo, il movimento per i beni comuni era riuscito a coinvolgere milioni di cittadini su una promessa, la sottrazione di un bene come l’acqua alla privatizzazione, che attirò una valanga di sì. Era l’epoca in cui Silvio Berlusconi si sottraeva ai tribunali invocando il legittimo impedimento: gli italiani votarono per impedirglielo. Il tempo in cui uno dei suoi ministri, Claudio Scajola, immaginava un ritorno all’energia nucleare: il quesito che lo vietava, incassò oltre il 94 per cento di sì. Nulla di paragonabile è più accaduto. Sulla giustizia, con quesiti simili a quelli di oggi, i radicali avevano già provato nel 2000 e anche allora erano rimasti senza quorum. Ed è vero, come lamentano, che se ci fossero stati i quesiti su cannabis ed eutanasia staremmo forse raccontando un’altra storia. Le sofferenze di Mario, di Fabio, l’ingiustizia di una legge sul suicidio assistito bloccata al Senato da veti e non detti avrebbero smosso di certo qualcosa. Ma non è detto che avrebbero indotto gli italiani a cancellare la legge Severino o a decidere come devono essere eletti i membri del Csm o che tipo di carriera dev’essere concessa ai magistrati. C’è poi il secondo elemento di sofferenza: Matteo Salvini. Il leader della Lega ha raccolto le firme unendosi in un inedito connubio con Radicali, Italia Viva e Azione. E’ partito lancia in resta contro la magistratura con Forza Italia un po’ al rimorchio, ma a metà strada si è reso conto che lo avrebbero seguito in pochi. Così ha fischiettato per poi, a pochi giorni dal voto, prendersela con giornali e tv. Anche questa sconfitta, però, è frutto dei pasticci degli ultimi mesi: la tappa al confine con l’Ucraina e le prese in giro di un sindaco polacco con la maglietta di Vladimir Putin. Il mancato viaggio a Mosca che l’ambasciata russa aveva addirittura pagato in rubli. Tutti regolarmente restituiti, fa sapere via Bellerio, come se bastasse a levare opacità a una storia che ne è permeata. Il terzo elemento, chiama in causa la nostra coscienza civile. Com’è possibile che nel 2022, a 30 anni dall’uccisione di Falcone e Borsellino, siamo capaci di accettare che un candidato sindaco a Palermo raccolga voti con l’aiuto esplicito di due persone condannate per reati connessi alla mafia come Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro? Com’è possibile che ancora si scambi “il diritto con il favore”, come ha scritto ieri su questo giornale Gian Carlo Caselli a proposito dei due candidati di centrodestra indagati per scambio di voti politico-mafioso? E come possiamo essere certi che su quei 90 presidenti di seggio che non si sono presentati, proprio a Palermo, non pesi l’ombra di un voto così pesantemente inquinato dalle rinnovate ambizioni di Cosa nostra? Secondo il Comune, hanno disertato per via della partita. Insieme a 84 scrutatori avrebbero dimenticato il loro dovere per andare a tifare rosanero sperando nel passaggio in serie B. Sarebbe, in entrambi i casi, una catastrofe civile. Che è davanti ai nostri occhi, serve solo il coraggio di affrontarla. L’Italia incarcera i migranti di Ottavia Spaggiari Il Domani, 13 giugno 2022 Kakouch parte dal Marocco a 23 anni, quando arriva in Italia lo accusano di essere uno scafista: è innocente ma passa tre anni e mezzo in carcere. Come lui ce ne sono centinaia. Il 26 agosto 2015, vedendo le luci della nave battente bandiera svedese che tagliava l’oscurità della notte nel mezzo del Mediterraneo, Badr Kakouch aveva creduto che le sue preghiere si fossero esaudite. I soccorsi stavano arrivando. Tra le urla disperate di altre centinaia di migranti che, come lui, avevano tentato la traversata dalla Libia all’Italia a bordo di una piccola imbarcazione di legno, per la prima volta dopo ore si sentì travolgere da qualcosa che credeva aver perso: un senso di speranza. Quella sensazione però era durata pochissimo. Dì li a poco Kakouch, sarebbe stato accusato ingiustamente di essere tra i responsabili dell’imbarcazione. Come per centinaia di altri migranti e richiedenti asilo arrivati in Italia e accusati di essere scafisti, per lui sarebbe iniziato un calvario giudiziario di anni, segnato da un’indagine lampo e dallo slalom tra gli ostacoli al diritto alla difesa e al giusto processo. Originario di Kenitra, una città nel nord-ovest del Marocco, Kakouch aveva deciso di andarsene a 23 anni. La prima fermata era stata la Libia. Dopo due anni aveva risparmiato abbastanza per tentare la traversata dal Mediterraneo all’Italia e lasciarsi alle spalle l’inferno della guerra civile libica. I trafficanti l’avevano tenuto diversi giorni a Zuwara, nel nord della Libia, stipato insieme a decine di altre persone in una connection house, un luogo di transito, dove i migranti sono tenuti rinchiusi in attesa della traversata. Una notte le porte si sono aperte. Il processo - La storia è ricostruita negli atti del processo. I trafficanti hanno caricato lui e altre 493 persone su una barca di appena 20 metri; tutti infilati, uno dietro l’altro con le gambe a V. Kakouch si è trovato intrappolato in un ammasso di corpi appiccicati uno all’altro. Anche quando il mare si è ingrossato, muoversi è risultato impossibile. A diverse miglia dalla costa, quando il motore aveva cominciato a scaldarsi, Kakouch e la famiglia siriana di fianco a lui hanno sentito delle urla provenire dalla stiva, dove l’aria era diventata irrespirabile. “Lì abbiamo capito che sotto di noi c’erano delle altre persone”, ricorda “ci siamo messi a pregare e a piangere”. Sono morte asfissiate 53 persone, una delle più gravi tragedie del Mediterraneo nel 2015. A prestare soccorso non è arrivata una nave qualsiasi ma un’imbarcazione della guardia costiera svedese impiegata nella flotta di Frontex, l’Agenzia della guardia di frontiera europea. Una volta in salvo, alcuni naufraghi hanno indicato al capitano della nave di Frontex Kakouch e altri sei migranti come appartenenti all’equipaggio che aveva condotto l’imbarcazione di legno. Kakouch è stato accusato di aver mantenuto l’ordine sulla barca e di aver impedito alle persone nella stiva di uscire. In realtà il processo ha rivelato che a bordo della nave di Frontex non vi erano interpreti in grado di tradurre puntualmente le accuse. Ai testimoni, tre pakistani e un ghanese, era stato assegnato un interprete bengalese, incapace di fornire una traduzione puntuale. Le accuse in Italia - Eppure quando la nave ha attraccato al porto di Palermo, l’indagine si è risolta subito. La polizia italiana ha raccolto la testimonianza dei quattro migranti già ascoltati dal capitano di Frontex, un campione che rappresentava appena l’1 per cento dei passeggeri che si erano imbarcati in Libia. Nessuno ha tenuto conto del fatto che una delle due persone che, nello specifico, avevano accusato Kakouch aveva avuto una discussione con lui durante la fase dell’imbarco. Secondo i giudici del processo in primo grado l’accusa sarebbe stata una ritorsione. Kakouch non ha fatto in tempo a capire nemmeno dove si trovasse, è stato subito portato in questura e poi in carcere. Oltre al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è anche stato accusato di aver provocato la morte per asfissia di 53 persone nella stiva. Il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo. Kakouch e tutti gli altri imputati sono stati assolti per non aver commesso il fatto sia in primo grado che in appello. Ma in attesa della sentenza di primo grado Kakouch ha trascorso tre anni e mezzo in carcere, in custodia cautelare. “Quell’esperienza mi ha distrutto la vita, la testa, il futuro”, dice. Oggi, a più di tre anni dalla scarcerazione, di nuovo a casa in Marocco, Kakouch ha spesso incubi in cui sogna di trovarsi ancora in prigione. “Venivo visto come un assassino e trattato come tale, nessuno credeva alla mia innocenza”. Quello di Kakouch non è un caso isolato. Secondo un rapporto di Arci Porco Rosso e Alarm Phone, tra il 2015 e il 2021 almeno 2.056 persone sono state fermate dalla Polizia di stato con l’accusa di essere scafisti o basisti e molti di questi fermi sono stati il risultato di indagini lacunose e superficiali, condotte sotto la pressione di dover trovare un colpevole. I fermi e gli arresti continuano ancora oggi. Ma la storia del giovane marocchino è esemplare anche dal punto di vista del problema drammatico dei processi italiani a imputati stranieri. Nella sentenza di assoluzione di Kakouch, oltre allo scarsissimo numero di testimoni ascoltati e all’utilizzo di un interprete di una lingua diversa, i giudici hanno sottolineato diversi aspetti problematici nella conduzione delle indagini. Tra questi il sospetto che, già sulla nave di Frontex, i testimoni siano stati incentivati ad accusare lui e gli altri con la promessa di un permesso di soggiorno, una modalità che il rapporto di Arci Porco Rosso e Alarm Phone ha identificato come ricorrente in molti di questi casi. Vittime del sistema - “Queste persone sono vittime del sistema”, afferma Flavia Patané, ricercatrice dell’Università di Maastricht e co-autrice di uno studio dell’Università di Amsterdam secondo cui la maggior parte delle persone arrestate in Italia come scafisti sono migranti e richiedenti asilo e non appartengono alle reti di trafficanti. Dal 2015, infatti, per sfuggire alle autorità italiane ed europee, le reti del traffico hanno cambiato le proprie modalità operative, affidando il controllo delle imbarcazioni ai migranti stessi. I trafficanti, insomma, rimangono in Libia e, come spiega Patané, “sono sempre più invisibili”. Secondo lo studio, in molti casi le persone arrestate sono state costrette con la forza dai trafficanti stessi a prendere il controllo dell’imbarcazione. Questo cambio di strategia è stato riconosciuto anche dal procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro. In un’audizione parlamentare del 2017, ha definito i migranti e richiedenti asilo che si ritrovano alla guida di un’imbarcazione come “vittime di un traffico che specula chiaramente sulle loro esigenze”. Nonostante questo, accusa Borderline Sicilia, le procure dell’isola hanno continuato a perseguire migranti e richiedenti asilo come scafisti. “Questi casi sono lo specchio della politica”, spiega Patané. “L’Unione europea ha messo forte pressione sulle autorità nazionali per contrastare il traffico di migranti e l’immigrazione irregolare”. La zona grigia legislativa - Dal punto di vista legale, questi procedimenti sono resi possibili da un meccanismo giuridico che permette di perseguire come trafficanti anche i migranti e richiedenti asilo sospettati di condurre la propria imbarcazione. “Nella legge italiana non esiste una differenza tra traffico di migranti e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, spiega Patané. Per questo a chi è sospettato di aver fatto parte dell’equipaggio, come nel caso di Kakouch, o di aver tenuto il timone della propria imbarcazione anche solo per qualche minuto, o persino di avere passato una bottiglietta d’acqua ad altri passeggeri, viene contestato lo stesso reato che sarebbe contestato a un trafficante: l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Mentre le inchieste internazionali sulle reti del traffico - che richiedono indagini molto complesse, collaborazioni con paesi terzi, risorse notevoli e alte competenze - rimangono ancora poche, secondo diversi esperti legali, l’articolo 12 permette alle procure di aprire un alto numero di procedimenti contro presunti scafisti, offrendo un’impressione di efficienza. Secondo Germana Graceffo, avvocato di Borderline Sicilia, i migranti e i richiedenti asilo arrestati come scafisti sono un “capro espiatorio perfetto, la magistratura ha trovato il colpevole e l’opinione pubblica ha trovato la persona responsabile e così siamo tutti a posto con la coscienza”. Senza difese - La custodia cautelare in carcere in attesa di giudizio viene applicata spesso in casi di questo tipo, in cui gli accusati sono appena sbarcati in Italia e non hanno un domicilio. La complessità di questi processi e la lentezza del nostro sistema giudiziario fanno sì che spesso persone innocenti finiscano per passare anni in una cella, prima di un’assoluzione. Per loro provare la propria innocenza rimane un’impresa complessa e costosa. Diversi esperti legali intervistati hanno sottolineato come le iniquità strutturali del nostro sistema di giustizia, tra cui la difficoltà di accedere ad avvocati esperti e la mancanza sistemica di interpreti qualificati, negano di fatto il diritto al giusto processo ed espongono chi non è italiano e non parla la lingua a un alto rischio di errori giudiziari. “Lo Stato paghi i 5 mila euro chiesti a Mario per la sua morte assistita” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 13 giugno 2022 Il ministro della Salute Speranza sulle procedure per il suicidio assistito del malato marchigiano: “Basta con l’ostruzionismo di strutture del servizio sanitario nazionale”. Il governo non resterà a guardare, Mario non dovrà pagarsi da solo le spese per porre fine alle sofferenze che deve sopportare ormai da 12 anni, quando un incidente stradale lo rese tetraplegico. Se in Parlamento la legge sul fine vita è bloccata in Senato, il ministro Roberto Speranza non intende ignorare la sentenza della Corte Costituzionale che ha riconosciuto la non punibilità di chi aiuta un malato in condizioni irreversibili a morire. A La Stampa il responsabile della Salute spiega: “Nelle more della non più rinviabile approvazione della legge, compito del governo è tuttavia garantire - d’intesa con le Regioni - l’attuazione della sentenza della Corte Costituzionale del 2019 sul suicidio medicalmente assistito”. Il ministro è netto: “Su questo siamo già intervenuti e continueremo a tenere alta l’attenzione”. Mario (nome di fantasia per tutelare la privacy dei familiari), aiutato dall’associazione Luca Coscioni, è riuscito nel corso dell’ultimo anno ad ottenere ragione dal tribunale di Ancona, nonostante la resistenza dell’Azienda sanitaria locale delle Marche che si rifiutava di effettuare le verifiche richieste dalla sentenza della Consulta. Per i giudici costituzionali, non è punibile chi aiuta il suicidio di una persona che deve essere tenuta in vita con trattamenti specifici e che sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, a patto che le condizioni di salute e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Dopo una battaglia a colpi di denunce e ricorsi al Tribunale, il 9 febbraio il gruppo tecnico multidisciplinare dell’Azienda sanitaria locale ha comunicato la propria relazione “sulla modalità, la metodica e il farmaco” necessari per il suicidio assistito di Mario. Ma, appunto, in assenza di una legge che disciplini la materia, spetta al diretto interessato provvedere alle spese necessarie. Spese che l’Associazione Luca Coscioni stima in cinquemila euro solo per il macchinario che deve iniettare il farmaco al paziente. Speranza non vuole scavalcare il Parlamento, “in materia di fine vita, è in corso l’iter di discussione parlamentare di una legge attesa da tempo e il governo non può che guardare con rispetto alle posizioni politico-culturali che si manifestano in un confronto così delicato”. Ma, aggiunge, “una volta che la procedura di verifica del rigoroso rispetto di tutte le condizioni individuate dalla Consulta sia stata completata, le strutture del Servizio sanitario nazionale non possono assumere atteggiamenti ostruzionistici”. Tanto meno, secondo il ministro, “è ipotizzabile che i costi siano a carico del paziente che si rivolge, come previsto dalla sentenza della Corte costituzionale, a strutture pubbliche”. Conclude il ministro, “anche su questo aspetto il governo non farà mancare, laddove sia necessario, un tempestivo chiarimento e intervento”. Stati Uniti. C’è una prima svolta sul controllo delle armi di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 13 giugno 2022 Per la prima volta da 26 anni, 10 senatori repubblicani e 10 democratici hanno messo a punto misure (ancora non operative) sulle armi: non è previsto il bando dei fucili semiautomatici, ma saranno aumentati i controlli sugli acquirenti, verranno sequestrate le armi ai condannati per violenza domestica e sarà alzata la sicurezza delle scuole C’è un mini-accordo sulle armi. Il primo dopo 26 anni di inazione segnati da stragi e sparatorie. Ieri, domenica 12 giugno, dieci senatori democratici e dieci repubblicani hanno fatto sapere di aver messo a punto alcune misure che ora andranno tradotte in disegno di legge. Va detto subito: non è previsto il bando dei fucili semiautomatici, come quello usato da Salvador Ramos per falciare 19 bambini e due insegnanti il 24 maggio scorso, nella scuola elementare di Uvalde, in Texas. Non verrà nemmeno alzata da 18 a 21 anni la soglia di età per comprare un Ar-15 o un’altra mitraglietta. E Ramos aveva appena compiuto 18 anni, pochi giorni prima della strage. Ecco il comunicato diffuso dal gruppo dei senatori: “Oggi annunciamo una proposta bipartisan e di buon senso per proteggere i bambini americani, dare sicurezza alle scuole e ridurre la minaccia di violenza attraverso il Paese. Le famiglie sono impaurite ed è nostro dovere lavorare insieme per raggiungere qualche risultato e contribuire a ristabilire il senso di protezione nelle nostre comunità”. Nello schema, invece, figurano sostanzialmente 4 provvedimenti. Il più importante, forse, è il rafforzamento dei controlli sugli acquirenti di armi. In particolare saranno messi a disposizione più fondi per consentire agli Stati di osservare il comportamento dei soggetti considerati più a rischio, seguendo le segnalazioni (il “red flag”, la bandiera rossa) dei famigliari, degli insegnanti, dei conoscenti. Le autorità dovranno confiscare fucili e pistole alle persone che mostrano segni di pericolosità. La rete dei controlli si estenderà anche ai giovani tra i 18 e i 21 anni. Secondo: chi è stato condannato per violenza domestica non potrà più possedere un’arma. Il divieto, e questa è una novità, tocca anche i partner, fidanzati o fidanzate, non solo i coniugi. Il terzo capitolo è il più delicato. Verranno stanziate più risorse per assistere e, quindi anche per monitorare, tutti coloro che soffrono di disturbi mentali. Infine, il proposito per ora più generico: “rafforzare la sicurezza delle scuole”. Come si vede, i legislatori dovranno ancora precisare le norme e, soprattutto, per renderne possibile l’applicazione concreta ed efficace. Tuttavia questa giornata segna una svolta. Il Congresso supera la paralisi: ci sono i numeri, almeno 60 seggi, per superare lo storico ostruzionismo dei senatori repubblicani. La politica, questa volta, non ha completamente ignorato la voce della grande maggioranza degli americani. Sabato, migliaia di attivisti hanno marciato a Washington, New York e in altre città del Paese. Ora le loro organizzazioni accolgono questa intesa come un piccolo, ma comunque importante progresso. Anche Joe Biden ha fatto sapere di “appoggiare” l’accordo, pur avendo chiesto per settimane il bando dei fucili automatici. Due i senatori protagonisti della trattativa bipartisan: il democratico Chris Murphy, del Connecticut, lo Stato della sparatoria della scuola elementare Sandy Hook (uccisi 20 bambini e sei adulti); il repubblicano John Corny, uno dei più stretti alleati del leader di minoranza, Mitch McConnell. Corny viene dal Texas, lo Stato di Uvalde. In Siria l’Emirato invisibile di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 giugno 2022 Jihadismo. Nella provincia di Idlib, Hayat Tahrir al Sham ha fondato il suo “Qaedastan”: radicalismo religioso, zero diritti, punizioni corporali. La Turchia lo protegge. E a Usa e Ue non dispiace. Ai miliziani di Hayat Tahrir al Sham (Hts) non piace il contrabbando di benzina e gasolio, anche quel poco, magari un paio di taniche a testa, che tanti siriani sfollati nella provincia di Idlib, correndo rischi e percorrendo ogni giorno chilometri di viottoli di campagna, vanno a comprare nel distretto di Aleppo sotto il controllo delle forze di Damasco. Lì il carburante costa meno. Poi lo rivendono nei loro villaggi assetati di benzina a un prezzo maggiore procurandosi quei tre-quattro dollari giorno che bastano a comprare il pane, un po’ di legumi secchi e qualche ortaggio. Guai però a finire nelle mani della “sicurezza”. La punizione potrebbe essere molto severa, addirittura costare la vita. Al Jazeera racconta che a febbraio, le forze dell’Hts hanno arrestato la madre di quattro bambini, Fatima al-Hamid, 28 anni, mentre cercava di contrabbandare carburante. Le hanno sparato alla testa davanti ai figli. Hts, un tempo conosciuto come il Fronte al Nusra, braccio siriano di Al Qaeda, non consente violazioni della legge che ha imposto nel suo “emirato” nella regione nord-occidentale di Idlib, con la copertura del Turchia di Erdogan e il silenzio-assenso degli Stati uniti e dell’Europa. Per chi dall’estero segue le vicende del nord della Siria, dove proprio in questi giorni si teme l’ennesima offensiva militare di Ankara contro l’autonomia curda, Idlib è il territorio dove centinaia di migliaia di civili siriani (e non solo) hanno trovato rifugio durante i combattimenti per la riconquista di Aleppo e di altre città da parte dell’esercito siriano con il sostegno dell’aviazione russa. Un territorio dove la povertà è la condizione del 97% della popolazione, e a rischio perenne di escalation militari nonostante gli accordi presi dalle parti in conflitto negli anni passati. Idlib però è anche il regno del radicalismo religioso più sfrenato, un territorio dove i “reati” sono sanzionati con dure punizioni corporali, spesso la morte, dove la libertà di espressione è uguale a zero e non esistono diritti per le donne. È il territorio dove hanno, almeno per un po’, hanno trovato rifugio i due dei capi dell’Isis uccisi negli ultimi due anni. Con la motivazione di garantire protezione a civili siriani potenzialmente minacciati dalle forze agli ordini del presidente Bashar Assad, Idlib gode, con la benedizione di Washington, Bruxelles e Ankara, di una autonomia politica e territoriale, funzionale alla frammentazione della Siria desiderata dai suoi nemici. Dal 2017 su di gran parte di questa regione comanda e amministra Hts, capace di sbaragliare Ahrar al Sham e gli altri gruppi jihadisti rivali. Da allora, sotto la guida di Abu Mohammad al-Jolani, ha cominciato a prendere forma Qaedastan in Siria, o se si vuole Al Qaeda 2.0. È l’unico territorio nel mondo di fatto governato da Al Qaeda, l’organizzazione responsabile dell’attacco alle Torri Gemelle, anche se Hts sostiene di aver preso le distanze dall’organizzazione che fu fondata da Osama bin Laden. L’enclave è divisa in due territori. Uno, più ampio, è controllato da Hts, l’altro da un governo ad interim appoggiato dalla Turchia che fa riferimento alla Coalizione di opposizione siriana e a una manciata di milizie islamiste chiamate Esercito nazionale siriano usate da Erdogan contro i curdi. Al Jolani a Idlib ha adottato una politica amministrativa particolare: da un lato vieta un po’ tutto - dalle sigarette ai brani musicali trasmessi dalle radio locali - dall’altro fa fiorire il contrabbando, traendo grandi profitti per l’emirato. Fonti locali spiegano che i contrabbandieri devono pagare alti dazi per permettere ai loro camion di accedere alla provincia e di muoversi liberamente al suo interno. Tuttavia, il peggioramento dell’economia in Siria - a causa delle sanzioni Usa (Caesar Act) - ha complicato la situazione anche a Idlib, con scontri sempre più frequenti tra fazioni dell’Hth per accaparrarsi i proventi del contrabbando e si registra un netto aumento degli omicidi di civili e miliziani. In condizioni di anonimato, esponenti della società civile spiegano che il ramo siriano di Al Qaeda è il principale beneficiario dello sfollamento nel nord-ovest della Siria di centinaia di migliaia di persone poiché controlla in vari modi gli aiuti umanitari forniti dalle organizzazioni internazionali. Un dipendente di una ong ha confermato ad Al-Hal.net che Hts ha imposto a ogni organizzazione di pagare una “tassa” anche se si tratta di aiuti umanitari urgenti per la popolazione e di fornire informazioni sui partner di lavoro e i beneficiari. E impone “l’assunzione” di suoi membri nelle ong. Allo stesso tempo nei discorsi pubblici, il ramo siriano di Al Qaeda fa di tutto per mostrarsi pragmatico. Orwa Ajjoub, analista del Center for Operational Analysis and Research, spiega che parlando di lotta all’estremismo e sviluppando i servizi e la gestione amministrativa, Hts punta a raccogliere maggior sostegno in Occidente in vista della gestione del potere nella Siria postbellica, rendendosi “insostituibile” nel futuro quadro siriano. Di fatto cerca di seguire il modello dei “nuovi” Talebani tornati al potere Afghanistan: più pragmatici rispetto a venti anni fa ma ugualmente rigidi sui punti essenziali, come la negazione dei diritti delle donne. Nelle scorse settimane Al-Golani ha visitato la città di Ariha ed è apparso in una registrazione video pubblicata dalla Amjad Media Foundation indossando un mantello. Parlando ha evidenziato i servizi che Hts ha avviato a pochi chilometri dal Jabal al-Zawiya, quindi alla prima linea con le forze del governo siriano. “Non inventiamo niente di nuovo. Ciò che ci distingue è che noi stiamo costruendo in mezzo alla guerra”, ha detto. Il generale Ahmed Rahal, analista militare e strategico, ha detto al portale Al-Monitor che “Golani cerca di presentarsi al mondo come leader di un governo moderato che tenga conto degli interessi di tutti nella regione. Sta rassicurando gli Stati Uniti che non sta compiendo alcuna azione al di fuori della Siria. Cerca anche di presentarsi come sponsor delle azioni della Turchia all’interno del territorio siriano”. Secondo l’islamologo Abbas Sharifa, Jolani non cerca solo riconoscimenti da parte dell’Occidente. “Vuole rafforzare il suo potere militare e a stringere forti alleanze con le fazioni del Turkestan, in Albania e della Cecenia, necessarie per il suo progetto”. E sullo sfondo c’è la guerra in Ucraina. “Hts scommette sulla preoccupazione della Russia per la guerra in Ucraina - spiegano i suoi comandanti militari - Vuole cambiare l’opinione internazionale per essere sostenuto militarmente contro la Russia che combatte a fianco del regime di Damasco”.