Troppi reclusi con pena breve: il carcere non è la soluzione di Mauro Palma* L’Espresso, 12 giugno 2022 Per i 3.700 detenuti che scontano meno di due anni la detenzione è un tempo vuoto fatto di nulla. Il 6 giugno 2022 erano 3.783 le persone detenute in carcere per una pena inferiore ai due anni: circa il dieci per cento di coloro che nel nostro Paese sono in carcere con sentenza definitiva. Di questi, 1.314 devono scontare una pena inflitta inferiore a un anno. Sono due dati tra quelli che verranno analizzati più compiutamente dal Garante nazionale nella sua annuale relazione al Parlamento il prossimo 20 giugno, che concentrerà la sua attenzione sull’ampia tematica del tempo della pena e che verrà trasmessa in diretta su Raitre dalle ore 11. Il periodo percorso in esecuzione di una sentenza penale, pur nell’intrinseco limite della privazione della libertà e del conseguente rischio di desocializzazione, può essere pieno e costruttivo, fatto di recupero dell’istruzione o di un suo nuovo sviluppo, di attività volte al positivo reinserimento nella società. Oppure può essere vuoto, fatto di niente che non sia il lento scorrere delle ore, dei giorni, dei mesi. Nel caso delle pene brevi il tempo trascorso in carcere fa parte certamente di questa seconda categoria. È infatti difficile dare un senso a periodi così limitati, quando per elaborare un qualsiasi progetto di recupero occorre un’osservazione di mesi e una pianificazione di anni. Così il tempo vuoto non è solo inutile e deleterio ma trasforma la finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene in una velleitaria enunciazione. Analizzando le storie personali e le caratteristiche sociali di chi è in detenzione per scontare una pena così breve emerge spesso un quadro di marginalità: reati sempre simili a sé stessi, impossibilità di accesso a misure alternative, assenza di tutela legale effettiva o di supporto di qualsiasi tipo, mancanza di istruzione minima. Una condizione che prefigura un’esistenza che pendola tra brevi periodi di libertà e nuove detenzioni in carcere, esperienze di vita che contraddicono il luogo comune di chi invoca il carcere come unica possibile sanzione per dare più sicurezza alla comunità. Una situazione che genera infatti ulteriore marginalità e nuova illegalità. Interviene poi un altro e non meno importante fattore: quello dell’indigenza di molte persone detenute, quelle che meno attraggono l’attenzione della cronaca centrata quasi sempre sulla grande criminalità e i delitti che fanno scalpore. Chi sta in carcere per una pena così breve è, per esempio, una persona che non può ottenere la detenzione domiciliare perché una casa non ce l’ha. L’assenza di reti sociali di supporto fa così traballare l’assunto su cui si basa il nostro vivere comune e che è esplicitato nelle parole che sovrastano ogni Corte, quello secondo cui la legge è uguale per tutti. L’incapacità nel territorio di intercettare queste vite ai margini prima che sconfinino nel reato e l’altrettanta incapacità di prevedere una rete ove realizzare percorsi alternativi, finiscono col far ricadere le contraddizioni irrisolte sia sul carcere (vedi alla voce sovraffollamento) sia sulla collettività che si percepisce come meno sicura. Il carcere non può risolvere tutto, specie quando manca il tempo per farlo. Né la soluzione può essere “costruiamo altre carceri” senza uno sguardo al contesto sociale e al percorso rieducativo delle persone recluse. Occorre una prospettiva differente e la creazione di nuove strutture comunitarie che mantengano la doverosa necessità sanzionatoria ma che allo stesso tempo lavorino per la sicurezza nel lungo termine. Luoghi che possano accogliere anche chi è alla fine di un percorso detentivo più lungo e che deve fare i necessari passi per tornare a vivere fuori. È tempo di trovare il coraggio e la visione per intraprendere questa strada. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Referendum sulla giustizia, il voto è un diritto anche di chi sta in cella di Viviana Lanza Il Riformista, 12 giugno 2022 A Poggioreale voteranno sedici detenuti su oltre duemiladuecento. Sedici, meno dell’1 per cento. Nel carcere di Secondigliano voteranno due detenuti, nessuna donna nel carcere femminile di Pozzuoli. La mappa degli aventi diritto al voto che domani si esprimeranno sui referendum sulla giustizia sembra la cartina di un deserto. Possibile che alle centinaia e centinaia di persone che si trovano rinchiuse in una cella e in attesa di giudizio non interessi dei quesiti che toccano nodi cruciali del sistema giustizia, possibile che non siano interessati ad essere giudicati da giudici terzi e imparziali, possibile che non sentano di esprimere il proprio voto sui limiti agli abusi della custodia cautelare o sull’equa valutazione dei magistrati affinché sull’operato dei pubblici ministeri sia esercitato un controllo più rigoroso di quello che esiste adesso? Sembra difficile pensare che la popolazione detenuta non abbia alcun interesse verso questi argomenti che li riguardano in un certo senso, che sono in grado di condizionare la loro vita oltre che quella di tutti i cittadini. Piuttosto, vista la farraginosità delle procedure, dei permessi e di tutto quello che serve per esercitare il voto è realistico pensare che diventa difficile votare per chi vive dietro le sbarre, talvolta impossibile. E allora ecco i numeri risicatissimi di chi, tra il popolo dei reclusi della Campania, andrà alle urne domani. Solo sedici detenuti nel carcere di Poggioreale, dicevamo. Una goccia in un oceano. Due detenuti a Secondigliano, che è il secondo carcere della città. Nessuna donna a Pozzuoli, unico istituto penitenziario femminile di Napoli. Un solo detenuto ad Airola, struttura minorile dove si trovano reclusi anche ragazzi dai diciotto ai venticinque anni di età. Soltanto due a Nisida, l’istituto per minorenni dove ci sono anche giovani adulti, cioè ventenni. Spostandoci verso la provincia lo scenario non cambia: sono in dieci i detenuti che potranno esprimere il proprio voto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sei quelli reclusi nel penitenziario di Salerno, sei anche ad Avellino, cinque a Benevento, dodici a Carinola, otto nell’istituto di pena di Sant’Angelo dei Lombardi. In totale sessantotto detenuti sparsi tra dieci istituti di pena della regione. Se consideriamo che la popolazione detenuta in Campania è attualmente composta da 6.742 persone, si raggiunge a stento il dieci per cento di votanti. Un dato che la dice lunga su quanto ci sia ancora da fare per consentire a tutti, anche a chi è in cella, l’esercizio di un diritto come quello al voto. Sicuramente qualcuno potrà far notare che del novanta per cento di detenuti che non voteranno c’è chi si astiene e chi ha subìto condanne accessorie per cui è interdetto al voto. Ok. Ma tantissimi desistono a causa di procedure estremamente complicate, lunghe, rese ancora più difficili dal fatto che non sempre è rispettata la territorialità della pena e quindi per molti detenuti il luogo di residenza non coincide con quello di detenzione. I garanti hanno evidenziato che non in tutti gli istituti di pena c’è una capacità organizzativa tale da garantire informazioni, autorizzazioni, procedure tempestive. Risultato? Il diritto del singolo diventa subordinato alla pesante burocrazia penitenziaria e a procedure che andrebbero invece snellite. Ma se è vero che un battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un urgano dall’altra parte del mondo, allora si può ancora sperare che questi referendum siano il battito d’ali verso una giustizia più giusta per tutti. “Made in Carcere: 100% sostenibile”, l’intervista a Luciana Delle Donne di Angela Iantosca viverenaturale.info, 12 giugno 2022 Un progetto che dà lavoro alle donne, agli uomini e ai minori carcerati, crea un’economia circolare, abbatte la recidiva, crea prospettive per il futuro. Può un luogo di reclusione essere sostenibile? La risposta è sì ed è ciò che dimostra da anni Made In Carcere, il progetto nato in Puglia da uno slancio di Luciana Delle Donne, ex top manager di successo nel mondo bancario che, nel 2004, ha lasciato tutto per tornare nella sua Lecce e restituire un po’ di fortuna a chi non ha ricevuto molto dalla vita, promuovendo un’azione imprenditoriale all’interno delle mura carcerarie attraverso “Officina Creativa”, una no-profit impegnata nel reinserimento delle persone svantaggiate, detenuti in particolare. Oggi, dopo 15 anni, “Made in Carcere” è una realtà consolidata e sostenibile al 100%. Anzi, sostenibile due volte, perché interessa sia l’ambiente che l’inclusione sociale. Oltre ad abbattere la recidiva quasi del 100%. Chi non lavora, invece, circa l’80% dei casi torna a delinquere. “Quello che stiamo portando avanti è un lavoro molto importante e che sta dando i suoi frutti: diamo una nuova identità e dignità ai detenuti e alle loro famiglie, dando opportunità lavorative a chi di solito è invisibile. E, oltre a Lecce, operiamo in altre carceri come Bari, Matera, Trani e Taranto e allo stesso tempo supportiamo l’apertura di Sartorie sociali di periferia a Verona, Grosseto, Genova, Novara e Catanzaro, creando anche una rete virtuosa e trasferendo competenze e donando materia prima utile per costruire autonomia e indipendenza economica in situazioni di emarginazione”. Quali i prodotti che realizzate? “Noi realizziamo soprattutto gadget personalizzati per le aziende che, invece di comprare prodotti usa e getta che inquinano il pianeta e sfruttano le risorse umane, decidono di sostenere iniziative come la nostra per lanciare un loro messaggio di condivisione di questa idea. Oltre a realizzare borse, lo zoccolo duro che ci permette di pagare le persone in stato di detenzione sono i gadget per aziende, per eventi, per le università che ci aiutano ad aiutare altre persone disagiate. Alla base c’è il nostro modus operandi che prevede il riuso dei materiali con creatività, eleganza e bellezza. Alla base c’è la possibilità di scegliere e proporre accostamenti di colori e materiali. Per questo sai come ci chiamano? I Montessori per adulti, perché diamo a queste persone in stato di detenzione, impossibilitate a scegliere e decidere, di realizzare qualcosa in modo creativo: non sono solo esecutrici, non cuciono e basta, ma assemblano e scelgono, perché la vita è fatta di scelte, non di occasioni”. Vi rivolgete solo al femminile? “No, a Matera operiamo nel carcere maschile. E nel carcere minorile di Bari con i quali produciamo biscotti vegani e biologici”. Voi siete anche un esempio di economia circolare... “Il nostro è un modello di economia rigenerativa. I tessuti che utilizziamo arrivano da aziende lucide che comprendono che donare a realtà come la nostra i loro scarti e le loro rimanenze fa bene a loro e a noi. Inoltre, in termini di bilancio, alleggeriscono il magazzino donando questi tessuti. Si tratta di aziende del Nord. Per esempio grazie al Consorzio Mare di Moda, che è un consorzio che fa una fiera a Cannes, noi abbiamo uno stand, Textile Bank, presso il quale otteniamo adesioni e scarti che possono essere tessuti di stagioni passate o di campionario. Quindi, invece di farglieli buttare via, creando anche altra anidride carbonica e inquinando, noi li recuperiamo. Naturalmente è più faticoso usare i materiali di scarto, rispetto allo srotolare un rotolo di tessuto, perché noi dobbiamo unire questi pezzettini di stoffa, creando patchwork di tessuti”. Ma, sebbene sia più faticosa, è utile anche in senso metaforico... “Stiamo parlando di persone che, attraverso questo lavoro, ricostruiscono anche una loro dignità e identità. Pertanto l’assemblare e accostare i tessuti è ripagata da questo percorso di crescita. Così, una volta uscite, avranno competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro: competenze non solo tecniche, di sartoria, ma anche nello stare su un luogo di lavoro, rispettando ruoli, responsabilità, regole. Aspetti che non conoscevano”. E che diventano un prezioso bagaglio per non tornare a delinquere... “Come tipologia di reati commessi preferiamo non conoscerli perché noi non giudichiamo ma cerchiamo solo compagni di viaggio. Il filo comune è che sono quasi tutte mamme. Quindi ancor di più è importante avere un approccio costruttivo perché ciò che imparano, il senso di stabilità e serenità ricadrà anche sui figli o sui nipoti, perché alcune sono già nonne. Qualche tempo fa, infatti, ho realizzato delle interviste per monitorare quello che io chiamo BIL, il Benessere Interno Lordo. Abbiamo ascoltato ventuno donne che avevano due-tre figli l’una. Questo cosa significa? Che fuori ci sono cinquanta ragazzi senza riferimento materno. Quindi l’idea di poter lavorare costituisce per loro un valore che trasferiscono ai figli. Significa per loro poter dire: “Stiamo lavorando, percepiamo uno stipendio e potremo camminare a testa alta una volta scontata la pena”. Come si entra nel progetto? “Noi diciamo sempre che è importante rispettare le diversità e scegliere di cogliere questa opportunità per utilizzare proficuamente il tempo che si deve trascorrere in carcere che, altrimenti, sarebbe perso. Per fare questo devono rimettere in discussione tutte le loro convinzioni, la loro realtà. Devono volersi bene e ricominciare tutto d’accapo. Dico sempre che nella sfortuna sono state molto fortunate: perché la quasi totalità delle detenute vegeta venti ore al giorno e per le ore rimanenti cammina in un cubo di cemento che è il cortile”. Come vi siete adattati al periodo della pandemia? “Abbiamo realizzato circa 10mila mascherine che abbiamo donato. ai bisognosi, ai detenuti, ai senzatetto, ai contadini, alle prostitute, e oltre alla sofferenza del momento abbiamo avuto un crollo di fatturato quasi totale, perché gli eventi e convegni hanno avuto uno stop totale”. C’è una storia che ti ha colpito molto? “C’è una donna che ha quasi un fine pena lunghissimo che però, sta ricostruendo se stessa. Sua figlia va all’università grazie allo stipendio che lei percepisce. Una cosa bellissima, anche perché lei sta prendendo le distanze dal reato e dal disagio”. È un modello da esportare? “Io desidero che gli altri ci copino: le sartorie sociali di periferia nascono proprio per questo, per replicare il modello di recupero di tessuti e poi noi stampiamo le etichette per il brand. Insomma aiutiamo microimprese che altrimenti non potrebbero esistere: gli trasferiamo il know how, pubblichiamo foto dei loro prodotti. Questo cosa significa? Che non può esserci l’esclusività nel fare del bene. Quando qualcuno ci chiede l’esclusiva sul prodotto, significa che non ha capito niente. Fare del bene non può essere un circolo chiuso: bisogna aiutare ad aiutare”. Altro obiettivo far vivere questa iniziativa e tante altre anche senza di te... “Per questo abbiamo creato una squadra che va avanti in autonomia. Siamo circa una quindicina di persone esterne che facciamo parte di un team creativo-organizzativo. Ci occupiamo di logistica e produzione e prototipia, progetti speciali e anche facciamo la raccolta per il 5 x mille. Fino ad ora non avevamo previsto il 5xmille. Ma in questi anni di pandemia il fatturato è stato pari a zero e questo ha significato anche la chiusura di alcuni laboratori e l’impossibilità di dare continuità al lavoro. Così abbiamo pensato che ricorrere al 5xmille, ad una raccolta fondi che potesse aiutare in momenti difficili. All’inizio avevamo preso le distanze da questo approccio perché pensavamo che si potesse autosostenere solo con il lavoro. Ma sono convinta che tornerà ad esserlo anche perché abbiamo ricominciato a lavorare: abbiamo da poco venduto 10mila borse ai supermercati Sisa, 3mila borse le consegneremo alla Conferenza Episcopale. Gli eventi tornano a muoversi e torna la tranquillità economica per pagare gli stipendi: la nostra gioia più grande. Insieme a quella di poter tornare a trovare le donne in carcere: per due anni siamo stati lontani e siamo entrati giusto per il necessario”. C’è un altro aspetto importante a cui fate attenzione: la salute... “Dopo l’idea del recupero degli scarti tessili, ho sempre pensato alla condizione di salute delle donne in carcere e al fatto che avessero bisogno di alimentarsi in modo adeguato. Da qui è nata l’idea di far nascere “La Scappatella”, un biscotto fatto con olio, farina Senatore cappelli, vino e zucchero di canna. E ho pensato di realizzarli all’interno del Carcere Minorile dove ci sono i ragazzi: volevo far conoscere a loro la qualità del cibo, la qualità delle cose che solitamente per condizione familiare, trascuratezza loro non conoscono: non hanno mai sentito l’odore dell’olio buono, non hanno mai mangiato una farina non raffinata. Così è venuto fuori un prodotto fantastico, davvero buono, certificato biologico”. Avresti mai pensato di arrivare a questo punto 15 anni fa? “No! In realtà io pensavo di farmi una ‘passeggiata’ per un paio d’anni, una piccola esperienza, di creare qualcosa e di tornare indietro a fare ciò che avevo sempre fatto: diciamo che volevo restituire un po’ di fortuna che avevo avuto nella precedente esperienza bancaria. Ma non immaginavo tutto questo. Volevo occuparmi degli ultimi, ma non pensavo che durasse tanto. Sono salita sulla giostra e non so scendere. Essere partecipi della generazione del cambiamento tra le persone e renderle consapevoli e responsabili di un percorso di vita importante per tutti, che lasci traccia positiva è una grande emozione contagiosa. L’idea è proprio quella di condividere con gli altri l’etica e l’estetica, far capire che ciò che stiamo facendo con quelle donne, quei ragazzi e quegli uomini fa bene a tutti. Come fa bene restituire alla società quei pezzi di società a cui guardiamo con pregiudizio o con un paio di occhiali sbagliati…Bisogna smettere di pensare che il carcere sia un luogo da cancellare. Costa 60mila euro a persona l’anno: se le salviamo lavorativamente, salviamo anche la società. Se con l’economia circolare riusciamo a trasferire il concetto di stile anziché di moda e trasferiamo il concetto di progetto dietro ad un prodotto, la declinazione dello stile di vita delle persone cambierà perché, quando fai un acquisto, fai un acquisto consapevole, quando compri acquisti un progetto di vita, non più un prodotto e lo sostieni. Si diventa quindi complici o partner di un progetto che genera benessere: il BIL. Un Benessere che stiamo misurando grazie ad un comitato tecnico scientifico che abbiamo messo in piedi con Fondazione con il SUD che sta dando lavoro a circa 60 detenuti allargando il raggio di azione ad altre cooperative partner. La verità è che a me non interessa vendere le borse, ma vedere le persone che cambiano e che vivono con gioia leggerezza e allegria”. Questa tua propensione ha radici nella famiglia? “Come cultura familiare siamo sempre stati particolarmente generosi e abbiamo sempre condiviso la gioia di vivere: se c’è una persona che chiede l’elemosina, bisogna darla sempre perché comunque sta meno bene di te. Detto questo all’inizio ho messo al primo posto la carriera: ma dopo i primi successi importanti, mi sono rasserenata e mi sono resa conto del valore della mia persona. Ero ambiziosa e ho imparato ad essere umile, scegliendo di essere al servizio degli altri. Lo so che è una scelta, una fatica pure e a volte ti verrebbe voglia di mollare, ma c’è sempre una persona che ha bisogno di te”. Come ha reagito la tua famiglia alla scelta di lasciare il mondo del lavoro? “Tutti sono rimasti scioccati quando ho lasciato la finanza, erano quasi incavolati. In fondo io qui faccio volontariato e non guadagno una lira. Ma Grazie a Dio siamo una famiglia molto unita, siamo cinque fratelli e c’è sempre un mutuo aiuto: è la bellezza dell’amore tra le famiglie e le persone”. Quorum e riforma. La partita politica dei cinque referendum di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 giugno 2022 Dalla legge Severino alla separazione delle funzioni, alle urne i quesiti presentati da Partito radicale e Lega. Esito valido solo con il quorum del 50% più un elettore. La partita cominciata un anno fa con il deposito dei quesiti alla Corte di cassazione da parte dell’insolito tandem Lega-Partito radicale è giunta al suo epilogo: oggi i cittadini italiani diranno se i referendum sulla “giustizia giusta” (remake dello slogan coniato da radicali e socialisti nel 1987 sull’onda del “caso Tortora”) avranno avuto un senso oppure no; se sarà superata la fatidica soglia del 50 per cento di elettori necessaria a rendere valida la consultazione ed eventualmente abrogare le cinque leggi prese a simbolo per cambiare “dal basso” un sistema che il Parlamento non riesce a riformare. Era il 3 giugno 2021 quando Matteo Salvini e Maurizio Turco, leader dei due partiti promotori, srotolarono insieme ad altri militanti protetti dalle mascherine anti-Covid all’epoca obbligatorie lo striscione “Referendum giustizia” sulla scalinata della Cassazione, per annunciare l’inizio della campagna. Per tutta l’estate raccolsero le firme, oltre 700.000 dissero; tuttavia la proposta formale l’hanno presentata i Consigli regionali a guida di centrodestra, alternativa prevista dalla Costituzione. Non più referendum popolari, quindi, bensì a trazione squisitamente politica. A febbraio la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i quesiti sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, oltre che sulla legalizzazione delle droghe leggere e sul suicidio assistito per i malati terminali. Così, rimasta monca delle questioni di maggior richiamo per gli elettori, la battaglia s’è trasferita essenzialmente sul tentativo di raggiungere il quorum. L’abbinamento con le elezioni amministrative rappresenta una chance in più, ma la vera sfida resta quella. Per i promotori e per i partiti che li hanno affiancati: di fatto tutto il centrodestra più Italia viva, a conferma di un’alleanza ormai stabile sui temi della giustizia. Nella destra si distingue però Fratelli d’Italia, che dà indicazione per tre Sì e due No, contraria alla limitazione dei presupposti per la carcerazione preventiva e alla cancellazione del decreto Severino. Per il Sì sono anche formazioni collocabili al centro, come +Europa e Azione, nonché una frangia di esponenti del Pd che in nome di un garantismo assoluto è per abrogare tutto quello che si chiede di abrogare. Contrari senza defezioni interne restano solo i Cinque Stelle. Anche per via dell’incognita affluenza, l’appuntamento referendario ha bloccato l’esame al Senato della cosiddetta riforma Cartabia che affronta tre dei cinque argomenti su cui si vota: fosse stata approvata prima, l’interesse degli elettori sarebbe stato ancora più a rischio. Ciò non toglie che, qualunque sarà l’esito della consultazione, il Parlamento potrà comunque portare a termine il suo lavoro. Si ricomincia dopodomani, ma sarà un’altra partita. Legge Severino - L’obiettivo dichiarato è abolire la norma che sospende gli amministratori locali (governatori, sindaci, assessori) anche solo dopo una condanna di primo grado, senza aspettare il verdetto definitivo; una regola in deroga alla presunzione di non colpevolezza introdotta nel 2012 che oggi tutti, tranne i grillini, dicono di voler rivedere; anche il Pd schierato per il No, delegando la modifica a un proprio disegno di legge. Per un semplice motivo: insieme a questa disposizione il Sì abrogherebbe pure quella che prevede l’ineleggibilità o la decadenza da cariche parlamentari o di governo per i condannati definitivi. E in base alla quale il Senato votò l’esclusione di Berlusconi nel 2013, mentre salvò Minzolini nel 2017. Se la norma venisse abrogata, l’interdizione dai pubblici uffici per i politici resterebbe nelle mani del giudice che pronuncia la sentenza, togliendo la parola ai partiti. Carcere preventivo - I promotori l’avevano intitolato “limiti agli abusi della custodia cautelare”, ma la Cassazione ha corretto in “limitazione delle misure cautelari”, senza dare per scontato che sia abusivo ogni arresto derivante dal sospetto di reiterazione del reato. È questa, infatti, la circostanza per la quale un indagato o un imputato può oggi essere arrestato prima della condanna, che i promotori intendono cancellare. Sostenendo che i magistrati fanno eccessivo ricorso al rischio che si possano commettere reati della stessa specie di quella per la quale hanno aperto un fascicolo o un processo. Se vincessero i Sì questa eventualità resterebbe solo per i delitti di mafia e terrorismo, legati alla criminalità organizzata o accompagnati dall’uso di violenza. Di qui la preoccupazione per l’impossibilità di arrestare indiziati o imputati di corruzione, spaccio, furti e altri reati che destano allarme sociale, fino alle molestie sessuali o allo stalking che non sempre comportano violenze esplicite. Ma i promotori, compresi i leghisti solitamente rigidi su questo fronte, non sembrano scalfiti da simili timori. Separazione delle funzioni - Il primo dei tre quesiti che riguardano la magistratura e temi già affrontati dalla riforma Cartabia è stato anch’esso oggetto di un artificio semantico dei promotori, che l’avevano chiamato “separazione delle carriere” tra giudici e pubblici ministeri, svelando la vera aspirazione. Ottenibile però solo con una complicata riforma costituzionale. Ma con un quesito lungo 1.067 parole (all’incirca come questo articolo) si mira a raggiungerla di fatto: se vincono i Sì ci sarà una situazione ibrida, con il divieto di passare da una funzione all’altra all’interno dello stesso ordine giudiziario. Attualmente i trasferimenti consentiti (con regole molto stringenti) sono quattro, la riforma Cartabia li riduce a uno entro i primi dieci anni della carriera, proprio per dare un senso al fatto che - senza modifiche costituzionali - non può che restare unica. Valutazione dei magistrati - Il referendum chiede di abrogare le norme che negano il diritto di voto di avvocati e professori universitari nei consigli giudiziari (una sorta di articolazione locale del Csm) sulla valutazione professionale dei magistrati. La riforma in discussione prevede di estendere quel voto, ma con alcuni accorgimenti per evitare che si trasformi in occasioni di vendette o compiacenze per singole inchieste o processi già svolti o da celebrare. Si prevede, ad esempio, che prima di esprimere il voto sulla “pagella” del magistrato da esaminare ci sia una deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, proprio per evitare eventuali personalizzazioni. Il referendum, invece, va dritto al punto senza perdersi in ulteriori limitazioni o “filtri”. Candidature al Csm - Agli elettori si chiede di abrogare il requisito minimo di 25 firme a sostegno di ogni candidatura al Consiglio superiore della magistratura per la componente togata; un limite talmente esiguo che nessun potenziale eletto ha avuto o avrebbe difficoltà a superare. La sua abolizione viene però considerata utile ad arginare il condizionamento delle correnti nella composizione del Csm, poiché tutti potrebbero presentarsi senza sostegni preventivi. Anche la riforma Cartabia elimina quel vincolo, ma all’interno di una più complessiva e complessa modifica del sistema elettorale. Votiamo per rispetto e per dispetto di Paolo Guzzanti Il Giornale, 12 giugno 2022 Perché correre a votare sì ai cinque referendum? Per dare un segno di dispetto e uno di rispetto. Rispetto, per l’istituto del referendum che è una specie di quelle asce che si nascondono dietro a una lastra di vetro da rompere se c’è un incendio e prima che arrivino i pompieri. Dispetto perché è necessario gettare una palata di sabbia nelle ruote di una giustizia che è la stessa dai tempi di Pinocchio e del Giudice Scimmia. È un cancro italiano di cui gli attuali giudici fisici in carne ed ossa hanno talvolta colpe personali, ma che per lo più fa parte di una tradizione appiccicosa e formalistica, la scienza degli Azzeccagarbugli. I guai italiani di oggi li trovate già ben scritti e descritti nel romanzo di Manzoni, nella italianissima storia del già citato Pinocchio perseguitato da una fata sadica e conformista e nel “Discorso sul carattere degli italiani” di Leopardi: un saggio di giornalismo e psicologia comportamentale che non dimostra i due secoli che ha. È inutile sperare di raddrizzare l’infernale macchinario con le riformine buonine ma innocue, perché poi, dopo la riformina, nessuno metterà mano alla questione per altri due secoli. Può anche darsi che da una vittoria del Sì referendario emerga una giustizia ancora zoppicante, ma sarebbe meglio così (ecco la positività di un elemento di “dispetto”) perché il futuro Parlamento, che non può essere peggiore di quello attuale e meno rappresentativo, avrà ulteriori motivi di fretta per fare il suo dovere e cioè le leggi che seguono un ampio e approfondito dibattito: noi siamo una Repubblica Parlamentare come il Regno Unito, e non una federazione referendaria come la Svizzera, il referendum è uno strumento estremo che serve a tagliare i tempi infiniti della politica, sbattendo il muso della politica sul malfatto, come con i gattini che la fanno fuori della cassetta. La magistratura in carica non sarà mai contenta di alcuna riforma che vada ad intaccare i vecchi meccanismi e non ne ha colpa: la natura umana è conservatrice per autodifesa, ma è tempo che si autodifendano i cittadini. Non è questione di tradizione e di conflitti storici fra Diritto Romano e Common Law inglese. Semplicemente, non è ammissibile che lo stesso alto funzionario dello Stato che ha scelto di dedicarsi al più delicato e fondamentale dei servizi pubblici, la Giustizia, nel corso della propria carriera vesta i panni dell’accusatore (che però può anche scegliere di stare dalla parte dell’imputato, dipende dal suo umore) e poi quelli del giudice terzo, che, udite le parti, emette la sentenza. Spesso nei Paesi anglosassoni l’accusa è svolta da un avvocato e comunque il giudice è il padrone e signore della sua Aula, nella quale amministra le regole perché la parità sia garantita ed è sicuro che due ore dopo non sarà a cena dal rappresentante della pubblica accusa perché è suo genero, caso non infrequente. Formalmente la giustizia italiana è perfetta, ma soltanto perché punta nel corso della sua opera alla morte naturale di almeno uno degli attori. Così faceva del resto la Sacra Rota per l’annullamento dei matrimoni: impiegava vent’anni per decidere perché in quel lungo “uno dei tre” interessati finiva sotto i cipressi. Che il Csm costretto a danzare sul carillon delle correnti dei magistrati vada nella sua forma attuale incenerito col lanciafiamme come scatola vuota in cui hanno prosperato molti disfatti, è sotto gli occhi di quasi tutti, perché il tema non è popolarissimo nei talk show la cui stella polare è l’indice degli ascolti che arrivano alle undici del mattino successivo. Noi cittadini ne sappiamo in genere poco e sarà meglio non sforzarsi di capire il linguaggio che troveremo sulle schede del referendum abrogativo. Votare sì, per una volta, oltre che giusto sarà anche divertente perché possiamo immaginare alcune facce. E poi le storiche conseguenze. I referendum sono già falliti per il cinismo e i pasticci della Lega di Giulia Merlo Il Domani, 12 giugno 2022 Oggi si aprono le urne per i cinque referendum sulla giustizia: si voterà in un solo giorno, i quesiti sono molto tecnici e il quorum del 50 per cento più uno è considerato un miraggio anche dagli stessi promotori. Il sondaggio di Ipsos di fine maggio, infatti, ferma l’asticella dei votanti tra il 27 e il 31 per cento. Secondo i sostenitori del sì, la causa del mancato quorum andrebbe ricercata in una sorta di congiura dei media e dei partiti contrari, che avrebbero imposto un “silenziamento” intorno al tema. In realtà, le cause della scarsa mobilitazione pubblica intorno a questi referendum devono essere cercate anche altrove. Le ragioni politiche - A caratterizzare questi referendum è stata sin dall’inizio la peculiare alleanza nella raccolta firme: da una parte il partito radicale, storicamente impegnato nelle battaglie referendarie e sui temi del garantismo, dall’altra la Lega di Matteo Salvini, che invece in materia di giustizia ha sempre cavalcato posizioni securitarie. Lo strano connubio ha dato una forte connotazione politica ai quesiti: la Lega si è intestata la raccolta firme e, pur sostenendo che il numero necessario fosse stato raccolto, ha preferito depositare invece le 9 richieste di referendum votate dai consigli regionali a guida di centrodestra. Parallelamente, la Lega ha continuato a lavorare al tavolo della maggioranza del governo Draghi per la riforma dell’ordinamento giudiziario, che di fatto “contiene” tre quesiti referendari su cinque. Dunque da un lato ha votato alla Camera (e voterà in settimana in Senato) la riforma Cartabia, dall’altro ha spinto i referendum che parzialmente la ricalcano. La scelta della Lega si spiega con la volontà di utilizzare lo strumento referendario per mantenere la sua vocazione movimentista, marcando la propria differenza rispetto alla maggioranza di governo di cui pur fa parte. Con una precisa giustificazione politica: sostenere che la mediazione raggiunta con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e partiti solo eccezionalmente alleati nello stesso governo tecnico non fosse politicamente soddisfacente. Con il passare dei mesi, la campagna referendaria è diventata così una mobilitazione prevalentemente di centrodestra (con l’associazione anche di Italia Viva, Azione e dei radicali) con Lega e Forza Italia come formali apripista per i 5 sì. Questo ha prodotto un risultato: l’identificazione del successo del referendum con un rafforzamento del centrodestra di governo. Un effetto, questo, reso ancora più inevitabile dagli errori di comunicazione: non si è trovato (e probabilmente non esisteva) un minimo comune denominatore tematico dei cinque quesiti per renderli riconoscibili agli elettori visto che la loro tecnicità difficilmente poteva appassionare l’opinione pubblica. Poca mobilitazione - Accanto al dato politico, ne esiste anche uno pratico. La mobilitazione da parte dei sostenitori al referendum è stata ondivaga, soprattutto nei primi mesi, e anche nelle ultime settimane ha prevalso la polemica sul “silenziamento” dei quesiti più che la vera e propria campagna informativa. Si sono visti pochi volantinaggi e banchetti informativi, anche nelle città chiamate anche al voto amministrativo e nessuna cartellonistica o manifesti nelle grandi città. In una parola, i promotori non hanno voluto - o potuto - investire grandi risorse, anche economiche, a sostegno del sì. Dunque il dibattito e l’informazione si sono ridotte alle tribune elettorali in televisione, andate in onda a tarda notte e spesso disertate dai sostenitori del no, e alle dichiarazioni pubbliche dei leader di partito durante le campagne elettorali locali. Le categorie - Paradossalmente, anche al netto del probabile insuccesso alle urne, i referendum sulla giustizia hanno contribuito a valorizzare le categorie professionali più investite nei temi della giustizia e dunque le uniche ad avere davvero posizioni forti sui singoli quesiti. L’avvocatura - dall’Unione camere penali ai consigli degli ordini alle associazioni specialistiche - si è mobilitata per il sì e ha guadagnato spazio sulla stampa, preso la parola nelle tribune elettorali e avuto una copertura mediatica che difficilmente avrebbe ottenuto in altre occasioni. La magistratura, con l’Associazione nazionale magistrati e i gruppi associativi contrari ai quesiti, ha avuto altrettanto spazio per sostenere che i referendum (e la riforma Cartabia) siano vessatori nei confronti della categoria. Nella nicchia del mondo giudiziario il dibattito è stato acceso e divisivo ma non è arrivato, come ovvio, all’orecchio dell’elettorato generalista. Il che non significa che il Paese non sia sensibile al tema della giustizia, ma che il referendum è uno strumento efficace quando riesce ad essere polarizzante. Referendum: usano la ministra Cartabia per dire no alla giustizia giusta di Iuri Maria Prado Libero, 12 giugno 2022 Non c’è nulla di male se un noto quotidiano, a un giorno dal voto, prende posizione a favore di uno schieramento politico o in avversione a quello opposto. Tutti ricorderanno quel che fece anni addietro il Corriere della Sera, augurandosi che vincesse il raggruppamento catto-comunista di Prodi, contro l’alleanza guidata da Berlusconi. Ci stava, anche perché quell’indicazione di voto si limitava a mettere in editoriale una militanza ben più continua. Ma fare quel che ha fatto ieri la Repubblica, a proposito dei referendum per cui si vota oggi, non appartiene a quel rango di discutibile ma legittima tifoseria. Nella versione cartacea la Repubblica si è contenuta, e non ha messo la foto che invece guarniva l’identico articolo online, cioè la foto della ministra Cartabia accanto a questo titolo: “Referendum giustizia, perché diciamo No”. Una specie di fumetto, come se quell’indicazione di voto contrario provenisse dalla guardasigilli. Ma non va meglio nella versione inchiostrata: anche lì si pesca nel torbido, a cominciare dall’assunto da osteria, ovvero da Raitre, secondo cui i cittadini non dovrebbero disturbarsi a votare perché “Conviene lasciar lavorare il Parlamento”, e per finire con l’eccellente teoria secondo cui bisogna andare al mare perché altrimenti rischiamo di mettere i pm “agli ordini di un ministro della giustizia leghista o di Fratelli d’Italia”. A questo punto la Repubblica poteva volantinare gli strilli di Marco Travaglio, per il quale i referendum “non fregano niente se non ai criminali”: risparmiava spazio, al posto dell’articolo metteva un bel comunicato dell’Associazione nazionale magistrati e finiva meglio il compitino. Violante (Pd): “La Severino va abrogata. I candidati li decidono i partiti, non i pm” di Francesco Boezi Il Giornale, 12 giugno 2022 L’ex presidente della Camera Luciano Violante a tutto campo sula Giustizia. Il centrosinistra, a differenza sua, non voterà Sì sull’abrogazione della Severino. “Pazienza (ride, ndr.). Però è stata giustamente riconosciuta la libertà di coscienza”. Conferma che voterà per l’abrogazione... “Sì, perché quelle sono responsabilità dei partiti politici e dei cittadini. Non spettano alla magistratura. D’altra parte il Codice penale prevede la possibilità di infliggere la pena accessoria della sospensione o della interdizione dalle pubbliche funzioni. Non servono automatismi come quelli previsti da quella legge. Poi c’è una questione di democrazia: sulla opportunità di alcune candidature o di alcune presenze nelle istituzioni politiche, devono decidere i partiti. E devono decidere i cittadini non votando candidati o partiti inaffidabili. Se poi i cittadini li votano comunque ne subiranno le conseguenze. In democrazia anche i cittadini hanno le loro responsabilità”. Lei ha parlato di questione morale interna alla magistratura? “Certo, c’è una questione morale grave che potrebbe essere sintetizzata così: un eccesso di potere. In relazione al versante esterno, questo eccesso di potere è stato declinato con un rapporto improprio con i mezzi di comunicazione, che sono corresponsabili della situazione in cui ci troviamo. Sul versante interno, invece, con abusi di potere: in molti casi, le promozioni professionali sono state decise sulla base dei rapporti di appartenenza e non in virtù della qualità delle persone. E poi c’è la tendenza a configurarsi come padri guardiani della Repubblica”. Lei dice che serve un cambio d’assetto generale... “Sì, anche perché i problemi non li ha soltanto la magistratura ma anche la politica e l’informazione. Bisogna guardare la realtà e dire la verità. È stato per caso considerato quanto costerà la campagna elettorale nei collegi, vista la riduzione del numero dei parlamentari? Si ha presente quanto oggi sono estesi rispetto a ieri? Il fatto che abbiano resi più grandi i collegi influisce sui costi. L’idea che i partiti non debbano avere finanziamenti pubblici, anche se sobri e controllati, apre le porte all’inquinamento della politica”. La resilienza della mafia e il rischio della rassegnazione di Gian Carlo Caselli La Stampa, 12 giugno 2022 Questo sentimento può portare a un’insensibilità ai richiami della memoria e dell’etica. Le ultime indagini hanno evidenziato una rete di illegalità a Palermo, proprio nel 30° anniversario della strage di Capaci. Nonostante gli straordinari risultati delle forze dell’ordine e della magistratura (testimoniati pressoché ogni giorno da cronache di inchieste e processi importanti in varie parti d’Italia) la mafia è ancora dura a morire. Questo perché analizzando il fenomeno - e la sua “resilienza” - non di sola mafia si deve parlare, ma di “polipartito della mafia”. Una formula coniata da Carlo Alberto dalla Chiesa (in un colloquio con Giovanni Spadolini in occasione del suo insediamento a Palermo come prefetto) per indicare la complessità e gravità di un sistema trasversale che interessa la politica, l’economia, la cultura e la società, diventando un potere occulto estremamente ramificato. Questo rapporto di compenetrazione illecita fra Cosa nostra e pezzi consistenti del mondo legale è la vera spina dorsale del potere mafioso e si traduce in coperture, complicità e collusioni che ne spiegano - appunto - la “resilienza”. A questa storica verità strutturale dobbiamo purtroppo aggiungere il preoccupante risultato di una recente inchiesta coordinata da Ilvo Diamanti per “Demos-Libera”: l’accentuazione del sentimento di rassegnazione (destinato a farsi assuefazione) rispetto a eventi e soggetti della criminalità mafiosa. Un brodo di coltura ideale per quanto di peggio - in ultima analisi - si possa augurare alla qualità della democrazia, vale a dire che la rassegnazione/assuefazione finisca per tracimare in una amnesia dolosa o in un’anestesia totale, virus perversi che causano insensibilità ai richiami della memoria e dell’etica. Questo quadro decisamente cupo non è privo di ricadute sul piano concreto. Lo si vede ad esempio in Sicilia, da sempre laboratorio di esperienze esportabili oltre i confini dell’isola. Personaggi come Salvatore Cuffaro e Marcello Dell’Utri si sentono “autorizzati” a rientrare in politica come se niente fosse, riprendendo la loro attività da dove l’avevano lasciata prima delle condanne (rispettivamente per favoreggiamento di persone legate a Cosa nostra e per concorso esterno nell’organizzazione): condanne che - si direbbe - ora fanno curriculum... Comunque un segnale che molti possono leggere come una sorta di “liberi tutti” all’insegna della “nostalgia del faraone”, cioè della mafia del bel tempo che fu. In tale contesto vanno obiettivamente inseriti gli arresti per il grave delitto di voto di scambio politico-mafioso che la magistratura palermitana ha disposto proprio in queste ore, avendo captato conversazioni di portata probatoria quanto mai rilevante (allo stato degli atti, s’intende). Conversazioni in cui, tra l’altro, si discetta di “junco” che cala fin quando non è passata la piena. Un concetto “sempre verde” nella mentalità mafiosa: tant’è che dopo la cattura di una sequela infinita di boss mafiosi, in forza della robusta reazione dello stato alle stragi, i superstiti si interrogavano su come “rimettere in piedi il giocattolo” (cfr. “Lo stato illegale” di Caselli-Lo Forte, p. 148, ed. Laterza). Ed i soggetti coinvolti nell’attuale inchiesta palermitana hanno tutta l’aria di essere i loro epigoni. Senza alcuna vergogna, pur nel 30° anniversario della strage di Capaci. Ovviamente, parafrasando Paolo Borsellino si può dire che “al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della complicità” si contrappongono coloro che preferiscono “sentire la bellezza del fresco profumo di libertà”. Per fortuna sono ancora tanti: dai giovani di Libera, ai ragazzi di “addio Pizzo”, al collettivo “Offline” e a tutti quelli che Papa Francesco definisce interpreti della “resistenza mite ed eroica dei santi e dei giusti, servitori della Chiesa e dello Stato”. Il punto è che l’impegno solidale degli onesti deve riuscire ad impedire che prevalga chi - travolgendo la Costituzione - pratica il favore anziché il diritto, l’appoggio politico o criminale anziché il rispetto della propria dignità. Napoli. Muore un 47enne straniero nel carcere di Poggioreale cronachedellacampania.it, 12 giugno 2022 Lo rende noto il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. È deceduto la scorsa notte per un infarto il 47enne Sinka Sada, detenuto a Napoli nel carcere di Poggioreale. Il 47enne, riferisce Ciambriello, intorno all’una di notte avrebbe avvertito un dolore al torace e all’addome, forte sudorazione e senso di nausea. È stato richiesto l’intervento del 118 che lo ha trasportato d’urgenza in ospedale, dove è deceduto intorno alle 5. “Era un senza fissa dimora non aveva parenti e non faceva colloqui da tempo con nessuno. Nell’ultimo incontro avuto con il suo legale era sereno e tranquillo e non le avrebbe lamentato alcun problema di salute. Nelle ultime settimane altri due detenuti del carcere di Poggioreale, uno di loro 72enne, hanno rischiato di morire per arresto cardiocircolatorio. Il più anziano versa ancora in condizioni precarie di salute ed è ricoverato in ospedale. Sempre a Poggioreale, nel mese di maggio, è deceduto per infarto un sovrintendente della polizia penitenziaria. In molte circostanze, a poco serve il pronto intervento dei medici e degli agenti”. Ciambriello invoca “un’inversione di tendenza: due detenuti su tre hanno seri problemi di salute (48% malattie infettive, 32% disturbi psichiatrici, 20% malattie cardiovascolari), quindi per loro e per gli anziani devono essere applicate misure alternative alla detenzione in carcere; bisogna potenziare l’area penale esterna, concedere maggiormente i permessi premio. È chiaro che affinché tutto questo si realizzi è necessario incrementare il personale del Tribunale di Sorveglianza e gli stessi magistrati di sorveglianza, in carenza organica e gravati di moltissime richieste”. “Il carcere non può essere l’unica risposta. Il carcere è l’extrema ratio. Per coloro che sono dietro le sbarre, però, deve essere pensato un sistema di assistenza sanitaria adeguato. Due cose reclamo negli istituti di pena di Poggioreale e Secondigliano: manca il medico h24 in ogni reparto, gli ambienti in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento, questo specialmente a Poggioreale, sono angusti. Non è possibile che ci siano, nelle carceri, così pochi medici generici e specialistici e manchino quasi completamente attrezzature di diagnostica, che consentirebbero ai detenuti di potersi sottoporre a visite più accurate, quindi avere prima una diagnosi, senza dover attendere tempi lunghissimi. Che questa ennesima morte, sensibilizzi le istituzioni. Mi auguro che l’Asl Napoli 1 quanto prima provveda ad assumere medici generici e specialistici, infermieri ed Oss, nonché acquistare attrezzature specialistiche da destinare all’interno delle carceri”. Torino. La nuova direttrice: “Un carcere più aperto all’esterno farà bene alla città” di Federica Cravero La Repubblica, 12 giugno 2022 Cosima Buccoliero dirige il carcere di Torino da gennaio: “Io penso che pochissimi si ricorderebbero di disegnare il carcere, se dovessero disegnare la mappa di una città. Ci metterebbero magari l’ospedale, il tribunale, la scuola, il parco giochi, l’asilo, ma difficilmente si ricorderebbero del carcere. Perché il carcere lo guardiamo da lontano e lo consideriamo come qualche cosa di altro rispetto a noi”. È uno dei passaggi del libro “Senza sbarre - Storia di un carcere aperto” che Cosima Buccoliero, da gennaio direttrice del carcere di Torino, ha scritto con Serena Uccello per Einaudi e che presenta domani alle 18 al Circolo dei lettori con il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, la garante di Torino Monica Gallo, Davide Mosso dell’Osservatorio carcere e la provveditora regionale Rita Russo. Nel libro Buccoliero parla di sé, di come si sia trovata a fare questo lavoro, dell’incubo ricorrente di entrare in carcere da detenuta e non da direttrice, ma soprattutto parla della sua idea di carcere, a partire da quella che ha contribuito a costruire a Bollate. Un carcere senza sbarre: è possibile anche a Torino? “La mia idea è molto chiara e tutti i miei sforzi anche a Torino sono indirizzati a una maggiore apertura verso l’esterno, a creare un ponte tra dentro e fuori. La pandemia ha provocato una battuta d’arresto in molti progetti, ma dobbiamo lavorare con maggiore energia per ripianare tutte le buone prassi che anche qui erano state realizzate”. Ci sono già delle idee concrete? “Stiamo riattivando le convenzioni con Torino e altri Comuni per i lavori socialmente utili, che sono anche una forma di riparazione sociale. Non si può pensare che persone che stanno all’ozio per periodi più o meno lunghi si ripuliscano da soli solo stando in carcere”. Al Lorusso e Cutugno sono ancora vive certe ferite, come l’inchiesta sulle presunte torture o sul reparto psichiatrico Sestante, fino alla “sezione filtro” che ha indignato la ministra Cartabia. Sta provando a voltare pagina? “Voltare pagina non ci va: dobbiamo capire dove ci sono state incomprensioni in passato, affrontarle e risolverle. Quando sono arrivata ho trovato un clima tranquillo e una grande voglia di riscatto”. Da dove si inizia per cambiare le cose? “A Torino i problemi sono soprattutto strutturali: mancano spazi, c’è un grande sovraffollamento e ci sono troppi “circuiti”, con detenuti che hanno esigenze diverse. Abbiamo il sostegno dell’amministrazione penitenziaria, tuttavia ad alti livelli si dovrebbe anche lavorare per capire che carcere vogliamo per il futuro. L’utenza è cambiata nel tempo: per esempio si dovrebbero prevedere nuove figure professionali per preparare i detenuti al momento della scarcerazione, per evitare che riprendano le vecchie strade”. A Bollate si è raggiunto un tasso di recidiva del 17 per cento contro una media nazionale del 70. Come sta Torino? “Il Lorusso e Cutugno è in linea con la media nazionale, ma non si può fare un paragone perché si tratta di due istituti diversi, a Torino c’è un maggiore turn over ed è una casa circondariale con tanti tipi di detenuti con percorsi differenti. Però l’obiettivo a cui tendere è lo stesso: abbassare la recidiva e aumentare la sicurezza sociale. Non si tratta di buonismo”. Lei ha sottolineato che pochi, dovendo disegnare la mappa di una città, segnerebbero il carcere. Perché? “Perché non lo si vuole vedere. Ed è stato un errore in passato portare le carceri in periferia, invece ci dovrebbe rassicurare vedere un carcere in centro e vedere le persone che poi torneranno tra noi. Per questo per esempio trovo molto utile il lavoro con le scuole, per parlare di carcere ai più giovani”. Al Lorusso e Cutugno sono aumentati i detenuti molto giovani, che sono il 10 per cento. È un caso solo torinese? Come si affronta? “Ho trovato questa situazione anomala arrivando qui, ma non so se nello stesso periodo sono aumentati anche altrove i giovani detenuti. Fa specie vedere così tanti ragazzi in cella, soprattutto stranieri e bisogna anzitutto capire cosa c’è dietro. La garante dei detenuti Gallo sta facendo un lavoro di ricerca su questi ragazzi e dall’esito potremo capire come agire”. Modena. Pestaggio in carcere, ora gli agenti indagati sono cinque di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 12 giugno 2022 Agenti che non sono accusati solo di lesioni ma in alcuni casi anche di tortura: i detenuti che li accusano, sette quelli presi in considerazione dalla Procura come parti offese, raccontano scene spettrali di violenza perpetrate subito dopo la sedazione della rivolta che aveva portato alla devastazione di buona parte del carcere di Sant’Anna e a un incendio. “Come loro difensore non posso che ribadire la massima fiducia nella giustizia e nella correttezza dei due operatori della polizia penitenziaria e soprattutto la loro estraneità da ogni accusa e addebito nei loro confronti”. Con queste parole l’avvocato Cosimo Zaccaria si esprime sul coinvolgimento nell’inchiesta sui presunti casi di pestaggi, abusi e gravi angherie di due dei cinque agenti della polizia penitenziaria di Modena indagati per i gravi fatti dell’8 e 9 marzo 2020. Tre uomini e due donne. Agenti che non sono accusati solo di lesioni ma in alcuni casi anche di tortura: i detenuti che li accusano, sette quelli presi in considerazione dalla Procura come parti offese, raccontano scene spettrali di violenza perpetrate subito dopo la sedazione della rivolta che aveva portato alla devastazione di buona parte del carcere di Sant’Anna e a un incendio. Violenze su detenuti che si dichiaravano apertamente estranei ai gruppi di facinorosi e rivoltosi che avevano messo a ferro e fuoco la struttura carceraria modenese restata poi parzialmente inagibile a lungo. Era noto da molti mesi che almeno tre agenti della penitenziaria fossero indagati per questo terzo filone di indagine (il primo, ormai in chiusura, salvo altre proroghe, riguarda l’individuazione dei responsabili delle devastazioni, il secondo, archiviato, i nove detenuti morti, ufficialmente tutti per metadone). Ora grazie all’atto di richiesta per la proroga delle indagini pubblicato per sommi capi ieri dal quotidiano Il Domani, si viene a sapere che sono cinque gli agenti sotto indagine. E che sono tutti ancora in servizio nelle carceri. E che uno di questi è persino un sindacalista del Sappe, la sigla più nota tra gli addetti carcerari. Una figura bene in vista che è intervenuta spesso per denunciare le condizioni vessatorie degli agenti in carcere, le tensioni a Sant’Anna ed è intervenuto per denunciare le violenze che alcuni detenuti hanno compiuto contro gli agenti anche sulla “Gazzetta”. È uno dei due funzionari della penitenziaria difesi dall’avvocato Zaccaria. Non è noto in merito a quali episodi specifici sia accusato. Si sa invece che i racconti delle parti offese riportano scene di violenze e brutalità confermate dai detenuti anche alle pm Francesca Graziano e Lucia De Santis dopo le denunce e gli esposti scritti della scorsa estate. Una decisione per loro ad alto rischio di ritorsione alla quale si sono esposti per far conoscere ciò che si sussurrava fin dai primi giorni ma che nessuno aveva fino allora mai osato dire: che subito dopo la rivolta, oltre ai detenuti in grave stato caricati su camionette e bus per altre carceri (ne moriranno quattro), c’era stata una “macelleria”, un pestaggio sistematico e indistinto contro un gruppo di detenuti. Accuse pesanti, certo, ma che ora hanno messo in modo la macchina giudiziaria degli accertamenti. Proprio perché vuole vederci chiaro, la Procura ha chiesto altri sei mesi di tempo. Venezia. Visita nelle carceri di Fp-Cgil: “Situazione al limite della decenza” veneziatoday.it, 12 giugno 2022 La visita della Fp Cgil nelle strutture ha “confermato problemi strutturali e perplessità sulla sicurezza delle strutture”. “Ben poco è stato fatto in termini di investimenti infrastrutturali per migliorare le condizioni di sicurezza”. A parlare e Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria, dopo la visita dei rappresentanti della Fp Cgil Veneto e Fp Cgil Nazionale al carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia e quello femminile della Giudecca. “Dopo quattro giorni nelle carceri venete abbiamo la certezza che sarà un’estate molto calda negli istituti del Veneto, temiamo fortemente per incolumità di lavoratrici e lavoratori - aggiunge Franca Vanto della segreteria Fp-Cgil Veneto: le condizioni di detenzione e le gravi situazioni di carenze di organico sia di personale di polizia penitenziaria che del personale civile (come educatori e assistenti sociali) aumentano i carichi di lavoro e rappresentano un pericoloso mix esplosivo”. “Nella visita di Santa Maria Maggiore è emersa poca attenzione ai diritti dei lavoratori: postazioni di lavoro indecorose per chi rappresenta lo Stato nelle carceri, sedie rotte e mancanza di impianti di condizionamento, una struttura sporca ai limiti della decenza. Urgono immediati interventi che tutelino concretamente il personale della polizia penitenziaria - evidenzia Mirko Manna della Fp-Cgil Nazionale. Ieri abbiamo incontrato il Provveditore e lo abbiamo sollecitato di farsi carico di interventi concreti, ad esclusione di Padova e Verona, la situazione nelle carceri venete è disastrosa. Auspichiamo, inoltre, che la Ministra Cartabia e il capo del Dap Renoldi, inviino ispezioni ministeriali dopo aver letto le nostre relazioni. Dignità e rispetto sono costituzionalmente garantite per tutti i lavoratori”. Milano. Così nella favela di Via Bolla è nata la battaglia tra gli abitanti di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 12 giugno 2022 Nelle tre palazzine alla periferia Nord Ovest di Milano gli inquilini abusivi sono l’80% dei 156 residenti. Bruciata l’auto di una famiglia romena. Corse di auto, impianti fognari ed elettrici logori, box arredati come appartamenti: il disastro del caseggiato Aler e le accuse tra Comune e Regione La scintilla è una vecchia Citroen Xara che corre nel cortile come in un circuito di Formula 1. Sgomma, accelera, rischia di investire altri abitanti. Ma la causa della rivolta che venerdì sera porta in strada una sessantina di persone con mazze, bastoni, bombe carta, ha radici ben più profonde. Che affondano in anni di convivenza forzata tra occupanti abusivi che hanno trasformato questi tre palazzi dell’”edificio B” di via Bolla, estrema periferia Nordovest di Milano, in una sorta di campo nomadi verticale. L’assedio degli abusivi in via Bolla - Gli abusivi sono l’80 per cento dei 156 abitanti, quasi tutti di origini rom. Romeni, bosniaci e serbi che mal si sopportano da mesi, e italiani - quelli rimasti sono meno di una decina - che un po’ resistono e un po’ contribuiscono a gettar benzina esasperati e arrabbiati. Perché la polveriera di via Bolla è un buco nero da anni. L’Aler, che dipende dalla Regione e gestisce queste palazzine, ha da tempo alzato bandiera bianca. La soluzione studiata, drastica e non ancora chiara nei tempi, è quella di salvare alcuni palazzi e praticamente abbatterne altri. Per questo i regolari sono stati via via “smistati” in alloggi temporanei, ma a ogni trasloco s’è succeduta una nuova occupazione. E oggi, mentre il Comune attacca “anni di gestione fallimentare di Aler” e della giunta del governatore Attilio Fontana, il centrodestra replica chiedendo “un presidio dell’esercito” (l’assessore regionale alla Casa, Alessandro Mattinzoli) o mettendo in luce le mancanze del Viminale: “Ci aspettiamo dal ministro Lamorgese un segnale forte per Milano” (il leghista Stefano Bolognini). Foggia. Gli immigrati scendono in piazza: “Basta aggressioni e violenze razziste” di Valeria D’Autilia La Stampa, 12 giugno 2022 All’emergenza per le condizioni di vita nei ghetti e a quello delle misere paghe, si aggiungono gli episodi sempre più numerosi di insulti e botte: “Non possiamo vivere così, abbiamo paura” “Ci inseguono mentre andiamo in campagna a lavorare. E poi ci prendono a sassate o a botte. Succede così da anni, ogni estate, l’ultimo episodio è della settimana scorsa”. Dada oggi è sceso in piazza, a Foggia, per denunciare. Ripetuti episodi di aggressione ai braccianti africani impegnati nella coltivazione e raccolta di ortaggi. Per colpire, approfittano delle strade isolate e del buio. “Ci prendono di mira verso le 4.30 del mattino, prima dell’alba, quando ci muoviamo dai ghetti o dai casolari abbandonati per raggiungere i campi”. Loro in bicicletta, i violenti in auto o motorino. “Su ogni mezzo sono almeno in due: uno guida, l’altro ci lancia pietre. E poi gli insulti: ‘Coglione, bastardo, vieni qua’. Non possiamo vivere così, abbiamo paura”. Stamattina la manifestazione di protesta promossa contro la violenza razzista. “Basta caccia al nero” dicono in coro. A promuovere il presidio, il Comitato Lavoratori delle Campagne. “Negli ultimi giorni sono stati colpiti con sassi, schiaffi e pugni. Ma è accaduto anche altro: a volte sono stati fatti cadere dalle loro biciclette per aggredirli, una volta finiti a terra”. Nello scorso fine settimana, i migranti colpiti sono stati una decina, tra il capoluogo dauno e il ghetto di Borgo Mezzanone. In tre sono rimasti feriti, ma non tutti si sono rivolti alle cure dell’ospedale. La paura è tanta. “Quando vediamo qualcuno in quelle strade- racconta una delle vittime- non sai mai se è lì per caso o perché ci sta seguendo. Ci colpiscono e sappiamo che domani può succedere di nuovo. Siamo soli, sotto attacco. Non è giusto”. Anche se si muovono in gruppo, sanno di essere indifesi. “Abbiamo paura di stare avanti- confidano- ma anche di rimanere indietro”. All’emergenza per le condizioni di vita nei ghetti e a quello delle misere paghe, si aggiungono gli episodi di violenza. “Lavoriamo per 4 euro l’ora, così non si può più continuare”. Chiedono il riconoscimento dei documenti, primo passo per avere case e contratti dignitosi. “Siamo stanchi delle promesse”. Oggi si sono radunati al piazzale della stazione e hanno raggiunto la prefettura. “Ci hanno assicurato maggiori controlli” racconta Dada che, nel 2019, subì un’aggressione. Zone vaste e isolate, spesso in balia di caporali. Per alcuni dei migranti aggrediti in questi anni sono stati necessari anche interventi chirurgici. Molti scelgono di non denunciare. “Se vanno in ospedale, poi, non possono lavorare. Tre anni fa un nostro amico è stato bersaglio di una sassaiola, è rimasto ricoverato per sei mesi. Stava malissimo”. Aggressioni ai migranti così come alle loro case di fortuna. “A volte è capitato di trovarli per strada e soccorrerli”. La loro speranza è che i soldi del Pnrr vengano utilizzati per rispondere ai bisogni abitativi, lontano dai ghetti. Intanto chiedono meno discriminazioni e burocrazia e un lavoro tutelato da contratti in regola. In molti affidano le loro speranze agli striscioni che colorano il corteo: “Basta guerra agli immigrati”. Qualcuno riesce persino a sorridere mentre mostra un cartello: “Più documenti, meno pomodori e broccoletti”. Padova. L’anno accademico del Bo varca la soglia del carcere: inaugurazione al Due Palazzi di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 12 giugno 2022 Sono 50 attualmente gli studenti detenuti. A breve ci sarà una nuova aula studio. Un diritto costituzionalmente garantito. E un dovere da cui l’università non si tira indietro: a tre settimane di distanza da quello “ufficiale” a Palazzo Bo, è stato inaugurato al Due Palazzi l’anno accademico per gli studenti in regime di detenzione in carcere. I quali sono in costante aumento, tanto da toccare un nuovo record: sono infatti 50 tondi tondi (che diventano 57 se si considerano anche quelli in esecuzione penale esterna) grazie ai 12 nuovi iscritti. “E pensare che nel 2003, quando è partito il progetto, erano 14”, afferma soddisfatto il direttore della casa di reclusione Claudio Mazzeo, che non si accontenta: “Stiamo lavorando per garantire un diritto allo studio ancor più di qualità, tanto che stiamo già pensando di ampliare la biblioteca e di ricavare un’aula studio. Questo è il carcere che noi vogliamo”. Un pensiero condiviso anche da Francesca Vianello, delegata della rettrice per il progetto “Università in carcere”: “Il merito di tale crescita? L’offerta formativa sempre più ampia. Sia chiaro che molto rimane ancora da fare, ma più di qualcosa è stato fatto e ne siamo orgogliosi: questa attività serve ai detenuti per aprire la mente e per trovare un modo per pensare ad altro”. La maggior parte degli studenti dietro alle sbarre sceglie le Scienze Umane, “ma c’è anche chi prende tutti 30 e lode in Ingegneria informatica - garantisce la professoressa Vianello, che ha tenuto all’interno Due Palazzi l’intero suo corso di Sociologia del diritto e della devianza - e chi sceglie facoltà quali Scienze e cultura della gastronomia capendone l’utilità una volta usciti dal carcere. Ci tengono davvero, a conseguire la laurea: alcuni di loro rinunciano anche all’ora d’aria pur di studiare, o sono costretti a farlo in bagno per avere un po’ di pace”. Tra loro c’è Leonard, detenuto di origini albanesi, che ha scelto Scienze Politiche (indirizzo relazioni internazionali e diritti umani): “Ho già dato nove esami il primo anno - esclama entusiasta - e voglio laurearmi il prima possibile: sono davvero appassionato di politica, economia e storia. Questo impegno mi aiuta a spezzare la routine giornaliera: credo che non ci sia nulla di più importante di studiare in carcere, perché aiuta ad avere una maggior consapevolezza della situazione e fa aprire orizzonti e porte che prima erano chiuse. E poi, se sei informato, non parli a vanvera”. Una considerazione, quest’ultima, che strappa applausi a scena aperta anche a Monica Fedeli, prorettrice con delega alla terza missione e rapporti con il territorio, che sottolinea l’importanza del lavoro dei 14 tutor, “i quali con passione e impegno sostengono i detenuti, che studiando diventano cittadini migliori e accrescono la propria cultura”. L’importanza del progetto è testimoniata anche da Maria Milano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto: “Dobbiamo assicurare loro il diritto di raggiungere i più alti livelli di istruzione, offrendo la possibilità di riempire di contenuto il tempo della pena. Lo ha detto anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La cultura è l’antidoto contro la violenza”. Roma. A Rebibbia partita a calcio tra le madri detenute e i loro figli di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2022 “Mai più bambini in carcere, ora Parlamento approvi la legge”. Giada non è riuscita a dormire. Troppa l’euforia, troppa l’impazienza di riabbracciare Gabriel, il suo bambino di dieci anni, che non vedeva da quattro mesi. “Tra gli impegni con la scuola e le restrizioni è stato complesso, ma quando ha saputo che avremmo giocato assieme a calcio era emozionato. Questa notte non avrà preso sonno nemmeno lui. Non vedo l’ora che arrivi”, racconta entusiasta. Il suo sguardo è già rivolto verso il cancello dell’’area verde’ della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia, lì dove si accede al campo in erba sintetica da calcio a 5 del penitenziario. È in questo campetto, in cemento fino allo scorso dicembre (poi ammodernato e da poco inaugurato grazie ai contributi della regione Lazio e la collaborazione dell’associazione Antigone), che ogni sabato pomeriggio dal 2018 gioca l’Atletico Diritti, la prima squadra in Italia formata da sole detenute. “Ci rende orgogliose poter mostrare che il carcere va oltre la reclusione. Questa è una battaglia per i diritti e pure contro gli stereotipi di genere. Ci restituisce piccoli, ma in realtà grandi spazi di quotidianità”, raccontano Giada e le altre detenute di Rebibbia. Le partite si giocano sempre in casa, perché ottenere permessi per uscire per molte ragazze non è semplice. Poco importa, però, almeno questa volta. Perché da quel cancello questa volta non entreranno le giocatrici della squadra ospite, ma i propri figli. Merito dell’iniziativa ‘La partita con Mamma’, organizzata dalla onlus Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il ministero della Giustizia, all’interno della campagna ‘Carceri aperte’. Un progetto che permetterà per tutto il mese di giugno l’incontro tra genitori detenuti e figli, dopo due anni di sospensione a causa della pandemia da Covid-19. “L’iniziativa era in realtà nata come ‘La partita con Papà’, ma noi abbiamo aderito con le mamme”, rivendica Alessia Giuliani, educatrice del carcere e funzionaria giuridico-pedagogica. Accanto a lei ci sono Carolina e Giorgia, che da anni allenano come volontarie la squadra delle detenute di Rebibbia: “Una risposta alla società e un riscatto per tante ragazze. Le donne possono fare tutto, alle donne piace giocare a calcio, anche con i propri figli. Sembrerebbe scontato, ma oggi serve ancora ribadirlo”, spiegano. Anche per questo, rivendicano, quella delle donne detenute di Rebibbia è anche una lotta contro le discriminazioni di genere. Ma è anche un ‘calcio’ all’incubo quotidiano del carcere, contro le sofferenze, i pregiudizi. Un modo per recuperare quel tempo perso, da vivere con i propri figli, almeno per un giorno. “Di solito li possiamo vedere per i colloqui, ma non più di un’ora alla settimana. E quei minuti sembrano volare: non c’è nemmeno il tempo di chiedere come va, come è andata a scuola, che sono già via. Così è dura”, non trattiene l’emozione Šejla, che di figli ne ha ben quattordici. “Sei sono minori, il più piccolo ha quattro anni, il più grande 26. Mi trovo a Rebibbia da un anno, ma dovrei scontarne ancora 4. Il motivo? Furti, ero ‘costretta’ per vivere, c’è stato un cumulo. Ora spero di poter ottenere una misura alternativa, i domiciliari, per tornare da loro e poterli crescere”, racconta, mentre aspetta tre dei suoi bambini, arrivati per giocare con lei. Non è l’unica a sperare di abbandonare presto quelle mura, quelle sbarre. “Quando uscirò andrò via dal Lazio, voglio ricominciare un’altra vita. Qui lavoro e mi occupo delle pulizie. Ma temo che fuori non troverò un’occupazione, il pregiudizio pesa”, spiega Valentina. Ha tre figli, anche lei non li vede da tempo: “Farli stare qui dentro è inumano, per questo non voglio che vengano più di una volta al mese per i colloqui. Quando il più piccolo aveva meno di tre anni avevo la possibilità di farlo stare qui, ma sarebbe stato come fargli pagare i miei errori, non esiste”. Per questo lancia un appello al Parlamento, affinché si metta fine all’incubo dei bambini in carcere: “La sezione nido dei bambini dentro questo carcere andrebbe abolita, li sento piangere e urlare. Vero che al posto delle sbarre ci sono cancelletti e le porte sono più piccole, ma sempre un carcere è. Qui dentro le madri con figli così piccoli non dovrebbero mai entrarci”, rivendica Valentina. È l’obiettivo anche del deputato Pd Paolo Siani, primo firmatario del disegno di legge da poco approvato a Montecitorio, con relatore Walter Verini, che punta a fare in modo che i bambini piccoli non si trovino a vivere in carcere al seguito di madri recluse. Con 241 voti favorevoli e 7 contrari la proposta ha ottenuto il via libera della Camera, ma non c’è ancora una data per il passaggio in Aula a Palazzo Madama. E con la legislatura ormai entrata nei suoi ultimi mesi, in un clima da perenne campagna elettorale, il timore che non diventi legge è reale. “Il carcere deve essere l’extrema ratio, se ci sono misure alternative è giusto concederle, soprattutto per le madri recluse con figli piccoli”, rivendicano però detenute e volontarie. E l’obiettivo del disegno di legge è proprio quello di promuovere il modello delle case famiglia, evitando che le madri con figli conviventi di età inferiore ai 6 anni finiscano in carcere. Al tempo stesso, in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, è previsto anche il ricorso agli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Stesse misure sono previste anche per i padri, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza. Come anticipato dall’associazione Antigone, la legge offrirà strumenti che dovrà poi essere il giudice a utilizzare “per ottenere il risultato di veder diminuire il più possibile la presenza dei bambini in cella”. Certo, sarebbe comunque una svolta, richiesta da anni: “Sarebbe auspicabile che il ddl diventi legge e non venga vanificato il lavoro fatto. Non si può far crescere un bambino in strutture come queste. La casa circondariale femminile di Rebibbia, seppur con i soliti problemi di sovraffollamento (tasso pari al 123,5%, con 320 donne presenti, ndr) permette attività e uscite per i bambini. Ma non sarà mai una dimensione che non rimanda a qualcosa di penitenziario”, spiega Alessia Giuliani. Secondo l’ultimo rapporto della stessa associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, in totale al 31 marzo 2022 erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario: 8 ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro, unico Icam autonomo, quattro proprio all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, due bambini ognuno negli gli Icam interni alla Casa Circondariale di Milano San Vittore e di Torino e nella Casa Circondariale di Benevento, uno infine all’interno dell’Icam della Casa di Reclusione Femminile di Venezia. Numeri ridotti, rispetto a quelli registrati negli scorsi anni, anche ‘grazie’ alla pandemia, ma ancora presenti nelle carceri italiane, dove sono recluse in totale 2276 donne, pari al 4,2% della popolazione detenuta totale. “Il Parlamento deve far presto. Speriamo che entro l’anno ci sia un cambiamento e ci permettano di stare con i nostri figli”, rivendica Valentina, mentre abbraccia una delle sue figlie. Soltanto una dei 100mila bambini che, in Italia (2,2 milioni in Europa) secondo i numeri di Bambinisenzasbarre, hanno il papà o la mamma in carcere e rischiano di finire emarginati, “vivendo in silenzio il loro segreto del genitore recluso per non essere stigmatizzati ed esclusi”. A Rebibbia però c’è chi, in attesa di novità di legge, potrà già riabbracciare sua madre, come Gabriel. Giada uscirà tra sei settimane, quando avrà terminato di scontare la sua pena: “Qui dentro ho seguito un corso da sommelier, mi è stato già offerto un posto di lavoro da una nota catena alberghiera, non mi farò sfuggire questa occasione. E finalmente potrò tornare da lui”, sorride, rivolta verso il suo bambino. Altre donne dovranno attendere ancora, alcune diversi anni: “Sto pagando per i miei errori, a mia figlia ho raccontato tutta la verità, affinché non varchi mai questo cancello, a meno che voglia entrare come volontaria”. Seppur tra le difficoltà, c’è chi non dimentica di aver ricevuto occasioni di riscatto: “Non è vero che il carcere è solo un posto negativo, la rieducazione è possibile, si imparano tante cose. Qui lavoriamo e con l’Atletico Diritti abbiamo trovato una famiglia”, c’è chi spiega, seppur con la mente rivolta al domani. Per ricominciare da capo, con i figli accanto. Latina. “Una fantastica evasione”: successo per lo spettacolo teatrale con i detenuti latinatoday.it, 12 giugno 2022 La rappresentazione ha chiuso il laboratorio teatrale con i detenuti della casa circondariale di via Aspromonte curato dal Teatro Bertolt Brecht di Formia grazie al sostegno dell’Asl di Latina. “Una fantastica evasione”: questo il titolo dello spettacolo andato in scena lo scorso 10 giugno presso la sala teatro del carcere di Latina che ha visto protagonista un gruppo di detenuti della casa circondariale di via Aspromonte. Pubblico in piedi, applausi scroscianti e grande emozione alla chiusura del sipario per lo spettacolo finale del laboratorio teatrale curato dal Teatro Bertolt Brecht di Formia grazie al sostegno dell’Asl di Latina. Protagonisti un gruppo di detenuti che ha saputo in questi mesi mettersi in gioco guidati da Maurizio Stammati e Peter Ercolano. La rappresentazione tra teatro e mimo ha divertito, sorpreso e commosso tutti i presenti a partire dagli attori: “Ci siamo divertiti tantissimo, speriamo di poter continuare”, l’appello finale di uno dei detenuti. Il gioco del teatro ancora una volta dimostra così la sua potenza e le sue possibilità. “Il Teatro Bertolt Brecht in tanti anni di attività ne ha viste e sperimentate ma questa è stata un’esperienza unica e particolare. Oggi è stata una vera emozione, ringrazio la direttrice del carcere Nadia Fontana, l’Asl e tutto il personale della casa circondariale. Risultati così si possono realizzare solo se tutti soffiano dalla stessa parte”, ha dichiarato Maurizio Stammati. La favola bella della meritocrazia che giustifica le disuguaglianze di Nadia Urbinati* Il Domani, 12 giugno 2022 Senza uguali condizioni di partenza il merito è un inganno. È l’uguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia, non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto e di un impegno individuale calibrato e contestualmente competente. I cittadini delle democrazie si fanno nella Costituzione e tacitamente una promessa: dare vita a una società giusta, che consenta a tutti/e di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base, come l’istruzione, la salute, il diritto di voto e in generale la più completa partecipazione alle varie forme di vita sociale, culturale, economica, civile e politica. La democrazia del Dopoguerra si è impegnata nella diffusione del benessere (culturale, sociale e materiale). È però progressivamente regredita. Dopo aver emancipato le classi lavoratrici, ha col tempo chiuso le porte di accesso, come a voler conservare agli emancipati una condizione difficilmente conquistata. Il fatto è che il processo di emancipazione deve restare aperto come anche la lotta alla disuguaglianza. Disuguaglianza e giustificazione - La disuguaglianza c’è sempre stata e la sua storia coincide con quella della sua giustificazione. In Capitale e ideologia Thomas Piketty dice che “ogni società umana deve giustificare le proprie disuguaglianze. Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie, finalizzate a legittimare la disuguaglianza”. L’ideologia è la “favola bella” che usava Socrate nella Repubblica di Platone per giustificare la disuguaglianza per merito: il mito dei metalli (oro, argento e bronzo) serviva a convincere che se le differenze naturali fossero state rispettate, quelle sociali che ne derivavano sarebbero state giuste. Sapendo di avere disposizioni al lavoro manuale, non mi lamenterò se a questo la società mi destina. Preservare questa condizione di merito meritato è arduo perché non si tratta solo di far fare alle persone quel che è nell’interesse della società, ma di far loro credere che la loro posizione nella scala sociale sia giusta, e non l’esito dell’arbitrio di chi vuole avere di più o conservare i privilegi che ha. Il problema della disuguaglianza è quello della sua giustificazione: deve esserci un equilibrio tollerabile tra le favole belle e la realtà esperita dalla larga maggioranza; diversamente la porta della ribellione è aperta. Dal Settecento almeno, i filosofi, a cominciare da David Hume, Bernard de Mandeville e Adam Smith, iniziarono a studiare le emozioni come energie funzionali alle scelte strategiche degli individui; l’invidia occupò un posto d’onore nei loro scritti, come l’emozione che, attivando la comparazione con chi sta meglio, si rivela utile ai fini del perfezionamento e del benessere sociale. L’uguaglianza funziona come motore della disuguaglianza, perché e solo perché fa leva su passioni ed emozioni che tutti hanno e che sono utili ai fini di pianificare le azioni. Come osserva Amartya Sen, anche chi teorizza la disuguaglianza deve presumere una qualche uguaglianza. Uguaglianza e disuguaglianza non sono assolute dunque, perché le persone sono, singolarmente prese, specifiche e uniche; la loro uguaglianza si riferisce a caratteristiche che appartengono alla specie umana e che ciascuno sviluppa in maniera sua propria. La consapevolezza di questa diversità è implicita nella dichiarazione del diritto di voto distribuito in maniera identica tra tutti, per evitare che le differenze non si traducano in dominio di alcuni su altri. Parliamo quindi di uguaglianza morale e per legge. In relazione a essa, con quali argomenti nella nostra società viene giustificata la disuguaglianza? Merito o privilegio? Oggi, la meritocrazia è l’ideologia della disuguaglianza. Nasce dall’individualismo economico, che si appella agli eguali diritti naturali di proprietà e di libertà, che stanno prima della società politica e dettano limiti al governo. Ma, uguali nei diritti di scegliere e possedere, finiamo fatalmente per essere disuguali nei risultati. La regola della competizione libera giustifica le disuguaglianze negli esiti, e tutti sono disposti ad accettare il fatto che quel che si ha è il frutto di una lotta combattuta e persa. Chiedere l’intervento del pubblico è giustificato solo per soccorrere i perdenti. Solo così si onora il principio della responsabilità individuale, per cui chi perde, perde a causa delle scelte che ha fatto e non merita nulla dal pubblico (cioè dalle tasse di chi ha prodotto, risparmiato e investito con oculatezza), mentre può meritare la benevolenza, meglio se volontaria (filantropia). Questa è la giustificazione della disuguaglianza in una società fondata sull’uguaglianza morale e giuridica. Assistiamo oggi a una rinascita in grande stile di questa narrativa e di una politica che non corregge le condizioni che tendenzialmente determinano la disuguaglianza. Si dovrebbe obiettare al partito dei “meritocratisti” che quando rispolverano il discorso della disuguaglianza per merito devono per coerenza riconoscere che il rispetto della persona e delle sue potenzialità ha bisogno delle uguali condizioni di partenza, senza le quali il merito è un trucco e la compassione un atto ipocrita per risarcire gli altri di un privilegio che è arduo dimostrare di meritare. Alla metà degli anni Sessanta, il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson (che noi ricordiamo, ahimè!, solo per l’escalation della guerra in Vietnam) raccontò questa storia per giustificare i suoi programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali con dei lacci alle caviglie che le impediscono di usare interamente le proprie forze, cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare il merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso infatti il vincitore non ha merito, semmai gode di un privilegio. Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli che limitano uno dei due competitori, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si finge che ci sia giusta competizione (si accetta il privilegio); o si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto ai bisognosi); o si offrono opportunità a tutti i gareggianti prima che la gara cominci (politiche di giustizia sociale). Tre soluzioni molto diverse che la favola bella della “meritocrazia” nasconde. Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le disuguaglianze di opportunità di accesso e poi non si monitora la formazione, strada facendo, di nuove disuguaglianze. Se si cancellano le tasse di successione o si allentano i sistemi di tassazione progressiva sui redditi, parlare di merito assomiglia a un bluff. Correttivi - La difficoltà di tenere insieme contesto sociale e familiare (capitale sociale e culturale) con le specificità dei talenti di ciascuno ha spinto i teorici della giustizia sociale a non affidarsi al merito. “Le qualità accidentali della nascita, della ricchezza e della conoscenza”, scriveva John Dewey nel 1916, “tendono sempre a restringere le opportunità di alcuni in comparazione a quelle degli altri”. In Una teoria della giustizia (1971) John Rawls fissava i principi di giustizia distributiva che dovevano servire a correggere l’”ineguale eredità della ricchezza” e a togliere potere “alle circostanze, alle istituzioni, e alle tradizioni storiche”. Il presente di ogni individuo potrà contare come evidenza dei suoi meriti solo se e fino a quando gli accidenti della nascita e della condizione sociale non peseranno sulla formazione delle capacità, sull’espressione dei talenti e infine sulla possibilità di carriera. La teoria della giustizia deve quindi mirare a correggere o contenere o neutralizzare il ruolo dell’accidentalità di nascita (prima natura) e della condizione sociale (seconda natura) nella distribuzione dei meriti e degli oneri. Quanti ragazzi non si chiedono ogni giorno perché l’essere nati in una classe sociale deve essere determinante nel decidere il loro posto nella società? Quanti di loro non si chiedono perché l’essere nati in una parte dell’Italia invece che in un’altra si traduce in esiti di vita e opportunità così diversi? E hanno ragione. Il discorso sul merito è un inganno se ignora queste domande. Onestà vuole che ci si soffermi con serietà sulla dimensione sociale del merito. Il giudizio sul merito di una persona è relativo non solo ai suoi talenti, ma anche a determinati requisiti che definiscono il riconoscimento di una prestazione funzionale e utile alla società. Nel merito entrano in gioco non soltanto le qualità della persona, per questo i teorici della giustizia diffidano di tale criterio. Non perché pensano che un bravo medico non debba essere assunto in un ospedale (truccare i concorsi è illegale), ma perché mettono in guardia dallo scambiare l’effetto con la causa. *Politologa. Il testo è un estratto della lectio magistralis tenuta dall’autrice il 31 maggio scorso nell’Ateneo di Messina. Il rumore del Pride contro il silenzioso deserto dei diritti di Gilda Maussier Il Manifesto, 12 giugno 2022 A Roma torna a sfilare la comunità Lgbt+ e non solo. La pace declinata con il rispetto della diversità. “E ora subito una legge”. Contro il silente deserto dei diritti che solo qualcuno può chiamare pace, torna il rumore del Pride. Orgoglio del proprio orientamento sessuale, orgoglio della propria identità di genere, orgoglio del proprio corpo in transizione da esibire ancora con i cerotti della post chirurgia, orgoglio di vivere in un Paese - e soprattutto in un’Europa - dove ancora c’è o dovrebbe esserci spazio per reclamare i propri e gli altrui diritti. Orgoglio di portare i colori dell’arcobaleno, che mai come quest’anno diventano duplice simbolo di pace e di diritti civili. Inscindibili. Non c’è l’una senza gli altri. Dopo due anni di silenzio, torna a sfilare a Roma (ma anche a Genova, Bergamo e Dolo contemporaneamente, e da qui fino al 24 settembre l’Onda Pride 2022 investirà anche molte altre città italiane) il popolo Lgbtqia+. E non è solo. “Siamo tornati, siamo tanti, a fare rumore”, urla la cantante Elodie, madrina di questa edizione, dal suo sound truck, uno dei quindici che hanno sfilato insieme a centinaia di migliaia di persone per le strade della capitale. È una festa e una manifestazione, c’è leggerezza e profondità, ma non c’è rabbia. Pura consapevolezza. Che a qualcuno non va giù, come quel tale che a bordo di un grosso suv percorre le vie che lambiscono la manifestazione sparando a tutto volume “Faccetta nera”. Ma era lui la pecora nera; la gioia e l’orgoglio l’hanno seppellito vivo. Dietro lo striscione di apertura “Torniamo a fare Rumore” sfilano insieme a Vladimir Luxuria e per tutto il tragitto, da piazza della Repubblica fino a Piazza della Madonna di Loreto, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (a coprire un vuoto che durava da cinque anni), il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini e molti minisindaci, amministratori comunali e regionali, parlamentari. Ci sono rappresentanti del Pd e di +Europa, dei Radicali e perfino un cartello che rivendica il “Comunismo queer”. Il serpentone rainbow si apre al grido: “Sempre orgogliosi e orgogliose, sempre antifascisti e antifasciste”. Ma è in quei corpi - giovani e vecchi, di bambini e di malati, nelle carrozzine o sulle sedie a rotelle - che sembra abbiano atteso tutta la vita per esibirsi, per esibire i propri desideri, le proprie pulsioni e la propria identità, che si concretizza quell’essere antifascista. “essere qui è doveroso. Roma deve essere in prima fila per i diritti e contro ogni discriminazione”, dice ai cronisti Gualtieri, che a proposito di pace aggiunge: “Dobbiamo oggi stare vicini a tutte le persone che sono vittime non solo di questa guerra di aggressione della Russia di Putin ma anche delle politiche di discriminazione contro i diritti e la comunità Lgbt in Russia. Oggi dobbiamo essere vicini anche a loro”. E Zingaretti: “Il Pride è soprattutto un’esplosione di vita, di voglia di rapporto con gli altri. Non può che far bene a tutte e a tutti, anche a chi non è venuto. Il diritto alla differenza e all’essere se stessi è un sentimento positivo”. L’”affollata presenza di politici nazionali e locali al Roma Pride” è ben vista dal portavoce del Partito Gay-Lgbt+, Solidale, Ambientalista e Liberale, Fabrizio Marrazzo, che però chiede “azioni concrete e non solo passerelle”. Per questo, aggiunge, “dopo il fallimento della legge al Senato contro l’omotransfobia abbiamo chiesto ad oltre 100.000 consiglieri Regionali e Comunali, appartenenti a circa 8 mila enti, di fare un gesto concreto per la comunità Lgbt+. Come azione concreta chiediamo di approvare la nostra proposta di delibera che può sanzionare con una multa di 500 euro studenti, docenti, lavoratori e chiunque fa propaganda di odio o discrimina le persone Lgbt+, donne e persone con disabilità, come oggi già avviene per chi lo fa contro neri ed ebrei ad esempio, anche in assenza di una legge nazionale, grazie a delibere regionali e comunali valide nei territori di competenza”. Un modo per superare “l’immobilismo del Parlamento”. Inoltre, dice, “il ricavato delle sanzioni andrà a costituire un fondo a disposizione degli Enti per pervenire l’odio contro le persone Lgbt+”. Mentre la Casa Internazionale delle Donne chiede l’approvazione immediata del ddl Zan, per il segretario generale di Arcigay Gabriele Piazzoni, “i quasi cinquanta Pride italiani di quest’anno, un record in Europa, sono il contrappeso del nulla di fatto della politica. Esiste in Italia un’emergenza diritti che riguarda le persone lgbtqi+ e tutti i gruppi sociali discriminati. È un’emergenza, che provoca solitudine, fragilità, violenza, abbandono, ostacoli”. Era il lontano 1994 quando il Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, con l’Arcigay, diede vita al primo Gay Pride a Roma. Eppure quello che ha sfilato finalmente di nuovo nelle strade romane ieri sembrava animato da uno spirito rinnovato. Amore e politica. Peace and love. Stop the war. “Pride to be in Europe”, “Fuori dal medioevo”. C’è per la prima volta il colorato e chiassoso carro della comunità Lgbt+ ebrea #proud&jews, c’è lo spezzone Cristiani Lgbt, ci sono gli “Anziani” gay e lesbiche, ci sono i trenini con i bambini delle famiglie arcobaleno, c’è l’Agedo (famiglie e amici di persone lgbt+), ci sono le rappresentanze delle federazioni di rugby e di volley. C’è - anche questa una primizia - il carro di rappresentanza del Regno unito firmato Great Love is for everyone con l’Ambasciatore britannico in Italia, Ed Llewellyn, da poco arrivato in Italia e già impegnato nella difesa dei diritti delle minoranze. Music made in Britain, of course. E c’è il sound truck della Cgil: “Solo la pace”, porta scritto. Perché? “Perché senza diritti la pace è un deserto”. Droghe leggere, perché serve tentare nuove strade contro il proibizionismo di Luigi Manconi La Repubblica, 12 giugno 2022 Droghe leggere, perché serve tentare nuove strade contro il proibizionismo. A guardare le cose italiane, si viene colti da un sentimento di frustrazione e impotenza. Nulla sembra mai cambiare e nessuna vera novità si annuncia all’orizzonte. Il 24 giugno è previsto l’inizio della discussione nell’aula della Camera dei Deputati del disegno di legge sulla legalizzazione della coltivazione domestica di cannabis. Ma i lavori della commissione giustizia procedono a rilento: e, a due settimane dall’arrivo in Aula, sono stati approvati solamente i primi due articoli del testo di legge, con centinaia di emendamenti ancora da votare (la maggior parte sottoscritti da FdI e Lega). Intanto, al Senato, la Lega ha presentato una sua proposta di legge denominata “droga zero” che aumenta le pene per i fatti di lieve entità, introduce l’arresto obbligatorio in flagranza anche per fatti meno rilevanti e la revoca definitiva della patente in caso di reati connessi alle droghe. Nel frattempo, dopo 15 anni dalla legge che legalizza la cannabis terapeutica, è stato finalmente pubblicato il bando che permette ai privati la coltivazione per fini medici. Tale possibilità era già presente nella legge del 2007 ma questa modalità non era mai stata presa in considerazione finora. Certo, dal bando pubblicato dal Ministero della Difesa emergono fin da subito alcune criticità, ma è indubbio che si sia fatto un significativo passo avanti rispetto alla situazione attuale. Oggi scarsità della produzione nazionale e conseguenti costi elevati, tempi estremamente lunghi per l’importazione, indisponibilità di una ampia quota della classe medica a prescrivere i farmaci cannabinoidi determinano una situazione paradossale: terapie regolarmente previste dalla legge possono rivelarsi, per il paziente, un autentico calvario con possibili conseguenze giudiziare, denunce, arresti e carcere. Inoltre, si ricordi che nel febbraio del 2022, un sondaggio realizzato da SWG ha rivelato che il 67% dei cittadini avrebbe votato a favore del referendum sulla cannabis, dichiarato non ammissibile dalla Corte Costituzionale. Intanto, altrove, governi intelligenti e lungimiranti sperimentano nuove strade e nuove strategie. Il ministro della Salute tedesco, Karl Lauterbachs, ha annunciato che in autunno verrà presentata la proposta di legge per legalizzare la cannabis. E, secondo studi recenti, il mercato legale della sostanza potrebbe raggiungere i 3 miliardi di dollari l’anno entro il 2026. In Canada il governo federale ha avviato un programma sperimentale di depenalizzazione delle droghe nella Columbia Britannica, una delle provincie più estese del paese. Punto di partenza è la rinuncia a perseguire i maggiorenni trovati in possesso di un massimo di 2,5 grammi di droga, individuando misure alternative. Le sostanze in questione sono quattro: oppioidi, cocaina, metanfetamina e MDMA, conosciuta come ecstasy. Questo piano sperimentale entrerà in vigore dal 31 gennaio del 2023 e durerà tre anni. L’approccio non è quello della legalizzazione - il traffico, la produzione, l’esportazione e l’importazione di tali droghe rimarranno illegali - bensì quello della “riduzione del danno”. Una politica che non si propone di “mettere al bando” le sostanze attraverso la repressione, ma che accetta di “convivere” con esse, proponendo attività di assistenza psicologica e provvedimenti di natura terapeutica e giuridica, capaci di ridurre al minimo le conseguenze più negative del consumo. Non a caso, il programma di sperimentazione è stato sollecitato da una emergenza sanitaria determinata dall’aumento drammatico di decessi causati da overdose (+ 125% rispetto al 2016). Il progetto è tuttora in corso di definizione: si precisano i contorni delle diverse misure, si vagliano le differenti soluzioni, si appresta una sofisticata strumentazione per il monitoraggio dei risultati lungo tutto il tempo della sperimentazione. Personalmente mi pare un’ottima idea, ma penso che anche i più tenaci oppositori di qualsiasi forma di depenalizzazione e legalizzazione dovrebbero guardare col massimo interesse e con la massima obiettività all’esperimento canadese. Una cosa sappiamo, proibizionisti e anti-proibizionisti: tutte le strategie precedenti, fondate su interdizione e punizione, sono incondizionatamente fallite. È un obbligo morale provarne di nuove e alternative. Per approfondire la questione sono utili tre lavori, con approcci assai diversi, di recente pubblicazione: Cose spiegate bene. Le droghe in sostanza, a cura di Ludovica Lugli e Paolo Nencini (libro-rivista de Il Post in collaborazione con Iperborea); Mamma mi faccio le canne. Guida alla cannabis per genitori e figli, di Antonella Soldo (Officina di Hank); il podcast Tutto fumo, di Antonella Soldo (Meglio Legale in collaborazione con Emons Records). Immigrati, di corsa contro il muro di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 12 giugno 2022 Gl ultimi episodi ripropongono un problema che non si può risolvere facendo sostanzialmente finta di niente. La destra condanna, la sinistra divaga; la gente s’arrabbia, poi passa oltre. Ecco come l’Italia gestisce l’immigrazione. Stiamo andando velocemente contro il muro, mentre gli autisti - i nostri leader, i partiti che abbiamo votato - litigano sulla velocità del tergicristallo. Partiamo dalle scene vergognose viste il 2 giugno sul Garda, seguite dalle molestie subite da ragazze minorenni sul treno Verona-Milano. La discussione che ne è seguita - in televisione, sui giornali, sui social - è durata poco ed è stata inutile: lo abbiamo sperimentato anche sul forum “Italians”, che dà il nome a questa rubrica. “Ad aggredire quelle ragazzine sono stati bellimbusti nordafricani pieni di ormoni, sostenuti dal politicamente corretto (...). Pensano di essere i padroni a casa di altri, le donne bianche per loro sono terra di conquista”, scrive un lettore. Per quanto sgradevole, l’opinione è chiara: la colpa sarebbe dei figli degli immigrati, che le famiglie non sanno educare e la legge non riesce a controllare. Chi pensa che le cose siano più complicate di così ha smesso di impegnarsi in una discussione pubblica: scuote la testa, tace, si preoccupa, auspica (nessuno auspica come un progressista). Alcuni ritengono sia sbagliato indicare la nazionalità dei responsabili: si rischia di alimentare il razzismo. C’è un problema: la gente ha occhi per vedere, orecchie per ascoltare. Digitate “risse” su Google, poi andate nella sezione “Notizie”: scoprirete che sono diventate un passatempo serale in ogni angolo d’Italia, e i protagonisti sono spesso ragazzi giovanissimi, cresciuti in famiglie immigrate. Se noi dei media taciamo questo, sembriamo complici; e irritiamo lettori, ascoltatori e spettatori. I quali, al momento di votare, si vendicheranno: scegliendo la destra intollerante, com’è successo negli Usa con Trump nel 2016. Diciamo quello che sappiamo, invece; affrontiamo i problemi. Ricordiamo che non esistono etnie condannate alla criminalità, come pensano idioti e razzisti. Esistono invece ambienti che favoriscono comportamenti sbagliati. Su quelli bisogna lavorare. Le sanzioni servono, ma non bastano. Ius soli, ius culturae, ius fatevobis: inventiamo qualcosa, prima che sia tardi. La Tailandia legalizza la coltivazione della marijuana. È la prima in Asia di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 12 giugno 2022 Un nuovo mercato del valore di circa 2 miliardi di dollari l’anno. Resta vietato l’uso ricreativo. La Tailandia, da qualche giorno, è la prima nazione asiatica ad aver legalizzato la coltivazione della marijuana. Chiunque potrà coltivare in casa fino a 6 piantine, previa registrazione presso la locale Food and Drug Administration o tramite la nuova app “Plant Ganja”, mentre alle aziende verrà rilasciato un permesso (per i trasgressori fino a 3 anni di carcere o una multa di 8.600 dollari). Per incoraggiare la produzione, il governo ha inoltre annunciato che regalerà, fino a fine giugno, un milione di piantine alle famiglie che intendono coltivare. Consentita anche la vendita del raccolto. Resta invece formalmente vietato il consumo ricreativo, avvertendo che chi fumerà cannabis in pubblico rischierà fino a 3 mesi di carcere e quasi 800 dollari di multa. “Dal nostro punto di vista, uno dei principali risultati positivi di questa modifica delle attuali norme è che verranno rilasciate almeno 4.000 persone attualmente detenute per reati relativi alla cannabis”, ha dichiarato Gloria Lai, direttrice regionale per l’Asia dell’International Drug Policy Consortium (DPC), una rete di organizzazioni della società civile che si battono in tutto il mondo per la riforma delle politiche sulle droghe, all’emittente no profit statunitense Npr. Il segretario di Forum Droghe (sigla italiana che fa parte del DCP), Leonardo Fiorentini, ha dichiarato al manifesto: “Ritengo positivo che uno dei Paesi storicamente più proibizionisti al mondo, che per i reati di droga prevede anche la pena di morte, rimuova lo stigma nei confronti della pianta e la ritenga una risorsa per le politiche sanitarie e l’economia del Paese”. La nuova legge thailandese, come detto, non disciplina però il commercio, né consente l’uso ricreativo. L’unica apertura per il consumo umano riguarda i locali pubblici, che potranno vendere alimenti e bevande contenenti cannabis, a patto che contenga meno dello 0,2% di Thc, il principale principio psicoattivo della marijuana. Ma nonostante questa limitazione, fin dal primo giorno, davanti ai punti vendita, gli acquirenti hanno ugualmente fatto la fila. In Parlamento è inoltre in discussione un progetto di legge più ampio, che potrebbe presto portare ad ulteriori concessioni. Fino a giovedì scorso, per la produzione di cannabis si rischiavano 15 anni di carcere o una multa di 43.000 dollari. Parte da secoli della locale medicina tradizionale, la cannabis era stata messa al bando per la prima volta nel 1934, con il Marijuana Act. Al quale, nel 1979, si è aggiunto il Narcotics Act che vietava l’uso della cannabis, inserendo marijuana e derivati nei narcotici proibiti di categoria 5. L’inversione di rotta del governo thailandese era nell’aria tempo, fin dalle elezioni generali del 2018, con le quali la giunta militare ha cercato di legittimare il proprio potere assunto con un golpe quattro anni prima. Dodici mesi dopo il voto, con la legge numero 7, l’esecutivo aveva già legalizzato l’uso della marijuana per scopi medici. Anche in quel caso, come prima nazione dell’Asia. Decisione che ha fatto poi da apripista al via libera alla coltivazione di questa pianta, destinata quindi al momento al solo uso medico. In pratica per consumarla legalmente servirà la prescrizione medica. L’obiettivo dichiarato è creare un nuovo mercato che, secondo il governo, potrebbe valere circa 2 miliardi di dollari l’anno. Il vice premier thailandese, nonché ministro della Salute, Anutin Charnvirakul, già un mese fa aveva confermato a mezzo social che la legalizzazione della coltivazione della cannabis “è un’opportunità di guadagno sia per i cittadini, sia per lo Stato”, che ovviamente tasserà la vendita del raccolto. Alla Cnn, il titolare del dicastero della Salute ha poi aggiunto: “Non abbiamo mai pensato di incoraggiare l’uso ricreativo della cannabis, che potrebbe dar fastidio agli altri”. Avvertendo in tal senso anche i turisti stranieri che ogni anno popolano le isole e le spiagge del Paese: “Non vi accoglieremo per questo scopo, in tal caso non venite proprio perché non potrete fumare canne liberamente”. Bolivia. L’amara parabola di Áñez la golpista: 10 anni in cella. E non è finita di Claudia Fanti Il Manifesto, 12 giugno 2022 Chiuso il primo processo contro l’ex presidente che si sostituì al Mas e a Morales. Le opposizioni: “Linciaggio giudiziario”. Per il governo invece è una “sentenza storica”. Era il 10 novembre 2019 ed Evo Morales aveva appena annunciato le sue dimissioni, seguendo il “consiglio” del comandante generale delle forze armate Willimas Kaliman in nome della “pacificazione” e del “mantenimento della stabilità”. Prima di allora, si erano già registrati vari ammutinamenti della polizia, nel momento in cui la violenza golpista, a cui era stato lasciato campo libero, dilagava nel paese in mezzo a incendi appiccati alle case dei dirigenti del Mas, il Movimiento al socialismo, ad attacchi ai giornalisti e ad atti di violenza squadrista. IL MAS, sotto choc, era precipitato nel caos. Seguendo un invito alla rinuncia di massa, arrivato via Whatsapp al gruppo parlamentare non si sa bene da chi, e soprattutto cedendo a minacce di morte e intimidazioni, si erano dimessi il presidente della Camera Víctor Borda (il cui fratello era stato sequestrato dai paramilitari), la presidente del Senato Adriana Salvatierra e il primo vicepresidente della Camera Alta. Così, la seconda vicepresidente del Senato Jeanine Áñez, sconosciuta senatrice dell’Unión Demócrata, si era precipitata a rivendicare per sé la presidenza ad interim e ad assumerla dinanzi a un Parlamento semideserto, alla sola presenza di nove senatori, dunque in aperta violazione del testo costituzionale. Due anni e mezzo dopo la sua autoproclamazione, 15 mesi dopo il suo arresto e tre mesi dopo l’inizio del processo chiamato “Golpe II”, relativo proprio al suo insediamento alla presidenza, per lei, la Guaidó boliviana, l’epilogo è stato amaro: condanna in primo grado a 10 anni di reclusione (cinque in meno di quanto chiedeva l’accusa), da scontare nel carcere femminile di La Paz, per “atti contrari alla Costituzione e inadempimento dei doveri”. E con lei sono stati condannati in contumacia, sempre a 10 anni, anche Kaliman e l’allora comandante della polizia, Yuri Calderón. Per Añez, tuttavia, non è finita qui, dovendo affrontare altri processi, il più importante noto come “Golpe I”, in cui è accusata di terrorismo, sedizione e cospirazione. E di certo è molto ciò di cui dovrà rendere conto, a cominciare dalla pagina più buia della sua triste avventura golpista: i massacri di Sacaba e Senkata, in cui nel 2019 sono stati uccisi in totale 36 manifestanti. Ma anche del suo impegno a stroncare qualsiasi forma di dissenso - attraverso la persecuzione dei giornalisti e la chiusura delle radio comunitarie - tentando a più riprese, ma invano, di proscrivere il Mas e soprattutto applicando misure coercitive e repressione militare. Opposte le reazioni alla condanna. Per l’opposizione si è trattato di un “linciaggio giudiziario” e, come ha dichiarato l’ex candidato presidenziale delle destre Carlos Mesa, di “uno dei crimini politici più infami della storia boliviana”. Scontato il commento dell’attuale governatore di Santa Cruz, nonché uno dei maggiori protagonisti del golpe, Luis Fernando Camacho: “La giustizia ha agito come braccio operativo del Mas, organizzando un processo farsa per disconoscere la lotta legittima di tutto un popolo contro i brogli elettorali di Evo Morales”. Mentre il Conade, il Comitato nazionale di difesa della democrazia, ha annunciato mobilitazioni per la prossima settimana. Il governo invece parla di “sentenza storica” che, secondo quanto ha espresso la ministra della presidenza Marianela Prada, “segna un precedente affinché d’ora in avanti non si registri mai più un colpo di stato, non si realizzino mai più rotture democratiche”. Il premio Bellisario alla giudice Bashir. Cartabia: “Non dimentichiamoci dell’Afghanistan” di Felice Florio gnewsonline.it, 12 giugno 2022 Mareya Bashir, prima donna a essere nominata procuratrice generale in Afghanistan. La giudice, oltre al lavoro nella procura della provincia di Herat, era attiva nel campo dell’educazione delle ragazze. “Se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi” era la frase che ripeteva costantemente visitando le scuole del Paese. Impegno nel campo della Giustizia e impegno culturale, per Bashir, dovevano svilupparsi insieme. Con il ritorno al potere dei talebani, lo scorso agosto, la giudice è stata costretta a fuggire dall’Afghanistan. L’Italia le ha conferito con una procedura d’urgenza la cittadinanza, consentendole così di spostarsi verso il Nord Europa e ricongiungersi ai suoi famigliari. Oggi, 10 giugno 2022, Bashir è tornata a Roma per ricevere il premio Bellisario. “È il riconoscimento di un impegno condotto insieme per 20 anni. Le nostre forze dell’ordine, i nostri magistrati hanno collaborato in Afghanistan con Bashir e tante altre donne e uomini per costruire uno Stato di diritto, uno Stato dove la dignità di tutti, in particolare delle donne, fosse rispettata”. È stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronunciando queste a parole, a consegnare alla giudice la celebre Mela d’Oro. Il conferimento del premio, continua la Ministra “è anche uno sguardo sul nostro oggi e sul futuro del nostro Paese e dell’Afghanistan, perché dobbiamo continuare a non dimenticare una situazione difficile. Viviamo una grande emergenza per tutto il mondo, la guerra in Ucraina, che ci sta impegnando tutti. Ma non possiamo dimenticare un’altra emergenza che ci ha impegnato in particolare la scorsa estate e che continua ancora oggi. Dunque, un grazie per il passato e un impegno comune per il futuro”. Il ricordo personale della Ministra - Nell’illustrare le motivazioni del riconoscimento all’ex procuratrice di Herat, Cartabia ha voluto raccontare un ricordo personale: “Ho conosciuto Mareya Bashir diversi anni fa in un convegno sulla situazione delle donne in magistratura. Io parlavo da componente della Corte costituzionale, ero l’unica donna in quel momento, e lei raccontava del suo impegno come prima procuratrice generale a Herat. Mi colpì questa donna che lavorava per la difesa dell’uguaglianza, della dignità delle donne, innanzitutto con gli strumenti del diritto. Ma, insieme a questo, con un impegno culturale ed educativo. Bashir viaggiava per le scuole e ripeteva questa frase: ‘Se c’è l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi’. Questo è un regalo che lei ha fatto alla mia personale esperienza perché da allora, per me l’impegno attraverso gli strumenti giuridici non può più essere disgiunto dall’impegno culturale: solo la consapevolezza delle persone può far vivere le norme, le regole, i grandi principi delle nostre società”. Infine, il conferimento ufficiale: “Mareya Bashir riceve il premio Marisa Bellisario per il coraggio e l’impegno con cui si è sempre battuta per la costruzione di uno Stato di diritto e per la libertà e l’eguaglianza delle donne in Afghanistan. Ambasciatrice di un Paese meraviglioso che merita pace e libertà”, ha concluso la Ministra. Il riconoscimento, istituito nel 1989 in memoria della dirigente d’azienda Marisa Bellisario, viene assegnato a donne che si sono distinte nella propria professione, impattando positivamente sulla comunità italiana e internazionale. Prima della cerimonia, Bashir ha avuto un incontro privato con la Guardasigilli nell’ufficio di via Arenula. Il premio Marisa Bellisario sarà consegnato all’ex procuratrice di Herat per aver speso la sua intera vita, professionale e privata, in difesa dei diritti delle donne afghane. La storia di Mareya Bashir - Non è la prima volta che la ministra Cartabia e la giudice Bashir si incontrano: fu proprio la titolare del dicastero della Giustizia ad accoglierla a Fiumicino, “abbracciandola”, il 9 settembre 2021. “In difesa di tutte le altre donne tuttora esposte a violenza in quel Paese, ho segnalato Mareya Bashir, prima procuratrice donna dell’Afghanistan, per il conferimento urgente della cittadinanza italiana”, spiegò allora Cartabia. Nata a Kabul nel 1970, da giovane avvocata Bashir si era opposta ai soprusi degli integralisti. Fu costretta a lasciare il lavoro nel 1996, con la prima ascesa al potere del governo talebano. Ufficialmente dovette fare la casalinga, in incognito organizzò nella sua cantina una scuola clandestina per le bambine del vicinato. Quando fu ripristinata la democrazia, ottenne il ruolo di procuratrice di Herat: la prima donna afghana a ricoprire quell’incarico, all’età di soli 36 anni. Dal 2006 al 2015, lottò contro la corruzione e gli abusi nel Paese, come i matrimoni forzati tra anziani e spose bambine. Bambine di 9-10 anni. Un impegno che le costò minacce, attentati, l’arresto di suo marito. “C’era molta ingiustizia nella mia società, vedevo disparità e oppressione sin da bambina. Avevo maturato l’idea che per la giustizia bisogna conoscere i diritti e studiare la legge”, ha dichiarato Bashir. “Cosciente di essere la prima nella storia del Paese, ho cercato di far capire alla mia gente, soprattutto agli uomini, che le donne possono lavorare bene. Ho l’orgoglio di esserci riuscita”. Ma il suo impegno è stato interrotto con il ritorno al governo dei talebani. “Siamo sotto choc - ha raccontato Bashir nelle settimane successive alla caduta di Kabul -. È calata di nuovo l’oscurità. Se non avessi lasciato il Paese sarei stata uccisa, perché sono una donna e per il lavoro che ho fatto. Ci avevano già provato a uccidermi, questa volta ci sarebbero riusciti”. La giudice, che ha contribuito a scrivere la Costituzione del Paese - entrata in vigore nel 2004 e dismessa dal regime talebano -, conserva il sogno di “tornare a Herat, un giorno, e vedere le bimbe andare a scuola liberamente”.