Il voto in carcere va garantito di David Allegranti La Nazione, 11 giugno 2022 L’elettorato attivo è un diritto essenziale per le persone detenute. La guida di Antigone e della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Il voto in carcere. È complesso, ma fattibile. Anche per le amministrative e i referendum, per l’appunto proprio sulla giustizia, di domenica 12 giugno. Vediamo come, grazie al materiale informativo preparato per i detenuti da Antigone e dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Oggi è già venerdì e si vota fra due giorni e quindi si suppone che chi è interessato a votare abbia già provveduto a espletare le procedure, ma, in ogni caso, è interessante seguire quanto può diventare complesso l’iter per un detenuto che vuole esprimere il proprio voto. Dunque, come funziona? Può votare chi è un cittadino italiano ed è in carcere perché in custodia cautelare oppure condannato a meno di 3 anni di reclusione oppure condannato a una pena tra i 3 e i 5 anni ma non ha più la pena accessoria dell’interdizione. Per votare serve la tessera elettorale (da recuperare attraverso un familiare oppure, in caso di mancato possesso o smarrimento, va fatto presente a un operatore per ottenere un duplicato), una dichiarazione (va o meglio andava presentata un’istanza in cui il detenuto manifestava la volontà di votare in modo da ricevere un modulo da inviare al Comune di residenza). Per votare c’è, come sempre, un seggio speciale dentro l’istituto penitenziario. Insomma, l’elettorato attivo è un diritto essenziale per le persone detenute, per renderle partecipi del gioco democratico che incide in maniera talvolta diretta e irresistibile sulla loro condizione. Insomma, dice alla Nazione Sofia Ciuffoletti, direttrice di Altro diritto, “L’elettorato attivo è un diritto essenziale per le persone detenute, per renderle partecipi del gioco democratico che incide in maniera talvolta diretta e irresistibile sulla loro condizione. Come la nostra corte costituzionale ha più volte ribadito: ai detenuti devono essere garantiti tutti i diritti non incompatibili con lo status detentionis, tra questi va senz’altro annoverato il diritto di votare e contribuire a incidere in questo modo sulle politiche penali e penitenziarie di questo Paese”. “Abbiamo il dovere di ascoltare e aiutare chi ha sbagliato” di Dario del Porto La Repubblica, 11 giugno 2022 Intervista al presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, in visita nel carcere di Nisida. “Sarà che alla mia età le emozioni si sentono più forti, sarà la forza dello spettacolo. Ma sono davvero molto scosso: i ragazzi e le ragazze sono veramente bravi, vivono la loro esperienza dentro la rappresentazione. Un conto è un attore che fa il suo lavoro, altra cosa sono quelli che, come voi, parlano di sé stessi”. Appare profondamente coinvolto, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, mentre parla ai giovani reclusi dell’Istituto penale minorile di Nisida dove torna a quasi quattro anni dalla visita del 19 ottobre 2018. “Te ne vai con qualcosa di struggente e con tanta amarezza dentro”, aveva detto allora. I ragazzi mettono in scena la piéce teatrale “Fioriture-fratelli”, nata dal progetto “Per Aspera ad Astra-Nisia 2022”, ispirata alla tragedia greca “Elettra”. Ad accogliere Amato, il direttore Gianluca Guida, la capodipartimento per la giustizia minorile Gemma Tuccillo, la procuratrice per i minorenni Maria de Luzenberger. Dopo lo spettacolo, l’uomo delle Istituzioni che è stato premier, più volte ministro e oggi guida la Consulta, dialoga con questi ragazzi che stanno provando, nel carcere affacciato sul mare, a ripartire dai loro errori.Il mare fuori attira lo sguardo, ma dentro sono i volti e le storie a catturare l’attenzione. La violenza giovanile allarma, sottolinea il presidente Amato, e non possiamo che “punire chi ha commesso delitti”. Ciò nonostante, questi ragazzi che hanno sbagliato e si sentono marchiati per tutta la vita non sono mostri da combattere. “Noi abbiamo la responsabilità di capire e ascoltare le loro richieste di aiuto, affinché possano cambiare e, dopo, non sbagliare più”, dice l’ex premier che rimane ottimista: “Al di là dei singoli episodi, nei giovani stanno crescendo una maggiore consapevolezza e una cultura di impegno contro le mafie e contro la criminalità”. La preoccupa l’aumento dei reati commessi da giovanissimi, a Napoli come nel resto del Paese, presidente Amato? “Assolutamente sì. In questa fase storica, la violenza giovanile è figlia da una parte, come tutti dicono e può essere ben vero, della pandemia, cioè della mancanza di rapporti che c’è stata in questi due anni e della difficoltà a riprenderli che spesso incontrano i ragazzi. E poi, dall’altra, dell’abbandono delle periferie, come si diceva una volta e oggi non saprei trovare un termine diverso per chiamarlo”. I ragazzi reclusi a Nisida hanno lanciato una richiesta di aiuto. Fin dal loro ingresso in istituto, si sentono come dipinti di nero. Come si fa a togliere questo marchio? “È un problema di cultura e non intendo, con questo termine, la lettura di tutti i romanzi francesi o russi” A cosa si riferisce? “Ai criteri con cui giudichiamo noi stessi e gli altri. Dobbiamo tutti imparare che, nel valutare gli altri, dobbiamo applicare i criteri che applichiamo a noi stessi. Non siamo tutti angeli. Ma quando commettiamo un’azione di cui non siamo orgogliosi, sappiamo trovare le ragioni, capire le situazioni di esasperazione che a volte ci hanno portato a quel punto. Se vale per noi, deve valere per gli altri. Chi commette una cattiva azione, non vuol dire che sia un mostro”. Dunque il suo messaggio è: “Questi ragazzi non sono mostri, dobbiamo capirli”? “Sì, però va fatta una premessa essenziale: non possiamo non punire, questo deve essere molto chiaro. Ci deve essere comunque la consapevolezza che chi sbaglia, paga. Al tempo stesso però bisogna sforzarsi di comprendere le ragioni poste alla base di questi errori”. Quali possono essere, secondo la sua esperienza? “Nel caso dei più giovani è dimostrato che, nella stragrande maggioranza dei casi, la propensione al delitto nasce da un eccesso di solitudine di cui hanno sofferto, da una mancanza di riconoscimento che hanno avuto, da una ricerca sbagliata di una identità sbagliata. Disagi che i figli dei ricchi risolvono con cattive azioni non sempre delittuose e che i figli dei poveracci risolvono spesso, e aggiungo purtroppo, commettendo reati”. Una delle strade per uscire da questo clima di violenza è quello della giustizia “riparativa” e di un percorso che possa condurre, se non al perdono, almeno alla riconciliazione. A che punto è questo cammino? “Direi abbastanza a buon punto. Sarò forse troppo fiducioso nell’umanità, ma vedo diminuire quella mancanza di cultura di cui parlavo prima e, nel contempo, crescere la consapevolezza degli altri. Inoltre, sto notando un fenomeno importante nei giovani del Sud”. A cosa si riferisce? “Può certamente ancora capitare che a Napoli o chissà dove, una sera, arrivi qualcuno in motorino che mi combina un guaio. Ma i ragazzi che si sentono lontani da questo mondo e si cominciamo a porsi chiaramente contro le mafie e contro la violenza stanno crescendo sempre di più. Mi pare un buon inizio”. Corrispondenza al 41bis, una corsa a ostacoli per i legali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2022 La scheda tecnica redatta dal Garante nazionale delle persone private della libertà per superare le difficoltà che rischiano di ostacolare la comunicazione tra detenuti e avvocati. Com’è noto, con la sentenza 18/2022, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quella parte del 41 bis in cui non esclude dalla sottoposizione al visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori. Ora, affinché l’avvocato richieda la riservatezza, oltre ad esplicitare tale intenzione, dovrà certificare la propria identità facendo apporre un visto dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza. Ed è qui che entra in campo il Garante nazionale delle persone private della libertà, pubblicando una scheda tecnica dove rivela che, a causa del carico di impegni, non sempre gli ordini professionali riescono ad attivarsi in tempo. Ma una soluzione c’è. Il Garante, riferendosi alla sentenza della Corte costituzionale, osserva che si tratta di una conclusione, quella dell’inclusione dei difensori tra i soggetti per i quali è stabilita la riservatezza della corrispondenza epistolare o telegrafica anche quando intercorre con persone, detenute o internate, sottoposte al regime del 41 bis, già affermata in numerose recenti pronunce della Corte di Cassazione - a condizione che siano rispettate le regole che assicurano la riconoscibilità del difensore nel mittente o nel destinatario - e nella Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria n.3676/6126 del 2 ottobre 2017, in materia di “Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art.41-bis O.P”, che, al punto 18.1, penultimo comma, ha sostanzialmente esteso a tale circuito la disciplina ordinaria prevista dall’articolo 18-ter dell’ordinamento penitenziario. La portata innovativa della sentenza della Corte consiste, quindi, nel fissare nella cornice normativa di rango primario i princìpi e le disposizioni, anche operative, delineati sia nella propria giurisprudenza, sia in quella della Cassazione, sia, infine, nel disposto amministrativo del Dap. Sempre nella scheda tecnica, il Garante ricorda che la sentenza si fonda su presupposti di diritto dettati dalla Costituzione, dalle norme sovranazionali della Cedu, dalle Regole penitenziarie europee (Raccomandazione R(2006)2-rev del Consiglio d’Europa), dalle “United nations standard minimum rules for the treatment of prisoners” (le cosiddette “Mandela Rules”), che hanno composto nel tempo il tessuto delle pronunce della stessa Corte costituzionale sui punti rilevanti che interessano la questione su cui si è pronunciata. Come rivela il Garante, in particolare, la Corte ha ribadito la natura di “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale della garanzia costituzionale del diritto di difesa, cui è necessariamente funzionale il diritto alla comunicazione con il difensore; la natura del regime speciale del 41 bis che “mira non già ad assicurare un surplus di punizione per gli autori di reati di speciale gravità, bensì esclusivamente a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti”, con particolare riguardo alla prevenzione del mantenimento di contatti con le organizzazioni criminali; la legittimità costituzionale delle limitazioni dei diritti fondamentali connesse a tale regime soltanto se funzionali alla sua finalità preventiva e non sproporzionate, eccessive, rispetto a tale scopo. Da tale quadro di riferimento è quindi conseguita l’affermazione che l’esclusione dei difensori dalle categorie di soggetti cui è assicurata la riservatezza della corrispondenza è una misura non soltanto inidonea a perseguire la finalità propria delle limitazioni del regime speciale (considerata la riservatezza dei colloqui visivi), ma anche e soprattutto eccessiva rispetto allo scopo perseguito dal sistema dell’articolo 41-bis “dal momento che sottopone a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore”, determinando il pregiudizio del diritto di difesa. Ora veniamo alle conseguenze operative. L’esclusione della corrispondenza intrattenuta con i difensori al visto di censura previsto dall’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera e) dell’ordinamento penitenziario determina l’applicazione della disciplina ordinaria in materia di corrispondenza prevista dal comma 2 dell’articolo 18- ter o.p., con riferimento ai soggetti indicati al comma 5 dell’articolo 103 del codice di procedura penale che riguarda, in primo luogo, i difensori. Nella scheda tecnica, il Garante sottolinea che il rinvio alla norma processuale comporta necessariamente l’applicazione e il rispetto della relativa norma di attuazione, l’articolo 35 del Decreto legislativo 28 luglio 1989, n.271, che stabilisce le regole che assicurano la riconoscibilità della corrispondenza con il difensore e la sua funzionalità a “ragioni di giustizia”. Pertanto, se si tratta di posta in uscita, destinata al difensore, l’esclusione del visto di controllo o di censura è condizionato al fatto che il mittente indichi la qualifica professionale del difensore e che questo risulti nominato per il procedimento penale di cui si deve dare indicazione sulla busta, insieme con la formula “corrispondenza per ragioni di giustizia”, sottoscritta dal mittente. Se si tratta di corrispondenza inviata dal difensore al proprio assistito, la sottoscrizione di tale formula deve essere autenticata dal presidente del Consiglio dell’Ordine di appartenenza o da un suo delegato. Ed ecco che nasce il problema: in mancanza di questa autenticazione, che garantisce l’identificazione del difensore, la corrispondenza che pure riporti nel mittente il nominativo dell’avvocato, non può ritenersi esente dal visto di controllo e dalle ordinarie limitazioni previste dall’articolo 18-ter o.p. Il Garante nazionale rileva che la ricaduta concreta della pronuncia della Corte costituzionale ha attualmente prodotto negli uffici di controllo della corrispondenza dei diversi Istituti due ordini di comportamento: il primo consiste nella restituzione al mittente del plico non dotato della necessaria autenticazione; il secondo nell’apertura della corrispondenza per l’esecuzione del controllo e l’eventuale visto. “La restituzione al mittente - osserva il Garante nazionale - ha certamente il pregio di preservare l’integrità del principio della riservatezza della corrispondenza tra difensore e persona assistita ma determina - e sta determinando - importanti ostacoli al flusso delle comunicazioni, la cui tempestività è requisito essenziale, determinati dai tempi della spedizione”. Per altro verso, l’apertura della corrispondenza che, comunque, appare proveniente da un difensore, rischia di determinare la violazione dell’intrinseca riservatezza delle comunicazioni tra l’avvocato e il suo assistito che hanno sempre - e non deve essere diversamente - un contenuto intimamente legato all’esercizio del diritto di difesa. “In un caso si salva il principio - sottolinea il Garante - ma si rischia di compromettere l’efficacia della comunicazione, nell’altro se ne assicura la tempestività (salvo l’esito negativo del controllo) ma si rischia di neutralizzare il principio”. Peraltro, molto spesso - ed è questo uno dei punti cruciali - la mancanza di autenticazione della corrispondenza è da ricondurre proprio a esigenze di speditezza delle comunicazioni del difensore cui, per il carico d’impegni, gli ordini professionali non riescono sempre a corrispondere. Considerato il valore della questione affermata dalla Corte, Il Garante osserva che “la ricerca di una soluzione che consenta di preservare il principio e al tempo stesso assicurarne l’effettività è doverosa”. La scheda tecnica offre alcune soluzioni: una risorsa in questa prospettiva potrebbe venire dagli strumenti della digitalizzazione, adottati oggi anche nel processo penale. In ogni caso, dovrà trattarsi di una soluzione condivisa tra avvocati, amministrazione penitenziaria e diversi operatori. In questo quadro il Garante nazionale assicura il proprio impegno a contribuire a fissare una disciplina omogenea, chiara e che tuteli anche concretamente lo strumento imprescindibile del diritto di difesa che è la riservatezza delle comunicazioni tra il difensore e il proprio assistito. Referendum, il fronte trasversale per il Sì: da Sabino Cassese a Luca Palamara di Mario Ajello Il Messaggero, 11 giugno 2022 Ha fatto scalpore tempo fa l’adesione di Luca Palamara, già presidente dell’Anm, finito al centro di un terremoto gudiziario che ha sconvolto la magistratura italiana e autore di due best seller sui mali della magistratura al fronte del Si ai referendum sulla giustizia. Ma adesso è ancora più sensazionale l’arrivo nel fronte trasversale referendario - con questa motivazione: “Si deve riformare la giustizia e limitare la custodia cautelare che può trasformarsi in tortura per estorcere un’ammissione di colpevolezza” - di Raffaele Sollecito, imputato nella morte di Meredith Kercher, la studentessa uccisa a Perugia la sera dell’1 novembre 2007. Sollecito non ha dubbi sull’utilità di votare, domenica 12 giugno, per il referendum sulla giustizia. Condannato a 25 anni per concorso in omicidio con Amanda Knox, assolto, di nuovo condannato per poi essere definitivamente assolto “per non aver commesso il fatto” dalla Corte di Cassazione nel 2014, Sollecito ha trascorso 4 anni in carcere prima di vedere riconosciuta la propria innocenza. Sette anni per un complesso e articolato iter giudiziario di cui continua a pagare il costo psicologico, sociale ed economico. Dunque, eccolo nel fronte del Sì. Che pescava destra e a sinistra, spariglia i partiti e può vantare nelle sue fila anche molti vip, volti della tivvù e opinion maker. Convinti che abbia ragione Sollecito, e molto prima di lui tutta la predicazione radicale garantista, nel dire: “In Italia la politica non è mai stata capace autonomamente di riformare la giustizia: nessun governo ci è mai riuscito. I problemi sono tanti e i cittadini sono consapevoli che il “sistema giustizia” non garantisce i loro diritti”. Sollecito, 38 anni, che oggi lavora a Milano come ingegnere informatico. Ma fioccano altri endorsement - ben più autorevoli - per il sì. Quello del giurista emerito e ex presidente della Consulta, Sabino Cassese: “Domenica scriverò i miei 5 Sì per sbloccare una crisi causata anche dai magistrati”. E ancora Cassese secondo cui i 5 quesiti lanciati da Lega e Radicali sono “un tentativo importante per riformare una giustizia altrimenti incancrenita da correnti e scandali ed è un dovere di tutti i cittadini partecipare ai referendum”. Altri volti noti per il sì, compresi politici: Rita Dalla Chiesa e il ministro al Turismo Massimo Garavaglia e anche o soprattutto Giancarlo Giorgetti. Attilio Fontana egli altri presidenti regionali del Nord. E diverse firme importanti del giornalismo: Augusto Minzolini (direttore de il Giornale), Nicola Porro (il Giornale e Mediaset), Alessandro Sallusti (Libero), Francesco Storace (il Tempo), Maurizio Belpietro (La Verità), Paolo Del Debbio (Mediaset), Mario Giordano (Mediaset), David Parenzo e Gaia Tortora (La Sette). E via così anche con Vittorio Feltri e Vittorio Sgarbi. Magistrata, avvocatesse e politiche: come Simonetta Matone e Giulia Bongiorno. In quota chef: lo farà nei il molto televisivo Alessandro Circiello che aveva dato la propria adesione in uno dei banchetti delle firme a Ostia. E che cosa dire di Silvio Berlusconi? “I referendum riprendono temi da noi sempre sostenuti e possono essere un’utile sollecitazione al Governo e Parlamento per la riforma della giustizia. In questo spirito, gli azzurri sono per il sì”. I partiti sono così schierati. A favore dei quesiti ci sono i Radicali e la Lega (che hanno raccolto le firme), ma anche Forza Italia è con convinzione a favore del sì e lo stesso i partiti centristi provenienti dall’area di centrosinistra: Italia Viva di Matteo Renzi (che ha firmato i referendum, in nome della lotta al “corporativismo dei magistrati e delle correnti”) e Azione di Carlo Calenda (in base alla convinzione che la “presunzione d’innocenza va affermata ogni giorno e il carcere prima della condanna definitiva è una misura eccezionale, non la regola”, come ha spiegato il vicesegretario di Azione Enrico Costa). Pd e M5S sono per il no ma Enrico Letta: “Io penso che una vittoria dei sì aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe e tuttavia il Pd non è una caserma, c’è la libertà dei singoli che resta in una materia come questa”. Anche perché la pattuglia per i sì (su tutti o parte dei quesiti) comprende sia alcuni esponenti degli ex renziani di Base riformista (come Stefano Ceccanti, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e molti sindaci e amministratori locali). E occhio a Fratelli d’Italia. È restata più fedele alle tematiche della destra nazionale e non ha dato il sostegno convinto a tutti e cinque i quesiti: il partito è per il sì su separazione delle carriere dei magistrati, equa valutazione dei magistrati e riforma del CSM. Voterà no, invece, su abolizione della legge Severino e sui maggiori limiti alla custodia cautelare.”La proposta referendaria sulla carcerazione preventiva - ha spiegato la leader Giorgia Meloni - impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi dei loro crimini. La legge Severino deve essere profondamente modificata per le sue evidenti storture, ma la sua totale abolizione significherebbe un passo indietro nella lotta senza quartiere alla corruzione”. E comunque, sponsor e testimonial per il sì arrivano da tutte le parti politiche e le aree culturali. Quello che ancora deve arrivare è il quorum. Referendum, l’ultimo appello di Lega e Radicali con le vittime di errori giudiziari di Manuela Messina La Repubblica, 11 giugno 2022 L’ex vicepresidente lombardo Mario Mantovani: “Sei mesi di carcere, 7 anni di processo e la vita distrutta per una errata trascrizione di un’intercettazione”. E l’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti: “E’ necessario intervenire sui tempi della giustizia”. “Vi racconto un paio di episodi che mi hanno riguardato personalmente sulla giustizia: quando ho dovuto rifare la carta di identità me ne hanno rilasciata una ‘non valida per l’espatrio’. La segretaria lo ha specificato ad alta voce, in modo che potessero sentirla anche gli altri in fila....”. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana racconta la sua esperienza personale prima del proscioglimento nel cosiddetto “caso camici”. E lo fa durante la chiusura a Milano della campagna per il Referendum giustizia, promosso dai Radicali e dalla Lega. “Tra l’altro - dice sorridendo - io abito di fronte alla Svizzera...”. Insieme al governatore sul palco ci sono altri amministratori locali coinvolti in vicende giudiziarie, tra cui l’ex sindaco di Lodi del Pd Simone Uggetti, condannato in primo grado, assolto in appello ma ancora imputato perché il processo di secondo grado è da rifare dopo l’annullamento con rinvio della Cassazione. E l’ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani, quasi si commuove mentre la tesoriera dei Radicali Irene Testa legge in diretta l’Ansa appena uscita con le motivazioni della sua assoluzione in appello in uno dei processi sulla sanità lombarda. “Sentire che per una errata trascrizione di una intercettazione ho fatto 6 mesi di carcere, 7 anni di processo e ho avuto la vita distrutta ti fa solo dire che c’è da vergognarsi a essere italiani”. Fontana ha raccontato un altro episodio: “Avete presente il caso Diasorin? Stavo facendo la doccia come sempre intorno alle 6,30 del mattino e mi viene annunciato da un colonnello della Guardia di finanza che deve entrare in casa mia per farmi una perquisizione. Si presentano in cinque, compresi due professori universitari. Che cosa erano venuti a fare? A sequestrarmi il telefonino. Ripeto, erano in cinque. E io ero solo persona informata sui fatti, anche se è chiaro che volevano farmi diventare indagato. Se me lo avessero chiesto il telefono lo avrei consegnato, invece ho dovuto spiegare la cosa ai miei figli che sono ancora giovani e non è stato facile”. E, a favore dei Referendum, si schiera anche dal campo avversario a quello della Lega di Fontana, l’ex sindaco di Lodi. “Sono stato 10 giorni in carcere e 25 giorni ai domiciliari, sono passati 6 anni e ho una vicenda giudiziaria ancora in corso”, dice Uggetti. “Il Referendum è un modo per sensibilizzare il Parlamento affinché affronti certi temi, ad esempio quello che riguarda i tempi della giustizia. Ci sono elementi di sistema che vanno corretti”. Tutte voci, insomma, chiamare a fare quasi da testimonial a favore del voto di domenica 12 giugno. Roberto Calderoli, uno dei protagonisti della campagna, arriva con indosso ancora la maglietta simbolo della campagna referendaria e spiega che è ancora in sciopero della fame, fino alla mezzanotte di oggi quando scatta il silenzio elettorale. “La giustizia è un tema che riguarda tutti e spero che questo gesto possa essere servito a squarciare il silenzio sui quesiti referendari. Al mondo interessa solo che cosa ho mangiato - dice al pubblico in sala - pensate che un giornalista mi ha chiesto a quanto avevo la glicemia. Mica vado in giro con gli esami del sangue”. Non solo il silenzio in tv: anche le fake news su Falcone per sabotare i referendum di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 11 giugno 2022 Pur di contestare i quesiti, si cancella, come nel caso di Spataro, il Sì alla separazione delle carriere espresso dal magistrato-eroe. La campagna referendaria sui temi della giustizia volge al termine. Adesso la parola passa ai cittadini, o, più precisamente ai cittadini che sono stati messi a conoscenza del fatto che il 12 giugno si voterà per un referendum. La precisazione, come si dice, è d’obbligo, perché se vi è un fatto conclamato e inoppugnabile, certificato qualche giorno fa dalla stessa Autorità per le comunicazioni, è che di questo referendum si è parlato poco o nulla sui mezzi di informazione e in particolare sui mezzi del servizio pubblico. Si è parlato poco del fatto (meno dell’1 per cento dei tempi dedicati a informazione e approfondimento) e si parlato ancora meno del merito. Prepariamoci dunque ad aggiungere all’astensionismo strutturale (oggi in Italia almeno il 30 % degli elettori non vota per alcun tipo di elezione, compresa quella per il Parlamento della Repubblica, a prescindere dunque dal merito) l’astensionismo per disinformazione o per mancata informazione. Ciò detto, la compagna referendaria, quando c’è stata (cioè pochissimo), ha comunque consentito un confronto serrato tra le opinioni. E questo rende ancor più forte il rammarico per il fatto che si sarebbe potuto e dovuto far di più. Nell’interesse di tutti. A proposito del merito, un atteggiamento laico impone certamente di considerare con attenzione gli argomenti pro e contra. I riflettori (o, meglio, è il caso di dire, l’abat-jour) quando sono stati accesi, soprattutto da alcuni giornali, tra cui questo, hanno mostrato quanto importanti siano i temi di cui si discute e quale sia il livello dello scontro tra i diversi fronti. Purtroppo non sempre la discussione è stata intellettualmente onesta. Molte fake news sono state propalate additando scenari apocalittici e inquietanti su cosa succederebbe se i referendum fossero approvati. Sono fatti gravi, anche gravissimi, soprattutto quando provengono da funzionari pubblici nell’esercizio o a margine dell’esercizio delle proprie funzioni. C’è una vicenda particolarmente preoccupante che riguarda direttamente questo giornale, che il 1° giugno scorso ha ripubblicato gli estratti di un intervento di Giovanni Falcone, edito nel volume “La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia” (Rizzoli, 2010). In quell’intervento il magistrato, del cui assassinio ricorre proprio quest’anno il trentennale, formulava l’opinione dell’opportunità della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Opinione confermata il 3 ottobre 1991 in un’intervista a Mario Pirani su Repubblica e anche in interventi pubblici. Separazione (delle funzioni) che è oggetto anche di uno dei quesiti referendari. Un’opinione argomentata nello stile di Falcone, in modo chiaro, ma senza alcuna venatura ideologica. Falcone in quell’intervista, peraltro, utilizzava argomenti simili a quelli emersi nel dibattito in Assemblea costituente, nel quale si escluse la netta separazione in considerazione del modello processuale allora vigente, in cui il Pubblico ministero era titolare anche di funzioni giudicanti (in qualità di giudice istruttore). Con altrettanta nettezza i costituenti erano consapevoli che l’eventuale superamento di quel modello verso un processo di tipo accusatorio (in cui cioè le prove non si formano prima, ma si formano nel dibattimento) avrebbe richiesto una modifica dell’impianto organizzativo della magistratura. E ciò in conseguenza del diverso ruolo (solo di parte pubblica e non più giudicante) che il Pm avrebbe svolto in quel processo. Una parte e non un giudice. Le argomentazioni di Falcone, che parlava dopo l’approvazione del nuovo codice di procedura penale che aveva introdotto il processo accusatorio (trenta anni fa), andavano sostanzialmente nella medesima direzione. In un’altra dichiarazione Falcone criticava la definizione del Pm come “parte imparziale”, cara a una certa cultura giudiziaria, aggiungendo, con logica ineccepibile: “Come si fa ad essere parte e a essere imparziale allo stesso tempo, vorrei che qualcuno me lo spiegasse”. Si tratta ovviamente di opinioni, anche se provengono da un servitore dello Stato scomparso così tragicamente. In una visione laica, che resiste alla tentazione del culto acritico della personalità, anche quando si tratti di persone straordinarie come Falcone, queste opinioni possono ovviamente essere contestate nel merito. Con grande onestà intellettuale Giancarlo Caselli, personalmente contrario alla separazione, intervistato dal direttore de Il Dubbio, ha riconosciuto che quella, invece, fosse l’opinione di Falcone, aggiungendo che nessuno può dire se, alla luce degli sviluppi degli anni successivi, tale opinione sarebbe mutata oppure no (ma propendendo per l’idea che probabilmente non sarebbe mutata, e Falcone “oggi, scriverebbe le stesse cose”). Ciò che invece è inaccettabile, e dovrebbe far riflettere, è l’atteggiamento di chi semplicemente nega che Falcone abbia sostenuto questa posizione, temendo probabilmente che ciò possa incrinare la tesi secondo cui il referendum sarebbe una crociata contro la magistratura, compatta e granitica su tutte le questioni che la riguardano. Quando un ex magistrato come il Dottor Spataro, sulle pagine di un importante quotidiano nazionale, sostiene semplicemente e apoditticamente che “non è vero” che Falcone sostenesse quelle opinioni, non si rende un buon servizio né alla verità, né alla propria causa. Negare semplicemente un fatto (nemmeno problematizzarlo, ma semplicemente negarlo!) senza, è il caso di dire, alcuna articolazione “probatoria” delle proprie affermazioni, di fronte a testi e dichiarazioni che si possono facilmente reperire in libreria o sulla rete, esprime un atteggiamento che non solo non aiuta il confronto, ma è lontano anni luce da quell’approccio laico ai problemi così delicati della giustizia in Italia. Nessuno può dire cosa avrebbe pensato oggi Giovanni Falcone, ma è certo che sul piano del metodo e dell’approccio non si sarebbe mai accontentato di un “non è vero”. La verità, nella vita, come nei processi, merita di più. Referendum, usare la memoria di Falcone a favore del Sì è operazione indecente di Stefania Limiti Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2022 L’ingannevole campagna referendaria somministra ogni giorno un certo spettro variegato di scempiaggini. Come quando ci raccontano che il quesito sull’abolizione di una parte della legge Severino servirebbe a migliorare la giustizia: ah sì? Non è, piuttosto, che servirebbe a rendere la vita più facile ad amministratori e politici corrotti, abbassando il muro che deve separare l’illegalità e le istituzioni? Non c’entra nulla la legge Severino, in particolare quella parte richiamata dal quesito, con le inefficienze del nostro sistema giudiziario. Ma proprio nulla. Oppure: la faccenda della custodia cautelare, quesito numero 2: qui la malizia è sfacciata. Presentato come un tentativo di limitare i presunti abusi, in realtà impedirebbe, se vincessero i Sì - ma non crediamo proprio che gli italiani siano così sciocchi da cadere nella trappola di andare a votare - provvedimenti restrittivi nei confronti di chi reitera odiosi reati, da quelli finanziari alla violenza. Fin qui menzogne maliziose architettate da un fronte referendario in evidente difficoltà: tuttavia c’è sempre un limite oltre il quale davvero si oltrepassa la decenza. Come quando viene usato il nome di Giovanni Falcone come una lancia in favore della separazione delle carriere, come ha fatto oggi Stefano Giordano, figlio del magistrato Alfonso riportando una conversazione privata tra suo padre e Falcone nella quale questi avrebbe convinto il collega, inizialmente riottoso, che la separazione delle carriere era l’unica via. Così si entra in un terreno non solo scorretto e ingannevole: così è proprio insopportabile. Perché frasi e i ragionamenti vengono del tutto decontestualizzati, buttati lì in una squallida arena politica. Perché molti colleghi ricordano ben diversamente, come è sempre emerso nei dibattiti in questi anni - non in occasione di questo sciagurato referendum. Falcone parlava della separazione delle funzioni, sembrerebbe. Ma a parte ciò: perché mettere in mezzo il suo nome in questo modo? Chi vuole la separazione delle carriere sappiamo che, in fondo in fondo, ha un sogno nel cassetto: quello di apprendere un giorno da un comunicato stampa di Palazzo Chigi della nomina di nuovi procuratori della Repubblica, come è avvenuto qualche giorno fa in America dove Biden, appunto, ha annunciato le sue scelte per cinque Stati. Dietro quel quesito c’è solo la pulsione profonda per una magistratura non più indipendente. Perché dunque usare la memoria di Falcone per sostenere una operazione di spudorato attacco alla magistratura? Di sicuro sperando di fare un favore al fronte referendario e poi perché forse la decenza è cosa sempre più rara. I referendum sono il sale della democrazia: votate! di Giovanni Guzzetta Il Riformista, 11 giugno 2022 Il fronte astensionista ha intossicato il dibattito. Dire che i quesiti non servono, perché “paghiamo già i parlamentari” significa ignorare che i quesiti nascono per spronarli e imporre la volontà popolare. In molti si chiedono (almeno quelli che sanno che si voterà un referendum il 12 giugno, perché sono milioni quelli che non ne sanno nulla) se andare a votare e che cosa votare. È una domanda importante; riguarda il ruolo che abbiamo nella democrazia. Sulle pagine di questo giornale (eccezione assoluta insieme a poche altre) si è discusso ampiamente del merito dei quesiti. Molte obiezioni però precedono il merito. Due sono vecchi argomenti, rispolverati all’occorrenza: a) “che li paghiamo a fare i parlamentari, se bisogna scomodare il popolo per decisioni che potrebbero prendere loro?”; b) “perché investire i cittadini su argomenti così complessi?” I costituenti sul punto avevano le idee chiare. I referendum hanno la funzione di contrastare le scelte o le omissioni del legislatore (quando non affronta un problema su cui ci sarebbe bisogno di cambiare). Per definizione, dunque, si tratta di interventi dei titolari della sovranità proprio perché, a loro modo di vedere, il Parlamento non fa ciò che dovrebbe fare. Sostenere che i referendum non servano perché chi ci governa è pagato per fare quelle cose, significa contraddire la logica dell’istituto. I referendum servono proprio ed esattamente perché i rappresentanti non fanno ciò che dovrebbero fare o non lo fanno nel modo che i cittadini ritengono adeguato. Per questo il referendum esiste. Secondo: proprio perché il referendum significa partecipazione del popolo alle scelte della comunità politica, il presupposto è che, così come accade nelle elezioni, il popolo merita il potere di scegliere. È la democrazia, bellezza! Dire che un quesito sia troppo complesso (ciò che peraltro è stato detto in mille altre occasioni, smentite poi dai risultati) significa dire che i cittadini non sono all’altezza di assumere certe decisioni. È una visione aristocratica della politica, l’opposto della democrazia. E ogni cittadino che l’abbia orgogliosamente a cuore dovrebbe essere indignato di venire mortificato con tali argomenti. Discorso diverso, e cruciale, è che, come gli stessi parlamentari, i cittadini non sono onniscienti e dunque devono essere messi in condizione di informarsi adeguatamente prima di deliberare. È vero invece, che il referendum non è un’alternativa, ma un completamento, e un aiuto, alla democrazia rappresentativa. I cittadini sono chiamati a dire ciò che non vogliono (abrogando, appunto) rispetto a come un certo problema è stato affrontato. Al Parlamento resta la responsabilità di “ricostruire” sulla base delle indicazioni politiche che vengono dal risultato referendario. Dire che una vittoria dei Sì sarebbe l’ultima parola, di fronte alla quale non ci sarebbe più spazio per costruire, contrasta con l’ispirazione della Costituzione e serve solo a disseminare disinformazione e terrorismo. Il referendum, dunque, ha due funzioni, che la Costituzione mette nelle mani di ciascun cittadino, analfabeta o premio Nobel che sia. La funzione di opporsi a un assetto concreto della legislazione e di spingere il Parlamento ad occuparsi (meglio) di una questione, percorrendo la strada costruttiva del cambiamento sulla base dell’indicazione politica del voto. Nel caso dei referendum sulla giustizia non cambia nulla. I cittadini non sono chiamati a pronunciarsi su una riforma organica e complessiva della giustizia. Essi sono chiamati a opporsi ad alcuni aspetti, ritenuti fondamentali, del malfunzionamento della giustizia e sono chiamati, allo stesso tempo, a spingere il legislatore a occuparsi meglio di quei problemi sapendo che i cittadini vogliono che, almeno su quei punti, si cambi. Questo vale anche nel momento (come oggi) in cui un’iniziativa riformatrice parlamentare è in corso (la c.d. Riforma Cartabia). La quale però, non bisogna dimenticare, rappresenta uno sforzo meritevole, dopo anni di inerzia del Parlamento, reso possibile dal vincolo esterno costituito dal Pnrr. Vincolo esterno senza il quale, probabilmente, non sarebbe stata nemmeno calendarizzata, e non certo per negligenza della Ministra stessa. Ma la riforma (senza entrare nel merito se sia o meno sufficiente) è strettamente intrecciata con il referendum. Tant’è che il suo esame è stato sospeso in attesa del risultato del voto di domenica. Anche perché su quella riforma ci sono state opposizioni fortissime da parte della magistratura associata, che è arrivata a proclamare uno sciopero per contrastarla. Così come, nella magistratura ci sono posizioni di sostegno alle riforme, com’è dimostrato dallo scarso successo di quello sciopero e, ad esempio, dal pronunciamento di una significativa percentuale dei magistrati per l’introduzione del sorteggio come modalità di elezione del Consiglio superiore della magistratura (che la riforma invece non ha adottato). In questo contesto si colloca il referendum, con le sue due essenziali funzioni. Indicare, con l’abrogazione ciò che non si vuole più, spingere il Parlamento a non recedere dalla volontà di riformare, e riformare profondamente. Il fatto, ad es., che il contenuto di uno dei quesiti (candidature al Csm) sia già stato “incamerato” nel progetto di riforma (motivo per il quale, contraddittoriamente, gli oppositori dicono che è inutile, ma allo stesso tempo invitano a votare No, quindi contro) è un argomento in più per sostenerlo. Confermerebbe al Parlamento - in vista del dibattito sulla riforma - che è quella la direzione condivisa dai cittadini. Proprio in relazione alla funzione del voto, allora, quello che ciascun elettore si deve domandare è quali sarebbero le conseguenze se il referendum fallisse (o comunque i favorevoli al Sì fossero un’esigua minoranza) o se avesse successo. Questi esiti sarebbero entrambi equivalenti rispetto alla necessità, riconosciuta da tutti, di imprimere un forte cambiamento per fronteggiare una drammatica crisi della giustizia che rischia, come ha ricordato il Capo dello Stato, di minare in radice la fiducia dei cittadini? Quali sono i rischi di un esito favorevole o contrario al referendum? Per rispondere questa domanda bisogna avere bene in mente le due funzioni del referendum. E interrogarsi per ciascuno di essi: “su questo aspetto esiste un problema grave che andrebbe affrontato? Ciò che il referendum contesta, potrebbe essere disciplinato in un modo migliore?” Perché l’esito positivo del referendum non impedirebbe affatto al legislatore di intervenire, anche il giorno dopo. E questo, anzi gli è richiesto. Ma gli impedirebbe (questo sì) di intervenire nel modo in cui ha fatto sinora, consentendo inauditi abusi o disfunzioni gravi, per una disciplina che, a tali abusi e disfunzioni, così com’è, si presta troppo facilmente. Se il referendum fosse bocciato, invece, saremmo certi che il legislatore, così come ha fatto sino ad oggi, non avrebbe nessuna spinta politica ad occuparsi del problema e anzi avrebbe titolo per non farlo. Se si vuole esercitare con orgoglio il proprio potere di cittadini su un tema cruciale per la vita comune, com’è la giustizia, sono queste le domande fondamentali che occorre farsi. Distintamente, per ciascuno dei cinque referendum. Le procure nascondono le prove? Il referendum può fermarle di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 giugno 2022 Mentre alcuni pm o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”. Il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice. Nel processo Eni-Nigeria i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”. Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. Coraggio, domani andiamo ai seggi e votiamo cinque sì per incrinare almeno un pochino il blocco di potere che da un trentennio soffoca la democrazia italiana. Mentre alcuni pubblici ministeri, o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”, cioè la capacità di essere anche un po’ giudici. Sembra una nemesi anticipata della storia, quella che colpisce il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e il pm Sergio Spadaro, oggi alla nuova Procura europea antifrodi. Perché oggi sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere, o almeno le funzioni, tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice. Si parte dal processo Eni-Nigeria, quello su cui la Procura di Milano, quando il capo era Francesco Greco, aveva fatto un grande investimento anche sulla propria reputazione. Era stato costituito un apposito pool di affari internazionali, presieduto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si era impegnato, con il collega Sergio Spadaro, soprattutto nelle inchieste che riguardavano una serie di relazioni internazionali dell’Eni e il sospetto di gravi e lucrosi atti di corruzione. E in particolare quello con cui l’Ente petrolifero aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, oggetto del processo terminato il 17 marzo 2021 con la clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, a partire dall’ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. In attesa del processo d’appello -voluto da Fabio De Pasquale, ma che sarà sostituito in aula dalla pg Celestina Gravina, su decisione del vertice della procura generale va constatato che è proprio sulla base del comportamento dei due pm nel dibattimento che la procura di Brescia ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Perché i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”, accusando i sostenitori del SI di volere un pm-sceriffo. Ma se tu pm hai a disposizione la registrazione video di un testimone dell’accusa, il quale, due giorni prima di presentarsi in procura ad accusare di corruzione i vertici Eni, preannunciava di avere intenzione di farli coprire da “una valanga di merda”, e la tieni nascosta, come deve essere qualificato il tuo comportamento? Lo stesso dicasi, sostiene la Procura di Brescia, per una serie di chat da cui emergerebbe l’intento calunnioso di quel testimone. Nonostante questa vicenda sia sotto gli occhi di tutti, indipendentemente da come finirà l’aspetto strettamente giudiziario, una cosa è palese. Che se anche consenti, come capita oggi, al pm di fare passaggi di carriera e quindi di alternarsi con il giudice, un accusatore non sarà mai meno sceriffo. Dire il contrario è una colossale ipocrisia. Il codice di rito accusatorio, adottato (se pur timidamente) dall’Italia nel 1989, non prevede imbrogli né ambiguità. Le due parti, accusa e difesa, sono parti e il giudice, che sta sopra di loro, non deve avere nulla a che fare con nessuna delle due. Occorrerà arrivare all’abolizione del concetto stesso di magistratura, dunque, e a due carriere paritarie di accusa e difesa, ben distinte e distanti dal Giudice, termine che andrebbe sempre scritto con la maiuscola, per rispetto e deferenza. Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri, che esiste e sta resistendo con molta forza a qualche barlume di cambiamento, non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. È inutile girarci intorno, la “colleganza” conta. Poi sarà anche vero, come ha detto di recente in un convegno l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che lui è andato al bar del Palazzo di giustizia più spesso con avvocati che con giudici. Magari alcuni legali gli erano più simpatici, ma diverso è far parte della stessa cucciolata, essersi nutriti alla stessa mammella e al mattino recarsi negli stessi uffici. Indossare una toga che, finché le carriere non saranno separate, sarà sempre diversa da quella dell’avvocato, che deve portarsela dallo studio, perché nel Palazzo non c’è un ufficio né un attaccapanni per lui. Un referendum infilato nell’altro, dalla separazione delle funzioni alla custodia cautelare. Il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, calpestato in almeno mille casi all’anno da pubblici ministeri e giudici insieme. Perché uno chiede, ma l’altro è quello che concede, e se sbagliano, sbagliano in due, e se si accaniscono lo fanno in coppia. E se quel sospetto sul futuro, in cui una persona, ancora innocente secondo la Costituzione, potrebbe reiterare (cioè ripetere) un reato che forse, in un caso su due, non ha neanche commesso, può portare a un carcere ingiusto, aboliamo il principio. E votiamo per dire NO al carcere preventivo basato su quel sospetto. Ma la vera regina del sospetto è il Grande Algoritmo chiamato “legge Severino”, un meccanismo automatico di espulsione da luoghi elettivi o di governo su cui precedentemente avevano deciso i cittadini elettori. Qui siamo addirittura persino all’esproprio dell’autonomia del giudice, svincolato dal diritto-dovere di decidere se il condannato debba essere anche colpito dall’interdizione dai pubblici uffici e, nel caso, per quanto tempo. Una norma che presenta anche gravi profili di incostituzionalità (nonostante la Consulta si sia pronunciata diversamente) nella parte in cui sospende l’amministratore locale dopo una condanna in primo o secondo grado, quindi non definitiva. Questo punto, messo in discussione anche da sindaci e assessori del Pd (che timidamente ha presentato un proprio blando disegno di legge in Parlamento) è particolarmente cruento e anti-democratico perché rovescia gli assetti di governo, entrando a gamba tesa nelle sorti politiche di una città, di una provincia, di una regione. Dove spesso poi si candida addirittura un magistrato. Ma non si può dire, perché se c’è un soggetto che non si può mai criticare né giudicare è proprio quello che indossa la toga “giusta”. Però, se passasse (insieme a quello sulle firme per l’accesso al Csm) anche il quesito referendario per consentire anche agli avvocati e ai docenti universitari di dare il proprio giudizio sull’attività e sulle carriere dei magistrati, forse si potrebbe incrinare almeno un pochino questo blocco di potere che soffoca la democrazia italiana da un trentennio. Coraggio, andiamo ai seggi e votiamo cinque Si. Violante: “I referendum non risolvono i problemi della giustizia ma voto sì contro la Severino” di Giada Fazzalari Il Riformista, 11 giugno 2022 Il referendum di domani non risolve il problema di fondo dell’amministrazione della giustizia ma è giusto votare sì all’abrogazione della legge Severino perché “il tema della inadeguatezza degli amministratori deve essere risolto dalla politica, non dalla magistratura”. L’ex presidente della Camera, Luciano Violante, parlando con l’Avanti! della domenica sostiene che “è la politica che ha dato ai magistrati un potere esagerato, cedendogli pezzi di sovranità”. Classe 1941, ex magistrato, tra i maggiori esponenti del Pci negli anni 80 e 90, a trent’anni da Mani Pulite riconosce: “se avessimo avuto l’intelligenza di capire che il tema non riguardava solo il Psi o la Dc ma la disgregazione dell’intero sistema politico, probabilmente non ci saremmo trovati in questa situazione. Adesso c’è da prendere in mano il sistema politico. Era quello che aveva previsto Craxi nel noto discorso alla Camera. Ed è ciò che è puntualmente accaduto” Da anni, e da più parti, si ripete l’urgenza di una riforma del sistema giustizia ma non se ne è mai fatto nulla. I Referendum possono essere utili? Nessuno dei quesiti tocca i problemi di fondo dell’amministrazione della giustizia; questo tema merita ragionamenti radicali e profondi. La magistratura nel passato era mesa in pericolo dall’esterno, ora è messa in pericolo dall’interno. La vicenda Palamara e gli scandali connessi hanno fatto emergere una questione morale nella magistratura. C’è una cultura corporativa, che non tiene conto delle responsabilità proprie di una magistratura che fa parte della governance del Paese. Detta in modo schematico: i magistrati hanno assunto un potere esagerato? E’ vero. La politica e l’informazione hanno concesso ai magistrati questo potere. La politica ha ceduto progressivamente alla magistratura pezzi di sovranità e la magistratura se li è presi. L’informazione ha trasformato in show molte inchieste e in showman molti magistrati. Perché i referendum le appaiono come una sorta di vendetta della politica contro la magistratura? La domanda mi permette di chiarire: ho scritto un libro che si intitola “Senza vendette”, nel quale facevo riferimento proprio a questo rischio. È esagerato parlare di vendette però il senso dei referendum credo sia punitivo e non aiuta a ricostruire. Quindi anche lei conviene: è stata la politica nel suo complesso ad avere ceduto troppo spazio alla magistratura? La politica ha ceduto alla magistratura il potere di fondo, quello di stabilire le regole. Ordinamento politico e ordinamento giuridico sono confinanti. L’ordinamento politico dà le regole, l’ordinamento giuridico le applica. Ma se le regole che dà l’ordinamento politico sono indeterminate, vaghe, incomprensibili, a quel punto l’ordinamento giuridico non solo applica la regola ma crea la regola e poi la applica ed è questo l’eccesso di potere regalato alla magistratura dalla politica. Il 12 giugno andrà a votare? Sì. E voterò sì al quesito sulla abolizione della Legge Severino perché ritengo che il tema della inadeguatezza degli amministratori deve essere risolto dalla politica, non dalla magistratura. Se togliamo responsabilità alla politica difficilmente avremo una politica migliore. Sull’abuso della carcerazione preventiva solo un dato: 30 mila innocenti in carcere negli ultimi 30 anni e quasi 50 milioni di indennizzi pagati dallo Stato… Il referendum tocca un aspetto marginale del problema. Esistono una serie di reati seriali, come i reati di tipo sessuale o le rapine. Ora, ritenere che la possibilità di reiterare il reato non sia un motivo per tenere in carcere una persona, lascerebbe il cittadino indifeso rispetto ai rischi che possono manifestarsi. È questa la ragione per cui sono contrario. Quindi secondo lei non esiste un abuso della carcerazione preventiva? Conosciamo il numero delle richieste accolte dai GIP ma non conosciamo il numero delle richieste respinte e quindi è difficile capire se ci sia un abuso in relazione al rapporto tra richieste respinte e richieste accettate. Credo sia però necessaria una più oculata gestione della libertà delle persone. Esiste anche il problema della tutela della reputazione delle persone. Pubblicizzare le indagini, violando il segreto e poi si scopre che una persona è innocente, è incompatibile con i principi della democrazia. In linea di principio da più parti si conviene su una riorganizzazione complessiva dei poteri della Repubblica. Ma la politica non ce la fa: perché? È proprio così: serve una riorganizzazione complessiva dei poteri. Esistono le intelligenze in tutte le forze politiche, adeguate ad affrontare seriamente questo tema, ma bisogna liberarsi dagli slogan. Ci sono persone competenti e capaci tanto nella politica quanto nella magistratura. Noi però legati alla immagine della magistratura del ventesimo secolo senza affrontare il tema della magistratura del ventunesimo secolo. La riforma Cartabia non la convince? Quella del processo penale mi convince molto. Anche quella civile. Questa dell’ordinamento giudiziario meno, ma questa non è responsabilità della Ministra della Giustizia. Un mio amico sacerdote dice che bisogna dire messa con i preti a disposizione. La Ministra Cartabia ha fatto la riforma con i parlamentari che ci sono. Come si rinsalda il rapporto tra politica e magistratura? Con il rispetto reciproco delle funzioni e delle persone. Entrambi sono poteri fondamentali della democrazia e devono reciprocamente rispettarsi, non devono pronunciare frasi come ‘i politici sono innocenti solo perché la magistratura non ha funzionato’: frasi di questo genere sono gravi, sbagliate; si potrebbe dire la stessa cosa della magistratura, rovesciando il concetto. Ma gli insulti servono per l’audience, non per le riforme. Sono 30 anni da Mani pulite. Alla fine molti hanno riconosciuto un eccesso di giustizialismo e anche una carenza di giustizia. Cosa ne rimane oggi? Il ‘92 non è stato solo l’anno di Mani Pulite, è stato anche l’anno delle stragi. Quell’anno rispecchia molto la situazione italiana: il dramma dei magistrati vittime della mafia e ancor prima del terrorismo e il dramma di un sistema politico che si suicida. Nel famoso discorso di Craxi alla Camera, c’è un punto secondo me essenziale, poco ricordato. Lui disse all’incirca: “Quanto accade riguarda l’intero sistema politico, non questo o quell’altro partito. E se non si risolverà questo problema prevarranno la disgregazione e l’avventura”. È puntualmente accaduto. Noi - e mi metto tra coloro che ne furono responsabili - non capimmo questo. Se avessimo avuto l’intelligenza di capire noi che il tema non riguardava solo il Psi o la Dc ma l’intero sistema politico, probabilmente non ci saremmo trovati in questa situazione. Adesso c’è da prendere in mano il sistema politico, appunto. Un periodo in cui il rapporto tra Pci e Psi era complicato… Avevamo alle spalle gli anni 80, in cui c’erano stati decenni di scontri, tra PCI e PSI, per responsabilità di entrambi. Non tutti hanno fatto i conti con la lezione di Mani pulite? Nessuno ha tratto una lezione: il tema del finanziamento pubblico non è stato affrontato. Le faccio un esempio: con la riduzione del numero dei parlamentari, aumenta di molto dimensione dei collegi e avremo conseguentemente costi di campagna elettorale altissimi, soprattutto per il Senato. I partiti politici sono essenziali per il funzionamento della Repubblica e davvero si pensa che i partiti possano vivere senza un sostegno pubblico? Sciocchezze. Il ruolo dei partiti oggi qual è? Io credo che siano alla ricerca di un ruolo. Non tutti allo stesso modo, certo, ma mi pare che i partiti di oggi siano legati al contingente, al quotidiano, al telegiornale delle ore 20. Un partito deve rispondere alla domanda: “Che cosa intendo essere nella storia di questo Paese?” In prospettiva, non nei prossimi sei mesi, ma nei prossimi dieci anni. Stefania Craxi: “Il mio Sì non è una vendetta contro la casta delle toghe” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 giugno 2022 Per Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e presidente della Commissione Esteri a Palazzo Madama, alla congiura del silenzio intorno ai referendum promossi da Lega e Partito radicale “ha contribuito l’orientamento del PD lettiano e della sua galassia, a riprova, ancora una volta, del rapporto perverso che è esistito ed esiste tra questi e certa magistratura”. Presidente Craxi perché domenica bisogna andare a votare sì ai referendum giustizia? Occorre farlo perché i cinque quesiti rafforzano le garanzie costituzionali dei cittadini e certamente aiuteranno il Parlamento, recependo il pronunciamento popolare, a muovere passi più coraggiosi sul fronte della riforma della giustizia, una riforma osteggiata da troppi anni. Il senso dei referendum non è certamente punitivo nei confronti delle toghe, come affermano erroneamente taluni, ma risponde alle sacrosante esigenze di un Paese civile e democratico che necessita di una giustizia “giusta”, efficiente e rapida nelle tempistiche di funzionamento. L’incertezza del diritto, come attendere vent’anni per una sentenza, si riflette negativamente sullo sviluppo economico del Paese ed è tra le ragioni per cui gli stranieri non investono in Italia. E poi ogni anno finiscono in carcere troppi innocenti, c’è un tema che ci trasciniamo da decenni, quello sulla custodia cautelare, che ha contribuito ad accrescere la sfiducia dei cittadini e delle categorie produttive nei confronti del sistema giudiziario. Come giudica il silenzio mediatico calato sull’iniziativa? Certamente il grave clima di instabilità internazionale e le notizie angoscianti che giungono dal fronte orientale non hanno giocato a favore della tornata referendaria. Da un lato l’attenzione dell’opinione pubblica, del mondo dell’informazione e dei soggetti istituzionali si è rivolta al conflitto in corso in Ucraina e alle conseguenze in termini economici e sociali che ne derivano, ma dall’altro, va detto, qualcuno ha pensato bene di cavalcare la disattenzione generale per far cadere un velo di silenzio sulla consultazione di domenica. A ciò si aggiunga che in questi anni c’è stato, in alcuni casi, un abuso dello strumento referendario e che troppo spesso lo stesso responso popolare è stato disatteso. Giusto per restare in tema, ricordiamo il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, nel 1987? Ma soprattutto, a questa congiura del silenzio, penso ai silenzi del servizio pubblico e dell’informazione di establishment, ha contribuito l’orientamento del PD lettiano e della sua galassia, a riprova, ancora una volta, del rapporto perverso che è esistito ed esiste tra questi e certa magistratura. Qual è il suo giudizio sul No di Pd e Cinque Stelle? Francamente non ne sono stupita, ma non voglio polemizzare, ricorrendo a facili argomentazioni sul tasso di giustizialismo o sull’assenza di garantismo che connota la storia stessa dei democratici e dei pentastellati. Preferisco piuttosto ribadire che la riforma della giustizia va nell’interesse del Paese, è un’esigenza istituzionale, sociale, che riguarda la vita dei cittadini. E chi non capisce questo, perde un’occasione irripetibile per mettere l’Italia al passo dei tempi. Il risultato plebiscitario dei Sì testimonierà questa voglia di cambiare, per questo mi permetto mestamente di suggerire a chicchessia di non esaltarsi troppo per l’eventuale mancato raggiungimento del quorum che, semmai, ci porrà il problema di come rivitalizzare un istituto di democrazia diretta previsto dalla Costituzione. La magistratura ha scioperato contro la riforma Cartabia, ora si oppone ai referendum. Che ne pensa di questo atteggiamento? Paradossalmente, il loro sciopero, che peraltro non ha avuto una grande adesione, è stato l’unico momento di attenzione verso i quesiti referendari. Ma i magistrati dovrebbero interrogarsi sui motivi per cui la loro importantissima funzione oggi venga guardata con timore misto a sfiducia dai cittadini in nome dei quali viene amministrata la giustizia? Il segnale che certamente qualcosa non funziona, che le incrostazioni hanno finito per danneggiare il lavoro onesto e faticoso di tanti uomini di legge che dedicano la vita agli ideali della giustizia. Non voglio tirare in ballo i guasti del passato, ma francamente non è più sostenibile che ogni volta si elevino barricate contro i progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario, evocando il rischio di violazione dei princìpi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura. I cittadini chiedono risposte, e loro tentano l’arrocco muovendo le loro pedine verso lo status quo. Referendum ‘giustizia giusta’: pensando alla vicenda drammatica di suo padre, lei ritiene ancora che il nostro Paese abbia una magistratura politicizzata e una politica asservita alla magistratura? Toccare i fili della casta magistrale non ha portato bene a Craxi e la predisposizione ad occuparsi di chi ha tentato di mettere mano all’ammodernamento del settore giustizia rappresenta una costante del nostro Paese. Certo, scontiamo ancora la soggezione della politica alla magistratura anche per debolezze e responsabilità diffuse della politica stessa, ma non si tratta di inseguire vendette, che sarebbero inutili oltre che dannose. Si tratta di garantire al Paese una giustizia degna di questo nome. Quanto a mio padre, parlano per lui i discorsi tenuti in Parlamento, gli appelli seguiti dal silenzio vile di una politica impaurita, quel suo insistere sul fatto che la giustizia politica è un germe maligno che inquina la democrazia e macera le istituzioni, che non serve né alla morale né al bene, mentre al contrario rappresenta il trionfo della illegalità, dell’immoralità e dell’ingiustizia. Sono passati trent’anni, e siamo ancora, drammaticamente, fermi allo stesso punto. “Quesiti pericolosi: è folle limitare il carcere preventivo per i criminali seriali” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 11 giugno 2022 L’ex presidente del Tribunale di Bologna Francesco Maria Caruso è appena andato in pensione, dopo aver firmato la storica sentenza di condanna, in primo grado, per il presunto quinto esecutore della strage del 2 Agosto. Dalle vacanze spiega perché “alcuni dei quesiti referendari sono irrilevanti, altri pericolosi”. “La separazione delle funzioni di fatto apre le porte alla separazione delle carriere senza le dovute modifiche costituzionali. Si creano due ordini separati e incomunicabili sotto un unico organo di autogoverno. Se non c’è osmosi di tecniche, esperienza, cultura c’è il rischio che il pm perda autonomia e a lungo andare finisca sotto il controllo politico. La separazione delle carriere è ormai avversata in tutta Europa, basti vedere le critiche della Commissione Europea alla Polonia dove il pm non è più indipendente. Io sono dell’idea che un magistrato ha un’esperienza completa se è stato requirente e giudicante”. Ha una lunga carriera di giudice alle spalle, non si è mai sentito in imbarazzo a trovare suoi colleghi nei panni dell’accusa? “No, mai, anzi è la comune formazione che ci permette di non sentirci intimiditi”. Della custodia cautelare c’è stato un abuso? “Limitare questo strumento è una follia. Non potremo più mettere in carcere spacciatori, ladri d’appartamento, bancarottieri seriali. Chi va in carcere preventivo per pericolo di recidiva è chi ha alle spalle pagine e pagine di precedenti. Contro queste persone la prospettiva della pena non è un deterrente, perché sappiamo che con la continuazione del reato dopo il terzo o quarto episodio ottieni la stessa condanna e allora l’unico modo per evitare che commetta altri reati è il carcere. È assurdo che quest’abrogazione venga proposta da una forza politica che ha sempre fatto di parole come “ordine” e “legalità” i suoi slogan”. La legge Severino ha prodotto casi di politici decaduti dopo la condanna in primo grado e assolti poi in Appello... “Un Paese come il nostro con alti tassi di abusi e corruzione ha bisogno di una legge simile. E poi il quesito propone un’abrogazione totale anche nei casi di incandidabilità per sentenze definitive. Dovremmo capire che se ti esponi in politica i magistrati non ti vengono dietro perché hanno dei doppi fini ma se ci sono degli elementi per indagare. Non siamo un Paese cristallino e trasparente, bisogna prenderne atto e non possiamo lasciare il Paese in mano ai corrotti”. Anche la magistratura però ha mostrato i suoi lati meno edificanti... “I magistrati hanno fatto errori ma questa non può essere una strumentalizzazione per un liberi tutti. Sembra che alcune forze sociali stiano approfittando della scarsa serietà di una parte di magistratura nel gestire le carriere per ridimensionare il controllo di legalità. Come dire. “avete sbagliato quindi non potete giudicarci”. Il cortocircuito tra giustizia civile e penale cancella la violenza sulle donne di Giulia Merlo Il Domani, 11 giugno 2022 L’assassino di Lidia Miljkovic aveva appena ricevuto l’affido congiunto dei figli, nonostante fosse stato condannato per violenza. La ministra Cartabia ha chiesto all’ispettorato di avviare accertamenti sul caso, per capire se ci siano stati errori giudiziari sul caso. Come sia stato possibile che gli sia stato comunque concesso in sede di separazione l’affido condiviso dei figli minori è tristemente spiegabile: nel 96 per cento dei casi i tribunali ordinari non acquisiscono gli atti penali e non ne tengono conto per decidere sull’affido. Attualmente, sono ferme al Senato due proposte di legge che dovrebbero colmare questa lacuna. Il primo prevede di rafforzare le misure di prevenzione in caso di violenza domestica e nei confronti delle donne e rende obbligatorio l’ascolto del minore. Il secondo prevede invece che i padri autori di violenza domestica non siano concessi gli incontri nemmeno protetti con i figli. Il femminicidio di Vicenza è l’ennesima, tragica dimostrazione di come il sistema giudiziario italiano non preveda ancora strumenti adeguati a difendere le donne. L’omicidio di Lidia Miljkovic ha avuto come antefatto proprio uno dei cortocircuiti più comuni: la mancata comunicazione tra processo civile e processo penale. Zlatan Vasiljevic ha ucciso l’ex moglie Lidia Miljkovic, poi ha sparato anche alla nuova compagna Gabriela Genny Serrano e infine si è suicidato. L’omicidio della ex è avvenuto dopo che la donna aveva accompagnato i due figli a scuola: vittima e assassino si erano dati un appuntamento, si ipotizza anche per discutere di questioni legali. Il nuovo compagno della donna, Daniele Mondello, su Repubblica infatti raccontato che “tre settimane fa è stata emessa la sentenza di separazione. Stabiliva la cessazione dell’affido esclusivo dei figli di 13 e 16 a Lidia. Per ogni cosa bisognava mediare con il padre: scuola, tempo libero, medicine”. Eppure, Zlatan Vasiljevic era già stato riconosciuto come un violento. Nel 2019 era stato arrestato ad Altavilla, dove la coppia viveva, dopo che la donna lo aveva denunciato per averla ripetutamente picchiata. Poi nei suoi confronti era stato emesso un ordine di non avvicinamento all’ex moglie, che nel frattempo si era trasferita in un altro paese insieme ai figli. Secondo quanto risulta dagli atti penali, i maltrattamenti erano cominciati nel 2011 e avvenivano anche davanti ai due minori. Il giudice, nel disporre l’allontanamento dell’uomo, aveva elencato alcuni episodi di violenza: tra questi Vasiljevic aveva afferrato “per il collo” la moglie, e l’aveva “spinta contro il frigorifero della cucina e minacciandola con un coltello”. Da ubriaco l’aveva aggredita a letto stringendole il collo “come per strangolarla”. Il giudizio finale del Gip era che “La perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcol e alla sua incapacità o comunque alla mancanza di volontà di controllarsi pure in presenza dei figli minori, consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza”. La condanna in primo grado e le misure cautelari, però, sarebbe stata diminuita e sospesa in appello, perchè l’uomo aveva presentato una attestazione di aver frequentato un corso per recupero uomini maltrattanti. Come sia stato possibile che gli sia stato comunque concesso in sede di separazione l’affido condiviso dei figli minori è tristemente spiegabile: nel 96 per cento dei casi di separazione con figli in cui sono presenti segnali di violenza domestica, i tribunali ordinari non acquisiscono gli atti penali e non ne tengono conto per decidere sull’affido. Il dato è stato elaborato da una recente analisi statistica svolta dalla commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio,che ha fotografato la cecità del nostro sistema giudiziario: nel 57,3 per cento dei casi, nelle verbalizzazioni dell’udienza presidenziale civile, sono presenti solo generici richiami senza approfondimenti sulle condotte di violenza domestica. Solo nel 15,6 per cento dei casi i giudici hanno approfondito le allegazioni di violenza presenti tra gli atti del fascicolo. Questo, nel caso di Lidia Miljkovic, ha significato l’obbligo di rincontrare l’ex marito violento, che poi si è trasformato poi nel suo omicida. Questo gap legislativo è stato colmato dalla riforma dell’ordinamento civile, approvato a fine anno scorso e di cui ora sono in corso di stesura i decreti attuativi. La riforma, infatti, prevede l’obbligo di scambio di atti tra tribunali civili e penali e strumenti di raccordo in caso di violenza sulle donne e maggiori strumenti perchè il giudice possa assumere provvedimenti nell’interesse dei minori. La legge che non c’è - La relazione della commissione sul femminicidio ha acceso un faro su questa zona grigia del raccordo tra sistema civile e penale e ha posto un problema sul tema del principio della bigenitorialità, nel caso in cui venga interpretato come il diritto del padre di frequentare i propri figli sempre e comunque, anche in caso di violenza domestica documentata. Attualmente, sono ferme al Senato due proposte di legge che dovrebbero colmare questa lacuna. Il primo è in discussione in commissione Giustizia, a firma delle tre ministre della Giustizia, Marta Cartabia, dell’Interno, Luciana Lamorgese e delle Pari opportunità, Elena Bonetti, e prevede di rafforzare le misure di prevenzione in caso di violenza domestica e nei confronti delle donne e rende obbligatorio l’ascolto del minore. Il secondo, che ha come prima firmataria la senatrice del Pd, Valeria Valente, che è anche presidente della commissione sul femminicidio, prevede invece che i padri autori di violenza domestica non siano concessi gli incontri nemmeno protetti con i figli. Valente è intervenuta sul caso di Vicenza, dicendo che “se, come sembra, il motivo per cui si è protetta poco Lidia Miljkovic è per privilegiare i rapporti del marito Zlatan Vasiljevic con i figli, è stato fatto un grandissimo errore. Solo formazione ed esperienza specifica possono salvarci da un giudizio benevolo affrettato che può costare la vita alle donne”. La ministra Cartabia ha chiesto all’ispettorato di avviare approfondimenti sul femminicidio di Vicenza e su quello avvenuto a Sarzana nei giorni precedenti. Il primo passo sarà la richiesta di una relazione ai vertici degli uffici giudiziari, per capire come sia stato possibile che uomini con passati violenti siano stati lasciati nelle condizioni di nuocere ancora. Come il killer di Sarzana: chi sono i 40mila condannati ma liberi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 giugno 2022 Sono i cosiddetti “liberi sospesi”, condannati definitivi a pene sotto i 4 anni. In attesa della risposta restano sospesi nel limbo di chi né va in carcere né inizia a scontare la pena alternativa. Magari Sarzana fosse un caso isolato. Magari i contingenti meandri burocratici - che ora il Tribunale di Massa e l’Ispettorato del Ministero cercano di ricostruire per capire come mai non si fosse nemmeno iniziato a mettere in esecuzione la condanna definitiva, tre mesi fa, a 3 anni per rapina di Daniele Bedini (rimasto perciò libero e tre giorni fa assassino poi di Nevila Pjetri e forse anche di Carlo Bertolotti) - fossero un meteorite piovuto sul pianeta giustizia. Invece è solo la scia di una stella cometa (di colpo visibile) di un ordinario firmamento di luci fioche in un limbo che nessuno sa nemmeno quantificare con esattezza tra le 40.000 e le 60.000 persone se si ragiona sulle iscrizioni a ruolo, ma probabilmente quasi il doppio se si considerano quelle ancora persino da registrare. Sono i cosiddetti “liberi sospesi”, cioè quei condannati definitivi a pene sotto i 4 anni, che entro 30 giorni dall’emissione dell’ordine di carcerazione con contemporanea sospensione (primo passaggio ancora nemmeno espletato nel caso di Sarzana), possono chiedere di scontare la condanna non in carcere ma in una misura alternativa alla detenzione come la semilibertà, i domiciliari, o l’affidamento in prova ai servizi sociali; e che però - per lo spaventoso imbuto creato sia dalla farraginosità logistica dei passaggi di fascicoli, sia dal ridotto organico degli appena 230 nevralgici ma sempre snobbati magistrati di Sorveglianza, nonché dai vuoti negli Uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe) - in attesa della risposta restano sospesi nel limbo di chi né va in carcere né inizia a scontare la pena alternativa. Con due micidiali effetti opposti. Se infatti la persona condannata è anche pericolosa, può accadere appunto che il “libero sospeso” ricompia reati, magari ancor più gravi. Ma a fronte di questi condannati miracolati dall’inefficienza statale, sfugge l’opposta sorte di coloro per i quali lo Stato mette in esecuzione la pena a distanza anche di molti anni dalla condanna e di ancora più anni dal reato commesso: cioè quando magari quella ha trovato un lavoro, si è fatta una famiglia, ha insomma ritrovato un equilibrio che paradossalmente viene sbriciolato proprio dalla tardiva espiazione della pena, in una lotteria (nella casualità che spinge o frena un fascicolo piuttosto di un altro) che fa strane dei principi costituzionali dell’uguaglianza (articolo 3) e della finalità rieducativa della pena (articolo 27). Senza nascondersi che ormai, se pure per miracolo in uno schioccare di dita tutte le decine di migliaia di “fantasmi” in attesa venissero valutate a monte, a valle ciò manderebbe in tilt sia le già stracolme carceri (dove finirebbero molte migliaia di loro) sia i già sguarniti uffici dell’esecuzione esterna (alla quale sarebbero ammessi molte altre migliaia di loro). Su questo tema, ben presente solo a pochi giuristi (ancora un mese fa se ne era profeticamente parlato al Festival della Giustizia di Modena) e a ancor meno politici (come la radicale Rita Bernardini), il cantiere normativo porta una cattiva e una buona notizia. La cattiva è che, per precisi vincoli europei, i 16.500 rinforzi dell’”Ufficio del processo” finanziati dai soldi del Pnrr possono andare a beneficio solo degli uffici di cognizione (cioè Tribunali e Corti di Appello), e non anche dei giudici di Sorveglianza. La buona è invece che, oltre ad agire sulla informatizzazione per evitare tempistiche di trasmissione ancora da piccione viaggiatore, una parte della legge delega Cartabia trasformerà alcune “misure alternative”, oggi di competenza del Tribunale di Sorveglianza dopo i tre gradi di giudizio, in “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi” direttamente irrogabili dal giudice della cognizione già al momento della sentenza di merito. La pena detentiva inflitta entro i 4 anni potrà cioè essere sostituita subito dal giudice con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; quella sotto i 3 anni anche con il lavoro di pubblica utilità; quella sotto 1 anno anche con la pena pecuniaria. Queste pene sostitutive non potranno però essere congelate (come oggi le normali pene entro i 2 anni) dalla sospensione condizionale, e potranno essere applicate solo a condizione che favoriscano la rieducazione del condannato e non vi sia pericolo di recidiva. Trani (Bat). Protesta in carcere contro il sovraffollamento di Paolo Pinnelli Gazzetta del Mezzogiorno, 11 giugno 2022 Lettera al ministro Cartabia: “Vogliamo una vita dignitosa”. Hanno percosso le sbarre con quel che avevano in cella: pentole, posate, scarpe, oggetti di fortuna. La “battitura” è il linguaggio pacifico della protesta dei detenuti. Battono per farsi sentire, per fare rumore, per sollecitare risposte. Ieri mattina a Trani a mettere fine alla “battitura” è infine giunto il Garante regionale dei detenuti, Piero Rossi, al quale è stata consegnata una lettera scritta a mano dai reclusi. In linea con il malumore che va crescendo in tutti i penitenziari d’Italia, i detenuti tranesi chiedono condizioni di vita migliori e una reale prospettiva di “riparazione”. I mali del sistema carcerario italiano sono ben noti. E sostanzialmente irrisolti. Sovraffollamento, carenza di personale penitenziario, di educatori e di psicologi, malasanità: a Trani - per fare un esempio - la postazione odontoiatrica non funziona da due anni. C’è poi il grande tema delle misure alternative alla reclusione e qui i detenuti sono durissimi. A loro dire - come d’altronde si legge nella lettera - i magistrati di Sorveglianza avrebbero le loro colpe perché “tendono a tenere le carceri sovraffollate”. Il documento scritto nel carcere pugliese e consegnato al Garante, è inviato allo stesso magistrato di Sorveglianza al direttore della casa circondariale, ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al ministro Marta Cartabia. La “battitura” di ieri si nutre anche di altre tensioni. I tempi della giustizia, in primo luogo, quel periodo infinito per la fissazione delle camere di consiglio, con attese anche di un anno intero. I detenuti, ancora, invocano la garanzia del rispetto dei 45 giorni per i permessi premio, viceversa non rispettata. C’è anche un contenuto marcatamente politico nella protesta che va montando negli istituti italiani. Il riferimento è agli imminenti referendum: “Si parla della tanto acclamata riforma della giustizia, leggi che servono solo a coprire il malfunzionamento della giustizia e della polizia. A nulla servono per il reinserimento dei detenuti e per risolvere il problema del sovraffollamento”. Da Trani l’appello a Cartabia di “rendere il carcere più dignitoso e di garantire il reinserimento sociale con l’applicazione di nuove leggi che possano ampliare la sfera delle misure alternative, disciplinando la discrezionalità dei magistrati di sorveglianza”. Al di là delle richieste e delle rivendicazioni, come annota il Garante Piero Rossi, la dolente lettera dei detenuti tranesi rilancia anche l’amarezza accumulata nei lunghi mesi della pandemia. “Chiediamo di riparare alla sofferenza portata dal Covid che ci ha privato di due anni degli affetti familiari, senza colloqui con le famiglie”. In ultimo, la popolazione carceraria italiana attende il provvedimento sull’innalzamento a 75 giorni della liberazione anticipata, provvedimento bloccato in Parlamento da circa un anno e mezzo. Lecce. Nel carcere i detenuti pensano al futuro lavorativo con il progetto Milia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2022 Il progetto è finanziato tramite il Pon Inclusione, per un valore complessivo di 750mila euro, e mette in rete gli istituti penitenziari di Lecce e Sulmona. Formarsi e lavorare all’interno del carcere anche per riscrivere il proprio futuro fuori dal penitenziario. Nella casa circondariale di Lecce sta prendendo forma il progetto Milia, Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale, con la nascita di una start up per la produzione di manufatti in legno che andranno a soddisfare, attraverso il lavoro degli stessi detenuti, il fabbisogno nazionale di arredi carcerari. Il progetto è finanziato tramite il Pon Inclusione, per un valore complessivo di 750mila euro, e mette in rete gli istituti penitenziari di Lecce e Sulmona. Per la sua realizzazione, è stata sottoscritta apposita convenzione di sovvenzione tra la Direzione Generale per la Coesione del Ministero della Giustizia e la Regione Puglia. Nei giorni scorsi, è stata completata la prima fase del progetto: un gruppo di operatori del Centro per l’impiego di Lecce e dell’Ufficio coordinamento Servizi per l’impiego dell’Ambito di Lecce di Arpal Puglia ha proceduto alla presa in carico di 127 detenuti attraverso colloqui individuali finalizzati a mettere in luce le esperienze, i profili psico-sociali e il potenziale di ciascuno. “L’obiettivo del progetto è il recupero e il rafforzamento delle competenze delle persone detenute e al tempo stesso l’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro”, spiega l’assessore alla Formazione e Lavoro della Regione Puglia, Sebastiano Leo. “Il tasso di recidiva è di gran lunga inferiore tra chi, durante il periodo di esecuzione della pena, ha svolto attività formative e lavorative finalizzate al reinserimento nel tessuto produttivo”, sottolinea. “Incentivare la dimensione lavorativa diventa, non soltanto un elemento di rieducazione, ma anche un’alternativa per coltivare il riscatto sociale ed evitare che, successivamente, si ricorra al crimine come mezzo di sussistenza”, conclude. Forlì. Nasce l’impresa sociale Altremani al servizio del carcere Corriere di Romagna, 11 giugno 2022 Si è costituita ieri, venerdì 10 giugno, la nuova impresa sociale Altremani srl, nata per operare esclusivamente a favore della sicurezza sociale del territorio provinciale di Forlì Cesena, attraverso il lavoro dei detenuti ed ex-detenuti della Casa Circondariale di Forlì e attraverso le attività educative finalizzate a diffondere la cultura della legalità e della tolleranza, cercando di salvaguardare i giovani dal pericolo di esperienze dirette di esecuzione penale. È la prima società che nasce in provincia con l’unico scopo di lavorare sui temi dell’esecuzione penale. 20 soci fra professionisti e imprenditori: Davide Saputo (Cepi spa), Mauro Fabbrica, Sabina Spazzoli, Massimo Balzani (Servizi Industriali), Daniele Versari (Estados Cafè srl), Luigi Mondardini (Mareco Luce srl), Simone Sassi (Sassisaldature), Marco Mariani (ATI di Mariani srl), Davide Fiumi (GENCOM srl), unitamente a AT.ED.2 srl, CRD Lamiere srl, Mima Lab srl, Market Development srl, Eurogames srl, Casta srl, Studio Pragma srl, Star Grafic srl, Ginestri Arredamenti Sas, Fides srl, Grafiche MDM srl hanno deciso di associarsi per costituire un nuovo ente del terzo settore, senza finalità di lucro, capace di fare innovazione, welfare e sicurezza sociale. L’idea della società nasce dalle imprese committenti che già operano in carcere, unitamente all’ente di formazione Techne. Dal 2006 ad ora infatti sono stati realizzati vari laboratori: assemblaggio, saldatura, falegnameria, produzione carta e produzione shopper che rappresentano un’esperienza di grande successo sia in termini occupazionali che economici, garantendo nel tempo a oltre 100 detenuti regolari contratti di lavoro. Dal laboratorio Altremani - Neppure la scelta del nome della società è causale: l’impresa sociale, infatti, prende il nome dal Laboratorio Altremani, nato appunto all’interno del carcere nel 2006 grazie al lavoro di rete fra Carcere, Provincia, Mareco Luce srl, Ispettorato del Lavoro, Organizzazioni Sindacali e Techne, che in questi 16 anni ne ha curato la regia, ed intende portare avanti e sviluppare le numerose attività che hanno permesso ai detenuti di imparare un mestiere e riscoprire il valore del lavoro. La numerosità dei soci di Altremani dimostra ancora una volta come l’agire in rete sia per questo territorio una preziosa ricchezza, capace di porsi importanti obiettivi e di raggiungere grandi risultati. “I laboratori in carcere - spiega Davide Saputo, socio della società - sono stati gestiti negli anni da diverse cooperative sociali che hanno dedicato una piccola parte delle loro attività al lavoro in carcere. La nuova impresa sociale invece - continua Saputo - nasce con l’obiettivo di dedicarsi unicamente al carcere, e all’esecuzione penale in genere, e questo rappresenta un punto di svolta e di novità per l’economia carceraria e per il nostro territorio”. La società da statuto esercita, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, principalmente attività mirate all’inserimento e reinserimento nel mercato del lavoro di persone in esecuzione penale interna (presso la Casa Circondariale di Forlì) o esterna al fine di fornire alle persone un’opportunità di lavoro stabile e duraturo per la vita successiva al fine pena. “Obiettivo di Altremani - chiarisce Daniele Versari, presidente dell’impresa sociale - è contribuire alla sicurezza sociale del nostro territorio, favorendo la rieducazione alla legalità e alle regole della società civile dei detenuti”. “Un grande grazie a questa nuova impresa - sottolinea Palma Mercurio, direttrice della Casa Circondariale di Forlì - e a tutti coloro che hanno creduto in questo progetto, innovativo e dall’animo fortemente sociale, capace di mettere al centro i detenuti, il loro lavoro, offrendo alle persone la possibilità di un vero riscatto sociale. Spesso il cittadino chiede allo Stato un carcere custodiale e repressivo - continua Palma Mercurio - non sapendo che la chiave per scongiurare i pericoli di recidiva è proprio il lavoro, unico mezzo di vera riabilitazione e rieducazione alla legalità e alle regole della società civile”. Milano. Banda larga, mancano operai per gli scavi. “Ora impieghiamo i carcerati” La Repubblica, 11 giugno 2022 Il gruppo Open Fiber ha aperto 538 cantieri e cerca personale per cablare l’Italia, perfino tra i detenuti. I primi quattro vengono da Bollate, ma l’azienda sta cercando di siglare accordi per coinvolgerne altri. Open Fiber spinge sulla fibra con l’obiettivo di diventare “il sistema nervoso del Paese”. Così Mario Rossetti, ad del gruppo, che ha assunto le deleghe lo scorso 3 dicembre e da allora non si è mai fermato per recuperare i ritardi accumulati dalla passata gestione, a iniziare dalle aree bianche, ovvero quelle a fallimento di mercato. Le gare Infratel del 2017 prevedevano che Open Fiber raggiungesse la copertura entro il 2020, ma ora il gruppo prova a recuperare il tempo perso. “In pochi mesi abbiamo chiuso 538 cantieri per la fibra Ftth, il 20% di quanto fatto negli ultimi quattro anni”, ha detto Rossetti, ricordando come la struttura della concessione che richiede l’utilizzo del codice degli appalti e le difficoltà burocratiche iniziali abbiano pesato sull’avvio dei lavori. Ma ora per il numero uno di Open Fiber, il rischio di non rispettare i piani “non dipende né dai soldi né dalla società, se oggi c’è un tema che riguarda Open fiber è quello del lavoro: avere la capacità di mettere a terra tutto il lavoro che abbiamo, considerando anche i tempi previsti per cablare le aree grigie che sono a scadenza del 2026. È un problema che riguarda l’intero Paese”. A gennaio il gruppo che dalla sua nascita nel 2017 ha già fatto 4 miliardi di investimenti per cablare 14 mila case, a fine anno ha ricevuto finanziamenti per 7,2 miliardi, e altre linee, flussi di cassa e risorse per arrivare a investire fino a 11 miliardi di euro. Insomma anche Tim, e l’eventuale rete unica rischiano di impantanarsi sulla mancanza di manodopera. “Siamo pronti ad assumere domani 1.500 persone sulle aree bianche, e il prossimo anno con le aree grigie avremmo bisogno di 8 mila addetti - ricorda Rossetti - abbiamo formato una nuova società, chiesto a tutti i fornitori, siglato un accordo con Autostrade per l’Italia e ci siamo perfino rivolti alle carceri, per sondare e studiare la possibilità di reinserire i detenuti e farli lavorare nei nostri cantieri. Al momento già quattro detenuti del carcere di Bollate sono al lavoro sui cantieri di Open Fiber, la società sta studiando la questione con i vari ministeri competenti”. Quanto ai cantieri nelle grandi città, “sulle aree nere non siamo in ritardo - ha detto Rossetti, ricordando che per questo la società “ha deciso di spostare risorse dalle aree più ricche verso le altre”. Ancona. Dall’orto del carcere di Barcaglione ai banchi del Mercato Dorico anconatoday.it, 11 giugno 2022 Il miele e il formaggio di Barcaglione saranno i protagonisti dell’iniziativa di mercoledì 15 giugno quando al Mercato Dorico di via Martiri della Resistenza. Il lavoro nei campi come forma di riscatto. La possibilità di imparare un mestiere e la soddisfazione di realizzare prodotti genuini apprezzati dai consumatori. È un esempio a livello nazionale il progetto del Carcere di Barcaglione dove circa 60 detenuti si occupano, in forma volontaria, dell’orto sociale a fianco all’azienda agricola dove si producono olio extravergine di oliva dall’oliveto, miele dalle arnie e, ultimamente, anche formaggi e latte con un gregge di 20 pecore e il caseificio interno. E proprio il miele e il formaggio di Barcaglione saranno i protagonisti dell’iniziativa di mercoledì 15 giugno quando al Mercato Dorico di via Martiri della Resistenza ci sarà uno stand dedicato alla vendita diretta di questi prodotti. Un esempio illuminato di agricoltura sociale, dove il lavoro in campagna si arricchisce di finalità educative e di integrazione. Coldiretti ha aderito fin da subito a questa iniziativa attraverso Federpensionati. Antonio Carletti, presidente degli “over” della provincia di Ancona, collabora da anni con Sandro Marozzi, l’agronomo di Barcaglione, ed è il tutor dell’orto. Ogni giorno insegna ai suoi ragazzi i rudimenti del mestiere, gli accorgimenti da adottare nella coltivazione all’aperto e in serra. Qui ogni anno si producono quintali di frutta e verdura che vengono divisi equamente tra chi ha lavorato. Le eccedenze, nel corso della pandemia, sono state destinate a famiglie in difficoltà proprio attraverso i mercati di Campagna Amica. Le Marche non sono nuove a questa tipologia di agricoltura etica. La nostra è la prima regione d’Italia per numero di realtà iscritte all’Albo dell’agricoltura sociale con ben 70 agricole che tra le attività collaterali prevedono inserimenti lavorativi, servizi socio sanitari. In questo caso parliamo di un’attività che per i detenuti può trasformarsi in un’opportunità occupazionale e, di conseguenza, il reinserimento sociale una volta espiata la pena. I prodotti del carcere di Barcaglione saranno presenti al Mercato Dorico anche mercoledì 29 giugno. Roma. “Stabat mater”, il cortometraggio sui detenuti proiettato in Vaticano di Gennaro Scala Corriere della Sera, 11 giugno 2022 Il cortometraggio di Giuseppe Tesi, girato nella casa circondariale di Pistoia, in piena pandemia con gli attori Melania Giglio e Giuseppe Sartori e dieci reclusi. È un percorso di fede e di speranza, ma anche il racconto crudo di un microcosmo che appare come cartina di tornasole della società. È il cortometraggio “Stabat mater” del regista Giuseppe Tesi, girato nella casa circondariale di Pistoia in piena pandemia. Ha viaggiato come la sua storia, l’opera di Tesi, lungo tutta la Penisola. I volti intensi dei due attori professionisti, Melania Giglio e Giuseppe Sartori, e quelli potenti di una decina di detenuti della struttura penitenziaria toscana, hanno toccato prosceni d’eccezione, da nord a sud. L’ultima tappa è stata in Vaticano, all’interno della Filmoteca della Santa Sede, dove “Stabat mater” è stato proiettato alla presenza di Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e della senatrice Paola Binetti, vicepresidente della Commissione straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani. “È stato un percorso lungo e difficile - ha affermato il regista Giuseppe Tesi - Tutto è nato dall’idea di un laboratorio teatrale iniziato proprio all’interno della casa circondariale di Pistoia nel 2018”. Da quello è nata l’idea del film. “Molte sono state le difficoltà per i permessi e il lavoro è stato interrotto per la pandemia” aggiunge Tesi. Ma quando un progetto è forte e valido, supera qualunque impedimento. Petrarca diceva che nelle opere si celava tutto quello che aveva colpito l’autore. I suoi trascorsi, le sue muse. L’incedere del film ricorda Pasolini e arriva a volte come un pugno in pieno petto. Tratto dal dramma “Madri” della poetessa Grazia Frisina, “Stabat mater” di Electra Teatro arriva intenso, diretto. Il racconto si sviluppa in maniera ritmica, ma non lineare. Sono sussulti emotivi che sottendono all’antonomasia del vero. Laddove raggiunge il diaframma che lo divide dal reale. La madre di tutte le madri, la “mamma universale” e il suo dolore per il figlio morto sono al centro di una narrazione, a tratti, anche verbalmente violenta. Trentatrè minuti in cui il racconto drammatico viene intervallato dalle parole di detenuti che raccontano la loro storia compiendo il percorso inverso, dal reale al vero. “Il carcere è un passaggio di consapevolezza, la vita mi ha insegnato che ci sono anche realtà peggiori” dice uno dei detenuti che hanno raccontato la loro storia davanti alla telecamera. È l’apertura alla speranza. È guardare oltre le mura, oltre le sbarre, oltre quel microcosmo sociale. Migranti. Primo accordo Ue per la redistribuzione volontaria. Al via la piattaforma di Francesca Basso Corriere della Sera, 11 giugno 2022 Pronti ai ricollocamenti 12 Paesi tra cui Francia e Germania. La commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson: “Nei prossimi giorni la presidenza francese e la Commissione Ue organizzeranno un incontro della piattaforma di solidarietà”. Una delle priorità della Francia alla guida del Consiglio dell’Ue era far progredire il dossier immigrazione. E non a caso la presidenza francese e la Commissione Ue parlano di “accordo storico”. Venerdì a Lussemburgo un passo avanti è stato fatto. I ministri dell’Interno dei 27 Paesi Ue hanno raggiunto a maggioranza un primo accordo politico per la ridistribuzione volontaria dei migranti che arrivano via mare, una sorta di “accordo di Malta” ma allargato. La solidarietà è obbligatoria e può avere due forme: la ricollocazione dei richiedenti asilo o il sostegno finanziario ai Paesi in prima linea, ovvero Italia, Grecia, Spagna, Cipro e Malta. L’accordo è stato raggiunto con il voto favorevole di 15 Stati membri e in 12 hanno dato la disponibilità ad accogliere i migranti. Tra i contrari Ungheria, Austria e Romania che ha fatto presente l’impegno rilevante nell’accoglienza dei profughi ucraini. La Francia ne prenderà 3 mila, la Germania 3.500. L’intesa prevede una ricollocazione di 10 mila migranti all’anno, anche se il ministro dell’Interno francese, Gerald Darmanin, non ha confermato il numero in conferenza stampa al termine del consiglio Affari interni perché formalmente non sono ancora stati decisi e infatti non compiono nel documento finale. A giorni sarà operativa la piattaforma di solidarietà che sarà messa a punto dalla Commissione Ue e dalla presidenza francese, in cui saranno indicate le quote che gli Stati membri metteranno a disposizione e i migranti che dovranno essere ricollocati. “Nei prossimi giorni la presidenza francese e la Commissione Ue organizzeranno un incontro della piattaforma di solidarietà per dare espressione concreta a questo storico accordo”, ha annunciato la commissaria Ue agli Affari interni, Ylva Johansson. L’accordo è doppio: solidarietà insieme a responsabilità. Gli Stati di primo arrivo sono tenuti allo screening e alla registrazione nell’Eurodac, il dabatabase delle impronte per richiedenti asilo e migranti irregolari. Obiettivo, su cui insistono Francia, Germania e i Paesi Nordici, limitare i movimenti secondari, cioè gli spostamenti non autorizzati dei migranti dai Paesi di primo ingresso dove dovrebbero fermarsi verso altri Stati Ue. Con la registrazione potranno essere rimpatriati verso il Paese di primo approdo, in attuazione del regolamento di Dublino. Questo però potrà creare qualche complessità ai Paesi come l’Italia. Il governo italiano è soddisfatto: “È una giornata importante perché è la prima volta che si parla effettivamente del principio di solidarietà unito al principio di responsabilità. Diversamente da quello che era l’accordo di Malta, abbiamo avuto da parte di numerosi Stati l’adesione a questo nuovo meccanismo”, ha commentato la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. “Siamo fiduciosi che ci sarà un aspetto positivo anche per le politiche future dell’immigrazione”, ha aggiunto. Nella dichiarazione politica si specifica che tra i criteri comuni da seguire “le ricollocazioni dovrebbero favorire principalmente gli Stati membri che devono affrontare gli sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e lungo la rotta atlantica occidentale, ma potrebbero applicarsi anche ad altre situazioni tenendo conto dell’attuale situazione di Cipro o di eventuali sviluppi nelle isole greche”. Inoltre “ciascuno Stato membro contribuente dovrebbe presentare un impegno di ricollocazione sulla base di una quota target indicativa di ricollocazioni, basata sulla popolazione e sul Pil, pur mantenendo la possibilità di superare tale quota”. Migranti. Svolta europea: chi non aiuta nella redistribuzione dovrà pagare di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 giugno 2022 Passa per la prima volta il principio della solidarietà obbligatoria. Sarà redistribuito anche chi emigra per motivi economici. Non saranno numeri ad alto impatto sull’Italia ma è il principio, per la prima volta accolto dalla Ue, della condivisione della gestione dei flussi migratori da parte di tutti gli Stati membri a rendere “storico” l’accordo raggiunto ieri, su proposta della presidenza francese a Lussemburgo, dai ministri dell’Interno dei 27. Gli sbarchi non saranno più solo questione dei cinque Paesi del Mediterraneo approdo naturale di chi arriva via mare: i migranti verranno redistribuiti con un meccanismo automatico tra i Paesi (al momento 12) che accetteranno di accoglierli, mentre gli altri dovranno comunque dimostrare la loro “solidarietà” (per questo definita obbligatoria e non volontaria) pagando un contributo finanziario ai Paesi che sostengono l’onere della prima accoglienza. Tra chi è pronto ad accogliere Francia, Germania, Svezia, ma anche Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania, Croazia. “L’ok al meccanismo di solidarietà è un accordo storico”, dice la commissaria europea agli Affari Interni, la svedese Ylva Johansson. Ma non solo: a finire per la prima volta nero su bianco su un documento condiviso dall’Europa è il concetto di search and rescue, l’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo da cui proviene la maggior parte delle persone che sbarcano in Italia. E che adesso, senza più alcuna distinzione, potranno entrare nel meccanismo di redistribuzione finora riservato solo ai rifugiati. Così era previsto nel Patto di Malta, raggiunto nel 2019 da Luciana Lamorgese che con i suoi 5 aderenti ha aperto la strada al ben più ampio accordo, che avrà validità di un anno e si propone di redistribuire una cifra indicativa di 10.000 persone. Per l’Italia (che nel 2022 ha visto sbarcare oltre 21.000 persone con un incremento del 30 % sullo scorso anno) potrebbe significare 3.000 ricollocamenti. Numeri che non incidono in maniera profonda sul sistema di accoglienza. Ma c’è un principio di solidarietà che, per la prima volta, passa, come fortemente richiesto la scorsa settimana a Venezia dai 5 Paesi del Mediterraneo. Dice la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Ora l’accordo di Malta è a livello europeo. È un avanzamento di rilevanza strategica verso una politica europea di gestione condivisa dei flussi migratori equilibrata ed ispirata ai principi di solidarietà e di responsabilità. L’intesa raggiunta favorisce principalmente gli Stati membri che devono affrontare gli sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo”. I dettagli tecnici dell’operazione saranno messi a punto nei prossimi giorni con una piattaforma informatica ad hoc per la redistribuzione automatica di chi sbarca. Ma c’è anche l’altra gamba dell’accordo, quella della responsabilità sul controllo delle frontiere. L’Italia e gli altri Paesi di approdo dovranno garantire lo screening e la registrazione puntuale di chi arriva (completa di impronte digitali) sul sistema Eurodac, uno strumento per gestire richieste di asilo e rimpatri ma anche per limitare i cosiddetti movimenti secondari in Europa. Ma anche in questo caso viene riconosciuto l’ingresso di chi viene soccorso in mare. Migranti. Nel Mediterraneo aumentano i morti e le tragedie di Marta Rizzo La Repubblica, 11 giugno 2022 Lo rivela la rappresentazione grafica dei dati dell’UNHCR. Sebbene il numero di rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa sia diminuito rispetto al 2015, le traversate stanno diventando sempre più fatali. Questi i dati che emergono dalla Rappresentazione grafica pubblicata oggi dall’UNHCR, Agenzia Onu per i Rifugiati. Dopo il picco del 2015, quando più di un milione di rifugiati e migranti hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, il numero delle persone che affrontano questo tipo di traversate ha registrato una tendenza al ribasso, anche precedentemente alla pandemia di COVID-19. Nel 2021 sono stati segnalati 123.300 attraversamenti individuali, a cui precedevano 95.800 nel 2020, 123.700 nel 2019 e 141.500 nel 2018. Il forte aumento delle vittime. Nonostante la diminuzione del numero di attraversamenti, il bilancio delle vittime ha visto un forte aumento. L’anno scorso sono stati registrati circa 3.231 morti o dispersi in mare nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-occidentale. Nel 2020 il numero registrato corrispondeva a 1.881, 1.510 nel 2019 e oltre 2.277 nel 2018. Il numero potrebbe essere ancora più elevato con morti e dispersi lungo le rotte terrestri attraverso il deserto del Sahara e zone di confine remote. L’UNHCR ha costantemente richiamato l’attenzione sulle terribili esperienze e sui pericoli affrontati dai rifugiati e dai migranti che intraprendono queste rotte. Molti di loro sono individui in fuga da conflitti, violenze e persecuzioni. La rappresentazione grafica dei dati si concentra in particolare sulla rotta che va dall’Est e dal Corno d’Africa al Mediterraneo centrale. Gli abusi sempre più frequenti lungo le rotte terrestri. Oltre al crescente numero di morti in mare, l’UNHCR manifesta preoccupazione per le morti e gli abusi diffusi lungo le rotte terrestri, più comunemente all’interno e attraverso i Paesi di origine e di transito, tra cui Eritrea, Somalia, Gibuti, Etiopia, Sudan e Libia, dove viene segnalata la preoccupante maggioranza dei rischi e degli incidenti. Durante il loro percorso, i rifugiati e i migranti hanno poche opzioni se non quella di affidarsi ai trafficanti per attraversare il deserto del Sahara, esponendosi a un rischio molto alto di abusi. Dalla Libia e dalla Tunisia, sono molti i tentativi di attraversare il mare, il più delle volte verso l’Italia o Malta. Gente abbandonata nel deserto del Sahara. In molti casi, coloro che sopravvivono al passaggio attraverso il Sahara e tentano la traversata in mare vengono abbandonati dai trafficanti, mentre alcuni di coloro che partono dalla Libia vengono intercettati e riportati nel Paese di partenza, dove vengono successivamente detenuti. Ogni anno, migliaia di persone muoiono o scompaiono in mare senza lasciare traccia. Invitando a intensificare le azioni per prevenire le morti e proteggere i rifugiati e i richiedenti asilo che intraprendono queste rotte, all’inizio di aprile l’UNHCR ha pubblicato una strategia aggiornata concernente la protezione e le soluzioni, insieme a un appello per i finanziamenti. Il sostegno coinvolge 25 Paesi. L’appello chiede di aumentare l’assistenza umanitaria, il sostegno e le soluzioni per le persone che necessitano di protezione internazionale e per i sopravvissuti a gravi abusi dei diritti umani. Coinvolge circa 25 Paesi in tre regioni diverse, collegate dalle stesse rotte terrestri e marittime utilizzate da migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Allo stesso tempo, l’UNHCR esorta gli Stati a garantire alternative sicure alle traversate pericolose e a impegnarsi a rafforzare l’azione umanitaria, di sviluppo e di pace per affrontare le sfide della protezione e delle soluzioni. L’UNHCR, assieme ad altre agenzie ONU, ha sollecitato gli Stati ad adottare misure che garantiscano che i rifugiati e i migranti soccorsi in mare vengano fatti sbarcare in luoghi dove la loro vita e i loro diritti umani siano salvaguardati. Parlare di droghe abbracciandone la complessità di Vanessa Roghi Il Domani, 11 giugno 2022 La narrazione sulle droghe in Italia continua a essere in un certo modo: è opinione diffusa che parlare di qualcosa significhi contribuire a diffonderla, quindi meglio parlarne poco o in modo circospetto, con la difficoltà di riconoscere e chiamare le cose con il proprio nome. Secondo stime recenti nei paesi dell’Unione europea circa 83 milioni di persone adulte, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno assunto sostanze psicoattive illegali almeno una volta nella vita. Il volume Le droghe, in sostanza del Post apre con un vero e proprio glossario, dalla A di Alcol alla S di Spice, nel quale si descrivono proprietà ed effetti di ogni sostanza. Uscendo dai contesti specialistici, la rivista prova ad abbracciare la complessità del tema. Nel marzo del 2020, quando in molte carceri ci fu una rivolta per protestare contro le sospensioni delle visite decise per contrastare i contagi da coronavirus e contro la condizione carceraria che rendeva impossibile il distanziamento fisico, nel penitenziario di Modena morirono nove detenuti nel giro di sessanta ore, per overdose da metadone e psicofarmaci. Luca Sofri, direttore del Post, racconta di come l’idea di questo terzo volume di approfondimento di Cose spiegate bene su Le droghe, in sostanza, gli sia venuta lo scorso febbraio guardando il Tg1. L’occasione: un servizio sulla sofferenza psichica post Covid per la quale si suggeriva, addirittura, la possibilità di usare alcune sostanze psichedeliche. Di fronte a questa “proposta” Sofri, scrive, “ha trasecolato”. Il Tg1 che parlava di sostanze psichedeliche come di una ““nuova frontiera delle droghe”. Una rivoluzione. Senonché “nel servizio si è scandita la parola ‘psi- che-de-li-che’” con la circospezione stupefatta con cui si raccoglierebbe un’arma carica trovata su un marciapiede”. Parlare di droghe sì, ma con “circospezione stupefatta”. Nessuna espressione potrebbe descrivere meglio quello che è sotto gli occhi di tutti: se in apparenza viviamo circondati da un ecosistema mediatico nel quale sembra possibile parlare di tutto, di droghe, comunque, si continua a farlo soltanto in un certo modo. Con circospezione: perché non si sa mai chi potrebbe trovarsi di fronte a un servizio sugli stupefacenti ed è opinione, purtroppo, largamente diffusa, che parlare di qualcosa significhi contribuire a diffonderla, quindi meglio parlarne poco o in modo circospetto, appunto. Stupefatta perché, ancora oggi, nel 2022, per molti le droghe sono un oggetto misterioso, spaventoso, esotico. Caffè, alcool, tabacco, benzodiazepine, del resto, sono per la maggior parte delle persone tutto, fuorché droghe. E viene in mente, al riguardo, un bellissimo articolo pubblicato nel 1979 dalla rivista della Cisl Ombre bianche dove si raccontava di come, in Veneto, la campagna contro l’alcolismo avesse ottenuto un gran successo di pubblico al punto che il sindaco di non so quale paese aveva invitato i giovani a non bere l’alcool che fa male. Piuttosto la grappa locale, tanto più sana. Perché, come ci suggerisce Sofri e con lui tutti gli autori del volume, il punto sembra proprio questo: esiste una difficoltà oggettiva di riconoscere e chiamare le cose con il loro nome. In fin dei conti di affrontarle per quello che sono. E, complice il fatto che in italiano fra farmaci e droghe esiste una distinzione lessicale che in inglese, per esempio, non c’è, è stato molto più semplice nel corso del Novecento separare sostanze “buone” da sostanze “cattive”, droghe da farmaci appunto. Droghe e farmaci - Così, secondo questa distinzione, i farmaci curano e sono legali. Quando non sono legali si chiamano droghe fanno male, e il loro uso è voluttuario. Punto. Ma anche questa distinzione alla lunga non regge. Frequente l’uso di farmaci perfettamente legali a fini voluttuari. Altrettanto frequente, anche se illegale, l’uso di sostanze a fini terapeutici (penso allo scandalo del divieto di usare la cannabis per le persone sofferenti o malate). “L’uso del peyote è centrale per la Chiesa nativa americana. Una sostanza illegale per la stragrande maggioranza della società è quindi considerata e riconosciuta come elemento fondamentale di un rito rispettabile per una minoranza di persone”. Del resto, persino l’eroina, che per molti rappresenta la droga per eccellenza, quando è stata inventata dalla Bayer nel 1897 era nient’altro che un analgesico. La coca è stata per decenni la base di sciroppi contro la tosse. Così molti psicofarmaci sono stati tolti dal commercio dopo essere stati prescritti e usati per decenni. E così via. Ma allora come parlare di droghe? Spiegare bene - Innanzitutto, abbracciandone la complessità e iniziando ad accettare il fatto che l’uomo ha sempre cercato, fin dall’antichità, sostanza per lenire il dolore, euforizzarsi, dimenticare, socializzare. Un discorso non semplice da fare. Anche per questo il volume del Post è così importante, perché uscendo dai contesti specialistici, ci prova. Vediamo come. Innanzitutto, si parte dai numeri. Il numero di persone che in modo diverso fanno uso di sostanze è larghissimo: secondo stime recenti nei paesi dell’Unione europea circa 83 milioni di persone adulte, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno assunto sostanze psicoattive illegali almeno una volta nella vita. Rappresentano quasi un terzo di tutta la popolazione europea, un dato che negli ultimi anni ha avuto un andamento stabile. “Hanno usato droghe almeno una volta nella vita più maschi, 50,6 milioni, che femmine, 32,8 milioni. Un altro indicatore interessante è il “consumo di droga nell’ultimo anno”, che misura il consumo recente, ed è prevalentemente concentrato tra le persone giovani: nell’ultimo anno 17,4 milioni di persone tra i 15 e i 34 anni hanno fatto uso di droghe, il 17 per cento della popolazione europea”. Questo significa che viviamo circondati da tossicodipendenti? Ovviamente no. Consumo occasionale, consumo abituale e tossicodipendenza non sono gradazioni diverse dello stesso fenomeno: lo dimostrano numerosi studi, nonché l’esperienza di gran parte di noi che nella vita ha provato una sostanza senza farla diventare oggetto di un’abitudine né tantomeno di una dipendenza. Per questo il volume del Post apre con un vero e proprio glossario, dalla A di Alcol alla S di Spice, nel quale si descrivono proprietà ed effetti di ogni sostanza. Ad alcune sono dedicati degli approfondimenti: particolarmente interessante quello di Agnese Codignola sul cosiddetto rinascimento psichedelico, la ripresa di studi sugli effetti positivi sulla mente della psilobicina, o dell’Lsd, oggi al centro di un business mondiale che rischia di inficiare il paziente lavoro dei ricercatori venendo, come già era successo nei tardi anni Sessanta, pacchetti di “benessere immediato” a persone per niente consapevoli di quello che stanno assumendo. Data la grande diffusione di cannabinoidi, particolarmente importanti sono le pagine dedicate a questa sostanza, pagine che cercano di rispondere alla domanda: cosa ci fa la cannabis. La risposta sfata una serie di luoghi comuni allarmistici e consente di fare chiarezza, su alcune questioni a prima vista banali come il fatto che fumando la cannabis non si muore. Anche la questione della dipendenza è affrontata anche se forse con non altrettanta chiarezza. Infatti bisognerebbe dirlo meglio che l’effetto sulla dipendenza sembra comunque essere moderato se confrontato con quello indotto da altre sostanze: le stime variano, ma “secondo alcuni studi il 16 per cento dei consumatori di alcolici diventa alcolista e il 32 per cento di chi prova a fumare tabacco diventa poi un fumatore abituale”. In Europa - Così come molto importante è l’attenzione che il volume dedica all’eroina e ai progetti di somministrazione controllata dell’eroina come quello messo in atto in Svizzera dal 1994. Un fenomeno che normalmente i nostri giornalisti derubricano con un certo schifo sotto la definizione di “droga di Stato”, e che invece il Post prende giustamente sul serio: in Svizzera ci sono 22 centri sanitari che offrono questa terapia che consente a persone dipendenti di vivere dignitosamente, in modo sicuro, e seguiti. “Grazie a questa e ad altre iniziative di prevenzione, cura e riduzione del danno, la Svizzera è passata da 376 morti per droghe (in maggioranza oppioidi) nel 1995 a 141 nel 2019, e da un tasso di positività all’Hiv del 50 per cento tra i consumatori di eroina a meno del 10 per cento”. Un altro caso interessante è quello del Portogallo dove, dal 2001, il consumo di ogni “droga” è stato depenalizzato: alla fine degli anni Novanta, tra gli allora 15 paesi dell’Unione europea, il Portogallo era quello con le stime più alte di consumo problematico di stupefacenti (perlopiù eroina), insieme all’Italia e al Regno Unito. Con la Spagna, era quello con la maggiore diffusione dell’Hiv. Non si può dire che tutti i problemi siano stati risolti, ma da allora il numero di dipendenti problematici e malati si è nei fatti dimezzato. Così come si è ridotto in modo drastico il numero delle persone incarcerate per problemi correlati alla droga. La “war on drugs” - Un dato che fa riflettere visto che in Italia, secondo il Libro bianco sulle droghe di Forum Droghe, il 35 per cento della popolazione carceraria sta “dentro” in conseguenza delle leggi punitive che vigono nel nostro paese a partire dagli anni Novanta. Furono allora queste leggi, una pallida, ma feroce imitazione della war on drugs, ovvero la guerra contro la droga, dichiarata da George Bush Senior. Una guerra persa su tutti i fronti, che è costata, oltreché ingenti risorse economiche, un contributo enorme in termini di vite umane di cittadini incarcerati e a volte uccisi per la detenzione di sostanze. Fa bene dunque il Post ricordare come “nel marzo del 2020, quando in molte carceri ci fu una rivolta per protestare contro le sospensioni delle visite decise per contrastare i contagi da coronavirus e contro la condizione carceraria che rendeva impossibile il distanziamento fisico, nel penitenziario di Modena morirono nove detenuti nel giro di sessanta ore. Secondo quanto emerso dalla successiva inchiesta della magistratura, morirono tutti per overdose da metadone e psicofarmaci, presi nella farmacia dell’istituto, assaltata durante la rivolta. Gli avvocati delle famiglie delle vittime hanno però contestato in parte questa ricostruzione, sostenendo che i detenuti in overdose non siano stati assistiti come avrebbero dovuto, tra mancanze, ritardi e anche violenze. Anche in altri istituti avvennero simili assalti alle farmacie, anche se con conseguenze meno tragiche: nel corso di quelle rivolte, le infermerie e soprattutto gli armadi contenenti gli psicofarmaci furono, per molti detenuti, l’obiettivo primario da raggiungere”. Su questo episodio vale la pena riportare quanto scritto da Hassan Bassi nel XVI rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione: “È difficile immaginare che persone “esperte” abbiano talmente perso il controllo da suicidarsi ingerendo quantitativi letali di sostanze che conoscevano bene. È invece possibile che fra di loro ci fossero persone che non avevano esperienze assidue di consumo e che siano morte per overdose perché avevano una bassa tolleranza. I risultati delle autopsie renderanno chiare le cause di morte e insieme alla ricostruzione della successione degli eventi potranno forse spiegare perché nessuno si sia accorto per tempo del loro stato di grave malessere, attivando i soccorsi, come invece è successo in altri casi. Il naloxone, farmaco salvavita per overdose da oppiacei è infatti presente in quasi tutti gli istituti”. Per prevenire - Si sente che Le droghe in sostanza è stato sottoposto alla lettura di Paolo Nencini, farmacologo e storico della medicina, autore di fondamentali saggi sull’argomento. La capacità di approfondire e divulgare è merce rara, soprattutto quando in gioco ci sono argomenti in grado di scatenare “panico morale” come le droghe. Questo volume riesce a farlo. Leggetelo, regalato, distribuitelo nelle scuole, fra gli adolescenti nei bar, all’ora dell’happy hour (magari insieme al “Libro bianco sulle droghe” che comunque è scaricabile online gratuitamente). Sarebbe una cosa buona e giusta per ridurre i danni che produce un uso inconsapevole di sostanze. Per prevenire. Per ragionare, finalmente, con serietà e non con “circospezione stupefatta” di un tema che, alla fine, riguarda tutti noi. Droghe. In Svizzera eroina “terapeutica” distribuita anche in carceri e case di riposo laregione.ch, 11 giugno 2022 Una distribuzione più elastica dell’eroina a scopi terapeutici. È il succo della revisione dell’ordinanza approvata oggi dal Consiglio federale, secondo la quale l’eroina dovrebbe venire distribuita anche in farmacie, carceri e case per anziani Molto criticata all’inizio, e poi presa quasi a modello, la distribuzione di eroina a scopi terapeutici in Svizzera dovrebbe venir resa più elastica, facendo in modo che anche farmacie, carceri e case per anziani possano elargire le dosi giornaliere necessarie. È il succo della revisione dell’ordinanza approvata oggi dal Consiglio federale e inviata in consultazione alle cerchie interessate fino al 30 di settembre. Come ricorda un comunicato governativo odierno, è dal 1994 che in Svizzera si effettuano cure basate sulla prescrizione di eroina (HeGeBe), un approccio che finora ha goduto del favore di pazienti e popolazione. Questo programma, stando all’esecutivo, dovrà però affrontare in futuro svariate sfide dal momento che molti pazienti stanno invecchiando, soffrono spesso di più malattie e sono meno mobili. Inoltre, le loro abitudini di consumo sono cambiate col passare del tempo. Il fatto poi di vivere in un luogo isolato o dover scontare una pena detentiva può complicare le visite giornaliere a un centro HeGeBe. Ecco perché, per far fronte a questi cambiamenti, bisognerebbe allentare le regole di distribuzione e adeguare meglio il programma alle esigenze dei pazienti. In concreto, in futuro i centri HeGeBe dovrebbero poter delegare la dispensazione di eroina (diacetilmorfina) a istituti esterni, come per esempio case per anziani, ospedali, carceri o farmacie. I pazienti potranno qui ritirare i medicamenti, risparmiandosi quindi un pezzo di tragitto. La prescrizione di eroina resterà tuttavia responsabilità dei centri HeGeBe e dei medici competenti. In determinati casi, dovrà essere possibile cedere più dosi giornaliere. Questa misura dovrà facilitare l’accompagnamento terapeutico dei pazienti e la loro reintegrazione. La maggiore flessibilità richiesta non rappresenta una novità assoluta: già durante la pandemia di coronavirus si sono applicati temporaneamente criteri più elastici per la distribuzione delle dosi giornaliere. Per il governo si è trattato di un’esperienza positiva nella pratica che lo ha spinto a modificare l’ordinanza. Droghe. Il Canada decriminalizza le droghe pesanti per ridurre le morti da overdose di Giuseppe Iaria Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2022 L’utilizzo della cannabis è ormai legale in tutto il Canada dal 17 ottobre 2018. Qualche giorno fa però il governo canadese ha approvato un progetto sperimentale per l’utilizzo personale di alcune droghe pesanti tra cui oppioidi, cocaina, metanfetamine ed ecstasy. Secondo questo decreto governativo, chi fa uso di queste droghe e verrà trovato in possesso di una quantità non superiore a 2.5 grammi non verrà più arrestato o denunciato. Il progetto verrà sperimentato nella provincia della British Columbia a partire dal 31 gennaio 2023, e avrà una durata di tre anni. L’obiettivo di questo decreto governativo è quello di marginare il numero record sempre crescente di casi di overdose che nella sola provincia della British Columbia conta oltre 10.000 morti dal 2016 (più di 2200 morti solo nell’ultimo anno). Sì, un numero incredibile di morti da overdose non da combattere con la criminalizzazione del consumo delle droghe, ma al contrario permettendone il consumo senza criminalizzare la persona che ne fa uso. Sembra un controsenso, ma non lo è. E’ un passo molto coraggioso ed innovativo per affrontare il problema delle droghe. Mi spiego. Alla base di questo decreto governativo c’è un concetto molto basilare che è ben chiaro a tutte le persone che operano nell’ambito della prevenzione e recupero delle tossicodipendenze, e (purtroppo) a tutti i familiari di persone che soffrono di tossicodipendenze: chi fa uso di droghe pesanti non è una persona che se la spassa, è una persona che soffre. Chi fa uso di droghe pesanti è una persona che ha bisogno di aiuto; infatti, la malattia mentale è alla base dell’assunzione di droghe pesanti. Quindi, l’utilizzo di droghe pesanti è primariamente un problema di salute, non di giustizia. Chi fa uso di droghe pesanti è un malato, non è un criminale. Certo, chi fa uso di droghe pesanti compirà eventualmente degli atti criminali se viene lasciato solo senza la possibilità di curarsi, ma la causa primaria alla base delle tossicodipendenze è un problema di salute. Punto. La paura di essere incarcerati o denunciati, e lo stigma associato al drogato in quanto criminale, fa sì che le persone con tossicodipendenze si marginalizzino, nascondano la loro malattia e spesso si riducano all’utilizzo di sostanze che aumentano notevolmente il rischio di morte da overdose. Lo stigma e la criminalizzazione limitano quindi la possibilità di queste persone di riconoscersi in quanto malati, e quindi di accettare aiuto per curarsi. Ecco perché l’atto di non criminalizzare una persona che fa uso di droghe pesanti può essere un primo passo coraggioso nell’affrontare veramente il problema delle droghe con l’obiettivo di salvare vite umane. Se si decide di non aiutare i malati di tossicodipendenze non facciamo altro che aiutare indirettamente le mafie (ma questo è un altro post). La legalizzazione e l’utilizzo di droghe di qualsiasi genere hanno sempre provocato dibattiti molto accesi di natura politica, religiosa e socio-culturale, e questo decreto governativo canadese, seppur in fase sperimentale, non farà sicuramente eccezione. Ma nel dibattito, di qualunque genere esso sia e da qualunque prospettiva venga affrontato, spero si sia d’accordo nel distinguere un malato da un criminale: è un atto di responsabilità civile e umana che è d’obbligo per tutti noi. Negli ultimi anni abbiamo imparato bene a distinguere la fame di un bambino dall’atto criminale dello stesso bambino di rubare al mercato della frutta. Sono sicuro che riusciremo allo stesso modo a distinguere la malattia dal crimine; spero solo non passino decenni. Ucraina, le vittime invisibili di Antonio Scurati Corriere della Sera, 11 giugno 2022 Per noi spettatori di questa tragedia i caduti stanno diventando statistica. Il mero conteggio che disumanizza i morti: ecco una delle atrocità della guerra alla quale dobbiamo ribellarci “Oltre 31.000 militari russi sono già morti in Ucraina. Dal 24 febbraio, la Russia paga ogni giorno quasi 300 vite dei suoi soldati per una guerra completamente insensata contro l’Ucraina. E comunque verrà il giorno in cui il numero delle perdite, anche per la Russia, supererà il limite consentito”. Lo ha affermato Volodymyr Zelensky lo scorso 7 giugno via Telegram. E io oggi mi chiedo e vi chiedo: quando verrà il giorno in cui il numero delle vittime di questa guerra supererà per noi che la stiamo a guardare il limite consentito dalle nostre coscienze? Soprattutto: quel giorno verrà mai? A prima vista si direbbe che quel giorno dovrebbe essere già venuto. Raggiunto e sorpassato il centesimo giorno di guerra il numero complessivo di morti e feriti, sebbene incerto e controverso, è gia enorme. Se fosse vero ciò che il presidente ucraino sostiene riguardo alle perdite russe - una cifra verosimilmente gonfiata dall’intento propagandistico - l’Armata russa avrebbe perso in cento giorni di guerra in Ucraina più soldati di quanti l’Armata Rossa ne perdette in sette anni di combattimento in Afghanistan. Se poi passiamo al conteggio dei caduti dalla parte degli aggrediti i numeri diventano addirittura abnormi. Le forze armate della resistenza ucraina ammettono ora che i caduti sono da 100 a 200 al giorno (il numero dei feriti assomma ad almeno il triplo), ma la cifra che dovrebbe precipitarci verso l’intollerabile non è ancora nella lista: l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani conferma la morte di oltre 4.300 vittime civili di cui almeno 274 bambini, aggiungendo che potrebbero essere migliaia in più se si tiene conto della ecatombe di Mariupol, definita “un grande buco nero”. Al macabro conteggio andrebbero sommati decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, deportati, traumatizzati, milioni di profughi. Qui, però, mi fermo perché credo che il problema sia proprio questo: il conteggio. Temo, infatti, che la nostra coscienza collettiva - la prima persona plurale si riferisce al “noi” di quelli che stanno a guardare - stia pericolosamente scivolando nel baratro della disumanizzazione delle vittime, uno dei tanti che l’atrocità della guerra rischia di aprire sotto i nostri piedi. Mi riferisco a quell’abisso morale al fondo del quale diventa vero il vecchio adagio cinico che recita: la perdita di una vita umana è una tragedia, un milione sono statistica. Temo proprio che noi spettatori più o meno sinceramente commossi dalle tragedie altrui siamo giunti al punto in cui le vittime della guerra che da tre mesi si ripete uguale a se stessa sui nostri comodi schermi siano diventati statistica. Ne è triste indizio il fatto che le vittime, e in particolare i civili, vittime per eccellenza, abbiano smesso di occupare la scena mediatica. Se ricordate, in principio furono loro, le vittime civili, i protagonisti del racconto televisivo - nel senso di “visto da lontano” - del conflitto narrato come tragedia umana. Su di loro, sulle loro inermi vite spezzate, sui loro poveri oggetti insanguinati, sui loro corpi massacrati dalla malvagità, attirarono la nostra attenzione i coraggiosi inviati sul campo, luogotenenti della nostra inveterata inesperienza. Scortati dai racconti di chi era giunto fin laggiù, oltre i confini del mondo a noi conosciuto, scossi dalle immagini dello strazio, in principio ci emozionammo per quelle vite non nostre. Trepidazione per loro, palpitammo, perfino, di sdegno e d’orrore. L’emozione, però, lo si sa, dura il volgere di un istante. Solo i sentimenti sfidano il tempo, solo i ragionamenti, le idee radicate, i valori consolidati durano a lungo. Le emozioni no, quelle si consumano in fretta, al pari di ogni altro prodotto dell’intrattenimento di massa. Non a caso, al centesimo giorno di guerra le vittime civili della madornale, epocale, fatidica carneficina ucraina hanno presto finito per occupare sulle home page dei nostri quotidiani online lo stesso posto accordato dallo spietato conteggio dei click al macabro ma isolato delitto di cronaca oppure al gossip sull’ennesimo idiota di successo. Il focus informativo sulla guerra in Ucraina si è spostato, intanto, dalla tragedia delle vittime civili ai costi crescenti degli idrocarburi, alla tipologia di armamenti inviati e da inviare, alla fin troppo presunta malattia del dittatore. “Che ci vuoi fare? Così va il mondo”, commenterà qualcuno. La gente dopo un po’ si annoia, la gente cambia canale in fretta, per la gente alla fine l’unico conto che conti davvero è quello che tocca pagare. Permettetemi di obiettare: così va questo mondo qui, polarizzato tra lo sciocchezzaio degli influencer e l’orrore inconcepibile di massacri mediatici. E non va affatto bene. In questo mondo, al tempo stesso torpido e sovraeccitato, il giorno in cui le tragedie della guerra supereranno il limite consentito dalla nostra coscienza non è ancora venuto per la semplice ragione che non verrà mai. In questo mondo qui, nel reame dischiuso da decenni di apprendistato alla nostra quotidiana irrealtà mediatica, la morte di un bambino dilaniato dalle bombe è già scaduta a dato statistico. Brutalità della polizia nelle favelas, il dossier sul tavolo delle Nazioni unite di Glória Paiva Il Manifesto, 11 giugno 2022 La commissione Arns sui “guerrieri” del presidente brasiliano. “Violenza razzista e classista”. Parla Paulo S. Pinheiro, uno degli autori del documento. La violenza della polizia in Brasile ha nuovamente ricevuto l’attenzione internazionale nelle ultime settimane, dopo il massacro di almeno 23 persone in un’operazione della polizia contro l’organizzazione criminale Comando Vermelho a Vila Cruzeiro, zona nord di Rio de Janeiro. E dopo la morte di Genivaldo de Jesus Santos, asfissiato da gas lacrimogeni e spray al peperoncino nel portabagagli di un’auto della Polizia stradale federale (Prf) a Umbaúba, nello stato di Sergipe. Genivaldo era stato fermato perché guidava una moto senza casco. In quella invece che è stata la seconda operazione di polizia più letale della città, a Vila Cruzeiro, tra i 23 uccisi 16 non erano neanche indagati e uno era minorenne. Nonostante la brutalità, l’episodio non rappresenta una novità: in sei anni il numero dei massacri nella città di Rio è sestuplicato. Secondo un’indagine dell’Istituto Fogo Cruzado, fino a maggio di quest’anno - cioè, prima della strage di Vila Cruzeiro - nel solo stato di Rio de Janeiro si sono verificate 1.162 sparatorie con 322 civili e 18 agenti di polizia morti. I dettagli di questi due recenti casi di violazione dei diritti umani e altri dati che documentano l’escalation della violenza di polizia dal 2018 sono stati raccolti in un dossier dalla Commissione Arns, composta da alcuni dei maggiori esperti di diritti umani in Brasile. Il documento è stato consegnato all’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani. Ora, l’organismo indipendente dell’Onu che investiga il razzismo e la violenza delle forze dell’ordine - lo stesso gruppo creato nel 2021 dopo la morte di George Floyd - valuterà la situazione brasiliana. TRA IL 2019 E IL 2021, secondo la Commissione Arns, le esecuzioni avvenute durante le operazioni delle forze di sicurezza sono aumentate del 48%. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro, professore di scienze politiche all’Università di San Paolo e membro della Commissione Arns, si tratta di una violenza razzista e classista, dal momento che il 78,9% delle vittime sono afrodiscendenti e le operazioni in cui hanno perso la vita sono avvenute nelle favelas e in quartieri periferici. “È un problema cronico in Brasile - spiega Pinheiro al manifesto - soprattutto negli stati di Rio de Janeiro e San Paolo. La polizia militare svolge un ruolo di forza occupante nelle comunità periferiche. Nei confronti della popolazione nera prevale un apartheid de facto”. La storica tolleranza della società verso questo apartheid corrisponde al razzismo strutturale brasiliano, aggravato in un contesto in cui i neri restano esclusi da posizioni di potere, da alti comandi e dai più alti organi giudiziari. Un problema vecchio, ricorda Pinheiro, ma che ha acquisito una nuova componente politica nel discorso presidenziale. La violenza della polizia è spesso incoraggiata da Jair Bolsonaro e dai suoi sostenitori. Dopo il massacro di Vila Cruzeiro, ad esempio, Bolsonaro e il governatore di Rio de Janeiro, Cláudio Castro, hanno applaudito. “Congratulazioni ai ‘guerrieri’ della Polizia militare di Rio de Janeiro che hanno neutralizzato almeno 20 criminali collegati al narcotraffico”, ha scritto il presidente sui social. Per il governo attuale forze di sicurezza, forze armate e loro simpatizzanti sono una parte importante dell’elettorato. Inoltre, per l’esperto della Commissione Arns, il supporto a Bolsonaro da parte delle forze dell’ordine, in caso di un tentativo di colpo di stato - possibilità a cui il presidente ha già accennato in più occasioni - sarebbe fondamentale. Nuove regole - come quella che sospende le indagini sui reati commessi dalla polizia durante le sue attività o quella che permette l’acquisto di armi per cacciatori, membri dei club di tiro e agenti di riserva, “sono tutte cose che servono alle aspirazioni golpiste del presidente”, avverte Pinheiro. Altro argomento portato dalla Commissione Arns alle Nazioni unite è l’uso della Polizia stradale federale nelle operazioni di sicurezza e di contrasto al traffico di droga, nonostante il suo scopo dovrehbbe essere quello di pattugliare le autostrade brasiliane. In data 8 giugno il Tribunale federale di Rio ha accolto la richiesta del Pubblico ministero per l’immediato stop alla partecipazione della Prf a operazioni che esulano dalle sue funzioni. Il documento della Commissione Arns segnala anche la scomparsa della disciplina dei diritti umani dai corsi di formazione della Prf riservati ai nuovi agenti come uno dei fattori aggravanti della violenza. “Attualmente l’unica istituzione che resiste alle ambizioni dittatoriali di Bolsonaro è il Tribunale supremo federale. Per il resto - conclude Pinheiro - abbiamo un governo ostile ai diritti umani, alle norme democratiche di controllo delle forze di polizia e alla società civile”.