Il senso della speranza; per un uso serio delle parole di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2022 “Caro Red, se leggerai questa lettera vorrà dire che sei uscito e se sei arrivato fin qui, forse hai voglia di andare un po’ più lontano. Ricordi il nome della città, vero? Zihuatanejo. Mi servirebbe un uomo in gamba per aiutarmi nel mio progetto. Spero proprio che tu venga; c’è anche una scacchiera che ti aspetta. Ricorda, Red: la speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai. Spero che questa lettera ti trovi e ti trovi bene. Il tuo amico Andy” in “Le ali della libertà”. film 1994. Il carcere scompagina i luoghi comuni, ti obbliga a pensare e a riflettere a re-flectere a ritornare su di te e sulle vecchie convinzioni, a misurare le parole ad assumere una nuova responsabilità di fronte alle espressioni usate con eccessiva leggerezza. La speranza già. Per i cristiani una virtù teologale, per le “persone di cuore” quella buona parola di incoraggiamento che non può mai mancare nei confronti di chi sta soffrendo e per tutti noi una disposizione dello spirito quanto mai necessaria per vivere la vita a volte fin troppo complicata e faticosa. Ma qui in un carcere di Alta Sicurezza, tra persone che hanno tutte superato i venticinque anni di reclusione, che sono state condannate all’ergastolo con l’aggravante dell’ostatività - un nodo che la Corte Costituzionale ha affidato alla politica e che la politica non è ancora riuscita a sciogliere - la speranza deve essere maneggiata con molta cura. Specialmente da parte di quei professionisti della giustizia nelle cui mani sono affidate le vite di queste persone. Il fatto di tenerle tranquille, ventilando speranze che già si sa che verranno deluse, bè non è una cosa né seria né rispettosa. Quante e quante volte abbiamo visto accendersi speranze per una frase, un incoraggiamento che non ha poi avuto nessun seguito? E quante volte le abbiamo viste deluse, tradite, disattese. Un’altalena beffarda che mette a rischio l’equilibrio di persone già sofferenti e schiacciate da tanti anni di 41 bis, di trasferimenti, di isolamento. Che in carcere hanno affrontato lutti e allontanamenti e hanno dovuto ogni volta trovare l’energia per rialzarsi. No, quelle speranze senza progetti e senza concretezza, senza scadenze certe, quelle speranze sono illusioni e non fanno bene, Non fanno mai bene. Meglio una comunicazione seria, adulta, responsabile. Per lasciare spazio a quella speranza intima, spirituale che accompagna la vita di ciascuno di noi. In 6 anni di volontariato nella redazione di AS1 di Ristretti a Parma ho visto la speranza offesa, derisa, tradita un’infinità di volte; un elastico micidiale che non ha aumentato di un grammo la mia fiducia nelle istituzioni. Se giustamente si chiede chiarezza e responsabilità alle persone condannate, quanto meno bisognerebbe essere in grado di garantire chiarezza e responsabilità da parte di chi tiene la loro vita nelle proprie mani. E a questo proposito ci piace affidare a questo spazio un ricordo di Alessandro Margara, citato, stimato e troppo poco imitato. *Responsabile redazione Ristretti Orizzonti Parma “E che ci fa qui un così bel ragazzo?” furono queste le parole pronunciate con l’accento toscano con le quali mi accolse in aula Alessandro Margara presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze nel 1994. E quel “qui” voleva significare nell’inferno di Pianosa, il penitenziario che nel 1992 era stato riaperto di fretta e furia per rinchiudervi i detenuti sottoposti al nuovo regime di cui all’art. 41-bis voluto dal Governo Andreotti, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio in Sicilia. Ero in quel regime speciale da due anni, dal luglio 1992, che avevo 21 anni d’età, ero in carcere dal 1989, dei 4 anni di pena a cui ero stato condannato ne avevo già espiati quasi tre, sono salentino per giunta e, quindi, poco c’entravo con l’emergenza scaturita dalle stragi siciliane del 1992. Ciò non sfuggì neanche al tribunale che dichiarò illegittimo il provvedimento del ministro della giustizia applicativo del cosiddetto ‘carcere duro’, e io ebbi modo di capire che “nonostante tutto” potevo credere nella giustizia. La figura di Margara è quella di un gigante nell’albo della magistratura italiana, una persona seria, autorevole, umana, coraggiosa. Non quel “coraggio” sventolato per “carrierismo”, ma quello di scommettere nella capacità di riscatto di chi ha sbagliato, nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione, che prevede la risocializzazione del condannato. Un articolo pensato da quei Padri costituenti che il carcere l’avevano provato sulla loro pelle durante quei regimi illiberali che in nome dell’”ordine e della sicurezza pubblica” incarceravano colpevoli e innocenti fino alla morte. Non ho mai confuso né generalizzato sulle persone, sulle categorie e sulle istituzioni. Siamo fatti tutti a immagine di Dio ma ognuno a suo modo. E poi durante questi anni ho avuto la fortuna di conoscere molte “persone per bene” che fanno parte delle istituzioni. Margara, per me, ha rappresentato uno dei primi volti positivi di uno “Stato” che, in quel momento, nel carcere di Pianosa torturava sistematicamente e intenzionalmente i detenuti, molti dei quali furono poi riconosciuti innocenti e liberati. Sia a quel tempo, sia dopo quello che mi ha fatto riflettere sui miei reati e suscitare un senso di colpa, non sono state le torture o le pesantissime condanne, la sofferenza del carcere (sono messe nel conto in un certo senso), ma l’amore della mia famiglia, l’affetto dei volontari, le persone delle istituzioni che incarnavano i valori costituzionali facendomi ri-scoprire quelli che erano dentro di me, ma che per una parentesi della mia vita avevo messo da parte. Il presidente Margara purtroppo è morto da tempo ma il suo esempio continua a sopravvivere è ancora citato quando è necessario dare un po’ di decoro alla magistratura di sorveglianza italiana. La figura del magistrato di sorveglianza è stata introdotta con la Riforma penitenziaria del 1975, con funzioni di vigilanza e tutela dei diritti del detenuto, a tutela di quel reinserimento sociale previsto dalla Costituzione, non in funzione “anti” qualcosa. In funzione preventiva ci sono una moltitudine di figure e organi inquirenti e investigativi che solo a citarne gli acronimi ci vorrebbe un’intera pagina. Mi chiedo cosa direbbe Margara se mi ri-vedesse oggi, dopo 32 anni di carcere ininterrotti, senza un’ora di libertà, non più un ragazzo immaturo e “difficile”, ma un uomo maturo e riflessivo, completamente diverso, anche fisicamente. Mi chiedo cosa direbbe col suo accento toscano. Claudio Conte Ergastolo, il nuovo rinvio è un infarto della Costituzione di Andrea Pugiotto Il Riformista, 10 giugno 2022 Il doppio differimento della dichiarazione di incostituzionalità (pur accertata) del 4bis allontana il fine stesso del vaglio della Consulta: vietare l’applicazione di una norma illegittima. Intanto per gli oltre 1.200 ergastolani ostativi ogni giorno che passa è un giorno in più dietro le sbarre. 1. Nei giorni scorsi è stata depositata l’ord. n. 122/2022, con cui la Corte costituzionale ha differito di altri sei mesi la dichiarazione d’illegittimità dell’ergastolo ostativo. Contestualmente, in un’intervista al Corriere della Sera del 16 maggio, il Presidente della Consulta Giuliano Amato ha spiegato le ragioni di questo secondo rinvio, dopo quello già disposto un anno fa con l’ord. n. 97/2021. Deposito e intervista non hanno suscitato particolare attenzione, quasi si trattasse di un tornante meramente processuale: una di quelle tecnicalità che non appassionano nessuno, tranne gli addetti ai lavori. Il “rinvio del rinvio”, invece, è una novità giurisprudenziale che, per importanza, trascende il suo stesso oggetto: “quel manicheismo che esiste ancora”, benché già accertato come incostituzionale, secondo cui “o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi” (Amato dixit). È un inedito assoluto che, nelle forme soft di un nuovo slittamento dell’udienza all’8 novembre, cela un prolungato arresto cardiaco del principio di legalità costituzionale. E quando c’è un infarto al cuore della Costituzione, le sue conseguenze possono diffondersi pericolosamente in ogni dove. 2. Secondo Costituzione, è la Corte ad accertare l’illegittimità della legge. La sua decisione è il fatto giuridico cui deve seguire la cessazione di efficacia della legge illegittima. Tale effetto, generale e (di regola) retroattivo, decorre dal giorno successivo alla pubblicazione in gazzetta ufficiale della dichiarazione d’incostituzionalità. Non è, dunque, la volontà di quindici giudici riuniti a Palazzo della Consulta che determina il venir meno della legge dall’ordinamento, e quando: è la Costituzione a comandarne la rimozione immediata. E la Costituzione s’impone a tutti, Corte costituzionale compresa. Differire la dichiarazione d’illegittimità impedisce che scatti questo automatismo costituzionale. Se poi il rinvio è reiterato, si allontana ancor più nel tempo il fine stesso del sindacato di costituzionalità: vietare l’applicazione di una legge illegittima, a cominciare dai fatti oggetto del processo nel corso del quale è sorta la quaestio. Può la Consulta derogare, di nuovo, a questa regola costituzionale? 3. Nella vicenda in esame, la richiesta di un ulteriore rinvio, auspicato dalla Commissione Giustizia del Senato, è stata veicolata in udienza dall’Avvocatura dello Stato. A suo dire, essa risultava “necessaria” in ragione dell’iter parlamentare in corso “che fa ritenere prossima” l’approvazione di una nuova legge “in attuazione dei principi” già stabiliti nella precedente ord. n. 97/2021, in cui la Corte aveva accertato (ma non dichiarato) l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Giuridicamente, sono ragioni vaghissime. La Corte costituzionale è chiamata a sindacare ciò che il legislatore ha fatto o non ha fatto, non ciò che potrebbe fare e, forse, farà: se la Corte ha già giudicato illegittima la disciplina in vigore, come può dirsi addirittura “necessaria” un’ulteriore udienza? Esercitando la funzione legislativa, le Camere sono del tutto autonome nel decidere se e quando approvare una legge: su quale base, allora, la si pronostica addirittura come “prossima”? Quanto al disegno di legge approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, è “una controriforma che non recepisce i rilievi della Consulta” (Fabio Fiorentin, Il Sole-24 Ore, 9 aprile) e le cui norme, peggiorative di quelle in vigore, non troverebbero neppure applicazione nel giudizio sospeso, come impone il principio di irretroattività penale. Ciò nonostante, la Corte costituzionale ha accolto l’istanza per un rinnovato differimento e lo ha fatto con un’ordinanza-bis “passata senza alcuna opposizione”, come rivela il Presidente Amato. Sulla base di quali ragioni costituzionalmente apprezzabili? 4. Nella sua stringatezza, la lettura dell’ord. n. 122/2022 non aiuta a capire: vi si replicano - in bella copia - le motivazioni evanescenti addotte dall’Avvocatura dello Stato, nel contempo confermando “le ragioni che hanno indotto questa Corte a sollecitare l’intervento del legislatore”. È l’intervista del Presidente Amato a esplicitarne la ratio decidendi: “La Corte costituzionale non dà ordini e rispetta il Parlamento”. Dell’avvenuta approvazione alla Camera “non potevamo non tenerne conto”, perché “far valere una scadenza e non dare peso ai lavori in corso”, specie in questioni così complesse, “indebolirebbe” la credibilità della Consulta “rispetto alla leale collaborazione” con il legislatore. È il principio di cooperazione tra poteri, dunque, ad essere invocato. Ma una collaborazione è davvero leale solo se si svolge dentro il perimetro costituzionale, non fuori di esso. Invece, in questa vicenda, il modo in cui la Consulta ha concretamente declinato la cooperazione con le Camere, risulta - a un tempo - costituzionalmente sbilanciato e istituzionalmente asimmetrico. Vediamo perché. 5. Rinviando nuovamente l’udienza, non si è tutelata la discrezionalità del legislatore, semmai la sua persistente inerzia. Un’inerzia che risale, infatti, a ben prima di dodici mesi fa: era il 5 ottobre 2019 quando - in via definitiva - la Corte di Strasburgo condannava l’Italia in ragione di una “pena perpetua non riducibile” attraverso l’istituto della liberazione condizionale. È da allora che il Parlamento è moroso nel risolvere il “problema strutturale” dell’ergastolo ostativo. Da qui alla prossima udienza non possono escludersi decessi tra i 1.277 ergastolani ostativi (su 1.822 condannati a vita), molti dei quali anziani, malati e con un pregresso detentivo di oltre ventisei anni, dunque nelle condizioni di poter aspirare alla liberazione condizionale. Moriranno in galera, da cui mai sono usciti, in nome di prioritarie esigenze investigative e di difesa sociale. Eppure è un principio costituzionale - riconosciuto dalla stessa Consulta - la “non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (sent. n. 149/2018). Ritorniamo al futuro. E ipotizziamo che, all’udienza dell’8 novembre, la Consulta si ritrovi tra le mani l’attesa riforma legislativa. Le regole del processo costituzionale le impediranno di sindacarne seduta stante la legittimità: prima, dovrà restituire gli atti al giudice remittente (la sez. V penale di Cassazione) cui spetta il preliminare vaglio circa l’applicabilità e la costituzionalità della normativa sopravvenuta. La conseguente stasi processuale andrà così a cumularsi a quella seguita ai due rinvii decretati dalla Corte, aggravando nel tempo esiti già ritenuti lesivi della Costituzione. Molto concretamente: dilatando i tempi del suo processo, la Consulta prolunga la dissipazione del residuo tempo vitale di ergastolani senza scampo, per i quali ogni giorno che passa è un giorno in più (e non in meno) dietro le sbarre. 6. Più in generale, è il disegno costituzionale che governa gli effetti della dichiarazione d’illegittimità ad uscirne manomesso. L’ord. n. 122/2022 attesta che per i giudici costituzionali, più del tempo (inutilmente) trascorso, conta quello mancante all’approvazione della nuova legge. Ma mentre il primo è oggettivo e misurabile, il secondo è una mera congettura perché l’approvazione di una legge è certa solo quando si compie realmente, mai prima. Tutto, così, si capovolge: la dichiara zione d’incostituzionalità non dipende più da quanto il legislatore ha fatto, ma da ciò che eventualmente farà. E il dies a quo degli effetti dell’accertata illegittimità diventa una variabile subordinata ai ritmi e agli esiti dei lavori parlamentari. All’interno di una simile dinamica, non può neppure escludersi la possibilità di ulteriori, futuri differimenti. È già accaduto due volte di seguito, perché non dovrebbe ripetersi ancora? “Quando a novembre la Corte si troverà a decidere” - afferma il suo Presidente - “valuterà la situazione e, in assenza di una riforma, affronterà il problema se sancire l’incostituzionalità introducendo un vuoto legislativo che ora abbiamo voluto evitare. A quel punto spetterebbe al Parlamento colmarlo successivamente”. Quell’ipotetico “se”, più che escludere l’ipotesi di un ennesimo rinvio, l’avvalora. Basterà la minima diligenza al Senato: ad esempio, davanti a una rinnovata navetta parlamentare, perché mai non dovrebbe apparire di nuovo “necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori” (ord. n. 122/2022)? 7. Come sempre accade, mezzi sbagliati stravolgono fi ni giusti. Se davvero la Corte costituzionale - come dice il suo Presidente - non è “la maestrina del Parlamento”, si limiti allora a svolgere la propria funzione di giudice delle leggi, annullando quelle di cui accerta l’illegittimità. E se ragionevoli preoccupazioni di sistema la inducono a temere il vuoto normativo conseguente, attinga alle sue sentenze manipolative che quel vuoto possono evitare. Oppure rinvii (non l’udienza, ma) la pubblicazione in gazzetta ufficiale della sua dichiarazione d’incostituzionalità, preannunciandola con un apposito comunicato, così da consentire nel frattempo un intervento del Governo per decretazione d’urgenza: “ecco. La soluzione c’era. Rapida, efficace e coerente” (Tullio Padovani, Il Dubbio, 11 maggio 2022). La cautela di un primo rinvio seguito da un secondo rinvio a data fissa, invece, trasforma un monito rafforzato in una scadenza che neppure la Corte mostra di prendere sul serio, figurarsi le Camere. Meglio, allora, evitare che questo precedente faccia precedente, chiudendolo dentro una (infelice) parentesi. La Corte costituzionale ha un’anima divisa in due, politica e giurisdizionale. La sua migliore giurisprudenza nasce sempre quando l’una non prevale sull’altra. In questa neverending story, invece, la ricerca di equilibri politici è stata anteposta alla risoluzione della quaestio. Così facendo, però, l’incostituzionalità differita scade da tecnica a “tattica decisoria” (Michele Massa): una tattica espressione di quella apparente saggezza che - come dice la canzone - troppo spesso è solamente la prudenza più stagnante. Da “prigione” a “carcere” con le parole nasce il castigo di Antonio Coniglio Il Riformista, 10 giugno 2022 La parola, nel momento in cui viene scandita, pensa, concepisce, crea. A volte distrugge, rade al suolo. In ogni caso, la parola fucina e modella il destino. Perché, in principio, fu il verbo, il logos e, trovare le parole giuste, rimane l’unico viatico per capire, intenderci, dar vita alla realtà. Nel corso dell’ultima assemblea di Nessuno tocchi Caino, a Roma, presso la Società Romana di Nuoto, Sergio D’Elia ha riflettuto, per esempio, sulla parola “galera”. Sino al XVIII secolo, il reo era costretto, infatti, a remare nelle galee o galere: navi medioevali spinte dalla forza delle braccia sui remi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, nel momento in cui le navi avessero ammainato le proprie bandiere, i detenuti, sarebbero stati costretti a trasformarsi in “automi peripatetici”: coartati a muoversi, come pesci in un acquario, avanti e indietro, dentro quattro mura, senza un senso, un verso, una destinazione, un destino! Quale parola usare per definire questa condizione? Di uomini e donne condannati alla inutilità e all’impotenza? Non certo la parola “prigione”. “Prigione” deriva dal latino “prehensio”: prendere, afferrare. Ti prendo, ti afferro e ti porto in luogo distinto dalla società perché sei pericoloso, nocivo. Per un tempo determinato e senza alcuna intenzione punitiva. Starai lì, solo fino a quando sarai portatore di insidie e pericoli per gli altri. Lo Stato deve “sorvegliare”, vivaddio, ma mai “punire”! L’etimologia di “prigione”, ci consegna allora questa realtà. La crea, gli dà un nome. La prigione ha una funzione meramente preventiva. Non è un caso se, nel mondo classico, i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano finanche la libertà di incontrare parenti e amici. Un vestibolo, un passaggio, un passo verso qualcosa. Che poteva essere la libertà o anche la morte. Oggi - che è quasi patrimonio diffuso aver superato la pena di morte nel nome dei diritti umani universali - il termine “prigione” avrebbe potuto esplicarsi al pieno della sua capacità inventrice. Uno spazio funzionale solo a “raffreddare”, stiepidire le passioni morbose, pericolose, per un periodo centellinato della propria esistenza. Dopo, il quale si potesse ritornare al teatro della vita. La prigione serve ad continendos homines, non ad puniendos. In Italia, invece, abbiamo partorito l’idea insalubre e venefica di abolire le prigioni! Di creare il “carcere”. Nomen omen: nel nome il presagio, la realtà creata. Carcere deriva dal verbo latino coerceo. Che significa contenere ma anche domare, reprimere, frenare, punire, castigare, correggere, costringere all’obbedienza. Prigione non è sinonimo di carcere. Carcere è invece sinonimico di penitenziario, di istituto di pena. Sono luoghi progettati ontologicamente per infliggere dolori e patimenti. Gattabuie del castigo e della terribilità. Se ci incamminiamo oltre, dobbiamo ulteriormente spaurire. Abbiamo dovuto finanche aggiungere un attributo perché il nome carcere, in sé e per sé, non rendeva sufficientemente la proporzione enorme di piaghe e flagelli inflitti. C’è, infatti, un carcere “ostativo”. Ostativo deriva dal latino ob-stare: stare di contro, opporsi, contrastare. È la modernità della tortura. Il castigo perpetuo nei confronti dell’hostis, del nemico. È il coerceo senza limite: la dannazione dell’essere cristallizzata dallo Stato. Di questo, in questi mesi forse torridi, discuterà il Parlamento italiano. La Corte Costituzionale ha infatti inspiegabilmente concesso altri sei mesi al legislatore per superare una norma - l’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario - dichiarata incostituzionale. Freud era convinto che le parole originariamente fossero incantesimi. Sarebbe un miracolo, se i signori deputati cambiassero parole, pronunciassero incantesimi di segno diverso. Sostituissero, al “coerceo”, il “prehensio”: un prendere, afferrare, per un tempo limitato, nel nome della sicurezza sociale, compatibile con i diritti umani universali. E sarebbe un incantesimo, capace di rompere un maleficio, eliminare quantomeno la parola ostativo. Sarebbe superare una parola, carcere, che potrebbe anche avere, tra gli avi, l’ebraico carcar, ossia tumulare, sotterrare. Può lo Stato sotterrare, tumulare, un uomo? I signori parlamentari hanno dinnanzi a loro, non capi mafia, boss potenti, “giganti della montagna”, ma uomini ristretti in carcere da più di 20 anni. Inermi, che hanno il diritto di lasciare il vestibolo, laddove abbiano raggiunto nuovi livelli di coscienza. Di ritornare nel teatro della vita, oltre ogni scambio sinallagmatico che umilia le coscienze. I “giganti della montagna” di Pirandello rischiano invece di essere i deputati del parlamento italiano che - alla stregua di quelli del dramma pirandelliano - non accettano la proposta della compagnia teatrale della contessa Ilse e degli scalognati di assistere alla rappresentazione di un’opera che racconta la storia della vita. Non fate come “i giganti della montagna”, signori deputati: non ammazzate. Pronunciate parole di segno diverso! “Quanti altri Giacomo devono morire in carcere?” di Chiara Daffini fanpage.it, 10 giugno 2022 Detenuti con disturbi mentali, la denuncia di una mamma. Giacomo è un 22enne milanese con disturbo borderline di personalità, malattia che lo porta a delinquere. Ma per lui l’unica cura sembra essere il carcere. Ha suscitato tristezza e indignazione il caso di Giacomo Trimarco, il ragazzo morto suicida nel carcere di San Vittore, quando anziché lì avrebbe dovuto trovarsi in una comunità terapeutica per curare il suo disturbo di personalità borderline. Un altro Giacomo, suo amico e in passato compagno di detenzione al Beccaria di Milano, si trova oggi nella stessa situazione e rischia la stessa fine. Fanpage.it è andata a parlare con la mamma, Maria Gorlani. Insieme in carcere e nella malattia - “Giacomo Trimarco era amico di mio figlio e io e mio marito dei suoi genitori. Erano stati insieme nel carcere minorile e, essendo entrambi affetti da disturbo di personalità borderline, tutti e due presentavano lo stesso tipo di problemi e di comportamenti, per questo è nata subito la solidarietà tra le nostre famiglie”. La storia di Giacomo, il figlio di Maria, inizia però molto prima: “A 7 anni abbiamo iniziato a portarlo da psicologi e psichiatri, pubblici e privati: era irrequieto e soprattutto non riusciva a contenere rabbia e frustrazione”. Ma la diagnosi arriva tardi: “Il disturbo di personalità borderline viene diagnosticato generalmente dalla maggiore età - spiega Maria a Fanpage.it - anche se i comportamenti patologici emergono ben prima”. Cos’è il disturbo borderline di personalità? Il disturbo borderline di personalità è una malattia psichiatrica che colpisce tra l’1 e il 2% della popolazione mondiale e si riscontra tre volte più frequentemente nelle donne rispetto agli uomini (dati Normalarea). A differenza di altre patologie fisiche e psichiche non ha sintomi definiti, ma si manifesta in maniera differente da un paziente all’altro: il filo comune è utilizzare comportamenti (auto) distruttivi per rispondere all’incapacità di gestire le emozioni. “La chiamano anche disregolazione emotiva - spiega la mamma di Giacomo - chi ce l’ha vive tutto in maniera amplificata e prolungata, con reazioni spropositate che arrivano anche alla violenza contro sé stessi e gli altri”. Maria ci dice queste parole mentre ci indica la porta del bagno sfondata dalla testa di Giacomo: “Quando è arrabbiato sbatte il cranio contro i muri e le porte, nella sua camera abbiamo tolto il letto, perché lo distruggeva sempre”. Un tempo Giacomo era diverso - Nonostante la malattia sia insorta in tenera età, Giacomo è riuscito a condurre una vita dignitosa almeno fino all’adolescenza. “I problemi grandi - ricorda la mamma - sono iniziati in terza media, la scuola l’ha cacciato, perché non riusciva a gestire i suoi comportamenti e così gli abbiamo fatto fare l’esame da privatista. Però ai tempi frequentava ancora gli scout e giovava a basket. A 15 anni è stato campione italiano, ma già allora gli avversari approfittavano del suo temperamento per provocarlo e farlo ammonire, poi ha mollato anche quella passione”. Un adolescente in carcere - “A 17 anni è stato condannato dal tribunale dei minori per maltrattamenti in famiglia - continua Maria -. Noi non l’avevamo denunciato, perché sappiamo che nostro figlio non ci maltratta, è solo malato e ha bisogno di cure. Le segnalazioni erano arrivate dai vicini, perché Giacomo lancia le cose dalla finestra, e dai passanti per strada, perché le crisi di rabbia non avvengono solo in casa”. L’inserimento nelle comunità fallisce di continuo: “Si è fatto un anno di comunità, ma non una sola, tre! Perché tutte lo mandavano via, denunciando i suoi comportamenti aggressivi”. Comportamenti sintomo della malattia che lì avrebbe dovuto essere curata: “Alla fine il giudice ha deciso per il carcere”. Perché il carcere e non la cura? “Per tutto il tempo di permanenza in carcere Giacomo non ha avuto una vera e propria cura, se non gli ultimi mesi, in cui, grazie alla semi libertà, poteva andare alle sedute di psicoterapia. Era migliorato, ma finita la pena è riiniziato tutto daccapo. Il problema - precisa la madre - è che chi soffre di questa malattia fatica a portare avanti ogni aspetto della vita, terapia compresa”. Ma, soprattutto in Italia, non esiste un protocollo ad hoc per curare il disturbo borderline di personalità, che abbraccia uno spettro molto ampio di sintomi, spesso in correlazione con altre patologie psichiche: “Di conseguenza le strutture nella maggior parte dei casi sono attrezzate per gestire un sintomo, ma non tutti gli altri”, spiega Maria. “Per quanto riguarda i servizi territoriali, come i centri psico sociali (cps), sono sovraccarichi, specialmente dopo la pandemia, e tendono a prendere in carico i casi più ‘semplici’, quelli che riescono a gestire con le risorse, scarse, che hanno a disposizione”, conclude la mamma di Giacomo. Giacomo oggi, tra strada e carcere - Oggi Giacomo vive per strada. “Torna a casa qualche volta, giusto per farsi una doccia, ma poi o si arrabbia e rompe qualcosa o scappa via”. Negli anni ha accumulato 17 procedimenti penali: “Quattro di questi - spiega Maria - andranno presto a termine e per lui si apriranno di nuovo le porte del carcere”. “Ci siamo anche noi” è il nome della rete di genitori - per ora una cinquantina in tutta Italia, di cui 20 in Lombardia - fondata da Maria Gorlani per riunire tutti i familiari che vivono la sua stessa situazione. “Vorremmo diventare associazione e far capire che anche se i nostri figli sono più difficili da approcciare e da curare, esistono e hanno diritto di vivere”. Nostro figlio suicida in cella, ma per il giudice non doveva stare lì di Stefania e Maurizio* Il Riformista, 10 giugno 2022 Giacomo, 21 anni, era affetto da un disturbo della personalità. Per questo era stato disposto il suo trasferimento in una Rems. Ma la sua sofferenza non era compatibile coi tempi della burocrazia. Giacomo non avrebbe dovuto trovarsi in quella cella di San Vittore, dove una settimana fa si è tolto la vita con il gas di un fornellino da campeggio per cucinare. A causa delle sue condizioni di salute mentale, il giudice aveva infatti disposto il suo trasferimento in una Rems, le residenze subentrate alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma la sua sofferenza non era evidentemente compatibile con i tempi della burocrazia e il disinteresse delle istituzioni. Giacomo Trimarco, 21 anni, soffriva di Disturbo Borderline di Personalità, una patologia che provoca incapacità di regolare l’intensità delle emozioni, continua variazione di stato d’animo, sentimenti di vuoto, terrore dell’abbandono. Qualcuno la paragona alla pelle ustionata, sulla quale anche un tocco lieve può provocare sofferenze enormi. Tra chi è affetto da questo disturbo, le statistiche riportano un’incidenza di suicidi altissima, intorno al 10 percento. Il disturbo ha origini biologiche (inadeguato bilanciamento dell’attività dell’amigdala e della corteccia prefrontale), ma è accentuato da fattori ambientali. Per Giacomo, i fattori ambientali negativi iniziano presto: i primi tre anni di vita passati in un orfanotrofio di San Pietroburgo prima dell’adozione, la richiesta di aiuto a dodici anni che si trasforma in infiniti rimbalzi da una comunità all’altra, il carcere minorile. Il disturbo avrebbe anche una prognosi favorevole, se correttamente trattato, ma a Giacomo, malgrado le nostre lotte, è stata negata questa possibilità: ha ricevuto una diagnosi tardiva; non ha mai avuto una psicoterapia specifica; è stato trattato con dosi massicce di psicofarmaci inadeguati che spesso peggioravano i sintomi della sua patologia. In un crescendo di inadempienze che hanno attraversato servizi di tutti i tipi: Servizi Sociali Territoriali, Uonpia, Cps, Serd, Spdc, Psichiatria Forense, presidi psichiatrici in carcere... È paradossale che spesso venga delegata al carcere la gestione di situazioni cliniche complesse, che i Servizi di Salute Mentale per anni non hanno affrontato con mezzi e interventi efficaci. E, invece, il carcere contribuisce ad aggravare le patologie psichiatriche, come ha evidenziato il sociologo Erving Goffman, che ha individuato varie fasi della vita detentiva: - l’ingresso in carcere: la persona che soffre di disturbi mentali perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, dei suoi spazi, del supporto della famiglia e del caregiver; - l’adattamento regressivo: il malato mentale, ormai detenuto, prende atto che il sistema non solo non l’ha aiutato, ma l’ha anche punito; - l’adattamento ideologico: il soggetto psichiatrico accetta/finge di accettare la condanna e subentrano/ peggiorano gli stati depressivi, che possono condurre ad autolesionismo e tentativi di suicidio; - l’adattamento entusiastico: ormai la realtà carceraria è la nuova e unica realtà (senso di irrealtà), si teme la vita esterna e le patologie possono degenerare in vere e proprie psicosi. Nella migliore delle ipotesi, quindi, l’unico risultato della pena detentiva (che dovrebbe, secondo la Costituzione, essere rieducativa) per chi ha un disturbo psichico è l’ottundimento delle capacità intellettive. Nella peggiore, l’esperienza si interrompe drammaticamente alla terza fase, come è stato per Giacomo. Noi, i suoi genitori, non ci diamo pace: i mesi e i giorni prima della tragedia, sono state ignorate le sue richieste di aiuto e i suoi gesti che segnalavano una situazione di rischio crescente, aggravata dal suicidio del suo amico e vicino di cella Abu El Maati, 24 anni, scomparso nel silenzio più totale. Ora noi genitori cerchiamo di dare un senso a una tragedia che sembra non averne: vorremmo che servisse almeno ad aprire una riflessione sul diritto alla cura, che deve essere di tutti, dentro e fuori dal carcere. Troppi giovani - molti più di quanto ci si aspetterebbe - sono nelle stesse condizioni di abbandono di Giacomo: vorremmo impegnarci perché non capiti più a nessun altro, siamo disposti anche a percorrere le vie legali, se può essere di aiuto a questi ragazzi. Da anni facciamo parte di una rete di famiglie - “Ci siamo anche noi” - che cerca di portare l’attenzione su questi ragazzi “invisibili” e sul loro destino. *Genitori di Giacomo Trimarco, morto suicida a San Vittore il 1° giugno 2022 Suicidio in carcere e psicoterapia di Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero stateofmind.it, 10 giugno 2022 È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato? I suicidi in carcere dipendono da una serie di fattori, non ultimi le pessime condizioni e la sovrappopolazione delle strutture. All’interno della popolazione carceraria a noi preme soprattutto segnalare il disagio di chi soffre di disturbi emotivi e mentali, con particolare attenzione a quei disturbi che aumentano il rischio suicidario come il disturbo di personalità borderline. Com’è noto, chi soffre di queste patologie non andrebbe indirizzato al carcere ma a una REMS, una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture che dal 2014 sono andate a sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari. È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato? Come riporta il Post, le REMS al momento sono poche e i posti disponibili sono meno di quelli necessari. Inoltre, e questo è in teoria un merito, le REMS sono a numero chiuso per impedire i fenomeni di sovrappopolazione che già affliggono le carceri. La conseguenza di questa correttezza è che, tuttavia, i detenuti sofferenti di disturbi mentali e in sovrannumero rispetto ai posti delle REMS finiscono in carcere. La soluzione è ovviamente moltiplicare al più presto le REMS e dotarle dei mezzi di cura necessari per non ridurle a essere dei neo-manicomi con pazienti sedati e imbottiti di farmaci. Per la verità, le norme che stabiliscono i requisiti strutturali ed organizzativi delle REMS paiono rigorose: esse prescrivono che, oltre la già citata accoglienza di un massimo di 20 pazienti, nelle REMS il personale va organizzato come équipe di lavoro multi professionale, comprendente medici psichiatri, psicologi, infermieri, terapisti della riabilitazione psichiatrica/educatori e operatori socio-sanitari che seguono procedure scritte riguardanti i compiti di ciascuna figura professionale, le modalità di accoglienza del paziente, la definizione di programmi individualizzati, i criteri per il monitoraggio e la valutazione periodica dei trattamenti terapeutico-riabilitativi. I detenuti sofferenti (o internati) presso le REMS ricevono, entro 45 giorni dall’ingresso, sulla base del Progetto Terapeutico Riabilitativo Integrato (PTRI) formulato dal Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di competenza territoriale, un Progetto Terapeutico Riabilitativo (PTR) concordato con l’Ospite e il Centro di Salute Mentale (CSM) competente che descrive gli obiettivi ed i trattamenti e tempi necessari per realizzarli. Si tratta di un percorso decisionale rigoroso che dovrebbe facilitare l’adozione di trattamenti di provata efficacia per i problemi dei detenuti, come la Terapia Dialettico Comportamentale che è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato specificamente per pazienti cronicamente suicidari con diagnosi di Disturbo Borderline di personalità ed è stata la prima terapia a rivelarsi efficace per questo rischio (Linehan, 1983). L’opportunità di questa scelta è confermata dal dato che i pazienti psichiatrici forensi rappresentano la più a rischio di comportamenti aggressivi di tutte le popolazioni psichiatriche ospedaliere (Bowers et al., 2011). È confortante apprendere che questa procedura facilita l’adozione di trattamenti confermati scientificamente, come ad esempio è avvenuto nelle R.E.M.S. “CASTORE” di Subiaco e “MEROPE” di Palombara Sabina dove è stato adottato un protocollo di Terapia Dialettico Comportamentale in pazienti autori di reato internati (Ortenzi, 2016). I risultati di quello studio confermano i dati presenti in letteratura sull’efficacia della Terapia Dialettico Comportamentale, rispetto al trattamento psichiatrico usuale a base di farmaci antipsicotici. Questo vale per l’aggressività, l’impulsività e la disregolazione emotiva nelle popolazioni psichiatriche forensi delle due REMS. La conclusione è che l’inserimento negli ospedali psichiatrici forensi di trattamenti empiricamente confermati aiuta la realizzazione dell’obiettivo principale di queste strutture, ovvero la riabilitazione e il reinserimento nella società. È Importante che tutte le figure presenti collaborino e che non si dia - come a volte accade - maggiore valore soltanto ad alcune figure, come gli psichiatri. È tranquillizzante osservare che l’organizzazione dei PTR delle REMS già consente queste scelte cliniche efficienti; forse occorrerebbe renderne ancora più obbligatoria l’adozione invece di limitarsi a facilitarla come accade ora. Questo ulteriore passo avanti, insieme all’ancora più necessaria moltiplicazione del numero delle REMS, aiuterebbe a contrastare la tragedia dei suicidi dei detenuti. “In cella cinque anni tra topi e umiliazioni, ma ero innocente. Per questo voto Sì” di Simona Musco Il Dubbio, 10 giugno 2022 L’odissea di Rocco Femia, ex sindaco calabrese bollato come mafioso ma estraneo ai clan: “Sa quanti innocenti ho conosciuto in carcere? Almeno un centinaio”. “Sa quanti innocenti ho conosciuto in carcere? Almeno un centinaio e non sto esagerando. Nessuno è immune. Anche a lei può succedere quello che è successo a me”. Rocco Femia fino al 3 maggio del 2011 è stato sindaco di Marina di Gioiosa, poco più di 6mila abitanti sullo Jonio calabrese. Per tre anni ha amministrato la “città del sorriso” senza sapere che, dal 2008, anno in cui i suoi concittadini lo avevano incoronato sindaco, il fascicolo col suo nome attendeva che un gip mettesse una firma che autorizzasse il suo arresto. Quella firma, alla fine, è arrivata al giro di boa della sua amministrazione. Che nel bel mezzo della notte è stata spazzata via dall’operazione “Circolo Formato”, circa quaranta arresti tra i quali sindaco e tre assessori. Rimasti in carcere per anni, bollati dai giornali come “malacarne” asserviti ai clan che dopo essersi sfidati anni prima a colpi di pistola avrebbero riacceso la loro faida alle urne. Ma Femia, che in custodia cautelare in carcere ha trascorso cinque anni e nove giorni, alla fine si è rivelato un uomo innocente. Condannato per due gradi di giudizio a 10 anni, prima che la Cassazione evidenziasse l’assenza di qualsiasi elemento che giustificasse l’ipotesi che fosse un affiliato al clan Mazzaferro, e costretto a subire un nuovo processo d’appello, per verificare se, quantomeno, ci fossero gli estremi per considerarlo un concorrente esterno. Alla fine non c’erano nemmeno quelli. Così, nel 2021, 10 anni dopo essere uscito dalla Questura di Reggio Calabria con le manette ai polsi, i giudici hanno decretato la sua innocenza “per non aver commesso il fatto”. Una sentenza che nessuno ha appellato, perché ormai era chiaro a tutti: non aveva fatto niente. Così come i suoi assessori, più fortunati di lui solo perché, per loro, la scarcerazione è arrivata qualche anno prima, così come l’assoluzione. Femia, da giorni, attraversa la Calabria sotto il vessillo del Partito Radicale per promuovere i referendum. “La gente deve fare il proprio dovere e votare cinque sì - ci dice -. E lo dico perché quello che è capitato a me non capiti più a nessuno e per avere una giustizia giusta”. In Questura, quel 3 maggio 2011, gli uomini in divisa se lo contendevano per portarlo fuori, a favore di telecamere. Alla fine vinsero i più alti in grado e Femia apparve davanti agli obiettivi accompagnato da due poliziotti, col volto sconvolto, dopo l’irruzione notturna di divise e telecamere in casa sua e una giacca a coprire il luccichio delle manette. Era lui il volto a cui gli obiettivi ambivano di più, perché un sindaco che finisce in carcere con l’accusa di essere stato eletto grazie alla ‘ndrangheta non può che essere la star indiscussa di un’operazione antimafia. E quelle foto sono ancora in rete, a ricordare quanto accaduto. In carcere, quel sindaco, divenuto in un batter d’occhi ex, ci è rimasto finché è stato possibile trattenerlo. Ma l’accusa non è mai riuscita a dimostrare l’elargizione di un solo appalto, di una concessione o di un solo finanziamento a uomini del clan. Ai suoi avvocati - Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino - per dimostrarlo è bastato spulciare gli atti di tre anni di amministrazione, le singole assegnazioni, dirette solo nei casi di lavori da pochi centinaia di euro, e sempre affidati alla stazione unica appaltante provinciale, anche sotto soglia, proprio per fugare ogni dubbio di interferenze. Anzi, i giudici, in sentenza, hanno messo in evidenza “una serie di attività dell’amministrazione (…) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale”. I clan, insomma, li aveva combattuti. E tutto il resto è “un quadro probatorio del tutto privo di significatività”. Femia quell’etichetta assegnatagli d’ufficio non l’ha mai accettata. Ed è per questo che ora ha deciso di farsi promotore dei quesiti. “Non chiediamo chissà cosa: chi sbaglia è giusto che paghi - sottolinea -. Ma se una persona non commette un reato non deve pagare. E, soprattutto, non è giusto che paghi prima che sia certo che quel reato c’è stato”. Il quesito che più gli sta a cuore è senza dubbio quello sul carcere. Di celle ne ha viste tre, in quei cinque lunghi anni. La prima a Reggio Calabria, “un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo”. Poi a Palermo, dove i detenuti subivano controlli notturni della polizia penitenziaria e la battitura continua, “un rumore che mi è rimasto in testa”. Vibo Valentia, infine, era “un lager”. Poi c’è il quesito sulla legge Severino, che lo tocca anche come ex amministratore. “Non è costituzionalmente corretto che un politico venga fatto fuori prima che una sentenza sia definitiva: si è innocenti fino a quel momento. E vorrei dire anche che una volta pagato il debito con la giustizia è giusto potersi rifare una vita”, dice. Ma anche la separazione delle funzioni “è fondamentale: non è possibile che si possa saltare da una parte all’altra: il giudice deve essere libero di giudicare e non essere “pressato” dal pm”. Quelli del 12 giugno, assicura però, non sono referendum contro i magistrati. “Anzi, l’obiettivo è aiutarli a lavorare nella massima trasparenza, onestà e chiarezza, senza pressioni - conclude -. Sono cose che loro stessi dovrebbero pretendere”. Referendum. Un voto per affermare lo Stato di diritto di Andrea Piani Left, 10 giugno 2022 Da trent’anni il Parlamento è incapace di assumersi le proprie responsabilità rispetto alla necessità di cambiare il sistema giudiziario. Ora la parola spetta ai cittadini. Il Partito Radicale da sempre lotta per l’affermazione dello Stato di diritto e del rispetto del dettato costituzionale. La giustizia è in quest’ottica la più importante delle nostre battaglie: solamente attraverso un sistema giudiziario adeguato il cittadino può veder ripristinati i propri diritti quando questi vengono violati. Uno Stato che non riesce a far funzionare la propria giustizia non riesce a tutelare i propri cittadini. Sicuramente i cittadini italiani non si sentono tutelati, dato che solamente il 32% dichiara di avere fiducia nella magistratura. Questo dato non stupisce: si consideri che i casi di ingiusta detenzione in Italia negli ultimi 30 anni sono stati più di 30mila e che sono costati complessivamente allo Stato (anzi, ai cittadini) fra indennizzi e risarcimenti circa 900 milioni di curo. Si consideri che i magistrati vengono valutati solamente dai loro colleghi e che il 99% di essi riceve una valutazione positiva. Si consideri che le correnti delle toghe sono diventate dei partiti che si spartiscono le cariche di potere a svantaggio dei magistrati non affiliati ad una corrente. Si consideri che non c’è una distinzione delle carriere fra chi accusa e chi giudica e che si è così creato uno spirito corporativo fra pubblici ministeri e giudici. Si consideri che il decreto L’autore Severino, che avrebbe dovuto limitare la corruzione, in realtà, nella Andrea Piani è consigliere stragrande maggioranza dei casi, ha generale del Partito comportato la perdita della carica radicale per una persona che poi è risultata innocente, con grave danno per la democrazia. Di questa situazione la magistratura è colpevole e ancor più colpevole è il Parlamento che da trent’anni si rivela incapace di assumersi le proprie responsabilità. Da decenni ormai ascoltiamo farisaiche promesse di riforma che puntualmente vengono tradite. I progetti al momento oggetto di esame in Parlamento, pur contenendo alcuni aspetti positivi, non sono sufficienti a cambiare il sistema giudiziario. Ora finalmente la parola spetta ai cittadini, che avranno la possibilità il 12 giugno di superare l’immobilismo parlamentare e di riformare la giustizia. Lo strumento referendario serve proprio a questo: a dare ai rappresentati il potere di correggere i rappresentanti. Con cinque Sì avremo la possibilità di limitare gli abusi della custodia cautelare, che rimarrà comunque in vigore per i reati gravi; di avere magistrati valutati in maniera più equa anche da avvocati e professori universitari di diritto; di limitare lo strapotere delle correnti al Consiglio superiore della magistratura, attraverso la cancellazione dell’obbligo di raccogliere dalle 25 alle 50 firme per presentare la propria candidatura, permettendo così anche ai magistrati non affiliati ad una corrente di candidarsi a questo organo; di separare nettamente chi giudica da chi accusa; di cancellare l’automatismo fra condanna di primo grado e decadenza dalla carica per un amministratore locale e di restituire al giudice il compito di decidere di volta in volta, in caso di condanna, se è necessaria l’interdizione dai pubblici uffici. La Lega si è dimostrato l’unico partito interessato ad un confronto con il Partito radicale sul tema della giustizia. Come da prassi radicale, non rifiutiamo il dialogo con nessuno, neanche con chi potrebbe apparire più distante da noi, anzi riteniamo che l’incontro fra diversità possa arricchire, purché non porti al compromesso ma alla sintesi. Dalla interlocuzione fra Partito Radicale e Lega sono nati questi referendum che non sono né di destra né di sinistra, né garantisti né giustizialisti, sono invece uno strumento di democrazia diretta che va nella direzione della piena affermazione dello Stato di diritto, della piena applicazione della Costituzione scritta e della difesa dei diritti del cittadino. Diritti che vengono negati anche sul piano dell’informazione dato che i tg Rai hanno dedicato fino ad ora lo 0,3% del loro spazio ai quesiti referendari. Si sta calpestando così non il diritto dei promotori dei referendum ma il diritto dei cittadini a conoscere. Ad oggi circa il 50% dei cittadini non sa nemmeno che saremo chiamati ad esprimerci il 12 giugno. Abbiamo cercato di porre rimedio a questa censura attraverso dichiarazioni e manifestazioni pubbliche che sono rimaste inascoltate. Siamo stati costretti a denunciare la grave mancanza di informazione all’Agcom, la quale ha espresso un richiamo formale nei confronti della Rai e di tutti i fornitori di servizi audiovisivi e radiofonici affinché garantiscano una adeguata copertura informativa ai temi referendari. Neanche questa misura sembra sufficiente a placare la violenza della censura, alla quale il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, il tesoriere del Partito radicale Irene Testa e centinaia di cittadini hanno scelto di contrapporre la nonviolenza del digiuno per nutrire la speranza. La speranza non nel vincere ma nel convincere. Convincere le istituzioni e i media a rispettare i diritti e la legalità. I referendum sulla giustizia e la cultura della forca di Claudio Romiti L’Opinione, 10 giugno 2022 A pochi giorni dai referendum sulla Giustizia, registriamo l’agghiacciante intervento della grillina Giulia Sarti la quale, nel corso della puntata del 6 giugno di Quarta Repubblica, talk di approfondimento politico condotto da Nicola Porro su Rete 4, si è detta fortemente contraria a tutti e cinque i quesiti in ballo. Ferocemente contraria soprattutto in merito a quello per la separazione delle funzioni dei magistrati. Secondo l’esponente di un partito con una idea di giustizia di tipo medievale, sarebbe auspicabile l’intercambiabilità dei magistrati. In questo modo, il cittadino sarebbe più garantito da un sistema giudiziario in cui i magistrati, alternandosi a piacimento tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti, a suo dire acquisirebbero maggiori competenze, mandando letteralmente al diavolo la tanto decantata terzietà del giudice super partes. Altrettanto drastica la posizione del suo leader di partito, l’avvocato Giuseppe Conte: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. La magistratura - ha proseguito il presidente del Movimento Cinque Stelle - ha delle colpe, “tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum. Continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”. Ora, colpisce in maniera particolare il fatto che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata, una volta per tutte, la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tal proposito, risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana, che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia-spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Ha scritto infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto, Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”. Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che adesso il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dovesse essere approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno. Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche - i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel Consiglio disciplinare - e l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura, obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile. D’altro canto, occorre ricordare che per decenni, soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra, nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Rammento che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva a una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che, ancora oggi, ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze. E che tende a rafforzare l’idea che, nei fatti, non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, dove la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano troppo sfumate nell’immaginario collettivo. Ovviamente, nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri - pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco - i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”. Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario, che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese. Rush finale per il quorum, Salvini incalza Quirinale e Draghi di Angela Stella Il Riformista, 10 giugno 2022 A due giorni dal voto è lotta contro l’astensione sui cinque quesiti sulla giustizia. Il leader leghista si appella ai vertici dello Stato: “Ricordino agli italiani che votare ai referendum è un diritto”. Gori (Pd) per il Sì: “Riforma Cartabia insufficiente. Dem più interessati al rapporto coi 5S”. È contro il pericolo di una forte astensione che i promotori e i sostenitori del referendum “giustizia giusta” stanno combattendo in queste ultime ore che ci separano dal voto di domenica. Se è vero che l’informazione ha fatto un balzo in avanti in questi giorni, le persone che non sanno che si vota e su cosa sono ancora troppe. Per questo il leader della lega Matteo Salvini è tornato ad appellarsi a Mattarella e Draghi: “Magari sono stato distratto io ma non mi sono accorto che dalle massime cariche dello Stato sia arrivato un promemoria agli italiani sul fatto che possano votare i referendum sulla giustizia. Conto che da qui a domenica sia il presidente della Repubblica sia il presidente del Consiglio si limitino quantomeno a ricordare agli italiani che votare i referendum è un diritto”. Intanto prosegue lo sciopero della fame di Roberto Calderoli: “Che si voti Sì o No per me è indifferente: basta che le persone possano esercitare il loro diritto-dovere. Il silenzio dà l’idea della potenza di una casta che controlla il Parlamento, il governo ed il mondo dell’informazione”. Continua il digiuno anche la tesoriera del Partito Radicale Irene Testa che ieri con Gaia Tortora ha visitato il carcere di Regina Coeli: “Quando vedi un uomo chiuso in una cella liscia senza il materasso e senza le lenzuola, perso nei suoi pensieri, un malato che il carcere non può curare...pensi che valga ancora la pena lottare per i diritti di tutti”, ha detto la radicale. ha ribadito chiaramente di andare a votare cinque Sì è il sindaco dem di Bergamo Giorgio Gori: “I referendum sono strumenti imperfetti per dare un segnale alla politica affinché faccia ciò che non è riuscita a fare. Serve equilibrio tra accusa e difesa, occorre l’indipendenza dei magistrati e va ripristinata la linea garantista: la mia speranza era che il Parlamento facesse il suo lavoro ma così non è stato e la riforma Cartabia è insufficiente. Il mio partito, il Pd, ha deciso di dare un’indicazione per 5 no e mi dispiace che prevalga una linea troppo prossima alle istanze della magistratura e di convenienza nel non creare distanze con il M5S, personalmente il giustizialismo dei grillini è lontanissimo dalle mie idee”. A proposito di M5S ieri pomeriggio alla Camera la loro responsabile giustizia, l’onorevole Giulia Sarti, durante la presentazione del libro La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica del professor Andrea Morrone, ha sottolineato “la distanza del Movimento dai quesiti ma nel merito, non certo come contrasto allo strumento referendario. Non possiamo avere paura dei referendum, anzi l’abbassamento del quorum deve divenire un tema centrale del dibattito”. Idea condivisa dal dem Stefano Ceccanti. Morrone invece ha spiegato come il “referendum certamente sconta una crisi. Dal 1995 ad oggi, salvo nel 2011, esso non è stato più raggiunto. La presenza del quorum rappresenta un ostacolo formidabile per poter arrivare alla decisione di abrogare o mantenere una legge in vigore. Domenica i 5 referendum sulla giustizia sconteranno questo grande handicap. È sempre più facile per chi vuole contrastare il contenuto di una domanda referendaria invitare a disertare le urne, contando sull’astensionismo fisiologico che supera il 30% in questo Paese, piuttosto che confrontarsi con gli avversari nel voto”. Ad intervenire a favore di cinque Sì Riccardo Magi, deputato e presidente di +Europa: “È stato spesso detto, ad esempio da Enrico Letta e Giuseppe Conte, che queste sono materie troppo complesse per essere affrontate con un referendum che taglia con l’accetta leggi in vigore. E però allora non possiamo non tenere presente che un altro strumento che c’è nella nostra Costituzione - ossia la legge di iniziativa popolare, immaginato dai Costituenti proprio per non tagliare con l’accetta - è stato umiliato e con esso i milioni di cittadini che lo hanno firmato. I referendum eutanasia, cannabis e separazione delle funzioni sono stati preceduti da leggi di iniziativa popolare rimaste nei cassetti di Montecitorio. Per dire che non ci si deve stupire se i processi politici e sociali si allargano e occupano anche degli spazi che magari non sarebbero loro propri se gli strumenti preposti non funzionano”. “Boicottano i referendum per paura del cambiamento…” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 10 giugno 2022 Il vicepresidente del Cnf Francesco Greco: “I cinque quesiti sono un punto di partenza per riforme serie”. “In questi giorni molto importanti per il Paese è bene far sentire la propria voce”. Francesco Greco, vicepresidente del Cnf, si esprime sul referendum del 12 giugno. “Le mie”, premette, “sono considerazioni personali di chi ha a cuore il presente ed il futuro del sistema giustizia”. Secondo Greco, il voto di domenica prossima rischia di vedere una scarsa affluenza alle urne. “C’è stata - dice - una volontà politica chiara, volta a fare di tutto per impedire il raggiungimento del quorum. Io mi auguro che fallisca questo intento di boicottaggio del referendum”. Il termine boicottaggio, usato non a caso dall’avvocato Greco, indica una critica ben precisa rispetto alla rotta, altrettanto precisa, tracciata nei mesi scorsi. “Il fatto che sia stato stabilito un solo giorno per votare - afferma - è già un aspetto molto singolare. Le scuole sono già chiuse e non c’era motivo per svolgere il referendum in un solo giorno. Inoltre, ci sono state alcune operazioni. La Corte costituzionale ha certamente disinnescato il referendum nel momento in cui non sono stati ammessi i tre quesiti fondamentali, che avrebbero portato la gente a votare. Mi riferisco a quelli sull’eutanasia, sulla responsabilità dei magistrati e sulla cannabis”. Nel merito Greco espone il suo orientamento. “Le motivazioni - commenta - che vengono date dai sostenitori del “no” sono risibili. Prendiamo, per esempio, il quesito sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. La magistratura spende l’argomentazione riguardante gli avvocati che potrebbero essere risentiti verso il magistrato e quindi potrebbero far prevalere le ragioni proprie. Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una cosa gravissima e l’avvocato dovrebbe risponderne da un punto di vista disciplinare, deontologico e, forse, anche da un punto di vista civile. Non si può sostenere questo tipo di impostazione, temendo di imbattersi in un avvocato mascalzone. I Consigli giudiziari, è bene ribadirlo, sono composti dal presidente della Corte d’appello, dal procuratore generale della Corte d’appello, da un rappresentante della magistratura giudicante, in genere il presidente del Tribunale, da un rappresentante della magistratura requirente, in genere il procuratore della Repubblica, da professori universitari e da uno o due avvocati. Quella degli avvocati è una percentuale minoritaria e mi chiedo come possa interferire nella valutazione dei giudici e nell’eventuale giudizio che l’avvocato scorretto dovesse dare per rifarsi su un magistrato. Cosa inverosimile, se non in casi patologici”. La verità, a detta di Francesco Greco, è un’altra: “I Consigli giudiziari non sono altro che sedi decentrate del Csm. E anche in questa sede si vogliono far prevalere le correnti. Non si vuole che gli avvocati abbiamo contezza e conoscenza dei sistemi di gestione delle stesse correnti, che sono il vero lato patologico della organizzazione della magistratura”. Sul quesito riguardante il Csm l’avvocato Greco ritiene che “non è certamente l’eliminazione del numero dei voti necessari per potersi candidare la soluzione ai problemi dell’organo di autogoverno della magistratura”. “La vera soluzione - dice - passa per l’eliminazione delle correnti. Bisogna impegnarsi e trovare un sistema per vietare il correntismo”. Il voto di domenica è importante per cercare di risolvere alcune questioni che si ripercuotono sulla vita di tutti i cittadini, senza tralasciare la dignità professionale degli avvocati. “A chi mi domanda - conclude Greco - che cosa voterò e mi chiede un consiglio sui cinque quesiti referendari rispondo in questo modo. Se per te la giustizia funziona, nonostante l’Italia abbia avuto decine e decine di condanne dall’Unione europea, vota “no”. Se per te la giustizia non funziona e ha bisogno di una effettiva ristrutturazione, vota “sì”. Con la consapevolezza che questi quesiti non risolveranno i guai e i problemi della giustizia italiana, ma costituiranno un punto di partenza perché il Parlamento metta mano seriamente alla riforma della giustizia e non attraverso le riforme dei codici di rito. Tutti i ministri, negli ultimi dieci-quindici anni si sono fatti la propria riforma. Ogni ministro che viene si fa la sua riforma del codice in un percorso che il più delle volte finisce su un binario morto. Occorrono invece interventi riformatori che mirino all’efficienza. Principio dimenticato nel nostro sistema giuridico, quando in ogni organizzazione, lavoro, struttura o consesso umano l’efficienza è un parametro fondamentale”. Cassese: “Difficile arrivare al quorum? La sfida è riformare la giustizia” di Pierluigi Spagnolo Gazzetta dello Sport, 10 giugno 2022 Il costituzionalista e il voto di domenica: “Se non si arrivasse al 50+1, comunque sarebbe una spinta per il Parlamento”. Professor Cassese, domenica voteremo per i referendum, cinque quesiti sui temi della giustizia. Cosa si aspetta? “Lo stato della giustizia in Italia è molto critico. Sei milioni di cause pendenti. Una media di più di sette anni per concludere i tre gradi di giudizio in sede civile e di più di tre anni in sede penale. Negli ultimi vent’anni, ogni anno, mille decisioni di ingiusta detenzione. Fuga dalla giustizia, a causa del ritardo. Fiducia decrescente nella giustizia. Il lavoro iniziato dalla ministra Marta Cartabia va nella giusta direzione, ma il Parlamento frena. É vero che è difficile fare riforme con i referendum, perché sono solo abrogativi e perché richiedono solo una risposta: sì o no. Ma è vero altresì che i referendum possono svolgere un ruolo sollecitatorio o sostitutivo. È vero che alcuni dei quesiti riguardano argomenti minimi e altri sono male formulati. Ma una larga partecipazione al voto referendario e una risposta positiva possono servire per stimolare una riforma necessaria, con la quale il Parlamento deve porre rimedio anche ad altre questioni, come la scarsa indipendenza dell’ordine giudiziario, a causa della forte politicizzazione di una parte di esso, di una presenza di magistrati nelle amministrazioni, nei corpi legislativi e nei vertici politici, che fa dubitare i cittadini della piena imparzialità dell’ordine giudiziario”. Tra i quesiti, ce n’è uno che ritiene particolarmente importante, sul quale è giusto che prevalga il sì? “Pur con le riserve che ho già indicato, ritengo importante il quarto quesito, quello della scheda grigia, che riguarda la valutazione dei magistrati. Oggi il Consiglio superiore della magistratura non distingue tra magistrati, per cui tutti hanno il massimo dei voti. Occorre invece che vengano valutati e che non vengano valutati soltanto da loro colleghi, ma anche da avvocati e professori nei consigli giudiziari. Un altro quesito riguarda le misure cautelari, perché si abusa della carcerazione preventiva. Ripeto, tuttavia, che questo referendum ha un significato complessivo di stimolo, perché si provveda rapidamente a completare il varo della riforma Cartabia e si continui su quella strada, perché molti altri sono i passi da fare”. Su materie così tecniche, non sarebbe più giusto che si pronunciasse il Parlamento? “Lo penso anch’io, ma, se il Parlamento non si muove, occorre che si esprima il popolo direttamente, attraverso il referendum”. Entriamo più nel merito dei cinque quesiti... “Il primo, quello della scheda rossa, relativo alla legge del 2012 che prevede sospensione, incandidabilità e decadenza per chi sia condannato per più di due anni, riguarda una norma che colpisce anche le persone non definitivamente condannate. Quindi, colpisce anche le persone che sono state condannate in primo grado e assolte in secondo grado. Inoltre, è una norma errata perché prevede un automatismo, perché potrebbero essere gli stessi giudici ad irrogare, tra le pene accessorie, la incompatibilità o incandidabilità, quando giudicano, caso per caso. Per il secondo quesito, quello relativo alle misure cautelari, scheda arancione, che riguarda una parte dell’articolo 274 del codice di procedura penale, come ho già detto, attiene all’abuso della carcerazione preventiva e colpisce soltanto la carcerazione preventiva per pericolo di reiterazione del reato”. Parliamo agli altri... “Il terzo quesito, quello relativo alla separazione delle carriere, contenuto nella scheda gialla, prevede che non si possa passare dalla magistratura requirente o inquirente (pubblico ministero) alla magistratura giudicante, e viceversa. Le due funzioni sono interamente diverse. Una accusa, l’altro giudica. Richiedono anche preparazioni diverse. Il quarto quesito, quello relativo alla valutazione, contenuto nella scheda grigia, permette che alle valutazioni di magistrati partecipi una minoranza di avvocati e professori, così come oggi nel Consiglio superiore della magistratura vi sono membri che non provengono dalla magistratura, ma sono eletti dal Parlamento. L’ultimo quesito, quello riguardante l’elezione del Csm, contenuto nella scheda verde, consente di candidare un magistrato per l’elezione al Csm senza previamente raccogliere firme di presentazione, che sono oggi tra 25 e 50; si tratta di una modifica molto piccola che è rivolta ad evitare che per candidarsi i magistrati si appoggino alle correnti, e quindi è diretto ad evitare la “sovranità” delle correnti dentro il Csm”. Il rischio è di non raggiungere il quorum, vanificando ancora una volta la validità del referendum. Si è discusso spesso dell’opportunità di eliminare questo vincolo... “Se si considera quello che ho detto, cioè il significato sollecitatorio di un risultato referendario, il problema del quorum è meno importante. Basta che un largo numero di cittadini esprima la propria opinione, anche se il risultato positivo non c’è, perché spingerà il Parlamento a provvedere”. Sempre domenica c’è anche un voto amministrativo in città importanti come Genova, Verona e Palermo, per esempio. Può essere considerato un test politico, con effetti sul governo? “Lo stato attuale delle forze politiche è talmente magmatico che ogni sondaggio e ogni elezione locale diventa un test politico. L’assenza di riflessioni a più lungo termine, di programmi, di forze politiche che siano davvero partiti-associazione, con una base, congressi, strutture sociali vitali, fa sì che le forze politiche siano ormai ridotte a un leader e alla sua corte, più o meno litigiosa. Ne deriva che c’era uno spasmodico interesse a “prendere la temperatura” dell’elettorato ogni giorno. Quest’ultimo, a sua volta, è estremamente fluido, tant’è vero che vi sono forze politiche che, in pochi anni, hanno raddoppiato o dimezzato il loro seguito, e in qualche caso prima raddoppiato poi dimezzato il proprio seguito”. Dopo le regole anti-Covid, anche la guerra evidenzia le differenze nella maggioranza. Il governo reggerà? “Sono ottimista. Il governo reggerà perché non vi sono reali alternative, elezioni politiche generali sono vicine e bisogna portare avanti l’attuazione del piano di ripresa”. Che cosa può succedere nel prossimo autunno? “Continui malesseri, ma non una vera propria malattia: questa è la mia previsione o, se vuole, la mia speranza”. Ci aspetta una campagna elettorale permanente, fino alle Politiche del 2023? “Ormai siamo in una campagna elettorale continua. Comincia immediatamente dopo le votazioni e non smette. Le cause sono note. Da un lato, la fluidità dell’elettorato; dall’altro l’inconsistenza delle forze politiche. Infine, un sistema elettorale in continuo cambiamento, che non riesce a consolidare una maggioranza duratura, di durata almeno quinquennale”. Qual è il suo giudizio sul premier Draghi e sul governo? “Sta facendo complessivamente bene, anche se non riesce ad attivare tutte le forze del Paese. Avrebbe la possibilità di fare molto di più se riuscisse ad andare oltre l’ascolto del battibecco quotidiano e si dotasse di quadri intermedi di formazione meno arcaica”. Il Pnrr era pensato per il rilancio del Paese dopo la pandemia. La guerra e i rincari dell’energia cambiano tutto. Rischiamo di perdere i fondi? “Non credo che rischiamo di perdere i fondi europei, anche se qualche ritocco va fatto, in particolare per la debolezza delle strutture pubbliche del Sud”. C’è il rischio che una parte dei fondi del Pnrr possa finire in mani “poco limpide”? “Questo continuo evocare e ingigantire i pericoli della mafia e della corruzione è dannoso per il Paese. Occorre non fidarsi delle percezioni, ma affidarsi alle rilevazioni dei dati reali, che consentono di ridimensionare l’immagine dell’Italia come un Paese governato dalla mafia e della corruzione”. “Sì ai referendum sulla giustizia, per dire No agli ignavi” di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 giugno 2022 Intervista a Eduardo Savarese, giudice del tribunale di Napoli, favorevole ai referendum. “Bisogna essere netti: occorre separare gli insofferenti, che non ne possono più, dagli ignavi acquattati beatamente nello status quo”. Da magistrato sono favorevole al ‘sì’ ai referendum sulla giustizia per motivi ideologici, nel senso nobile del termine: i referendum vogliono essere un segnale di insofferenza per gli assetti della Costituzione materiale della magistratura, in sé e rispetto agli altri poteri dello stato. E qui bisogna essere netti: occorre separare gli insofferenti, che non ne possono più, dagli ignavi acquattati beatamente nello status quo”. A dirlo al Foglio è Eduardo Savarese, giudice del tribunale di Napoli. “Io sto cercando di non essere tra gli ignavi almeno da due anni - aggiunge Savarese - cioè da quando ho dato le dimissioni dall’Anm, in polemica con l’assenza di autocritica interna dopo lo scandalo delle correnti”. Per il giudice napoletano “ciò che è accaduto dopo il caso Palamara è stato il trionfo dell’ipocrisia: l’Anm avrebbe dovuto promuovere una seria analisi storica del fenomeno del correntismo, invece alla fine sono stati solo trovati alcuni capri espiatori”. L’insofferenza nei confronti della magistratura, così, anziché placarsi, è pure aumentata, non solo nell’opinione pubblica ma persino all’interno dello stesso mondo togato: “L’insofferenza la percepisco in tanti colleghi - dice Savarese - Basta vedere i tanti voti che ha avuto la proposta del sorteggio nel referendum interno all’Anm o i risultati deludenti dello sciopero. Spesso l’insofferenza può portare a dire cose inesatte o superficiali, ma bollarla come mero populismo è sbagliato, perché in questo modo non si riesce a cogliere ciò che sta accadendo”. Ecco allora l’invito di Savarese ad andare a votare i referendum sulla giustizia per dare “una scossa” al sistema, nonostante le perplessità su alcuni aspetti. Il giudice si dice favorevole al primo quesito sull’abolizione della legge Severino, soprattutto perché eliminerebbe la sospensione degli amministratori locali per una sentenza di condanna soltanto di primo grado: “Tante sentenze vengono ribaltate dopo molti anni. Non si può consentire un effetto così pesante sulla vita politica del paese”. Dall’altro lato, Savarese nota “la contraddizione” prodotta dall’eliminazione anche della parte della legge che prevede l’incandidabilità dei politici condannati in via definitiva: “L’incandidabilità sarà stabilita caso per caso dal giudice, questo va in contrasto con l’orientamento che mira a limitare il potere della magistratura”. Savarese comprende anche lo spirito del secondo quesito referendario, quello sulla limitazione delle misure cautelari: “Analizzando i dati, dobbiamo prendere atto che c’è tanta ingiusta detenzione e quindi che c’è un problema che riguarda il sistema delle misure cautelari. Certo, sono un po’ preoccupato per le ricadute che il quesito potrebbe avere sulla privazione di questo strumento per diversi reati sentiti a livello sociale, ma sono sicuro che il legislatore non lascerebbe lacune su questo fronte”. Sulla separazione delle funzioni il discorso si fa più complesso. Per Savarese “il pubblico ministero sta diventando sempre di più un corpo estraneo alla giurisdizione. Fossi un politico lavorerei per riportarlo nell’alveo costituzionale. Il quesito però non prevede la separazione delle carriere. Al contrario, con la separazione delle funzioni il pm diventa sempre più acefalo, autoreferenziale e slegato da controlli”. Insomma, “non bisogna illudersi che il quesito risolva il problema del ruolo del pubblico ministero e dei contrappesi al suo potere”. Savarese si dice non spaventato neanche dal quesito che apre al giudizio di avvocati e docenti universitari nei consigli giudiziari per la valutazione professionale dei magistrati (“Sia la magistratura che l’avvocatura hanno gli strumenti per controllare la correttezza di queste procedure”) e, infine, si dice favorevole al quinto quesito che elimina l’obbligo di raccolta firme per candidarsi alle elezioni del Csm: “Sappiamo bene che il problema non è tanto trovare le firme per candidarsi, ma farsi eleggere senza avere dietro le correnti, ma il quesito ha un importante valore simbolico”. Insomma, Savarese non vede affatto nei referendum un attentato all’indipendenza della magistratura: “Vorrei che i magistrati avessero il coraggio di dire che gli attentati più terribili alla nostra indipendenza e autonomia sono stati fatti da magistrati contro altri magistrati”. Gli studenti torinesi in carcere o ai domiciliari da settimane di Luca Sofri ilpost.it, 10 giugno 2022 Sono ventenni e incensurati, ma hanno subito provvedimenti durissimi per uno scontro con la polizia in un corteo dello scorso febbraio. Da lunedì sono agli arresti domiciliari due studenti che erano rimasti coinvolti in alcuni scontri con la polizia avvenuti lo scorso febbraio a Torino durante un corteo studentesco: da settimane si trovavano in carcere per resistenza a pubblico ufficiale, e sono tornati a casa con cinque giorni di ritardo perché non si trovavano materialmente i braccialetti elettronici. Un altro studente è invece ancora in carcere e altri otto, tra studenti e studentesse, sono tuttora sottoposti ad altre forme di misure cautelari. La severità delle misure cautelari decise per gli studenti e le studentesse, tutti intorno ai vent’anni, sta attirando critiche e proteste, in particolare per quanto riguarda i tre che sono finiti in carcere: questo nonostante fossero incensurati, e sebbene negli scontri i poliziotti non avessero riportato lesioni particolarmente gravi. Lo scorso 18 febbraio a Torino c’era stata una mobilitazione studentesca per chiedere grosse riforme e l’abolizione dei programmi di alternanza scuola-lavoro, in seguito alla morte di due studenti durante un apprendistato a inizio anno. La manifestazione faceva parte di una serie di proteste e occupazioni organizzate a livello nazionale, in alcuni casi violentemente represse dalla polizia. Durante il corteo torinese di febbraio c’erano stati degli scontri e alcuni ragazzi avevano provato a forzare il cancello della sede locale di Confindustria. Per questi fatti, 11 studenti erano stati sottoposti a varie misure cautelari che erano state applicate dal 12 maggio: tre di loro erano stati arrestati e portati in carcere, quattro erano stati sottoposti direttamente ai domiciliari, e altri quattro erano stati sottoposti all’obbligo di firma giornaliera. A fine maggio, il Tribunale del Riesame ha poi riformato l’ordinanza disponendo l’obbligo di firma quotidiana per tre su quattro studenti prima ai domiciliari, diminuendo la frequenza dell’obbligo di presentazione per altri tre su quattro già sottoposti all’obbligo di firma, e disponendo gli arresti domiciliari con divieto di comunicazione e applicazione del braccialetto elettronico per due degli studenti in carcere, Emiliano e Jacopo. I due sono comunque rimasti in carcere per altri cinque giorni perché non erano ancora stati materialmente recuperati i braccialetti elettronici. Da lunedì 6 giugno si trovano a casa. Infine, sono state confermate le ordinanze per uno degli studenti in carcere e per una studentessa ai domiciliari. Valentina Colletta, l’avvocata che con Claudio Novaro assiste gli undici studenti coinvolti, spiega che “Emiliano e Jacopo, incensurati, sono sì ai domiciliari ma con le restrizioni più restrittive che si possano ipotizzare: hanno il divieto di contatto con chiunque non sia un familiare convivente, per cui non hanno possibilità di contatto né telefonico, né epistolare né telematico con altre o altri”. Uno dei due è iscritto alla facoltà di veterinaria e dovrebbe ora sostenere un esame all’università, “ma dovremo chiedere un’autorizzazione speciale al Gip, sperando che la conceda affinché possa almeno via mail concordare con il professore un esame online. Tutte le attività di lavoro e volontariato in cui erano impegnati i due studenti non possono purtroppo essere recuperate, ma per quanto riguarda l’università cercheremo almeno di contenere i danni”, dice Colletta. L’unica possibilità di contatto con i familiari conviventi crea poi problemi per quegli studenti che hanno genitori separati “e ce ne sono, nei casi di cui ci stiamo occupando”, dice l’avvocata. “Paradossalmente Emiliano e Jacopo hanno più restrizioni a casa, pur essendo fortunatamente a casa, che non in carcere dove potevano scrivere, ricevere lettere o visite”. Sul loro caso si sono mobilitati centri sociali, movimenti e collettivi studenteschi, alcuni parlamentari come Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, il gruppo Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso e il garante dei diritti delle persone private della libertà. Colletta racconta che qualche giorno fa, durante una conferenza stampa, “proprio il garante per i detenuti ha ricordato, anche in base a diversi studi, come sia sconsigliata la detenzione in carcere per ragazzi giovani, con meno di 21 anni, e soprattutto incensurati: il carcere ha un effetto criminogeno in generale e a maggior ragione su soggetti così giovani. Emiliano era in cella con un omicida e Francesco, che resta in carcere, ha da poco fatto vent’anni, è un ragazzo socialmente normo-inserito e si è ritrovato in un contesto non particolarmente formativo, mettiamola così. Ha subito sicuramente un trauma, dal quale spero si riprenderà in tempi ragionevoli”. Mercoledì sono state depositate le motivazioni del Tribunale del Riesame e ora i legali decideranno se fare ricorso o meno in Cassazione relativamente all’applicazione delle misure cautelari: la Cassazione può metterci anche un anno a prendere una decisione, dice Colletta, e gli studenti sperano di riuscire a ottenere in tempi più rapidi un’attenuazione delle misure, almeno per chi è in carcere o ai domiciliari. L’accusa per cui sono state disposte le misure cautelari agli studenti di Torino è di resistenza a pubblico ufficiale. È stato contestato anche il reato di lesioni, ma con le misure cautelari non c’entra: “Alcuni agenti sono rimasti feriti con una prognosi media intorno ai tre giorni”, dice Colletta: “La prognosi peggiore è di 10 giorni per un agente che era in tenuta antisommossa, che si era dimenticato di mettere il casco e gli è arrivata un’asta da bandiera sullo zigomo causandogli un’escoriazione”. Secondo gli avvocati, riguardo agli scontri è stato utilizzato un “linguaggio enfatizzato che porta a sovradimensionare i fatti e ad aumentare la pericolosità sociale degli indagati”. I precedenti, dice Colletta, “dicono che a nessuno viene inflitta una condanna così pesante per il reato di resistenza”. Toscana. Mamme con minori in case-famiglia al posto del carcere di Alessandro Di Maria La Repubblica, 10 giugno 2022 Mai più bambini in carcere. È l’obiettivo del progetto sperimentale promosso dalla Regione Toscana, con il Comune di Firenze, che consentirà ad alcuni bambini, figli di madri detenute, di vivere la loro infanzia in case-famiglia o in case alloggio e non più in un carcere. Il tutto grazie alle risorse stanziate dal Ministero della Giustizia per progetti di accoglienza residenziale di mamme detenute insieme ai figli. Il piano si articolerà nel prossimo biennio e potrà riguardare tre nuclei famigliari di madri con figli piccoli detenuti (uno nel 2022 e due nel 2023). Per ora in Toscana non ci casi di questo tipo. “Bambine e bambini in carcere non ci devono stare - spiega l’assessora regionale alle Politiche sociali Serena Spinelli - questo progetto è un passo avanti importante per il rispetto dei loro diritti. Dobbiamo essere pronti, sperando che non ce ne sia bisogno”. Si prevede da subito la costituzione di un gruppo di lavoro integrato coordinato a livello territoriale dal Comune di Firenze: poi saranno individuate le strutture aderenti alla sperimentazione dell’area vasta Toscana Centro, ci sarà la loro mappatura e l’avvio dell’attività formativa disciplinare per i professionisti coinvolti nell’accoglienza. “Sono previste una serie di azioni tra cui formazione e monitoraggio - aggiunge l’assessora al Welfare di Palazzo Vecchio Sara Funaro - appena avremo le risorse faremo gli avvisi per individuare le strutture”. Liguria. Detenuti psichiatrici, la Rems di Calice al Cornoviglio è realtà di Fabio Lugarini cittadellaspezia.com, 10 giugno 2022 La struttura residenziale nasce da una collaborazione tra il Ministero della Giustizia e quello della Salute. Avrà funzioni terapeutico riabilitative a permanenza transitoria ed eccezionale, sarà a numero chiuso e senza la presenza di Polizia penitenziaria. Le funzioni della Rems sostituiscono l’esecuzione delle misure di sicurezza negli ospedali psichiatrici giudiziari e nelle case di cura e custodia relativo a interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri. Gaetano Brusa presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova ha illustrato come questa residenza superi gli ospedali psichiatrici. Una struttura all’avanguardia che ospiterà venti detenuti. Il primo arrivo è previsto per la prossima settimana. Parte da qui l’esperienza della Rems, la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, inaugurata questa mattina a Santa Maria La Cassorane di Calice al Cornoviglio. Al taglio del nastro erano presenti i vertici di Asl 5, le autorità civili, militari e religiose del territorio. La Rems di Calice è la prima struttura in Italia che ospiterà pazienti provenienti da altre regioni sottoposti a misure detentive perché socialmente pericolosi e incapaci di intendere e volere nel momento della commissione del reato la seconda in Liguria, dopo quella di Genova Prà destinata all’accoglienza dei soggetti liguri, colpiti da misura di sicurezza detentiva. La Rems si trova in un’area di 1.200 metri quadri, venne acquistata da Asl 5 nel 2014 per 1milione e 800mila euro. Per la ristrutturazione sono stati investiti circa 3milioni di euro. La struttura sarà gestita dal Dipartimento di Salute mentale e dipendenze di Asl 5 attraverso una convenzione con due cooperative di Lanciano, in provincia di Chieti, che si sono costituite ad hoc e aggiudicate un appalto regionale che prevede anche il comodato d’uso, rinnovabile nel tempo, dell’immobile e di tutto l’arredamento e la strumentazione con i quali è stata allestita la struttura. “E’ un giorno importante per Asl 5 e tutto il territorio - ha spiegato il direttore Generale di Asl 5 Paolo Cavagnaro -, lo Stato e la Regione. Qui verranno accolti i detenuti con problemi psichiatrici di altre regioni. La situazione di queste persone è di grande fragilità ed è compito del Servizio pubblico farsene carico per poterli curare e reinserire. La prossima settimana potrebbero già esserci i primi ingressi. Un finanziamento dello Stato coprirà tutte le spese di gestione e del personale. Asl darà il suo contributo con uno psichiatra che coordinerà la struttura, gestita da una cooperativa. Tutte figure professionali che garantiranno l’adeguata risposta alle necessità di questi cittadini”. Nella Rems saranno presenti 18 infermieri turnisti, 8 oss, 4 riabilitatori psichiatrici, 4 ausiliari e uno psicologo, oltre ad educatori ed assistenti sociali. A questo staff si aggiungeranno 4 psichiatri che saranno presenti in struttura 12 ore al giorno e reperibili di notte, a cui si affiancherà uno psichiatra Asl, di raccordo tra la struttura e l’azienda, che garantirà 18 ore a settimana e avrà funzione di direttore sanitario. La struttura residenziale nasce da una collaborazione tra il Ministero della Giustizia e quello della Salute. Avrà funzioni terapeutico riabilitative a permanenza transitoria ed eccezionale, sarà a numero chiuso e senza la presenza di Polizia penitenziaria. Le funzioni della Rems sostituiscono l’esecuzione delle misure di sicurezza negli ospedali psichiatrici giudiziari e nelle case di cura e custodia relativo a interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri. Gaetano Brusa presidente del Tribunale di Sorveglianza di Genova ha illustrato come questa residenza superi gli ospedali psichiatrici. “È un percorso iniziato anni fa con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari che erano a gestione prevalentemente giudiziario - ha detto -. Siamo passati a una gestione esclusivamente di tipo sanitario perché l’autore di reato malato psichico, prosciolto per il vizio totale di mente e ritenuto socialmente pericoloso dalla magistratura necessita di interventi che prendano in considerazione come la causa del crimine che ha commesso stia nella malattia. Giustamente se ricondotto nel tema della malattia, il tema dominante per il paziente è la cura della stessa. In termini giuridici viene definito internato, ma è considerato un paziente a tutti gli effetti. Si tratta di un dato fondamentale perché nella Rems si accede nel momento in cui la fase della malattia è più acuta, problematica e necessita di un’impostazione da parte della psichiatria di un percorso riabilitativo. La struttura non è caratterizzata da un ‘tempo che non cessa’, eterno. È un momento transitorio e necessario per impostare la cura nel progetto riabilitativo del paziente per poi rimetterlo sul territorio, anche in strutture comunitarie ed eventualmente anche poter consentire di rientrare nella sua famiglia, sempre seguito finché avrà bisogno dell’assistenza sanitaria al pari di tutti soggetti che sono malati, che non hanno commesso reati e che quindi non danno nessun segno di pericolosità sociale”. La Rems di Calice è dunque una struttura all’avanguardia per la sicurezza e, oltre ad un sistema di videosorveglianza e antintrusione interno e esterno, godrà, sulle 24 ore, di un servizio di Guardie Giurate Particolari, dell’attento monitoraggio delle Forze di Polizia territorialmente competenti e dell’attuazione di un collegamento di emergenza fra la centrale operativa del servizio di vigilanza interno alla Rems ed il 112. “Questa struttura nasce dall’esigenza di crearne una che potesse coprire tutto il territorio nazionale - ha spiegato Rosanna Ceglie direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze di Asl 5 - ed è stata individuata a Calice e accoglierà pazienti da tutti Italia. Nei prossimi due, tre anni potremo vedere come l’esperienza si realizzerà e quali saranno i risultati per mantenere la struttura di Genova per pazienti in dirittura di dimissione”. “Sarà una sfida molto importante - ha aggiunto la dottoressa Elisabetta Olivieri direttore funzionale della Rems di Calice al Cornoviglio - che si qualifica a livello nazionale e sarà un lavoro di grande collaborazione tra gli operatori del settore, che ricoprono incarichi tutti diversi e si avvarrà di tutte le agenzie territoriali dalle forze dell’ordine locali e necessiterà di un’ampia collaborazione di quelle che saranno le agenzie dei territori di provenienza dei pazienti. Lavoreremo con persone provenienti da tutta Italia e verranno attuati progetti terapeutici riabilitativi e individuali con i vari dipartimenti. Sarà davvero importante confrontarsi con realtà che non conosciamo e che andremo a conoscere”. Firenze. Casa per detenute madri, due anni di tempo per realizzarla di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 giugno 2022 L’Icam si farà, e si farà in tempi previ. La conferma arriva anche dal provveditorato all’amministrazione penitenziaria, che attraverso le parole della dirigente del Prap Angela Venezia, conferma la volontà politica di realizzare a Firenze l’istituto a custodia attenuata per detenute madri nella palazzina della Madonnina del Grappa a Rifredi. “Mi auguro che i tempi per l’Icam siano maturi, anzi immediati - ha detto Venezia - Abbiamo preso rapporto con il nostro architetto affinché faccia un sopralluogo nella struttura. Dobbiamo verificarne le condizioni, partire da quanto esiste per migliorarla il più possibile con l’obiettivo di far dimenticare ai bambini figli di detenute che quella non è una struttura detentiva”. Il progetto dell’Icam a Firenze risale al 2010, quando fu firmato un protocollo da ministero della Giustizia, Regione (che stanziò 400 mila euro, poi diventati 700 mila), tribunale di Sorveglianza, Istituto degli Innocenti e Madonnina del Grappa per costruire l’istituto nel palazzo in via Fanfani di proprietà dell’ente ecclesiastico. Poi però il progetto si è inabissato, e i lavori non sono mai partiti. “Apprendiamo con soddisfazione la volontà del Provveditorato di portare avanti nella nostra palazzina un progetto che è fermo da oltre dieci anni - ha detto il presidente della Madonnina del Grappa e cappellano di Sollicciano Vincenzo Russo - I bambini devono crescere lontano dalle sbarre e l’Icam adesso diventa un’ipotesi finalmente reale, spero che i tempi per la realizzazione siano brevi”. Secondo il Comune, ci vorranno circa due anni per finire i lavori, che dovrebbero partire a settembre. Nel frattempo, per allontanare i bambini dal carcere, dalla Regione arriva un progetto (per il prossimo biennio) che permetterà di accogliere nelle case famiglia già esistenti a Firenze tre detenute madri con i loro figli. Costo dell’operazione circa 140 mila euro. Le strutture saranno individuate da Palazzo Vecchio all’interno del Comune. “Bambini e bambine in carcere non ci devono stare - ha detto l’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli - Questo progetto è un passo avanti importante per il rispetto dei loro diritti; e al tempo stesso per favorire il ripristino della rete di rapporti familiari in funzione dell’equilibrato sviluppo del minore, i percorsi di autonomia delle madri, il loro reinserimento sociale”. “Si tratta di un progetto sperimentale in collaborazione con la Regione - ha aggiunto l’assessore alle politiche sociali di Firenze Sara Funaro - che permette di dare una risposta ulteriore al tema della genitorialità in carcere. I bambini hanno il diritto di crescere in un ambiente idoneo alla loro età e non di reclusione. Noi vogliamo tutelarli e garantire loro un futuro sereno ed equilibrato”. Il progetto vede la collaborazione del garante dei detenuti Eros Cruccolini e del Coordinamento Pollicino. Modena. I cinque agenti indagati per le violenze continuano a lavorare in carcere di Nello Trocchia Il Domani, 10 giugno 2022 Fra di loro c’è anche un sindacalista. Come gli altri, è accusato di tortura e lesioni aggravate nei confronti dei reclusi. Dal ministero dicono di aspettare gli atti della procura per decidere. L’inchiesta per i fatti accaduti nel carcere l’8 marzo 2020 continua e la proroga delle indagini indica la necessità di continuare con gli approfondimenti. Intanto il tempo passa e ormai sono già trascorsi due anni dai fatti. La procura di Modena ha iscritto nel registro degli indagati cinque agenti della polizia penitenziaria che devono rispondere dei reati di tortura e di lesioni aggravate per i fatti accaduti nel carcere di Modena, l’8 marzo 2020. Tutti quanti sono ancora in servizio nello stesso carcere. I nomi degli indagati sono contenuti nella richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari, presentata dalla procura locale e firmata dal procuratore Luca Masini e dalla magistrata Lucia De Santis. Tra gli indagati c’è anche un sindacalista. Le persone che avrebbero subìto le presunte violenze sono invece sette, individuate dalla procura come persone offese. Devastazione e violenze - All’inizio della fase più acuta della pandemia da Covid-19, nelle carceri italiane ci sono stati scontri per l’assenza di mascherine e dispositivi di sicurezza. Così è successo anche a Modena, dove decine di detenuti hanno inscenato una rivolta violenta, contenuta dai poliziotti penitenziari. La procura ha aperto tre fascicoli. Uno, con le indagini ancora in corso, riguarda i danni e le devastazioni compiute dai detenuti. Un altro si è concentrato sulla morte di nove reclusi per overdose di metadone. Ma è stato definitivamente archiviato, nonostante l’opposizione dell’avvocata di Antigone, Simona Filippi, che ha poi presentato un ricorso alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo. L’ultimo fascicolo si sta occupando delle violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta a Modena, ma anche ad Ascoli, dove alcuni reclusi sono stati trasferiti la sera dell’8 marzo. Anche la procura marchigiana sta indagando sulle violenze. Tutto è nato da un esposto presentato dagli stessi detenuti che sono stati chiamati a parlare come persone informate sui fatti. Durante le testimonianze rese ai magistrati modenesi, i detenuti hanno riconosciuto diversi agenti, consultando un album fotografico che gli inquirenti avevano sottoposto loro durante un colloquio. L’indagine in un primo momento era contro ignoti e ha ottenuto una prima proroga a settembre del 2021. A fine ottobre dello stesso anno, gli inquirenti hanno iscritto i poliziotti penitenziari nel registro degli indagati. A fine aprile è stata chiesta una proroga al giudice per le indagini preliminari per un approfondimento investigativo, motivato dalla necessità di continuare le verifiche. La proroga delle indagini - C’è dunque bisogno di più tempo, ma le due pagine di richiesta di proroga rivelano, per la prima volta, i nomi degli indagati. Le persone offese sono sette: tra di loro c’è anche Claudio Cipriani, un ex militare che in cento pagine di testimonianza ha raccontato le violenze che ha visto nel carcere di Modena e Ascoli dove è stato detenuto. I poliziotti penitenziari coinvolti nell’inchiesta sono cinque e sono tutti ancora in servizio nel carcere di Modena. Dal ministero fanno sapere che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria attende gli atti della procura di Modena per fare qualsiasi valutazione. I primi tre sono indagati per tortura e per lesioni aggravate ai danni di Hicham Aboumejd. Sono difesi dall’avvocata Angela Pigati, ma in questa fase hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni. Gli altri due sono indagati per tortura e per lesioni aggravate ai danni di Hamza Zaidi. Uno degli indagati è un commissario e componente della segreteria provinciale modenese di un sindacato della polizia penitenziaria. “I miei assistiti sono stati ascoltati, abbiamo massima fiducia nella giustizia perché sono totalmente estranei alle contestazioni mosse e certi di dimostrare la correttezza delle loro condotte”, dice ora l’avvocato Cosimo Zaccaria che li difende. I troppi dubbi - Le due pagine di proroga delle indagini preliminari non fugano uno dei tanti dubbi che riguarda le vicende accadute a Modena in quelle ore: l’esistenza o meno di immagini video in grado di documentare i fatti. “Non ci sono riscontri formali sulla presenza di registrazioni delle telecamere. Alcuni frammenti, contenuti in un’annotazione, fanno pensare che a Modena ci fossero delle telecamere accese. Ma da un altro fascicolo sembrerebbe che uno dei luoghi dove ci sarebbero state le violenze non fosse videosorvegliato”, ha detto a Domani Simona Filippi qualche settimana fa. Le stesse domande sono state rivolte al procuratore capo di Modena, Luca Masini, che però non ha fornito risposte. Parma. Nasce lo sportello In Con-tatto parmatoday.it, 10 giugno 2022 Voluto da nove associazioni di volontariato, ascolta e sostiene detenuti, ex detenuti e i loro familiari. Da strada Quarta nasce un ponte fra carcere e comunità cittadina. Ancora una volta, la parola chiave è “rete” perché nessuno si salva da solo, tanto più se chi è in difficoltà vive un percorso di detenzione. E “Nessuno si salva da solo” è il nome del progetto che ha dato vita allo sportello In Con-tatto, un punto di ascolto, informazione e orientamento per le persone detenute, ex detenute e i loro familiari ora attivo a Parma in strada Quarta 37, ospitato dall’associazione San Cristoforo. Lo sportello nasce da una rete di nove associazioni e a gestirlo saranno i volontari dell’associazione Rete carcere. In Con-tatto è un servizio gratuito ma soprattutto è un ponte fra il “dentro” e il “fuori” che connette il carcere e la comunità e cerca di ricucire lo strappo avvenuto con la società. Chi fa esperienza di carcere, infatti, non perde soltanto la libertà individuale, ma vede recisa bruscamente ogni relazione familiare, emotiva, sociale smarrendo il proprio mondo e a volte anche la propria identità. Per questo, i volontari accompagnano i reclusi nel loro percorso con l’obiettivo di ascoltarli e sostenerne i bisogni anche materiali, aiutarli a mantenere le relazioni familiari e con gli avvocati, favorire percorsi di maturazione umana in vista di un reinserimento sociale. A sostenere detenuti e familiari che si rivolgono al punto di ascolto sono i volontari che mettono a disposizione esperienze, competenze e sensibilità per offrire ascolto, accompagnamento all’assistenza, orientamento e informazione sui servizi del territorio. Lo sportello nasce per essere un punto di riferimento, un luogo dove trovare un consiglio e ricevere informazioni sui servizi e sulle modalità di accesso, uno spazio protetto per un colloquio tranquillo, dove trovare un aiuto per scrivere un curriculum e riorientare le competenze professionali. Ma soprattutto vuole essere il nodo di una rete più grande che connette le diverse realtà formali e informali del territorio. Il punto di ascolto si trova in strada Quarta 37 ed è raggiungibile con l’autobus numero 4; è aperto su appuntamento, tutti i giovedì dalle 15 alle 17. Chi ne avesse bisogno, può scrivere alla mail sportelloretecarcere@gmail.com o chiamare il 375. 741 6675, attivo negli orari di apertura e dove si può lasciare un messaggio nella segreteria telefonica. Il progetto “Nessuno si salva da solo” è frutto dell’impegno di nove associazioni: San Cristoforo, Rete Carcere ODV, Per ricominciare, ACAT Parma “il volo”, Comunità di Sant’Egidio, SNUPI, Centoperuno, W4W - Women for Women, Il mondo di Oz. È realizzato in collaborazione con CVS Emilia e finanziato dalla Regione Emilia Romagna. Busto Arsizio. “Liberi dentro”: le riflessioni degli studenti dopo il progetto in carcere malpensanews.it, 10 giugno 2022 Chi sbaglia cosa merita? Le riflessioni di un gruppo di studenti del liceo Pascoli di Gallarate al termine di un’esperienza di volontariato nella casa circondariale di Busto Arsizio “Chi sbaglia merita di marcire in carcere”. “Vitto e alloggio gratis, tanto li manteniamo noi con le nostre tasse”. Questi i luoghi comuni sul carcere, ma già un incontro con il professore Agostino Crotti, responsabile del progetto di volontariato della Casa Circondariale di Busto Arsizio, e con Valentina Settineri, educatrice responsabile, seguito da una visita guidata all’interno della struttura inizieranno a mettere in dubbio queste false certezze. È l’esperienza che abbiamo vissuto noi, la 4A del Liceo delle Scienze Umane dei Licei di Viale dei Tigli di Gallarate, grazie a “Liberi dentro”, il progetto di alternanza scuola lavoro ed Educazione civica in materia di devianza e criminalità affrontato quest’anno. Ci è bastato avere un nuovo punto di vista, quello di chi queste realtà le vive in prima persona quotidianamente, per superare certi pregiudizi e conoscere meglio la realtà del carcere, un ambiente di cui si sente parlare, ma che non si conosce realmente, un ambiente intriso di sofferenza ma anche un luogo che dovrebbe offrire l’opportunità di una nuova vita. La maggior parte delle persone vede il carcere come una punizione meritata per chi ha commesso un reato, il che è comunque corretto. Ma questa punizione è considerata più come una vendetta, piuttosto che come uno strumento finalizzato alla riabilitazione sociale. Quasi sempre si dimentica la vera funzione del carcere: la rieducazione di colui che sbaglia. Perché il carcere, al contrario di quanto si crede, non è solo mafiosi, serial killer, pazzi rapinatori alla Casa di Carta, ma è innanzitutto persone. Persone che hanno sbagliato, ma che meritano di avere un’altra possibilità per reinserirsi nella società. È questo che non deve mancare: credere che ognuno possa sempre diventare la versione migliore di sé, anche dopo aver commesso un grave reato. Questo è quanto credono i volontari che prestano servizio nelle carceri. Il loro compito consiste nel far emergere le qualità del detenuto, tramite un percorso di responsabilizzazione. Egli deve prendere consapevolezza di quanto ha commesso e attribuirgli il giusto peso, perché “una persona non è solo ciò che ha fatto, ma è molto di più”. Ma se il carcere viene strutturato solo come “Okay stai chiuso in una gabbia per anni!” non funziona e non funzionerà mai, e questo lo dice il tasso di recidiva al 70%. Le problematiche sono tante, a partire dai fondi insufficienti destinati al sistema carcerario fino ad arrivare a pregiudizi culturali e sociali che non permettono neppure al migliore ex carcerato di reinserirsi nella società. Ciononostante, si percepisce lo sforzo degli operatori e dei volontari volto alla risocializzazione e rieducazione dei detenuti, sebbene problematiche di varia natura e sovraffollamento non sempre ne favoriscano un esito positivo. La privazione della libertà, la precisa scansione delle giornate, il controllo ferreo a cui sono sottoposti i detenuti, risultano essenziali per il completamento del percorso dei singolo. Ma la presenza di aule e la possibilità di frequentare corsi di studio, l’attività di cura di sé, come la palestra in cui i detenuti possono dedicarsi alla propria forma fisica, o dell’ambiente circostante, come la gestione di un piccolo orto, la possibilità di prepararsi dei pasti, individuali, e a volte collettivi, nel rispetto delle diverse culture e tradizioni aiutano a valorizzare la persona e la dignità di ogni detenuto. Importante è, soprattutto, il reinserimento nel mondo del lavoro. L’azienda di alimentazione senza glutine Shar ha affidato la produzione di una linea di barrette al cioccolato ai detenuti che si sono offerti volontari. Questo progetto, basato sulla collaborazione tra carcerati e non, insieme a quello dell’apertura di una falegnameria, di cui ci hanno parlato gli operatori, è fattivamente volto alla professionalizzazione e al reinserimento sociale e lavorativo dei carcerati. Fondamentale è, per chi è privato della libertà personale, anche il mantenimento delle relazioni con il mondo esterno: i familiari, desiderosi di entrare carichi di sentimenti e borse con ciò che possa rendere meno pesante la reclusione e noi, “gente comune” chiamata a comprendere il legame tra il “dentro” e il “fuori”… L’esperienza vissuta si è estesa, così, dall’esterno verso l’interno illuminando la forte connessione tra il “noi” e il “loro”: da una parte chi è libero e dall’altra chi è detenuto; in ambedue i casi è il dentro a dover cambiare. Se ognuno di noi ricerca la libertà nella propria dimensione interiore, i detenuti sono chiamati a lavorare in un “doppio-dentro”, all’interno di sé e del carcere, in un percorso che assomiglia sempre di più alla “giustizia riparativa” di cui parla Gherardo Colombo. Il sapore di una nuova vita. Errare è umano, ma rimediare è qualcosa di più La voce degli studenti racconta come nasce il riscatto nella comunità Exodus di Casale Litta. “Ad un certo punto mi sono reso conto di aver toccato il fondo”. Queste sono le parole di un ragazzo che abbiamo incontrato nella comunità Exodus attraverso l’esperienza di PCTO, il cui tema era la devianza e la criminalità. Qui abbiamo potuto appurare come, grazie all’aiuto costante di educatori e collaboratori, ex detenuti ed ex tossicodipendenti abbiano la possibilità di lavorare su se stessi, accettando quelle fragilità che per anni li hanno indotti a perdere occasioni, legami e dignità. Quello che può essere considerato un smarrimento interiore, si rivela essere un terreno fertile per un reinserimento lavorativo e sociale, grazie alle diverse opportunità che la Onlus fornisce. Con la nostra classe abbiamo potuto vivere un’intera giornata insieme a loro, sperimentando concretamente ciò che significa stare in una comunità di recupero. Attraverso un confronto diretto è emersa la loro grande volontà di “risporcarsi” le mani tramite attività dalle quali riemergono il sapore della fatica, della costanza, della responsabilità, della collaborazione. Ogni persona che viene ospitata nella comunità ha varie possibilità di scelta professionale in base ai propri interessi, che spaziano dalla pasticceria alla cucina, dalla falegnameria al giardinaggio. La comunità offre attività anche all’esterno della casa quali traslochi, sgomberi, manutenzione del verde, imbiancature. Dal 2020 il Laboratorio Artigianale di Pizze & Focacce sforna prelibatezze che vengono consegnate sul territorio di Casale Litta e zone limitrofe. Significativo è stato Il momento di riflessione e confronto con Marco, uno degli educatori della casa, che ha sottolineato l’importanza dell’uomo in sé nonostante le sue imperfezioni. All’interno della comunità non mancano cadute e frustrazioni, ma la condivisione e il sostegno degli educatori supportano il faticoso cammino della cura di se stessi. La 4° A LES Reggio Calabria. La solidarietà al popolo ucraino dei detenuti di Arghillà ilreggino.it, 10 giugno 2022 Giovanna Russo, Garante comunale delle persone private della libertà personale: “Hanno lanciato un messaggio di speranza a quello che si è soliti chiamare mondo libero”. “Ne parlo da mera portavoce di un gesto che rappresenta la propensione a migliore che c’è dentro ciascun essere umano se adeguatamente sollecitata. Il carcere è luogo di dolore e di grandi e gravi tensioni, ma è anche luogo di solidarietà”, racconta Giovanna Russo, la garante delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria. “Un contributo di solidarietà dal carcere, vale doppio, anzi triplo. Contro la guerra, contro i pregiudizi e educando tutti a dare valore anche alle apparentemente piccole rinunce compiute per metterci accanto a chi oggi vive l’orrore di questo tempo segnato in modo atroce dal male. Se la pace è conversione del cuore e dello sguardo sulla vita degli altri ed è sovversione della logica del conflitto armato, i detenuti del carcere di Arghillà ci hanno fatto camminare in una direzione necessaria attraverso questo impegno umile e deciso”, sottolinea la garante delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo. “Il carcere è un mondo di uomini e donne che hanno una storia segnata dal dolore, quello proprio e quello che hanno talvolta causato nelle vite degli altri. La pandemia li ha colti di sorpresa, ma, paradossalmente, erano preparati perché da ristretti loro ci vivono da anni e quando nei mesi scorsi si sono trovati a fronteggiare un importante focolaio lo hanno fatto con grande senso di responsabilità. Poi è arrivata la guerra e senza che nessuno sollecitasse la loro sensibilità hanno deciso spontaneamente di rendersi solidali con le sofferenze del popolo ucraino. Chi si occupa di detenzione, chi vive da vicino e con serietà le problematiche del mondo recluso, sa bene che spesso si tratta di persone che devono fare i conti anche con una realtà economica familiare per niente florida. Nel silenzio delle loro vite, hanno, in autogestione, raccolto 422,00 euro e affidati alla Caritas affinché siano destinati alla popolazione ucraina”, prosegue la Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo. “Si potrebbe ritenere 422,00 euro una cifra irrisoria, ma ciò che qui rileva non è il dato economico. Si vuole valorizzare il gesto di solidarietà, di attenzione, di altruismo verso persone che in questo momento stanno vivendo la tragedia della guerra. Hanno lanciato un messaggio a quello che si è soliti chiamare mondo libero. Un messaggio di speranza e, non ultimo, di disponibilità ad aiutare chi sta soffrendo. Tale iniziativa è stata promossa e organizzata direttamente dai detenuti della Casa circondariale di Reggio Calabria plesso Arghillà. La somma, interamente raccolta dai reclusi, è stata devoluta alla Caritas di Reggio Calabria per il tramite del Cappellano Padre Carlo Cuccomarino. Anche nei luoghi dove nell’immaginario collettivo si presuppone una non attenzione alle problematiche esterne e di vita sociale, si dimostra una particolare propensione verso la sofferenza. La carità, l’altruismo, l’affettività hanno spinto la popolazione detenuta a sostenere le cause di un popolo allo stremo, condannando con questo gesto ogni conflitto e ogni sua forma di violenza, volendo far passare il messaggio di un “no” all’odio e di un sì verso la pace. Nella speranza che questo messaggio dia ulteriore forza alla volontà di terminare questa tragedia, si ringrazia chiunque abbia contribuito in ogni forma, le persone detenute in primis e l’amministrazione penitenziaria tutta”, conclude la garante delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo. Roma. A Regina Coeli i detenuti si raccontano con i murales di Fabrizia Ferrazzoli dire.it, 10 giugno 2022 Il progetto è curato da IED ed è stato presentato alla biblioteca del carcere. Rieducare attraverso l’arte ma anche ricordare, rievocare, raccontare. A Regina Coeli, l’istituto penitenziario su via della Lungara a Roma, quattro detenuti hanno realizzato tre murales insieme agli studenti IED della capitale, guidati dall’artista Laura Federici. Tre nuove finestre sul mondo, tre spiragli di luce, colorano ora i muri della casa circondariale con il simbolico titolo ‘Attraversamenti’. Andrea, Alberto, Manuel e Pedro stanno scontando la loro pena, provengono da Roma, Lima, Buenos Aires e hanno raccontato a 14 studenti le loro città. Il progetto è nato proprio con l’obiettivo di dare vita a un’immagine in grado di identificare le origini e cullare i ricordi delle persone che attraversano i corridoi dell’istituto. Prima narratori e poi assistenti alla realizzazione dei murales, i quattro detenuti hanno condiviso con ragazze e ragazzi testimonianze e ricordi. Poi, divisi in gruppi, gli studenti hanno trasformato quei racconti nell’opera finita, che ha trovato casa nella seconda rotonda del monumentale edificio. “Il progetto - spiega Claudia Clementi, direttrice di Regina Coeli - ha permesso uno scambio di vedute, opinioni e riflessioni tra gli studenti e i detenuti che hanno partecipato alla realizzazione degli affreschi. Il laboratorio ha consentito all’istituto penitenziario di sentirsi parte integrante della città di Roma, sperimentando un’esperienza creativa grazie allo scambio e all’incontro tra realtà ed esperienze molto diverse tra loro. La giornata di oggi, inoltre, vuole essere un’occasione per una riflessione comune sul ruolo dell’arte e della cultura come elementi del trattamento rieducativo, volto al reinserimento sociale dei detenuti”. “Tra gli insegnamenti più grandi che può trasferire una scuola c’è il valore di stabilire relazioni, tra persone e mondi anche lontanissimi- ha detto Laura Negrini, direttrice IED Roma- Attraversamenti esprime a pieno questo valore”. “Ho molto a cuore questo progetto realizzato dagli studenti dello IED Roma coordinati dall’artista Laura Federici e con il fondamentale supporto della direzione della Casa circondariale di Regina Coeli- ha detto l’assessore alla Cultura di Roma Capitale, Miguel Gotor. È una dimostrazione concreta del ruolo importante che la cultura può avere all’interno del sistema carcerario e di come scuole, università e enti formatori possono esserne protagonisti, in un meccanismo di scambio che arricchisca tutti: gli studenti, che hanno scelto insieme ai detenuti cosa rappresentare e come esprimerlo artisticamente, e gli stessi detenuti che possono, grazie a questo lavoro, affacciarsi su altri orizzonti possibili e inquadrare il loro futuro in un’ottica nuova. Nella mia esperienza parlamentare sono entrato spesso a sorpresa nelle carceri ed ho molto imparato dalle ispezioni delle 41-bis negli istituti penitenziari di tutta Italia. Questo assessorato farà di tutto per mettere in connessione il mondo delle carceri con il mondo dell’istruzione, come le università, perché è fondamentale lasciare un’impronta o una testimonianza in questo mondo. Il carcere è un non luogo che ha una caratteristica straordinaria- conclude l’Assessore- Quando si è dentro da non luogo diventa il luogo, cioè l’unico luogo che racchiude realmente l’essere umano nelle sue forme più vere, dall’amore al controllo alla forma di riscatto e quindi è uno spettro interessantissimo del nostro essere”. Roma è la città raccontata da Andrea e Alberto. Nel murale a lei dedicato, alto più di tre metri e mezzo e largo circa due, si scorgono le vite dei protagonisti: Andrea viene dal centro storico, Alberto è un senza fissa dimora nato ai Ponti del Laurentino 38, e cresciuto a Tor Bella Monaca. Buenos Aires è la città di Manuel, nato a Cuba e fuggito lì con la sua famiglia a 3 mesi di vita. L’opera che racconta la sua città è un gioco di prospettiva: l’architettura della capitale argentina è raffigurata dal basso verso l’alto, è uno sguardo verso il cielo, come quello forzato dalle finestre di Regina Coeli, che con le sue lame metalliche impediscono di guardare verso il basso. Lima, infine, è la casa natale di Pedro. Nel murale che la ricorda, largo circa due metri e mezzo, la città è raffigurata nei suoi contrasti, nella sua complessità: nella capitale peruviana c’è un muro che divide i poveri dai ricchi, le baraccopoli dai grattacieli che gli studenti hanno deciso di raffigurare. Appunti per il superamento di un’istituzione totale di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 giugno 2022 “Abolire il carcere” (Chiarelettere) e “Senza sbarre” (Einaudi), due recenti preziosi volumi che propongono, da due punti di vista diversi eppure convergenti, una piccola rivoluzione. Non è per pietà, non è per compassione, e neppure per cristiano spirito di perdono. È “una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini”. Anzi due. Abolire il carcere e Senza sbarre sono due recenti preziosi volumi che propongono, da due punti di vista diversi eppure convergenti, una piccola rivoluzione, l’abolizione di un’istituzione totale, almeno così come la conosciamo oggi in Italia. Un nuovo modello virtuoso di esecuzione della pena necessario per salvare vite, risparmiare soldi pubblici e tempo di duro lavoro, e per tutelare davvero la collettività. La prima proposta viene dal presidente dell’associazione A buon diritto Luigi Manconi, dal coordinatore dei Garanti territoriali dei detenuti Stefano Anastasia, dalla direttrice di A buon diritto Valentina Calderone e dall’avvocata e ricercatrice Federica Resta che si rivolgono soprattutto ai “perplessi” e a “chiunque si indigni o si spaventi al solo sentir parlare di abolizione del carcere”. E invece si può, dicono, come si è potuto abolire l’apartheid e i manicomi, la pena di morte e le punizioni corporali. Si può, perché il carcere non è sempre esistito e perché si è già trasformato, nei Paesi democratici. Si può, perché - ad esempio - analizzando gli effetti criminogeni della penalizzazione dei reati non violenti, come quelli di droga, perfino “il presidente Trump ha più volte manifestato l’intenzione di approvare una mini riforma penitenziaria che si ponga l’obiettivo di aumentare le alternative al carcere”. Con la prefazione di Gherardo Colombo e la postfazione di Gustavo Zagrebelsky (Chiarelettere, pp. 170, 16 euro), Abolire il carcere fornisce al lettore una lente di ingrandimento sulla cosiddetta “utopia abolizionista”, per rendersi conto che utopia non è. E che osare è assolutamente utile, oltreché doveroso. Certezza ed efficacia della pena non significano certezza del carcere. Anzi: “La ricetta di rendere sociale il soggetto antisociale inserendolo in contesti asociali - scrivono gli autori citando il costituzionalista Andrea Pugiotto, sulla scorta del pensiero di Gustav Radbruch - è efficace quanto quella di insegnare a nuotare fuori dall’acqua”. In dieci punti, riassunti nell’ultimo capitolo, “dieci cose da fare subito”, i quattro autori spiegano, tra l’altro, come e perché sanzioni di natura interdittiva, patrimoniale o riparatoria sono un’alternativa possibile e necessaria alla pena puramente detentiva. Se non fosse altro perché risultano più idonei “ad annullare i vantaggi derivanti dal reato”, soprattutto per alcune tipologie di reato. Decarcerizzazione e depenalizzazione vanno comunque sempre a braccetto, per una riforma credibile del processo e dell’esecuzione penale. Ci sono però detenuti che riempiono purtroppo (e non per colpa) i nostri istituti penitenziari e che non hanno - nello status quo - strumenti e sostegni necessari per poter usufruire, pur volendo, di misure alternative al carcere. Sono per esempio quel “44,5% del totale dei condannati ad una pena inferiore ad un anno” che è “rappresentato da stranieri”, come spiega Cosima Buccoliero, da gennaio direttrice della Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino ed ex direttrice del carcere milanese di Bollate, che insieme alla giornalista del Sole 24 Ore Serena Uccello descrive in Senza sbarre (Einaudi, pp. 130, euro 15) un’idea diversa e possibile di detenzione. Sulla scorta della propria esperienza e del suo “modello virtuoso di prigione” che gli è valso l’Ambrogino d’oro nel 2020, Buccoliero testimonia: “Ho imparato che ci sono storie che non si salvano, che ci sono uomini e donne irredimibili, che il male esiste, ma allo stesso modo ho imparato che molte vite si salvano, che molte storie si ribaltano, che ci sono uomini e donne che riescono a riparare e a ripararsi”. Basta voler perseguire questo scopo. “Se un direttore risponde della sicurezza di un detenuto dovrebbe rispondere anche del suo percorso - scrive la dirigente penitenziaria -, se ad esempio accede o meno, avendone i requisiti, alle misure alternative. E invece questo non accade: a me non viene mai chiesto quante persone sono riuscita a far accedere alle misure alternative, né tanto meno mi si chiede quante persone ho recuperato. Eppure è su questo obiettivo che il mio lavoro dovrebbe essere valutato principalmente, su cui io dovrei essere valutata principalmente”. Migranti. Gli invisibili di Milano di Monica Serra La Stampa, 10 giugno 2022 Gratosoglio, quartiere della periferia Sud, è un limbo di case popolari, spaccio e campetti. Anche chi ha la cittadinanza italiana si sente straniero: “I ragazzi restano chiusi qui”. Per arrivare qui, i suoi genitori hanno attraversato il Mediterraneo. Milano era la Ellis Island d’Europa. Spaccarsi la schiena per dodici ore al giorno in un cantiere, il sogno di una vita. Eppure per Sami, il mare che separa il Gratosoglio da piazza Duomo sembra impossibile da attraversare. È nato qui, ha 16 anni e l’arabo lo capisce a malapena. È un migrante immobile in una Milano dove per essere ai margini basta pochissimo. A volte Europa, altre quartiere senza uscita. Via Costantino Baroni è un groviglio di palazzi Aler tutti uguali, alla periferia sud della città, dove convivono più di trenta etnie. “Qui c’è una stratificazione di problemi: il disagio economico, culturale, psichico, familiare. Tutti si sommano e ai miei ragazzi lasciano poche possibilità di futuro”. Don Giovanni Salatino è un parroco di frontiera e da nove anni “combatte” in questo quartiere. Qui non c’è la rabbia del Giambellino, del Corvetto o di San Siro, dove un lungo vialone alberato, via Monreale, è un confine impossibile da superare. Le ville dei ricchi da una parte, le fatiscenti case popolari di piazzale Selinunte e via Zamagna dall’altra, con i suoi rapper diventati famosi mentre cantano la Seven 7oo, i soldi facili, le auto di lusso, le armi, la violenza, ed entrano ed escono di prigione. Al Gratosoglio c’è prepotenza, non le baby gang che seminano terrore. Soprattutto c’è la noia, lo spaccio di droga, tre bar dove gli anziani fanno la fila per giocare alle macchinette e gli uomini litigano davanti a una birra o a un bicchiere di bianco dal mattino. Un ufficio postale, la chiesa, l’oratorio, niente più. “C’è molta povertà, un livello culturale troppo basso, un altissimo tasso di dispersione scolastica. Dopo le medie molti ragazzi abbandonano gli studi, diventano invisibili ai nostri occhi, si perdono. Il lavoro è poco, consumano le giornate a fare nulla, finiscono in strada magari a spacciare o a rubacchiare, dei soldi le famiglie hanno bisogno”, riflette don Salatino sulla piazzetta dell’Arcadia, che in periodo di lockdown era diventata “terra di nessuno”, mentre guarda i suoi ragazzi giocare a calcio nel campo che il cantante Mahmood, cresciuto qui, ha realizzato dopo la vittoria di Sanremo. “La verità è che a loro nessuno pensa - sospira -. Ci sono associazioni e volontari che ruotano attorno alla scuola, sono importanti ma riescono a risolvere poco. Le autorità, il sindaco Giuseppe Sala, qui si vedono solo in periodo di elezioni”. In monopattino arriva Abid, un ragazzone di un metro e ottanta, 13 anni, famiglia marocchina, la maglia del Milan e l’accento lombardo. Anche se “a casa si parla solo arabo”. Sulla carta d’identità la cittadinanza è italiana “ma se mi chiedono dico che sono marocchino, perché mi sento a mio agio: tutti mi vedono così”. E non è l’unico. Secondo una ricerca Istat del 2020, i minori di seconda generazione in Italia sono un milione 316 mila, il 13 per cento della popolazione sotto i 17 anni. Ma tra loro solo il 37 per cento si sente italiano, il 33 straniero, il 29 non lo sa. Abid dice che del Gratosoglio cambierebbe “le persone. Che urlano, litigano per nulla, sono prepotenti”. Che “i più razzisti sono gli anziani italiani”, che lui esce sempre con amici marocchini e che quest’estate farà le vacanze lì: “I miei hanno comprato una casa e finalmente avrò una cameretta tutta mia, qui dormo sul divano in soggiorno”. Abid ha la media dell’otto, da grande vuole fare il medico, e “andare via dal Gratosoglio, viaggiare, vedere il mondo”. È il sogno di tutti qui. Di Anan, bengalese, di Jusef, egiziano, di Gabriel, italo-cubano, “che in centro non va mai, perché i ragazzi milanesi sono snob, ci guardano dall’alto in basso”. Eppure “questi adolescenti sono nati e cresciuti qui, parlano come i nostri figli, si vestono allo stesso modo. Ma in tanti non hanno la cittadinanza italiana”. Lo Ius soli per Luigi, settantenne volontario dell’oratorio, dove i bambini trascorrono i pomeriggi tra calcio e doposcuola, è “un passo necessario per permettergli di integrarsi nella nostra società”. Poi ci sono le condizioni economiche, l’auto-isolamento nei gruppi d’origine che parte dai genitori, il sendo d’inferiorità o almeno di diversità, la voglia di riscatto sociale. Anche Yassmin, la loro educatrice 27enne, che studia farmacia, non vede l’ora di andare a vivere lontano dal Gratosoglio: “La mia è stata una delle prime famiglie egiziane ad arrivare qui, nelle case popolari di via Saponaro che prima erano occupate soltanto da meridionali”. Negli anni Novanta il razzismo “a scuola c’era, le compagne erano tutte italiane e mi facevano i dispetti”. Ma nella casa “dove ancora viviamo, con le crepe che nessuno ripara mai, papà ha sempre parlato in italiano. Siamo musulmani ma nessuno in famiglia ha preteso che indossassi il velo perché qui mi avrebbe potuto creare problemi”. E lei sin da adolescente non vedeva l’ora di “prendere il tram per andare a Milano. Ora i ragazzi non lo fanno, restano nel quartiere, sempre tra loro, chiusi nella loro comunità”. Yassmin ha imparato l’arabo da grande, il suo percorso non è stato facile: “Mio fratello di 33 anni, che si è laureato e ora lavora a Chiasso, non lo ha mai voluto imparare e ha sempre frequentato solo italiani. Quando eravamo piccoli e tornavamo in Egitto, tutti mi chiamavano “la straniera”, qui per tutti ero l’”egiziana”. Per anni mi sono chiesta chi sono”. Al Cpr di Gradisca il grido dei migranti: “Trattati da animali” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2022 “A un certo punto pare aprirsi una breccia dalla quale scorgere un briciolo di umanità. La scorsa settimana sono stati messi a disposizione un pallone e delle carte da gioco. Una grande conquista, giocare aiuta a passare il tempo e a distrarsi dal chiodo fisso del rimpatrio, ma ecco che, alcuni giorni fa, insieme a un pallone arriva anche uno scontrino di euro 8.90 a carico delle persone recluse nel Cpr. Un altro misero modo di lucrare sulla pelle di chi è privato della libertà”. A denunciare questo sgradevole episodio avvenuto al centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca, è Francesca Mazzuzi della campagna Lasciate-CIEntrare. Sembrerebbe un modo di ricavare un guadagno sui migranti trattenuti presso il centro. Ricorda molto da vicino il discorso del “sopravvitto”, con tanto di sovrapprezzo, che riguarda i detenuti. Con la differenza che in questo caso, formalmente, i migranti non sono dei reclusi, anche perché non hanno commesso nessun reato. Mazzuzi di LasciateCIEntrare rivela che si tratta della ditta Edeco (ora Ekene) che si era aggiudicata nel 2019 l’affidamento della gestione della struttura di Gradisca d’Isonzo con un ribasso dell’11.90% del prezzo a base d’asta, e dopo l’esclusione delle prime quattro ditte in graduatoria. Ditta che dal marzo 2022 gestisce anche il CPR di Macomer in Sardegna. Al momento è in corso la gara di appalto per la nuova gestione del Centro di Gradisca, per 150 posti, per un importo di circa due milioni e mezzo di euro per un periodo di dodici mesi, rinnovabile di altri dodici. Le offerte avrebbero dovute essere presentate entro il 31 marzo 2022 per l’avvio di gestione previsto al 16 giugno, ma per ora non è stata pubblicata alcuna notizia sui partecipanti alla gara e tantomeno del suo esito. Al cpr di Gradisca i migranti ristretti denunciano di essere trattati come animali. “Ma è normale che qui non ci sia un assistente sociale o un operatore legale a cui rivolgersi?”, dice uno di loro. Ed è sempre Mazzuzi a rispondere che no, non dovrebbe essere così, perché queste figure sono previste anche dai capitolati di appalto che regolano i servizi che l’ente gestore deve garantire, anche se il monte ore previsto è ridotto rispetto al tempo che dovrebbe essere dedicato a ciascuna delle persone detenute nei Cpr. “Alcuni non ricevono una terapia adeguata perché la visita con lo psichiatra avviene dopo oltre un mese dall’ingresso nel Cpr e solo dopo accese proteste si ha la possibilità di essere ascoltati. Succede di tutto: tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, materassi incendiati, solo per ricevere cure ed essere trattati come “persone”. Solo per avere accesso ai diritti basilari. Se ingoi lamette e bevi candeggina non vieni portato immediatamente in ospedale, ma nell’infermeria del centro ti danno “uno sciroppo”, denuncia senza mezzi termini l’attivista di LasciateCIEntrare. Suicidio assistito, l’accanimento burocratico contro Mario: “Per morire devi pagare 5.000 euro” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 10 giugno 2022 L’Associazione Coscioni lancia una raccolta per acquistare il macchinario che servirà al paziente tetraplegico. L’uomo è immobilizzato da 12 anni e ha vinto il ricorso contro la Asl per poter ricevere il farmaco letale. “Lo Stato non vuole pagare niente”. Ci sono situazioni in cui alla tristezza non c’è fine. O dove l’assenza dello Stato depone sofferenza su sofferenza. La battaglia per il fine vita in Italia è ormai fatta di storie in cui la burocrazia aggiunge al danno la beffa. È soltanto di 48 ore fa la scelta clamorosa di Fabio Ridolfi: dopo aver atteso invano di poter morire con il suicidio assistito, ha aperto la sua “stanza del dolore” a stampa e televisioni per gridare, in senso metaforico, attraverso il puntatore oculare del suo computer, che si farà sedare per morire di fame e di sete. Ieri è invece toccato a Mario, nome di fantasia, il primo dei tre pazienti marchigiani ad aver ottenuto di poter dire addio alla vita attraverso il suicidio assistito “legale” così come prevede la sentenza della Consulta sul caso di Dj Fabo. Dodici anni dopo l’incidente in auto - Mario, tetraplegico da 12 anni dopo un incidente di auto, ha scoperto che per poter mettere fine alle sue sofferenze dovrà pagare cinquemila euro. Sì, perché in assenza di una legge, il cui testo è stato approvato alla Camera e adesso è stato insabbiato al Senato in mano leghista, i costi di tutta l’operazione dovrebbero sostenerli Mario stesso e la sua famiglia. La denuncia della Coscioni - Lo Stato italiano, infatti, denuncia l’Associazione Luca Coscioni, non eroga il farmaco, non fornisce la strumentazione idonea, non fornisce il medico: per poter finalmente scegliere sulla propria vita, Mario dovrebbe affrontare una spesa di circa 5.000 euro in apparecchiature e farmaci. In particolare, “c’è bisogno di uno strumento infusionale che costa 4.147,50 euro”. Tanto che l’Associazione Luca Coscioni, ha lanciato una raccolta fondi per aiutare Mario quando vorrà, e altre persone nelle sue condizioni, ad esercitare il diritto di scegliere di porre fine alle proprie sofferenze. Le parole di Cappato e Gallo - Spiegano Marco Cappato e Filomena Gallo, tesoriere e segretario dell’Associazione Coscioni: “A oltre due anni e mezzo dalla sentenza della Corte costituzionale, il compito del Servizio sanitario nazionale si esaurisce con le verifiche delle condizioni e delle modalità e il parere del Comitato etico”. Null’altro. “Aziende sanitarie che rispondono, se rispondono, con tempi lunghissimi ignorando la sofferenza di chi chiede di poter accedere al suicidio assistito legalmente in Italia”. “Il Parlamento - dicono Gallo e Cappato - potrebbe trovare una soluzione, ma il testo è insoddisfacente ed è insabbiato al Senato. Per non fare ricadere l’onere anche economico sulle spalle di Mario e per il futuro dei malati nelle sue condizioni abbiamo deciso di farci noi promotori della raccolta dei fondi indispensabili. Esercitiamo così una vera e propria supplenza all’incapacità dello Stato italiano di farsi carico del diritto dei propri cittadini di non subire condizioni di sofferenza insopportabili contro la propria volontà”. Il medico di Welby - Sarà Mario Riccio, il medico che aiutò Piergiorgio Welby ad interrompere la sua vita, ad assistere Mario nel suicidio assistito. Mario, lo ricordiamo, è un nome di fantasia. Insieme ad Antonio, altro paziente rimasto gravemente disabile dopo un incidente, e a Fabio Ridolfi di Fermignano, ha fatto causa all’Azienda sanitaria unica delle Marche per poter ottenere il suicidio assistito legale. Così come prevede la sentenza della Consulta del 2019, sentenza che in assenza di una norma del Parlamento ha valore di legge. Un bottone per accomiatarsi dalle sofferenze - Mario, dopo un iter lunghissimo e doloroso in tribunale, ha ottenuto il via libera dalla Asl. Anche il farmaco, un barbiturico già utilizzato in Svizzera, è stato identificato. “Il farmaco - spiega Riccio - verrà iniettato per via venosa attraverso l’uso di una pompa infusionale con un bottone che Mario potrà premere”. Dunque sarà Mario, ed è il dato chiave, a premere l’ultimo bottone per accomiatarsi dalla vita. L’addio avverrà in casa e sarà filmato e documentato affinché possa essere evidente che si è trattato di un suicidio. In assenza però di una legge (e chissà se il testo in discussione prevedrà che la procedura vada a carico del servizio sanitario nazionale), in assenza di indicazioni, ogni passo è sperimentale. Anche, drammaticamente, i costi per poter morire, che l’Associazione Coscioni ha già puntigliosamente conteggiato. La pompa costerà 4.147,50 euro, il resto servirà per comprare, privatamente, i farmaci necessari. Mario dunque potrà mettere fine alle sue sofferenze soltanto se si raccoglieranno i fondi necessari per la pompa infusionale. Una clamorosa ingiustizia. Processare il nemico non è giustizia globale di Daniele Archibugi Il Manifesto, 10 giugno 2022 La Corte penale internazionale compie 20 anni. La guerra ucraina dice che la logica giuridica è autorevole solo se si riafferma imparziale, altrimenti può essere usata come mera propaganda. All’Aja si celebrano i primi venti anni della Corte penale internazionale (Cpi) mentre in Ucraina si continuano a commettere crimini di guerra. La documentazione delle atrocità non è mai stata così tempestiva e documentata, eppure i Paesi che hanno promosso il progetto della responsabilità penale individuale sono ben lungi dall’aver fornito un modello accettabile per tutto il mondo. Un soldatino russo di 21 anni, Vadim Shysimarin, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale di Kiev. Per aver ucciso un pensionato ucraino disarmato. Altri due soldati russi hanno subito analoghe condanne e altre ne seguiranno. Sull’altro fronte, due cittadini inglesi, Aiden Aslin e Shaun Pinner, di 28 e 48 anni, volontari nella difesa di Mariupol, sono sotto processo per terrorismo nell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donesck. Gli Stati Uniti, che non hanno mai aderito alla Corte penale internazionale, intendono promuovere un Tribunale speciale per i crimini di guerra commessi, forse sul modello dei Tribunali ad hoc istituiti per l’ex-Jugoslavia e il Ruanda. Lo stato invasore, con una faccia tosta incredibile, intende addirittura promuovere una “Norimberga 2.0” per processare i militari nazisti del Battaglione Azov - che invece Amnesty International chiede che vengano processati, per crimini commessi nel 2014 proprio all’Aja -, ma come momento simbolico di propaganda del suo programma di “denazificazione” dell’intera Ucraina. Ma il “denazificatore” Putin è lo stesso che ha elogiato la 64° Brigata motorizzata, dopo che questa aveva commesso i massacri di civili a Bucha, per “eroismo di massa e coraggio, fermezza e forza d’animo”. È questo il clima in cui si celebrano i primi 20 anni della Corte penale internazionale (Cpi): da una parte, c’è una rinnovata alacrità nel perseguire nei tribunali i nemici e nell’assolvere i propri soldati. Dall’altra, si è diffuso un radicato un consenso sul fatto che nessun crimine di guerra debba restare impunito. La Cpi ha risposto tempestivamente alla crisi ucraina aprendo indagini appena le truppe russe hanno varcato il confine e ha addirittura inviato, in collaborazione con Gran Bretagna, Francia e altri Paesi, esperti forensi per raccogliere prove. Una tempestività che purtroppo non ha avuto in passato ma potrebbe essere di buon auspicio per il futuro. La raccolta delle prove è oggi facilitata dalle nuove tecnologie dell’informazione, che consentono di raccogliere immagini, testi e altri documenti, associandoli ai responsabili con molta maggiore facilità di quanto sia mai accaduto in passato. Intelligenza Artificiale, immagini satellitari, registrazioni di droni consentono ora di raccogliere e di analizzare una mole impressionante di dati. Ma soprattutto, ogni individuo, ogni vittima, ha in mano un cellulare che può utilizzare per diventare un investigatore. La guerra in Ucraina pone la Cpi ad un bivio. Nata grazie all’impulso dei Paesi europei e di altre nazioni occidentali quali il Canada - mai sarà abbastanza lodato l’impegno bipartisan dei governi italiani che ha consentito di firmare proprio a Roma il Trattato istitutivo nel luglio 1992 - la Corte è sopravvissuta nonostante ben tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Stati uniti, Russia e Cina, si siano ostinatamente rifiutati di aderirvi. Gli Stati uniti di Bush e di Trump hanno fatto di tutto per farla fallire, eppure la coalizione di nazioni che l’ha istituita è riuscita a far progressivamente aumentare il numero dei membri. Ma il sistematico sabotaggio operato ha avuto i suoi effetti, e la Corte, pur di sopravvivere, è stata molto cauta nel decidere dove indagare. Se il desiderio di una giustizia globale deve continuare, l’Occidente non può continuare ad applicare lo standard dei due pesi e due misure, usando strumentalmente le indagini per colpire i nemici e coprendosi gli occhi nei casi in cui è l’Occidente stesso a commettere crimini. La crisi ucraina mostra che la logica giuridica è autorevole solo se è in grado di riaffermare la propria imparzialità, altrimenti ogni parte in causa può usarla come mero strumento di propaganda. Poiché la Cpi è stata il frutto di una inedita coalizione tra associazioni della società civile e governi ben intenzionati, è quanto mai necessario che essa riprenda il suo cammino con equilibrio e obiettività. Di fronte all’opinione pubblica mondiale il discorso sulla responsabilità penale indipendente è stato screditato da atti inconsulti. Come si può prendere sul serio l’impegno degli Stati uniti a favore di indagini nei confronti dei crimini di guerra se la base di Guantanamo, nonostante le promesse dell’amministrazione Obama, continua ancora detenere 39 prigionieri senza che, dopo vent’anni, siano stati aperti giusti processi? E come può essere preso sul serio l’impegno della Gran Bretagna all’interno della Cpi se ancora oggi incarcera Julian Assange senza alcuna formulazione delle accuse? Non si serve tuttavia la causa della giustizia sentenziando che sono tutti colpevoli, quindi tutti innocenti. Occorre al contrario avviare le indagini, e viste le cautela e la lentezza con cui agisce la Cpi, dovrebbe essere la società civile ad intentare i primi processi. Durante la guerra del Vietnam, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre e Lelio Basso avviarono un clamoroso Tribunale d’opinione sui crimini di guerra lì compiuti. Altri tribunali sono stati istituiti, molti presso la Fondazione Basso. Mai come oggi si avverte la necessità di un Tribunale dedicato all’Ucraina, dove il primo imputato non sia qualche ragazzino impaurito che si trasforma in assassino, ma chi, come Putin, l’ha mandato al fronte. Perché non c’è guerra senza crimini. E il crimine della guerra è assai più violento di qualsiasi crimine di guerra. Nel Donbass filorusso condanna a morte per tre cittadini stranieri: “Sono mercenari” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 giugno 2022 Si tratta di due britannici e un marocchino combattevano a fianco dell’esercito ucraino. Due cittadini britannici e un marocchino catturati dalle milizie filorusse in Ucraina sono stati condannati a morte. Aiden Aslin, 28 anni, del Nottinghamshire, Shaun Pinner, 48 anni, del Bedfordshire, e un terzo uomo, Saaudun Brahim, sono comparsi ieri davanti un tribunale della Repubblica popolare di Donetsk, istituito dai ribelli filo- russi. In realtà l’assise non è riconosciuta a livello internazionale ma si è aperto un caso le cui conseguenze sono tutte da decifrare compresa l’eventualità di un futuro scambio di prigionieri. Secondo quanto riferito dalle autorità della Repubblica, i tre sono ritenuti dei mercenari anche se le famiglie dei britannici sostengono invece essere soldati regolari dell’esercito ucraino. Come dimostra la condanna di ieri, la situazione sul campo di battaglia si sta ulteriormente incattivendo. Come spiega il Ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov le perdite dell’esercito di Kiev ammontano a circa un centinaio di soldati che ogni giorno cadono in battaglia. ‘Il mostro russo ha ancora molti mezzi per divorare vite umane e soddisfare il suo ego imperiale. Abbiamo dimostrato di non avere paura del Cremlino, a differenza di molti altri. Ma noi, come Paese, non possiamo permetterci di dissanguarci, perdendo i nostri figli e figlie migliori’. La soluzione, secondo Reznikov, sta in un nuovo afflusso di armi pesanti per contrastare le truppe di Mosca. Gli ambienti governativi di Kiev infatti non sono soddisfatti della quantità e dei tempi in cui arrivano gli aiuti militari dall’occidente. In questo senso va vista l’indiscrezione secondo la quale l’Ucraina fornirebbe informazioni di intelligence con il contagocce per sollecitare proprio un ritmo piu veloce delle forniture. Un messaggio che sembrerebbe diretto all’Europa che nonostante i proclami e le promesse sembra restia a inviare dispositivi particolarmente distruttivi pari a quelli dei russi. Per questo lo stesso ministro della difesa, anche dichiarandosi non soddisfatto, ha tenuto a ringraziare gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Polonia e i nostri amici baltici, così come tutti gli altri Paesi che contribuiscono a frenare la malvagità russa’. Sulla stessa linea il capo militare regionale del Lugansk Sergiy Gaidai che reclama anch’esso armi a lungo raggio. A suo dire in questa maniera si potrebbe ‘ ripulire Severodonetsk in due o tre giorni’. E qui infatti che si sta combattendo la battaglia piu cruenta, nella notte di ieri è stato bombardato per due volte dall’esercito russo l’impianto chimico Azot, dove si sono rifugiati circa 800 civili, 200 dipendenti e circa 600 residenti. Almeno due officine sono state colpite, tra cui una per la produzione di ammoniaca. Nel frattempo Mosca ha fatto sfoggio di muscoli mostrando alcuni video riguardanti le esercitazioni della flotta del mar nero. E in queste acque si consuma anche la crisi alimentare che sta diventando allarmante per il mondo visto che a causa della guerra le derrate agricole, grano in particolare, non possono lasciare i porti. Neanche il viaggio di Lavrov in Turchia per incontrare il suo omologo di Ankara è riuscito a sbloccare la situazione. Nessuno accordo nonostante la mediazione dei turchi che spingono per un accordo tra Russia e Ucraina negoziando un passaggio sicuro per il grano bloccato. E dalla Germania arriva un allarme inquietante. Il generale Martin Schelleis, al vertice del Comando logistica e organizzazione e del Comando territoriale delle Forze armate tedesche (Bundeswehr), i ntervistato dal quotidiano Koelner Stadt- Anzeigerha avvertito: “Siamo gravemente minacciati e attaccati”. Per il generale, infatti, la Germania ha “già una guerra” nello spazio informatico, essendo bersaglio di attacchi cibernetici. Allo stesso tempo, sono “realistici attacchi isolati contro infrastrutture critiche” del Paese, ad esempio da parte di forze speciali, con droni o motoscafi. I tribunali del terrore di Putin condannano a morte i prigionieri di guerra di Paola Peduzzi Il Foglio, 10 giugno 2022 Tre cittadini stranieri, due britannici e un marocchino, puniti con la fucilazione dalla corte di Donetsk istituita dalle forze russe nel territorio occupato. Un processo sommario e illegittimo. Aiden Aslin e Shaun Pinner, cittadini britannici, e Saadoun Brahim, cittadino marocchino, hanno combattuto con l’esercito ucraino e sono stati catturati dalle forze russe in territorio ucraino. Le autorità filorusse di Donetsk, la regione del Donbas che la Russia occupa parzialmente dal 2014 e che ora vuole conquistare del tutto, ieri li hanno condannati a morte (con un plotone d’esecuzione) dopo un processo durato qualche giorno, che si è svolto a porte chiuse e ne sono state date sporadiche notizie soltanto dai media della propaganda russa. I tre uomini sono stati ritenuti “mercenari” e sono stati condannati per terrorismo. L’agenzia di stampa russa Ria Novosti ha pubblicato un video in cui Aslin, Pinner e Brahim si dichiarano colpevoli dei reati a loro imputati: terrorismo, partecipazione a un gruppo criminale e uso indiscriminato della forza. Secondo questo tribunale formato dagli uomini che prendono ordini dal Cremlino, le azioni di questi “mercenari” hanno portato “alla morte e al ferimento di civili e al danneggiamento di infrastrutture civili”. Un funzionario filorusso ha detto che i tre uomini hanno un mese per fare appello e, se l’appello viene accettato, possono tramutare la loro pena in 25 anni di carcere (russo). I due cittadini britannici hanno detto di essersi arruolati nei marine ucraini da anni (i parenti di Aslin hanno rilasciato delle interviste in cui hanno specificato che gli anni sono quattro) e questo li rende dei soldati effettivi coperti dalla Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. In Russia esiste una moratoria sulla pena di morte dal 1996, ma non si applica nei territori occupati illegalmente nell’est dell’Ucraina e Mosca aveva fatto sapere, dopo la cattura dei combattenti di Mariupol, che “il mondo deve vedere che i nazionalisti ucraini non si meritano altro che la morte” (le parole sono di un parlamentare russo). Il ministro degli Esteri britannico, Liz Truss, ha ribadito che si tratta di prigionieri di guerra e che questa sentenza non ha “assolutamente alcuna legittimità”. Come abbiamo imparato già dal 2014, della legittimità Vladimir Putin se ne infischia. Quando due soldati russi sono stati processati e condannati (a 25 anni di carcere) a Kyiv, Mosca ha fatto sapere che avrebbe istituito i suoi tribunali e che da lì sarebbero passati i soldati catturati, in particolare quelli dell’acciaieria di Azovstal. Alcuni pensano che questa condanna serva ad accelerare lo scambio di prigionieri che, pur senza accordi formali, vorrebbe anche Mosca. Ma sono di più quelli che pensano che sia il contrario - il numero di prigionieri in mano ai russi è molto più grande rispetto a quello degli ucraini - e che questi tribunali del terrore di Putin facciano da sostegno all’annessione di fatto del territorio ucraino occupato. Stati Uniti. La Camera vota per limitare l’uso delle armi. Dal Senato poche speranze di Marina Catucci Il Manifesto, 10 giugno 2022 Cinque repubblicani votano con i democratici le riforme più aggressive degli ultimi anni. Ma non basterà: la mancanza di una maggioranza solida tra i senatori fermerà il pacchetto. La Camera degli Stati Uniti ha approvato un pacchetto di riforme sul controllo delle armi formato dalle leggi più aggressive adottate o proposte negli ultimi anni, includendo l’innalzamento a 21 anni dell’età minima per l’acquisto della maggior parte dei fucili semiautomatici e il divieto di vendita di caricatori di munizioni ad alta capacità. Il voto si è tenuto poche ore dopo che la commissione della Camera che sta lavorando alle restrizioni aveva ascoltato le testimonianze di un bambino sopravvissuto alla sparatoria del 24 maggio nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, dei genitori di una vittima e di un pediatra che ha prestato i primi soccorsi alle vittime della sparatoria che ha causato la morte di 19 bambini delle elementari e di due insegnanti. Cinque repubblicani si sono uniti alla maggior parte dei democratici: il voto si è concluso con 223 favorevoli e 204 contrari. Due democratici si sono uniti al Gop e hanno votato no. Il voto positivo della Camera, però, sembra destinato a restare poco più di un esercizio di comunicazione politica: al Senato la ferrea opposizione repubblicana a qualsiasi nuova restrizione sulle armi non accenna a mostrare crepe. Dopo il voto i Democratici non hanno brindato alla vittoria e hanno dichiarato di essere consapevoli che, con molte probabilità, il pacchetto di leggi è destinato a naufragare sotto i colpi del voto negativo del Senato, ma che comunque era un passo necessario per dimostrare agli americani che si può fare di più per prevenire non solo le sparatorie di massa della devastante portata di quelle di Buffalo e Uvalde, ma anche le centinaia di sparatorie che quasi non fanno notizia, visto che vi perdono la vita meno persone, e gli episodi quotidiani di violenza da armi da fuoco che stanno flagellando l’America. Al Senato comunque proseguono le trattative su proposte più modeste, che potrebbero avere il sostegno bipartisan necessario ad andare avanti, ma il dibattito feroce che si è tenuto alla Camera riflette il divario tra le due parti che sembrano inconciliabili sul controllo delle armi. I deputati repubblicani sono rimasti uniti nell’opporsi alle leggi, definendole un rimedio inefficace contro i mass shooting e sostenendo che di fatto le nuove misure servirebbero solo a limitare i diritti dei proprietari di armi responsabili. In vista del voto i leader repubblicani avevano consigliato ai loro compagni di partito di votare contro le misure, non solo per ragioni ideologiche o pragmatiche, ma anche perché le loro azioni sarebbero state osservate e valutate da una coalizione di gruppi conservatori, tra cui la Heritage Action e la National Rifle Association (Nra), la lobby delle armi che finanzia profumatamente i candidati Gop. “Questo disegno di legge non protegge i bambini - ha dichiarato Jim Jordan, deputato dell’Ohio e stella nascente dell’ala più a destra del partito - Quello che fa è togliere i diritti del Secondo Emendamento, i diritti dati da Dio, protetti dalla nostra Costituzione, ai cittadini americani rispettosi della legge”. Negli Usa armarsi è un diritto, ma se lo Stato saprà cambiare i cittadini lo seguiranno di Roberto Saviano Corriere della Sera, 10 giugno 2022 Cosa deve accadere ancora negli Usa perché si mettano da parte le armi? Diciamo le cose come stanno: è già accaduto di tutto e nulla cambierà. Assistiamo ad appelli accorati, a politici che si stracciano le vesti, ascoltiamo Trump dire, dal palco della convention dell’Nra (la lobby delle armi), che non andrebbero vendute armi a chi ha problemi (e chi non ne ha?), ma nessuno mai metterà seriamente in discussione quello che gli statunitensi considerano un diritto inalienabile: possedere un’arma e, all’occorrenza, utilizzarla. Chissà se qualcuno dirà mai, chiaro e tondo, che le armi non si possiedono ma sono piuttosto loro a possedere? Non sei tu proprietario dell’arma, è lei a essere padrona del tuo braccio, della tua mano e soprattutto della tua mente. È lei ad averti e a implorarti di essere usata. È una scorciatoia che la mente adotta per sedare il sentimento che forse più di ogni altro accompagna la nostra vita: la paura. E contro la paura intervengono strategie per arginarla. Studiare, informarsi, illuminare le zone in ombra, quelle che ci fanno temere finanche i nostri vicini. Che ci fanno temere lo straniero. La paura si combatte opponendo fiducia, non armandosi. Ma quando la legge lo consente, sappiamo bene come le scorciatoie siano la risposta più immediata a un bisogno considerato urgente. La foto che ho scelto questa settimana è di Gabriele Galimberti e ritrae una donna texana circondata da armi di ogni tipo. Mani sui fianchi, sorriso aperto, sguardo radioso, come se stesse mostrando le proprie abilità, o quelle dei propri figli, qualcosa di cui andare fiera, per cui essere orgogliosa. Galimberti ha fotografato appassionati di armi negli Stati Uniti per un progetto che ha chiamato Ameriguns. Vi invito a guardare con attenzione questa foto... capiamo insieme quali sentimenti provoca in noi. Il primo pensiero sarà: è una collezionista, e chi colleziona non usa, ma tiene lì, in bella mostra, con attitudine da accumulatore. Possiamo darci questa spiegazione e stare sereni? Non credo, no. Con le armi non esiste collezionista che non nutra fascinazione per l’oggetto. Quindi su di me l’accumulo fa l’effetto opposto: mi dice che c’è davvero qualcosa che non va, che davvero quell’arsenale è giustificato solo dal pensiero di vivere in una società dove per non essere preda devi trasformarti in predatore. In tutte le foto che Galimberti ha scattato ci sono persone sorridenti, circondate da armi; eppure le armi non dovrebbero far sorridere, ma mettere inquietudine, trasferire un senso di pericolo e insicurezza. Come possono queste persone creare coreografie con le proprie armi, piazzarsi al centro e sorridere? È incredibile come, solo nei tre giorni successivi al massacro di Uvalde del 24 maggio, ci siano state altre sparatorie di massa in cui sono stati coinvolti cittadini statunitensi giovanissimi, finanche minorenni. Nel weekend successivo alla strage sono morte in sparatorie di massa 10 persone e 61 sono rimaste ferite, e queste notizie sono pressoché rimaste in cronaca locale. Le leggi sulle armi in Texas sono tra le più permissive di tutti gli Stati Uniti. Dallo scorso anno è in vigore una legge criminale, firmata dal governatore repubblicano Greg Abbott, secondo cui ogni texano maggiorenne può detenere un’arma, anche senza il porto d’armi. In questo modo viene meno qualsiasi forma di controllo, chiunque può possedere un’arma, qualunque sia il suo stato mentale o il motivo per cui crede di averne bisogno. Il Texas è una polveriera, il luogo più facile al mondo dove comprare un’arma e sparare. E così, ogni volta che c’è una strage negli Usa non posso fare a meno di pensare alle origini del 2° emendamento, alle ragioni per cui i padri fondatori lo ritennero fondamentale. Non era concepito perché i cittadini si uccidessero l’un l’altro, questo è certo: “Una milizia ben organizzata è necessaria alla sicurezza di uno Stato libero e dunque il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non può essere violato”. È evidente il nesso di causalità: se lo Stato è armato, i cittadini sono armati. Il 2° emendamento nasce perché il cittadino possa difendersi anche e soprattutto da possibili violenze, soprusi, abusi. Se lo Stato è armato, io sono armato. Lo Stato non si può disarmare, questo è ovvio, ma può anzi deve smettere di essere violento. Se cambia lo Stato americano, ci vorrà del tempo ma cambieranno anche i cittadini.