Le madri in carcere e i bambini prigionieri di Lorenzo Marone Corriere della Sera, 9 gennaio 2022 Gli Icam sono istituti di detenzione a custodia attenuata nei quali vengono rinchiuse le madri con i figli quando per i piccoli non esistono altre soluzioni. In Italia ce ne sono cinque: al 31 gennaio 2021 ospitavano 29 minori. Lo scrittore Lorenzo Marone ha visitato la struttura di Lauro, in Irpinia. Sulla vita dei piccoli reclusi esce a maggio per Einaudi Stile libero il nuovo romanzo. Che parte da qui: un muro alto, la cucina in un angolo, i panni su un divano, un ragazzino con l’urgenza inderogabile di farsi un amico... Nell’aprile del 2021 sono stato in visita nell’istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro, in provincia di Avellino. Volevo guardare da vicino una realtà di cui avevo spesso sentito parlare, ma che conoscevo poco e mi incuriosiva molto. Gli Icam sono istituti a custodia attenuata nei quali vengono rinchiuse le madri con i figli quando per i bambini non esistono altre soluzioni possibili all’esterno. La legge in vigore è la 62 del 2011. Prevede misure alternative al carcere per le donne con figli fino ai sei anni di età (salvo esigenze eccezionali), ovvero, appunto, Icam e case-famiglia protette. La finalità è non traumatizzare eccessivamente i bambini, che in quella fase della vita devono poter restare sotto la tutela della madre, quando questa lo richieda. Inizialmente le detenute internate negli Icam erano responsabili di reati di minore gravità, contro il patrimonio, ora vi sono anche donne che scontano pene lunghe per reati più gravi contro la persona. In Italia esistono cinque Icam, uno di questi è a Lauro, come detto, tra i monti dell’Irpinia. Al 31 gennaio 2021 erano 29 i bambini (13 dei quali stranieri) in carcere con le proprie madri (8 nell’Icam di “numeri bassi”, se così si può dire della vita di creature innocenti, che forse per questo non attraggono l’interesse della politica. A oggi esiste una proposta di legge a prima firma dell’onorevole Paolo Siani (Partito democratico) che mira a eliminare i profili problematici emersi in sede di applicazione della legge 62 del 2011, così da impedire che i bambini varchino la soglia del carcere, valorizzando l’esperienza delle case-famiglia, strutture idonee che dovrebbero essere individuate di concerto tra il ministero della Giustizia e gli enti locali. La proposta di legge si prefigge l’obiettivo di vietare per sempre la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni, e di attuare le detenzioni attenuate negli Icam solo in casi eccezionali, come extrema ratio. La legge di bilancio aveva anche stanziato un fondo di 4,5 milioni di euro da spendere in tre anni per sviluppare soluzioni alternative di detenzione, ma al momento nulla è cambiato. L’amicizia che mi lega a Paolo Siani dai tempi di Un ragazzo normale, il romanzo con il quale ho tentato di omaggiare e ricordare il fratello Giancarlo, e le chiacchierate sul tema più volte avute con lui, mi hanno spinto a voler conoscere meglio questo mondo. Da padre, m’interessava soprattutto capire cosa significasse crescere lì dentro, come fosse possibile permettere che un bimbo innocente formasse la propria identità dietro quelle sbarre. Ho chiesto allora a un altro caro amico, Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti campani, di accompagnarmi a Lauro, e lì, in una calda giornata primaverile, ho conosciuto le mamme e i figli, e ho capito che avrei potuto provare a racgiata contare le loro storie. Raccontare la quotidianità di un penitenziario diverso, incastonato tra le montagne, nel quale le celle sono bivani arredati, con cucinino e televisione, ma pur sempre con le grate alle finestre; dove i bambini si riuniscono a giocare con le giostrine in cortile e le guardie penitenziarie, senza divisa e armi, osservano da lontano, in modo che i piccoli si sentano in un ambiente familiare, protetto, il più normale possibile. Così, infatti, m’è parso quel carcere, un insolito ambiente familiare nel quale si svolge una vita che ha un suo ritmo, una vita altra dalla normalità di fuori, ma anche dalla quotidianità carceraria che immaginiamo di conoscere. Il primo impatto, in verità, è straniante, s’arriva all’Istituto lasciandosi cullare da una lunga strada che s’inerpica tra i monti, e sarà stata la primavera, o la bellezza che la terra d’Irpinia con il suo verde strabiliante impone, mi sembrava d’essere in gita. La prigione è una struttura bassa che si trova ai margini del paese; a prima vista la si scambia per un capannone, una piccola fabbrica come ce ne sono altre da quelle parti. Ti accorgi che è un carcere perché arrivano i secondini a chiederti i documenti, poi, compiuti i primi passi, ti trovi davanti un alto muro di un verde scolorito, come si usa negli ospedali, sormontato da telecamere e faretti. Dentro, però, le cose cambiano: ad accogliere il visitatore c’è una parete ricca di personaggi dei cartoon coloratissimi, e poi fiori, arcobaleni e uccelli disegnati in occasione d’una festa. Dietro una porta si sentivano grida divertite di bambini, così che per un attimo ho creduto d’essere nella scuola di mio figlio. Grazie a Samuele Ciambriello, e alla collaborazione del direttore Paolo Pastena, persona garbata e disponibile, sono arrivato nel cuore del carcere, tra i corridoi che ospitano le celle, tutte aperte. I bambini si rincorrevano, qualche detenuta era dentro a far cose di casa, molte mi guardavano diffidenti dalla soglia dei loro “appartamenti”, altre s’erano ammucchiate in cortile a fumare e a godersi il sole, come mamme ai giardinetti. Ho sbirciato in una cella, ed è stato come guardare in casa d’altri: c’era un posacenere colmo sul tavolo, in un angolo la cucina, ordinata; su un divanetto, pochi panni piegati. In cortile mi si è avvicinato un bambino ben piazzato, di circa dieci anni (è raro trovarne di così grandi), dalla faccia paffuta e simpatica e dalla buona parlantina, che ha tenuto a mostrarmi la sua abilità nel salire sullo scivolo al contrario. Per l’intera ora che siamo stati lì non m’ha lasciato, aveva chiara l’urgenza di farsi un amico, anche se nulla mi ha chiesto di fuori. Alcune detenute tenevano a raccontarmi del loro caso e della pena che ancora avevano da scontare, altre facevano invece come se non ci fossi, abituate forse al viavai di visitatori, politici, medici. Qualcuna s’intratteneva a parlare del pranzo che aveva da cucinare, c’era chi si sforzava di essere partecipe e chi, al contrario, pareva apatica, se non ostile, come se la mia presenza rappresentasse un fastidio: il solito ficcanaso. I bambini erano tutti uguali nelle movenze e nell’apparente allegria, correvano senza sosta dallo scivolo alle altalene, si alternavano a trovare rifugio in una casetta colorata su un prato artificiale, ridevano e, almeno finché sono rimasto lì, sembravano non darsi pena alcuna. Tutti allegri, tranne Ninetta (nome di fantasia), una bimba rom di nemmeno cinque anni che ci guardava muta da dietro le sbarre della sua cella che affacciava sul cortile, costretta all’isolamento da quarantena perché la madre era stata fuori dal carcere per sottoporsi a cure chemioterapiche. Lo sguardo dolce e smarrito di Ninetta lo sento ancora addosso, e ancora mi convince che la sua storia, e quella degli altri bambini condannati alla prigionia da innocenti, merita d’essere conosciuta, seppure sotto forma di romanzo, com’è nella mia cifra. Forse non posso davvero capire fino in fondo gli ultimi, io che senza merito alcuno ho avuto in sorte alla nascita una situazione comoda. Eppure, nonostante i privilegi, dell’infanzia mi porto dietro intatta la sensazione d’essere nulla, di valere solo per pochi. E m’è parso evidente che i bimbi di Lauro avessero a tenerli in vita solo l’amore materno, nient’altro. Questo ho voluto raccontare, prima ancora del carcere. Prima ancora della denuncia, ho provato a capire la verità, che è sempre cosa complessa, dalle mille sfaccettature. E la verità è che, in attesa di una legge che istituisca le Case-famiglia, nelle quali un domani le detenute con i loro figli possano condurre una vita quasi ordinaria, gli Icam al momento rappresentano, mi sembra, il male minore, poiché permettono alle madri di prendersi cura dei bambini, che altrimenti finirebbero chissà dove. Permettono che non si spezzi il filo che tiene in piedi quelle piccole e sfortunate esistenze. Green Pass obbligatorio in carcere per i colloqui con i detenuti: il nuovo decreto di Annalisa Cangemi fanpage.it, 9 gennaio 2022 Obbligo di green pass per i familiari dei detenuti che entrano in carcere per colloqui in presenza. È una delle misure anti Covid del decreto di gennaio, pubblicato in Gazzetta ufficiale. È stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto Covid, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 5 gennaio, ed entrato in vigore da oggi. Nel provvedimento è contenuto l’obbligo vaccinale per over 50, e l’obbligo di Super Green Pass per tutti i lavoratori over 50. Tra le altre misure contenute nel dl, ci sono anche le nuove norme sulla quarantena a scuola, in vista della ripresa delle lezioni in presenza dopo la pausa natalizia. Il Green Pass base, quello che si ottiene anche con un semplice tampone negativo, è stato esteso agli avvocati difensori, nonché ai familiari di detenuti che vogliano accedere a colloqui in presenza. L’articolo 3 del decreto, infatti, estende l’obbligo di Green pass a “difensori, consulenti, periti e agli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia”. Inoltre, “l’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde Covid-19”, si legge ancora nel decreto, “non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento”. L’obbligo di Green pass non riguarda invece “testimoni e parti del processo”, mentre viene introdotto per effettuare “colloqui visivi in presenza con i detenuti e gli internati, all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori”. No alla giustizia-spettacolo di Armando Spataro L’Espresso, 9 gennaio 2022 Né “sfregio alla Costituzione” né “legge-bavaglio”. Ma una sobrietà comunicativa rispettosa di principi irrinunciabili. Quasi tutte le riforme in tema di giustizia costituiscono da decenni, qualunque ne sia l’oggetto, ragione di polemiche tra politici e magistrati. Nel caso della riforma varata con il decreto legislativo n. 188/2021, ormai definito “Decreto sulla presunzione di innocenza”, l’area dei polemisti si è allargata fino a comprendere avvocati e giornalisti. Il decreto - è bene dirlo in premessa - impone un obbligo di sobrietà comunicativa rispettoso di irrinunciabili principi, ma ciononostante c’è chi ne parla come di uno “sfregio alla Costituzione” o, rievocando vecchie definizioni, di “legge bavaglio”. Le cose non stanno affatto così e sorprende che, in certi interventi non si parli mai delle ragioni che - unitamente ad una vincolante direttiva europea del 2016 - hanno dato luogo all’intervento legislativo in questione. Intendo riferirmi, evitando però qualsiasi generalizzazione, soprattutto alle prassi, proprie di vari magistrati, di conferenze stampa teatrali e di interviste autocelebrative delle proprie inchieste. Ho già avuto modo di intervenire sulla rivista Giustizia Insieme. Il corretto rapporto tra giustizia e informazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia, sicché si può ben comprendere perché il Csm abbia emanato l’11 luglio 2018 specifiche Linee Guida “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, quale espressione della necessità di trasparenza, controllo sociale e comprensione - da parte dei cittadini - della giustizia intesa come servizio, come funzione, come istituzione. Ma queste previsioni, così come i principi contenuti nell’art. 21 della Costituzione, evidentemente non bastano ad impedire ben note criticità del sistema di informazione sulla giustizia che spesso finiscono con il penalizzare chi vi è coinvolto: di qui la necessità di leggi ad hoc. È qui impossibile commentare tutte le previsioni del D.Lgs. 188/21, ma non vedo in che modo il giusto e logico divieto per le autorità di indicare pubblicamente come colpevole un indagato o imputato fino a quando non sia dichiarato tale con provvedimento definitivo possa limitare il diritto-dovere di informazione, quando invece ne rende il suo esercizio corretto e rispettoso dell’elementare principio di “presunzione di innocenza”. Anche il contenuto dell’art. 3 del decreto è condivisibile nella parte in cui prevede che l’informazione sui procedimenti penali venga effettuata, quando necessaria per le indagini o per ragioni di pubblico interesse, tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa, su decisione motivata del Procuratore della Repubblica, vincolante anche per la polizia giudiziaria. Appare francamente di natura burocratica la previsione di un atto scritto e motivato che il Procuratore deve emettere in questi casi, ma non può non concordarsi sul fatto che comunicati sobri ed essenziali, che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, siano preferibili a conferenze stampa che consentono interpretazioni forzate e incontrollabili dei “racconti” a voce. Certo anche nel caso dei comunicati sono possibili eccessi dei pubblici ministeri, come quelli contenenti affermazioni apodittiche quasi fossero un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, cioè, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero e le esternazioni della polizia giudiziaria prima della decisione del giudice, tanto che doverosa appare la nuova previsione di legge riguardante anche il dovere del Procuratore di correggere, sempre con comunicati, false notizie ed errori eventualmente propalati. Tornando alle critiche al provvedimento, non si comprende come le nuove previsioni potrebbero limitare il diritto di informazione o il controllo sociale su correttezza ed affidabilità dell’attività dei magistrati o perché mai si ritenga penalizzata la loro possibilità di replica a notizie false o inesatte strumentalmente diffuse nell’interesse di indagati eccellenti: una lettura attenta del D.Lgs. consente di escludere questi dubbi, così come il timore di una previsione favorevole solo ad una certa tipologia di imputati, i “potenti” di turno. Ancor più sorprendente è l’affermazione di importanti giornalisti secondo cui, se questa normativa fosse stata vigente in passato, i cittadini avrebbero per anni saputo poco o niente di importanti e recenti inchieste (ad es., quelle sulla Fondazione Open, sulla Loggia Ungheria etc.) o, addirittura, su indagini come quelle sul caso Moro, sul terrorismo degli anni di piombo, su Cosa Nostra e le sue stragi, su Ustica, su “Mani Pulite” etc. Si parla addirittura di rischio di “cancellazione della realtà”, anche per effetto della discrezionalità riconosciuta ai Procuratori per la selezione delle modalità informative. Mi chiedo quale passaggio del decreto della presunzione di innocenza legittimi tali conclusioni, posto che esso prevede possibilità di conferenze stampa proprio per casi di pubblico interesse come quelli citati, sia pure con richiamo al dovere condivisibile di sobrietà. Viene il dubbio che si continui ad auspicare un’attività divulgativa dei magistrati finalizzata a consentire più agevoli modalità di lavoro dei giornalisti. Non mi riferisco, sia ben chiaro, all’ipotesi di scorretti rapporti tra appartenenti alle due categorie che - se accertati - devono essere duramente puniti, ma alla diffusa convinzione che i pubblici ministeri dovrebbero farsi carico degli onerosi compiti di chi fa giornalismo informativo. I pubblici ministeri, però, fanno un altro lavoro ed il loro compito è quello di acquisire le prove di responsabilità a carico degli autori dei reati per cui procedono, cioè un mestiere diverso da quello dei giornalisti, altrettanto rispettabile ed utile. Ed in quale altro modo poi, se non attraverso comunicati e conferenze stampa dai precisi confini, l’Autorità giudiziaria potrebbe fornire le informazioni possibili? Ecco perché sono assolutamente condivisibili altre disposizioni riguardanti modifiche procedurali che richiamano il dovere dell’Autorità Giudiziaria, nella redazione di atti giudiziari destinati a diventare pubblici quali richieste di provvedimenti cautelali, decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, decreti penali etc., di non motivarli in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti, limitandosi ai soli riferimenti necessari a soddisfare le condizioni richieste dalla legge. Protagonisti necessari della comunicazione relativa alla giustizia, però, non sono solo i magistrati e la polizia giudiziaria, ma anche gli avvocati, i politici e i giornalisti, molti dei quali “responsabili” di ulteriori derive e criticità. In proposito, sarebbero utili interventi legislativi ulteriori o una severa applicazione dei codici deontologici delle citate categorie professionali e dei partiti politici. Non si può tacere, comunque, in ordine ai comportamenti di alcuni avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, e anzi le amplificano tramite deprimenti processi mediatici, anche quale mezzo di proliferazione della propria clientela. Allo stesso modo non è accettabile la strumentalizzazione della comunicazione in tema di giustizia penale, da parte di quei politici che reagiscono con violenti attacchi e richieste di punizione nei confronti di magistrati per indagini, processi, condanne o tardive assoluzioni che li riguardano o toccano persone a loro vicine. I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, si diffondono tinti -regole” pericolose ed inaccettabili, come l’assenza di doverosi approfondimenti sulle notizie rilevanti e la loro frequente enfatizzazione. Il mio auspicio è quello di vedere il mondo della giustizia popolato da giornalisti che, anziché cercare documenti e notizie in modo poco corretto, provvedano a richiederli con formali istanze, come la legge (art. 116 c.p.p.) e disposizioni già da tempo emesse da vari Procuratori della Repubblica consentono, fermo restando che il loro diretto accesso agli atti non più segreti, come auspicato da Luigi Ferrarella, sarebbe la soluzione migliore. Resta la necessità di una riflessione pacata anche sul rapporto tra informazione e giustizia che, rifuggendo da ogni possibile litania, si muova nello spirito e secondo le ragioni del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, le cui previsioni sono orientate dal rispetto di diritti fondamentali delle persone, inclusi anche quelli di indagati e imputati. L’Anm si sveglia sul Sistema e ora “processa” 70 magistrati di Luca Fazzo Il Giornale, 9 gennaio 2022 Nel mirino dei procedimenti disciplinari le toghe coinvolte nelle chat di Palamara. Ma resteranno al loro posto. Con calma, con molta calma: ma forse, finalmente, i giudici italiani decidono di fare un po’ di pulizia al loro interno. Ad oltre due anni e mezzo dall’esplosione del “caso Palamara” l’unico magistrato che l’Associazione nazionale magistrati ha punito finora è stato proprio Luca Palamara, espulso con ignominia dal sindacato delle toghe. Per tutte le centinaia di suoi colleghi comparsi nelle chat che raccontavano dall’interno raccomandazioni, carriere, favori e miserie la giustizia interna all’Anm era andata avanti a passo di lumaca. Ma ora, secondo quanto anticipato ieri dal Riformista, una settantina di magistrati starebbero per ricevere il capo di “incolpazione” da parte dei probiviri dell’Anm, sulla base delle chat trasmesse dalla Procura di Perugia. Nelle ultime settimane, i probiviri avrebbero esercitato una prima selezione delle varie posizioni, scegliendo di mettere sotto accusa solo i colleghi più apertamente colpevoli di avere violato il codice etico dell’organizzazione. Sono magistrati anche di alto livello, sparsi in tutta Italia, per i quali sarebbe pronta la procedura di impeachment. Si tratta, va ricordato, di procedure interne all’Anm, cioè al sindacato. Anche chi venisse espulso potrebbe tranquillamente continuare a lavorare in magistratura. Tant’è vero che tra le prime toghe investite dal procedimento disciplinare, circa un anno fa, la maggioranza scelse di dimettersi spontaneamente dall’Associazione per evitare l’onta della sanzione. Per quelli che allora non si dimisero, il procedimento sta procedendo a ritmi blandi. I probiviri hanno già chiesto una serie di condanne (in genere la censura, una delle pene più lievi) ma il direttivo dell’associazione non ha ancora deciso nulla. Insomma, la sensazione era finora che - di fronte a un’ondata di rivelazioni che ha investito tutte le correnti - l’atteggiamento dell’Anm oscillasse tra imbarazzo e cautela. Ora la notizia dei settanta nuovi procedimenti disciplinari sembra dire che qualcosa si sta muovendo. Ma con che fermezza è tutto da capire. Secondo il Riformista, per esempio, tra i settanta incolpati non ci sarebbe il più illustre tra i nomi che compaiono nelle chat, quello del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: che peraltro a luglio va in pensione, e quindi potrebbe uscire di scena incolume. A questo punto l’attenzione si concentra sulla sorte che i probiviri riserveranno a un altro vip i cui rapporti con Palamara ricorrono spesso nelle chat, l’ex leader di Magistratura democratica Giuseppe Cascini, membro del Csm. Cascini ha rifiutato di dimettersi dal Csm nonostante quanto emerso dalle chat. Sarà ora interessante capire se i probiviri dell’Anm riterranno compatibili anche con il codice etico le intere modalità con cui Cascini gestiva il suo potere: compresa la ricerca tramite Palamara di un contatto nel Coni per poter accedere liberamente col figlio alla tribuna d’onore dell’Olimpico. In attesa di conoscere, almeno informalmente, l’elenco dei settanta, l’unica cosa certa - in questa sorta di pesca a strascico, dove finirà impigliato qualche pesce piccolo e qualche pesce grosso la farà franca - è che l’unico colpevole per cui l’Anm non chiederà punizioni è il colpevole numero uno: il sistema delle correnti. Green pass in tribunale, scatta l’obbligo anche per gli avvocati di Davide Varì Il Dubbio, 9 gennaio 2022 È quanto prevede l’ultimo decreto per l’accesso agli uffici giudiziari: esenti solo testimoni e parti del processo. Pass base anche per i colloqui in carcere. “L’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento”. Obbligo di green pass anche per gli avvocati per l’accesso agli uffici giudiziari. Lo prevede il nuovo decreto contenente le misure di contrasto al covid approvato mercoledì dal consiglio dei ministri e pubblicato oggi in Gazzetta ufficiale. Oltre ai magistrati, si legge nel decreto, l’obbligo è esteso “ai difensori, ai consulenti, ai periti e agli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia”. Ma “le disposizioni non si applicano ai testimoni e alle parti del processo”. “L’assenza del difensore conseguente al mancato possesso o alla mancata esibizione della certificazione verde Covid-19 - chiarisce il decreto - non costituisce impossibilità di comparire per legittimo impedimento”. Green Pass base necessario dal 20 gennaio anche in carcere per i “colloqui visivi in presenza con i detenuti e gli internati, all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori”. “Va bene che l’obbligo di green pass per accedere agli uffici giudiziari sia esteso anche agli avvocati, ma purché sia una misura limitata nel tempo e non danneggi i cittadini. Noi come Ordine degli avvocati di Roma, faremo di tutto perché non si creino problemi”, commenta il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati romani, Antonino Galletti. “Speriamo che sia un fatto temporaneo, dovuto all’aumento dei casi con questa variante molto più contagiosa, sono misure di sanità pubblica che il governo ha ritenuto di dovere prendere”, osserva. Ma “la stragrande maggioranza degli avvocati è vaccinata e quindi cambierà poco - assicura - non credo che ci saranno problemi per l’organizzazione del lavoro”. “Gli avvocati non vaccinati proveranno a fare ricorsi, e a far valere le loro ragioni”, anche se “è un percorso accidentato. L’unico modo per fare ricorso - spiega Galletti - è quello di subire le sanzioni e poi impugnarle, per arrivare eventualmente a sollevare la questione di legittimità costituzionale, anche se in situazioni come questa la Costituzione giustifica le prestazioni sanitarie imposte”. Poi, ricorda, “c’è l’esempio che viene dalla giustizia amministrativa: tutti i provvedimenti relativi a ricorsi sul Covid, anche quello sull’obbligo di vaccino per i medici, sono stati di rigetto. L’orientamento è questo”. Quanto ai possibili interventi dell’Ordine, conclude il presidente del Coa di Roma, “sarà onere di chi non fa il vaccino trovare un sostituto, valuteremo se mettere in piedi un sistema di sostituzioni che possa aiutare i colleghi”. Nordio: “Il caso Burzi? È il fallimento del sistema giustizia” Il Dubbio, 9 gennaio 2022 “Un processo non può durare dieci anni: come si fa a condannare una persona già assolta?”. Il j’accuse dell’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. Che ora confida nel referendum sulla giustizia. “Il suicido presuppone un tale patrimonio di sofferenze che è quasi irriguardoso commentarlo. Ma un processo che duri dieci anni mette alla prova anche i caratteri più forti. L’aspetto giuridico invece è terrificante: come si fa a condannare una persona già assolta? La condanna presuppone prove al di là di ogni ragionevole dubbio, e qui un giudice aveva già dubitato. È il sistema che è fallito”. Così l’ex magistrato Carlo Nordio commenta in un’intervista al Giornale la vicenda di Angelo Burzi, l’ex assessore regionale della Giunta piemontese che si è suicidato la notte di Natale dopo la recente condanna in appello per peculato. “È normale, e talvolta anche doveroso che un capo difenda l’operato del suo Ufficio - sottolinea Nordio dopo l’intervento del Pg di Torino - soprattutto se le critiche non sono state espresse negli atti giudiziari ma attraverso la stampa. Questo per quanto riguarda i Pm, che sono parti processuali come gli avvocati. Sono i giudici che devono sempre tacere. Certo avrei preferito che quel Pm avesse anche denunciato la demenzialità del nostro sistema, dove un imputato assolto può poi essere condannato, e il processo durare dieci anni”. Per l’ex procuratore aggiunto di Venezia la stagione di Tangentopoli non “è mai finita”, e dopo lo scandalo Palamara e le indagini che hanno coinvolto la procura di Milano, la magistratura si trova sempre più screditata e “inidonea” al suo compito. La soluzione? “Più che una pacificazione occorre che la politica, in quanto legittimata dal voto del popolo sovrano, si riappropri delle sue prerogative e la smetta di essere subalterna alle procure - osserva Nordio - Quanto al capo dello Stato, presiedendo il Csm ha il diritto, e il dovere, di vigilare affinché questo organo non esorbiti dalle sue prerogative ed operi con efficienza e tempestività nel pieno rispetto della legge”. Riguardo alla riforma del Csm, secondo Nordio, “serve il sorteggio. È l’unico modo per rompere il legame tra elettori ed eletti, e la conseguente baratteria clientelare delle correnti, come è emerso dallo scandalo Palamara, e come peraltro tutti sapevano”. Sul referendum per la giustizia, invece Nordio prevede: “Confido che passerà all’esame della Corte, magari con qualche aggiustamento perché alcuni quesiti sono tecnicamente discutibili. Ma quello che conta sarà il messaggio finale del popolo. Se la vittoria dei referendari fosse netta, significherebbe che gli italiani ne hanno abbastanza di questo sistema fallito e reclamano riforme profonde e radicali”. Magherini, la Corte Europea accoglie il ricorso: “Passo avanti in nome di Riky” di Valentina Marotta Corriere della Sera, 9 gennaio 2022 La Corte Europea dei diritti chiede spiegazioni all’Italia. Il padre: un atto di accusa. “Un passo avanti in nome di Riccardo”. Parla Guido Magherini, il padre dell’ex calciatore di 39 anni morto in Borgo San Frediano, il 3 marzo 2014 per arresto cardiocircolatorio dopo essere stato ammanettato e messo prono dai carabinieri. Per quella tragedia, erano finiti a processo quattro carabinieri che, dopo una condanna in primo grado e in appello, erano stati assolti in via definitiva nel novembre 2018 dall’accusa di omicidio colposo. Guido non si è arreso nemmeno di fronte alla sentenza della Corte di Cassazione. Ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha aperto un procedimento. E come primo atto, i giudici hanno chiesto chiarimenti al governo italiano sulla legittimità della tecnica con cui quella notte Riccardo Magherini fu bloccato. E se quella modalità possa mettere in pericolo il diritto alla vita delle persone. Ad anticipare la notizia sulle pagine di Repubblica è Luigi Manconi, ex parlamentare che ha sempre seguito la vicenda di Riccardo Magherini insieme all’avvocato Fabio Anselmo. “Abbiamo sempre creduto che la Cedu potesse prendere in considerazione il nostro ricorso - dice Guido Magherini - E ora lancia un grave atto di accusa contro l’Italia, in particolare contro gli apparati di controllo e la politica che li governa”. E ricorda: “Non dimentichiamo che quella notte mio figlio era in stato di agitazione e chiedeva aiuto. Credeva di essere inseguito e non voleva essere arrestato, invece fu bloccato a terra”. Nel 2014, una circolare del Comando generale dell’Arma raccomandava di evitare i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, a terra in posizione prona. “Quella circolare - aggiunge - nel 2016 fu sostituita da un’altra in cui non c’era più traccia di quelle avvertenze sui possibili rischi. Un passaggio che emerse anche nel corso del processo di primo grado”. Tante le domande rivolte dalla Corte europea al governo italiano. La prima è tesa a capire se l’uso della forza da parte dei carabinieri sia stato “assolutamente necessario e proporzionato al contenimento della persona fermata”. Eppoi se le autorità avessero “fornito agli agenti una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti” e “garantito che fosse tutelata da parte degli operatori la condizione di vulnerabilità del soggetto”. Ma soprattutto la Corte vuol sapere se lo Stato italiano sia dotato di “misure legislative, amministrative e regolamentari che definiscono le limitate circostanze in cui le forze di polizia possono far uso della forza”. “La Cedu ha messo in stato di accusa lo Stato italiano - aggiunge l’avvocato Anselmo - Il governo dovrà chiarire come è morto Riccardo Magherirni, cosa che è successo durante l’arresto e poi come è stata amministrata la giustizia sul caso. Le risposte dovranno arrivare entro il 27 aprile. Ma non credo possano fornire giustificazioni”. Non solo. “La Corte - spiega il legale - ha dichiarato la vicenda di Riccardo un caso di eccezionale importanza per la tutela dei diritti umani, suscettibile di obbligare lo Stato che subisce la condanna, a cambiare giurisprudenza o legislazione. La tragica morte di quel giovane è diventata simbolo di mala gestio per la tutela dei diritti di colui che viene fermato e si trova nelle mani dello Stato e per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia. Eppoi, lo avevo promesso a Guido che non sarebbe finita con la sentenza di Cassazione”. Foggia. Detenuto suicida nel carcere foggiatoday.it, 9 gennaio 2022 Lo rende noto Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. Nel commentare la notizia della morte riportata da notizie d’agenzia, di un detenuto affetto da problemi psichiatrici e ricoverato presso l’ospedale Cardarelli di Napoli a causa delle lesioni riportate e quale conseguenza di un’aggressione risalente a dieci giorni fa, subita da un compagno di cella anch’esso con patologie mentali, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, rende noto che “proprio oggi un altro detenuto, forse anche lui affetto da problemi psichiatrici, si è suicidato a Foggia”. Il sindacalista conclude: “Sale dunque a quattro il numero dei reclusi deceduti (tre per suicidio e uno a causa d’aggressione) nei primi otto giorni di questo 2022, che è partito male e sembra proseguire peggio. La ministra Cartabia ha dichiarato che da gennaio il sistema penitenziario sarebbe stato la sua priorità: siamo all’8 di quel gennaio e noi continuiamo pazientemente ad attendere!”. Napoli. Detenuto con problemi psichiatrici muore dopo un’aggressione in carcere today.it, 9 gennaio 2022 Eduardo Chiarolanza è deceduto in ospedale dopo essere stato aggredito in cella da un altro detenuto nel carcere di Poggioreale. È morto Eduardo Chiarolanza, l’uomo affetto da problemi psichiatrici che lo scorso settembre ha ammesso di avere ucciso la madre 84enne, Eleonora Di Vicino, nel quartiere Pianura di Napoli. Chiarolanza è deceduto la scorsa notte nell’ospedale Cardarelli di Napoli dove era stato ricoverato in seguito a un’aggressione subita dieci giorni fa nel carcere di Poggioreale. L’uomo era stato aggredito da un altro detenuto psichiatrico con il quale condivideva la cella. Sebbene Chiarolanza sia morto in un reparto Covid del Cardarelli, secondo quanto si apprende il decesso sarebbe riconducibile a lesioni al capo provocate da un corpo contundente, pare uno sgabello. Più volte i sindacati della Polizia Penitenziaria si sono pronunciati contro la gestione molto problematica nelle carceri di detenuti afflitti da problemi psichiatrici. Brescia. Detenuto buca una bomboletta e si dà fuoco, salvato appena in tempo dagli agenti bresciatoday.it, 9 gennaio 2022 Provvidenziale l’intervento della polizia penitenziaria, che chiede aiuto. Due giorni fa ha scalato quattro piani dell’edificio, rendendo necessario l’intervento dei Vigili del fuoco. Ieri si è dato fuoco, usando il gas contenuto in una bomboletta. Un detenuto del Nerio Fischione di Brescia negli ultimi giorni tiene in apprensione gli agenti della polizia penitenziaria, che lamentano una situazione che sta diventando ingestibile. I fatti. L’uomo manifesta un profondo disagio per la mancata concessione di una terapia, da lui ritenuta indispensabile, ma non presente tra quelle a disposizione. Due giorni fa, mentre si trovava nel cortile, ha così deciso di arrampicarsi sulla “rotonda” e, aggrappandosi prima alla cancellata, poi alle grate, è arrivato addirittura al quarto piano. Da lì è stato fatto scendere solo grazie all’intervento di una squadra di Vigili del fuoco, chiamata d’urgenza sul posto. A distanza di poche ore dalla prima “protesta”, ieri ha perforato una bomboletta contenente gas infiammabile, si è fatto avvolgere dal gas ed ha appiccato il fuoco. Solo l’intervento tempestivo di una guardia ha evitato il peggio, come spiega il quotidiano Bresciaoggi che riporta la notizia. Ivrea (To). Detenuto denuncia abusi: “In cella al buio” di Andrea Bucci La Stampa, 9 gennaio 2022 Bloccati i pacchi dei familiari, punizioni immotivate, violenza psicologiche. Questa volta non si tratta di violenze fisiche, ma nella casa circondariale a Ivrea si consumerebbero pressioni psicologiche da parte degli agenti di sorveglianza nei confronti dei detenuti. Soprattutto nei confronti di Massimiliano Solla, 54 anni, originario di Ovada (Alessandria), in carcere dal 2018 e che dovrà scontare fino al 2037 un cumulo di pena per truffe e ricettazioni (per lo più acquisti effettuati con assegni rubati). “Ci sia permesso di gridare quanto sia vergognoso che in un Paese come il nostro che vanta uno stato democratico e di Diritto si permetta impunemente a chicchessia di comandare un istituto di pena come Lager nazisti o Gulag sovietici” denuncia Solla in una lettera inviata alla Procura di Ivrea e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Situazione che Solla sta vivendo sulla propria pelle. Perché nei suoi confronti si ripeterebbero pressioni psicologiche e dispetti da parte degli agenti. Una sopravvivenza divenuta insostenibile che Solla, detenuto in regime di semilibertà, ha raccontato in un paio di denunce presentate alla Procura di Ivrea. In base al suo racconto, non gli avrebbero fatto arrivare i pacchi di alimenti che madre e zia gli avevano recapitato per Natale (panettoni e formaggi). Gli agenti avrebbero motivato la mancata consegna con svariate scuse quali la mancanza del mittente, che gli alimenti non erano autorizzati. Poi, gli è stato sequestrato un computer portatile che utilizzava per il suo lavoro da intarsiatore attraverso la formazione di un’associazione interna al carcere. E non gli verrebbe concesso di svolgere l’attività. Ad ogni denuncia, però, corrisponderebbe un provvedimento disciplinare. “Almeno una decina. Per fortuna molti sono stati archiviati dal magistrato di Sorveglianza, Adele Starita scrivendo che “il carcere non ne aveva titolo” spiega il suo legale, l’avvocato Gianluca Orlando. È preoccupata anche la madre, Silvana Soldini, che lo ha incontrato venerdì mattina: “Ho visto mio figlio nervoso e provato da questa situazione. Mentre mi parlava piangeva”. Oltre alle presunte violenze psicologiche ci sarebbero anche altri aspetti. Perché una trentina di detenuti sarebbero stati lasciati al buio in cella per quaranta giorni (le luci sarebbero state poi sostituite). E ancora, l’assenza diffusa e prolungata di acqua calda. Della vicenda ha promesso di occuparsene il Garante comunale dei detenuti, Raffaele Orso Giacone. Napoli. Covid, boom di contagi in carcere: a Poggioreale scatta lo sciopero del “carrello” di Gennaro Scala Corriere del Mezzogiorno, 9 gennaio 2022 I detenuti da oggi non prendono più il cibo distribuito in cella. Da lunedì inizieranno con lo sciopero della spesa, non acquistando più alcun prodotto al di fuori delle sigarette. Covid in carcere, scatta la protesta. La nuova ondata di contagi non risparmia gli istituti di pena napoletani. Mentre a Secondigliano 37 detenuti e 31 appartenenti alla polizia penitenziaria, a Poggioreale risultano positivi circa cinquanta detenuti e una ventina di poliziotti. Numeri che stanno preoccupando in particolare i detenuti della casa circondariale di Poggioreale che, da oggi, hanno iniziato una mobilitazione. La protesta è scoppiata nel padiglione Firenze che ospita circa trecento reclusi che lamentano scarse misure di contenimento rispetto all’aumento dei casi di Coronavirus. I detenuti hanno iniziato con lo sciopero del carrello. Hanno scelto oggi di non prendere più il cibo distribuito in carcere e, da lunedì, inizieranno con lo sciopero della spesa, non acquistando più alcun prodotto al di fuori delle sigarette. Il sovraffollamento (oramai storica piaga delle strutture di pena) e un nuovo focolaio pandemico potrebbero essere un mix difficile da contenere. Non si dimentichi che quando, nel corso del lockdown, per arginare la diffusione del virus furono interdetti i colloqui, iniziarono proteste e battiture. Proprio a Poggioreale scoppiò una rivolta con celle devastate, suppellettili distrutte e reparti resi inutilizzabili. Le sommosse scattarono dopo che i detenuti ebbero la notizia che per l’emergenza da Coronavirus i colloqui con i familiari sarebbero stati sospesi. La rivolta partì dai detenuti del terzo piano, quelli del padiglione Livorno. Furono circa cento quelli che rifiutarono di entrare nelle celle. Alcuni riuscirono a sfondare la rete di protezione e salire sui tetti, mentre in strada la protesta era sostenuta da un gruppo numeroso di donne. Per contenere la rivolta all’interno del carcere furono impiegati circa cento agenti della polizia penitenziaria. Sembrano altri tempi, ma l’epidemia non è scomparsa. I garanti: nelle sale comuni in pochi indossano mascherine - L’allarme circa il nuovo aumento di casi di Covid era già stato lanciato dal garante regionale, Samuele Ciambriello e da quello cittadino Pietro Ioia. Proprio quest’ultimo si è recato proprio oggi a Poggioreale dove ha ricevuto la comunicazione della protesta in atto. “Abbiamo notato come all’interno delle sale comuni, come la sala colloqui familiari-detenuti e nella sala di attesa, nella stragrande maggioranza dei casi né detenuti, né i familiari utilizzano i dispositivi di protezione individuale, come mascherine e gel igienizzanti, durante il momento colloquiale e non viene garantito alcun distanziamento fisico necessario”. I garanti mercoledì scorso hanno incontrato il direttore del carcere Carlo Berdini, il comandante ed il vicecomandante, il responsabile dell’area sanitaria carceraria e quello dell’Asl Na1. “Con nostro rammarico abbiamo constatato che familiari ed avvocati possono entrare all’interno della struttura carceraria senza che vi sia bisogno o obbligo di mostrare né il Green pass in corso di validità, né tantomeno un tampone che certifichi la negatività al Covid19”. “L’Asl - hanno affermato i due garanti - avvii concretamente una campagna di vaccinazione per le seconde e terze dosi ed una campagna di sensibilizzazione per chi ancora non ha effettuato nemmeno la prima di dose di vaccino. Abbiamo ricevuto la disponibilità da parte del cappellano del carcere, Don Franco Esposito, di poter allestire un Hub interno nella Cappella del carcere. In tal modo si potrebbe procedere in maniera repentina ed efficace. Ci auguriamo, inoltre, che Governo e Parlamento modifichino la norma che, attualmente, non prevede l’obbligo vaccinale per i familiari che fanno visita ai detenuti e per gli avvocati”. Numeri alla mano in Campania ci sono circa 200 detenuti contagiati, due ricoverati in ospedale, e oltre cento agenti positivi al Covid 19. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il Sappe. “L’amministrazione penitenziaria ha avviato alla vaccinazione 97.107 detenuti, 26.434 poliziotti e 2.889 impiegati. Ma i numeri dei contagi crescono spaventosamente” osserva il sindacato della Penitenziaria che, insieme all’Osapp, chiede al governo di limitare l’accesso agli istituti di pena solo a chi è vaccinato o ha il green pass rafforzato. Catanzaro. Torna l’incubo Covid nel carcere: positivi 14 detenuti e 15 agenti di Claudia Fisciletti lanuovacalabria.it, 9 gennaio 2022 Colloqui in presenza con obbligo di green pass esteso a familiari e avvocati dei detenuti, disciplina di vaccini e tamponi e, non meno importante, il ritorno dei contagi anche nell’istituto penitenziario. Il Covid torna a bussare alla porta della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro. Sono risultati positivi 14 detenuti della sezione Alta Sicurezza e 15 agenti. I numeri potrebbero aumentare, o restare stabili, poiché sono in corso i tracciamenti sull’intera popolazione dell’istituto penitenziario e del personale. Vi è una buona speranza che l’espandersi del focolaio venga limitato il più possibile, anche in virtù dell’efficacia con cui sono stati gestiti i focolai precedenti, in particolare quello che ha colpito l’istituto penitenziario catanzarese durante la prima ondata pandemica, rientrato poi in poco più di un mese. Nel frattempo si adottano tutte le misure anti contagio, a partire dai vaccini per il personale dell’istituto penitenziario che per questa terza dose sta provvedendo autonomamente, a differenza di ciò che è successo per l’inoculazione di prima e seconda dose che si poteva ricevere all’interno del carcere. In merito si è espresso ampiamente Roberto Magro, Segretario regionale del Sinappe nei mesi scorsi. Il sindacato, infatti, è stato vocale sull’intera disciplina delle misure anti covid all’interno degli istituti penitenziari calabresi, compresa l’estensione del green pass a familiari ed avvocati dei detenuti di cui parleremo tra poco. Il Segretario regionale Magro, poi, coglie la palla al balzo invitando a “prendere provvedimenti urgenti per il ritorno dei contagi”, e invita a valutare “la riapertura delle tende dell’Esercito per fare i tamponi gratuiti a tutto il personale di Polizia Penitenziaria dei vari istituti calabresi”. Non solo, se spesso la situazione pandemica negli istituti penitenziari passa in secondo piano o, addirittura, non viene minimamente considerata, adesso col decreto legge del 7 gennaio 2022, in vigore da oggi 8 gennaio, viene disciplinato l’uso del green pass per familiari, avvocati e chiunque abbia colloqui con gli internati. Nell’oggetto “misure urgenti per fronteggiare l’emergenza Covid-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti di Formazione” si legge che l’obbligo del green pass viene esteso per i “colloqui visivi in presenza con i detenuti e gli internati all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori”. Prima di questo decreto legge, infatti, non era richiesto il Super Green Pass né tantomeno Green pass base, per parenti e avvocati dei detenuti, che potevano accedere alle carceri senza dover mostrare alcuna certificazione. Palermo. Il reinserimento dei detenuti minori grazie al turismo e facendo biscotti di Cinzia Arena Avvenire, 9 gennaio 2022 Dalla produzione di biscotti al profumo di mandarino all’avvio di una struttura multifunzionale per la ristorazione e il turismo. Arriva da Palermo la storia di un’impresa sociale che ha come obiettivo quello di favorire l’integrazione nel mondo del lavoro degli ex-detenuti, in particolare i più giovani, per i quali il marchio del carcere minorile rischia di tradursi in una condanna a vita. Nel 2016 al Malaspina è nato il progetto “Cotti in fragranza” con un frollino, chiamato Buonincuore, al sapore di mandarino ideato dal pasticciere Giovanni Catalano. Con il passare degli anni si sono moltiplicati i tipi di biscotti (oggi sono 14 tra dolci e salati) che arrivano nei bar e nelle botteghe equosolidali, nei supermercati e anche all’estero. In cinque anni sono stati prodotti cinque milioni di frollini. Ma soprattutto sono stati formati 43 ragazzi che adesso lavorano con tirocini e contratti a tempo determinato, anche presso altre realtà. Una metà circa proviene dal circuito minorile (non solo detenuti ma anche ragazzi affidati ai servizi sociali) altri sono migranti, disabili o ragazzi affidati alle comunità. I giovani coinvolti sono protagonisti di tutte le scelte, dai nomi dei prodotti (rigorosamente siciliani) alle strategie di marketing. “Cotti in fragranza” ha ricevuto prima di Natale dal presidente Mattarella la targa (per azioni collettive) di Alfiere della Repubblica. “Imparando a fare impresa in modo responsabile, a prendere decisioni e a realizzare prodotti di qualità, i ragazzi diventano parte di un’impresa sociale e protagonisti del proprio futuro” si legge nella motivazione. A ritirare la targa è stato Giuseppe, 27enne che da quattro anni fa parte del team. “È stato un traguardo sia a livello lavorativo che a livello personale, il presidente ci ha fatto tanti auguri per le nostre prossime sfide. Io penso che la cosa importante sia non fermarsi mai e migliorare sempre, perché chi si ferma è perduto”. Nel 2018 è stato inaugurato un secondo nucleo operativo al di fuori dalle mura del Malaspina per dare sostenibilità all’impresa sociale aumentando il numero dei giovani coinvolti e dare loro un futuro, una volta espiata la pena detentiva. Si trova all’interno dell’ex convento dei Cappuccini del 1600 di fronte alla cattedrale di Palermo, uno spazio di 3mila metri quadrati nel quartiere Ballarò che ospita un laboratorio dove vengono realizzati pasti per le mense cittadine, per i poveri e alimenti per il catering. Nel chiostro c’è il bistrot Al Fresco: bar e ristorante ma anche spazio per mostre, eventi e musica. L’ultimo tassello si chiama “Svolta all’Alberghiera” e grazie al sostegno di tre fondazioni private (Fondazione Con il Sud, Fondazione San Zeno e Fondazione Prosolidar) consentirà un ulteriore passaggio di livello di Cotti in fragranza: la realizzazione uno spazio per la ricezione turistica, con sedici alloggi di diverse dimensioni (stanze e mini-appartamenti). Verrà inoltre ampliata l’attività del laboratorio e del bistrot. La responsabile Nadia Lodato, che insieme a Lucia Lauro ha fatto crescere il progetto, è entusiasta. “Fondazione con il Sud con il bando carceri “Vado a lavorare” ci consente di realizzare uno spazio per la ricezione turistica gestito dai detenuti che verranno appositamente formati. Grazie alla legge Smuraglia per le aziende ci sono sgravi fiscali dell’80-90% in caso di assunzione di un ex detenuto ma sono pochissime quelle che conoscono e scelgono questa possibilità”. “Svolta all’Albergheria” consentirà di far svolgere un tirocinio ad una ventina di persone, la metà provenienti dal sistema penale minorile l’altra dal carcere Pagliarelli. Ma all’orizzonte c’è un progetto ancora più ambizioso, denominato “jail career days”. Una sorta di collocamento per profilare circa 250 detenuti provenienti oltre che dal Pagliarelli anche dall’Ucciardone. “Si tratta di un lavoro molto duro: quello di abbattere il pregiudizio. Ho incontrato già una sessantina di aziende e c’è molto interesse, non mi aspetto che tutti assumano un ex detenuto ma solo il fatto di parlarne è una vittoria” spiega Lodato. L’obiettivo è far sentire “utili” gli ex detenuti, ascoltarli e indirizzarli per evitare che la solitudine fuori dal carcere sia ancora più dura di quella provata “dentro”. Tra le tante realtà che collaborano con “Cotti in fragranza” ad esempio c’è “Lisca bianca” che realizza arredi urbani nelle carceri e li colloca in aree disagiate come risarcimento. Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione per il Sud spiega che l’Italia è molto indietro nel reinserimento dei detenuti e che “sono stati fatti passi indietro da parte del pubblico”. Proprio per questo “Svolta all’Alberghiera” è un’occasione importante che ha anche un risvolto di rigenerazione urbana. “Un progetto attrattivo che mostra una strada d’intervento nel medio periodo e che si può replicare in altre realtà, diventando un modello”. In “Ariaferma” il carcere trasforma gli uomini in fantasmi di Gianmaria Tammaro La Stampa, 9 gennaio 2022 In “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, disponibile su Sky, Now e Amazon Prime Video, il carcere non è solo un luogo, ma un pensiero ricorrente, che torna sempre uguale, che piega e schiaccia ogni cosa, che appiattisce e banalizza, che ribalta qualunque bussola morale e che trasforma gli uomini in fantasmi: pallide imitazioni di quello che, in realtà, sono. In carcere le guardie sono prigionieri, e i detenuti sono più consapevoli: sanno che quello che sentono e provano è tutto quello che hanno; cercano speranza e conforto nel presente, mai nel passato o nel futuro. Le guardie, invece, continuano a pensare al mondo esterno, al mondo di fuori, e non si lasciano andare all’idea di essere cambiate, di essere diventate qualcos’altro. “Ariaferma” riesce a catturare questa condizione, a fotografarla, a mostrarla con estrema chiarezza, e a sfruttare ogni più piccolo momento, e ogni più piccolo angolo della prigione, per raccontare una storia che alla fine parla semplicemente di uomini. C’è lui, Gaetano, interpretato da Toni Servillo, che si ritrova al comando nei giorni in cui il carcere viene svuotato per essere abbandonato; e poi c’è Carmine, interpretato da Silvio Orlando, che è un detenuto: non conosciamo il suo passato né i suoi crimini; tutto quello che sappiamo è che è lì, che è pericoloso e che sono anni - decenni interi - che sta scontando la sua pena. In qualche modo, Gaetano e Carmine si assomigliano; in alcuni momenti, anzi, finiscono per sovrapporsi, per diventare una cosa sola, accomunati dai sentimenti: dall’angoscia di chi si sente padre e responsabile per gli altri, e dalla voglia di vicinanza che si prova dopo essere stati soli per tanto tempo. Leonardo Di Costanzo sa costruire la tensione senza inquadrare nulla di particolare, giocando unicamente con i primi piani e con le immagini ferme, con i silenzi e con le parole. In questo film, le pause sono come picconate nella pietra: scavano, lasciano una traccia e non vanno più via. La stessa dimensione cinematografica si restringe e diventa teatrale, intima, fatta di confronti, botta e risposta, di dialoghi che dicono tutto e, allo stesso tempo, non dicono niente. Gaetano vuole sopravvivere senza abbandonare la propria umanità; Carmine è più saggio, più realista: prova a sfruttare il tempo che ha e la libertà che gli viene data per sentirsi completo. Non più bestia in catene, ma uomo padrone di sé stesso. Il cibo, in “Ariaferma”, è la chiave della pace e della convivenza tra polizia e detenuti, anche per chi è stato cresciuto e istruito a vedere le cose e il mondo in un certo modo: distinguendo tra bianco e nero, buoni e cattivi, e giustificando il male perché minore e necessario. Il cibo è uno strumento. Proprio com’è uno strumento la prigione. Ma se il primo è dinamico ed è alla base delle interazioni, la seconda è enorme, inafferrabile, totale: avvolge e comprende tutto. È ovunque, sempre presente, e ha una sua voce. La voce delle porte di ferro che si chiudono, delle chiavi che girano nelle serrature, delle pareti che perdono pezzi di vernice e di intonaco, che minacciano di cadere e che comunque restano alte e spiano e vedono ogni cosa. Fino alla fine, resiste una sensazione precisa: succederà qualcosa di brutto, e sarà qualcosa da cui, poi, sarà impossibile riprendersi. E invece, incredibilmente, c’è un’altra via, un’altra strada, trovata proprio da Gaetano e Carmine. Che si parlano e si rispettano, che si riconoscono l’uno nell’altro e che, proprio per questo, si capiscono. Toni Servillo e Silvio Orlando lavorano con il tono e con le espressioni. Prima di pronunciare le battute, muovono gli occhi e la bocca, dipingono ed evocano stupore e rabbia. Orlando si trasforma in una figura carismatica e terribile, e Servillo è in grado di acquistare una forza compressa ed estremamente esplosiva: quando fa un passo avanti, sentiamo tutto il peso del corpo, le ossa che si riposizionano, la carne che trova un altro equilibrio, e le mani che si chiudono a pugni. La sua voce è più veloce, più aggressiva: ringhia, azzanna, prova ad essere sempre più alta e definitiva. Quella di Orlando, al contrario, è quasi trattenuta, pacata; ha la leggerezza di chi sa le cose della vita. Cose uguali per tutti. Parla con la testa, guidato dall’esperienza, e non con la pancia. Il documentarismo viscerale di alcune riprese, che non si uniscono alla struttura rigida della narrazione ma che arricchiscono la profondità del racconto con venature di verità, è uno dei pilastri di questo film e uno degli elementi più importanti dello stile e della firma di Di Costanzo. È anche - ed è forse l’aspetto più interessante - sinonimo di pazienza e di calma. Perché le cose, in “Ariaferma”, succedono; le scene trovano la loro forma e si incastrano naturalmente; l’andamento stesso del racconto - apparentemente prevedibile, e in realtà veloce e fluido - è spontaneo e musicale. Ogni cosa in questo film parla: parla la prigione, parla il cibo, che sembra sempre invitante e buono; parlano i gesti, gli occhi e i corpi. C’è il mestiere di chi racconta e scrive (Di Costanzo con Bruno Oliviero e Valia Santella), e c’è il mestiere dell’attore. Scompare la persona ed appare il personaggio. Un carcere vuoto si riempie, e una storia diventa un modo per affrontare la realtà. Scuola, due anni buttati al vento tra improvvisazioni e incapacità di Chiara Saraceno La Stampa, 9 gennaio 2022 Siamo al terzo anno scolastico con il Covid 19 e poco sembra essere cambiato rispetto a marzo di due anni fa: la stessa improvvisazione, le stesse modalità decisionali per cui si arriva all’ultimo minuto, senza dare la possibilità di organizzarsi sia alle scuole sia alle famiglie, le stesse aule scolastiche, spesso sovraffollate, la stessa mancanza di strumenti di areazione efficaci, lo stesso organico e la stessa eterogeneità nella capacità di utilizzare efficacemente la didattica a distanza, gli stessi mezzi di trasporto sovraffollati. Quasi due anni di tempo e due governi non sono bastati per fare ciò che era necessario per mettere in ragionevole sicurezza le scuole. Anzi, nella incapacità di garantire il distanziamento in classe se ne sono abbassati i requisiti, così come è avvenuto per i mezzi di trasporto. I servizi per i tamponi e il monitoraggio dedicati sono per lo più una chimera. Spesso l’avviso di quarantena arriva quando dovrebbe essere già terminata e sono le famiglie a farsi carico dell’esecuzione di un tampone di controllo quando sanno che nella classe dei figli c’è stato un caso di contagio. Uguali rimangono anche le disuguaglianze tra bambini e adolescenti nella disponibilità di spazi adatti per lo studio e per seguire eventualmente le lezioni a distanza, di risorse digitali e di competenze proprie e dei familiari nell’usarle. E siamo di nuovo nell’anarchia nella catena decisionale, con Regioni e Comuni che decidono per conto proprio, anche in contrasto con le norme nazionali, in molti casi ampliando i già esistenti divari territoriali nelle risorse educative disponibili, e di conseguenza nei processi di apprendimento. La Campania è un caso estremo, le cui conseguenze sono drammaticamente documentate negli esiti dei test Invalsi e nei tassi di abbandono scolastico. Si aggiunga il conflitto tra dirigenti scolastici, associazioni di medici e, sembra, anche comitato tecnico scientifico da una parte e governo dall’altra. Ce n’è abbastanza per mettere in confusione e in allarme i genitori, che fanno fatica a capire di chi dovrebbero fidarsi. L’unica novità sembra il moltiplicarsi di protocolli barocchi e di difficile attuazione. La variante Omicron forse non poteva essere prevista nella sua contagiosità, ma che dovessimo convivere per molto tempo con la pandemia era abbastanza chiaro. E il fatto che in Italia la nuova ondata è arrivata più tardi che in altri Paesi avrebbe dovuto essere utilizzato per attrezzarci, non per cullarci nella nostra supposta maggiore virtuosità. Invece, soprattutto nella scuola, siamo sempre nell’ottica dell’imprevisto e dell’emergenza. È apprezzabile che il governo e in particolare il ministro dell’Istruzione difendano la didattica in presenza e si oppongano alla chiusura delle scuole e il passaggio alla Dad, salvo che nelle zone rosse. Tanto più perché non basta chiudere le scuole per evitare che bambine/i e adolescenti si incontrino e si espongano al rischio di contagio, a meno di imporre il lockdown come nella primavera 2020. Sarebbero stati tuttavia più credibili se, oltre a spingere verso la vaccinazione (che per i più piccoli tuttavia è appena incominciata e sta trovando difficoltà non solo nella resistenza di molti genitori, ma semplicemente a livello organizzativo), avessero messo davvero in sicurezza le scuole (e i trasporti), anche chiamando gli enti locali alle loro responsabilità. E invece del “liberi tutti” concesso nelle festività, rimandando ad oggi le decisioni difficili, si sarebbe dovuto utilizzare le vacanze, oltre che per attrezzare le scuole, per provare a rallentare i contagi. Non è con norme barocche sul numero di contagiati e vaccinati e sulla coesistenza, per lo stesso gruppo classe, di didattica in presenza e a distanza che si garantisce davvero il diritto all’istruzione. Che fare allora? Oltre a cominciare a installare gli strumenti di areazione in modo sistematico, occorre accelerare il processo di vaccinazione, rendendolo almeno agevole per genitori e bambini già provati, e attuare davvero quel servizio dedicato per i tamponi promesso da Figliuolo ma di cui si è persa traccia. Ridurre ove possibile le ore in cui si sta chiusi in classe, alternandole con lezioni all’aperto (c’è tutta una pedagogia consolidata in questa direzione), o in luoghi più ampi (musei e simili) attivando collaborazioni con istituzioni culturali e associazionismo civico. Per i più grandi si può anche pensare di alternare didattica a distanza e in presenza, non per fare le stesse cose, ma cose diverse. E se proprio sarà necessario tornare per un periodo in Dad, assicurarsi prima che tutti siano in grado di trarne beneficio e abbiano luoghi e persone di riferimento che possono accompagnarli, non solo in famiglia, ma fuori, nella comunità in cui vivono. Anche in questo caso è necessaria un’alleanza con l’associazionismo civico e il terzo settore. Infine, bisogna rompere il tabù di un calendario scolastico intoccabile, succeda quello che succeda. Nella tragedia ignorata dei migranti c’è l’abdicazione dell’occidente di Gianni Cuperlo Il Domani, 9 gennaio 2022 Le immagini che in questi mesi, settimane e giorni, sono rimbalzate dal confine tra Bielorussia e Polonia sino a quello tra Iran e Turchia ripropongono il capitolo in assoluto più urgente e a lungo rimosso: come si difendono per primi i diritti e le libertà delle donne e di chi non ha mezzi né modi di proteggersi da solo? Ma soprattutto possiamo accettare che quel traguardo di civiltà rimanga confinato solamente a un pezzo di mondo? E ancora, con un’America che abdica al ruolo che aveva assolto per tutta la seconda metà del Novecento può esistere oggi una modalità, una forza, un ordine, in grado di colmare quel vuoto? Questo articolo è arrivato alla redazione del giornale quattro giorni fa. Era la reazione spontanea a una notizia che in poche ore aveva fatto il giro della rete, una di quelle notizie, corredata da alcune immagini particolarmente dolorose, destinata a scuotere l’albero e far cadere i frutti maturi dell’indignazione e della vergogna. Poi, la giusta cautela di chi il giornale lo confeziona giorno per giorno ha suggerito di fermarsi un istante, e non perché i motivi dell’indignarsi o del vergognarsi non fossero più che giustificati, ma perché come dovrebbe sempre fare un buon giornalismo era giusto verificare la veridicità della notizia, le fonti che l’avevano accreditata e rilanciata sulle agenzie internazionali, e così si è scelto di fare. Per altro senza giungere - al momento in cui ne torno a scrivere - a una convinzione definitiva. In altre parole la storia che qui di seguito leggerete con molte probabilità è accaduta così come ci è giunta riferita, ma vi sono anche possibilità che le cose non si si siano svolte precisamente a quel modo. Il che pone a ciascuno di noi una domanda, anzi due. La prima è se sia in ogni modo un dovere parlarne, non ignorarla, fosse pure si trattasse di un racconto esasperato. Legata a questo interrogativo la seconda domanda: non è forse e comunque verosimile ciò che abbiamo letto, visto, o voluto leggere e voluto vedere? Perché se anche fosse corretta la seconda affermazione, tornare a riflettere sulla tragedia umanitaria in corso a Kabul, e non solo, dopo la fuga estiva di un occidente arresosi, non sarebbe un peccato, meno che mai un errore. Allora, ricapitoliamo i fatti, con una sola premessa o antecedente. Alan Kurdi, 7 anni fa - L’immagine di Alan Kurdi è del 3 settembre di sette anni fa. Scosse il mondo e produsse la svolta tedesca sull’accoglienza di un milione di profughi siriani. Non so dire se quella di pochi giorni fa, il corpo di una madre steso e assiderato sulla neve coi piedi fasciati da due sacchetti di plastica, produrrà un impatto simile. La cronaca, quella peggiore nella sua brutalità, ci ha restituito parte della storia. Lei, coi due figli, come tanti altri era fuggita dall’Afghanistan dei Talebani e percorso la tratta che traversando l’Iran approda in Turchia. Sarebbero rimasti intrappolati da una bufera e per aiutare i due bambini a sopravvivere la madre avrebbe loro avvolto le mani con le calze che le “proteggevano” i piedi. È morta così, praticamente scalza nella neve. I bambini li hanno salvati, sembra stiano meglio, la gente di un villaggio vicino ha dato loro dei biberon di latte, li hanno riscaldati e medicato i geloni alle mani, adesso sarebbero affidati a soldati iraniani di stanza al confine. Sei mesi fa, poco meno, l’occidente ha svelato la sua impotenza e consumato il fallimento di una spedizione prolungata per gli ultimi vent’anni. A metà agosto i Talebani si sono reinsediati a Kabul col loro bagaglio di “normalità”, la stessa che da mesi sta spingendo migliaia di donne e uomini del paese a cercare una via disperata di salvezza lontano da lì. La realtà, e la morte di una giovane madre ne porta per intero il carico, è che da alcuni decenni l’occidente non ha più avuto una visione, una strategia politica sul nuovo ordine (o disordine) globale. A volte per cinismo, a volte semplicemente per una incapacità anche solo a comprendere la natura dei suoi interlocutori-avversari. Come si è scritto a ridosso dell’estate, la democrazia in Afghanistan ha dichiarato bancarotta e quale impatto un fatto storico così enorme potrà ancora avere sul sentire di milioni di persone sottoposte al ricatto di regimi oppressivi è un interrogativo aperto. Se il paragone non irrita, ma pure questo è stato detto, Kabul come il virus della pandemia era un dramma annunciato che la politica non ha saputo prevenire assistendo così al disastro umanitario che ne è seguito. Il punto è che la notizia in questione, quel corpo “protetto” da un paio di sacchetti di plastica, altro non fa che metterci dinanzi al cambio di scenario: noi - noi europei, noi occidentali - rivendichiamo a gran voce i nostri principi (libertà, diritti umani, parità dei generi, quel tanto di uguaglianza che i mercati tollerano), ma in questo tempo complicato viene drammaticamente meno la certezza che possano divenire principi universali, capaci di condizionare altri popoli, continenti, contesti. Questo vale di fronte all’ultima tragedia e non solo. Vale nella sfera sociale se è vero che contiamo il sei per cento della popolazione mondiale, ma oltre il cinquanta per cento delle risorse destinate al welfare le spendiamo noi eppure ciò non impedisce che alle nostre porte si accalchino migliaia di corpi in fuga da miseria, oppressione, violenze. Corpi che non sappiamo ascoltare e che non vogliamo vedere. Ragionando dei confini dell’Europa viene spesso evocata una formula: l’Europa finirebbe dove terminano i valori della sua civiltà. Ci si può accostare un vecchio slogan della fine degli anni Sessanta, recitava “sei quel che fai, non quel che dici”. Forse oggi dovremmo riconoscere che attorno alla formula e allo slogan una certa concezione del nostro “mondo morale” rischia di naufragare, un’idea stretta tra una retorica sazia dei propri valori e la doppia verità disposta a sacrificarli nella logica della convenienza, che si tratti di erogare suon di miliardi alla dittatura turca perché si tenga in casa i fuggiaschi siriani e non ce li faccia arrivare dentro casa, o firmare accordi con la Guardia costiera libica come fosse la marina britannica, o ancora tenere aperto a Lesbo il peggiore concentramento di “vite sospese” in attesa che i “nostri valori” si ricordino della loro esistenza. Sarà doloroso rammentarlo, ma non farlo è peggio: dopo l’11 settembre Stati Uniti e occidente hanno cercato un riordino del mondo sulla base dei presupposti etici e culturali di questa parte, con il ritiro e la fuga da Kabul quei valori sono stati abbandonati sul campo, esattamente come le armi passate in possesso dei Talebani. Assieme alle armi sono stati abbandonati quegli afghani che a noi - noi europei, noi occidentali, noi americani - avevano creduto, ma è lì che si è manifestata la nostra infedeltà politica e morale, nella scelta di difendere i nostri principi quando lo riteniamo conveniente salvo disfarcene nei passaggi più difficili o drammatici. La contraddizione - La tragedia raccontata di questo avvio dell’anno una volta di più ci mette davanti questi interrogativi e lo fa con la durezza di uno schiaffo in pieno viso. Ci ricorda come da Kabul non è uscita sconfitta solo la potenza militare americana, ma la democrazia nella sua veste di coalizione internazionale, e però quell’esito, per quanto tragico, conferma perché la democrazia debba sempre rifiutare la logica militare distaccata dalla politica, da una strategia in grado di tenere uniti principi, azioni, coerenze. E allora le immagini che in questi mesi, settimane e giorni, sono rimbalzate dal confine tra Bielorussia e Polonia sino a quello tra Iran e Turchia ripropongono il capitolo in assoluto più urgente e a lungo rimosso: come si difendono per primi i diritti e le libertà delle donne e di chi non ha mezzi né modi di proteggersi da solo? Ma soprattutto possiamo accettare che quel traguardo di civiltà rimanga confinato solamente a un pezzo di mondo? E ancora, con un’America che abdica al ruolo che aveva assolto per tutta la seconda metà del Novecento può esistere oggi una modalità, una forza, un ordine, in grado di colmare quel vuoto? Se assumiamo la democrazia come il primo dei valori da preservare (per inciso, siamo a un anno esatto dall’assalto a Capitol Hill e le parole del presidente Biden dovrebbero suonare come qualcosa più che un campanello d’allarme) allora la via dovrebbe essere rinegoziare il patto occidentale con l’America e costruire un ruolo per l’Europa nelle grandi crisi del mondo. Bisogna farlo anche pensando a ciò che l’Europa ha generato, l’occidente stesso potremmo dire: le città, la sfera del diritto, l’universo delle libertà, siamo un gigante di storia, cultura, architettura giuridica e istituzionale. Tutto vero, ma è altrettanto vero che la parabola di troppi drammi umani senza giustizia dovrebbe interrogarci su un punto, se ha un senso e una morale colmare il vuoto di adesso in termini di ruolo, peso politico e iniziativa: perché esattamente questa contraddizione tra le radici di ciò che siamo stati e l’impotenza di ora diventa il cuore del dopo e in fondo anche del destino di ciò che saremo. Botte e ricatti ai migranti, i nuovi schiavi del tessile di Sara Lucaroni L’Espresso, 9 gennaio 2022 “È il segreto di Pulcinella, lo sanno tutti che qui c’è sfruttamento e tutto avviene alla luce del sole”. Sarah Caudiero che insieme al collega Luca Toscano dall’autunno 2018 segue il distretto tessile e abbigliamento pratese e ha fatto il miracolo di sindacalizzare per la prima volta la manodopera migrante in aziende cinesi, lo dice mentre sono le 11 e la sede Si Cobas di Prato si riempie di ventenni, molti pakistani, con i contratti in mano. Sul muro, i passaggi della Costituzione in cui si parla di lavoro, in cinese e arabo. Vertenze dure e scioperi a oltranza: qualcuno sposta i sacchi con le coperte usate durante l’ultimo picchetto. Il tessile e abbigliamento conta 6.805 stabilimenti. Secondo Confindustria Toscana Nord, in 42.000 lavorano per un export cresciuto nel secondo trimestre 2021 del +44 per cento per il tessile e del +94 per cento per abbigliamento e maglieria (categoria al 90 per cento di imprenditori cinesi). Una filiera fatta di appalti e sub appalti in cui le ditte “buone” lavorano con le “cattive” e viceversa, perché un vestito deve essere tessuto, lavato, tinto, stampato, assemblato, stirato, spedito e serve il business di tutti. Agli schiavi ci pensa l’Ispettorato del Lavoro, all’opacità invece le Procure e di recente, la Direzione distrettuale antimafia. Ora c’è una nuova piramide della manodopera, trasversale al comparto e per nazionalità: i capi, gli italiani, i cinesi. Pakistani, nigeriani e senegalesi spesso richiedenti asilo. Stare in fondo alla classifica vuol dire lavorare 12X7, dodici ore tutti i giorni con buste paga di 900/1000 euro, contratti ufficiali a due ore, niente ferie o malattia, ricatto sul permesso di soggiorno. Le vertenze vinte sono numerose, nonostante chi protesta o si rivolge al sindacato talvolta venga demansionato, privato dello stipendio o licenziato. O assalito al picchetto da uomini che piombano in auto o escono dall’azienda. È successo con alcune imprese cinesi. La prima volta a novembre 2018: in un sottopassaggio due delegati sindacali sono aggrediti con bastoni, coltelli e bottiglie di vetro. Il 19 giugno 2019 ai cancelli della Gruccia Creations in dieci finiscono all’ospedale. Un mese dopo, alla Superlativa, prima due autisti tentano di forzare il presidio con i camion, poi arrivano uomini con un cric e una spranga. L’ultimo episodio è rimbalzato sulle cronache nazionali: 5 feriti l’11 ottobre alla Dreamland. “Il nucleo dei picchiatori è fatto da persone che girano con le mazze, che lo fanno di lavoro. Lo vedi che lo sanno fare”, dicono. C’è anche questo pronto moda tra le 64 aziende oggetto di controlli straordinari dell’operazione “Alt caporalato!” dell’Ispettorato del lavoro: 32 imprese chiuse, 250 lavoratori in nero su 570, 40 senza permesso di soggiorno. Ma si paga la multa e il giorno dopo si riapre. “Dopo i video dell’ultima aggressione ci hanno contattato i lavoratori di altre sei aziende”, dice Sarah. “Siamo abituati a firmare accordi sindacali con persone che arrivano all’ultimo momento, trattative con soggetti che non sappiamo chi sono ma che hanno più potere di tutti gli altri. A Prato non so se c’è qualcuno con una fabbrica intestata e se stesso”, scherzano. Come alla Texprint, la terza stamperia tessile d’Europa: gli operai indicavano come il vero titolare Zhang Sang Yu, dipendente che trattava ai tavoli a rappresentare l’azienda. A gennaio le denunce di 18 operai. Otto mesi di sciopero: in fabbrica sono anche videosorvegliati. Il 16 giugno scorso tre lavoratori vengono aggrediti da un commando di quindici uomini: Zhang Sang Yu viene ripreso mentre prende a pugni uno di loro. Ha buoni rapporti con le istituzioni pratesi, è considerato un uomo di successo: è socio di una immobiliare e dei colossi internazionali della distribuzione Euroingro s.r.I e di B2B Euroingro s.r.l. Nel 2020 era finito ai domiciliari per l’inchiesta della Dda di Milano “Habanero” e rinviato a giudizio per riciclaggio. Sarebbe stato un elemento di spicco di un “sistema affaristico Cina-Italia, che aveva per perno due soggetti legati, se non facenti parte, del clan di ‘ndrangheta di San Mauro Marchesato retto da Angelo Greco”, questi riconducibile a sua volta a Nicolino Grande Aracri. Lo si legge nell’interdittiva antimafia che la prefettura di Prato il 9 marzo emette contro la Texprint. Indicato col nome di “Valerio”, avrebbe riciclato più volte denaro usando le fatture false emesse dalle società dei due complici coprendole con operazioni nel settore dell’acciaio in Cina, in cambio di una provvigione. Al processo con rito abbreviato il 29 marzo viene assolto e per chi ne era accusato, cade l’aggravante mafiosa. Dopo un ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato, che avevano confermato la validità dell’interdittiva, la prefettura di Prato accoglie la richiesta di revoca da parte dell’azienda sulla base delle motivazioni della sentenza: “Non sono emersi elementi idonei a individuarlo come il soggetto di nazionalità cinese che intratteneva illecite operazioni economico-finanziarie”. L’Ispettorato intanto non ha ancora redatto il verbale finale sulla Texprint. “C’è sempre l’idea della confezione, del cinese che non rispetta le regole, lo sgabuzzino, le macchine da cucire, ma qui siamo su tutto un altro piano ed è pesantemente integrato col territorio”, commentano al Si Cobas. Come nell’inchiesta a giugno “Tex Majhong”, diretta dal procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e coordinata dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia Leopoldo De Gregorio: 34 italiani e cinesi indagati e una filiera di smaltimento illegale di 10 mila tonnellate di rifiuti speciali raccolti “porta a porta” con autorizzazioni fittizie presso pronto moda e aziende tessili, destinati a Marche, Nord Italia, Spagna, e stoccati in capannoni riempiti fino al tetto. C’è invece l’imposizione con la forza delle aziende pratesi “del boss” nell’autotrasporto in tutta Europa al centro dell’inchiesta “China Truck”: 38 rinvii a giudizio per 416 bis su 79 imputati al processo che inizierà il 16 febbraio: la “mafia cinese” per la prima volta alla sbarra. È il coronamento del lavoro della Dia di Firenze e della squadra mobile di Prato, partite dall’omicidio nel 2010 a colpi di machete di due giovani cinesi in un ristorante, che nel 2018 aveva portato all’arresto di 33 persone tra cui il “capo dei capi” della presunta organizzazione, Zhang Naizhong, “l’uomo nero”, autore della pax fra bande criminali che avevano già fatto una quarantina di morti. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho definì Prato “capitale europea” della mafia cinese, ma venti giorni dopo il tribunale del riesame aveva fatto cadere l’aggravante mafiosa e rimesso tutti in libertà. Sentenza confermata dalla Cassazione. Poi la decisione del Gup di confermare il 416 bis a giugno. “È un processo in salita e difficile, perché ci sono due precedenti, ma è anche un’apertura verso l’esito delle indagini perché c’è stata una ricostruzione fatta all’origine che è sana, buona, giusta”, dice Francesco Nannucci, oggi capo della Dia di Firenze e all’epoca delle indagini dirigente della squadra mobile di Prato. I camion erano utilizzati anche per operazioni illecite, con basi a Parigi, Madrid e in Germania. “Grandi quantità di contanti venivano messi nelle scatole, quelle utilizzate dai corrieri. Prendi una scatola media, piccola, ci metti dentro banconote da 500 euro, la carichi su un furgone che trasporta altre scatole con materiale vario e porti in giro soldi in tutta Europa. Potrebbero farlo per altri”, prosegue, ipotizzando scenari inquietanti. “Com’è possibile che la criminalità organizzata italiana non sia sensibile alla potenza criminale della mafia cinese? Una mafia che ha possibilità di mobilitare tantissimi soldi, con capacità imprenditoriali enormi. Come mai non sono mai venute fuori queste commistioni? È la nuova frontiera degli assetti investigativi da curare: i rapporti fra le mafie italiane e la mafia cinese”. Il 13 ottobre la Guardia di Finanza indaga 210 persone, tra cui 52 imprenditori cinesi e 46 prestanome nell’operazione “Easy permit”. Due consulenti del lavoro e cinque titolari di società di elaborazione dati cinesi e italiani sono accusati di aver creato una fabbrica di permessi di soggiorno per prestanome cinesi a favore di lavoratori della stessa nazionalità: 250.000 euro in contanti e quattro lingotti d’oro sequestrati sarebbero serviti anche a lavare denaro. Negli stessi giorni carabinieri e Ispettorato del lavoro hanno scoperto che il 67 per cento dei lavoratori di imprese cinesi controllate non avevano il permesso di soggiorno, perché clandestini o destinatari di un’istanza di emersione secondo il Decreto rilancio con contratti di lavoro domestico o agricolo. “Si è creato un esercito di persone che si sono dovute cancellare i contratti perché così non vengono sanate nel tessile ma con il lavoro domestico. Dall’altro lato ci sono aziende che fanno lavorare solo queste persone in attesa che non possono richiedere un contratto e che staranno zitte a nero 14 ore al giorno”, spiega Luca Toscano. A maggio con Sarah ha ricevuto un foglio di via per “pericolosità sociale”. “Non si può dare un foglio di via per attività sindacale, Tar e Consiglio di Stato ce l’hanno annullato”, dicono raccontando gli sgomberi delle forze dell’ordine e le multe ai lavoratori in virtù del Decreto Salvini. “Siamo stati accusati di mettere a rischio i lavoratori. Molti sono giovani, dai 19 ai 25 anni, ma qual è l’alternativa per loro?”. I portuali di Genova lottano contro le navi delle armi. Ma sono stati lasciati soli di Massimiliano Salvo L’Espresso, 9 gennaio 2022 Carri armati, missili, elicotteri da combattimento: i lavoratori del Calp denunciano il passaggio dei carichi di materiale bellico. Ma sono loro a finire sotto inchiesta, mentre partiti e altri sindacati ignorano la questione. Al loro fianco restano il Papa e i movimenti pacifisti??. Carri armati color sabbia, parcheggiati nella stiva come automobili. Elicotteri da combattimento. Missili, casse di armi, container di esplosivi. E poi ancora carri armati, altri elicotteri, altri esplosivi. “La guerra comincia da qui, dal porto di Genova: eppure c’è chi continua a chiudere gli occhi”. Riccardo Rudino, portuale genovese, ha 56 anni, grinta da vendere e una barba rossiccia striata di grigio. Insieme al Calp, il Collettivo autonomo dei lavoratori del porto di Genova, lotta contro le navi della compagnia nazionale saudita Bahri che fanno scalo in Liguria. Arrivano dagli Usa e da altri porti europei e sono dirette nel Golfo Persico, con stop finale in Arabia Saudita: un regime che causa migliaia di vittime civili nella guerra in Yemen. Per questo motivo, dal 2019, i portuali continuano a manifestare. “Le “navi delle armi” non devono più passare di qui. La nostra è una battaglia di principio”. Due anni di proteste e fumogeni non sono bastati a cambiare le rotte. Il 12 novembre ha attraccato a Genova la Bahri “Abha”, con carri armati ed elicotteri d’assalto nella stiva, il 30 novembre è arrivata la Bahri “Hofuf”, a inizio gennaio si attende la Bahri “Yanbu”. E così via, con un arrivo in media ogni tre settimane. “Le navi Bahri si fermavano a Genova da anni, ma mancava la forza di approfondire cosa trasportassero”, concordano i portuali del Calp. “Sapevamo che ad andare sino in fondo e a diffondere le immagini di stive piene di armi ci saremmo gettati in un casino più grande di noi”. Così è stato. Oggi il Calp è diventato un riferimento per il mondo antimilitarista italiano e straniero, ma a Genova, dove è stato fondato nel 2011 da lavoratori e sindacalisti della Filt Cgil, si ritrova circondato da ambiguità politiche, screzi sindacali e indagini della Procura. Per capire come sia stato possibile bisogna tornare al maggio del 2019, quando l’inchiesta giornalistica del sito francese Disclose sostiene che sulla nave Bahri “Yanbu”, partita dal Belgio e diretta in Francia, debbano salire cannoni venduti dalla Francia all’Arabia Saudita: il sospetto è che servano alla guerra in Yemen. Nel porto di Le Havre sale la tensione e la nave non riesce a caricare le armi, la protesta segue il cargo tra Francia e Spagna sino a Genova: dove non è previsto l’imbarco dei cannoni ma di generatori della Teknel di Roma, i cui prodotti sono talvolta utilizzati per operazioni belliche. Il Calp chiede che venga impedito l’attracco, la Cgil proclama lo sciopero: e dopo una grande mobilitazione, la “Yanbu” riparte senza caricare i generatori. Quando, nel febbraio 2020, la nave ripassa da Genova con armamenti nella stiva, il Calp propone uno “sciopero etico” che però la Cgil non appoggia. Ma la sfida alle “navi delle armi” è lanciata, al grido di “porti chiusi alle armi e aperti agli esseri umani”. Presidio dopo presidio, il Calp obbliga la città a interrogarsi sul rapporto tra etica e lavoro e si guadagna la solidarietà della sinistra radicale, del mondo pacifista e addirittura di Papa Francesco, che nel giugno 2021 riceve in Vaticano una delegazione di portuali del Calp (per l’occasione eleganti, senza la solita felpa bordeaux con la scritta “Working class combat”). Le reti internazionali del Calp intanto si moltiplicano, con inviti in Svizzera, Germania e Spagna da parte di collettivi, formazioni legate all’autonomia operaia e partiti comunisti. Per il ventennale del G8 il Calp raduna i portuali di mezzo mondo, dalla Grecia alla Nuova Zelanda, dagli Usa al Sudafrica. Oggi l’obiettivo è saldare i rapporti con gli scali di Livorno, Napoli e Trieste, più i porti francesi e spagnoli di Marsiglia, Port-de-Bouc, Sète, Barcellona, Sagunto, Motril. Perché i portuali di Genova sognano qualcosa sino a poco tempo fa impensabile: uno sciopero in diversi Paesi contro il commercio delle armi. “Davanti a una filiera internazionale, la protesta e il boicottaggio devono essere internazionali”, riflette Carlo Tombola, coordinatore di The Weapon watch, l’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei nato a Genova nel 2019. “E questo deve avvenire nei porti, perno della logistica militare, poiché le nostre azioni legali, civili e penali, sono state sinora ignorate. Anche se ad Amburgo si sta studiando un referendum per ammettere o escludere le armi dal porto”. Secondo The Weapon watch a Genova le navi saudite violerebbero il Trattato internazionale sul commercio delle armi (Att) e la legge 185/90, che vieta il transito “verso Paesi in stato di conflitto armato”, “verso Paesi in cui sia dichiarato l’embargo totale o parziale di forniture belliche” e “verso Paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. “L’Arabia Saudita è in guerra con lo Yemen, non rispetta i diritti umani e ci sono restrizioni sulla vendita di armi”, aggiunge Riccardo Degl’Innocenti, attivista dell’Osservatorio. “Tutti lo sanno ma fanno finta di niente: si chiama ipocrisia”. Nel 2020 The Weapon watch ha presentato un esposto alla procura di Genova, chiedendo di controllare il rispetto delle condizioni di sicurezza dei lavoratori e delle norme del commercio delle armi con l’Arabia Saudita. Nel 2021 il sindacato Usb ha presentato un esposto simile ad Autorità di sistema portuale del mar ligure occidentale, prefettura di Genova e capitaneria di Porto. Ma nulla è cambiato. L’Autorità di sistema portuale si dice competente solo sulla sicurezza dei lavoratori, la capitaneria solo sulla sicurezza nel trasporto di merci pericolose. Entrambe rimandano alla prefettura, che attribuisce la competenza al ministero degli Esteri tramite l’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento. Ma siccome le armi talvolta presenti sulle navi Bahri non oltrepassano la dogana genovese, in Uama ritengono di non avere competenza. In procura invece le indagini sono partite, ma non nella direzione immaginata: a marzo 2021 cinque portuali del Calp, tra cui uno dei suoi protagonisti, Riccardo Rudino, sono stati indagati per associazione a delinquere, resistenza e attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti. Il pm Marco Zocco e la Digos ritengono che i portuali avrebbero “strumentalizzato” l’attività politico-sindacale antimilitarista e antifascista anche in altre manifestazioni per compiere reati che vanno dal “getto pericoloso di cose” alle “accensioni ed esplosioni pericolose”. Reati che l’avvocata dei portuali Laura Tartarini definisce “bagatellari”. Altre accuse riguardano la campagna di boicottaggio e i presìdi contro le navi della Bahri. Dell’inchiesta non si è più saputo nulla: ma intanto a Genova il Calp si ritrova isolato. Il sindaco Marco Bucci non si esprime sul transito d’armi, mentre il presidente della Regione Giovanni Toti è a favore anche dell’esportazione di armi prodotte da aziende italiane. “Nessuno ama armi e guerra ma difendersi è un diritto di tutti e rinunciare a queste aziende sarebbe un danno per migliaia di famiglie”, spiega. Ma a rammaricare il Calp non è il mancato sostegno di istituzioni di centrodestra vicine al mondo dell’industria e dei terminal, e neppure il disinteresse di Cisl e Uil che non vogliono “uno scontro tra i lavoratori del porto e del settore militare”. Il problema è che dopo il presidio del 2019, Cgil e Pd sono scomparsi dalle piazze, se non con partecipazioni a titolo personale insieme a singoli politici di sinistra e del M5S. “D’altronde Genova è la città dell’ex ministra della difesa Roberta Pinotti, del Pd”, taglia corto Riccardo Rudino del Calp. “E la Liguria produce armi. C’è Oto Melara a Spezia, Fincantieri a Riva Trigoso, Leonardo a Genova. Questo crea problemi a livello politico e sindacale”. Una versione confermata in Cgil, dove brucia ancora l’uscita dei portuali del Calp dalla Filt per passare in Usb. Il Pd locale si dice contrario al passaggio di armi nel porto di Genova, “ma partecipare a manifestazioni radicali può essere per noi fonte di imbarazzo, per le polemiche ancora legate all’acquisto degli aerei F35”, riconosce il capogruppo del Pd nel consiglio comunale di Genova, Alessandro Terrile. Il risultato è che a sostenere senza ambiguità il Calp c’è un pubblico ristretto: Usb, Emergency, Amnesty International, Sea watch, Potere al Popolo, sigle con falce e martello, Zerocalcare, il coordinamento Genova Antifascista, il mondo anarchico genovese e le Rete italiana pace e disarmo con associazioni di cattolici, scout, pacifisti e ambientalisti. “Eppure le “navi delle armi” dovrebbero essere un problema di tutti, visto che a Genova attraccano a poche centinaia di metri da depositi di liquidi infiammabili, strade trafficate e schiere di palazzi”, attacca José Nivoi, 36 anni, dirigente sindacale del Coordinamento nazionale porti di Usb. “Ma la questione non è solo di sicurezza. Vogliamo il rispetto della Costituzione, secondo cui l’Italia ripudia la guerra. E se anche le norme fossero rispettate per noi la questione resta etica e politica. I portuali combattono da sempre per la pace e la liberazione dei popoli: noi non vogliamo sporcarci le mani di sangue, e nemmeno essere complici delle guerre con le nostre ore di lavoro”. Iran. Muore di Covid in carcere lo scrittore Baktash Abtin La Repubblica, 9 gennaio 2022 Noto poeta e regista, 48 anni, nel 2019 era stato condannato a sei anni di detenzione per “propaganda contro il regime”. La protesta delle ong per i diritti umani. Lo scrittore e regista iraniano Baktash Abtin, critico del regime di Teheran, è morto in carcere dopo aver contratto il Covid-19. Lo hanno annunciato diverse organizzazioni per i diritti umani, mentre sul web la notizia ha generato dure proteste contro le autorità iraniane. Abtin era un difensore dei diritti umani, regista e membro dell’Iranian Writers’ Association (IWA), impegnato nella promozione della libertà di parola e contro la censura in Iran. Ha pubblicato numerosi libri di storia, sociologia e critica letteraria. Il 15 maggio 2019 il tribunale rivoluzionario di Teheran ha condannato Abtin a cinque anni di reclusione con l’accusa di “assemblea illegale e collusione contro la sicurezza nazionale” e un anno per “diffusione di propaganda contro lo stato”, in relazione alla sua paternità congiunta di un libro sulla storia dell’IWA, critico nei confronti dei governi iraniani per decenni, e per aver visitato le tombe di poeti e scrittori dissidenti. Abtin ha iniziato a scontare la sua condanna il 26 settembre 2020 nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. Nelle scorse settimane c’era stata una forte mobilitazione per chiedere il rilascio dello scrittore malato, che a inizio settimana era stato ricoverato in un ospedale di Teheran in coma indotto. L’Associazione degli scrittori iraniani ha confermato la morte di Abtin e la ong Reporters sans frontières (Rsf) ha denunciato la responsabilità delle autorità iraniane. Egitto. Liberato Ramy Shaath, ma al-Sisi gli revoca la cittadinanza di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 gennaio 2022 L’attivista palestinese-egiziano rilasciato dopo due anni e mezzo di detenzione cautelare. Ieri l’arrivo in Francia: “Continuerò per i compagni in prigione e per una Palestina libera”. È uscito dall’aeroporto parigino Charles De Gaulle con una kefiah al collo e la mano intrecciata a quella della moglie Céline Lebrun. Sopra l’occhio sinistro, un cerotto. In faccia un sorriso: Ramy Shaath è finalmente libero. L’attivista palestinese-egiziano è in Francia, terra natale di Céline, dopo due anni e mezzo trascorsi in diverse carceri egiziane con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica e diffusione di notizie false. L’annuncio del suo rilascio, dopo oltre 900 giorni di detenzione cautelare (molti di più dei 700 previsti dalla stessa legge egiziana), era giunto lo scorso martedì. Sono seguiti giorni di attesa, nel solito crudele limbo di procedure di rilascio tortuose e inconoscibili. Poi, giovedì sera, è stato liberato e consegnato a un rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese al Cairo. Da lì il volo per la Giordania e, infine, Parigi. In cambio, ha dovuto cedere moltissimo, come se due anni e mezzo di vita succhiati da una detenzione arbitraria e senza l’ombra di un processo non fossero già incommensurabili: ha dovuto rinunciare alla cittadinanza egiziana, gli è stata strappata via, lui che è stato uno dei volti di piazza Tahrir e uno degli attivisti politici più impegnati a ridare dignità agli egiziani e all’altro suo popolo, quello palestinese, per cui si è battuto anche fondando la “filiale” egiziana del Bds, la campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni allo Stato di Israele. Un alleato del regime egiziano fin dai tempi di Sadat e che con al-Sisi ha raggiunto nuovi apici, a partire dall’opprimente doppio assedio della Striscia di Gaza, privata - con al-Sisi al potere - delle centinaia di tunnel sotterranei verso l’egiziana Rafah che garantivano un po’ di sollievo al blocco imposto da Tel Aviv. “Ce l’abbiamo fatta”, ha detto Shaath all’aeroporto, accolto da giornalisti e attivisti. “Ho passato gli ultimi due anni e mezzo - ha proseguito - in varie prigioni, alcune destinate alle sparizioni forzate, altre sottoterra. In alcune in isolamento, altre strapiene di persone, nella mancanza di Stato di diritto e rispetto per la dignità umana”. “Dopo due anni e mezzo ho ancora tutta la mia determinazione a continuare, a insistere per liberare gli amici e i compagni ancora in prigione, a insistere per una Palestina libera”. Lo ripete più volte, sottolinea il calvario dei 60-100 mila prigionieri politici (stimati) in Egitto: “Ognuno di loro è un essere umano, non un numero. Con le loro storie, il loro dolore”. Tra i tantissimi che ieri celebravano la libertà di Ramy c’è stato anche il presidente francese Macron. Lo ha fatto in un tweet: “La Francia accoglie con favore il rilascio dell’attivista politico egiziano-palestinese Ramy Shaath. Condivido il sollievo di sua moglie, Céline Lebrun, con la quale non ci siamo arresi”. Parigi non ha mai esplicitato un impegno per il rilascio di Shaath, se non nel dicembre 2020 quando Macron ne parlò ad al-Sisi in visita d’onore all’Eliseo. Nella stessa occasione ci tenne a precisare che i diritti umani non possono essere ostacolo al business. E con il regime il business è fiorente: la Francia investe in Egitto (dati di giugno 2021) 6,7 miliardi di dollari attraverso 650 compagnie. Sei mesi fa il ministro delle Finanze Bruno Le Maire ha firmato un accordo per investirne 4,6 in trasporti pubblici ed energie rinnovabili: “Un partner economico strategico - disse Le Maire - È il primo paese in termine di prestiti del nostro Tesoro”. E poi le armi: a maggio l’Egitto ha acquistato 30 jet Rafale per 4,5 miliardi di dollari e missili Mbda per altri 241 milioni. Etiopia. Il premier Abiy Ahmed fa strage di profughi nel Tigray: uccisi anche donne e bambini di Domenico Quirico La Stampa, 9 gennaio 2022 Sì. Abbiamo sbagliato a soffermarci soltanto sul come si sviluppava la guerra civile tra il governo centrale di Addis Abeba e i ribelli tigrini, a cercare sulla carta i fronti con le località perdute o riconquistate, a raccontare chi vinceva o arretrava. A scrivere articoli per chiarire se Lalibela e le sue meraviglie erano in piedi o distrutte. Dovevamo guardare invece dentro la guerra, mischia di tribù furiose e vendicative. Ad ogni costo. Questo era il nostro dovere. In quello che si annuncia come uno dei peggiori massacri del nostro tempo, la geopolitica passa in secondo piano. È la realtà della morte di massa, i massacri dei civili da entrambe le parti in lotta, le incitazioni omicide di un Premio nobel per la pace diventato messianista della vendetta, il primo ministro Abiy Ahmed, che dovevano monopolizzare la nostra attenzione, la morte come male umano irrimediabile, lo sprofondare di un popolo nel silenzio del suo abisso. Anche se nessuno è lì, e fin dall’inizio una spessa coltre di fumo copre il Tigray dove i fatti sono sistematicamente negati, manipolati, deformati, una quantità di episodi confermati da vittime e testimoni attendibili si possono raccontare, uno a uno, come parte di un meccanismo di deliberato annientamento. In Etiopia la distruzione è diventato qualcosa di assoluto, si presenta come mondo. Sono questi morti che sono delitto e colpa che ci riguardano perché sono ai vivi che si rivolge la loro tragedia imponendo che diventi memoria collettiva. Bisogna guardare negli occhi questo mondo della notte perché non lo copra, come vogliono i burattinai del massacro, l’inudibile, al tempo stesso silenzio e strepito. Ecco l’ultimo episodio, il bombardamento di un campo di profughi nel nord del Tigray. Sono due milioni, migranti di cui non riesce a occuparsi nessuno, perché i convogli umanitari sono bloccati o saccheggiati dai soldati etiopici o dalle bande della pulizia etnica. Cinquantasei i morti tra cui alcuni bambini, gli ultimi di una nazione mutilata, violata, dissanguata. Chissà se hanno mai saputo che chi ha ordinato di bombardarli e ucciderli è un Premio nobel. Ci sono le immagini delle vittime raccolte in una scuola della cittadina di Dedebit. Ma non raccontano quello che è accaduto prima. Non c’erano sirene per avvertire la gente nel campo dell’avvicinarsi degli aerei o dei droni venduti dalla Turchia, aiutarli a fuggire, a cercare riparo abbracciando la terra. Il bombardamento è come una scossa improvvisa che viene dal suolo contro lo stomaco. Poi si alzano le prime grida disperate ma le urla sono lacerate da acuti sibili metallici. Le baracche, le tende del campo si squarciano come per gioco e si sollevano in aria. Zampilli di fumo salgono come funghi. Il bombardamento cessa di colpo. Qualcosa brucia. Ma come se nulla fosse stato il sole splende di nuovo glorioso e il paesaggio attorno è tranquillo e impassibile come se solo il campo fosse stato condannato da una sentenza oscura e crudele. Si raccolgono i morti. Dedebit non vi diceva niente fino a ieri quando si è macchiata di sangue. Non vi dicono niente Alamata, Korem, Mekni, Milazat, località del sud del Tigray che secondo le testimonianze raccolte dalle Nazioni Unite sono state massacrate dai raid aerei etiopici nell’ultima settimana di dicembre. L’unica cosa certa: i morti sono stati decine. E poi ci sono i massacri, la pulizia etnica, la caccia all’uomo, la radicalizzazione sanguinaria a cui si dedicano da parte di entrambi i contendenti, etiopici e i loro alleati eritrei e i tigrini. Amnesty e Human Rights hanno raccolto questa geografia punitiva, l’hanno documentata con testimoni, sopravvissuti, urlata alla coscienza internazionale. È seguito un silenzio di cancellerie e opinione pubblica che è la somma algebrica dei nostri egoismi planetari. A novembre e dicembre le milizie amahra che seguono i regolari come branchi di sciacalli per ripulire in silenzio le aree riconquistate si sono accanite contro la popolazione tigrina delle città di Adebai, Humera e Raywan. Hanno separato nuclei familiari e arrestato anziani, donne e anche minorenni. Poi hanno allontanato dalle città le donne, i bambini, gli anziani e gli ammalati. Alcuni degli sfollati sono riusciti ad arrivare nel Tigray centrale, di altri non si hanno più notizie. I testimoni hanno riferito di alunni portati via dalle scuole, di colonne di camion stipati di persone che lasciavano la città di Humera, di abitanti in fuga dalla città di Adebai attaccati con bastoni e oggetti appuntiti e di altri uccisi con armi da fuoco. Ci sono immagini satellitari di Abedai: gruppi di persone raggruppate in un centro di detenzione, macerie sulle strade, edifici in fiamme. Ancora. Tra il 28 e il 29 novembre scorso le truppe eritree che appoggiano i soldati di Addis Abeba hanno ucciso centinaia di civili inermi nella città di Axum, aprendo il fuoco nelle strade e massacrando persone casa per casa. Le immagini satellitari hanno individuato fosse comuni accanto a due chiese della città santa. Pochi giorni dopo si doveva celebrare presso santa maria di Sion una grande festa dei cristiani ortodossi. Ancora un massacro, ma questa vota i colpevoli potrebbero essere i ribelli tigrini: nella città di Mai-Kadra forse centinaia di civili, soprattutto lavoratori giornalieri, sono stati pugnalati o accoltellati a morte. Le truppe etiopiche erano passate all’offensiva e si stavano avvicinando a Mai-kadra. La Polizia speciale del Tigrè ha saldato i conti con gli amhara prima di ritirarsi. A Gawa Qanda un villaggio della zona di Wellega si sa il numero dei massacrati: 54. Miliziani dell’Esercito di Liberazione Oromo, alleati dei tigrini, dopo il ritiro delle truppe etiopiche, hanno saccheggiato il Paese, ucciso uomini, donne e bambini e distrutto quello che non potevano portare via. Kazakistan. “La protesta è nata pacifica, la violenza è tra oligarchi e clan” di Fabrizio Vielmini Il Manifesto, 9 gennaio 2022 Asia centrale. Intervista ad Alexander Knyazev, Università di San Pietroburgo. Sulle rivendicazioni sociali di masse impoverite dalla crisi del modello petrolifero e dalla pandemia si è innescato il braccio di ferro tra Tokayev e l’ex presidente Nazarbayev. Sulla crisi kazaka abbiamo intervistato il professor Alexander Knyazev, dell’università di San Pietroburgo, specialista di Asia centrale. Quali i principali fattori trainanti della settimana di violenza? Tutto è iniziato in modo pacifico nelle regioni occidentali. Ad Aktau, la gente è scesa in piazza per rivendicazioni economiche. Va comunque osservato come sia stata anche avanzata la richiesta politica di un’uscita definitiva dalla scena dell’ex-Presidente Nazarbayev, percepito quale simbolo dell’inguistizia sociale. Sebbene massicciamente presenti sullo sfondo, le motivazioni economiche sono tuttavia marginali nello spiegare il caos in cui è sprofondato il paese. Il conflitto era destinato ad esplodere quale risultato delle tensioni che, dal momento delle dimissioni formali di Nazarbayev nel 2019, si sono accumulate ai vertici del potere. Tokayev ha assunto la carica suprema cosciente della necessità di una serie di riforme. Al contrario, si è trovato nell’impossibilità di agire autonomamente, bloccato in una rete di veti che gli venivano posti dal suo predecessore su impulso della mafia famigliare cresciuta intorno ad esso. Tokaev ha cercato di sfruttare le proteste nel Nord-Ovest per sbloccare lo stallo sciogliendo il governo. La mossa ha messo i rappresentanti della cerchia Nazarbayev in allarme, spingendoli a scatenare i rpimi disordini nelle regioni meridionali. Ci si attendeva che Tokaev, figura percepita quale mancante del polso necessario a gestire situazioni violente, si sarebbe dimesso o avrebbe accettato le condizioni della fronda. Al contrario, Tokaev ha proseguito sulla sua linea. A questo punto, figure quali i nipoti di Nazarbayev, Kairat Satybaldy e Sanat Abish, che avevano ricoperto ruoli dirigenziali nel Comitato di sicurezza Nazionale (Knb) proprio curando i contatti con gruppi eversivi, hanno deciso di puntare sulla violenza generalizzata per vincere la partita. I portavoce del governo hanno accentuato il ruolo del Jihadismo transnazionale, parlando di un legame con l’Afghanistan... Una connessione diretta fra le dinamiche afghane e gli eventi in corso è fuori discussione. Anche sotto il primo regime talebano e durante l’occupazione occidentale, non vi sono mai state reti operative fra Afghanistan e resto del Centro Asia. Tuttavia, esistono gruppi jihadisti che fanno riferimento alla Turchia e ad altri paesi dell’area del Golfo. Va rilevato inoltre come il Kazakistan sia da anni impegnato in operazioni di rientro dei propri cittadini implicati nell’insorgenza Isis. Gran parte dei rimpatriati ha proseguito un’opera discreta di propaganda. Tali soggetti sono stati agganciati dai descritti settori deviati del KNB. Ad Almaty, simili soggetti hanno sopraffatto coloro che volevano protestare per avanzare richieste sociali in opposizione a Nazarbayev ed il suo clan. Nei grandi centri urbani sono presenti masse di sotto-proletari che a lungo sono state tenute sotto controllo con politichedistributive per un paese ha goduto a lungo della manna petrolifera. Con la crisi, il regime ha dovuto progressivamente tagliare le prebende spingendo tali masse in un impoverimento divenuto intollerabile nelle condizioni della pandemia. Che ruolo hanno avuto i clan? Hanno giocato un suo ruolo, dato che nel sud si trovano i clan della Grande Orda da cui proviene la famiglia Nazarbayev. In senso positivo, le logiche tribali hanno confinato le proteste violente in queste zone, dato che i Kazaki occidentali non si sono sentiti coinvolti. Le proteste hanno fornito un’opportunità all’oligarca Mukhtan Ablyazov per presentarsi quale leader alternativo... Ablyazov non rappresenta un serio attore politico da un decennio. Ha qualche gruppo di sostegno che rilancia la sua propaganda, ma le sue possibilità di espansione sono minime. Invece, la dinamica degli eventi ha rivelato una drammatica assenza di chiare figure di leader, al massimo sono emersi capi a livello locale. E sul piano della competizione geopolitica fra potenze? Aprendo l’ombrello Csto la Russia ha intrapreso un passo rischioso. Qualunque cosa non dovesse funzionare verrà imputata a Mosca e ciò potrebbe avere un impatto su tutta la presenza russa all’interno della CSI. I soldati russi possono divenire oggetto di possibili provocazioni. Allo stesso tempo, l’intervento è stato per la Russia il male minore, date le potenziali ricadute del caos sul proprio territorio. La guerra e poi la sete. In Afghanistan la crisi multipla è da manuale di Ferdinando Cotugno Il Domani, 9 gennaio 2022 In Afghanistan la siccità è diventata così grave che alla fine del 2021 migliaia di persone si sono riunite a Kandahar per pregare e invocare la pioggia. La guerra civile, l’abbandono degli americani, l’arrivo dei talebani si sono innestati nella peggiore crisi ecologica da trent’anni. Non c’è un angolo del paese che sia immune dalla crisi idrica. La crisi climatica è almeno in parte responsabile di quel che sta accadendo nel paese. Caso da manuale di ingiustizia climatica: un afghano emette in media 0,2 tonnellate di CO2 nell’atmosfera ogni anno, un americano circa 15 tonnellate. Il 2022 si preannuncia come un anno terribile. Secondo la Fao “l’impatto cumulativo della siccità su comunità già debilitate è un altro punto di rottura verso la catastrofe”. In Afghanistan la siccità è diventata così grave che alla fine del 2021 migliaia di persone si sono riunite a Kandahar per pregare e invocare la pioggia. La guerra civile, l’abbandono degli americani ad agosto, l’arrivo dei talebani al potere si sono innestati nella peggiore crisi ecologica da trent’anni, arrivata al suo picco quando la pandemia era già in corso. Un paese sull’orlo - Un doppio punto di rottura per un paese isolato, allo stremo delle forze e nel frattempo anche scivolato fuori dall’agenda politica globale. La crisi idrica è entrata nel suo secondo anno e sta spingendo il paese sull’orlo della carestia. Secondo le Nazioni Unite, più di metà della popolazione è in una situazione di “fame acuta”. Secondo almeno due criteri (su tre) dell’Onu, l’Afghanistan sarebbe già legalmente in carestia: la mancanza di accesso al cibo e la malnutrizione. Il terzo è la mortalità: servono due decessi su diecimila abitanti al giorno per parlare ufficialmente di carestia. Siccità in campo - L’agricoltura afghana è però già ora sull’orlo del collasso, i raccolti sono crollati del 40 per cento rispetto a quelli già magri del 2019, il prezzo del grano è salito del 25 per cento e l’origine di tutto è la mancanza di acqua, che colpisce almeno 25 delle 34 province afghane. Sul sessanta per cento del territorio l’impatto è estremamente grave, ma non c’è un solo angolo di Afghanistan che non sia stato colpito a qualche livello da questa crisi idrica. Annus horribilis - Il 2022 si preannuncia come un anno terribile. Secondo la Fao “l’impatto cumulativo della siccità su comunità già debilitate è un altro punto di rottura verso la catastrofe”. Oggi sono tra 19 e 23 milioni le persone che non riescono a fare almeno un pasto ogni giorno, circa il sessanta per cento della popolazione. Per alleviare la situazione, Stati Uniti e Nazioni Unite hanno allentato parte delle restrizioni che avevano imposto ai Talebani prima che salissero al potere, allo scopo di permettere un accesso più facile per gli aiuti umanitari. Un brutto clima - La crisi climatica è almeno in parte responsabile di quello che sta succedendo nel paese, che in alcune regioni si è riscaldato al doppio della media mondiale, che era di 1,1 gradi centigradi al 2021. Già nel 2019 un rapporto della stessa Fao aveva avvertito che le siccità già affrontate dall’Afghanistan nel suo passato sarebbero diventate più frequenti e potenti a causa del riscaldamento globale e del crollo della portata delle piogge primaverili. Come contesto, il 14 per cento dei ghiacciai afghani è sparito negli ultimi due decenni, le riserve d’acqua sono dieci volte inferiori rispetto a quelle dei paesi confinanti e le precipitazioni sono diventate rare, irregolari e violente. Impatto diseguale - Questo è un caso da manuale di ingiustizia climatica: un afghano emette in media 0,2 tonnellate di CO2 nell’atmosfera ogni anno, mentre un americano circa quindici tonnellate. Il New York Times l’aveva definita a settembre dell’anno appena passato come una nuova categoria di crisi umanitaria, cioè quella che si sviluppa quando la guerra incontra i cambiamenti climatici. Un moltiplicatore di conflitti che si alimentano a vicenda. Guerra e altri disastri - “La guerra ha esasperato gli effetti dei cambiamenti climatici”, ne prende atto Noor Ahmad Akhundzadah, professore di idrologia all’Università di Kabul, intervistato da Somini Sengupta, la corrispondente del New York Times. “Per dieci anni la metà del budget nazionale è andata alla guerra. La nostra attuale situazione è senza speranza”. L’Università di Notre Dame ha calcolato che almeno la metà dei venticinque paesi climaticamente più vulnerabili sono anche in una situazione di guerra. Si tratta di luoghi come Somalia, Siria, Mali, tutti catturati in una serie di crisi che si alimentano a vicenda.