Aumentano i contagi e nelle carceri sale la tensione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2022 Salgono ancora i contagi nelle carceri. Sono 1.057 i detenuti positivi al Covid 19, uno dei dati più alti dall’inizio della pandemia e che si avvicina al picco raggiunto a dicembre del 2020 con 1.088 casi tra la popolazione detenuta. Ancora più alto il dato che riguarda i poliziotti penitenziari: i positivi sono 1.167. È quanto emerge dal monitoraggio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornato alla data di ieri e comunicato ai sindacati penitenziari. Il tre gennaio scorso i detenuti positivi erano 804; tra il personale penitenziario - amministrativi e poliziotti - risultavano contagiati, invece, 924. A distanza di tre giorni il virus ha continuato a diffondersi a macchia d’olio crescendo del 25% e portando a 1057 il numero dei reclusi con il Covid e a 1167 quello degli operatori. Verona, con 95 casi, passa in testa strappando alla casa di reclusione di Asti la maglia nera dei contagi, quest’ultima quasi nella stessa situazione di tre giorni fa con un solo positivo in più (84). Spiccano, invece, le situazioni degli istituti emiliani di Modena, che da 5 positivi è passata a 21, e di Ferrara che il 3 gennaio era Covid free e oggi conta 18 contagiati. De Fazio (Uil-Pa): “I dati del Dap non aggiornati e imprecisi” - Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa in una nota dichiara: “I dati circa i contagi da Covid nelle carceri forniti dall’Ufficio attività ispettiva e di controllo del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria con i suoi report sembrano non aggiornati e/ o imprecisi. Già in passato avevamo rilevato e segnalato anche formalmente un disallineamento fra i dati forniti dal competente Ufficio del Dap e quelli reali; problema che evidentemente permane e rischia di far sottovalutare l’emergenza”. E sempre De Fazio all’Adnkronos spiega: “Il carcere riflette la situazione della realtà esterna, pur tuttavia pagando doppio il prezzo dell’incuria del governo-; siamo alla quarta ondata, non si può continuare a gestire la pandemia con un protocollo di sicurezza datato ottobre 2020. Avvocati e familiari continuano a entrare in carcere senza il green pass, le mascherine Ffp2 non vengono fornite agli agenti penitenziari ai quali non resta che spendere i 90 centesimi netti di indennità giornaliera per comprarsele di tasca propria, rimettendoci pure, se consideriamo che in un turno di otto ore andrebbero cambiate due volte”. Per quanto riguarda la campagna vaccinale nelle carceri, si avvicinano a centomila le dosi di vaccino somministrate ai detenuti. Alla data di giovedì sono esattamente 97.017 su circa 53mila presenti in carcere. I poliziotti penitenziari avviati alla vaccinazione sono 26.434 su 36.939. Tra il personale amministrativo e dirigenziale delle carceri gli avviati alla vaccinazione sono 2.889. Il caso emblematico di Taranto denunciato dall’Osapp - Sale il contagio, riaffiorano i problemi preesistenti. Un caso emblematico è quello del carcere di Taranto. “Inevitabilmente - spiega in una nota Angelo Sciabica, vice segretario del sindacato Osapp riemergono i problemi organizzativi e igienico-sanitari che la pandemia aveva già messo a nudo nei mesi precedenti. In questo scenario, ogni giorno più preoccupante, non possono passare inosservate le proteste che quotidianamente si sollevano dai poliziotti penitenziari pugliesi in ordine alla mancata applicazione attuazione delle procedure di prevenzione e degli screening sanitari finalizzati ad accertare eventuali positività al virus”. In questo scenario, stando alla denuncia del sindacalista, continuano a registrarsi intemperanze da parte dei detenuti. “L’altra sera - racconta Sciabica - un detenuto, presumibilmente con problemi psichiatrici, ha letteralmente sottratto le chiavi del reparto al poliziotto di servizio al Reparto C1 (precauzionali) ed ha aperto alcune celle. L’episodio ha destato forti preoccupazioni tanto da richiamare personale libero dal servizio. La criticità è rientrata intorno alle 23 grazie all’intervento degli uomini e delle donne della Polizia Penitenziaria tarantina”. L’agente aggredito ha dovuto fare ricorso alle cure dei medici dell’ospedale. Dal virus, passiamo al batterio. In questo caso la tubercolosi, malattia non rara in carcere. È morto all’ospedale Villa Scassi di Genova il detenuto di 39 anni che il 18 dicembre aveva dato fuoco al materasso della sua cella nel carcere di Sanremo. L’uomo, magrebino, era stato messo in isolamento perché positivo alla tubercolosi. Per protesta aveva dato fuoco alla cella. Erano intervenuti cinque agenti, rimasti lievemente intossicati, per salvarlo. Il detenuto era stato trasferito con l’elicottero al Centro grandi ustionati in gravi condizioni. Il fumo inalato e i polmoni compromessi dalla malattia non gli hanno permesso di salvarsi. Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame - Aumenta quindi il contagio, il sovraffollamento rimane e riemergono con forza tutti i problemi atavici del sistema penitenziario. Ma finora, nessuna soluzione da parte del governo. Per questo, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini annuncia che, alla mezzanotte di domenica, 10 gennaio 2022, riprenderà l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame per aiutare Governo e Parlamento a prendere le decisioni ormai non più rimandabili volte a ridurre la “congestione” dei corpi ristretti nelle carceri italiane. “Congestione di corpi non tollerabile in tempi normali - spiega Bernardini - congestione che rischia di divenire fatale in tempi di pandemia. Gli ultimi dati risalenti ad un paio di giorni fa ci dicono che sono più di 1.000 (1.057 per la precisione) i detenuti contagiati, e quasi 1.200 (1.167) i positivi al Covid tra gli agenti e altri dipendenti dell’amministrazione”. L’esponente radicale spiega che durante la visita al carcere di Brescia, il 31 dicembre scorso, ha potuto constatare che non ci sono più gli spazi fisici per gli isolamenti, così come gli agenti non riescono più nemmeno a coprire i turni di lavoro. “C’è sicuramente chi obietterà - prosegue Rita Bernardini - che la politica (già normalmente distratta sulle condizioni di vita penitenziaria) è tutta concentrata sulle imminenti elezioni del Presidente della Repubblica che succederà a Mattarella. Rispondo che è proprio in momenti come quello attuale che occorre far vivere la Costituzione nei suoi principi inderogabili”. E conclude: “Fu Marco Pannella e ricordarci tanti anni fa che Churchill concesse l’obiezione di coscienza al servizio militare nel pieno della deflagrazione della Seconda guerra mondiale. Una democrazia forte (o che come la nostra intenda finalmente rafforzarsi), questo deve fare. Siamo uniti!”. Il Garante Mauro Palma: è ora di cambiare il carcere - Nel frattempo, sulle colonne de La Stampa, interviene Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà. Parte dai due suicidi in carcere, che hanno “inaugurato” l’anno nuovo. “L’interrogativo inevitabile posto da queste rinunce alla propria vita - scrive Palma - riguarda la fisionomia attuale del nostro sistema di detenzione. Una domanda essenziale oggi perché è giunto il tempo di far corrispondere alla positiva ripresa di una riflessione sull’aderenza dell’esecuzione penale al suo profilo costituzionale, ultimamente più volte evidenziata da governo e amministrazione, concreti passi attuativi che migliorino il sistema nel suo complesso: dalle condizioni di chi vi opera, alla diminuzione delle tensioni, alla delineazione di un profilo chiaro del tempo della detenzione”. Per il Garante è ora di cambiare il carcere, a partire dall’attuazione del lavoro elaborato dalla commissione guidata dal professor Marco Ruotolo. Ed è stata proprio la ministra della Giustizia Marta Cartabia ad annunciare che da gennaio sarà la sua priorità. Focolai nelle carceri, la situazione più critica a Verona di Angela Pederiva Il Gazzettino, 8 gennaio 2022 Quasi 130 contagi tra detenuti e agenti nel carcere di Montorio, ma per Uil-Pa i numeri sono maggiori. Sono diversi i focolai di Covid 19 nelle carceri. I principali a Verona e Asti, anche in proporzione alla popolazione detenuta. Il caso più critico a Verona, dove i detenuti positivi sono 95, tutti asintomatici, mentre 27 sono le positività tra i poliziotti penitenziari secondo i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria riferiti alla giornata di ieri. Nei giorni scorsi la Uilpa polizia penitenziaria aveva invece parlato di 140 casi tra i detenuti e una trentina tra gli agenti. Ad Asti sono 84 i detenuti positivi, tutti asintomatici, e 8 i poliziotti contagiati. Nelle carceri milanesi, a Opera i positivi sono 73 tra i detenuti e 30 tra i poliziotti, a San Vittore i casi tra i reclusi sono 60 (con 2 ricoveri in ospedale) e 68 tra gli agenti, altri 49 e 28 se ne registrano rispettivamente per la popolazione detenuta e i poliziotti a Bollate. In Campania, a Santa Maria Capua Vetere i detenuti positivi sono 66 e 20 i poliziotti. A Poggioreale positivi 40 reclusi e 16 agenti, a Secondigliano 37 detenuti (uno in ospedale) e 31 poliziotti. A Torino 56 detenuti hanno preso il virus e 9 i poliziotti. A Prato 50 i casi tra i reclusi e 19 tra gli agenti. Ma Uilpa polizia penitenziaria contesta i numeri, che sarebbero invece più alti. “I dati sui contagi da Covid-19 nelle carceri forniti dall’Ufficio attività ispettiva e di controllo del Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria con i suoi report sembrano non aggiornati e/o imprecisi”. Lo afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, sull’ultimo report nelle carceri e che, rispetto al sull’emergenza pandemica, fa segnare un aumento prossimo al 30 percento dei positivi al virus in soli tre giorni. “Rispetto al numero di positivi nella Casa circondariale di Verona, solo per fare un esempio - spiega - possiamo confermare sostanzialmente i nostri dati, divulgati già nei giorni scorsi, e pressoché coincidenti con quelli forniti dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto. In maniera a dir poco singolare, infatti, mentre il Dap, rispetto a Verona, segnava 73 detenuti positivi il 3 gennaio scorso e ne indicava 95 alla data di ieri, il Provveditorato regionale per il Triveneto ne riportava 136 al 5 gennaio 2022 (numeri fornitici oggi). Anche per gli operatori di polizia penitenziaria registriamo incongruenze; se il Dap indica 26 positivi, il Prap conferma il numero, ma aggiunge 10 unità ‘allontanate’ perché sintomatiche e ulteriori 11 unità ‘allontanate’ precauzionalmente”. Un terzo dei detenuti vive in condizioni disumane L’Essenziale, 8 gennaio 2022 In metà delle celle mancano l’acqua calda e la doccia, ma soprattutto lo spazio Un terzo dei detenuti nelle carceri italiane ha trascorso il 2021 in condizioni disumane. È quanto emerge dagli ultimi dati pubblicati dall’osservatorio dell’associazione Antigone, che confermano quelli del report presentato a luglio. I dati sono stati raccolti tra l’8 febbraio e il 28 dicembre 2021, periodo nel quale gli attivisti di Antigone hanno visitato 99 carceri italiane. In un terzo di esse, come in quella di Regina Coeli a Roma, c’erano celle in cui i detenuti avevano meno di tre metri quadrati a testa di spazio calpestabile, sotto il limite per il quale la detenzione viene considerata disumana e degradante. Nel 40 per cento degli istituti monitorati, i detenuti vivevano senza acqua calda, mentre il 54 per cento delle celle era privo di doccia, che invece dovrebbe essere obbligatoria. In 15 carceri infine non c’era il riscaldamento, e in 5 il wc non era in un ambiente separato rispetto al luogo dove i detenuti dormono e vivono. La pandemia carceraria La situazione è resa insostenibile anche dal sovraffollamento dei penitenziari. Quasi tutte le carceri monitorate sono infatti più affollate di quanto dovrebbero. Nel carcere di Bari, tra gli ultimi a essere visitati, c’erano 441 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 288. In quello di Poggioreale invece ce n’erano 2.190, ma la struttura potrebbe ospitarne al massimo 1.571. In totale, secondo il monitoraggio del dipartimento di amministrazione penitenziaria, il 28 dicembre i detenuti erano 52.569, contro i 50.809 posti disponibili nelle carceri italiane. Anche a causa del sovraffollamento, unito all’arrivo della variante omicron, nelle ultime due settimane del 2021 i detenuti positivi al Covid-19 sono più che raddoppiati, passando dai 239 del 13 dicembre ai 510 del 28 dicembre. Per di più, la mancanza di personale ha reso ancor più difficile la gestione della pandemia carceraria. Secondo Antigone meno di un penitenziario su due, il 44 per cento, ha un direttore che lavora solo in quell’istituto, e appena il 21 per cento ha un qualche servizio di mediazione linguistica e culturale rivolto ai detenuti stranieri, che rappresentano il 31,4 per cento del totale. Dietro le sbarre scarseggia anche il lavoro, concesso solo al 43,7 per cento dei reclusi delle carceri visitate, quasi sempre alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e con mansioni spesso inutili nel mondo esterno. L’occupazione in carcere, in generale, resta poca e sottopagata, come dimostra lo stipendio medio lordo percepito, che è di appena 560 euro al mese. Oltre al lavoro, a mancare in molte carceri è la tutela della sicurezza e della salute fisica e mentale dei detenuti. A fine dicembre a Monza, Torino e Santa Maria Capua Vetere sono partiti i processi che indagano sulle torture subite dai detenuti. Ma queste, spiega all’Essenziale il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, “sono solo le violenze che vediamo. Poi ci sono quelle che non vediamo, che sono tante”. A curarle, però, nel 36 per cento degli istituti monitorati non c’era neanche un medico attivo 24 ore su 24, mentre psichiatri e psicologi erano disponibili in media rispettivamente 8 e 17 ore a settimana ogni 100 detenuti. Si tratta di mancanze che si ripercuotono sulla salute mentale dei reclusi: il 7 per cento di loro ha una diagnosi psichiatrica grave, mentre i126 per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Ciò nonostante, in tre carceri su quattro, i176 per cento, non c’è nemmeno un reparto ad hoc per i detenuti con infermità psichica. Nel Lorusso Cutugno di Torino, ad esempio, sono stati trovati 17 pazienti psichiatrici detenuti in condizioni che Gonnella definisce “inaccettabili per un paese civile”. Quel reparto, racconta, “sembrava un manicomio criminale dell’ottocento: persone buttate in cella, imbottite di psicofarmaci, maltrattate, in condizioni igienico sanitarie orribili, lasciate sole con la propria malattia mentale”. È così, spiega Gonnella, “che tante persone sviluppano in prigione la loro malattia psichiatrica. Il carcere, in questi casi, diventa esso stesso una malattia”. Sintomi di questa malattia sono anche i tanti atti di autolesionismo e suicidi registrati nel 2021 nei penitenziari italiani. Nel carcere fiorentino di Sollicciano, ad esempio, quest’anno ci sono stati in media 105 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti. Negli ultimi dodici mesi ben 132 detenuti sono morti in carcere, dei quali 54 si sono suicidati. Altri due si sono tolti la vita nei primi giorni del 2022. Innocenti in carcere: un detenuto su tre vittima di ingiusta detenzione di Viviana Lanza Il Riformista, 8 gennaio 2022 Le statistiche dicono che in Campania, e il dato è in linea con quello nazionale, un detenuto su tre è innocente. Le chiamano ingiuste detenzioni, sono quanto di peggio possa capitare ad una persona che, per un caso o per un errore di un pm o un investigatore, si ritrova ad essere rinchiuso in una cella, con persone sconosciute, per giorni, settimane, mesi. Persino anni quando ci si imbatte in pubblici ministeri convinti della propria tesi di partenza e per niente disposti a tornare sui propri passi. Ci sono ricostruzioni accusatorie che vengono portate avanti nonostante le lacune e le contraddizioni che emergono nel corso di accertamenti successivi, nonostante le alternative e i chiarimenti forniti dalla difesa, nonostante una pronuncia diversa da parte di un giudice. Il tutto, nei tempi dilatati della giustizia, con l’incertezza di non sapere mai se ci vorranno mesi oppure anni per arrivare a ristabilire la verità. Spesso si dice che la custodia preventiva è una sorta di anticipazione sulla condanna, ma quando la condanna non c’è perché non ci deve essere, perché si stabilisce che la persona arrestata e messa sotto accusa è innocente, quella carcerazione preventiva diventa soltanto tortura. E non possono certo i soldi del risarcimento (riconosciuto dopo un percorso giudiziario altrettanto lungo e niente affatto scontato, perché lo Stato può anche negarlo) cancellare come un colpo di spugna i danni di una detenzione ingiusta. C’è chi perde il lavoro quando finisce coinvolto in un’inchiesta e non lo ritrova quando, dopo anni di processo, viene assolto. C’è perde anche gli affetti. Ci sono famiglie e vite rovinate da arresti e accuse che non hanno ragion d’essere, che magari sono solo il frutto di un convincimento sbagliato di un pm o di testimonianze che alla fine vengono ritrattate o di indizi che non poggiano su alcuna prova. Negli ultimi trent’anni, in Italia, si sono contati quasi 30 mila errori giudiziari, con risarcimenti per quasi 900 milioni di euro. Napoli e la Campania hanno registrato negli ultimi dieci anni numeri da record. Nel solo distretto di Napoli, che comunque è tra i più grandi distretti giudiziari del Paese, si stimano più di cento casi all’anno. Nel 2012 si registrava un caso di ingiusta detenzione al giorno, poi il ricorso alle manette facili, seppure a fasi alterne, è stato ridimensionato ma non a sufficienza perché risulti sempre applicato il principio in base al quale la reclusione preventiva in carcere deve essere l’extrema ratio. Nel 2020 si sono registrati 101 casi di innocenti ingiustamente arrestati, ma se si considera che questi accertati sono soltanto il 30% delle cause di risarcimento per ingiusta detenzione proposte è chiaro che il fenomeno ha proporzioni ben più ampie. A fine mese il ministero della Giustizia dovrebbe rendere noti i dati più aggiornati del 2021. Nel discorso di Natale, la ministra Marta Cartabia ha affrontato anche il tema degli errori giudiziari, delle lettere per i risarcimenti che arrivano al Ministero, “dietro ogni lettera ci sono sempre singole persone, vite in carne ed ossa”. Bisognerebbe ricordarlo sempre, in ogni istante. E tutti. La ministra ha ricordato, tra quelle che l’hanno più colpita, la storia del professor Francesco Addeo, oggi 80enne, nel 2001 scienziato di fama internazionale finito al centro di un’inchiesta penale e persino in carcere per quattro mesi e ai domiciliari per altri due a seguito di dichiarazioni di due imprenditori che nel corso del processo non si sono rivelate fondate. Di qui la sua assoluzione ma un danno nell’anima che resta indelebile. E storie come questa si ripetono a centinaia ogni anno. L’associazione Errorigiudiziari.com da venticinque anni raccoglie dati e storie di vittime di malagiustizia. Puntando la lente su Napoli si scopre l’incubo di un 35enne, sposato con una figlia di tre anni, che un pomeriggio di maggio di quattro anni fa viene convocato dai carabinieri per una generica comunicazione di servizio e si ritrova in manette, dopo che gli viene notificata un’ordinanza di custodia cautelare, per accuse gravi come rapina aggravata e violenza sessuale. Gli viene concessa una telefonata alla moglie e viene portato a Poggioreale. La vittima dice di aver riconosciuto in lui l’autore dell’aggressione subita mesi prima. E tanto basta. Il 35enne resta in cella per tre giorni e ne trascorre altri 141 agli arresti domiciliari. In primo grado viene condannato a otto anni di reclusione, in appello la sentenza viene ribaltata e il 35enne viene assolto. L’assoluzione diventa definitiva ma ci vorranno due anni di calvario giudiziario. Ora il 35enne è in attesa che venga accolta la sua richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione sofferta. Iter più o meno simili hanno segnato le storie di altre vittime della giustizia, dal camionista scambiato per narcotrafficante all’imprenditore mandato in carcere come presunto killer e tenuto in cella per ottocento giorni e in sospeso, legato al filo esile della giustizia, per oltre quattro anni in attesa che nel processo si accertasse il grave errore dovuto a un’intercettazione male interpretata dagli investigatori. Si può finire in carcere davvero per poco. Più lungo e difficile il percorso per uscirne, anche se si è innocenti. Giustizia, è iniziato l’anno del referendum? di Giulia Merlo Il Domani, 8 gennaio 2022 L’anno nuovo è iniziato senza particolari novità sul fronte della giustizia, con la riforma dell’ordinamento giudiziario avviata sì ma ancora senza gli emendamenti scritti del ministero della Giustizia, che pure erano stati promessi prima di Natale. Intanto, ho redatto uno schema riassuntivo delle principali riforme del 2021. Telegraficamente, qui i tre argomenti da tenere d’occhio e che saranno caldi nel corso di tutto il 2022: - La decisione della Corte costituzionale, attesa per febbraio o marzo, sull’ammissibilità dei sei quesiti referendari sulla giustizia. - La riforma dell’ordinamento giudiziario in vista delle elezioni del Consiglio superiore della magistratura in luglio. - La geografia giudiziaria, con la soppressione entro settembre di alcuni tribunali minori, che già stanno scaldando gli animi nei fori interessati. Ora invece, e fino a febbraio, il dibattito pubblico sarà monopolizzato dal dibattito sul Quirinale. Per questo vi segnalo Il grande gioco del Quirinale, un podcast curato da me che accompagna alla scoperta delle storie nascoste del Colle e che può essere un utile approfondimento in vista dell’inizio delle votazioni, il 24 gennaio. Ritorniamo però alle notizie di giustizia. Il whistleblowing - Il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, ha ricordato la necessità di recepire la direttiva europea del 2019 in materia di tutela del whistleblowing, ovvero chi segnala illeciti avvenuti nel proprio ambiente di lavoro. Il decreto legislativo di recepimento, che dovrebbe incentivare l’emersione di fenomeni illeciti come la corruzione, è stato chiesto anche dal presidente della commissione Giustizia alla Camera, Mario Perantoni, del Movimento 5 Stelle. “Chi segnala illeciti nel pubblico e nel privato va ascoltato e protetto, perchè è uno strumento ‘attivo’ ed efficace nella lotta alla corruzione, molto difficile da snidare per la stessa natura del reato”. La direttiva è oggetto della legge e delegazione europea: una volta approvata, il governo potrà esercitare quanto prima la delega per il recepimento per evitare eventuali procedure di infrazione. Processo a Piero Amara - Il 7 febbraio si terrà l’udienza preliminare a carico di Piero Amara e Vincenzo Armanna, l’ex legale esterno ed ex manager di Eni, e altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta della Procura di Milano sul cosiddetto “falso complotto Eni”. Si tratta di un filone minore dell’inchiesta principale, iniziata nel 2017 e che è stata chiusa il 10 dicembre scorso dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dai pm Civardi e Di Marco. Si tratta della stessa inchiesta da cui sono usciti i famosi “verbali di Amara” da cui emergeva l’esistenza della presunta loggia Ungheria. Indagini sui magistrati - La procura di Brescia ha riaperto le indagini sui magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, accusati di omissione d’atti d’ufficio nell’ambito del procedimento per corruzione internazionale Eni-Nigeria, che si è concluso in primo grado con l’assolzione dei vertici della società petrolifera. Il procuratore di Brescia Francesco Prete e il suo sostituto Donato Greco hanno chiesto altri 6 mesi, dopo aver sentito i due pm milanesi che si erano sottoposti a interrogatorio a inizio dicembre. Proprio da qui sono derivate le necessità di ulteriori approfondimenti. L’indagine, molto delicata, è nata dalle dichiarazioni del pm milanese Paolo Storari, che ha accusato i colleghi di non aver depositato atti utili alla difesa nel processo Eni-Nigeria, perché dimostravano l’inattendibilità del teste Armanna. Efficienza del processo penale - È stato istituito il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, un organismo di consulenza per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. Il Comitato è presieduto dalla ministra della Giustizia o da un suo delegato e i suoi componenti durano in carica tre anni. Ne fanno parte tra gli altri Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, i magistrati Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Suprema Corte, Giuseppe Ondei, residente della Corte di appello di Milano, alcuni professori universitari, dirigenti del ministero della Giustizia, funzionari della Banca d’Italia e dell’Istat. L’allarme di Area - Il gruppo associativo progressista di Area ha pubblicato un documento in cui avverte che “le condizioni di lavoro, l’organico effettivo dei giudici, l’attuale - anche se finalmente in via di superamento - carenza del personale amministrativo, rendono - in molti uffici ed allo stato attuale - probabilmente impossibile il raggiungimento dell’obiettivo nazionale sotteso all’innovazione dell’Ufficio per il Processo”, ovvero “la riduzione dell’arretrato e dei tempi del processo”. L’ufficio del processo, una delle innovazioni di cui la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, va più fiera, sarebbe dunque a rischio prima ancora di cominciare a svolgere la sua funzione. Secondo Area, “è urgente che siano adottati tutti gli interventi necessari sia a recuperare i nostri Palazzi di Giustizia sia ad adeguarli alle nuove necessità”. Inoltre, sottolinea un rischio: che i magistrati, sotto ulteriore pressione produttiva, “sviluppino una tendenza alla standardizzazione impropria delle decisioni”. Rilievi che verranno ascoltati dal Ministero, che è ancora alle prese con le ultime limature della riforma dell’ordinamento giudiziario. Cartabia interviene sul carcere - Poco prima di Natale, la commissione per l’innovazione del sistema penitenziario ha inviato al ministero della Giustizia la relazione finale che indica quali aspetti vadano riformati. La ministra Marta Cartabia ha detto che “da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. Valuterà le proposte nella relazione ed elaborerà con il Dap un piano di azione. “Il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”. Il Tar blocca le elezioni dei commercialisti - Il Tar del Lazio, con decreto monocratico pubblicato il 4 gennaio 2022, ha “sospeso l’efficacia del provvedimento del Consiglio nazionale dei commercialisti” di dicembre, nel quale si era deciso di proseguire le operazioni elettorali dei Consigli degli Ordini territoriali dei commercialisti, “fissando per i giorni del 20 e 21 gennaio 2022 le date per le assemblee elettorali”. La trattazione collegiale è fissata per il 28 gennaio 2022, per ora dunque rimangono ancora nelle funzioni Rosario Giorgio Costa, Paolo Giugliano e Maria Rachele Vigani, i tre commissari straordinari del Consiglio nazionale nominati dal ministero della Giustizia dopo le dimissioni dell’ex presidente Massimo Miani. Magistrati onorari: massimo 8 giorni di lavoro? - Uno dei grandi irrisolti del nostro sistema giustizia è il ruolo dei magistrati onorari. Sono inseriti anche nell’ufficio del processo per coadiuvare i togati nello smaltimento dell’arretrato ma il loro inquadramento professionale rimane un’incognita. Da anni chiedono il riconoscimento della loro situazione giuridica ai fini sia della retribuzione che delle tutele lavorative e una sentenza europea ha dato loro ragione. Ora sorge anche un nuovo problema, evidenziato con una nota da Feder M.o.t., la federazione dei magistrati onorari di tribunale. Ad una lettura coordinata tra il testo vigente fino al 31 dicembre 2021 e quello conseguente all’entrata in vigore della legge di bilancio, parrebbe emergere come, quando sarà? possibile optare per l’esercizio delle funzioni in via esclusiva o in via non esclusiva, si applica il disposto dell’articolo 1 comma tre, terzo periodo, del citato decreto legislativo 116/2017. Tale norma prevede che al magistrato onorario non possa essere richiesto un impegno superiore a due giorni la settimana e, quindi, complessivamente un impegno mensile superiore a otto giorni. La richiesta di un impegno superiore da parte del capo dell’ufficio potrebbe costituire chiara violazione normativa e impedire, in tal modo, la legittima liquidazione delle attività svolte oltre il detto limite, nonché problematiche di copertura Inail come previste dalla l. 116/2017 sugli infortuni. Tradotto: ci si potrebbe ritrovare ad avere magistrati onorari non impiegabili per più di otto giorni al mese. Proprio ora che il ministero punta a velocizzare i processi, smaltire l’arretrato e i gli onorari sono stati inseriti nell’ufficio del processo. Il calendario della malagiustizia 2021 di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 gennaio 2022 Dodici assoluzioni simbolo. Tra processi, gogne mediatiche e arresti preventivi, quello appena trascorso è stato l’ennesimo annus horribilis. Si è appena concluso un altro anno costellato di flop giudiziari. Processi, caratterizzati da indagini eclatanti, arresti preventivi e gogna mediatica, crollati come castelli di carta. Torna, a grande richiesta, la rassegna del Foglio sui principali casi emersi nel corso del 2021. Dodici assoluzioni simbolo per dodici mesi. Gennaio Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria, viene assolto in rito abbreviato dalle accuse di corruzione e abuso d’ufficio avanzate dalla procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, nell’ambito dell’inchiesta “Lande Desolate”. La procura aveva chiesto per lui una condanna a quattro anni e otto mesi di reclusione. L’inchiesta, coordinata da Gratteri, era deflagrata nel dicembre 2018 e riguardava presunte irregolarità negli appalti per la realizzazione di alcune opere pubbliche a Cosenza, Lorica e Scalea. L’inchiesta sconvolse la politica calabrese. Oltre a muovere pesantissime accuse (ad alcuni indagati venne anche contestata l’aggravante di aver favorito la ‘ndrangheta), la procura si spinse addirittura a chiedere per Oliverio gli arresti domiciliari, poi non accolti dal gip, che applicò nei confronti del governatore la misura - più morbida, ma comunque clamorosa - dell’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore, suo comune di residenza in provincia di Cosenza. Il presidente di regione rimase confinato nel suo comune per tre mesi, fino a quando la Cassazione annullò il provvedimento demolendo l’impianto accusatorio dei pm con parole durissime. Secondo i giudici di Cassazione, infatti, dalle carte dell’inchiesta si rilevava un “chiaro pregiudizio accusatorio” ai danni di Oliverio. La sentenza di assoluzione diventerà definitiva nel settembre 2021, in virtù della mancata impugnazione da parte della procura. Febbraio La Corte d’appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, assolve Giosi Ferrandino, ex sindaco di Ischia, oggi europarlamentare del Pd, dall’accusa di corruzione nel processo Cpl Concordia, relativo agli appalti per la metanizzazione dell’isola di Ischia. L’inchiesta venne avviata nel marzo 2015 dai pm napoletani Henry John Woodcock, Celestina Carrano e Giuseppina Loreto, con il supporto dei carabinieri del Noe (Sergio De Caprio e Gianpaolo Scafarto). Ferrandino venne arrestato con l’accusa di aver asservito la sua funzione ai voleri del presidente della cooperativa emiliana, Roberto Casari, in cambio di vantaggi economici. Passò ventidue giorni in carcere e tre mesi ai domiciliari. La vicenda finì sulle prime pagine dei giornali (all’epoca si era in piena campagna elettorale per le regionali), anche in virtù delle accuse di vicinanza alla camorra mosse in contemporanea dal pm Catello Maresca contro i vertici della cooperativa. A distanza di anni, dello scandalo non rimane più nulla. Nel processo per camorra Casari e la Cpl Concordia sono stati assolti in via definitiva. Nel processo relativo alle presunte tangenti per la metanizzazione dell’isola Ferrandino viene assolto in primo grado e anche in appello (la sentenza diventerà definitiva nel luglio 2021). I pm avevano chiesto per lui una condanna a sei anni e quattro mesi di carcere. Intervistato dal Foglio, Ferrandino dirà: “Sono stati anni di sofferenza, per me e per la mia famiglia. Sono stato vittima di un accanimento giudiziario e mediatico ingiustificato. All’epoca la notizia dell’indagine finì in televisione e sulle prime pagine dei giornali. Ora che la giustizia ha ristabilito la verità non ne parla nessuno”. Marzo È il mese del principale flop giudiziario dell’anno, quello dell’inchiesta sulla presunta corruzione più grande della storia: Eni-Nigeria. Il 17 marzo 2021 il tribunale di Milano assolve perché “il fatto non sussiste” tutti i quindici imputati finiti a processo per la presunta corruzione internazionale, da oltre un miliardo di dollari, legata all’acquisizione nel 2011 da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Vengono assolti, tra gli altri, l’attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore (e attuale presidente del Milan) Paolo Scaroni. Nelle motivazioni della sentenza, il collegio giudicante boccia senza scampo l’impianto accusatorio dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che per Descalzi e Scaroni avevano chiesto condanne a otto anni di reclusione. Dalle motivazioni emergono anche decisioni “irrituali” e “incomprensibili” da parte dei pm nella conduzione delle indagini. De Pasquale e Spadaro finiscono indagati a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, con l’accusa di aver omesso di depositare tra gli atti del processo alcuni documenti favorevoli agli imputati. Aprile L’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso viene assolto dall’accusa di danno erariale dalla Corte dei conti in merito allo spostamento del G8 dalla Maddalena all’Aquila nel 2009. La decisione venne presa dopo il devastante terremoto che colpì colpito l’Abruzzo. La sentenza arriva al termine di un procedimento durato otto e anni e per fatti risalenti a dodici anni prima. Con Bertolaso viene assolto anche il suo fidato collaboratore Angelo Borrelli. Nel corso degli anni, Bertolaso è stato assolto anche dall’accusa di corruzione, sempre in relazione agli appalti previsti per il G8 alla Maddalena, e dall’accusa di omicidio colposo nel processo Grandi Rischi bis, per il sisma del 6 aprile 2009. Maggio Annullando la sentenza di condanna a dieci mesi in primo grado, la corte d’appello di Milano assolve l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, dall’accusa di turbativa d’asta nel processo riguardante la gestione delle piscine comunali della città lombarda. L’inchiesta era deflagrata nel maggio 2016 con l’arresto di Uggetti, finito prima in carcere (36 giorni), poi ai domiciliari (26 giorni). L’arresto avvenne in coincidenza con la campagna elettorale per le elezioni comunali in alcune grandi città (Roma, Torino, Milano, Napoli, Bologna). Lega e Movimento 5 stelle si catapultarono a Lodi per organizzare manifestazioni e sit-in contro Uggetti, alimentando la gogna nei suoi confronti, fino a spingerlo, un mese dopo l’arresto, alle dimissioni. Il 28 maggio 2021, con una lettera al Foglio, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio porgerà le sue scuse a Uggetti (“Anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima, è giusto che in questa sede io esprima le mie scuse”), facendo autocritica sull’”utilizzo della gogna mediatica come strumento di campagna elettorale”. Giugno Crolla il secondo pilastro fondamentale del “processo del secolo” voluto dalla procura di Milano sulla presunta maxi-tangente Eni-Nigeria. Annullando la sentenza di condanna emessa in primo grado, la corte d’appello di Milano assolve Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i due presunti mediatori della corruzione internazionale (mai) compiuta da Eni. Era stata la stessa rappresentante dell’accusa in appello, la sostituta procuratrice generale Celestina Gravina, a chiedere l’assoluzione degli imputati, esprimendo una serie di pesanti critiche sull’operato dei colleghi, parlando di “travisamento dei fatti” e “mancanza di prove”. La pg si era spinta addirittura a definire l’inchiesta “un enorme spreco di risorse”. Luglio La corte d’appello di Salerno conferma la sentenza di assoluzione di primo grado nei confronti del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, e altri 19 imputati nel processo relativo alla realizzazione del Crescent, edificio costruito sul lungomare di Salerno nell’ambito della riqualificazione dell’area di Santa Teresa voluta da De Luca quando era sindaco del capoluogo campano. Come in primo grado, anche in appello i pm avevano chiesto per il governatore una condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e reati urbanistici e, contestualmente, il sequestro e la confisca dell’edificio, ritenuto “abusivo”, e la sua acquisizione al patrimonio pubblico comunale. L’indagine venne aperta nel 2013 in seguito agli esposti di alcuni comitati ambientalisti. Agosto Il tribunale di Reggio Calabria assolve, perché il fatto non sussiste, l’ex senatore di centrodestra Antonio Caridi dall’accusa di associazione mafiosa, nell’ambito del processo “Gotha” contro la ‘ndrangheta. I pm avevano chiesto una condanna ad addirittura venti anni di reclusione, ritenendo Caridi componente di vertice di una cupola mafiosa. Con Caridi vengono assolti altri quattordici imputati, mentre altri quindici vengono condannati. La fine di un incubo per Caridi, che a causa dell’inchiesta ha trascorso diciotto mesi di custodia cautelare in carcere. Fu il Senato ad autorizzare l’arresto. Durante la seduta, i parlamentari del Movimento 5 stelle fecero il gesto delle manette e ripresero con i cellulari Caridi mentre giurava la sua innocenza. La sentenza è del 30 luglio 2021, ma la notizia viene diffusa sugli organi di informazione nei primi giorni di agosto. Settembre Crolla in appello il processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. La Corte d’assise d’appello di Palermo, ribaltando la sentenza di primo grado emessa nell’aprile 2018, assolve dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato tutti i principali imputati: l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni (in primo grado condannati a 12 anni) e l’ex colonnello Giuseppe De Donno (condannato in primo grado a 8 anni). La corte, composta da giudici sia togati che popolari, conferma invece la condanna per i boss Leoluca Bagarella (riducendola da 28 a 27 anni di reclusione) e Antonio Cinà (12 anni). Le motivazioni della sentenza devono ancora essere depositate, ma dal verdetto è possibile immaginare la logica seguita dai giudici: attraverso le stragi del 1992 e 1993, Cosa nostra minacciò le istituzioni dello Stato, ma queste non si piegarono a patti. In altre parole, la trattativa ipotizzata più di dieci anni fa dai pm di Palermo (Antonio Ingroia e Nino Di Matteo su tutti) non ci fu. Ottobre Il tribunale di Bergamo assolve trenta imputati su trentuno al termine del processo sulle presunte irregolarità nella gestione di Ubi Banca, nel frattempo incorporata in Intesa Sanpaolo. Tra gli assolti il banchiere Giovanni Bazoli (presidente emerito di Intesa ed ex membro del Consiglio di sorveglianza di Ubi), Victor Massiah (ex amministratore delegato di Ubi), altri ex dirigenti e lo stesso istituto di credito. Le accuse nei confronti di Bazoli e Massiah, e a vario titolo nei confronti degli altri imputati, erano di ostacolo all’esercizio degli organi di vigilanza per i presunti patti parasociali nell’iter che diede vita a Ubi e di illecita influenza sull’assemblea che nel 2013 rinnovò le cariche del consiglio di sorveglianza. La procura di Bergamo aveva chiesto condanne per ventisei imputati. Per Giovanni Bazoli, 89 anni, tra i banchieri più influenti della recente storia italiana, era stata chiesta una condanna a sei anni e due mesi, mentre per l’ex numero uno di Ubi, Massiah, erano stati chiesti quattro anni e sei mesi. L’indagine era nata nel 2014. Novembre Dopo nove anni vengono assolti in via definitiva tutti gli imputati dell’”inchiesta Centurione”, che nel dicembre 2012 portò all’arresto di undici tra imprenditori e funzionari del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. La corte di appello di Roma conferma la sentenza di primo grado e le sue motivazioni per non sussistenza del fatto, respingendo l’appello della procura in quanto inammissibile. Assolti definitivamente, quindi, tutti i nove imputati (altri due avevano già ottenuto l’archiviazione) che l’11 dicembre 2012 vennero arrestati con l’accusa di corruzione in relazione alla gestione di finanziamenti pubblici per 32 milioni di euro. Tra gli assolti Ludovico Gay, che al Foglio dichiara: “Sono trascorsi nove anni e giustizia è stata fatta, ma il processo è di per sé una pena e un processo lungo nove anni è assolutamente disumano. Questa vicenda ha stravolto la mia vita da ogni punto di vista, non solo umano ma anche economico”. Dicembre Il tribunale di Matera assolve l’ex presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, al termine del processo sulla cosiddetta Sanitopoli lucana. Pittella, attualmente consigliere regionale del Pd e fratello del senatore Gianni Pittella, era stato messo agli arresti domiciliari nel luglio 2018 con l’accusa di falso e abuso d’ufficio in un’inchiesta su nomine e concorsi nella sanità lucana. Si dimise dalla carica e la regione tornò al voto nel marzo 2019, quando vinse l’attuale governatore (di centrodestra) Vito Bardi. Il pm Salvatore Colella aveva chiesto tre anni di reclusione. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip, accogliendo le tesi della procura, definì Pittella il “deus ex machina” di una “distorsione istituzionale”, sostenendo che egli aveva “influenzato le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta”. Con Pittella vengono assolte altre undici persone, sette i dirigenti sanitari condannati. Giudice e pm sono la stessa cosa. Sembra Carroll, e invece è realtà di Otello Lupacchini Il Riformista, 8 gennaio 2022 Giudicare è compito necessario, non potendo una società lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza; ma anche impossibile, non potendosi mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità, là dove è proprio su questa che si fonda la rettitudine della convivenza civile. È da tale contraddizione che nasce l’esigenza del “processo”, quale metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta che si sia pronti ad accettare pro veritate. Varcata la soglia del tribunale, tuttavia, si entra in un mondo di apparenze che spesso coprono l’inganno o, anche, l’autoinganno: le leggi, i magistrati e i burocrati possono simulare e far prevalere la menzogna. Gli sfondi culturali sono ormai jeux de mode: il pubblico chiede del feuilleton, biascicamenti gergali, filosofemi da Luna Park, effusioni umide et similia; tutto beve, purché sia nero, stupido, sanguinolento. Sembrerà magari audace che ricordi, dunque, due situazioni esulanti dal repertorio consueto delle immagini distorte o delle satire dell’amministrazione della giustizia, dove il processo è guardato “dal basso”, con gli occhi delle vittime impaurite, o “dall’alto”, con quelli dello spettatore divertito o sdegnato. Vale a dire, i comportamenti di Alice e di Josef K., i quali esprimono la superiorità e il disprezzo di chi, indipendentemente dal ruolo provvisoriamente assunto, la prima come avvocato difensore e il secondo quale imputato, credendo si trattasse di processi veri, constatando, tuttavia, ben presto, la sgangherata sovversione di ogni regola processuale e logica, ha il potere di annientarli. Josef K. abbandona sdegnato la strana udienza nella quale si è fatto coinvolgere, una domenica mattina, in un quartiere proletario della città: “Pezzenti (Lumpen). Teneteveli i vostri verbali!”. Gesto teatrale che sembra consapevolmente ricalcato su quello di Alice, quando questa tronca l’assurdo processo al Fante di Cuori gettando in aria le carte da gioco che popolano Wonderland ed esclamando: “Chi vi bada? … Non siete altro che un mazzo di carte!”. Poco importa se quest’ultimo episodio costituisca o meno, in termini narrativi, il modello, se non certo dell’intero romanzo kafkiano, almeno di qualche suo episodio. Esso offre, infatti, il destro per proporre un istruttivo giro nell’universo letterario di Lewis Carroll, dove ci s’imbatte in alcuni processi che si prestano a essere considerati, oggi più che mai, quando la crisi senza fine dell’amministrazione della giustizia cade sotto gli occhi di tutti, in una prospettiva assai meno superficiale di semplici manifestazioni letterarie dello stupore, dell’ilarità e della diffidenza che il funzionamento delle istituzioni giudiziarie ha sempre e dovunque suscitato tra i profani, nella consapevolezza, esatta da Friedrich Nietzsche, che al mondo si può solo alludere indirettamente tramite simboli e metafore. Il primo lo troviamo in Alice in Wonderland, nel “racconto in forma di coda” che il Topo fa ad Alice, per giustificare la propria avversione per i cani, ma anche per i gatti. Un cane di nome Fury incontra per caso un topo e, “non avendo niente da fare”, lo invita a partecipare con lui ad un processo, precisando che egli vi assumerà il ruolo di accusatore e il topo quello dell’accusato. Quest’ultimo obietta impaurito: che processo potrà mai essere senza giudice né giuria? “Son giudice e giuria!” fu del can la follia: “son io tutta la legge e ti condanno a morte”, risponde il cane. Il secondo, che si celebra presso la “corte” dei reali di Cuori, lo si trova nell’undicesimo e nel dodicesimo capitolo dello stesso libro. Imputato è il Fante, accusato di aver rubato dei dolci preparati dalla Regina, la quale è a un tempo parte lesa, coadiutrice del giudice e componente, con il Re stesso, dell’ufficio della pubblica accusa. La giuria è composta da dodici animaletti di varia specie, disorientati e ottusi. Araldo, usciere, cancelliere e in genere maestro di cerimonie è il Coniglio Bianco. Di avvocati difensori, nel testo non vi è traccia. Dopo la solenne lettura del capo d’imputazione, il re invita subito la giuria a pronunciare il verdetto, ma il Coniglio Bianco gli fa presente la necessità di assumere prima di tutto le prove. Vengono allora sentiti, in veste di testimoni, il Cappellaio Matto, la cuoca della Duchessa e, finalmente, Alice. Esaurita, senza alcun esito apprezzabile, l’escussione dei testimoni, il Re torna a sollecitare il verdetto della giuria; ma è ancora una volta il Coniglio Bianco a impedirlo, segnalando al Re un documento decisivo, che si suppone provenga dall’imputato, quantunque non rechi traccia della sua calligrafia. Il documento, letto con la consueta solennità dal Coniglio Bianco, risulta contenere una poesia nonsense, come tale incomprensibile; ma ciò non impedisce al Re di esultare, fregandosi le mani. È a questo punto che si accende una vivace disputa ermeneutica fra il Re e la Regina da una parte e dall’altra Alice, erettasi a tutrice del senso comune e indirettamente a difensore del Fante, la quale ribadisce la futilità della prova raccolta, mentre gli altri insistono nel ravvisare nel documento un’inconfutabile dimostrazione di colpevolezza dell’imputato. Il Re tronca la discussione, invitando per la terza volta la giuria a pronunciare il verdetto. Questo ennesimo sovvertimento delle regole processuali eccede la sopportazione di Alice, che, contestando drammaticamente la serietà e la realtà stessa della corte, pone fine repentinamente sia al processo sia al sogno in cui esso s’inserisce. Anche il terzo processo carrolliano si colloca in una dimensione onirica, nel sesto “sussulto” di The Hunting of the Snark: un Barrister, facente parte di un equipaggio salpato per dare la caccia allo Snark, mostro la cui identità e il cui aspetto non saranno mai rivelati, a un certo punto si addormenta e sogna di trovarsi “in una corte ombrosa”, dove proprio lo Snark (in toga e parrucca) è apparentemente impegnato nella difesa di un maiale. Nessuno enuncia chiaramente il capo d’imputazione: si arguisce l’accusa mossa all’imputato solo dopo che il mostro “inimmaginabile” e perciò non ritraibile parla già da tre ore. Eloquente e puntiglioso, lo Snark indica la legge su cui si fonda l’accusa; allega la marginale partecipazione del suo assistito al delitto; ne sostiene la perfetta solvibilità; si richiama alla prova di un alibi, tanto più ridicola in quanto al maiale parrebbe contestarsi il reato di allontanamento dalla stiva; si rimette alla clemenza della giuria indicando al giudice come riferirsi alle sue annotazioni “per sintetizzare il caso”. Poiché, tuttavia, il giudice ammette candidamente di non aver mai sintetizzato prima le risultanze di una causa, a ciò provvede ancora lo Snark, che opera una sintesi così perfetta da ricomprendere anche quanto mai detto dai testimoni. Quando tocca ai giurati pronunciare il verdetto, anch’essi declinano il compito, essendosi imbrogliati, a loro dire, nel sillabare le parole; tuttavia, osano sperare che sia sempre lo Snark ad assolvere quel dovere. Sebbene esausto per la fatica, il mostro provvede all’incombente e quando pronuncia “Colpevole!”, dalla giuria si leva un lungo gemito e qualcuno cade addirittura svenuto. Essendo il giudice troppo emozionato per pronunciare la sentenza, è necessario provveda anche a questo lo Snark e se quando commina la pena i giurati non nascondono la loro gioia il giudice resta invece dubbioso. Ma ecco che compare il carceriere, per comunicare, in lacrime, che il maiale è ormai morto da alcuni anni, sicché la sentenza non potrà essere eseguita. Alla notizia, il giudice s’allontana disgustato, mentre lo Snark, riassunto l’originario ruolo di difensore, riprende imperterrito la sua arringa, sui cui echi roboanti il Barrister si sveglia. Nei tre processi carrolliani, le caratteristiche del due process of law, del “giusto processo”, sono ignorate, calpestate e derise quanto lo sono la logica, il senso comune, le regole del linguaggio, sicché, all’esito della lettura, si è più angosciati che divertiti: il Topo è tratto a giudizio senza nessun’altra giustificazione che la noia e il capriccio del suo accusatore, che in più si arroga la funzione di giudice e di giuria e gli preannuncia una condanna a morte; il Fante di Cuori, accusato di furto, si ritrova a dover fronteggiare, senza avvocato difensore, un giudice prevenuto e subordinato alla parte lesa, una giuria di animali stupidi e ignoranti e una serie di elementi probatori tanto più temibili e schiaccianti quanto meno sono razionali; il maiale patrocinato dallo Snark, se la morte non lo avesse già sottratto a ogni problema, subirebbe una condanna durissima, per un reato incerto e risibile, ad opera del suo stesso avvocato inopinatamente investito di funzioni giudicanti. Nihil sub sole novi. Guerre di religione e verità sulle stragi terroristiche in Italia di Dimitri Buffa L’Opinione, 8 gennaio 2022 Sulle stragi terroristiche in Italia notoriamente una logica che metta tutti d’accordo - a destra come a sinistra, valida pure per chi non si riconosca in queste due categorie dello spirito - non esiste. Non può esistere. E anzi non deve. La verità deve essere cercata con la lanterna dell’ideologia, in una sorta di derby calcistico permanente, dove chi non la pensa in una certa maniera deve essere necessariamente bollato come persona ambigua e contigua, almeno idealmente, ai presunti autori e mandanti delle stragi stesse. L’apoteosi di questo fenomeno che unisce ottusità e malafede di molti magistrati, di altrettanti giornalisti e di un numero oggi pressoché infinito di commentatori fuori tempo massimo, si osserva nelle dinamiche pluridecennali delle inchieste sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 e delle successive indagini aperte 40 anni dopo su suggestioni mediatiche molto labili. Un tempo esisteva la legittima suspicione per quei distretti giudiziari in cui era evidente la mancanza di serenità di giudizio in determinati processi. È stata invece sostituita dal diritto per competenza ideologica. A Bologna, per esempio, come si evince da questo interessante filmato d’inchiesta di Gabriele Paradisi e Gian Paolo Pelizzaro, è scritto sul che quella strage - almeno quella - debba restare ancorata alla matrice fascista e consegnata alla storia così, grazie a una sentenza passata in giudicato a furor di popolo. E a detrimento di ogni logica di analisi delle prove processuali, costi quel che costi. Persino cadere nel ridicolo processando oggi, nel 2022, i morti come mandanti politici e massonici della strage. Un cliché poi importato in taluni processi di mafia in cui si tenta di coinvolgere il politico di turno da distruggere. Così, processandoli, i morti vanno a fare compagnia ai morti che li hanno preceduti nell’aldilà. E se le vittime idealmente saranno tutte in Paradiso, per i mandanti e le “menti occulte” è pronto da tempo un ergastolo da scontare all’Inferno. Ovviamente ostativo. I colpevoli per forza potranno raccontare di essere andati colà - cioè nelle fiamme dell’Averno - inviatici non da Dio e neanche da Dante Alighieri, ma per intercessione dei magistrati e dei politici della sinistra bolognese, che fin dai primi anni subito dopo questa maledetta strage solevano anche riunirsi assieme nelle sezioni locali dell’allora Partito Comunista italiano. La “fascisticità”, come si direbbe oggi, quindi sarà la verità processuale predeterminata per la strage di Bologna e anche il marchio, il “brand”, da consegnare alla storia. Possono confessare i palestinesi e Carlos, potrà cadere il Lodo Moro, potranno avvenire rivelazioni e scoperte. Ma chi toccherà nei secoli dei secoli quella matrice fascista della strage del 2 agosto 1980 a Bologna - chi negherà quel dogma - è destinato alla “damnatio memoriae”. Mai più casi Floyd: l’altolà della Cedu alla polizia violenta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2022 L’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato?”. È quanto chiede la Corte di Strasburgo al governo italiano, dopo aver accolto il ricorso sul caso Magherini. Si torna a parlare del caso Magherini, il trentanovenne fiorentino, fermato da una pattuglia di carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Borgo San Frediano e in seguito deceduto. Dopo le decisioni della magistratura che ha assolto i carabinieri, la famiglia ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. E ora, grazie a un articolo dell’ex senatore Luigi Manconi sul quotidiano La Repubblica, apprendiamo che la Cedu chiede spiegazioni al governo italiano. Le domande della Cedu all’esecutivo italiano - Tra le varie domande poste dalla Corte Europea, la più significativa riguarda la legittimità della tecnica usata dai carabinieri nel fermare Riccardo Magherini. Manconi la definisce “codice Floyd”. Questa definizione non è una scelta arbitraria. Infatti George Floyd, 46 anni, è morto il 25 maggio 2020 dopo che l’ex agente Derek Chauvin lo ha bloccato a terra con il ginocchio sul collo per 9 minuti e 29 secondi. Una vicenda che non può non evocare la vicenda nostrana. Manconi spiega che tale tecnica è stata operata anche da noi. Accade che un uomo, sottoposto a fermo, si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile. Sempre Manconi sottolinea che a completare quella manovra, il braccio di uno degli operatori serra il collo del fermato. La combinazione tra le due mosse - la compressione del torace e la stretta sulla gola - impedisce la normale respirazione e può determinare una sindrome asfittica e, infine, la morte.Ebbene, come ricorda Manconi, è proprio quanto è accaduto a Riccardo Magherini. Un “codice Floyd” nostrano. La sentenza - Ora, come detto, la Corte Europea ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Tra le domande poste ecco le più rilevanti: l’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dello scopo perseguito (il contenimento della persona fermata)? Le autorità pubbliche hanno garantito che fosse tutelata dagli operatori la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto in questione? Le stesse autorità possono dimostrare di aver fornito agli agenti che operano in circostanze simili una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti? Ricordiamo che la quarta sezione penale della Cassazione nel 2018 aveva assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello. In primo e secondo grado i tre carabinieri erano stati condannati. Caso Magherini, il legale: “L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo” L’avvocato Fabio Anselmo che assiste, insieme all’avvocata Antonella Mascia, i familiari di Riccardo Magherini afferma: “L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo che chiedeva aiuto e della cattiva giustizia riservatagli”. Una vicenda tragica e che molto probabilmente poteva essere evitata. Riccardo Magherini, morì durante un arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014 a Firenze. Tre militari lo bloccarono mentre, sotto l’effetto di cocaina e in preda ad allucinazioni, convinto di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo, invocava aiuto in Borgo San Frediano, nel cuore del suo quartiere. Magherini quella sera era uscito a cena in un ristorante, poi aveva iniziato a vagare per le strade del quartiere gridando che gli avevano rubato portafoglio e cellulare. Era entrato in una pizzeria dove aveva continuato a dare in escandescenze. Tornato in strada, era stato bloccato dai carabinieri e ammanettato a terra, a pancia in giù e a torso nudo, per almeno un quarto d’ora. All’arrivo di un’ambulanza senza medico a bordo, l’ex calciatore era stato trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove alle 2.45 era stato constatato il decesso. Il “codice Floyd” - Luigi Manconi ricorda che il “codice Floyd” non è una tecnica rara. Lui stesso, da presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, si è occupato di almeno una decina di casi simili: quelle di Riccardo Rasman, Federico Aldovrandi, Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto, Andrea Soldi, Luca Ventre e altri ancora. Eppure, come fa sempre notare Manconi, il 30 gennaio 2014, una circolare del comando generale dell’Arma dei carabinieri, raccomandava di evitare tecniche del genere, come i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte. Nel 2016, la circolare fu sostituita da un altro testo dove venivano sostituite tali avvertenze. Forse è ora di cambiare le cosiddette regole d’ingaggio. Da rivedere radicalmente tali tecniche che ricordano, appunto, il caso Floyd. Nel frattempo, il governo italiano ha tempo fino al prossimo 26 aprile per fornire risposte adeguate. Raffaele Lombardo innocente. Dopo dieci anni di supplizi giudiziari di Gennaro Grimolizzi Corriere della Sera, 8 gennaio 2022 Con una sentenza clamorosa e destinata a restare nella storia, l’ex governatore della Sicilia è stato assolto, nell’appello bis a Catania, dall’accusa di concorso esterno e corruzione elettorale. I fatti per i quali era (ancora) a giudizio risalgono al 2008. Lo avevano descritto secondo i più infamanti paradigmi per un uomo delle istituzioni: corrotto e colluso con la mafia. Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia, è stato invece assolto ieri dalla Corte d’appello di Catania. Era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. La decisione è arrivata dopo circa cinque ore di camera di consiglio e dopo la difesa conclusiva affidata all’avvocato Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale nell’Università di Napoli Federico II. Lombardo era presente al momento dell’arringa del suo difensore ma non quando è stato letto il dispositivo della sentenza dalla presidente della Corte d’Appello, Rosa Angela Castagnola: “In riforma della sentenza emessa”, la Corte “assolve Raffaele Lombardo del reato di cui al capo “a” perché il fatto non sussiste e del reato al capo “b” per non avere commesso il fatto”. La Procura generale, rappresentata in aula dai magistrati Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto la condanna dell’ex governatore siciliano a sette anni e quattro mesi di reclusione, considerando le riduzioni previste dal rito abbreviato con cui il processo è stato celebrato. Secondo l’accusa, Lombardo avrebbe favorito clan e ricevuto voti alle Regionali del 2008, quando fu eletto presidente. Il processo, lungo e delicato, ha affrontato diversi passaggi. La Seconda sezione penale della Cassazione, tre anni fa, aveva annullato con rinvio la sentenza emessa il 31 marzo 2017 dalla Corte d’appello di Catania con la quale l’ex governatore era stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ed era stato condannato a due anni (pena sospesa) per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza. La sentenza di secondo grado aveva riformato quella emessa il 19 febbraio 2014, col rito abbreviato, dal Gup Marina Rizza. In quel caso Lombardo era stato condannato a sei anni e otto mesi per concorso esterno all’associazione mafiosa. Venne, tra l’altro, considerato “arbitro” e “moderatore” dei rapporti tra mafia, politica e imprenditoria. Tutte le e contestazioni sono state sempre respinte da Raffaele Lombardo. Il verdetto di oggi riabilita il politico, anche se dopo dieci anni di processo ritornare tra la gente e chiedere il sostegno elettorale diventa molto difficile. Lombardo, leader e fondatore dell’Mpa, all’inizio degli anni Duemila, era considerato uno dei politici più influenti non solo in Sicilia. È stato anche Presidente della Provincia di Catania ed eurodeputato. Cucchi, al processo sui depistaggi il legale della famiglia chiede un risarcimento di due milioni di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2022 Per i presunti depistaggi sono imputati otto carabinieri: il generale Alessandro Casarsa all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Le accuse, a vario titolo e a seconda delle posizioni sono quelle di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Due milioni di euro e una provvisionale di 750 mila euro. È il risarcimento chiesto dall’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi a conclusione del suo intervento nel processo a carico di otto carabinieri accusati di avere messo in atto depistaggi per sviare il corso delle indagini sulla morte del giovane, avvenuta nell’ottobre del 2009. “Non ce la facciamo più - ha detto il legale - Siamo stati carne da macello per queste persone, ma noi siamo essere umani: è stato fatto di tutto per nascondere responsabilità gravi”. Nell’intervento dall’aula bunker di Rebibbia Anselmo ha ricordato come il corpo di Stefano fosse “un mappamondo di lesioni”. Per i presunti depistaggi sono imputati otto carabinieri: il generale Alessandro Casarsa all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Le accuse, a vario titolo e a seconda delle posizioni sono quelle di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Per tutti il pm Giovanni Musarò ha chiesto la condanna. “Questa è stata una vicenda tremenda per la famiglia, per gli agenti penitenziari, per lo Stato, e anche per l’Arma che è parte civile. Da queste quaranta udienze, da questa inchiesta - ha detto l’avvocato - è emerso che esistono tanti parti sane nell’Arma dei carabinieri”. Nel 2015, ha ricordato Anselmo, “si è perso però il treno per poter rimediare e si reiterato il depistaggio. Anche dopo quella data e anche per quello che è accaduto in quest’aula ci sono stati segnali inquietanti”. L’avvocato Anselmo ha ricordato che tra i militari “c’e anche chi ha avuto il coraggio di parlare. qualcuno lo ha fatto in ritardo ma ha avuto coraggio”. “Quando parlo di umanità penso a Colombo Labriola (uno degli otto imputati e all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza, una delle stazioni dove Cucchi fu trattenuto nella camera di sicurezza ndr), non si può non apprezzare il suo comportamento processuale, il suo coraggio nel tenere testa ai superiori, la sua onestà intellettuale nel riferire ciò che andava anche contro di sé”. Sanremo (Im). Morto detenuto rimasto ustionato nell’incendio della propria cella primalariviera.it, 8 gennaio 2022 L’uomo, marocchino, era stato messo in isolamento perché positivo alla tubercolosi. Per protesta aveva dato fuoco alla cella. È morto all’ospedale Villa Scassi di Genova il detenuto di 39 anni che il 18 dicembre aveva dato fuoco al materasso della sua cella nel carcere di Sanremo. Erano intervenuti cinque agenti, rimasti lievemente intossicati, per salvarlo. Il detenuto era stato trasferito con l’elicottero al Centro grandi ustionati in gravi condizioni. Il fumo inalato e i polmoni compromessi dalla malattia non gli hanno permesso di salvarsi. Sondrio. La Casa circondariale sovraffollata e con problemi. “Si pensi a una nuova struttura” di Michele Pusterla Il Giorno, 8 gennaio 2022 Malgrado l’impegno e la dedizione del personale della Polizia Penitenziaria, attestato anche nella relazione 2021 del Garante, dottoressa Orit Liss, la Casa circondariale di Sondrio vive la difficile situazione conseguente alle gravi carenze di organico e al sovraffollamento di detenuti (pari al 142%) che la pongono tra le 100 carceri italiane gravemente sovraffollate (su un totale di 189 istituti). “La scheda ministeriale sul Carcere, aggiornata al 2 dicembre - scrivono Giuliano Ghilotti e Mariolina Nobili del Partito Radicale - evidenzia la mancanza di 1 agente e di 11 amministrativi e, ancora più grave, la mancanza da lungo tempo di un direttore fisso e dell’unica educatrice prevista in pianta organica (cui si sopperisce con un direttore reggente e un’educatrice supplente, entrambi presenti, secondo la relazione del Garante, n. 2 gg mese) con grave nocumento alla possibilità di assolvere ai propri compiti istituzionali e, in particolare, di realizzare quei percorsi educativi, riabilitativi e di reinserimento sociale che, soli, consentono di abbattere la recidiva”. Questa, secondo un’indagine del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, passerebbe dal 70% al 30% mediante l’adozione delle misure alternative e addirittura all’1%, quando vanno a buon fine progetti mirati all’inserimento lavorativo del detenuto. Si ricorda che la relazione del Garante richiamava, quale grave criticità, l’assenza dell’educatrice, per il ruolo decisivo che tale figura riveste. “Si auspica - aggiungono i due esponenti radicali - l’attivazione del Comune di Sondrio per superare le carenze evidenziate con il presupposto di considerare la comunità carceraria come parte integrante della propria comunità e farsene debitamente carico. Riteniamo altresì doveroso da parte del Comune avviare una riflessione sull’ipotesi di una nuova struttura a custodia attenuata con spazi e numeri più adeguati, in sostituzione dell’attuale Casa circondariale, costruita nel 1908 che, come dichiarava l’Associazione “Antigone” “anche per la carenza di spazi, pregiudica in partenza la possibilità di avviare quelle attività riabilitative e/o lavorative e/o di svago che per definizione necessitano di spazi abbastanza ampi”. Sciacca (Ag). Il carcere per l’associazione Antigone è da chiudere: “Meglio farne un museo” di Giuseppe Recca La Sicilia, 8 gennaio 2022 Dal 1998 l’associazione “Antigone” è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 Istituti penitenziari italiani e redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, che è strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà carceraria. Nei giorni scorsi è stato pubblicato il diciassettesimo rapporto che fa riferimento alle visite svolte negli ultimi mesi del 2021. I rappresentanti di “Antigone” sono stati anche nei due istituti di pena della provincia di Agrigento, il “Pasquale Di Lorenzo” di contrada Petrusa, nel capoluogo, e la Casa circondariale di Sciacca. Nella Casa Circondariale di Sciacca, ospitata fin dal 1860 in un vecchio convento del 1200, le condizioni generali per l’associazione “Antigone” sono “mediocri”. Oltre ai cronici problemi strutturali, in occasione della visita dello scorso 27 ottobre agli occhi degli “osservatori” è balzata un’assistenza sanitaria appena sufficiente e il paradosso della presenza di un laboratorio odontoiatrico all’avanguardia ma inutilizzato. “Abbiamo rilevato - ci dice Pino Apprendi di “Antigone” - che in tema di assistenza sanitaria non c’è un rapporto continuativo con l’Asp di Agrigento e che ci sono difficoltà a reperire medici e personale sanitario in generale. C’è però stranamente un ambulatorio dentistico di ultima generazione non utilizzato”. Sul piano strutturale, più volte in occasioni di visite ispettive è emersa la precarietà dell’edificio, anche in funzione del fatto che gli spazi non sono nati per ospitare persone e che un adeguamento richiederebbe notevoli fondi. “Non è solo un problema di soldi - aggiunge Apprendi - si tratta di un edificio storico nel quale la Soprintendenza non autorizzerà mai azioni corpose di adeguamento strutturale e impiantistico. Inutile dire che essendo stato un convento è più adatto ad esposizioni museali. Come carcere andrebbe chiuso per farne uno nuovo, la città ne guadagnerebbe in termini di proposta culturale e accoglienza turistica”. In passato più volte si è parlato della realizzazione di un nuovo istituto, ad un certo punto era stato pure inserito in un piano nazionale di nuova edilizia penitenziaria. Si era inoltre individuato un sito, tra Sciacca e l’area del Belice, ma poi tutto finì nel dimenticatoio. In occasione dell’ispezione dello scorso 27 ottobre, come in altre ispezioni, è emerso che le celle visitate non sono risultate riscaldate, che l’acqua calda non viene garantita in tutti i locali detentivi e che non ci sono schermature alle finestre. I detenuti erano 56 a fronte di una capienza di 72. La dotazione del personale di Polizia penitenziaria è invece adeguata, 47 agenti a fronte di una pianta organica di 48 unità. Alla data del 27 ottobre 2021 non risultano casi di contagi da Covid 19. Ci sono state comunque delle modifiche strutturali e organizzative alla vita interna dell’istituto adottate in conseguenza della pandemia: la stanza che prima ospitava l’articolo 21 adesso viene utilizzata come isolamento sanitario, mentre un magazzino è adibito a triage. In merito agli eventi critici, nei mesi precedenti alla visita dei rappresentanti di “Antigone”, nel carcere di Sciacca ci sono stati 8 casi di autolesionismo e 4 tentativi di suicidio. È positivo l’aspetto della formazione, dell’istruzione e delle attività ricreative: nell’istituto di pena di via Gerardi secondo la scheda fornita dalla direzione ci sono 18 lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e la disponibilità di un budget annuale di 150 mila euro. I corsi di alfabetizzazione, scuola media, enogastronomia e ospitalità alberghiera coinvolgono 15 detenuti. Napoli. “Liberi di Volare”: l’associazione fa lavorare gli ex detenuti e li reintegra in società di Erica Esposito vesuviolive.it, 8 gennaio 2022 L’associazione di volontariato “Liberi di Volare Onlus” nasce nel 2010 grazie all’aiuto della Pastorale Carceraria di Napoli. Si occupa di detenuti che si trovano nel carcere di Poggioreale ed in detenzione domiciliare. L’obiettivo dell’associazione è quello di fornire sostegno ai detenuti ed alle famiglie, aiutandoli poi con il reinserimento in società e nell’ambito lavorativo. Il supporto dell’associazione avviene sia nel carcere che all’esterno. Infatti, l’associazione conta circa 60 volontari che lavorano all’interno del carcere, dove fanno colloqui di sostegno, forniscono beni di prima necessità e fanno vari progetti. Per quanto riguarda il percorso dei detenuti che si trovano all’esterno del carcere, quest’ultimo vede sempre un percorso guidato una psicologa per elaborare gli errori commessi, affiancato da uno più spirituali. Infatti, la struttura dell’associazione è della Curia di Napoli, quindi è tutto a base cristiana. Inoltre, propongono anche varie attività di laboratori di artigianato, dove imparano la lavorazione di alcuni prodotti, bigiotteria, scrittura creativa e così via. A raccontarci di più dell’associazione è la presidente Valentina Ilardi, attiva in prima linea, psicologa e psicoterapeuta, raggiunta telefonicamente dalla redazione di Vesuvio Live. “Abbiamo circa 50 persone affidate, tra domiciliari ed in carcere. Noi proponiamo il progetto, e poi i detenuti scelgono se partecipare o meno. Per l’esterno, sono le famiglie dei detenuti che chiedono se c’è posto per un affidamento o per una detenzione domiciliare. In genere le persone stanno con noi intorno ai 18 mesi o 24 mesi. Abbiamo anche un centro di ascolto attivo 3 giorni alla settimana, per le famiglie ed i detenuti. Però comunque li sosteniamo anche dopo che hanno terminato la loro pena. Nessuno va via del tutto, ci vengono a trovare e ci danno una mano nei laboratori e così via. Siamo ormai un punto di riferimento”, ci spiega la presidente dell’associazione. “L’obiettivo è quello di formarli per farli reinserire nella società e nell’ambiente lavorativo. Nella nostra sede c’è anche la Cooperativa Articolo 1, che si occupa dell’inserimento lavorativo dei detenuti. Ultimamente, stiamo riuscendo a trovare la strada giusta per dargli una mano concreta. Le persone che stanno a fine percorso vengono così inserite in contesti lavorativi. Per il momento la cooperativa si occupa di pulizie, quindi abbiamo delle persone che lavorano come addette alle pulizie in alcuni edifici del centro storico.” L’associazione sopravvive principalmente grazie a donazioni, collaborazioni con altre fondazioni e l’8×1000 della Cura di Napoli. “È stimolante e gratificante, perché aiutare qualcuno ad avere una vita normale è sicuramente gratificante ed è necessario farlo. Permettere che le persone abbiano delle opportunità successive invece che lasciarli allo sbaraglio a non fare niente. Però non ci sentiamo eroi”, conclude la presidente Ilardi. Firenze. Tra carcere e teatro: rimandata la prima di “One Man Jail: le prigioni della mente” met.cittametropolitana.fi.it, 8 gennaio 2022 Lo spettacolo, primo in Italia a utilizzare le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, materializzerà in scena in tempo reale i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze, raccontando una storia tra ossessioni e voglia di libertà. Per motivi indipendenti dall’organizzazione, slitta la prima assoluta di “One Man Jail: le prigioni della mente”, lo spettacolo prodotto da Compagnia Interazioni Elementari e diretto da Claudio Suzzi che intreccia per la prima volta tecnologie digitali e recitazione in un progetto di teatro in carcere. Già riprogrammate le date del debutto, che si sarebbe dovuto tenere l’8 e il 9 di gennaio, ora spostato a martedì 25 e mercoledì 26 gennaio alle 21.00 presso il Teatro Cantiere Florida di Firenze (via Pisana 111/R). Lo spettacolo materializzerà in scena in tempo reale i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze, raccontando una storia tra ossessioni e voglia di libertà. Protagonista Frank Petroletti, interpretato dall’attore Filippo Frittelli, comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. All’interno della prigione, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara a esibirsi nella sua ultima performance. Lo show, caustico e strampalato, lo porterà ad affrontare le proprie paure e i pensieri che lo tengono realmente prigioniero, a liberarsi dai personaggi che affollano la sua mente, per raggiungere un “altrove” forse meno rassicurante di quello che gli si vorrebbe far credere. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che vuole andare a colmare due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future per i giovani detenuti, già a partire dal periodo di permanenza in carcere. Per ulteriori informazioni www.interazionielementari.com. La compagnia teatrale Interazioni Elementari, nata nel 2014 a Parigi come gruppo informale e costituitasi poi nel 2017 a Firenze come Associazione di Promozione Sociale, porta avanti attività di formazione, produzione e organizzazione di eventi sul territorio nazionale ed europeo. I componenti, artisti e operatori di diverse generazioni e provenienze, sono uniti da una visione comune delle arti teatrali e performative che punta sul rapporto tra ricerca artistica e società. Dal 2017 organizza laboratori di teatro per i detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze e dal 2018, sia dentro che fuori dal carcere, organizza il Festival Spiragli - Teatri dietro le quinte, nel quadro del programma dell’Estate Fiorentina del Comune di Firenze e finanziato dal Bando Cultura della Città Metropolitana di Firenze. Il progetto è finanziato dal bando “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento delle politiche giovanili e del Servizio civile universale e dalla Regione Toscana, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e da Publiacqua S.p.A. In partenariato con Associazione Volontariato Penitenziario Onlus, Associazione Altro Diritto Onlus, Associazione di Promozione Sociale Progress. In collaborazione con Istituto Penale Minorile “G.Meucci” di Firenze, Assessorato all’Educazione, Università e Ricerca, Formazione Professionale, Diritti e Pari Opportunità del Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Firenze, Garante dei detenuti della Regione Toscana, Garante dei detenuti del Comune di Firenze, Associazione Antigone Onlus, Cinema Teatro di Castello e Teatro delle Arti Lastra a Signa. Airola (Bn). Il sorriso ti dona. Le calze del CSV per i giovani detenuti dell’Ipm cesvolab.it, 8 gennaio 2022 Ieri mattina lo staff del CSV Irpinia Sannio ha incontrato i giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile di Airola (Benevento) per consegnare loro le calze di dolciumi. Presenti la direttrice dell’IPM Marianna Adanti, il direttore del CSV Irpinia Sannio Maria Cristina Aceto con il componente del consiglio direttivo Giovanni De Mizio, la cooperativa Il Germoglio onlus e le associazioni Gicara, Misericordia di Montesarchio, Pubblica Assistenza Molisannio e Galea. “Ringrazio il CSV e le associazioni - il commento della direttrice dell’istituto penale Marianna Adanti - per questa spiccata sensibilità che hanno avuto nel ricordarsi anche della befana dei ragazzi dell’IPM di Airola donando così loro un momento di gioia facendoli sentire a casa con la venuta della Befana”. L’iniziativa di questa mattina rientrava tra quelle promosse dal Centro Servizi per il Volontariato nell’ambito del progetto Il sorriso ti dona. “Il CSV - ha spiegato infatti la direttrice Maria Cristina Aceto - nell’ambito dell’iniziativa “Il Sorriso ti dona”, affianca le associazioni di tutto il territorio di Avellino e Benevento nelle attività di animazione territoriale per donare un sorriso a chi ne ha più bisogno. Così questa mattina siamo stati qui, all’istituto penale minorile di Airola, per donare assieme alle associazioni locali una calza agli ospiti della struttura”. Libia. I 99 giorni di lotta dei dimenticati dal mondo di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 gennaio 2022 “La comunità internazionale non vuole ascoltarci”, denunciano i rifugiati sopravvissuti ai rastrellamenti dello scorso ottobre e ai centri di prigionia. Le richieste di protezione avanzate in più di tre mesi di lotta sono cadute nel vuoto. Dall’inizio della protesta tre persone sono state uccise e una rapita. Nuovi arresti di migranti a Sabratha e Tripoli. La notizia è che non è successo nulla. A Tripoli migliaia di rifugiati protestano da novantanove giorni chiedendo l’evacuazione verso un qualsiasi paese dove non rischino la vita a ogni passo, ma nessuno ha dato loro risposte. Insieme a frustrazione e paura è cresciuta la consapevolezza di essere stati dimenticati dal mondo. “La comunità internazionale non vuole ascoltarci. Il nostro presidio è ormai normalizzato per il pubblico globale. All’inizio ci sono state alcune reazioni dai media. Poi più niente. Sembra non importare a nessuno che queste persone rivendichino il diritto a vivere e non subire torture”, dice David Oliver Yambio, un 24enne sudanese tra i più attivi nella mobilitazione. “Paura? Non ho più nulla da perdere, in questa protesta ci stiamo giocando quel poco che ci era rimasto”, continua. Tutto è cominciato il primo ottobre scorso, con i rastrellamenti nel quartiere di Gargaresh e poi in altre zone della città. Circa 5mila migranti sono stati arrestati. Chi è scampato ai raid ha cercato riparo al Community Day Centre (Cdc) dell’Unhcr. Le presenze sono aumentate con il passare dei giorni e ne è nato un accampamento di protesta. Dopo la fuga di 2mila persone dal centro di prigionia di Al Mabani l’8 ottobre, i manifestanti si sono moltiplicati e Unhcr ha chiuso il centro affermando di non essere in grado di offrire assistenza a tutti. I sopravvissuti hanno portato con loro le storie e i segni delle violenze subite durante la detenzione. Quello che per anni è stato denunciato dai rapporti delle agenzie Onu o da Ong come Medici senza frontiere, è venuto fuori direttamente da voci e corpi di chi ha sofferto abusi e torture. Dall’accampamento sono state organizzate conferenze stampa e dirette con media internazionali. Sui profili social di @RefugeesinLibya vengono postati testi e video strazianti. Come quello di una donna che racconta in lacrime di aver subito violenza da cinque libici armati e di non trovare più la figlia di sei anni. O quello di un rifugiato del Ciad ammanettato, con la faccia sporca di polvere e i vestiti strappati, picchiato davanti alla telecamera per convincere la famiglia a mandare soldi ai miliziani. Nel picco della partecipazione l’accampamento ha raggiunto 3mila presenze, adesso sono circa un migliaio. Dall’inizio della protesta al Cdc sono stati uccisi tre rifugiati: uno colpito in mezzo alla folla, altri due investiti. Il reporter libico Saddam Alsaket è stato arrestato il 24 ottobre dopo aver coperto gli eventi e non si sa che fine abbia fatto. Il 29 dicembre Al-Hadi Mohamed Sharaf, un rifugiato di 52anni e attivista, è scomparso. I manifestanti sostengono sia stato rapito. L’ultima volta l’hanno visto vicino al checkpoint della polizia nei pressi dell’accampamento. “Volevamo raggiungere l’Europa per cercare una seconda possibilità e quindi siamo venuti in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica - si legge nel manifesto politico scritto durante la lotta - A quanto pare non è abbastanza per le autorità. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità. Abbiamo trovato un incubo fatto di torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie”. Tra le sette richieste in calce al testo, oltre all’evacuazione, ci sono: abolizione dei finanziamenti alla “guardia costiera” di Tripoli; chiusura dei centri di detenzione; indagini e processi sugli autori di violenze e omicidi; ratifica della Convenzione di Ginevra sui rifugiati da parte della Libia. Il 18 ottobre le stesse rivendicazioni sono state inserite in una lettera indirizzata all’Unione Europea. Un j’accuse contro le politiche migratorie implementate in questi anni messo nero su bianco da chi ne ha sofferto gli effetti sulla propria pelle. “Chiediamo alle autorità e al mondo intero di riconoscerci come esseri umani, di rispettare e proteggere i nostri diritti”, hanno scritto i rifugiati. Da Bruxelles sono arrivate due risposte, una “per conto del vicepresidente della Commissione Margaritis Schinas”. Il succo di entrambe: l’Europa si dice preoccupata per la situazione in Libia, le violenze contro i migranti e le detenzioni arbitrarie, ma di evacuare chi rischia la vita non se ne parla. Del resto “l’inferno libico” è una diretta conseguenza delle politiche europee che vorrebbero bloccare le persone al di là del mar Mediterraneo. A qualsiasi costo. Le uniche vie per uscire legalmente dal paese restano i rimpatri volontari dell’Oim per i “migranti economici”, i corridoi umanitari e i reinsediamenti organizzati dall’Unhcr per i rifugiati più vulnerabili. Le evacuazioni umanitarie e i voli di trasferimento in Niger e Ruanda, dove le persone attendono di essere reinsediate nei paesi che accettano le quote, sono stati interrotti a singhiozzo dal 2020 per decisione libica. Sono ripresi il 4 novembre 2021, un mese dopo l’inizio della protesta. Nelle cinque settimane successive 1.640 persone hanno potuto lasciare la Libia in sicurezza. Ma i rifugiati registrati presso l’Unhcr nel paese nordafricano sono oltre 40mila. “Siamo tutti vulnerabili, rischiamo tutti la vita ogni giorno”, afferma Yambio. Durante le proteste ci sono stati momenti di tensione tra Unhcr e rifugiati. L’Alto commissariato ha denunciato episodi di violenza da parte di alcuni manifestanti e sospeso le attività al Cdc e, nei primi dieci giorni di dicembre, al quartier generale dove effettua le registrazioni. I rifugiati affermano che l’Unhcr non li tutela dalle violenze e non appoggia le loro rivendicazioni. Il capo missione Jean Paul Cavalieri ha dichiarato di non ritenere l’evacuazione un’ipotesi praticabile e che le soluzioni vanno trovate in Libia, facendo pressioni sulle autorità affinché rispettino i diritti umani e mettano fine alle detenzioni arbitrarie. Allo stesso tempo ha riconosciuto che Unhcr non è in grado di proteggere i rifugiati. Le autorità libiche hanno un atteggiamento ostile verso l’organizzazione e rifiutano di stipulare un accordo ufficiale con l’agenzia Onu. Il 2 gennaio il Consiglio nazionale libico per le libertà civili e i diritti umani ha pubblicato un comunicato in cui afferma che le attività dell’Unhcr sono illegali perché Tripoli non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Associazioni e Ong di diverse città hanno risposto con una nota congiunta contestando tale argomentazione. Intanto nel Paese che il 24 dicembre avrebbe dovuto celebrare elezioni poi rimandate sono ripresi gli arresti di migranti, comprese donne e bambini, accusati soltanto di non essere in regola con i documenti. Nuovi raid sono stati denunciati nei primi giorni del 2022 a Sabratha e Tripoli. Il Cdc ha ormai chiuso definitivamente i battenti e i manifestanti temono che questo possa dare il via ad attacchi da parte delle milizie. Mantengono il presidio e continuano a invocare aiuto. Ma nessuno vuole davvero ascoltare i rifugiati che si auto-organizzano e lottano. Anche se chiedono solo un trattamento degno di esseri umani. Siria. Il Captagon e le droghe di Stato: ecco come i regimi restano in sella di Camille Eid Avvenire, 8 gennaio 2022 Nel 2021 trovati 250 milioni di pillole dirette nel Golfo: 18 volte più di 4 anni fa. L’Occidente è invaso. La produzione siriana è gestita da Maher al-Assad, fratello di Bashar. Libano nuova rotta Sulle ceneri della Siria, distrutta da oltre dieci anni di guerra, sta crescendo l’ultimo narco-Stato del mondo. L’allarme arrivato dal New York Times che, grazie a decine di interviste, ha fatto luce su un traffico multimiliardario che oltrepassa ormai i confini del Paese mediorientale non ha che arricchire di particolari quanto ormai era evidente da tempo. Il prodotto di punta è il Captagon, chiamato localmente Abu Hilalain “quello con due mezzelune”, in riferimento alle due “C” contrapposte incise sulle pillole. Il Captagon, un’anfetamina originariamente usata per curare il deficit di attenzione e la narcolessia, assiste a un boom di consumo tra i giovani delle petrolmonarchie del Golfo, con 250 milioni di pillole sequestrate solo nel 2021: 18 volte più di 4 anni fa. La pasticca costa sui 22 euro ma una sola “basta per ballare tutto il fine settimana”, come racconta al quotidiano statunitense un partecipante a un rave clandestino organizzato a Riad. Le autorità saudite accusano il Libano (e in maniera implicita Hezbollah) di fungere da punto di transito alle esportazioni illegali e hanno perciò sospeso, lo scorso aprile, tutte le importazioni di frutta e verdura provenienti dal Libano in seguito al sequestro di oltre 5 milioni di pillole dissimulate all’interno di melograni. La fantasia dei trafficanti si è, infatti, sbizzarrita nel cercare sempre nuovi nascondigli. Nei giorni scorsi, i doganieri di Dubai e Beirut hanno sequestrato due maxi-carichi di Captagon nascosti rispettivamente all’interno di finti limoni e arance, mentre quelli siriani bloccavano mezza tonnellata di pasticche dissimulate in pacchetti di spaghetti e finte torte. Secondo il Centre for Operational Analysis and Research, i sequestri di Captagon avvenuti nel 2020 ammontavano a 3 miliardi di euro, trenta volte l’introito ricavato dalla prima esportazione lecita della Siria, l’olio d’oliva. L’Occidente è ormai invaso dalle pasticche. L’”affare”, spiega ancora la testata americana, sarebbe gestito dal generale Maher al-Assad, fratello più giovane del presidente Bashar e comandante della Quarta Divisione corazzata, che ne sovrintende la produzione a Tartous e Homs e la distribuzione attraverso il porto di Lattakia. Nel traffico sono coinvolti anche uomini d’affari vicini al governo di Assad e colpiti dalle sanzioni Usa, come Amer Khiti e Khodr Taher bin Ali, entrambi arricchitisi notevolmente durante la guerra. La Siria non è nuova al traffico di droga. Negli anni Novanta, la valle libanese della Beqaa, sotto controllo siriano, era il principale produttore di hashish nella regione. Ma è soprattutto a partire dal 2011, con l’esplosione della guerra civile, che il Paese si è lanciato nella produzione massiccia di stupefacenti, anche per risollevare un’economia in caduta libera come ora. I siriani ci trovavano, e ora ancor di più con la crisi economica ci trovano, un terreno particolarmente fertile: non solo materie prime facilmente reperibili e uno sbocco sulle rotte mediterranee verso l’Europa, ma anche una comoda situazione di caos. Il traffico non ha risparmiato l’Italia. Nel luglio 2020 “il più grande sequestro di anfetamine a livello mondiale” è stato intercettato al porto di Salerno proveniente dalla Siria. La merce - ben 14 tonnellate (84 milioni di pastiglie) del valore di un miliardo di euro - è stata scoperta in tre container di cilindri di carta per uso industriale. Gli inquirenti avevano evocato anche un ruolo del Daesh, cui si sarebbero rivolte mafie locali trovatesi a corto di droghe tradizionali a causa del lockdown. Kazakistan. La rivolta del gas conta le sue vittime di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 gennaio 2022 Finirà molto peggio che nel 2011 a Zhanaozen, quando la polizia uccise almeno 14 manifestanti in quello che era stato, fino all’inizio di quest’anno, il momento più grave di crisi del Kazakistan, lo stato del padre-padrone Nursultan Nazarbayev. Con ogni probabilità, quel numero è stato già superato (gli organi di stampa filogovernativi parlano di “decine di aggressori liquidati” e lo stesso presidente Tokayev di “centinaia”), anche perché alle forze di sicurezza è stato impartito l’ordine di sparare proiettili veri contro la folla senza preavviso. Ci sono diverse vittime anche tra le forze di sicurezza. Oltre un migliaio sono i feriti, quasi 4000 gli arresti nei primi cinque giorni delle proteste, via via fattesi violente dal 2 gennaio, contro l’improvviso aumento del prezzo del Gpl, ieri nuovamente calmierato. Le autorità dello stato dell’Asia centrale hanno imparato che la prima azione repressiva è quella di bloccare Internet, per poter sgomberare le piazze senza occhi indiscreti e ostacolare le successive manifestazioni. Sono seguite le successive azioni: dichiarazione dello stato d’emergenza, invito agli organi di stampa a “non violare la legge”, delegittimazione delle proteste come “terrorismo” e richiesta di aiuto. Il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev ha infatti invocato l’applicazione del Trattato per la sicurezza collettiva, l’alleanza difensiva che lega la Russia ad altri stati dello spazio ex-sovietico. Gli alleati sono puntualmente arrivati. Questa mattina le autorità locali hanno dichiarato che il collegamento alla rete Internet è stato ripristinato e che l’ordine costituzionale è stato “per lo più ristabilito”. A quale prezzo lo sapremo, se lo sapremo, nei prossimi giorni. Australia. Il rifugiato nell’hotel-prigione. “Tutti pensano a Djokovic… io sono qui da nove anni” di Enrico Franceschini La Repubblica, 8 gennaio 2022 Mehdi Ali, un profugo iraniano detenuto da quando aveva 15 anni nella struttura trasformata in centro di detenzione per immigrati dove è stato traferito anche il campione serbo. Ora ha 24 anni. “Non abbiamo mai visto tanti giornalisti e tante telecamere, che delusione rispetto all’interesse nei nostri confronti”, dice al Guardian. “Novak Djokovic si dichiara un prigioniero perché passerà qui dentro nove ore o magari nove giorni, ma alcuni di noi ci sono da nove anni”. Il braccio di ferro tra Novak Djokovic e le autorità australiane ha attirato l’attenzione sugli altri “ospiti” del Park Hotel, l’albergo di Melbourne adibito a centro di detenzione per rifugiati a cui si è aggiunto il campione di tennis serbo in attesa di capire se potrà giocare all’Open di Australia o dovrà tornare in patria per il suo apparente rifiuto di vaccinarsi. “Tutti adesso chiedono come si trova Novak, ma non chiedono di noi, che siamo trattenuti in questo posto da mesi e anni”, dice Mehdi Ali, un profugo iraniano che ha presentato richiesta di asilo ma è di fatto prigioniero dell’hotel dal 2013. “Non abbiamo mai visto tanti giornalisti e tante telecamere”, afferma guardando in strada dalla finestra, “che delusione rispetto all’interesse nei nostri confronti”. L’hotel prigione dei rifugiati - Acquistato due anni orsono per 35 milioni di dollari da uno dei maggiori gruppi immobiliari nazionali, il Park Hotel aveva ambizioni differenti, ma le sue 107 stanze sono diventate prima un albergo per la quarantena obbligata durante il lungo lockdown per il Covid e quindi un carcere di fatto per immigrati in attesa di una decisione sul loro status. La maggior parte di quelli che vi sono alloggiati attualmente proviene da Nauru, l’isola dell’Oceania a lungo sede di un controverso campo di prigionia australiano offshore, da dove sono stati trasferiti per lo più per ragioni mediche. Ufficialmente è un “campo di detenzione alternativo” utilizzato dal governo di Canberra. Ma la maggioranza di coloro che vi risiedono non ha ricevuto le cure mediche promesse, scrive il Guardian in un servizio da Melbourne. E quella che doveva essere una permanenza provvisoria si è trasformata in una prigionia a tempo indeterminato. Il caso di Medhi Ali, già sollevato da organizzazioni per i diritti umani, è uno dei più eclatanti: profugo iraniano, ha compiuto recentemente il suo 24esimo compleanno chiuso nella spartana stanza in cui arrivò a 15 anni. Nove compleanni da detenuto - “Nove compleanni da detenuto”, racconta al quotidiano londinese. “Ho compiuto qui 16 anni, 17, 18, 19, 20 e via di seguito. Cerco di trovare il modo di riempire le mie giornate per sopravvivere. Se riesco a dormire, dormo più che posso, altrimenti fumo una sigaretta, guardo un film, leggo un libro. Ma in genere non faccio nulla, rimango steso nel letto a occhi aperti”. Appartenente all’etnia araba awhazi, una minoranza perseguitata in Iran, nel 2013 i familiari lo aiutarono a emigrare clandestinamente per via di mare, nella speranza di trovare una vita migliore dall’altra parte del mondo. Da allora è stato detenuto in base alle leggi australiane, a Nauru, a Brisbane e soprattutto a Melbourne, senza trascorrere un solo giorno di libertà: pur non essendo incriminato per alcun reato, rimane in un limbo. “Il tempo passa ed è davvero triste che la mia gioventù svanisca così”, afferma, “non vorrei essere un uomo di mezza età quando uscirò di qui”. In teoria c’è un accordo con gli Stati Uniti che sarebbero pronti a dargli asilo, ma il procedimento è lento e non si sa quando verrà trasferito. Mehdi sostiene di essere stato picchiato e torturato, ha visto compagni di prigionia darsi fuoco per disperazione, tiene un profilo su Twitter per pubblicizzare la sua situazione, che non è unica ma tipica di molti rifugiati del Park Hotel. L’albergo che, da qualche giorno, attira l’attenzione del mondo a causa di Djokovic.