È arrivata l’ora di cambiare il carcere di Mauro Palma* La Stampa, 7 gennaio 2022 Il nuovo anno ha iniziato il cammino, nei suoi primi due giorni, con due persone detenute che si sono suicidate: a Salerno e a Vibo Valentia. Storie diverse su cui è inopportuna qualsiasi congettura proprio per il rispetto che si deve a scelte così estreme. Ma ciò non fa venir meno la necessità di una riflessione generale sul carcere e sull’accentuata difficoltà attuale di chi al suo interno vive e anche di chi vi lavora. Perché una persona privata della libertà da parte dell’autorità pubblica è a questa affidata per la tutela dei suoi diritti, pur nella specificità della reclusione: in primo luogo la sua vita, la sua integrità e la sua dignità. E perché chi lavora in un così complesso sistema ha diritto di avere una direzione chiara del proprio impegno e sicurezza nell’operare. L’interrogativo inevitabile posto da queste rinunce alla propria vita - più di una a settimana nell’anno appena trascorso - riguarda la fisionomia attuale del nostro sistema di detenzione. Una domanda essenziale oggi perché è giunto il tempo di far corrispondere alla positiva ripresa di una riflessione sull’aderenza dell’esecuzione penale al suo profilo costituzionale, ultimamente più volte evidenziata da governo e amministrazione, concreti passi attuativi che migliorino il sistema nel suo complesso: dalle condizioni di chi vi opera, alla diminuzione delle tensioni, alla delineazione di un profilo chiaro del tempo della detenzione. Soprattutto del suo non essere una mera sottrazione di tempo vitale. Come ancora troppo spesso risulta essere. Con questa tensione a superare il disagio che oggi pervade la gran parte degli Istituti, le persone attente al mondo della detenzione hanno guardato i lavori della Commissione insediata dalla Ministra della giustizia in settembre e che ha ora prodotto una corposa relazione con l’indicazione di azioni da intraprendere. Guidata dal professore Marco Ruotolo ha lavorato lungo il binario dell’aderenza costituzionale dell’esecuzione penale, individuando tre linee di interventi, che prevedono responsabilità e tempi diversi: la prima indica le possibili azioni - ben trentacinque - che possono incidere positivamente sulla vita detentiva di ogni giorno e che sono realizzabili sin da oggi; la seconda quelle che richiedono un aggiornamento del regolamento della detenzione; la terza gli interventi su alcune norme. Se per quest’ultima forse occorre attendere un complessivo chiarimento dello spazio di agibilità politica, già per quelle azioni che richiedono modifiche regolamentari ci si può muovere con quella speditezza che la Ministra ha garantito di voler ora mettere in campo. Le azioni che incidono sulla quotidianità e non richiedono interventi normativi riguardano, per esempio, la semplificazione delle autorizzazioni per ricoveri ospedalieri, la possibilità di permessi per eventi non solo di particolare “gravità” ma anche di particolare “rilevanza” per la vita familiare della persona ristretta, la ridefinizione del regime di sorveglianza particolare anche per affrontare il tema delle aggressioni, i colloqui a distanza che non incidano sul numero complessivo dei colloqui, la rappresentanza dei detenuti per alcune specifiche materie, la creazione di unità regionali per il lavoro penitenziario. A questi e altri importanti aspetti si aggiungono quelli altrettanto rilevanti della revisione del regolamento che toccano temi quali l’accesso alle tecnologie, la continuità dei percorsi al riparo da trasferimenti che possano interromperla, l’introduzione di meccanismi di mediazione e riparazione nei procedimenti disciplinari; solo per citarne alcuni. Per questi interventi il percorso può essere rapido e deve esserlo per aprire la via a quegli interventi normativi, limitati e necessari, che ridiano fisionomia al nostro sistema detentivo. Sono sei le direttrici: la gestione dell’ordine e della sicurezza, potenziando il sistema di videosorveglianza; la tutela della salute con particolare attenzione al disagio psichico; l’estensione delle tecnologie; il lavoro e la formazione professionale; l’effettività dei diritti. L’ultima, ma fondamentale, riguarda la formazione del personale, sia iniziale, sia nel corso di un difficile e sottovalutato lavoro, nelle sue diverse sfaccettature professionali: tutte ugualmente essenziali. Una traccia di speranza all’avvio di un anno che deve saper rispondere subito alla richiesta di voltare pagina che sale dalle nostre deprimenti carceri. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Nessuno tocchi Caino. Nuovo anno, stessa missione: guerra alla santa inquisizione di Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 7 gennaio 2022 Dopo il IX Congresso nel carcere di Opera, abbiamo approvato una mozione che ci impegnerà ancora nel combattere a fondo l’Antimafia deteriore, la tortura della prigione, la cultura della vendetta Non vogliamo un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale. Supportateci in tanti. Abbiamo appena concluso il nostro IX Congresso nel Carcere di Opera, un congresso davvero straordinario per il numero dei partecipanti, per il prestigio degli ospiti che hanno preso la parola, per la qualità del dibattito e l’emozione suscitata dalle testimonianze, in particolare, dei detenuti. Alla fine, abbiamo approvato una Mozione Generale che impegna noi tutti, per i prossimi due anni, a disinnescare quell’arsenale terribile di leggi e misure di emergenza, di pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi che, negli ultimi trent’anni, il sistema inquisitorio dell’antimafia ha instaurato nel nostro Paese. Continueremo, quindi, e rafforzeremo le iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di ricorso alle alte giurisdizioni nazionali e sovranazionali per superare l’armamentario monumentale, simbolico e ciò nondimeno distruttivo, della “guerra alla mafia”: le informazioni interdittive, le misure di prevenzione e lo scioglimento dei comuni per mafia; l’ergastolo ostativo; le misure di sicurezza detentive nelle cosiddette “case lavoro”; il 41 bis e le altre forme di isolamento senza alcun significativo contatto umano e per un tempo prolungato e indefinito. Dopo il libro che abbiamo appena pubblicato con Il Riformista sui torti e i tormenti della Santa Inquisizione Antimafia, “Quando prevenire è peggio che punire”, nei primi mesi di quest’anno uscirà un nuovo libro frutto della sessione del Congresso di Opera “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”, titolo ispirato dalla visione di Gustav Radbruch più volte richiamata da Aldo Moro. Con la nonviolenza, che è amore innanzitutto - diceva Mariateresa Di Lascia - nei confronti del nemico, muteremo la violenza del potere. Con la nonviolenza, porremo fine alla caccia alle streghe della Santa Inquisizione Antimafia, a quei processi “preventivi” e castighi sommari che sono spesso più distruttivi di quelli penali. Con la nonviolenza, romperemo quella “catena perpetua”, l’ergastolo mentale che costringe ancora a pensare che alla violenza e al dolore del delitto debbano necessariamente corrispondere una violenza e un dolore eguali e contrari, quelli del giudizio e del castigo propri del diritto penale. È questa la nuova frontiera, il senso della lotta di “Nessuno tocchi Caino”: dopo la pena di morte e la pena fino alla morte, superare anche la morte per pena e lo stesso istituto della pena, il carcere, che è diventato ormai un luogo strutturalmente di tortura e patimenti, di afflizione e trattamenti inumani e degradanti, un “campo di concentramento” di tutto ciò che nel corso della storia abbiamo abolito perché contrario al senso di umanità: dalla tortura alla pena di morte, dai lazzaretti ai manicomi. Per portare almeno un po’ di ristoro e di luce in questa realtà, dal 5 al 30 dicembre, Rita Bernardini ha condotto uno sciopero della fame volto all’approvazione da parte del Parlamento e del Governo di misure sempre più necessarie e urgenti per far fronte alle condizioni inumane e degradanti in cui versano le carceri del nostro Paese a causa del sovraffollamento e del collasso del sistema sanitario penitenziario. Come faremo a cambiare questo regime, questi regimi, questo mondo, queste realtà? Faremo come sempre: penseremo, sentiremo, agiremo, in una parola, vivremo nel senso e nel modo in cui vogliamo vadano le cose! Con Spes contra spem, con l’essere speranza al di là di ogni speranza, con l’essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, è possibile proiettare fuori di noi, riflettere attorno a noi quello che abbiamo creato dentro di noi: quello che pensiamo, quello che sentiamo, quello in cui crediamo. Se sapremo darci questa regola, se riusciremo in questa linea di condotta, forse non possiamo dire quando ce la faremo, ma quel che è certo è che ce la faremo. Soprattutto, se continueremo a essere insieme, umanamente - prima che politicamente - uniti. Di anno in anno, negli ultimi tre anni, lo siamo stati e, perciò, abbiamo registrato un ritmo sempre crescente di adesioni alla nostra associazione. Per far fronte agli impegni e agli obiettivi ambiziosi che ci siamo dati per i prossimi due anni, quelli che precedono il X Congresso, occorre esserlo, occorre essere ancora di più. Per questo chiediamo a tutti e a ciascuno di mobilitarsi in una campagna straordinaria di raccolta fondi e iscrizioni a Nessuno tocchi Caino. Auguriamoci un Buon Anno. Che sia di vita e di speranza, di giustizia e libertà. Aiutiamo chi vuole rialzarsi. La vendetta non è cristiana di Don Vincenzo Russo* Il Riformista, 7 gennaio 2022 C’è un pensiero comune, diffuso, popolare, secondo il quale le dure condizioni di vita in carcere sono inevitabili, anzi, giuste, poiché parte integrante della pena che deve colpire chi si è macchiato di un crimine. È una idea di riparazione come contrappasso: tu hai fatto soffrire e tu devi soffrire nello stesso modo, anzi, di più. Solo così la vittima può avere “soddisfazione” per il torto subito. Questo principio, che poco si differenzia da quello della “vendetta”, si accompagna a un altro mantra giudiziario: la certezza della pena. Tradotto: il reo deve pagare fino in fondo e soffrire sino all’ultimo giorno previsto dalla condanna. Niente sconti, niente opportunità alternative. La condanna: ecco tutto origina da essa, che è un giudizio! Non finisco mai di stupirmi (e un poco di indignarmi) quando mi accorgo che questa visione si fonda su una prospettiva del tutto capovolta della realtà: sia rispetto allo Stato e al suo diritto di condannare e punire, sia rispetto alle persone da affliggere e, da ultimo, ma non meno importante almeno per me, rispetto alle indicazioni di una vita cristiana. Fin dai primi anni della mia esperienza di cappellano nel carcere di Sollicciano, durante i colloqui con i detenuti, ricevevo e ricevo sempre professioni di innocenza. Tutti, ma proprio tutti, si proclamano tali. Inizialmente non sapevo come interpretare queste convinzioni. Poi, col tempo, entrando in profondità nelle storie tragiche di quelle persone che non avevano nulla, ho capito il loro stupore per tanta durezza, freddezza, inumanità, che non possono essere meritate (inflitte) per nessun tipo di errore commesso. “Sono innocente”, appunto. In quell’affermare la loro innocenza, ho colto anche una legittima aspirazione: non volevano nascondermi le colpe, il loro era il racconto di una speranza. Negli anni ho fatto mia questa prospettiva ribaltata, del tutto opposta a quella del mondo corrente e della macchina giudiziaria: una prospettiva che riconosco come assolutamente cristiana. Chi ha commesso un errore ed è caduto deve potersi rialzare, deve trovare una mano che lo aiuti a risollevarsi. Se ha provocato sofferenza, non bisogna dimenticare che il dolore appartiene anche a lui: il cadere, i fallimenti, non sono mai privi di sofferenza e quasi sempre sono il culmine di una storia tormentata. Prolungare e istituzionalizzare tale condizione di sofferenza, può giovare a qualcuno realmente? O diventa crudele tortura verso una persona che ha il diritto di continuare il suo cammino, di non perdere fiducia in sé e speranza nel futuro, di vivere con dignità la vita che ha ricevuto in dono? Tra i tanti interventi di Papa Francesco sulla vita delle persone recluse mi piace ricordare questo: “Le carceri abbiano sempre una finestra e un orizzonte... nessuno può cambiare la propria vita se non vede un orizzonte”. Quanta sofferenza, per me, nel constatare che queste finestre mancano, che sono murate dall’assurdo garbuglio di una selva di leggi, lacci e lacciuoli. Manca un orizzonte, per guardare oltre, per non smettere di vivere. Quando varco la soglia di un carcere sono consapevole di entrare in un ambiente di confinamento e contenimento, finalizzato a separare, dividere, isolare, allontanare. Vi incontro persone abbandonate, dimenticate, spesso alienate in una condizione di assenza di progetto, di prospettiva. Sono rinchiuse in un non-spazio, un non-tempo, non sanno più nulla di sé né di cosa li aspetti, non sanno più nulla delle loro famiglie, delle loro origini, di quel mondo da cui provengono dove già era preclusa la speranza. Entrano in un contenitore che li affligge, dopo aver vissuto in altri contenitori, quelli delle periferie, che sono spesso vere e proprie carceri a cielo aperto. Ancora, con le parole di Papa Francesco, è possibile descrivere la negatività dell’Istituto carcerario: “cultura dello scarto”, “spazi per rinchiudere nell’oblio”, “luoghi di spersonalizzazione”. A cosa serve una realtà così? A chi giova? Cosa porta alla società l’afflizione delle persone? Le persone che incontro nei miei colloqui hanno perso la speranza, se ne avevano una all’inizio della loro vita: spesso si nasce segnati e predestinati. Io non voglio perdere la speranza, ma fatico a dare loro una risposta, sento il peso della loro richiesta di aiuto, della loro necessità di affidamento, di credere in qualcosa, in qualcuno. Le carico su di me, consapevole della enormità del compito e della impossibilità di affrontare da solo la sfida. Quelle mura però vanno abbattute, perché impediscono la relazione e producono abbandono. Quelle finestre vanno riaperte sul mondo, affinché diventino possibili spazi relazionali di vita vera. Bisogna fare in modo che chi vive quell’esperienza, alla fine del percorso, non si ritrovi nello stesso tragico punto da cui era partito. *Cappellano del carcere di Opera “Macché veti di noi toghe, è la politica a non decidersi sulla riforma del Csm” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 gennaio 2022 La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario non è stata discussa neppure nell’ultimo Consiglio dei ministri. Ne parliamo con il togato Giuseppe Marra, che nel plenum di Palazzo dei Marescialli rappresenta il gruppo “Autonomia e Indipendenza”. Che ne pensa di questa ennesima fumata nera? Immagino che l’emergenza covid abbia inciso sull’ordine del giorno di Palazzo Chigi. Allo stesso tempo sono portato anche a credere che si stia prendendo tempo per cercare di superare quei dissidi all’interno della maggioranza in merito alla proposta governativa di modifica della legge elettorale del Csm. Inoltre, forse, con le elezioni del Capo dello Stato alle porte, e quindi in una situazione di contrapposizioni politiche, mettere sul tavolo un altro elemento divisivo come la riforma del Csm non è sembrato opportuno. È plausibile l’interpretazione secondo cui la politica non va avanti per l’ostilità dell’Anm alla riforma? Non condivido questa lettura dei fatti che è peraltro priva di riscontri. L’Anm ha espresso le proprie posizioni in tutte le occasioni e auspico che insieme all’avvocatura venga ascoltata in sede parlamentare. Tuttavia, immaginare che i magistrati facciano una attività di lobbying per bloccare le riforme è una ipotesi priva di fondamento, tanto per trovare un responsabile del ritardo. Quello che invece va detto è che da quando è stato approvato il testo base in commissione Giustizia, ci sarebbe stato tutto il tempo per portare a casa una riforma. Purtroppo governi multicolore hanno al loro interno visioni contrapposte, e ciò è all’origine del ritardo a cui stiamo assistendo. Mi auguro quindi che il proposito della ministra Cartabia di dare spazio al Parlamento per la discussione sarà concretizzato, scongiurando l’eventualità che una riforma così importante per un organo di rilevanza costituzionale come il Csm venga fatta a colpi di fiducia. Spero anche che questa volta non venga chiesto al Csm un parere quando la riforma è già quasi in Consiglio dei ministri, come avvenuto per quelle del penale e della magistratura onoraria. Nel rispetto della leale collaborazione tra organi dello Stato, la richiesta di parere dovrebbe essere fatta molto prima. Lei addebita il ritardo alla politica divisa, altri lo spiegano con una politica ancora asservita alla magistratura. Come vede i rapporti di forza tra i due fronti? A volte i rapporti possono apparire critici, per colpa anche di circostanze inspiegabili, come le polemiche su singole vicende processuali, che danno adito ad attacchi alla magistratura. I rapporti invece dovrebbero essere quelli previsti dalla Costituzione: ognuno deve rimanere nel proprio ambito di lavoro. Mi collego al tema principale dell’intervista per dire che qualcuno continua ad addossare le responsabilità del ritardo ai magistrati distaccati al ministero, ma se siamo a questo punto è perché due governi Conte sono caduti e i partiti non si sono più messi d’accordo. Ma in tutto questo cosa c’entra la magistratura? Penso che la maggior parte dei magistrati desideri riforme risolutive su questioni cruciali come le cosiddette porte girevoli e lo strapotere delle correnti nelle elezioni del Csm. Condivide la preoccupazione di parlamentari come Zanettin e Costa secondo cui di questo passo la parte della riforma sospesa a decreti attuativi salterà? Certo, condivido questo timore, ma l’obiettivo più urgente è la modifica della legge elettorale del Csm. Anche se questa parte di riforma fosse da subito vigente, c’è comunque bisogno di un ulteriore passaggio, ossia l’adeguamento dei regolamenti interni del Csm. Quindi bisogna tener presente queste esigenze di celerità affinché il Consiglio si possa rinnovare a luglio in maniera compiuta. Il dottor Tescaroli auspica maggiore attenzione da parte del legislatore sulle “molteplici situazioni di conflitto d’interessi che ruotano attorno alla figura dell’avvocato difensore”. Che ne pensa? Il valore principale dal punto di vista costituzionale è il diritto elettorale passivo: occorre garantire a tutti i cittadini, quindi anche ai magistrati e agli avvocati, la partecipazione libera alla competizione elettorale. Tuttavia è legittimo disinnescare possibili conflitti di interesse, sia per gli avvocati che per i magistrati. Un magistrato che voglia fare politica è giusto che non la svolga dove ha esercitato le funzioni. Così come, ad esempio, gli avvocati dovrebbero non poter patrocinare le cause contro lo Stato o esercitare mentre svolgono il mandato elettorale; basta prendere esempio da altri Paesi occidentali. A Tescaroli ha replicato il professor Alessio Lanzi, laico del Csm: “Non si capisce perché i pm possano partecipare alle valutazioni di professionalità dei giudici e non possano farlo gli avvocati. Sarebbe meglio non lo facessero né gli uni né gli altri”... Si potrebbero creare in astratto dei conflitti di interesse qualora un avvocato, che continua a esercitare l’attività professionale nel distretto del Consiglio giudiziario, fosse chiamato ad esprimersi in merito alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Tanto è vero che gli avvocati che fanno parte del Csm non possono esercitare, come ha correttamente ricordato il professor Lanzi. Che ne pensa però della proposta del Pd per cui, a votare sulle carriere dei giudici nel Consiglio giudiziario, sarebbe un avvocato che si farebbe portatore di una decisione presa dal Coa? Questa certamente potrebbe essere una soluzione di compromesso in quanto il voto diventa impersonale. Ma la situazione attuale è già molto simile, perché gli avvocati in qualsiasi momento, o singolarmente o come Consiglio dell’Ordine, possono fare degli esposti per segnalare delle criticità che, per quanto mi risulta, vengono presi in assoluta considerazione. Tornando alla sua precedente domanda, il professor Lanzi parte dall’idea comprensibile per l’avvocatura di separare le carriere tra pm e giudici. Ma adesso la magistratura ha una carriera unica e questo problema non sussiste. Però come ci può essere una captatio benevolentiae di un avvocato verso un giudice, la stessa cosa potrebbe farla un pm nel momento del voto... Sì, la ravviso in astratto però poi andrebbe considerata anche quella tra i giudici di primo grado e quelli di Appello, perché analogamente il giudice di primo grado ha interesse che la sua sentenza venga confermata. A me pare che il sistema funzioni coerentemente così com’è al momento. In conclusione non posso non farle una domanda sui fatti di Varese, anche perché la gip finita nel ciclone mediatica è della sua stessa corrente. Che idea si è fatto? Uno scontro all’interno della magistratura non fa bene in questo momento, forse... Non posso entrare nel merito della vicenda in quanto essendo componente della sezione disciplinare potrei essere chiamato a esprimere una valutazione, visto che la ministra ha già iniziato a richiedere accertamenti. In generale posso dire che i magistrati meno parlano e meglio è. Dovrebbero farlo solo con i provvedimenti giudiziari. Questi ultimi possono essere legittimamente criticati sui giornali, ma se si montano polemiche raccontando cose che non corrispondono al vero in merito ai passaggi procedurali, chiaramente anche un magistrato ha il diritto di difendersi quanto meno per spiegare come sono andati i fatti. E poi c’è un altro aspetto: i magistrati non hanno la sfera di cristallo, alcune circostanze purtroppo spesso non sono prevedibili. E valutare con il senno di poi è un esercizio sterile. Non approfondire correttamente certe vicende, come invece ha fatto il vostro giornale, inquina profondamente il clima e alla lunga crea danni incalcolabili alla serenità dei giudici nel prendere le decisioni, in balia dell’estrema polarizzazione tra i forcaioli e gli ipergarantisti. Le leggi Spazza-corrotti e Severino hanno ridotto la giustizia a gogna di Alberto Cisterna Il Riformista, 7 gennaio 2022 La legge trasformata in un sistema afflittivo e cieco. Era stato assolto in primo grado e condannato in appello, poi la conferma in Cassazione. Un percorso, non rettilineo che - a prescindere dal merito - ha sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo. Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista. L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se - a capo cosparso di cenere - si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino. In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto. Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui - nostro malgrado - siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazza-corrotti, dopo, hanno disegnato - forse anche a dispetto dei loro fautori - i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna. Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che - a prescindere totalmente dal merito - deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: “Natale 2021 Conoscere per decidere”. Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti. Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: “si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli... panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte”. La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, “probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro”. Se non fosse che “tutto ciò è insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care”. E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui “ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa”. I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna. La riforma Cartabia non basta a ricreare un rapporto di fiducia tra i cittadini e la giustizia malata di Antonio Mastrapasqua* Libero, 7 gennaio 2022 Sarebbe bastato molto meno dell’appuntita intervista del Direttore di questo quotidiano a Luca Palamara per mettere in crisi la fiducia dei cittadini di questo Paese nella Magistratura. Eppure, la tormenta scatenata dalle rivelazioni dell’ex presidente dell’Anm non sembra aver scalfito il “sistema”, né turbato più di tanto l’organo di autogovemo. Il Csm è rimasto al suo posto, ha comminato qualche condanna (per lo più lievi sospensioni), sopportando inchieste, indagini, veleni, dimissioni. E il suo presidente - questo spiace dirlo, e spiace che pochi lo abbiamo rammentato nei bilanci di fine settennato di Sergio Mattarella - troppo poco ha fatto per dare segni di discontinuità. L’amministrazione della Giustizia è un elemento fondamentale del rapporto tra il Paese e le sue Istituzioni. Di più: il “servizio” della Giustizia è essenziale alla vita quotidiana di cittadini, famiglie e imprese. Un sistema giudiziario efficiente e credibile è essenziale alla convivenza nel Paese e alle buone relazioni con l’estero. È appena il caso di ricordare che il basso livello di investimenti finanziari in Italia dipende in gran parte dall’inaffidabilità della Giustizia. C’è un problema noto che riguarda i tempi: l’ultimo rapporto di Bruxelles sui vari sistemi giudiziari comunitari snocciola dati impietosi per l’Italia. Il nostro Paese è il penultimo nell’Ue per i tempi della giustizia civile. In Italia per arrivare a sentenza nel terzo grado di giudizio servono 1.302 giorni, 791 per il secondo e 531 per il primo. Sommati, i tre gradi superano i sette anni. C’è chi ha stimato in 10 miliardi il peso economico della Giustizia inefficiente. Un delta recuperabile se si mettesse mano a una riforma vera del sistema; una riforma sia della Magistratura, sia dei servizi dell’Amministrazione. Al cittadino (e alle imprese) poco importa che i tempi infiniti siano imputabili alla mancata digitalizzazione, alla carenza di personale o all’inefficienza dei magistrati. Come spesso accade le inadeguatezze di qualcuno diventano alibi per tutti. Per chi ha avuto l’occasione di frequentare da vicino aule giudiziarie e palazzi di Giustizia - e qui si tratta di una testimonianza diretta, che cerco di indicare con il massimo della sobrietà, visto che mi sono liberato di tutti i pesi che mi hanno imposto sette anni fa - è facile fare elenchi, che vanno dall’arredo indecente alle incertezze che si accumulano sui tempi e sugli esiti di indagini preliminari, carcerazioni preventive, disponibilità di agende e di acquisizioni di documentazione. La cronaca di tutti i giorni consente di “spersonalizzare”. Prima ancora di toccare le indecenti commistioni tra politica e magistratura, diventa esperienza comune assistere alla scarcerazione di indagati che poi commettono delitti efferati, intercettazioni che svaniscono nel nulla, altre che risultano palesemente distorte, distribuzione di esche ai media, per denigrare gli imputati e glorificare gli inquirenti. Quando poi la misura è colma e accade l’indifendibile, non manca la solita frase che dovrebbe risultare rassicurante: “Abbiamo inviato gli ispettori”. A proposito della sezione disciplinare del Csm, Francesco Cossiga disse: “La politica è trattativa. Alla disciplinare del Csm non trattano? Se mi condanni quello non ti assolvo quello? Era così quando ero presidente. E credo che ora sia peggio”. Parole che le rivelazioni di Palamara ad Alessandro Sallusti hanno confermato anni dopo. Non ci sarà bisogno dei carabinieri attorno a Palazzo dei Marescialli (come sosteneva Cossiga), ma per ridare fiducia ai cittadini nella Magistratura certamente non basta la falsa riforma varata da Draghi-Cartabia che troppo poco innova rispetto a quella compilata dal giustizialista Bonafede. *Ex presidente dell’Inps Si torni alle cause da remoto, il virus paralizza i processi davanti ai Tar di Daniela Anselmi e Federico Smerchinich* Il Dubbio, 7 gennaio 2022 Con Omicron che sta dilagando di giorno in giorno, è lecito domandarsi se sia corretto continuare col regime delle udienze in presenza nella giustizia amministrativa o se non sia più prudente tornare alle udienze da remoto come già chiesto dall’Unione nazionale avvocati amministrativisti. Con la diffusione della variante Omicron che sta dilagando di giorno in giorno è lecito e necessario domandarsi se sia ancora corretto continuare con l’attuale regime delle udienze in presenza nella giustizia amministrativa o se non sia forse più prudente tornare alle udienze da remoto come già chiesto da Unaa (Unione nazionale avvocati amministrativisti) il 30 dicembre 2021. Come noto da qualche mese si stanno svolgendo in presenza le udienze nei Tar e al Consiglio di Stato, mentre le udienze da remoto sono possibili solamente per lo smaltimento dell’arretrato (art. 87 comma 4 bis decreto legislativo n. 104/ 2010) oppure nell’ipotesi dell’art. 7 bis d. l. n. 105/ 2021, inizialmente efficace sino al 31.12.2021 e ora prorogato al 31 marzo 2022 dall’art. 16 comma 5 del decreto “Mille proroghe” 228 dello scorso 30 dicembre. Tuttavia, attualmente la situazione pandemica si è rinvigorita, e il sistema delle udienze in presenza come regola ordinaria deve essere necessariamente (e urgentemente) rivista, in quanto sta dando vita a incertezze operative e aumentando il rischio di contagi. Come già rilevato, nel sistema vigente, l’unico meccanismo che, oltre al caso dello smaltimento dell’arretrato, consente solo in via eccezionale di ricorrere alle udienze da remoto ai sensi dell’articolo 7 bis d. l. 105/2021 può creare dei problemi pratici, perché le situazioni di impedimento delle parti processuali possono essere ben diverse e non necessariamente correlate a provvedimenti dell’autorità (come richiesto dalla norma): si pensi ad esempio alla quarantena fiduciaria per contatto con soggetti positivi al covid- 19, alla scoperta da parte dell’avvocato di essere positivo solamente a ridosso dell’udienza stessa, alla positività improvvisa di magistrati o dipendenti dei tribunali amministrativi e altre ulteriori situazioni eccezionali (che purtroppo stanno diventando ordinarie) che non consentono, a legislazione vigente, di svolgere regolarmente un’udienza in presenza. Per non parlare del fatto che, benché secondo alcuni non dovrebbe esserci alcun controllo sul green pass per gli accessi ai Tar e al Consiglio di Stato, dall’altro lato il governo ha appena predisposto un obbligo vaccinale suddiviso per fasce di età, con il rischio concreto che coloro che non sono riusciti ad accedere alla dose booster prima della scadenza del proprio green pass, o che per motivi di salute non possono vaccinarsi, rischiano di non poter esercitare la professione nelle modalità canoniche né tantomeno comparire in presenza in udienza o svolgerla da remoto ai sensi dell’art. 7 bis d. l. n. 105/2021. Insomma, attualmente nell’organizzare un’udienza in presenza ci sono mille e più varianti da considerare, più della stessa Omicron, che non vengono rilevate dalla legislazione vigente. Per non parlare del fatto che sia stata prorogata la possibilità di svolgere smart working per 3- 4 giorni a settimana o che inevitabilmente dal prossimo lunedì 10 gennaio molte Regioni italiane cambieranno colore verso l’arancione, con ulteriori restrizioni a spostamenti e attività. Oltre agli effetti pandemici che si stanno registrando anche tra i magistrati. Si ritiene che in tale scenario, il solo art. 7 bis d. l. n. 105/ 2021, che consente discrezionalmente ai presidenti di Sezioni dei Tar, Consiglio di Stato e Cgars di optare per l’udienza da remoto, non è in grado di superare le incertezze e garantire il corretto svolgimento delle stesse. Invero, in un sistema che non ammette più le note di udienza, si stanno registrando casi in cui l’avvocato si rende conto di essere positivo o essere stato a contatto con un positivo solo poco prima dell’udienza, senza possibilità di svolgere la stessa o di chiedere la discussione da remoto, o per iscritto il passaggio in decisione. Si evidenza al riguardo che l’art. 7 bis citato, rinviando all’art. 13 quater delle disposizioni di attuazione al C. p. a., richiede che la segreteria comunichi agli avvocati almeno tre giorni prima della trattazione l’avviso e l’ora delle modalità di collegamento. Un inciso anacronistico che non è più attuabile considerando l’imprevedibilità delle contingenze dovute al virus che non permettono l’organizzazione preventiva né di riuscire a richiedere la trattazione da remoto con anticipo. Così come non più attuale, e anzi assorbito dal protocollo di intesa sottoscritto a fine luglio, risulta l’inciso dell’art. 13 quater citato per cui la parte può richiedere il passaggio in decisione solo fino alle ore 12 del terzo giorno antecedente l’udienza. Alla luce di quanto finora brevemente descritto, senza nulla togliere all’importanza di svolgere le udienze in presenza, si ritiene che al momento l’unica via perseguibile sia sic et simpliciter quella di prevedere lo svolgimento generalizzato delle udienze da remoto, uno strumento che negli ultimi anni si è dimostrato molto utile e particolarmente efficiente per la giustizia amministrativa, consentendole di continuare l’attività nonostante la pandemia. Per tale motivo, a salvaguardia di tutte le parti processuali e del corretto svolgimento delle udienze, è necessario che in sede governativa e legislativa si proceda a reintrodurre sino al 31 marzo 2022 l’udienza da remoto come metodo ordinario di trattazione orale delle cause nella giustizia amministrativa, senza lasciare i singoli Tar a dover decidere caso per caso ai sensi dell’art. 7 bis d. l. 105/ 2021 se svolgere o meno in presenza le udienze. In alternativa si potrebbe valutare anche la possibilità di ricorrere all’udienza mista, con avvocati o magistrati contestualmente in presenza e/ o collegati da remoto che, a nostro avviso, potrebbe essere già possibile con l’attuale previsione contenuta nell’articolo 7 bis del d. l n. 105/ 2021. Vi potrebbe essere il caso che un componente del collegio o un difensore non possano partecipare in presenza per problematiche di carattere eccezionale legate all’emergenza covid. In tale situazione, o sussiste la possibilità di rinviare la trattazione della causa, ovviamente se tutte le parti sono d’accordo, ovvero di verificare se sussistano dei rimedi in grado di superare tale situazione (l’art. 7 bis parla, infatti, di situazioni eccezionali non altrimenti fronteggiabili). Una circostanza come quella sopra descritta (e cioè un magistrato o un difensore che non possano partecipare a un’udienza in presenza) potrebbe essere fronteggiata attraverso un collegamento da remoto del solo soggetto che non può essere presente, mentre gli altri potrebbero invece partecipare ugualmente all’udienza in presenza. Si potrebbe utilizzare un maxischermo nell’aula del tribunale se esistente oppure si potrebbe ricorrere ad un computer in dotazione dell’Amministrazione, da collocare nell’aula di udienza, e ciò al fine di consentire ai presenti di vedere e interloquire con il soggetto collegato da remoto (ci risulta che tale evenienza sia già stata sperimentata al Tar Piemonte all’udienza del 24 novembre 2021). È una via percorribile ma foriera, a nostro avviso di indubbie complicazioni, anche perché non prevista espressamente dalla legge, mentre in un periodo come questo dovrebbe essere privilegiata la soluzione più semplice e cioè il ritorno alle udienze da remoto tout court fino al 31 marzo 2022. Quello che si dovrebbe invece evitare con forza, se il Governo ritenesse di non modificare il disposto dell’art 7 bis del d. l. 105/ 2021, è che nello stesso giorno di udienza e nello stesso Tribunale vi siano alcune cause trattate integralmente da remoto ed alcune solo in presenza. Per un difensore che dovesse patrocinare sia le une che le altre sarebbe un serio problema perché nel momento in cui avesse finito di discutere una causa in presenza, dovrebbe velocemente allontanarsi per collegarsi con il proprio computer da remoto. Ma questo non è possibile nella stessa aula del Tribunale né in aule adiacenti, in quanto è noto che per evitare assembramenti non è possibile stazionare nel plesso giudiziario una volta terminata la discussione della causa. Parimenti appare difficile che un difensore, soprattutto se non risiede nella sede del Tribunale, possa recarsi presso uno studio o un luogo per collegarsi con la dovuta tranquillità e riservatezza. Pertanto si auspica che, nell’ipotesi in cui il Presidente del Tribunale o della Sezione del Consiglio di Stato disponga la trattazione da remoto in presenza dei presupposti previsti dall’art 7 bis più volte citato, lo faccia per tutte le cause fissate in quell’udienza, quantomeno per tutte le cause in cui compaia lo stesso difensore. Ciò dimostra una volta di più, in termini di semplificazione, l’esigenza di ripristinare fino alla scadenza del periodo di emergenza le udienze da remoto per il processo amministrativo. *Associazione avvocati amministrativisti liguri “Carlo Raggi” - Unione nazionale avvocati amministrativisti I mille “errori funesti” (ogni anno) della giustizia che costano vite intere di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 gennaio 2022 “Il libro nero delle ingiuste detenzioni” di Stefano Zurlo racconta nove casi emblematici. Una lettura consigliata a chi si appresta a vestire la toga perché nulla quanto una sequenza di gravi abbagli “avverte i giudici sui pericoli del potere”. Un ex consigliere regionale del Piemonte, Angelo Burzi, si uccide alla vigilia di Natale denunciando di essere vittima di un caso di malagiustizia (era stato condannato in appello in un processo in cui, in primo grado, era stato assolto). L’ex governatore della regione Basilicata, Marcello Pittella, viene assolto in un processo che tre anni fa lo portò 87 giorni agli arresti domiciliari e lo costrinse alle dimissioni. Sono queste le due vicende più note che la giustizia italiana ha consegnato alle cronache sul finire del 2021. Vicende drammatiche, ma che purtroppo non costituiscono una novità. Tra il 1991 e il 2020 circa 30 mila persone in Italia sono state arrestate per poi essere, spesso molti anni dopo, assolte o prosciolte. Quasi mille all’anno. È a questo esercito di reduci della malagiustizia italiana che è dedicato l’ultimo libro del giornalista Stefano Zurlo, intitolato “Il libro nero delle ingiuste detenzioni” (Baldini+Castoldi). Il dato, 30 mila persone arrestate o condannate ingiustamente, è mostruoso, non tanto per le pesanti conseguenze determinate dal fenomeno sulle casse dello stato (che negli ultimi tre decenni ha dovuto pagare indennizzi e risarcimenti per oltre 870 milioni di euro, una media di 29 milioni all’anno), quanto per le devastazioni prodotte da tutto ciò sulla vita delle persone coinvolte, sotto ogni punto di vista: umano, familiare, sociale, economico, reputazionale (l’onnipresente gogna mediatico-giudiziaria, la cui inciviltà descriviamo da tempo su queste pagine). Nel suo libro, Zurlo racconta nove casi emblematici di vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere assolti) e di errori giudiziari (cioè coloro che, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva, vengono assolti in seguito a un processo di revisione). “E’ un errore, state sbagliando, sono innocente”, è una delle frasi che risuonano con maggiore frequenza nelle pagine del libro. E si fa fatica a non provare un brivido, a non rintracciare una triste analogia con quanto avvenuto nella vicenda di Angelo Burzi, il quale, prima di uccidersi alla vigilia di Natale, nella sua lettera-testamento si è detto “certo di essere totalmente innocente”. Il brivido diventa terrore leggendo le testimonianze raccolte da Zurlo. Si inizia con la storia di Jonella Ligresti, figlia primogenita del “re dell’edilizia” Salvatore Ligresti (morto nel 2018), prosciolta lo scorso maggio da tutte le accuse nell’inchiesta Fonsai, insieme al fratello Paolo e alla sorella Giulia. Peccato che, a causa dell’inchiesta, nel 2013 Jonella venne arrestata, per poi passare quattro mesi in carcere e altri otto ai domiciliari. Falso in bilancio e aggiotaggio informativo, le accuse. Ci sono voluti il carcere, otto anni di inchieste e di dibattimenti, una condanna in primo grado poi annullata, la perdita della compagnia assicurativa di famiglia e di tutte le altre cariche per arrivare al proscioglimento da tutte le accuse. Una via crucis che Jonella racconta, con coraggio e commozione, ricordando la sofferenza patita in carcere e fuori. Ci sono storie meno note, ma non meno incredibili e terrificanti, come quella di Pietro Paolo Melis, incarcerato diciotto anni e mezzo per sequestro di persona sulla base di un’intercettazione in cui si sentiva una voce che - anni dopo - si scoprirà non essere sua. “Mi hanno arrestato quel giorno di dicembre del 1997 che ero giovane, avevo 37 anni - racconta Melis - mi hanno messo fuori il 15 luglio 2016 che ero ormai vecchio, o quasi, 56 anni”. C’è la storia di Angelo Massaro, che in carcere da innocente ha trascorso 21 anni, uno in meno di Giuseppe Gulotta, tenuto in carcere da innocente per 22 anni sulla base di una confessione estortagli attraverso torture. Con precisione e sensibilità, Zurlo ricostruisce le tappe di queste vicende drammatiche, lasciando all’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio il compito, nella prefazione, di sollevare l’attenzione sul tema della responsabilità (di fatto inesistente) degli autori degli scempi giudiziari. Così, Nordio si spinge a suggerire la lettura del libro a chi si appresta a vestire la toga, “perché nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere” e perché “riflettere sugli sbagli dei colleghi, se proprio non si riesce a riconoscere i propri, potrebbe servire per evitare danni irreparabili ai suoi simili”. La Corte europea: l’Italia dia spiegazioni sul caso Magherini di Luigi Manconi La Repubblica, 7 gennaio 2022 Interrogazione al governo sulla morte del giovane fiorentino. “Chiarite l’uso della forza da parte dei carabinieri e le regole di polizia”. La tecnica è questa: l’uomo sottoposto a fermo, che si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle sue spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile (37 minuti nel caso di Luca Ventre di cui più oltre dirò). A completare quella manovra, il braccio di uno degli operatori (poliziotti, carabinieri, ma anche vigili urbani nella vicenda di Andrea Soldi, a Torino) serra il collo del fermato. La combinazione tra le due mosse - la compressione del torace e la stretta sulla gola - impedisce la normale respirazione e può determinare una sindrome asfittica e, infine, la morte. È quanto è accaduto, nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014, al trentanovenne Riccardo Magherini, fermato da una pattuglia di carabinieri a Borgo San Frediano, a Firenze. Nonostante fosse in stato di evidente alterazione e palesemente inoffensivo, gli venne applicata proprio quella tecnica. Potremmo definirla “codice Floyd”, perché è stato quel dispositivo a provocare la morte dell’afroamericano George Floyd il 20 maggio 2020 a Minneapolis. Ora, su richiesta della Corte europea dei diritti umani (Cedu), che ha proceduto a un preliminare vaglio di ricevibilità del ricorso dei familiari di Magherini, il governo italiano deve rispondere ad alcuni interrogativi a proposito della legittimità di quella tecnica di fermo; e del fatto che essa possa mettere in pericolo i fondamentali diritti della persona, innanzitutto quello alla vita. Dunque, si esigono chiarimenti su questioni sollevate dall’esame dei fatti, degli atti, delle sentenze e della normativa italiana, che segnalano possibili violazioni della Convenzione europea. Si tratta di una comunicazione al governo, che annuncia l’apertura di un procedimento a carico dell’Italia: un vero e proprio “atto di accusa” contro gli apparati del controllo e della repressione e contro la politica che li governa. Tra le domande poste al nostro governo, ecco le più rilevanti: l’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dello scopo perseguito (il contenimento della persona fermata)? Le autorità pubbliche hanno garantito che fosse tutelata dagli operatori la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto in questione? Le stesse autorità possono dimostrare di aver fornito agli agenti che operano in circostanze simili una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti? Come è suo solito, la Corte, nel considerare una vicenda che coinvolge quattro carabinieri, si rivolge alle nostre istituzioni, assumendo che possa discendere da esse la responsabilità dei comportamenti non legali dei membri degli apparati. Di conseguenza, ci si chiede se lo Stato italiano sia dotato “delle misure legislative, amministrative e regolamentari che definiscono le limitate circostanze in cui le forze di polizia possono far uso della forza”; e se esistano una prassi o un protocollo ai quali gli agenti debbano fare riferimento, in particolare per quanto riguarda le tecniche d’immobilizzazione e contenimento. Come si vede, si tratta di questioni delicatissime, fondamentali per una gestione equilibrata, e rispondente a criteri democratici, dell’ordine pubblico. La morte di Riccardo Magherini, infatti, non rappresenta un caso isolato. A chi scrive è capitato di interessarsi di una decina di storie simili: quelle di Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto, Andrea Soldi, Luca Ventre e altri ancora. In tutte, il ricorso al “codice Floyd” è risultato essenziale nel determinare la morte del fermato. Evidentemente, ciò ha una relazione diretta con i programmi di formazione degli operatori di polizia. Il 30 gennaio 2014, una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, raccomandava di evitare “i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona”. E si chiariva che “la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale”. Un mese dopo, la morte di Magherini. Nel 2016, a processo in corso, la circolare venne sostituita da un altro testo nel quale venivano eliminate le avvertenze sui rischi che può provocare “l’ammanettamento nella posizione prona a terra”. Ora il governo italiano ha tempo fino al prossimo 27 aprile per fornire risposte adeguate. Ed è importante sapere che, come ha scritto la Corte, questo può diventare un “impact case”: ossia un caso relativo a una questione emergente che attiene ai diritti umani; o un caso la cui conclusione potrebbe determinare un cambiamento nell’attuale legislazione. Come ha detto l’avvocato Fabio Anselmo che assiste, insieme all’avvocata Antonella Mascia, i familiari di Magherini: “Finalmente l’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo che chiedeva aiuto e della cattiva giustizia riservatagli”. Il misterioso suicidio del boss in carcere, l’agente: “Voleva collaborare” di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2022 Le rivelazioni dell’ex assistente capo della polizia penitenziaria Antonio Ciliegio ai magistrati sulla morte sospetta di Nino Gioé, avvenuto nella notte tra il 28 e il 29 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia, trovato impiccato con i lacci delle sue scarpe. “Non ho indicazioni concrete per affermare il contrario, pero? posso soltanto dire che laddove possa esserci stata una ipotesi diversa, e cioè di omicidio camuffato da suicidio, questa sarebbe potuta avvenire esclusivamente con la complicità di uno o più operatori carcerari, non essendo possibile accedere alle singole celle se non attraverso le chiavi personalizzate di ogni singolo ingresso”. L’ex assistente capo della polizia penitenziaria Antonio Ciliegio il 10 giugno 2019 è negli uffici della Dia che, su richiesta del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, lo sta interrogando sul presunto suicidio del boss di Altofonte Nino Gioé, avvenuto nella notte tra il 28 e il 29 luglio 1993 nel carcere di Rebibbia. Oggi collocato a riposo, l’assistente capo Ciliegio rivela agli investigatori che il boss siciliano, morto impiccato con i lacci delle scarpe nella sua cella, stava quasi per collaborare con la giustizia. “Ricordo molto bene il detenuto Gioé, una persona molto riservata, che impiegava il suo tempo leggendo, facendo un’ora di aria la mattina ed una il pomeriggio, ad esclusione degli ultimi 4-5 giorni antecedenti al suo presunto suicidio in cui il Gioé rimaneva chiuso in cella. La cosa che mi e? rimasta impressa e? il particolare relativo alle frequenti e ripetute richieste del Gioé di poter avere un colloquio con i magistrati e le forze dell’ordine. Preciso questo in quanto, quale agente addetto, io stesso prendevo cognizione del contenuto delle istanze che il detenuto Gioé scriveva chiedendone l’inoltro attraverso la matricola. Ricordo di due-tre missive al giorno da questi inoltrate circa 5 o 6 giorni prima del suo decesso. Per quella che e? la mia conoscenza degli ambienti carcerari, e per quanto all’epoca fu oggetto informale di commento, ritengo che l’intento del Gioé fosse quello di… collaborare con la giustizia”. “Io - ha aggiunto Ciliegio - venni a conoscenza del contenuto delle richieste formulate nei 5-6 giorni prima del suo decesso e, conseguentemente, come me vennero a conoscenza della cosa tutti gli operatori carcerari che in quel periodo si alternavano alla vigilanza, prendendo cognizione delle missive, cosi? come avvenne anche per il personale addetto alla segreteria e a quello dell’ufficio matricola, oltre senza dubbio il capo del reparto. Il capo del reparto G7 a seguito delle reiterate richieste formulate da Gioé al fine di incontrare magistrati e forze dell’ordine, disse a me ed ai colleghi in turno di prestare particolare attenzione, dicendo testualmente “occhio”, al Gioé, in quanto soggetto particolarmente a rischio nell’ambiente carcerario per possibili ritorsioni in relazione al suo proposito di parlare con i magistrati e le forze dell’ordine. La voce negli ambienti carcerari sull’intendimento del Gioé ormai si era sparsa”. Il tutto è avvenuto nel periodo delle stragi organizzate nella prima metà degli anni novanta per costringere lo Stato a scendere a patti con Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Stragi rivendicate con la sigla “Falange Armata”, sulla quale sta indagando il pm Lombardo, utilizzata la prima volta per rivendicare l’omicidio dell’operatore carcerario Umberto Mormile “colpevole” di essersi accorto delle uscite premio del boss calabrese Domenico Papalia dal carcere di Opera a Milano. “Falange Armata” era lo strumento adottato dalla ‘Ndrangheta e dai servizi segreti insieme per “compensare - spiegò il pentito Antonio Schettini - la mancanza di introiti” che, fino ad allora, erano stati garantiti con “le valigette di Stato”, i riscatti pagati per i sequestri di persona. Ma soprattutto, il presunto suicidio di Gioé avvenne in un carcere in cui, stando al verbale depositato agli atti del processo d’appello “‘Ndrangheta stragista”, era attivo il “protocollo Farfalla” grazie al quale i servizi segreti riuscivano a incontrare i boss detenuti senza lasciare traccia. Come? Lo spiega sempre l’assistente capo della penitenziaria agli investigatori della Dia: “Per quella che e? la mia esperienza carceraria, - si legge nel verbale di Ciliegio - accadeva in quel periodo in diversi penitenziari, ma anche a Rebibbia, che laddove il detenuto avesse dovuto incontrare riservatamente dei soggetti istituzionali, ciò sarebbe avvenuto utilizzando l’espediente della comunicazione di colloquio con l’avvocato. In buona sostanza, il detenuto informato della presenza dell’avvocato, veniva accompagnato alla sala colloqui dove, secondo accordi diretti che passavano dalla direzione o dal capo delle guardie, bypassando noi addetti alla vigilanza, il detenuto teneva gli incontri riservati con le forze dell’ordine o con i servizi senza che sui registri venisse annotata alcuna precisazione. Quindi senza lasciare traccia dell’avvenuto incontro”. Carceri, il “caso Piemonte”: direttori in fuga e istituti a pezzi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 gennaio 2022 Il Garante regionale Bruno Mellano da tempo denuncia la situazione, documentata nel sesto dossier, e un suo documento è stato inviato dal presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, alla ministra Cartabia. C’è carenza del personale, non solo dell’area educativa trattamentale, ma anche quello relativo a ruoli apicali come i direttori delle carceri. Perché? Loro stessi non vogliono venire. E se vengono cercano di rimanerci il meno possibile. C’è un vero e proprio “caso Piemonte”, quello denunciato da Bruno Mellano, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. A Cuneo negli ultimi 4 anni si sono succeduti ben 5 direttori - In Piemonte ci sono istituti penitenziari con specificità significative, come il 41 bis a Cuneo e Novara, all’alta sicurezza a Saluzzo e Asti, ma nonostante ciò - denuncia il Garante regionale - ci sono difficoltà ad avere direttori presenti in sede. Mellano la definisce una vera e propria sconfitta dell’amministrazione penitenziaria. Per questo, osserva che occorre pensare a concorsi territoriali, a bandi in cui si specifica che chi viene a fare il direttore in Piemonte deve stare almeno tre anni. A Cuneo negli ultimi quattro anni si sono susseguiti ben cinque direttori. A Verbania, addirittura in un solo anno si sono alternati ben quattro direttori. Una situazione, di fatto, insostenibile. Il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha ripreso una denuncia del Garante inviandola alla ministra Cartabia - Si legge nel sesto Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, che tali carenze hanno importanti ricadute nello svolgimento delle attività e nella gestione in generale del carcere e dei suoi spazi. Il Garante regionale ha più volte segnalato la problematica ai vari livelli amministrativi competenti e lo stesso presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ha ripreso una denuncia circostanziata del Garante inviandola all’attenzione della ministra della Giustizia Marta Cartabia: su questo terreno esiste, com’è detto, un vero e proprio “caso Piemonte”. Ad Alba dal 2016 chiuso il padiglione principale - Non mancano altre criticità. Si parte dal carcere di Alba dove sul sito del ministero viene dichiarato che ha una capienza di 142 posti. Nella realtà, ha una capienza regolamentare di 33 posti. Ciò è dovuto dal fatto che nel 2016, è stato chiuso il padiglione principale per epidemia di legionellosi. Per riaprirlo bisogna sostituire completamente l’impianto idraulico, adeguare l’impianto elettrico e attuare la sistemazione funzionale l’intera struttura detentiva e della caserma. Dal dossier si apprende che in data 10 giugno 2021 l’appalto è stato aggiudicato all’impresa ICR Impianti e Costruzioni s.r.l. di Roma. Su specifica richiesta di informazioni da parte del Garante comunale Alessandro Prandi, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria informava che in seguito all’aggiudicazione dell’appalto si è dato corso alle procedure di verifica documentale e degli adempimenti previsti dall’articolo 32 del Codice dei Contratti e che, fatto salvo eventuali ricorsi, “entro la fine del mese di agosto 2021” si sarebbe proceduto alla stipula del contratto di appalto. Dalla risposta del Dap non si sono più avute notizie ufficiali, ma i lavori non sono ancora stati avviati. Il 20 novembre scorso il Garante comunale ha reiterato la richiesta di informazioni evidenziando il fatto che il procrastinarsi dell’inizio dei lavori comporta l’ulteriore aggravamento della condizione degli edifici, esposti da ormai sei anni alle intemperie, agli sbalzi di temperatura, ad infiltrazioni di acqua e umidità, con il rischio concreto che i progettati interventi non risultino sufficienti alla definitiva rimessa in opera della struttura. In caso di mancato avvio a breve dei lavori, i garanti - avendo esaurito ogni strumento della moral suasion - si riservano di effettuare una formale segnalazione alla Corte dei Conti per danno erariale. Criticità strutturali del carcere di Torino “Lorusso e Cotugno” - Sempre nel Dossier è degno di nota evidenziare le criticità strutturali del carcere di Torino “Lorusso e Cotugno”. Nel padiglione A, emergono condizioni deficitarie della struttura interna alle sezioni, nonché pessima situazione igienico - sanitaria nei locali doccia e barberia. Nello specifico, è stata riscontrata la presenza di muffe sulle pareti, di topi ed insetti in tutte le sezioni, nonché l’impossibilità di regolare la temperatura dell’acqua nei locali docce Nel padiglione B c’è la presenza di numerose infiltrazioni d’acqua sui muri delle sezioni e perdite di diversi rubinetti nei locali “barberia”, nelle docce e nelle sale socialità. In particolare, la presenza di muffe sulle pareti è molto preoccupante. In tutte le sezioni vi sono topi e insetti. Inoltre, tutte le finestre delle sezioni e delle celle risultano ancora schermate, impedendo il passaggio di luce naturale. Diversi materassi utilizzati all’interno del padiglione risultano scaduti da tempo. Nel padiglione C, c’è l’assenza di tettoie nelle zone passeggio del padiglione (ciò impedisce il loro utilizzo nei giorni di pioggia). La condizione strutturale delle camere di pernottamento risulta alquanto fatiscente. Le finestre di alcune di queste hanno dei fori e questo provoca il passaggio di spifferi, per cui risultano fredde ed umide (in particolare, sezione II). Le pareti delle docce sono invase da più strati di muffa che le rendono umide ed inaccettabili dal punto di vista igienico - sanitario. In diverse sezioni, alcune docce risultano non funzionanti. Le pareti e i soffitti dei corridoi delle sezioni sono spesso scrostati e deteriorati. Anche lì c’è la presenza di topi. Le sezioni dedicate alla detenzione delle persone protette o incolumi dispongono di una piccola palestra con pochissimi macchinari, molti dei quali non funzionanti. Problemi anche per l’Icam nel carcere di Torino - Poi, sempre per quanto riguarda il carcere di Torino, il dossier evidenza problematiche nell’Icam, ovvero l’istituto a custodia cautelare attenuata per le detenute madri. Il bagno utilizzato dai parenti quando vengono a colloquio si intasa regolarmente, mentre alcuni bagni presenti nell’edificio risultano inutilizzabili a causa di intasamenti delle tubature e/o per l’assenza delle relative pulsantiere. In cucina: le cappe non sono funzionanti, così come uno dei due forni e la lavastoviglie, ed il mobilio sta lentamente marcendo. La dispensa fuori dall’edificio è inutilizzabile perché non coperta da alcuna tettoia. Nell’edificio sono presenti topi. Alcune camere sono inagibili a causa di perdite provenienti dagli appartamenti dei semiliberi. Napoli. “In carcere senza mascherine né distanziamento”, l’allarme dei Garanti dei detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 7 gennaio 2022 “Ci siamo recati nel carcere di Poggioreale e abbiamo notato come all’interno delle sale comuni, come la sala colloqui familiari-detenuti e nella sala di attesa, nella stragrande maggioranza dei casi né detenuti né familiari utilizzano i dispositivi di protezione individuale, quali mascherine e gel igienizzanti e non viene garantito alcun distanziamento fisico necessario”. Il Garante campano Samuele Ciambriello e il garante cittadino Pietro Ioia lanciano un nuovo allarme per accendere i riflettori sullo stato della pandemia in carcere. “A fronte di una popolazione carceraria di 2.192 detenuti, ad oggi risultano 56 detenuti e 21 agenti contagiati. Abbiamo incontrato il direttore del carcere, il comandante ed il vicecomandante, il responsabile dell’area sanitaria carceraria e quello dell’Asl Na1 - affermano i garanti - Con nostro rammarico abbiamo constatato che familiari e avvocati possono entrare nella struttura carceraria senza l’obbligo di mostrare Green pass o esito del tampone”. I garanti si dicono preoccupati e chiedono misure urgenti contro il rischio di nuovi contagi: “L’Asl - dicono - avvii concretamente una campagna di vaccinazione per le seconde e terze dosi e una campagna di sensibilizzazione per chi ancora non ha effettuato nemmeno la prima di dose di vaccino. Abbiamo ricevuto la disponibilità da parte del cappellano del carcere, don Franco Esposito, di poter allestire un hub nella cappella del carcere per procedere in maniera repentina ed efficace alle vaccinazioni. Ci auguriamo, inoltre, che Governo e Parlamento modifichino la norma che attualmente non prevede l’obbligo vaccinale per i familiari che fanno visita ai detenuti e per gli avvocati”. Infine, un appello ai detenuti: “Siano in prima persona artefici del proprio diritto alla salute, procedendo alla vaccinazione”. Del resto, gli effetti della nuova ondata Covid sono inevitabilmente evidenti anche all’interno delle strutture penitenziarie. Il numero dei contagiati sale: attualmente, nelle quindici carceri della Campania, si contano 111 agenti e 198 detenuti contagiati, due dei quali ricoverati in ospedale. Verona. Boom di positivi nel carcere di Montorio “Il vero problema è il sovraffollamento” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 7 gennaio 2022 Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2021, nel carcere di Montorio a fronte di una capienza massima di 335 detenuti, sono invece reclusi in 482. Un penitenziario, quello scaligero, che è ora stato chiuso a nuovi ingressi dopo l’esplosione di un maxi focolaio pandemico con 170 contagiati dal Covid tra detenuti e agenti. Secondo l’avvocato veronese Simone Bergamini, componente dell’Osservatorio nazionale carceri della Camera penale, “a Verona Direzione del carcere, Sanità e Polizia Penitenziaria hanno fatto il possibile contro l’epidemia interna. Il problema è il solito e mai affrontato a livello centrale ovvero il sovraffollamento che nel 2013 ci è già valso l’infamante marchio di Paese che riserva ai propri custoditi trattamenti inumani e degradanti. Ed oggi li costringe pure a contagiarsi a vicenda vista l’immancabile promiscuità. A 9 anni di distanza la situazione è infatti ancora una volta drammatica e priva di reali prospettive di soluzione in assenza - sottolinea Bergamini - di una seria riforma dell’esecuzione penale che porti ad implementare il ricorso a misure alternati che abbattono il rischio di recidiva e contribuiscono a reinserire coloro che sbagliano nella società civile a cui pure appartengono. Pisa. Rivolta dei detenuti di marzo 2020, a processo nove imputati di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 7 gennaio 2022 Lunedì si apre il dibattimento per nove imputati accusati di essere in concorso istigatori ed esecutori di danneggiamenti e lesioni aggravate, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Tra un paio di mesi saranno due anni dal giorno della rivolta in carcere innescata come effetto collaterale delle restrizioni Covid. I divieti di accesso dei familiari dei detenuti al Don Bosco per limitare la promiscuità fu la miccia che il 9 marzo 2020 portò ai disordini che ora diventano un processo. Lunedì davanti al primo collegio del Tribunale si apre il dibattimento per nove imputati accusati, a vario titolo, di essere in concorso istigatori ed esecutori materiali di danneggiamenti e lesioni aggravate, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. In quel giorni si verificarono rivolte in simultanea come se “Radio carcere” avesse messo in onda un messaggio di chiamata alle armi ricevendo una risposta immediata, in tempo reale. Anche al Don Bosco gli animi non restarono pacifici: vennero incendiate suppellettili e masserizie. Lenzuola a fuoco, oggetti lanciati contro gli agenti. Un poliziotto della polizia penitenziaria rimase ferito. Un pomeriggio di violenza con una situazione di allarme che aveva portato all’esterno del carcere una cinquantina di agenti tra poliziotti e carabinieri. Alle 20 i rivoltosi rientrarono nelle celle. Lecce. “Made in Carcere”, la sartoria sostenibile nel carcere di Ilaria Potenza rollingstone.it, 7 gennaio 2022 Dal carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, è nato un brand iconico che offre una seconda possibilità alle donne detenute. Siamo stati a vedere come funziona. “Benvenuti nel nostro laboratorio”. Le donne che fanno parte del progetto Made in Carcere sono al lavoro dietro la macchina da cucire. Hanno tra le mani pezzi di stoffa colorata, si danno consigli. Queste sarte sono le detenute della casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce: siamo in Puglia, in una delle carceri meglio organizzate della regione in termini di spazi e attività. Lo dice l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone, da cui emerge però che anche qui pesano i dati sul sovraffollamento: in questa struttura i detenuti sono 1018 per 806 posti disponibili. Le carceri italiane sono le più sovraffollate dell’Unione europea. Lo indica il report “Space” del Consiglio d’Europa: alla fine del gennaio 2020 in Italia i detenuti erano 120 per ogni 100 posti, seguiti dai 117 del Belgio. In Italia ci sono quattro istituti penitenziari femminili (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) in cui al momento sono recluse 528 donne, su un totale di 2228 detenuti. Le restanti invece si trovano nelle 43 sezioni femminili collocate nelle carceri maschili del Paese, che presentano però diverse criticità. Come ha scritto il ministero della Giustizia nel rapporto del 2015 sulla detenzione femminile, la maggior parte delle detenute vive una realtà che è stata progettata da uomini per contenere uomini: in molti casi sono lontane dalle loro famiglie e i bisogni correlati alle necessità dei figli sono spesso disattesi. Anche l’ordinamento penitenziario disciplina la carcerazione femminile solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento alla maternità. Rispetto agli uomini, le detenute hanno minore accesso alle attività lavorative: è una “discriminazione involontaria”, dice sempre il ministero, causata dall’impossibilità di condividere gli spazi con altri uomini per evitare situazioni di promiscuità. Alle detenute è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, studiare e lavorare. Sono più carcerate degli altri. Il carcere di Lecce è costituito da due blocchi distinti in base alla condanna dei detenuti, che può essere definitiva o meno. Nel reparto femminile ci sono due piani, con una sezione ad alta sicurezza. Ci si accorge subito della vita di Borgo San Nicola dai panni stesi fuori dalle celle, in un senso di quotidianità che disorienta. “Lavoriamo ogni giorno fino all’ora di pranzo, è un impegno che ci appassiona e ci aiuta a non pensare”. Rossella racconta le giornate in sartoria e parla a nome delle colleghe che nel frattempo preparano il caffè, a detta loro il migliore in circolazione. Per raggiungere il laboratorio, chiamato “La Maison”, si supera un corridoio del carcere spoglio e silenzioso. Una volta dentro, i muri sono colorati e gli scaffali sono pieni di occorrente di ogni tipo. In un angolo c’è il frigorifero che viene presentato come una conquista: “è un privilegio perché il suo utilizzo in carcere non è consentito”. Al tavolo in fondo alla sala si organizzano le riunioni prima di iniziare la produzione, sulla bacheca accanto alla porta ci sono invece le fotografie con i sostenitori di Made in Carcere: in nessuna di queste manca il sorriso di Luciana Delle Donne, la fondatrice del progetto. Da manager affermata, Luciana decide di cambiare vita nel 2007 dopo aver ricevuto la proposta di dirigere un’azienda a Londra. Fonda Officina Creativa, una cooperativa sociale non a scopo di lucro, e nasce il marchio Made in Carcere in una cella stretta dove la diffidenza si è trasformata nel tempo in fiducia reciproca e passione per una professione da imparare da zero. Nessuna di loro infatti lavorava come sarta fuori dal carcere: le competenze sono state acquisite tra la creazione di un accessorio e l’altro, partecipando a corsi di formazione. Per la produzione vengono utilizzati materiali di scarto: “La nostra attività promuove un modello di economia rigenerativa che fa bene all’individuo, alla comunità e all’ambiente”, spiega Luciana. Con i pezzi di stoffa donati da aziende partner del progetto si mettono in commercio accessori sostenibili e con una precisa filosofia di fondo: dagli scarti possono nascere cose ambite e belle. Si tratta di un messaggio a cui l’intera squadra tiene molto, perché aiuta a comprendere che tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità, specie quando pesa addosso il pregiudizio di chi considera i detenuti “scarti della società”. La rigenerazione quindi non appartiene solo ai tessuti, ma anche alle persone che hanno fatto errori gravi e che all’interno del carcere costruiscono una nuova consapevolezza fatta di impegni da rispettare e di responsabilità. Per la Costituzione italiana la pena deve prima di tutto rieducare, sebbene i dati riportati dal Ministero della Giustizia dicono che in Italia la recidiva è da record, visto che 7 ex detenuti su 10 tornano a delinquere. La percentuale però precipita all’1% per coloro che in carcere hanno potuto lavorare. E lo confermano i risultati di Made in Carcere, che accoglie i lavoratori anche alla fine del periodo di reclusione. Nello staff, attualmente composto da 40 persone tra detenuti e incensurati, sono inclusi gli “articolo 21”, vale a dire coloro che ricevono l’autorizzazione dall’autorità giudiziaria competente a lavorare all’esterno durante una parte della giornata. Tra questi c’è Lucia: “Nonostante i miei errori, grazie a questa opportunità, sento di essere un esempio per mia figlia e per le altre detenute che rivedo la sera rientrando in carcere: la nostra vita non è finita e possiamo ancora trovare una ragione per essere fiere di ciò che siamo”. Per quanto riguarda la retribuzione, le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le lavoratrici non maneggiano direttamente i soldi, ma possono mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprare quello di cui hanno bisogno compilando la lista una volta a settimana. I braccialetti di Made in Carcere sono diventati iconici, li indossano i personaggi famosi e si possono vedere persino al polso di Papa Francesco. Ma il catalogo è molto vasto e accontenta le richieste di ogni cliente. “Ci teniamo a realizzare accessori che siano di ottima qualità. Al di là della missione del nostro progetto - ricorda Luciana - vogliamo essere anche competitivi nel settore della moda realizzando prodotti che siano in linea con la nostra identità”. Se il marchio funziona, aumenta il lavoro per le detenute che percepiscono un regolare stipendio. Per questa ragione Made in Carcere è partner del progetto BIL (Benessere interno lordo), avviato nell’ambito del bando “E vado a lavorare” della Fondazione con il Sud. “Si deve cominciare a parlare di Bil, e non più di Pil (Prodotto interno lordo), in un’ottica favorevole al benessere comune che tenga inoltre conto della tutela ambientale” continua l’ideatrice di Made in Carcere. In questo contesto rientrano due iniziative: la prima riguarda la collaborazione con Glovo, piattaforma italiana di consegne a domicilio. I pacchi che i rider mettono sulle spalle sono stati convertiti in nuove creazioni, il cui ricavato verrà interamente utilizzato per altri progetti di riciclo. La seconda invece coinvolge l’Università della Repubblica Dominicana, che ha scelto di trasferire l’esperienza nata a Borgo San Nicola anche nelle carceri di Santo Domingo e Rafey. Nel carcere di Lecce è stata costruita quindi una “cassetta degli attrezzi” con tutte le informazioni utili per avviare un modello di impresa sociale simile in qualunque parte del mondo, così da aumentare l’impatto sociale generato. “Vogliamo che gli altri ci imitino, perché siamo sempre più convinti che dare e darsi sia la nuova frontiera della ricchezza” ricordano le detenute, mentre sono al lavoro dietro la macchina da cucire. E la pausa caffè diventa il momento per ripensare agli obiettivi raggiunti in un anno intenso che non ha risparmiato paure e mancanze. Anna indossa una t-shirt con una stampa: se raddrizza le spalle si vedono i sorrisi dei suoi tre bambini, li porta addosso quasi fossero un pensiero magico. La vita in carcere crea un rapporto strano con la solitudine, la esaspera o la mina imponendo la convivenza con altre storie. E non è facile, specie quando diventa un modo per fare i conti con ciò che si è commesso. A Borgo San Nicola lo stare insieme ha creato però un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea e cercano di trovare una mediazione. Lavorare al progetto Made in Carcere ha significato per Anna e per le sue colleghe una sorta di tregua dalla realtà: “Siamo felici di aver imparato un nuovo mestiere, perché quando usciremo da qui vogliamo riconquistare la fiducia di chi non crede più in noi. Per il momento ci basta aver ritrovato un po’ di stima in noi stesse”. Le donne di Made in Carcere non sono le sole a dedicarsi al progetto, perché a pochi passi da “La Maison”, una volta fuori dal reparto femminile, si entra in quella che viene chiamata “Cittadella tessile”. Qui lavorano i detenuti uomini che raccolgono le materie prime, tagliano i capi e si occupano della loro distribuzione in altre carceri italiane. “Prima di avere questo impiego mi occupavo dell’orto come volontario, adesso invece riesco a contribuire alle spese della mia famiglia. Con questa occupazione io sfido il senso di colpa: voglio essere una persona diversa per i miei figli”. A parlare è Paolo, uno dei ragazzi che dà il suo contributo in Cittadella. Per iniziare a lavorare si deve superare un colloquio con il responsabile di area e partecipare a un corso di formazione per utilizzare i macchinari. Ma c’è chi vuole fare anche qualcosa in più, come Mario, che oggi sa cucire dopo mesi di allenamento con ago e filo da autodidatta. Luciana Delle Donne ha inaugurato la stagione delle sartorie sociali in Italia, un esperimento di umanità prima di ogni altra cosa: i detenuti coinvolti nell’attività arrivano in una condizione di sottomissione. All’inizio sono diffidenti, mantengono una grande distanza. Non possono credere che in carcere ci possa essere una realtà così. “Non giudichiamo e non cerchiamo colpevoli, ma solo compagni di viaggio”: più che un cartello ricavato su un foglio a quadretti e affisso in bella vista sul muro del laboratorio, questo è il mantra che tutti nel carcere di Lecce conoscono. Fa parte della tradizione che Luciana e il suo gruppo si tramandano ogni giorno da 14 anni, diventando un esempio per chi finisce nella loro orbita. Per questo il modello di Made in Carcere non rimane confinato a Lecce, ma viene esportato in altri contesti carcerari italiani come a Matera, Taranto, Trani, Bari. Il suo sistema è diventato anche una materia di studio all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma. In un tempo che fa pesare l’urgenza di ripensare ad alternative per vivere la comunità, pensare che una soluzione arrivi da un luogo di reclusione assume un significato potentissimo: iniziare a guardare lì dove nessuno vede una possibilità, crea vantaggi esistenziali per tutti. Volterra (Pi). Arte e moda nel carcere grazie a Fondazione Cassa di Risparmio e liceo Carducci di Nilo Di Modica Il Tirreno, 7 gennaio 2022 Esercitare le mani all’arte e, perché no, anche ad un futuro lavoro, passando dai libri e dalle parole ai fatti. Questo l’obiettivo del liceo artistico, erede di uno dei più prestigiosi e antichi istituti d’arte italiani, che da ormai tre anni, a partire dall’anno scolastico 2019/20, ha attivato nella sezione carceraria “Graziani” l’indirizzo moda. Un luogo dove da tempo si lavora per allestire veri e propri laboratori, da sempre pezzo forte dell’offerta formativa del liceo Carducci (che nel complesso, fuori dal carcere, unisce liceo scientifico, artistico, classico e delle scienze umane) e che si è andata arricchendo in questo ultimo anno anche grazie ad un fondamentale contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Il finanziamento messo a disposizione dall’ente è stato utilizzato per acquistare materiale per i laboratori allestiti nella sezione carceraria, dove si è inaugurato il terzo anno dell’indirizzo, che comprende, come per i ragazzi in Borgo Santo Stefano, sede del liceo, anche una messa in pratica ed uno sviluppo empirico delle competenze acquisite sui libri. Una cosa certo non nuova, quella dell’arte al carcere volterrano, dove ormai dal 1987 ha sede la compagnia teatrale della Fortezza. Adesso, a svilupparsi maggiormente, saranno i laboratori legati agli indirizzi specialistici del liceo artistico: il laboratorio di discipline plastiche che prende il via dal primo anno e caratterizza il biennio e quello di design e arte della moda che invece prosegue nel triennio, con uno spazio dedicato all’attività sartoriale in cui gli alunni potranno cimentarsi fra tessuti, modelli, ago e filo e macchine da cucire. “Rimane, profondo, il ringraziamento dell’Istituto “Carducci” a tutti coloro che hanno collaborato allo sviluppo di questi spazi - sottolinea la dirigente scolastica Nadia Tani -. Un grazie particolare va alla Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra che ha contribuito in modo sostanziale a sostenere l’acquisto di materiali, dimostrando ancora una volta la sua sensibilità verso iniziative che vedono protagonista il territorio volterrano”. Bari. All’Ipm si conclude l’ottava edizione di “Caffè ristretto” lostrillonedipuglia.it, 7 gennaio 2022 Si conclude l’8 gennaio la prima parte dell’ottava edizione del progetto “Caffè ristretto”, uno dei primi caffè letterari a livello nazionale sviluppato all’interno del carcere di Bari, ideato da Teresa Petruzzelli e realizzato insieme a Mariangela Taccogna docente del 1 Cpia Bari, finanziato dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari al Cpia 1 di Bari, ente realizzatore del progetto. Al momento conclusivo del percorso sviluppato all’interno del penitenziario minorile “Fornelli” parteciperanno l’assessore alla Politiche Giovanili del Comune di Bari, Paola Romano; Nicola Petruzzelli direttore IPM “N. Fornelli” di Bari, il preside del Cpia di Bari prof.ssa Giovanna Griseta, il capo della Polizia Penitenziaria IPM Bari dott.ssa Antonella Mavella, i rappresentanti del Gruppo S(lega)menti, Gruppo di volontariato culturale che hanno collaborato al progetto. Attraverso 20 ore di laboratori di lettura, scrittura, presentazioni di recenti pubblicazioni, workshop, incontri con addetti ai lavori in ambito sociale e culturale, gli organizzatori hanno accompagnato i detenuti in un percorso di formazione e rieducazione attraverso l’arte, parlando di legalità, inclusione sociale e intercultura. E lo stesso faranno nelle prossime settimane all’interno della Casa Circondariale “F. Rucci” di Bari. Ospiti di questa ottava edizione del progetto l’associazione culturale (S)Lega- Menti (Libri, Memoria e Libertà) a cui sono stati completamente affidati gli incontri con i ragazzi dell’IPM. Gli incontri nella casa circondariale, invece, saranno tenuti dallo scrittore Francesco Loseto (Con le chiavi in tasca - Florestano edizioni), dalla scrittrice Francesca Palumbo (Hai avuto la mia vita - Besa editore), da Raffaele Diomede, presidente della comunità per minori Chiccolino e autore del libro “Si può nascere ancora” (Palomar), dal musicista-scrittore Marco Antonio Esposito autore del libro di poesie “Prima di spegnersi” (Eretica edizioni) e dall’editore Cristiano Marti per la casa editrice Giazira (L’editoria come impegno civile). “Ancora una volta, anche in questa edizione del progetto, è stata ribadita l’importanza del valore formativo delle attività culturali ed artistiche nonché il dialogo, l’osmosi tra fuori e dentro le mura. “Caffè ristretto”, infatti, vuole essere un intervento educativo strutturato, coordinato e coerente per un percorso di osmosi culturale e artistica tra il dentro e il fuori, che coinvolge docenti, scrittori, giornalisti, operatori culturali, artisti. Un’agorà aperta al confronto, diretto e attivo, su temi e problematiche generati dalla letteratura che si fondono con il bisogno connaturato all’uomo di una dimensione sociale che sia orientata anche all’espressione del proprio mondo interiore” spiega Teresa Petruzzelli. “La situazione carceraria necessita, infatti, di interventi educativi strutturati e non estemporanei, coordinati e coerenti in un percorso di riabilitazione che sia quanto più stabile possibile. E siamo per questo estremamente felici di aver potuto proseguire anche quest’anno il nostro percorso, considerando anche che sono stati gli stessi detenuti a farci capire che raccordare le esigenze, i bisogni, e le propensioni di tutti: dalla parola scritta, alla lettura, al teatro, alla cinematografia, li aiuta nel loro percorso di riabilitazione”. Cagliari. Maria Giovanna Cherchi canta per i detenuti del carcere minorile L’Unione Sarda, 7 gennaio 2022 Giornata di solidarietà per l’affermata interprete del canto sardo. Dopo un tour natalizio che l’ha vista protagonista in tantissime chiese con il suo recital, Maria Giovanna Cherchi, protagonista della musica popolare sarda, si è esibita in un concerto di solidarietà per i detenuti e gli operatori dell’Istituto Penale dei Minori di Quartucciu. Un momento ricreativo e di vicinanza dedicato alla musica della Sardegna, voluto fortemente dal gruppo Hope&Joy, formato da membri di diversi gruppi del Rinnovamento nello Spirito della diocesi di Cagliari, che porta avanti questo servizio a favore dei più deboli e degli ultimi per dare loro speranza e cercare di riavvicinarli alla via della redenzione umana e spirituale. “Sono tante le attività offerte dalla struttura in sostegno alle persone detenute e con questo concerto si è voluto promuove il valore universale dell’inclusività: ho aderito con grande entusiasmo a questa nobile iniziativa - ha spiegato la cantante di Bolotana, visibilmente commossa, alla fine dell’esibizione - per poter offrire il mio piccolissimo contributo ad una causa importante considerato che lo Stato interpreta la pena e la detenzione come processi indispensabili di rieducazione e di riabilitazione”. Roma. Sul campo mettiamo il carcere in rete di Giulia Torlone Venerdì di Repubblica, 7 gennaio 2022 Alla prima convocazione si sono presentate in più di sessanta. E non saltano un allenamento. Sono le detenute-giocatrici dell’Atletico Diritti. Che a Rebibbia sognano una nuova vita. Il campo di cemento, i muri col filo spinato. Da un lato gli spalti, dall’altro finestre con le inferriate da cui qualcuno sbircia, incita, fa il tifo. Ogni sabato alle tre del pomeriggio, dal 2018, su questo campetto gioca la squadra femminile di calcio a cinque di Rebibbia. La prima in Italia formata da sole detenute. Le partite si disputano sempre in casa, perché uscire dal carcere a molte non è permesso. “Sono una leonessa, un giorno qui dentro è un giorno di guerra” ci racconta Alessandra, giocatrice, in cella da dieci mesi. “Non è facile stare dietro alle sbarre, giocare a pallone è il nostro unico momento di svago. E la vittoria è uscire di qua con un’altra testa”. La squadra è l’Atletico Diritti, nata su iniziativa dell’associazione Antigone, che da anni monitora le condizioni carcerarie, e di Progetto Diritti, Onlus che offre assistenza legale. Una partecipazione così grande e immediata ha stupito persino gli organizzatori. È bastato un avviso in bacheca e l’indomani c’erano più di sessanta iscritte. “Avevamo già all’attivo una squadra di calcio, una di cricket e una di basket tutte maschili” racconta Susanna Marietti, presidente di Atletico Diritti e coordinatrice nazionale di Antigone. “Abbiamo introdotto il calcio in un istituto penitenziario femminile per dare un segnale di rottura e abbattere lo stereotipo per cui le donne in carcere siano destinate solo al cucito, alla sartoria o al teatro. Oggi possiamo dire che uno sport tipicamente maschile è diventato l’attività caratterizzante di Rebibbia”. La formazione non guarda al tipo di reato, perché si è voluto offrire a tutte l’opportunità di usare il calcio per recuperare valori spesso disattesi: rispetto dell’avversario, senso del gruppo, sana voglia di vincere. L’avere pescato le giocatrici dal circuito di media sicurezza (da cui sono esclusi i reati associativi), ha comportato un campionato solo interno, ma ha dato una possibilità a tutte. “Il primo giorno abbiamo diviso le ragazze per squadra, in campo, dicendo solo: “Questa è la palla, giocate”. Erano totalmente spiazzate, continuavano a chiedere quali fossero le regole da rispettare” ricorda Alessia Giuliani, funzionaria giuridico-pedagogica ed educatrice di Rebibbia. La questione delle regole è sempre molto dibattuta: per le detenute è un’imposizione meramente burocratica, per gli agenti del carcere l’unico modo per far funzionare un istituto con 320 donne, il più grande d’Europa. “È difficile spiegare a una persona che viene da abbandoni scolastici, che vive in assenza di modelli familiari sani, il rispetto delle norme. Perché le confondono con la punizione” continua Giuliani. “Lo sport ti aiuta a capire che la regola è funzionale alla vittoria, e una volta abituata a rispettarla su un campo da calcio, riportarla all’esterno diventa semplice”. I risultati si vedono: le ragazze della squadra sono quelle che non hanno rapporti disciplinari interni alla sezione e non saltano neanche un allenamento senza giustificazione. Per Bianca, 26 anni e in carcere da tre, giocare nell’Atletico Diritti significa liberarsi dai dolori. Ha i capelli biondi, un inconfondibile accento del Brasile e per lei la squadra è “una famiglia, con tutte le sue stranezze”. La formazione è eterogenea: italiane, rom, tunisine, ognuna con il suo personale approccio allo sport. Carolina Antonucci, l’appassionata allenatrice della squadra, non nega le difficoltà che la detenzione comporta anche in campo. “Le ragazze che sono qui hanno spesso problemi legati alle dipendenze e le terapie per contrastarle influiscono sul loro umore e comportamento” racconta. “Ci sono giorni in cui ci alleniamo dopo colloqui tra detenute e familiari che non sono andati bene, in cui l’enorme sofferenza di chi è rinchiusa qui si fa sentire. E non posso aspettarmi che sul campo diano il meglio di sé. Accettare problemi e mancanze è quello che un allenatore qui deve imparare a fare”. Sul piccolo campo di Rebibbia i problemi personali diventano di squadra, così come vittorie e sconfitte. “Quante volte abbiamo gioito e sofferto insieme. Vedere le ragazze piangere per una sconfitta mi ha dato la dimensione di quello che stiamo facendo, di come l’Atletico Diritti per loro sia sinonimo di libertà” conclude Antonucci. Durante il lockdown dello scorso anno la capitana della squadra ha incontrato papa Francesco e a breve la formazione verrà ricevuta dal presidente della Camera, Roberto Fico. Le partite, al momento, sono sospese per poter rifare il campo in modo da renderlo idoneo per l’iscrizione della squadra a un torneo federale. L’idea è quella di riprendere al più presto con un triangolare in cui parteciperà la rappresentativa delle giornaliste. Che l’Atletico Diritti sia un progetto riuscito lo dimostrano anche le decine di detenute che, a pochi giorni dal termine della pena, chiedono di poter restare nel gruppo. Proprio in questi giorni due di loro usciranno, ma da settimane bussano alla porta dell’educatrice di Rebibbia con la stessa domanda: “Dottore, lo troviamo un modo per poter restare in squadra?”. Bambini soldato, prima inchiesta in Europa di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 gennaio 2022 Una donna cresciuta in Svezia, è stata incriminata per aver favorito il reclutamento del figlio, nato nel 2001, come bambino soldato dell’Isis in Siria. La decisione del giudice di Helsinki dovrebbe far riflettere. Una donna di 49 anni, cresciuta in Svezia, è stata incriminata per crimini di guerra e per violazione della legge internazionale con l’accusa di aver favorito il reclutamento del figlio, nato nel 2001, come bambino soldato dell’Isis in Siria. Un ragazzino che è poi morto sul campo di battaglia nel 2013. È la prima volta che si assiste in Europa a un provvedimento del genere. Perché se fin qui l’impiego dei bambini soldato ha riguardato per lo più minori africani, asiatici, mediorientali, ora il fenomeno tocca, seppur indirettamente, anche un continente dove il benessere economico e sociale, nonché l’assenza di conflitti sembravano rendere impensabile un orrore di questo genere. E invece. Le diseguaglianze, e l’incapacità di fermare la radicalizzazione dello scontro sociale hanno reso anche il Vecchio Continente terreno fertile per un fenomeno che, nell’immaginario collettivo occidentale, è relegato a società tribali e meno sviluppate. Un paradosso se si pensa allo sforzo fatto dalla maggior parte dei governi europei per abolire la leva obbligatoria evitando così la militarizzazione dei più giovani contro la loro volontà. E se il reclutamento dei bambini può apparire collegato al radicalismo religioso e all’interpretazione estremista dell’islamismo che vede tutti trasformati in soldati, eccezione fatta delle donne, bisogna però fare attenzione a relegare il fenomeno al terrorismo jihadista. Certo, l’ideologia estremista diffusa dai gruppi terroristici agevola la distorsione per cui una madre può trovare giusto mandare il proprio figlio a morire in nome di una causa. Ma la diffusione di contenuti violenti attraverso i social network polarizza il dibattito e espone in generale anche le donne (e le madri) a questo tipo di argomentazioni. E i bambini diventano così armi, soldati appunto, da mandare in campo nello scontro con il sistema. Sotto qualunque bandiera. Varsavia blocca i soccorsi ai migranti, Msf lascia la Polonia di Daniela Fassini Avvenire, 7 gennaio 2022 Medici senza Frontiere fermata dal continuo rifiuto delle autorità di concedere l’accesso all’area di confine con la Bielorussia, dove tante persone al gelo hanno disperato bisogno di cure Il Palazzo del Campidoglio illuminato di verde per l’iniziativa di sensibilizzazione “Lanterne Verdi”, una mobilitazione nata alla frontiera polacca per aiutare i profughi e rilanciata in Italia da Avvenire. Ma il governo della Polonia insiste con la sua linea dura contro le persone bloccate nel gelo, che hanno bisogno di soccorsi Mentre in Italia si allunga di giorno in giorno l’elenco di chi, rispondendo anche all’appello di Avvenire, ha scelto di accendere la lanterna verde della solidarietà alla propria finestra, al proprio albero di Natale e nel presepe di casa oppure di illuminare di verde la parrocchia, l’edificio o la finestra, dalla Polonia arriva la rinuncia dell’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere. La stessa che proprio dalle nostre pagine aveva condiviso e rilanciato l’iniziativa “#lanterneVerdi” per dare protezione e rifugio ai migranti che si trovano lungo il confine della Bielorussia e che chiedono di entrare in Europa. Medici senza Frontiere ha annunciato di essere “costretta a concludere il suo intervento in Polonia a causa del continuo rifiuto delle autorità polacche di concedere l’accesso all’area di confine con la Bielorussia, dove gruppi di persone sopravvivono a temperature inferiori allo zero, con un disperato bisogno di assistenza medico-umanitaria”. Da tre mesi Msf, spiega in una nota, chiede invano di poter accedere alla zona messa in stato di emergenza. “Siamo di fronte a una situazione inaccettabile e disumana. Le persone non dovrebbero essere respinte illegittimamente in Bielorussia” dichiara Frauke Ossig, coordinatrice dell’intervento di emergenza di Msf in Polonia e Lituania. “Fino a quando non sarà consentito a Ong imparziali di operare nelle aree soggette a restrizioni, è probabile che il bilancio delle vittime, al momento di almeno 21 persone, possa aumentare man mano che le temperature continuano a scendere”, avverte. Intanto in Italia, a Pisa, il Coordinamento pisano per la rotta balcanica invita ad accendere una lanterna verde in ogni parrocchia, circolo, sede di associazione e nelle case di chiunque voglia esprimere vicinanza ai migranti bloccati al freddo e al gelo al confine fra Bielorussia e Polonia. Un gesto simbolico e di sostegno “ai cittadini che abitano lungo quei confini e che hanno scelto di percorrere una strada diametralmente opposta a quella portata avanti dall’Ue e dalla quasi totalità dei Paesi dell’Unione accendendo una luce verde nelle loro case per segnalare ai migranti che lì dalla sera in poi sarà possibile trovare un aiuto d’emergenza”. Il cartello di 16 associazioni, organismi pastorali e realtà della società civile cittadina impegnati fin dal febbraio 2021 condividono la finalità di tenere viva l’attenzione “sui drammi che continuano a consumarsi lungo le direttrici migratorie percorse da persone in fuga da guerre e terrorismo e che non riescono ad entrare in Europa perché continuamente respinte ai confini” sostengono. “Chiediamo di farlo non per sentirsi più buoni nel periodo delle festività natalizie, ma quale segno simbolico di un impegno e di un’attenzione lunga tutto l’anno” hanno spiegato nel corso del momento pubblico convocato di fronte alla centralissima Chiesa di San Michele in Borgo per lanciare l’iniziativa e a cui sono state mostrate anche alcune delle lanterne realizzate dai bambini del campo rom di Coltano. Pronta anche una mozione da proporre ai consigli comunali per chiedere “vie d’ingresso legali e sicure verso l’Europa”. Migranti al confine polacco, l’Europa non deve diventare uno spazio senza leggi Il Domani, 7 gennaio 2022 Dal settembre 2021, il governo polacco ha dichiarato zona d’emergenza quella lungo il confine con la Bielorussia. I migranti che sono entrati nell’Unione europea si sono ritrovati in una pericolosa area militarizzata. Pubblichiamo l’appello di oltre duecento professori universitari da tutta l’Unione europea che sta trovando spazio nei giornali di tutta Europa. Per un breve momento, la situazione al confine tra la Polonia e la Bielorussia ha attirato l’attenzione pubblica. Le immagini di migliaia di rifugiati provenienti dall’Iraq, Siria, Yemen e da altri paesi, che sono stati attirati dal presidente bielorusso Lukashenko e che si erano raggruppati nel lato bielorusso del confine in condizioni inumane, hanno suscitato indignazione nel pubblico europeo. Sulla questione sono state avanzate delle analisi geopolitiche e sono state proposte diverse risposte politiche di carattere repressivo come sanzioni o militarizzazione delle zone di confine. Tuttavia, il dramma umanitario continua su entrambi i lati del confine, e nessuna risposta adeguata sembra ancora essere stata trovata. Dal settembre 2021, il governo polacco ha dichiarato zona d’emergenza quella lungo il confine con la Bielorussia. I migranti che sono entrati nell’Unione europea attraversando il confine polacco-bielorusso si sono ritrovati in una pericolosa area militarizzata dove medici, sanitari, giornalisti, e rappresentanti delle ong non hanno accesso. Nella foresta Bia?owie?a, una delle ultime foreste secolari in Europa, uomini, donne e bambini stanno morendo di ipotermia, sete, fame e mancanza di accesso agli aiuti medici salvavita. Le guardie di frontiera polacche ignorano sistematicamente le loro richieste di asilo e li rimandano sul lato bielorusso. La pratica del respingimento è vietata anche in tempo di crisi dalla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiato (articolo 33), dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 3) e dal suo Protocollo 4 (art. 4), nonché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articoli 18 e 19), che l’Unione europea e i suoi Stati membri hanno il dovere di rispettare. Il primo dicembre 2021, la Commissione europea ha risposto proponendo (basandosi sull’Articolo 78 § 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea) che il Concilio adotti misure di emergenza per permettere agli Stati Membri dell’Ue coinvolti di gestire la crisi. Tuttavia, invece di riaffermare la natura fondamentale del diritto di asilo, la proposta autorizza di fatto le autorità polacche, lituane e lettoni ad utilizzare la procedura di accoglimento accelerata. Il che rende meno probabile che le richieste di asilo di queste popolazioni bisognose di protezione siano prese in considerazione e legalizza le espulsioni di massa. Tuttavia, gli eventi a cui stiamo assistendo non sono una “crisi migratoria”. Le poche migliaia di persone al confine sono un piccolo gruppo la cui presenza è stata strumentalizzata e drammatizzata politicamente. Sebbene questa situazione non rappresenti un “emergenza” provata, la creazione della “no-go zone” in Polonia minaccia la vita quotidiana e la sussistenza economica di decine di migliaia di residenti nella zona di confine. Una minaccia - La proposta della Commissione è una minaccia alla vita di tutti i cittadini dell’Ue. Supportare tali misure illegali autorizza i governi autoritari a stabilire zone senza leggi in Europa. L’Unione Europea, che è stata fondata sullo stato di diritto e sulla difesa dei diritti fondamentali, semplicemente non può transigere sula violazione di questi principi. Il futuro dell’Ue si sta giocando oggi nella foresta di Bia?owie?a. Chiediamo al Consiglio dell’Unione europea di rinunciare a legittimare queste deroghe ai trattati che impongono agli Stati membri dell’Ue di proteggere i diritti umani. Chiediamo all’Unione europea di dare una risposta umana alla crisi umanitaria che si sta verificando ai confini con la Bielorussia e di intraprendere azioni immediate per proteggere le persone vulnerabili e per rispettare il diritto di asilo. Non si tratta qui di impartire lezioni di moralità a qualche paese in particolare. Diversi paesi europei possono essere criticati per i loro fallimenti nel rispetto dei diritti fondamentali. Gli stati hanno il diritto di controllare i loro confini, ma di fronte a pratiche illegali e inumane che persistono e che diventano sempre più istituzionalizzate è urgente ribadire le regole universali e fondamentali del diritto. Noi, cittadini dell’Ue, dobbiamo riaffermare e difendere questi diritti, perché in democrazia solo la legge può difenderci contro decisioni arbitrarie. Covid, sorpresa in Africa: la strage non è mai avvenuta di Federico Rampini Corriere della Sera, 7 gennaio 2022 I dati parlano chiaro: mortalità ridotta nonostante la scarsa diffusione dei vaccini. La protezione offerta dalla giovane età media è una certezza, forse ha contribuito l’esposizione la malaria. In mezzo a tante ragioni d’inquietudine la pandemia regala una sorpresa positiva. L’ecatombe da Covid nell’Africa subsahariana, annunciata regolarmente da quasi due anni, non è mai cominciata e forse non accadrà mai. Di Covid si muore di più in Italia che nei Paesi più poveri del pianeta, benché il loro accesso ai vaccini sia scandalosamente basso. La spiegazione scientifica è limpida: la giovanissima età media li protegge, quasi quanto il vaccino. È una buona notizia che non andrebbe nascosta. E non valgono sotterfugi per minimizzarla. Fanno testo le statistiche raccolte nella banca dati Our World in Data. In Italia - che purtroppo si colloca nella fascia alta della media occidentale - la pandemia ha provocato 229 morti ogni centomila abitanti, in Uganda sette decessi su centomila persone, in Nigeria due. La rassegna dei Paesi africani riserva la stessa piacevole scoperta, la mortalità varia dai 15 decessi su centomila abitanti in Gambia e Gabon, ai due del Burkina Faso. In mezzo a questi elenchi si celano molte tra le nazioni più povere del pianeta. Alle quali siamo soliti rivolgere un’attenzione tanto compassionevole quanto ideologica, distratta e stereotipata. L’Africa, lo abbiamo deciso da tempo, deve fare notizia solo per le sue tragedie. Ci interessa in quanto epicentro della miseria e sofferenza umana, continente devastato da conflitti armati e guerre civili, nuova frontiera del jihadismo, terra di conquista per il neo-colonialismo occidentale o più di recente cinese, bacino di migranti disperati, con l’aggiunta delle prossime ondate migratorie legate alle catastrofi climatiche. In questo scenario cupo e desolato, quando è iniziata la pandemia abbiamo “deciso” che, ovviamente, avrebbe inflitto danni assai maggiori al continente nero. È scattato il riflesso pavloviano di noi occidentali, l’automatismo umanitario del senso di colpa. Poiché i vaccini - almeno quelli che funzionano - sono prodotti in Occidente e soprattutto in America, la nuova ecatombe africana sarebbe stata l’ennesima macchia sulle nostre coscienze. Una strage provocata dall’egoismo dei ricchi. Perché non è andata così? La disparità di accesso ai vaccini esiste; è innegabile e imperdonabile. I dati elaborati da Banca mondiale e Oxford University, riassunti in un’analisi del settimanale The Economist, dicono che nei Paesi dal reddito medio o medio-alto, cioè sopra i 4.000 dollari annui di Pil pro capite, sono già stati somministrati 160 vaccini ogni cento abitanti, cioè più di una dose e mezza a testa. Questa media include ovviamente bambini piccoli non soggetti all’inoculazione, altre persone non vaccinabili, e l’area no vax. Nei Paesi più poveri del pianeta, quelli sotto i mille dollari di Pil pro capite, i vaccini inoculati sono solo dodici ogni cento persone. Cioè meno di un decimo. Questo conferma l’insuccesso di Covax, l’iniziativa promossa dall’Onu e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per distribuire ovunque le immunizzazioni. Per la verità il fiasco non è solo una conseguenza dell’egoismo dei ricchi. Un ostacolo serio riguarda la distribuzione e la logistica. I vaccini più efficaci made in Usa spesso richiedono una conservazione a bassissime temperature, che è problematica in aree subsahariane dove la corrente elettrica scarseggia. Per ogni dollaro di costo del vaccino, tocca spendere altri cinque dollari nel trasporto e conservazione fino al destinatario finale. Bisogna infine fare i conti con un’area no vax che è perfino più estesa nei Paesi poveri. Nell’Africa occidentale solo il 39% della popolazione è disposta a farsi inoculare: intervengono antichi pregiudizi e diffidenze verso la medicina occidentale, o verso i governi locali che la sponsorizzano. Ma lo scarso accesso ai vaccini non è stato così letale come si temeva. Di fronte ai dati sulla bassa mortalità, molti occidentali storcono il naso: poiché la realtà non coincide con i nostri pregiudizi, allora le statistiche devono essere false. È plausibile che i Paesi più arretrati siano meno efficienti di noi nel censire i decessi da Covid. C’è però un sistema collaudato per aggirare questa lacuna, è la misurazione delle “morti in eccesso” a cui ricorre The Economist. Lo scarto dalla media dei decessi annui, tra il 2020-2021 e l’era pre-Covid, ci dà indicazioni attendibili e sicure. Questa misurazione ineccepibile conferma che la strage africana non è mai avvenuta, anzi la pandemia è stata più benigna a Sud del Sahara. La spiegazione sta nell’età media di quelle popolazioni: è di 20 anni, contro i 43 dell’Unione europea. La prorompente vitalità demografica, che abbiamo spesso considerato come una delle piaghe africane, in questo caso rivela un rovescio positivo. Alcuni scienziati aggiungono una spiegazione complementare: i Paesi più esposti alla malaria potrebbero aver sviluppato anche altre forme di parziale immunità contro il Covid. Quest’ultima rimane un’ipotesi da dimostrare; mentre la protezione offerta dalla giovane età è una certezza. Anche perché del Covid muoiono più spesso persone affette da altre patologie come obesità e diabete, più diffuse in età avanzata. La giovinezza è servita da scudo, supplendo ad altre carenze africane. In questo quadro anche l’egoismo sanitario dei Paesi ricchi è più razionale di quanto appaia: i vaccini sono andati in priorità alle zone fragili, che stavolta coincidono con le aree ricche del pianeta. Opulenza e vulnerabilità vanno di pari passo, di fronte al Covid. Anche se rimane l’eccezione meravigliosa di un Giappone ancora più vecchio di noi e tuttavia capace di mantenere una mortalità “africana” (è un complimento). Questo non deve esimerci da nuovi sforzi per una diffusa distribuzione planetaria dei vaccini. Qualche scrutinio supplementare andrebbe esercitato su quelle burocrazie internazionali come l’Oms a cui deleghiamo la missione. Ma la sorpresa positiva dall’Africa racchiude una lezione per noi. Gli automatismi umanitari che ci hanno fatto velo sono, in fondo, l’ultimo retaggio neocoloniale. Per assuefazione, per pigrizia mentale, siamo allenati a pensare che tutto ciò che accade nel mondo dipende da noi. Ci consideriamo l’ombelico dell’universo e il motore della storia, anche se da tempo non lo siamo. In questo caso il “mea culpa” delle coscienze occidentali è scattato a prescindere dai fatti, e ci siamo fustigati per una tragedia mai avvenuta. Turchia. Anche la sorella di Ebru Timtik comincia lo sciopero della fame di Ezio Menzione Il Dubbio, 7 gennaio 2022 “Vogliamo un giusto processo”. Barkim Timtik, sorella dell’avvocata e attivista dei diritti umani che morì nelle prigioni turche dopo 238 giorni di sciopero della fame nell’agosto 2020, annuncia la sua iniziativa dopo l’ennesimo rinvio del processo a carico degli avvocati democratici. Doveva essere l’udienza conclusiva, quella che si è svolta mercoledì scorso nell’aula bunker del supercarcere di Silivri, nella zona europea della Turchia, dove vengono giudicati, assieme ad altri colleghi, Selgiuk Kosaacli, il presidente dell’Associazione degli Avvocati Democratici (CHD), e la collega Barkin Timtik, sorella di Ebru, anch’essa esponente della stessa associazione. Un processo che li vede imputati dal 2013, un lunghissimo periodo dunque, quasi tutto passato in detenzione preventiva. Invece, doppio colpo di scena: la Corte, finalmente, ha acquisito i documenti digitali provenienti dai Paesi Bassi che non bastarono lì a incriminare i colleghi dieci anni fa, e che invece ora la procura turca vuole porre a base dell’accusa. Avendoli ricevuti solo lunedì, la Corte ha disposto una perizia che ne trascriva il contenuto e indaghi sulle modalità con cui sono arrivati in Turchia ed entrati nel processo, proprio perché la loro origine è quanto mai dubbia e contestata dalla difesa. Il processo, conseguentemente, è stato rinviato al 23 marzo. Nulla invece è stato stabilito circa la richiesta della difesa di sentire i testi dell’accusa (per lo più anonimi, secretati e di dubbia stabilità mentale) mai potuti sottoporre a controesame e verifica dibattimentale. Contemporaneamente, però, la Corte ha nuovamente rigettato la richiesta di rimessione in libertà dei due colleghi Serlgiuk e Barkin, anche se per lei vi è la concreta possibilità che, anche ove fosse dichiarata - ingiustamente - colpevole, la pena potrebbe rientrare nel presofferto. A questo punto Barkin, in un intervento di pochi minuti davanti a centinaia di colleghi turchi e stranieri, ha annunciato di intraprendere lo sciopero della fame. Con lo sgomento degli astanti, che hanno visto lo sciopero della fame della sorella Ebru terminare tragicamente dopo 238 giorni di digiuno con la sua morte il 28 agosto 2020. Lo spettro della medesima fine è comparso nell’aula, anche se Barkin ha specificato che lo sciopero, in cui verrà “accompagnata” da altri due colleghi detenuti, almeno per il momento, è a termine.I motivi? La richiesta di un processo giusto secondo le regole del diritto, né più né meno. Come ha chiesto Ebru fino al giorno che è morta perché nessuno ascoltò la sua richiesta. Afghanistan: a viso coperto di Francesca Mannocchi La Stampa, 7 gennaio 2022 I volti delle donne sono censurati con i burqa, perfino le teste dei manichinivengono segate. Scrive il filosofo Emmanuel Lévinas nel suo “Totalità e Infinito” che la vera natura del volto, il suo segreto, consista nella domanda che rivolge, che è “al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”. Il Volto è per Lévinas un appello che chiama a prendersi cura dell’esistenza di un altro che ci interroga, continuamente, e ci chiama a rapporto nell’incontro con la radicale distanza da noi. Da quando sono tornati al potere, lo scorso agosto, i taleban hanno imposto una interpretazione progressivamente più rigida della legge islamica, vietando alle donne l’accesso all’istruzione secondaria in molte province, impedendo ai tassisti di accettarle in auto se non accompagnate da un parente di sesso maschile, ostacolando la loro presenza al lavoro nel settore pubblico, fatta eccezione per le scuole primarie e gli ospedali, e bandendo la loro presenza da posizioni di governo e amministrative. Da ultimo, pochi giorni fa, i taleban hanno ordinato ai proprietari dei negozi di Herat, terza città più popolosa del Paese, di tagliare la testa ai manichini esposti nei negozi, sostenendo che le figure dei volti femminili rappresentino una violazione della legge islamica. Aziz Rahman, capo del Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, ha rivendicato la decisione in una dichiarazione rilasciata a Afp: “Abbiamo chiesto ai commercianti di tagliare la testa ai manichini perché contrari alla Sharia, se si limiteranno solo a coprire il capo con un velo l’angelo di Allah non entrerà nei loro negozi o nelle loro case a benedirli”. Il velo non basta, dice Rahman, l’immagine del volto va eliminata, distrutta. I negozianti hanno obbedito, come mostra un video diffuso sui social media, in cui un gruppo di uomini (che non si vedono) sega le teste ai manichini per poi accatastarle una accanto all’altra. Una continuazione ideale alle prime immagini che hanno segnato il ritorno dei taleban a Kabul, quelle delle vetrine dei negozi con i volti di donna cancellati dalla vernice nera secondo l’interpretazione del Corano che vieta qualsiasi riproduzione o immagine di fattezza umane. Il corpo è tabù, dice la vernice scura che li copre e li censura, il volto è tabù. Sul volto di donna, poi, il divieto è supremo, insindacabile. Cosa c’è su quei volti che i taleban non vogliono vedere? È solo lo scandalo del corpo femminile per i codici della loro interpretazione oscurantista dell’Islam o c’è anche il segno della fragilità del loro potere? “Il volto si sottrae al possesso, al mio potere” dice Lévinas, che disegna una relazione etica a partire dal Volto. Lévinas fonda la sua teoria dell’etica della società sul “faccia a faccia con l’altro”, con un volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi. È lì che giace il presupposto delle relazioni umane, nella relazione con un Altro che nel solo atto di manifestarsi mette in crisi, è interrogativo e limite, e nel suo essere così ostinatamente, radicalmente diverso da chi guarda, sfugge al possesso, è resistente alla presa. E con la sua presenza diventa linguaggio, perché dice Lévinas, la prima parola del Volto che vedo e che mi è straniero è un’ingiunzione: “Tu non mi ucciderai” dice, non con il tuo ordine sociale, non con la tua oppressione, né con la vocazione al controllo. Il volto resiste al possesso, resiste al potere delle armi. Puoi distruggermi ma non puoi possedermi, pare dire, non puoi appropriarti di me. Ha a che fare questo con il corpo delle donne afghane, con i loro visi di cui è impedita la vista, con le teste dei manichini così insostenibili allo sguardo da dover essere rimossi? Sì, ha a che fare anche con loro perché nell’unicità dei loro volti queste donne ricordano ai taleban che possono essere segregate ma non possedute e contemporaneamente ricordano a noi occidentali che la responsabilità verso di loro consiste nel rispetto delle differenze, non nella foga di annullarle. Il destino delle donne afghane ha a che fare col potere degli uomini, col potere espresso dai taleban sulla nuova società afghana che vogliono costruire, ma ha a che fare anche con la responsabilità nell’affrontare conflitti che l’Occidente ha smesso di combattere faccia-a-faccia, come se l’atto del vedere, di affrontare il Volto di chi si vuole oppresso o sconfitto, fosse la costante di ogni guerra, ideologica o militare. Le guerre contemporanee non sono più, ormai da tempo, combattute contro qualcuno che si rischia di uccidere, ma contro sagome che sembrano non avere vita, sono combattute a una distanza che tutela lo sguardo, le sagome si muovono ma non possono guardarci, non possono imporre la violenta, radicale, rivendicazione dello sguardo e gli eserciti, indirizzando droni e armi di precisione contro di loro, non se ne sentono responsabili. Dove finisce la responsabilità? Esattamente dove dovrebbe iniziare, sull’ingiunzione che il volto reclama. Combattere senza guardare in faccia il nemico significa sottrarsi a quell’epifania che dice, come le donne coperte dal burqa, Non uccidere, tu non mi ucciderai. Dovremmo, prima di sentirci responsabili dei destini delle donne afghane, essere desiderosi di conoscere il volto che vorrebbero mostrare - non quello che noi vorremmo vedere - una volta alzato il burqa - e rispettare la loro alterità dai taleban ma anche la loro alterità da noi. L’altro è una ferita nella nostra compiutezza, sia quando tentiamo di combatterlo, sia quando tentiamo di accoglierlo. L’altro ci ferisce perché ci mostra, noi ci sentiamo feriti perché vederlo ci inchioda alla responsabilità che abbiamo di accoglierlo, o di combatterlo. Per questo dovremmo, prima di sentirci parti in conflitto, tentare di conoscere il volto delle società che consideriamo antagoniste, affrontare, sempre, la responsabilità del faccia-a-faccia. È difficile guardare in faccia il nemico che si uccide, talvolta intollerabile, così come è difficile guardare il volto di un essere umano che chiede aiuto, e rivendica una presenza di libertà con il proprio volto “differenza irriducibile che inquieta e che risveglia”. Kazakistan. Dai legami con Mosca alle proteste di piazza: il declino dell’autocrate Nazarbayev di Roberto Brunelli La Repubblica, 7 gennaio 2022 Per tre decenni è stato il padre padrone del Kazakistan, uno stato ricco di risorse energetiche e al crocevia di molti interessi regionali. Ora l’ex presidente vede sgretolarsi il suo potere assoluto costruito in continuità con il passato sovietico. Oggi il “sultano di luce” giace sul freddo selciato della piazza principale di Taldykorgan, capoluogo della regione di Almaty. È solo il busto bronzeo dell’ex dittatore, spezzato in due: la stessa fine delle migliaia di statue di Lenin abbattute nell’Urss in via di collasso, oltre trent’anni fa. Beffardo cortocircuito della storia, si potrebbe dire, dato che fu proprio sulle macerie dell’Unione sovietica che Nursultan Nazarbayev ha edificato la sua carriera di autocrate assoluto del Kazakistan. Chissà se il “padre della nazione” ha mai immaginato lo scenario di questi giorni, quasi da manuale per un regime sull’orlo del precipizio: le rivolte di piazza e gli spari, le fiamme e le colonne di fumo nero che si alzano dal municipio di Almaty, i palazzi del potere presi d’assalto, i morti e i feriti, le disperate accuse del presidente Kassym Zhomart Tokayev nei confronti di “provocatori stranieri”, le truppe di Mosca e degli alleati in soccorso ad un regime che lotta per la propria sopravvivenza. Oggi Nursultan - il significato del nome è proprio “sultano di luce” - tace rumorosamente: lui che per tre decenni è stato tutt’uno con il suo Kazakistan, in queste ore vede sgretolarsi, insieme ai propri monumenti, la cattedrale di un potere assoluto di stampo quasi divino, costruita in marmorea continuità con il passato sovietico. A 81 anni - l’uomo insignito del titolo di “padre della nazione” per l’eternità, l’uomo il cui nome è stato dato alla capitale, Nur-Sultan - si vede sottrarre, proprio dall’ex fedelissimo Tokayev persino la presidenza del Consiglio di sicurezza, che gli era stata cucita addosso al momento delle dimissioni-sceneggiata di tre anni fa per garantirgli un potere de facto e, soprattutto l’immunità. È la fine reale di un potere che si credeva immortale. Il potere costruito sulle macerie dell’Urss - Come in tutte le mitologie, il suo potere sembra provenire letteralmente da un altro mondo: figlio di un pastore, incompiuti studi di chimica e ingegneria, Nazarbayev lavora dal 1960 al 1977 come operaio nelle acciaierie di Karaganda. Membro del partito comunista kazako dal 1962, il futuro “padre-padrone” del Paese scala tutti i gradini della nomenklatura, prima di diventare presidente di un nuovo Stato indipendente dopo il tracollo dell’impero sovietico: dal 1984 è primo ministro di quella che per estensione era la seconda repubblica sovietica, cinque anni dopo è segretario del Pc kazako e infine, senza interruzioni o scossoni, presidente del Kazakistan, in contemporanea con la dichiarazione d’indipendenza, pochi giorni prima che sul Cremlino venga ammainata la bandiera rossa. È nel passaggio caotico della fine dell’Urss che Nazarbayev compie la doppia mossa su cui riuscirà a fondare i trent’anni del suo dominio: prima si schiera dalla parte di Gorbaciov durante il tentativo di golpe del 1991, ma dopo la dichiarazione d’indipendenza si mette in prima fila a formare la Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). Un equilibrismo politico che gli permette di coltivare con pazienza e determinazione - dopo aver denunciato per anni lo sfruttamento economico dell’Asia centrale da parte di Mosca - l’autonomia del Kazakistan pur senza rescindere mai i legami con il Cremlino. Da capo di Stato onnipresente in televisione e in radio, le elezioni del 1999, del 2005, del 2011 e del 2015 sono una formalità: per dire, all’ultimo passaggio nelle urne ha la grazia di farsi incoronare con il 97% dei voti. I legami con Russia e Cina e il dialogo con l’Occidente - C’è chi la dice così: almeno fino al 2019, Nazarbayev e il Kazakistan sono stati una sola cosa. Un po’ modernizzatore, un po’ dittatore, in qualche modo gli riesce di garantire pace e stabilità tra le diverse etnie del gigante centrasiatico - un Paese a maggioranza musulmana ma con una significativa minoranza russa - ma certo non ha mai esitato a strangolare le opposizioni. E tuttavia a scatenare la rabbia di gennaio è l’ingiustizia economica: la lunga transizione avviata con le dimissioni di Nazarbayev del 2019 ha reso ancor più drastici i problemi di un Paese la cui inflazione è di nuovo schizzata in alto e la spesa alimentare di giorno in giorno più insostenibile, mentre le riserve minerarie e petrolifere arricchiscono soprattutto le grandi città, Almaty e Nur-Sultan. Sì, proprio l’ex sonnecchiante città di provincia Astana, trasformata dal padre della patria in una seconda Dubai, con lucenti grattacieli di vetro illuminati di notte come una Las Vegas delle steppe. “Abbiamo messo il Kazakistan su una mappa sulla quale uno Stato del genere non c’era mai stato”, ha avuto modo di scandire il presidente-padrone, orgoglioso di aver trasformato il Paese in una potenza energetica. O meglio: in uno snodo geopolitico e strategico tenuto insieme contemporaneamente dall’alleanza con la Russia di Putin e dalla mediazione ininterrotta con la Cina, senza perdere mai di vista il dialogo con l’Occidente, tanto da riuscire a piazzare il Kazakistan come Paese ospitante una volta per negoziati sulla crisi ucraina, una volta per le trattative sull’Iran e persino per i colloqui internazionali sulla Siria. Al “suo” popolo ha sempre ripetuto la stessa promessa: “Vi servirò fino alla fine dei miei giorni”. Oggi gli tocca contare le statue abbattute.