Nelle carceri il tasso di atti di autolesionismo più alto degli ultimi due decenni di Luca Cereda Vita, 6 gennaio 2022 Parla il coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone: “Il tasso di atti di autolesionismo è il più alto degli ultimi due decenni. Il Covid ha accentuato i problemi già presenti in carcere, ma si può fare molto e subito per migliorare la situazione”. Il 2021 è stato il primo anno segnato per intero dalla pandemia. Questo ha ristretto le libertà, oltre che infettato, chi nella libertà personale è già ristretto: i detenuti. L’associazione Antigone - che da 30 anni monitora le dinamiche nelle carceri italiane - ha verificato nel corso dell’anno appena concluso, visitando 99 carceri sulle 189 presenti sul suolo nazionale, come il ritorno alla normalità purtroppo sia ancora lontano. Ne abbiamo parlato con Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2021, i detenuti negli istituti di pena italiani sono complessivamente 54.307. Un dato ormai stabilmente distante da quello di febbraio 2020, quando nelle carceri italiane c’erano oltre 61 mila persone detenute. Stabile, ma superiore alla capienza regolamentare ferma a 50.851 posti. Siamo ancora alle prese con quella che non si può più definire “emergenza” sovraffollamento? L’impressione che abbiamo avuto è che la popolazione carceraria continui a crescere. Questo accade sia per una tradizionale carenza di spazi, ma anche di personale. La pandemia è diventata anche in carcere la priorità, ma ha fatto “saltare” le dinamiche che consentono di gestire al meglio i detenuti. Un esempio: è stata scardinata la differenza, che è ben più profonda del solo nome, tra le case circondariali e le case di reclusione. Questo per evitare ingressi di nuovi detenuti - con più probabilità di essere stati contagiati -, laddove il sovraffollamento era già elevato. Ma le case circondariali sono pensate con in spazi e servizi di “passaggio”, per chi è in custodia cautelare e in attesa della sentenza definitiva. Sono le case di reclusione ad essere strutturate per persone con pena definita, e di conseguenza un’area trattamentale dedicata ad esempio, non viceversa. E questo fenomeno va avanti da due anni, in cui le persone vengono messe dove capita. A proposito di spazi, poi parleremo anche del tema della carenza del personale, a che punto siamo - a quasi due anni dall’inizio della pandemia -, con la gestione dei colloqui per i detenuti, possiamo dire che la pandemia ho portato un pizzico di digitalizzazione dentro gli istituti di pena? L’emergenza della pandemia ha portato novità interessanti, certo: e non si tratta solo delle video chiamate, ma soprattutto le chiamate. Mi spiego: in molti istituti i detenuti hanno iniziato a chiamare a casa tutti i giorni o quasi. Una rivoluzione. Ad inizio 2022 alcuni ispettori delle carceri girate da Antigone dicono che continueranno perché rende chi vive in carcere più tranquillo, meno solo e in contatto con il mondo fuori, dalle relazioni sentimentali a quelle con i figli. Tornare ad una telefonata a settimana per 10 minuti, che per inciso è una norma degli anni ‘70 quando anche chi viveva fuori chiamava a casa una volta a settimana, sarebbe un dramma. Resta il fatto che per esempio, negli spazi aperti delle carceri non è mai stato concesso di fare colloqui con i parenti. Con carceri così blindate per evitare il contagio, le misure alternative adottate dopo la prima ondata del virus hanno funzionato? E al contempo, come hanno reagito le attività lavorative del Terzo settore e del privato che lavorano con e nel carcere? Bisogna ammettere che misure alternative hanno funzionato per liberare le carceri, si è passati da oltre 61 mila detenuti e meno di 55 mila. I semi-liberi sono fuori dalle carceri, ma in Italia si è puntato e scommesso sulla detenzione domiciliare. Questo ha solo cambiato il luogo, di detenzione, ma non il percorso di reinserimento sociale e anche lavorativo dei detenuti. Chi sconta una pena in regime di articolo 21 o i detenuti che andavano fuori dal carcere per i lavori sociali sono stati messi “in frigo”, e lì stanno da due anni. Con percorsi di crescita personale e professionale interrotti. In carcere, dove non si è autonomi in niente, neppure per fare la doccia, visto che anche per questa pratica di igiene quotidiana bisogna essere accompagnati, l’isolamento dagli altri detenuti di chi esce per lavorare è impraticabile. Per questo il lavoro in carcere e fuori rischia di essersi compromesso, vista la fragilità che questo meccanismo aveva già prima del virus. Anche perché in media lavorava nel 2021 il 43,7% dei detenuti. Ma la maggior parte di loro è alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e con mansioni che spesso non hanno alcuna spendibilità all’esterno. A questo punto è il caso di riprendere uno dei discorsi di apertura: la carenza di personale: manda almeno la metà dei direttori nelle carceri, mancano agenti penitenziari, che però in proporzione sono quasi “al completo” rispetto alla mancanza del personale sanitario e quello dell’area trattamentale-rieducativa… Se si guarda al personale solo il 44% delle carceri ha un direttore incaricato. Ma mi preoccupa un altro dato, ancora di più: ogni 100 detenuti sono in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Segno di un carcere che oggi, ancor più del passato, è un contenitore dell’emergenza sociale, della povertà e dell’esclusione. In più solo solo nel 21% degli istituti c’è un qualche servizio di mediazione linguistica e culturale a fronte di una presenza media di detenuti stranieri al 32,6%. A proposito di diagnosi e presa in carico di pazienti con disturbi psichiatrici: nell’anno appena passato 61 persone si sono tolte la vita all’interno degli istituti di pena italiani, dove si attestano 11 casi di suicidio ogni 10 mila persone. Questo è il tasso più alto degli ultimi 20 anni. L’Osservatorio di Antigone ha registrato 23,8 episodi di autolesionismo ogni 100 detenuti. Gli istituti con numeri alti di sovraffollamento hanno altrettanto alti numeri di episodi di autolesionismo. In questo quadro, oltre alla mancanza di personale formato, quanto contano celle non a misura d’uomo? Parto da alcuni esempi concreti di carceri visitate, così da far toccare con mano il dramma: nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove sono stati registrati in media in un anno 105 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti, o nel Lorusso Cotugno di Torino, dove nel reparto Sestante erano detenuti in condizioni inaccettabili 17 pazienti psichiatrici. Dalle visite che abbiamo fatto è emerso che in un terzo degli istituti c’erano celle in cui i detenuti avevano meno di 3 mq a testa di spazio calpestabile, quindi al di sotto del limite per il quale la detenzione viene considerata inumana e degradante. Ma non è solo il dato dei metri quadri a destare preoccupazione. Nel 40% delle carceri c’erano infatti celle senza acqua calda e nel 54% celle senza doccia, come pure sarebbe previsto dal regolamento penitenziario ormai in vigore dal 2000. Mentre in 15 istituti non ci sono riscaldamenti funzionanti e in 5 il wc non è in un ambiente separato rispetto al luogo dove si dorme e vive. Questo incide sulla salute mentale dei detenuti e, senza banalizzare un tema complesso, dovremmo averlo compreso tra le situazioni di quarantena e lockdown che abbiamo vissuto tutti in questi anni di pandemia. Intanto negli ultimi giorni dell’anno sono partiti tre processi per le violenze nelle carceri italiane: Monza, Santa Maria Capua Vetere e Torino. C’è stata violenza di Stato, e in quei casi sappiamo, abbiamo visto, ci sono casi dove non è emerso, quanto è importante che le carceri siano trasparenti, permettendo un monitoraggio di Stato, ma anche una somiglianza civica dei cittadini e di realtà come Antigone? Per tutti e tre i casi che ha citato, Antigone ha presentato degli esposti ai competenti Procure della Repubblica e nei procedimenti è presente con i propri avvocati. La politica, insieme alla società civile, si è espressa in modo forte su queste dinamiche uscite alla ribalta con il premier Draghi e la Ministra Cartabia nel carcere campano. Nel caso di Santa Maria Capua Vetere con garante campano l’associazione Antigone è tra le parti civili perché crediamo sia una battaglia di civiltà volta a restituire al sistema penitenziario la sua dignità, anche in nome di tutte le migliaia di operatori penitenziari che con grandi sacrifici, quotidianamente, operano nelle carceri del nostro paese, visto quanto emerso nei 43 faldoni, nelle centinaia di chat e intercettazioni, per cui i capi di imputazione vanno dalle lesioni all’abuso di autorità, dal falso in atto pubblico alla cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine, morto in cella a un mese dalle percosse. infine c’è un’accusa, quella di tortura, che per la prima volta viene contestata in un procedimento che riguarda il mondo penitenziario e della quale saranno chiamati a rispondere circa cinquanta agenti. Sono questi i numeri del processo sui pestaggi del 6 aprile 2020, ma quanti sono quelli che non abbiamo visto o fatto emergere? Dobbiamo monitorare e rendere trasparente il muro perimetrale delle carceri. Anno nuovo propositi per un carcere diverso. Cosa fare? E dove è possibile agire subito? Il regolamento delle carceri è nel regolamento d’esecuzione, che non è una legge dello Stato, non deve passare dal Parlamento, ma basta un atto del Ministro. Per questo sarebbe possibile intervenire istantaneamente su una massa enorme di regole, anche piccole, ma che insieme cambiano la vita e la giornata dei detenuti Il sistema penitenziario italiano ha bisogno di importanti riforme strutturali ma anche delle piccole cose, come cambiando la regola degli anni ‘70 sulle telefonate in carcere, adattandola all’oggi, anche con le video chiamate entrate in carcere come effetto collaterale, per una volta positivo, della pandemia. Proprio negli ultimi giorni del 2021 la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia e presieduta da Marco Ruotolo, ha presentato una relazione che contiene diverse proposte in tal senso: dalla previsione di più contatti telefonici e visivi con l’esterno, al maggiore spazio assegnato alle tecnologie; dalla previsione di garanzie nei procedimenti disciplinari nei confronti delle persone detenute, fino all’attenzione prestata alla sofferenza psichica. Le carceri sono sempre più discariche sociali di Valter Vecellio lindro.it, 6 gennaio 2022 Si può cominciare dai dati, significativi e indiscutibili: al 29 dicembre, i detenuti nelle carceri italiane risultano essere 52.705, a fronte di 50mila posti disponibili sulla carta (ma - necessaria precisazione - solo 47.258 sono gli effettivi). I detenuti positivi censiti al 29 dicembre 588; otto i sintomatici, sei i ricoverati. 95.081 i vaccini fatti. Tra i 37mila agenti della Polizia Penitenziaria, 657 i positivi. Oggi lavorano 15.827 detenuti, il 30% circa. In 189 istituti ci sono 194 lavori di pubblica utilità, 275 produzioni, 246 corsi scolastici. Luci ed ombre, insomma. Più luci di quando al ministero della Giustizia ‘sedeva’ Alfonso Bonafede; tanto lavoro ancora da fare per l’attuale ministro, Marta Cartabia, cui va comunque riconosciuto che ha imboccato una strada completamente diversa rispetto a quella del suo predecessore. Le luci. Quelle di cui parla il responsabile del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia: nel carcere romano di Rebibbia gruppi di detenuti sono impiegati in lavori di alta specializzazione e umanità che non ti aspetteresti: “Gestiscono il call center dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Ho visitato la sala dei ‘telefonisti’ che rispondono alle chiamate continue e pressanti soprattutto di genitori e di parenti. Ma c’è molto di più. Cito tre casi molto significativi. La rigenerazione di modem della Linkem che escono come nuovi dal carcere di Lecce e da Rebibbia femminile. Posso rivelare che i manager dell’azienda mi hanno confessato che questa manodopera è di gran lunga superiore a quella esterna. Poi la bonifica del parco Rogoredo di Milano. E la pulizia dei giardini e delle coste dell’isola di Favignana”. Petralia, che prima di ricoprire l’incarico di responsabile del DAP, è stato magistrato impegnato in inchieste antimafia, racconta di un episodio significativo che ha personalmente vissuto: “Quando vinsi il concorso in magistratura, mio suocero penalista mi disse che per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere. Adesso capisco fino in fondo quelle parole”. Risuonano, a quasi quarant’anni di distanza, le quasi identiche parole di Leonardo Sciascia contenute in un articolo pubblicato sul ‘Corriere della Sera’ (7 agosto 1983), in difesa di Enzo Tortora: “Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Ancora più tagliente in una prefazione a un libretto che narrava di incredibili ‘Storie di ordinaria ingiustizia’: “L’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. Ecco addensarsi le ombre. Il 2022 comincia in modo drammatico, per le carceri italiane. Due suicidi nell’arco di 48 ore. Il primo detenuto che si toglie la vita è un albanese, A, 28 anni, detenuto nel carcere di Salerno qualche minuto dopo la mezzanotte del nuovo anno. Sarebbe uscito a settembre del 2023. L’attesa di una ventina di mesi dietro le sbarre più penosa dell’uccidersi. L’altro a Vibo Valentia. Più in generale: negli ultimi 21 anni i suicidi che si sono consumati all’interno delle carceri sono stati 1.221 su un totale di 3.309 decessi. Dal 2000 a oggi si è tolto la vita oltre un terzo di chi è morto in carcere. Un trend che, se si analizzano attentamente i numeri, è stato rispettato ogni anno. Nel 2021 per esempio su 130 morti registrate, ben 53 sono a seguito di suicidio; nel 2020 erano 62 su 152; nel 2019, 53 su 143; nel 2018, 67 su 148; nel 2017, 52 su 123. E così via. Numeri che fotografano una delle conseguenze, la più tragica, del degrado in cui versano le carceri in Italia. Una situazione che allarma i sindacati di polizia penitenziaria: “Il suicidio di un detenuto a Vibo Valentia, dove solo pochi giorni fa un altro detenuto extracomunitario aveva tentato di togliersi la vita dandosi fuoco ed è tuttora ricoverato in gravi condizioni nel centro Grandi Ustionati del l’ospedale Cardarelli di Napoli è il secondo dell’anno appena iniziato dopo il suicidio avvenuto a Capodanno a Salerno”, sostiene Aldo Di Giacomo, leader del Sindacato Polizia Penitenziaria. “Se si aggiunge che nelle ultime ore a Genova solo il pronto intervento di agenti penitenziari ha salvato un detenuto dal suicidio, la situazione è di autentica emergenza civica”. Carceri come discariche sociali, il Governo intervenga, è l’invocazione di Gennaro De Fazio, segretario della UIL-Pa: “A rendere nitido a politici e governanti il quadro delle nostre carceri non sono evidentemente bastate le rivolte del 2020 e i conseguenti tredici morti, così come non è stato sufficiente tutto ciò che è emerso nel corso del 2021. Se il capo del Dap, Bernardo Petralia, pensa che a ogni magistrato farebbe bene trascorrere una settimana in carcere, come titola la Repubblica, noi riteniamo che ne servirebbero almeno due ai nostri politici per comprenderne appieno le storture, la disorganizzazione e i molteplici deficit”. Carcere, la rivoluzione di Cartabia: telefonate libere, app per i colloqui e tutela di genere di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2022 Previsti anche il totem touch per le richieste dei detenuti, le parabole satellitari per vedere le partite di calcio e i canali stranieri. Lo sport diventa elemento del trattamento penitenziario e i servizi igienici vanno obbligatoriamente separati. “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. Le parole pronunciate dalla Ministra Marta Cartabia poco prima di Natale davanti ai membri della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, dopo la presentazione della relazione finale, lasciano ben sperare per l’avvio di una nuova stagione. “Il carcere - ha proseguito la Guardasigilli - ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”. La strada individuata dunque mira ad interventi snelli e veloci senza passare obbligatoriamente per una modifica del tessuto normativo col conseguente rischio di incappare nel veto incrociato dei partiti. Non mancano certo le proposte di modifica anche all’ordinamento penitenziario, al Cp, al Cpp, al Dlgs n. 286/1998 e alla L. n. 395/1990, tuttavia, si legge nella Relazione, “l’impatto delle disposizioni di dettaglio contenute nelle circolari amministrative è fortissimo e in grado di orientare il concreto agire degli operatori”. Si mira così anche a recuperare i significativi contributi degli Stati generali sull’esecuzione penale. Le proposte della Commissione, presieduta da Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma tre), si concretizzano in 8 linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative “per attuare consistenti miglioramenti della vita penitenziaria”. Vediamone alcune. Per i tossicodipendenti, estendendo il Protocollo milanese, si prevede di anticipare la formulazione di programmi terapeutici alternativi ad una fase che precede e non segue la carcerazione. Rispetto al reinserimento lavorativo la proposta è di estendere la prassi già in uso in alcuni territori di organizzare periodicamente open day rivolti alle imprese e la cooperazione sociale, creando anche un sistema di raccolta dei dati dei detenuti idoneo ed utile per favorire l’incontro domanda/offerta di lavoro. Andrebbe poi realizzata una struttura regionale per realizzare la programmazione integrata per l’inclusione sociale, il lavoro e la formazione professionale. Prevista poi la realizzazione di un programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari e nei servizi minorili della giustizia, con la costituzione di una sorta di “cabina di regia” tra i Ministeri dell’Istruzione e della Giustizia, per l’integrazione tra didattica digitale e didattica in presenza (DID), con “auspicabile fornitura di device ad uso individuale per gli studenti”. La Dad invece potrebbe essere utilizzata, oltre che per i percorsi scolastici e universitari, anche per la partecipazione a corsi professionali per acquisire competenze qualificate che possano essere spese fuori dal carcere e in alcuni casi anche dentro (per es. corso per operatore sanitario). Si ipotizzano anche corsi scolastici attraverso la creazione di contatti con i Paesi di origine per le persone in attesa di espulsione. Un’azione semplice ma rivoluzionaria si annuncia la “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano “particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità”. In particolare, la proposta prevede la possibilità di acquistare al sopravvitto apparecchi mobili “configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative (senza scheda e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati) per evitare qualsiasi forma di utilizzo indebito”. Per cui il detenuto sarebbe libero di utilizzare l’apparecchio nei tempi e con le modalità indicate dall’Amministrazione (es. solo nella camera di pernottamento). “Ciò - si legge nella Relazione - consentirebbe di alleggerire il sistema con evidenti benefici per coloro (e non sono pochi) che, non avendo disponibilità economiche, potrebbero chiamare gratuitamente avvalendosi delle video-chiamate con Skype o simili applicazioni, come già sta avvenendo”. E risolvere anche l’annoso problema, legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i detenuti stranieri. Le video chiamate potranno essere effettuate con i cellulari di recente acquistati dall’Amministrazione (3.200) o nelle sale attrezzate e video sorvegliate, già predisposte in diversi istituti, secondo le esigenze organizzative interne di ciascuno di questi. Allineandosi, poi, all’esperienza di altri Paesi europei, “si potrebbero consentire servizi a pagamento (per esempio le lavatrici a gettoni) come già avviene in alcuni istituti italiani per i distributori di bevande e snack”. Si propone inoltre di incentivare il possesso di computer nelle stanze di pernottamento. “Con una circolare - si legge - si potrebbe specificare la destinazione di appositi locali per l’impiego di personal computer con connessione ad internet attraverso una piattaforma protetta e dedicata del Ministero della Giustizia, la quale filtri e impedisca l’accesso ai contenuti non consentiti”. Via libera anche alla introduzione del totem touch e alla informatizzazione dei registri. “Un’altra esigenza particolarmente avvertita tra i detenuti e tra gli operatori - spiega la Relazione - è quella della realizzazione di un totem touch per le richieste dei detenuti con un terminale multimediale, fruibile in diverse lingue, che consenta di sostituire il cartaceo (istanze di cui a mod. 393), gli ordini di sopravvitto (mod. 72) ecc., con una gestione telematica delle richieste”. Investimenti anche in sicurezza: “Certamente è auspicabile il potenziamento dei sistemi metal detector fissi o altre apparecchiature, volte a evitare l’ingresso in istituto di oggetti il cui possesso non è consentito alle persone recluse”. I colloqui potrebbe essere prenotati tramite App: “Particolarmente utile poi al fine di evitare disagi ai familiari dei detenuti e facilitare il lavoro degli operatori del carcere sarebbe la configurazione di una apposita App (già prospettata dall’istituto di Bollate) per la prenotazione da remoto del colloquio con il detenuto in carcere”. Ma si ipotizza anche l’installazione di parabole satellitari “per una più ampia fruizione dei servizi televisivi”, in primis per le partite di calcio: “Considerato il forte interesse mostrato dalla popolazione detenuta per lo sport e in particolare per il calcio, si potrebbe incentivare l’istallazione di parabole satellitari che permettano momenti di svago per vedere le partite”. Mentre per gli stranieri “sarebbe utile attivare i canali delle loro televisioni nazionali in modo da consentirgli di non perdere i contatti con il loro territorio, sentendosi quindi meno lontani e soli”. Si punta poi anche alla implementazione dello sport che “deve essere effettivamente elemento del trattamento penitenziario”, per cui “sarebbe auspicabile che in ciascun istituto vi fosse almeno un operatore abilitato ad essere insegnante per lo sport di base”. E viene indicato come di “fondamentale importanza” il ruolo di promozione e supporto di interlocutori istituzionali quali Sport Salute S.p.A, Coni, Dipartimento per lo Sport. Ma è previsto anche il riconoscimento e la valorizzazione delle esperienze teatrali in carcere e l’agevolazione della vendita diretta dei prodotti realizzati all’interno degli Istituti. Capitolo a parte quello dei servizi igienici. Nonostante quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario, infatti, in molti Istituti i servizi igienici ancora non sono separati dalle stanze. In alcuni casi i bagni sono a vista e “alla turca” e in alcuni istituti (come quello di San Severo e di Turi) i water sono occultati dalla vista da una cabina in legno priva di soffitto, che non isola dai rumori e dagli odori, posta in mezzo ai cameroni. C’è poi una specifica azione per la tutela antidiscriminatoria per orientamento sessuale e identità di genere. Si propone l’adozione di una circolare che regoli le sezioni omogenee per persone transgender o che si dichiarino omosessuali, e temano di subire, in ragione di tali condizioni personali, gesti di prevaricazione, dando prevalenza alle sperimentazioni che hanno condotto (ad esempio la sez. D dell’istituto di Firenze “Sollicciano”, che tuttavia risulta allo stato chiusa) ad affiancare le sezioni per detenute transgender MaleToFemale a istituti o sezioni femminili, piuttosto che maschili, al fine di dare prevalenza - e di poter contare su un personale maggiormente formato in tal senso - al sesso di identificazione invece che a quello meramente biologico. Non solo i magistrati, tutti dovrebbero vivere un giorno in cella di Riccardo Polidoro Il Riformista, 6 gennaio 2022 “Per ogni magistrato sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere” è una frase che ricorre ciclicamente in quei rari casi in cui i media si occupano di detenzione che, invece, da sempre - non ciclicamente - vive un’insopportabile, ingiusta ed incivile quotidiana emergenza. Oggi più che mai, con il virus che si autoalimenta in ambienti ristretti e priva i detenuti anche di quel poco che avevano. La citazione, questa volta, è di Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in un’intervista al quotidiano La Repubblica. Egli ci confida che, quando vinse il concorso in magistratura, fu suo suocero, penalista, a dirglielo e che adesso capisce il significato di quelle parole. All’incirca, quindi, 40 anni fa quest’indicazione fu data, non a caso, da un avvocato ad un neo-magistrato. Il periodo storico è quello della recente entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario del 1975, che prevedeva e prevede, all’articolo 69, che proprio un magistrato - quello di Sorveglianza - deve visitare costantemente gli istituti di pena per vigilare sulla loro organizzazione e prospettare al Ministro della Giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo. Deve esercitare, inoltre, la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della pena sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti. Quanto previsto dall’ordinamento, nella maggior parte dei casi, non avviene. Sono pochissimi i magistrati di Sorveglianza che rispettano tale norma e quelli che lo fanno non prospettano al ministro le innumerevoli e gravissime carenze strutturali, organizzative, sanitarie e igieniche che affliggono le nostre carceri. Una malattia cronica contro la quale coloro che dovrebbero combatterla si sono, da tempo, arresi. Non ci sfugge che il senso delle parole di Petralia non riguarda i magistrati di Sorveglianza, ma le toghe in generale che non conoscono affatto la realtà del carcere. Egli stesso, infatti, nel riportare le parole del suocero-avvocato, ammette che ora ne capisce fino in fondo il significato, perché, solo dopo la sua nomina dello scorso anno, ha iniziato a visitare gli istituti di pena. Nel febbraio del 2012, su iniziativa dell’allora garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, ben 21 pubblici ministeri visitarono l’istituto di Napoli-Poggioreale, tra questi l’attuale procuratore della Repubblica Giovanni Melillo, all’epoca procuratore aggiunto, che in più occasioni ha sostenuto la necessità, da parte della magistratura tutta, di conoscere la realtà detentiva. Non a caso la Procura di Napoli, sotto la sua direzione, ha istituito una sezione specializzata in reati commessi in carcere ed ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Atti che non hanno inciso sulla drammatica realtà delle carceri napoletane, ma che, se non altro, sono il segnale di una particolare sensibilità che, purtroppo, deve fare i conti con un mondo - quello detentivo - chiuso in se stesso, autoreferenziale e che non suscita alcun interesse da parte della classe politica. Non so se sia davvero importante che i magistrati entrino o meno in carcere. Potrebbe non essere necessario in quanto basterebbe che facessero il loro lavoro nel rispetto di quanto previsto dalle norme, considerando, ad esempio, la custodia cautelare effettivamente l’extrema ratio e non una pena prima del processo, che non di rado, si conclude con un’assoluzione. Le ingiuste detenzioni sono, in media, tre al giorno. Va promossa, invece, nell’opinione pubblica, la conoscenza di come è oggi il carcere e come, invece, dovrebbe essere. Va indicata l’importanza della pena scontata secondo i principi costituzionali e non in loro violazione. Alcuni anni fa, l’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali si fece promotore dell’iniziativa “Carceri porte aperte” e molti cittadini ebbero l’opportunità di visitare i luoghi detentivi, conoscendone il bene ma anche l’enorme male che essi fanno alla comunità tutta. Visitiamole le carceri, magistrati e cittadini e vergogniamoci di quanto tolleriamo. La prigione di Halden in Norvegia oggi è la migliore del mondo, ma non è sempre stata così di Viviana Lanza Il Riformista, 6 gennaio 2022 Prima di diventare il migliore del mondo, anche quello norvegese era un sistema penitenziario in cui molti detenuti avevano problemi psichiatrici, nelle celle circolava droga, i detenuti organizzavano proteste ed evasioni, tre guardie penitenziarie furono uccise e il tasso di recidiva era del 70%. Erano gli anni Ottanta e accadeva quello che più o meno accade ancora oggi nelle nostre prigioni, con la differenza che in Norvegia in questi quarant’anni sono riusciti a rendere possibile la rivoluzione del sistema penitenziario al punto da trasformare Halden e, da struttura di reclusione simile alle nostre grandi prigioni (pensiamo a Poggioreale), portarla ad essere il carcere più umano e vivibile del mondo, mentre da noi ancora si discute di come far arrivare l’acqua potabile in un carcere aperto da metà anni Novanta e con una media di circa mille detenuti (parliamo di Santa Maria Capua Vetere). Certo, alla base della rivoluzione norvegese ci sono stati investimenti di soldi (il carcere migliore del mondo è costato 250 milioni di dollari nel 2010) ma la spinta più forte ed efficace è arrivata dalla svolta culturale. “Quando sono entrato nel sistema penitenziario, mi è stato detto che non dovevamo parlare con i detenuti dei loro problemi e che il nostro dovere era solo di sorvegliarli, per cui l’interazione degli agenti con i detenuti era minima. Oggi invece gli agenti lavorano e mangiano con i detenuti, fanno sport e passeggiate insieme a loro. Questo è il concetto di sorveglianza dinamica che applichiamo. L’agente è diventato, oltre che una guardia, un operatore sociale”, raccontò il direttore del carcere Are Høidal alla delegazione dell’Helsinki Vommitee, associazione per la difesa dei diritti umani in Romania, durante una visita nel carcere norvegese. È il senso di comunità il punto di forza di questo sistema penitenziario, il principio alla base del concetto di sorveglianza dinamica di cui parlava il direttore Høidal. Il carcere non è un mondo a parte, come dalle nostre parti. In Norvegia, dal 2008, è in vigore una Carta bianca in base alla quale il sistema della giustizia deve essere incentrato sull’idea di normalità e sulla riabilitazione dei detenuti e per rendere questo possibile c’è un protocollo firmato da cinque ministri: Giustizia, Istruzione, Cultura, Salute e Autonomie locali. Un altro fattore cruciale è legato all’organizzazione della vita in carcere: i detenuti di Halden non oziano in cella per quasi l’intera giornata (eppure vivono in una stanza di 12 metri quadrati, da noi ce ne sono otto, persino dieci, in molti meno metri quadrati) e le attività trattamentali non sono centellinate fra la popolazione dei reclusi. I detenuti di Halden devono scegliere tra il lavoro e la scuola, possono specializzarsi in uno dei sette corsi di formazione professionale offerti con il rilascio del titolo di studio a fine corso, o imparare a suonare uno strumento in uno dei tre studi di registrazione del carcere. Purché si tengano impegnati. La struttura resta un luogo di reclusione, ma gli spazi della pena sono concepiti a misura d’uomo e soprattutto rispettando l’uomo in quanto persona in tutti i suoi diritti. Il concetto seguito è quello per cui la vita in cella non deve essere diversa da quella fuori le mura carcerarie e che la pena non deve privare il detenuto di ciò di cui ha bisogno per vivere in maniera dignitosa. Sin dal primo giorno di reclusione, il detenuto in Norvegia viene preparato alla sua liberazione intraprendendo un percorso di responsabilizzazione, per cui deve lavorare, pagare le tasse, coltivare gli affetti e trovare una motivazione. Chi non rispetta le regole viene isolato, ma in genere la convivenza tra i detenuti, e tra loro e gli agenti penitenziari, scorre più serena. E i risultati sono nel tasso di recidiva: solo il 20%. Non ci sono studi su studi, commissioni su commissioni, proclami su proclami. Si applica nel concreto quello che prevede anche la nostra Costituzione. Giudizi da remoto per tutto il 2022, ma i penalisti contestano la proroga di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2022 Con il decreto Milleproroghe il rinvio è stato svincolato dallo stato di emergenza. Le ragioni sono individuate negli obiettivi di smaltimento dell’arretrato. Camere di consiglio (e sentenze) da remoto per tutto il 2022 nel processo penale. Lo ha stabilito il decreto Milleproroghe, svincolando però la misura dallo stato di emergenza, oggi fissato al 31marzo. Una previsione che incontra la forte opposizione dei penalisti che, in una nota delle Camere penali; sottolineano “l’evidente ennesimo attacco alle garanzie ed alle prerogative difensive, questa volta perpetrato strumentalizzando la pandemia per individuare un termine di proroga privo di qualsiasi collegamento con l’emergenza sanitaria”. L’invito, per evitare che la collegialità delle decisioni sia ridotta a semplice simulacro, è allora a una correzione della disposizione in sede di conversione del decreto. Decreto che peraltro introduce anche una fase transitoria che stralcia dal perimetro della digitalizzazione le udienze già fissate per gennaio. In realtà il rinvio disciplinato dal “Milleproroghe” riguarda, per l’intero 2022, tutte le misure che hanno permesso lo svolgimento dei processi sia civili sia penali. Misure che, si mette in evidenza nella relazione, si sono rivelate assolutamente efficaci per consentire una più rapida trattazione dei processi civili e penali, nel pieno rispetto delle necessarie garanzie procedimentali e “idealmente dovrebbero saldarsi alle nuove misure allo studio del Governo in sede di recepimento delle deleghe per la riforma del processo civile e penale”. Dove la logica non sarebbe più quella solo emergenziale, di garantire condizioni di sicurezza per lo svolgimento dei procedimenti, ma ambirebbe a rendere strutturale una serie di misure che andranno a rappresentare una parte significativa della futura procedura civile e penale. Ed è proprio questa logica che viene contestata dall’avvocatura penale, che vi vede tra l’altro un favore fatto dal ministero della Giustizia all’Anm. E una sponda politica arriva da Enrico Costa, deputato di Azione, per il quale non si può utilizzare in maniera strumentale l’emergenza sanitaria per fare prima entrare in vigore norme assai discutibili e in attrito con i principi di oralità della trattazione per poi renderle stabili legandole a obiettivi di smaltimento dell’arretrato. Una marea di processi annullati. Così i tribunali bocciano la riforma Cartabia di Carmine Gazzanni La Notizia, 6 gennaio 2022 Allarme prescrizione per reati come furti o truffe. Il problema irrisolto resta la forte carenza di organico. L’allarme arriva da Treviso ma in realtà coinvolge tutta Italia. Un messaggio chiaro che ha un altrettanto chiaro destinatario: il ministro della Giustizia Marta Cartabia. Nonostante le tante rassicurazioni sullo smaltimento dei processi, soprattutto penali, arrivate negli scorsi mesi anche grazie alle misure disposte dalla Guardasigilli (leggi l’articolo), sembrerebbe che non solo il problema non sia stato risolto, ma che anzi possa a breve peggiorare. La prescrizione dei reati, anche per processi non complessi, riguardanti ad esempio il furto e la truffa, è ormai una certezza, non più un rischio. A denunciarlo, come detto, è stato Massimo De Bortoli, procuratore facente funzioni a Treviso (a breve arriverà il nuovo procuratore Marco Martani), magistrato che si è occupato dell’inchiesta per il crac di Veneto Banca e che già aveva lanciato l’allarme riguardante, però, per quel procedimento, molto complesso e articolato in diversi filoni. In questo caso le sue parole riguardano i processi ordinari, che toccano più direttamente gli interessi di un grande numero di cittadini. Siccome le prime udienze sono fissate ora al 2024 e quindi i dibattimenti ben che vada cominceranno nel 2025, è chiaro che la prescrizione è una realtà inevitabile. “La barca è di fatto già affondata”, ha detto senza giri di parole De Bortoli che ha scritto al nuovo procuratore generale di Venezia, Federico Prato, delineando il quadro di una giustizia ormai rassegnata, a causa di mancanza di organici che influiscono in modo pesante sui tempi della prescrizione. “In questo modo la giustizia non può funzionare. Dire che la situazione è difficile è un eufemismo”, ha scritto ancora De Bortoli. “Tutti i reati cosiddetti minori che non siano per esempio omicidi, rapine, violenze sessuali, bancarotte sono destinati quasi certamente alla prescrizione, che se non scatta al primo grado arriverà con l’Appello. I giudici sono costretti a rinviare tanti processi monocratici per fare spazio a maxi processi come Veneto Banca o alle Corti d’Assise”. La relazione inviata a Venezia è eloquente e non a caso ora la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha deciso di inviare gli ispettori. Che, tuttavia, serviranno a ben poco. Il problema, infatti, è di ordine numerico, per così dire: i nodi strutturali a Treviso sono simili a quelli di tanti altri uffici giudiziari, ma non per questo meno drammatici. Mancano dirigenti e impiegati amministrativi. Mancano anche due pubblici ministeri (su 13) e solo di recente sono stati banditi i posti per coprirli, a distanza di un anno dall’allarme inviato al Consiglio Superiore della Magistratura. E il punto è che Treviso non rappresenta in questo un unicum. Secondo i dati disponibili sul sito istituzionale del Csm, infatti, la pianta organica dei magistrati dovrebbe contare 10.433 togati, ma risulta una scopertura di 1.343 unità. Nel dettaglio mancherebbero 989 magistrati giudicanti (su un totale in pianta di 7.814) e 354 magistrati requirenti (su 2.619 che dovrebbero essere in totale). Uno dei distretti più “preoccupante” è Roma: qui in totale dovrebbero operare 602 magistrati tra requirenti e giudicanti ma ne mancano all’appello ben 121. Il 20%. Né va meglio in località dove il presidio dovrebbe essere una priorità. Un esempio? Reggio Calabria: i magistrati requirenti - e dunque coloro che effettivamente conducono le indagini - dovrebbero essere 66, ma sono operativi in 54. Dodici in meno (il 18,8%) che si fanno sentire. Serve un Presidente che metta la giustizia (e la guida del Csm) al primo posto di Alberto Cisterna Il Dubbio, 6 gennaio 2022 Vanno riscritte le regole sull’ordine giudiziario: perciò è difficile immaginare al Colle una toga in servizio. Mattarella resta la scelta ideale. L’alternativa? Un ex magistrato. La partita del Quirinale è strettamente avvinta a quella sulla giustizia. Non era mai successo prima che la scelta del candidato alla più alta magistratura dello Stato fosse così intimamente collegata alla visione che il nuovo inquilino del Colle dovrà esprimere sui problemi della giustizia italiana. Certo non si può dimenticare che ai tumultuosi ultimi mesi della presidenza di Francesco Cossiga il picconatore sia poi seguita la scelta di un ex-magistrato allo scranno più alto delle istituzioni repubblicane (Oscar Scalfaro), con tutte le obiettive ricadute che quella elezione ha avuto sulla vita politica del paese e sulla stessa sorte della magistratura italiana in piena Tangentopoli e con la successiva crisi “giudiziaria” del primo governo Berlusconi da gestire. Quella del presidente dell’Antimafia Nicola Morra, ossia l’idea di candidare un magistrato di punta delle procure al Colle più alto, è di sicuro una provocazione, ma che non può essere archiviata puramente e semplicemente come fosse una boutade lanciata lì prima della contesa elettorale del 24 gennaio. Ha un radicamento nel paese, nella parte più sedimentata della sua coscienza e della sua percezione etica della Repubblica, la convinzione che la gravità del tempo esiga il ricorso alle migliori energie della Nazione. Una sorta di Up patriots to arms che periodicamente misura la sofferenza della democrazia italiana e richiama alla mente il mito di Cincinnato destinato a salvare Roma in una grave emergenza. Se questa può essere la traiettoria di quella, pur autorevole, nomination alla presidenza, allora il segnale deve giungere forte e chiaro, soprattutto a quanti puntano a soluzioni pasticciate o a scorciatoie francamente impraticabili: l’ora esige una scelta assoluto rilievo. Ma torniamo alla questione principale, ossia quella dell’inscindibile correlazione che le elezioni del 2022 pongono tra lo scranno quirinalizio e quello di palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura. Sarebbe irragionevole non constatare che molte delle forze politiche in campo, e chiamate al voto di gennaio, hanno tra le proprie fila leader o elementi comunque di primo piano pesantemente acciaccati da vicende giudiziarie di un certo rilievo. Ancora sarebbe vano negare che spira nel paese e nelle sue istituzioni un’aria - come dire - quanto meno scettica, se non ostile, nei confronti della magistratura italiana che rischia di essere chiamata, nel tempo a venire, a un drammatico redde rationem dopo l’affaire della procura di Roma. La posizione del Quirinale sarà decisiva per affrontare questo snodo. Le parole spese dal presidente Mattarella il 24 novembre scorso nell’intervento al decennale della Scuola superiore della magistratura di Scandicci non potevano essere più chiare e più dure. La magistratura italiana deve essere rifondata eticamente e lo snodo delle regole per la composizione del Csm e per regolare le carriere delle toghe è un punto irrinunciabile. Su questo crinale sono praticamente tutti d’accordo e questo non solo, ovviamente, sbarra la strada alla nomina di un qualsiasi magistrato in servizio alla carica di presidente della Repubblica, ma impone al candidato che voglia avere l’atout di un ampio consenso avanti alle Camere riunite un preciso assetto politico in materia di giustizia. Il tema è particolarmente delicato, perché se è pur vero che sono in corsa candidati segnati da una irriducibile avversione al mondo delle toghe, è anche certo che l’alta funzione di rappresentanza di tutte le istituzioni repubblicane che compete al Presidente imporrà la scelta di una figura equilibrata e capace di rassicurare tutti sul fatto che la strada delle riforme sarà ordinata e non diventerà una sorta di imboscata vendicativa contro la magistratura italiana. Non sarebbe male, a proposito, attendersi qualche precisa presa di posizione anche sulla direzione del Csm che, sinora, è stata sempre rimessa a un vice di estrazione parlamentare, come imposto dalla Costituzione. Una più ravvicinata presenza del Presidente della Repubblica ai lavori del Csm e una sua più condizionante azione sui gangli operativi dell’organo di autogoverno, potrebbe avere un’importante funzione di stimolo per tutti i membri di palazzo dei Marescialli e potrebbe rendere ancora più autorevole la voce del suo vice. D’altronde in questo 2022 si avrà anche il rinnovo del Csm e si apre una finestra irripetibile per l’eventuale incardinarsi di nuove prassi di rilevanza costituzionale sin dal primo funzionamento del nuovo organo elettivo. Certo la conferma di Mattarella risolverebbe appieno il problema, poiché la strada è stata tracciata e non resterebbe che darvi attenzione e attuazione. Diversamente il range delle opzioni non è molto ampio e qualche ex magistrato non sarebbe poi così distante dalla cifra di rassicurazione che il momento impone. Il governo non decide, per la riforma del Csm resta solo la “scorciatoia” della Commissione di Valentina Stella Il Dubbio, 6 gennaio 2022 Aspettando Godot chissà se arriverà mai al nostro cospetto la proposta governativa di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Nel momento in cui scriviamo è stato da poco reso noto l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri: “Decreto legge su misure urgenti per fronteggiare l’emergenza Covid-19, monitoraggio dei provvedimenti attuativi, varie ed eventuali”. Augurandoci che una riforma così importante non sia stata immaginata per i ritagli di tempo, possiamo dunque dire che un’altra occasione è saltata, dopo quella di Natale. Allora si rafforza l’ipotesi che vi abbiamo condiviso ieri secondo la quale l’emendamento della ministra Cartabia potrebbe arrivare direttamente in commissione Giustizia alla Camera. È quello che auspica l’onorevole del M5S, Eugenio Saitta, relatore del provvedimento: “A questo punto la riforma, che si fa sempre più urgente, venga portata direttamente in Commissione, soprattutto perché occorre rinnovare con una nuova legge elettorale il Csm”. Dello stesso parere l’altro relatore, il dem Walter Verini: “C’è urgenza della riforma per garantire nuovi meccanismi di elezione per il Csm; quindi ci aspettiamo che nei prossimi giorni gli emendamenti della ministra arrivino in Parlamento o attraverso il vaglio di un prossimo Cdm o con la presentazione direttamente in Commissione”. Per l’esponente di Forza Italia, Pierantonio Zanettin “siamo in un ritardo talmente grande che a questo punto sarebbe opportuno trasformare la legge delega, che prevede un anno per i decreti attuativi, in una legge immediatamente precettiva. Altrimenti si rischia di fare una legge di principi che non verrà mai attuata”. Ipotizzando che la riforma del sistema elettorale del Csm sia immediatamente applicabile, per Zanettin però “ci sono altri aspetti importanti che vanno modificati. Tra massimo un anno ci saranno nuove elezioni politiche e noi vogliamo arrivarci senza aver normato la disciplina sulle porte girevoli?”. Critico per questo ennesimo nulla di fatto è anche l’onorevole di Azione Enrico Costa: “Per accelerare i passaggi si è utilizzato il disegno di legge Bonafede come testo base. Io sono stato l’unico a votare contro, auspicando un ddl proprio del governo che si sarebbe potuto già fare dallo scorso aprile. A questo punto mi sembra di rivedere il film della legge Severino, arrivata con il governo Monti quasi alla fine della legislatura con alcuni decreti legislativi. Alcune deleghe sono state esercitate, altre no. Ora ci fanno arrivare all’ultimo momento utile, quando non avremo forse più possibilità di reagire. Basterà che qualcuno remi contro la delega suo fuori ruolo, per fare un esempio, e la riforma salta. Uno dei tanti modi per disinnescare i cambiamenti che non piacciono all’Anm”. Il labirinto della burocrazia che ha ucciso Angelo Burzi di Federico Ferrero Il Domani, 6 gennaio 2022 L’ex consigliere del Piemonte che si è suicidato la vigilia di Natale era stato assolto e poi condannato per aver preso rimborsi per mille euro al mese. La vicenda ha innescato la solita zuffa fra giustizialisti e garantisti, ma la storia ricorda più Kafka. Quanti euro ha rubato Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale del Piemonte che si è tolto la vita alla vigilia di Natale? L’ennesima corrida tra garantisti e giustizialisti, giocata attorno al suo cadavere, come al solito non aiuta a capire un bel niente. Le verità di questa vicenda tragica vanno rintracciate nei dettagli, non certo negli slogan. Burzi si è negato l’esistenza a 73 anni, “interrompendo il gioco e abbandonando il campo in modo definitivo”: agli atti esiste una email, spedita ad amici e colleghi, che indica tre ragioni alla base del gesto. La prospettiva di prossimi “interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli”, la decisione (definita “peggiore” rispetto alla scoperta della malattia) della Corte d’appello di rideterminare la sua pena in anni tre di reclusione per il reato di peculato e, infine, la conseguenza di vedersi sospeso il vitalizio, su cui Burzi contava, “non essendomi arricchito” con la politica. Ha ritenuto non più tollerabili “la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care”, cui ha preferito somministrare “oggi, adesso, una dose di dolore più violenta, ma una tantum” piuttosto che trascinare quei sentimenti per un tempo indeterminato. Collegare direttamente un suicidio a una ragione specifica è sempre operazione arrischiata, spesso in malafede. Semmai, sarà utile notare come il suicidio di Burzi possa aiutare a gettare una luce nuova, non scontata, sul tema dei rapporti tra magistratura e politica. Burzi, ingegnere, tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte negli anni Novanta e, per ultimo, esponente del gruppo di fuoriusciti dal Pdl di Progett’Azione, era uno dei venticinque imputati nel processo principale di Rimborsopoli, nato sostanzialmente da alcune dichiarazioni rese a una tivù locale da un consigliere regionale dello stesso suo partito di provenienza che aveva accusato compagni di casacca - e non - di approfittare delle maglie larghe dei rimborsi, bollando il sistema come “una fogna”. L’indagine susseguente della Guardia di finanza aveva portato alla scoperta di una scoppiettante sequela di beni e utilità personali pagati con soldi pubblici: tagliaerba, valigie, biglietti per eventi sportivi, night club, weekend all’estero, ferramenta, centri estetici, cd musicali, tabacchi, giocattoli, gioielli, multe per eccesso di velocità, mobilio e altre amenità, per i quali erano stati chiesti e ottenuti rimborsi senza che nessuno, in regione, avesse battuto ciglio. In udienza, un consigliere aveva provato a difendersi sostenendo di essersi recato a teatro con ticket a carico della regione per verificare la qualità degli spettacoli. Si raggiunsero altre punte di spregio istituzionale notevoli, da parte di rappresentanti del popolo che avevano inteso la nomina a palazzo Lascaris come la vincita di cinque anni di vita a sbafo e si erano fatti ripagare pure le cresime dei nipoti. Le cronache trovarono irresistibile il costume da bagno (verde, il colore della Lega) messo a rimborso dall’allora governatore Roberto Cota, che figurava tra gli assolti in primo grado e condannati dell’ultima sentenza in appello-bis, proprio come Burzi. Sull’episodio specifico si ricostruì, peraltro, che si era trattato di un errore materiale dell’addetta alla contabilizzazione delle spese: la marca dell’indumento (Vineyard Vines) e il costo dello stesso potevano suggerire trattarsi di un pasto in vineria. Ma Burzi, cosa aveva fatto? Gli fu contestato il peculato - cioè l’appropriazione indebita commessa da un pubblico ufficiale - per spese proprie come consigliere Pdl e come capogruppo di Pdl e del gruppo Progett’Azione. Nel complesso gli è stato chiesto conto di 12.784 euro per ristoranti, 432 euro per spese di patrocinio legale, 260 euro per un acquisto di fiori, più una singola fattura plurima da 1.400 euro per una serie di pasti pagati in un’unica soluzione. E altri 13.000 euro circa di scontrini di colleghi consiglieri da lui autorizzati al rimborso in qualità di capogruppo. In tutto 28.000 euro di spese contestate effettuate da maggio 2010 a settembre 2012: 28.000 euro in 28 mesi, mille euro al mese per i quali l’azione penale si chiude per “morte del reo” a dieci anni dai fatti. Nel maggio 2015, a Torino, Burzi si presentò in aula davanti alla presidente Silvia Bersano Begey per rispondere degli addebiti. Il giudice mostrò di apprezzare “la analitica difesa, fondata sulla ricostruzione ex post - per quanto possibile - dalla sua agenda per quanto attiene agli impegni che riteneva, per il commensale (o i commensali) e l’oggetto, aventi natura istituzionale”. Non c’erano ricevute per Rolex, né resort di lusso, né massaggi. Nel corso dell’esame, Burzi tentò di rammentare, scontrino per scontrino, con chi avesse pranzato nel tale giorno del tale mese, anche sei o sette anni prima. Fece notare, depositando gli estratti conto, che - onde evitare confusioni - era solito pagare con un bancomat le spese di ristorazione “di lavoro”, e quelle certamente private con un’altra carta. Risultava. Il pubblico ministero, tuttavia, gli imputava un certo numero di irregolarità. A volte perché Burzi risultava aver pagato nel tale locale, mentre il suo telefono agganciava una cella in un’altra zona della città. Un riscontro che i giudici di primo grado esaminarono risolvendolo a suo favore: con un accertamento tecnico, la difesa aveva dimostrato la presenza di dati non affidabili nell’abbinamento di indirizzi di locali e posizione del telefono catturata dalle celle telefoniche. Il giudizio di primo grado assolse Burzi, giudicando legittime sia le spese sostenute per il patrocinio legale, sia quelle per l’acquisto di fiori (non rose per un’amante ma una corona mortuaria acquistata a nome del gruppo consiliare), sia la fattura per la realizzazione di un Dvd di propaganda del gruppo del Pdl e non, come ipotizzato, per la campagna elettorale personale. Per le altre spese, quelle dei pasti, definite “ambivalenti”, accolsero la difesa di Burzi, che le aveva ritenute “ascrivibili alle spese di rappresentanza, perché sostenute nell’ambito della sua attività istituzionale e per ragioni a essa connesse”. Per le spese illegittime altrui di cui rispondeva come capogruppo per omessa verifica, invece, mancava “la consapevolezza di concorrere in una condotta criminosa”, talora perché il consigliere disonesto gli aveva presentato documentazione artefatta che, a un esame non troppo approfondito, poteva apparire autentica. Per capire come la sentenza di assoluzione piena del 2016 (“il fatto non sussiste”) sia divenuta una condanna altrettanto piena nel 2018 in Corte d’appello (che condannò tutti e venticinque gli imputati, anche i quindici assolti in primo grado) è necessario addentrarsi nei gangli di una normativa non così intuitiva ed esposta a interpretazioni variegate. Non visioni garantiste o giustizialiste, come ci indica un dibattito pigramente ideologico e avulso dai fatti: semmai, interpretazioni più burocratiche che psicologiche, argomenti che appaiono di primo acchito più adatti a un processo amministrativo che a quello penale. In appello si stabilì che Burzi fosse colpevole perché aveva interpretato le norme sulla rappresentanza in modo ingiustificatamente estensivo e che non avesse vigilato come dovuto sulle spese irregolari autorizzate ai suoi consiglieri. E il nodo è tutto qui. Nessuno ha contestato a Burzi (ad altri sì, eccome) l’incongruenza nelle spese: erano pasti in giornate di lavoro, non borse griffate o maquillage. E per un ammontare ragionevole rispetto ai valori di mercato: niente vini di pregio né menu di lusso. Solo che, secondo i giudici, non erano comunque rimborsabili. La legge regionale allora vigente in materia, datata 1972, era piuttosto vaga sul tema dei rimborsi concessi ai gruppi. Non stilava elenchi tassativi di spese ammesse e non ammesse. E se non c’era bisogno di avvalersi di una perizia tecnica per capire che il weekend a Madrid con la moglie, o l’acquisto di una Playstation al figlio, non rientrassero nelle spese di rappresentanza del gruppo, è vero anche che la prassi ultradecennale in seno a tutte (dicansi tutte) le forze politiche in tutti i consigli regionali d’Italia aveva sfumato i confini della correttezza. Cosicché la Corte d’appello insistette su un punto: al di là dei delinquenti che si pagavano il tappeto in soggiorno e l’impianto stereo in automobile coi soldi della regione, ai consiglieri toccava fare una distinzione a monte. E cioè: le somme di cui si parlava, dette “fondi di funzionamento”, non erano genericamente rimborsi ai consiglieri ma somme messe a disposizione dei gruppi consiliari. Non dei singoli, né dei partiti di cui pure erano espressione. Un concetto non così lapalissiano per il cittadino poco avvezzo alla macchina istituzionale ma che i consiglieri, secondo i giudici, dovevano avere chiaro essendo peraltro legislatori, e avendo loro stessi nel 1972 creato la norma poi invocata per difendersi. Una spesa connessa all’attività politica, insomma, non era rimborsabile a meno che non fosse connessa a iniziative del gruppo. Come statuì la Corte dei conti nel 2012, rimborsabili con quei soldi erano soltanto le spese “finalizzate ad apportare vantaggi che l’ente trae dall’essere conosciuto”: come poteva essere un rinfresco in cui si presentasse l’attività politica del gruppo e si offrisse da mangiare, da bere, e pure qualche gadget di modesto valore. Mentre il pasto consumato dal consigliere con l’ospite per promuovere la propria attività, o per discutere di problemi della città o della regione ma slegato da iniziative del gruppo, non valeva. Le spese per l’acquisto di quotidiani, rassegne stampa e libri erano ammesse, perché compatibili con l’attività di un gruppo. Quelle che i consiglieri per decenni hanno sostenuto per incontrare membri della società civile - giornalisti, professionisti, elettori - quelle no. Se Burzi parlava col cronista della viabilità o di politiche di occupazione o dello sport, come peraltro ammesso in alcune circostanze, stava facendo il suo lavoro di consigliere ma doveva farsi bastare emolumenti e diarie previste per i consiglieri. I pranzi di lavoro rimborsati con i soldi della legge del 1972 dovevano avere uno scopo promozionale o comunque dovevano essere espressione di attività politica del gruppo consiliare. Un principio che, apparentemente, implicherebbe il dovere per il giudice penale di indagare in dettaglio i contenuti specifici di ogni conversazione fatta da un politico con le gambe sotto al tavolo. Il confine è sottile ma su questo si gioca il giudizio se il politico di turno sia o non sia un ladro, visto che l’articolo 314 del codice penale definisce colpevole di peculato colui che “avendo, per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria”. Nella sentenza di appello, i pranzi “ambivalenti” di Burzi passati in primo grado vengono classificati come soldi rubati, al pari dell’acquisto del tagliaerba: “Le somme con cui veniva costituito il fondo per il funzionamento dei Gruppi costituivano una sorta di “zona franca”, di elargizione liberale di denaro da parte della regione che i singoli consiglieri potevano “modellare” e “piegare” liberamente in ragione del senso politico personale”. Ma, come si vede, qui non si tratta tanto di un attacco della magistratura alla politica quanto di un giudizio che dà rilievo penale a una pratica amministrativa dai confini incerti: tanto che, sulla base degli stessi elementi di prova, il giudice di primo grado la qualificò come lecita mentre l’appello e la Cassazione la bollarono come reato proprio. Eccependo che, se di errore si era trattato, non era stato un errore di fatto ma di diritto. Tradotto: Burzi non si era sbagliato in buona fede a prendere soldi che riteneva suoi e invece non lo erano, ma aveva consapevolmente chiesto di farsi rimborsare pranzi con soldi pubblici, ignorando di non poterlo fare. E se - ragionarono in appello - i consiglieri avevano dubbi sulla finalità dei soldi versati ai loro gruppi, potevano informarsi prima di usufruirne, visto che nessuno aveva dato loro il diritto di considerarli a disposizione per il proprio mestiere di politico regionale. Neanche la consuetudine, perché era contro la legge. Nei gradi successivi al primo, la difesa di Burzi ha insistito sulla “natura giuridica composita dei gruppi consiliari e sul rilievo dell’attività compiuta dal singolo consigliere, sulla nozione e sull’ambito applicativo delle spese di rappresentanza”, argomentando che vi sarebbero dovute rientrare anche quelle “di cortese ospitalità e quelle esterne rispetto a contesti ufficiali, se non aventi connotazioni meramente personali e di pura liberalità”, e rimarcando anche che l’attività singola del consigliere potesse essere intesa come spesa del gruppo. La risposta è stata un niet: attività singola sì, ma purché “in modo conforme alle iniziative individuate dal gruppo per le finalità istituzionali di questi”. Non potevano essere imputate a quel fondo né spese politiche dei partiti, se non erano connesse ad attività politiche del gruppo; né spese per la personale attività politica dei consiglieri. La Cassazione, nel 2019, decise che, per le spese sostenute a titolo personale, a Burzi andasse confermata la condanna; per altre ipotesi in concorso con altri, rinviò il giudizio in appello, non ravvisando provato il concorso nel reato. “Alla fine del processo di appello, 14 dicembre u.s., ho totalizzato una condanna a tre anni per peculato, svolto continuativamente dal 2008 al 2012”, ha scritto Burzi nella sua missiva di addio. “I possibili sviluppi stanno in un possibile nuovo ricorso in Cassazione, che avrà con grande probabilità un esito nuovamente negativo, diciamo alla fine del 2022. E qui iniziano i problemi seri, perché interverrà la sospensione dell’erogazione del vitalizio per la durata della condanna. Probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti, pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro”. E sì, perché la magistratura contabile già gli aveva chiesto conto. Trent’anni fa, l’inchiesta Mani pulite aveva messo in scena uno schema diverso. La magistratura perseguiva reati che i politici spesso rivendicavano di aver commesso, ma in nome di una “ragion politica” intesa come implicitamente superiore alla legge. Sergio Moroni, l’esponente socialista che si suicidò rivendicando la sua innocenza, lasciò scritto di non sopportare l’essere stato “accomunato nella definizione di ladro”. Il caso di Angelo Burzi è completamente diverso. Indica che i tempi sono cambiati e, se analizzato, aiuta a comprendere come la stanca polemica sui giudici che aggrediscono la politica sia ormai vecchia e inutile: da una parte la curva dei “un ladro di meno”; sul fronte opposto, chi legge ogni vicenda penale che tocchi un politico come evidenza di ordalìa del potere giudiziario. Per l’allergia del protagonista alla dabbenaggine e alla semplificazione grossolana delle questioni, e per rispetto a una figura unanimemente considerata figlia della classe dirigente sabauda di maggior dignità, è meglio che Burzi non sappia di essersi offerto, con il suo ultimo atto, come vessillo uguale e contrario di un confronto asfittico tra fazioni, tanto estreme da darsi inconsapevolmente di gomito. Nell’archivio di Radio Radicale c’è il documento audio della autodifesa di Burzi davanti ai giudici, che ci consegna una chiave di lettura più attuale: quella della giustizia penale costretta a decidere se l’imputato meriti o non meriti la galera sulla base di complesse valutazioni di ordine giuridico su norme amministrative non chiare neppure per consiglieri in buona fede, confuse da prassi risalenti e contraddittorie. A un certo punto, riguardo la ricostruzione di una ricevuta per un pasto da pochi euro, l’imputato si rivolge alla presidente scusandosi per la lungaggine nel raccapezzarsi, nel ricordare circostanze, facce, piatti ordinati. “Ma per me”, si giustifica, “questa è la più infamante delle accuse”. Il peculato per lui era un disonore: eppure non si difese rivendicando la sua azione politica, bensì dando spiegazioni su ogni scontrino, antipasto per antipasto, convinto di non aver speso un euro a uso privato. Non come un politico che si sente attaccato in quanto tale dalla magistratura, ma come un cittadino al quale la patente di ladro arriva per via burocratica e assume l’atteggiamento del contribuente onesto che ha ricevuto una cartella pazza. E la cartella pazza gliela manda una giustizia penale che somministra, giustamente, anni di galera per un reato infamante come il peculato ma che, una volta fissato (con fatica, stante il giudizio di assoluzione piena in primo grado) un confine tra lecito e illecito non ha armi, codici e giurisprudenza alla mano, per distinguere tra peculato e peculato. Tra il dolo di chi si compra un tagliaerba con il denaro pubblico e quello di chi offre il pranzo a un architetto per parlare del futuro urbanistico di una città. Ma lo fa coi soldi destinati ad altre spese, magari meno efficaci, magari meno “giuste”. Se, a quell’architetto, il gruppo di Burzi avesse chiesto e pagato una consulenza urbanistica, sarebbe stata rimborsabile. E così, tra un imputato accusato di aver speso 500 euro al mese per pranzi di lavoro dagli incerti contenuti e uno accusato di aver rubato ogni mese 5.000 euro pubblici per abbigliamento, biglietti per teatri e stadi, night club, benzina e manutenzione della propria autovettura, tabacchi, ferramenta, fiori, alcolici, articoli per la casa e centri estetici, per un totale di 144.000 e rotti euro, al primo sono stati rifilati tre anni di reclusione, al secondo quattro e mezzo. E se fosse questa, la vera crisi del processo penale che il suicidio di Burzi ci indica? Il suicidio di Nino Gioè, la “ndrangheta stragista” e l’ennesimo teorema sulla trattativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2022 Giunge notizia, rivelata da Repubblica, che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria ha messo agli atti del processo d’appello ‘ ndrangheta stragista, il fatto che il boss Nino Gioè avrebbe voluto collaborare con la giustizia. Ufficialmente si sarebbe suicidato in carcere di Rebibbia la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993. Ora, con questi nuovi atti, si farebbe largo l’ipotesi che in realtà sarebbe stato ucciso, simulandone il suicidio. Subito prende piedi di nuovo l’ipotesi dei servizi segreti deviati, addirittura - nell’articolo de La Repubblica - spunta il nome del “protocollo farfalla”. Ma cosa c’entra con il 1993, quando è assodato che parliamo di una operazione di intelligence fallimentare effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004? Un miscuglio di suggestioni che prestano il fianco alla tesi della “ndrangheta stragista”, molto simile al teorema trattativa Stato- mafia, ma integrata con la componente calabrese. I motivi del perché è morto - Che sia possibile un suicidio simulato, non è una ipotesi peregrina. Non è un caso che i collaboratori con la giustizia, in carcere vanno protetti e messi in sezioni isolate dai mafiosi. A maggior ragione uno come Antonio Gioè. Infatti era situato in una cella singola, seppur nello stesso braccio dove era recluso Totò Riina. Gioè era coinvolto nella strage di Capaci e catturato dalla Dia nel marzo del 1993. Il 29 luglio dello stesso anno fu trovato suicida nella cella del carcere di Rebibbia, impiccato alle sbarre coi lacci delle sue scarpe. Emersero subito delle perplessità e i sospetti manifestati, e non solo dagli investigatori, sulla spontaneità del suicidio di Gioè, e l’ipotesi tra le altre formulate che il suicidio fosse stato determinato in Gioè dal timore di poter rivelare i nomi dei partecipanti alle stragi e da maltrattamenti subiti durante la detenzione da esponenti delle forze dell’ordine, per estorcergli rivelazioni utili alle indagini, nel contesto di una gestione arbitraria dei detenuti, avallata da taluni settori investigativi. Come si evince dalle risultanze processuali, Gioè, prima della cattura, era stato intercettato mentre parlava di progetti di uccisione degli agenti del carcere di Pianosa e di un attentato al Palazzo di giustizia di Palermo. Attraverso di lui, gli investigatori avevano individuato il commando della strage di Capaci. In un interrogatorio del 10 settembre ‘ 96, fatto congiuntamente dai Pm delle Procura di Palermo, Caltanissetta e Firenze, il pentito Giovanni Brusca è stato sentito pure sul suicidio di Gioè, e nel rispondere ne dipingeva una personalità autodistruttiva, accennando al fatto che spesso Gioè faceva discorsi su delle sue letture riguardanti casi di suicidio con metodi particolari di avvelenamento, per non essere costretti a parlare. Quindi Brusca non aveva avuto dubbi che Gioè si fosse effettivamente suicidato in carcere. Il dubbio, quindi, rimane. Aveva infranto le regole di Cosa Nostra - Ma non finisce qui. Gioè, prima di morire, ha lasciato una drammatica lettera. “Stasera sto trovando la pace e la serenità che avevo perso circa 17 anni fa. Ero diventato un mostro e lo sono stato - scriveva - fino a quando ho preso la penna per scrivere queste due righe, che spero possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati, che solo per mia mostruosità si ritroveranno coinvolti in vicende giudiziarie”. Il boss avrebbe infranto nel modo peggior le regole di Cosa nostra, parlando dei segreti della mafia tramite il suo telefonino intercettato, senza però rendersi conto di essere controllato dagli investigatori. Da qui le “minacce” a lui e ai suoi familiari, le “pressioni” di cui deve essere stato oggetto forse anche in carcere che lo avrebbero spinto al suicidio. Gioè, infatti nella lettera, parlava delle “moltissime fandonie” dette “per millanteria” e registrate dalle forze dell’ordine, tentando di scagionare dalle sue accuse alcuni boss. Nella lettera, Gioè aggiunse anche questo: “... dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato all’editore una tessera dello stesso creditore, il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato: mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il signor Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo”. Ed è qui uno dei nodi dove si inserisce una delle tesi che entrò nel processo trattativa Stato- mafia. È la meno conosciuta, ma dove hanno costruito l’ennesimo castello di carta: la trattativa Gioè - Paolo Bellini sulle opere d’arte. Paolo Bellini avrebbe deviato verso il teorema trattativa - Quest’ultimo è un personaggio ambiguo, dove è difficile distinguerlo tra la millanteria e la credibilità. Nato nel 1953, aveva un passato di estremista nei gruppi emiliani di Avanguardia Nazionale, oltre che una serie di reati alle spalle, che lo avevano portato per anni in latitanza in Sudamerica (dal 1976) ed in prigione in Italia. In carcere - sotto il falso nome di Roberto da Silva - Bellini era entrato in confidenza con Gioè, cosa che gli aveva consentito di operare informalmente come contatto tra le forze dell’ordine e la Mafia a partire dal 1993. Suggestioni a parte, le risultanze processuali indicano che l’ex ros Mario Mori svalutò l’importanza di Bellini, considerandolo non in grado di potere fronteggiare da infiltrato quei mafiosi, i quali avrebbero potuto sospettare di lui e ucciderlo subito. In effetti, come ampiamente spiegato da Brusca, e anche da Gioacchino La Barbera, loro stessi e Gioè per primo (pensiamo a quel passaggio della lettera), sospettarono dal primo istante che Bellini fosse un infiltrato, che volesse farli catturare o che avesse comunque doppie mire. Anche gli ufficiali della DIA di Roma, cui pure lo stesso Bellini era andato a rivolgersi, chiedendo per la sua missione in Sicilia trecento milioni di lire in cambio, non la reputarono di interesse. In realtà, emerge l’ipotesi che le dichiarazioni rese da Bellini, soprattutto quelle successive al dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Firenze, sui suoi dialoghi con Gioè sulla trattativa con persone potenti di Roma, non rivestirebbero di alcuna credibilità. Perché? Le dichiarazioni dello stesso Bellini al Pm ed alla Corte d’Assise di Firenze, paleserebbero che l’idea di colpire i monumenti (stragi mafiose del 1993) fu abilmente suggerita proprio da Bellini a Gioè. Nella sentenza della corte d’assise di Firenze, emerge che anche Brusca, in tutto sul punto riscontato, ne fu diretto testimone. La verità, come sempre, è quella più semplice. Anche se mal si incastra con taluni infiniti teoremi giudiziari. La sigla “Falange Armata” usata dai mafiosi per depistare - Inventata in ambienti carcerari, tanto che inizialmente appariva con il nome “Falange armata penitenziaria”, è stato sempre Brusca - durante l’interrogatorio del 96 - a rilevare che quella sigla erano stati rivendicati gli attentati di Firenze e Milano, per depistare - diceva- deviando i sospetti sulla matrice delle bombe. Spiegava al riguardo che in precedenza anche durante discorsi fatti di tra lui e Gioè, si parlava di depistaggio, ragion per cui era portato a ritenere che al momento delle stragi del ‘93 Bagarella avesse utilizzato la sigla Falange Armata. Gli sembrava di ricordare di avere sentito Bagarella pronunciare quella sigla allorché facendo una battuta di spirito, dopo una delle stragi aveva detto che erano stati i terroristi, pronunciando proprio l’espressione Falange Armata. Ricordiamo che la sigla viene usata dalla mafia, in terra siciliana, fin dal 1992: parte dall’omicidio di Salvo Lima, attraversa quello del maresciallo Guazzelli (due omicidi che, come si evince dal verbale di Teresi del 1992, erano legati a mafia appalti), passa da Capaci a via D’Amelio, fino ad arrivare alla strage dei Geogofili e alle bombe a Roma e Milano. Da dove l’hanno presa in prestito? Apparve nei notiziari italiani nel 1990, con la sigla “falange armata penitenziaria” che ha rivendicato l’omicidio dell’educatore del carcere di Opera, in provincia di Milano, Umberto Mormile. Da lì, la fantomatica sigla viene usata da chiunque, perfino ragazzini hacker, per rivendicare qualsiasi omicidio. Anche dalla mafia. Sardegna. Caligaris (Sdr): “Carceri, anno nuovo ma problemi irrisolti” cagliaripad.it, 6 gennaio 2022 “Su 583 posti nelle case di reclusione all’aperto ci sono 219 detenuti, più della metà dei quali stranieri. Restano vuoti 364 posti. Il nuovo anno si è aperto nelle carceri della Sardegna con i soliti vecchi problemi irrisolti e, anzi, ormai sempre più difficili da gestire. Personale penitenziario scarso, funzionari giuridico-pedagogici insufficienti, 4 Direttori per 10 Istituti, totale assenza di vice direttori e amministrativi ridotti all’osso. Se ciò non bastasse. Case Circondariali piene di detenuti con gravi patologie psichiatriche e di persone anziane. Case di Reclusione al limite della capienza con detenuti della criminalità organizzata e oltre 90 ristretti in regime di 41 bis a Bancali (Sassari). Il 2021 del resto si ricorda per le ripetute aggressioni al personale penitenziario, per i numerosi atti di grave autolesionismo e per alcuni suicidi. Insomma, c’è poco da stare allegri”. È il sintetico quadro con cui inizia il 2022 nelle carceri dell’isola secondo Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. “L’analisi degli ultimi dati forniti dal Ministero - sottolinea - conferma una tendenza ormai consolidata. Su 583 posti nelle Case di Reclusione all’aperto (Colonie Penali di Is Arenas, Isili, Mamone) ci sono 219 detenuti, più della metà dei quali (135) stranieri. Restano vuoti 364 posti (che diventano 394 se si tiene conto che a Mamone sono stati tagliati 30 posti). Il peso maggiore delle persone private della libertà ricade su Oristano-Massama, che ancora una volta risulta oltre il limite regolamentare con 272 detenuti per 259 posti (19 stranieri). Molto delicata anche la situazione a Tempio-Nuchis. Nella Casa di Reclusione “Paolo Pittalis” infatti sono reclusi 167 detenuti per 170 posti (98,2% la percentuale di occupazione). Anche “Badu ‘e Carros” risulta in sofferenza, sia per la presenza di jihadisti sia per il ridotto numero di celle. Un centinaio di posti dei 375 indicati dal Ministero sono infatti inagibili. I 276 detenuti pertanto sono al limite del numero regolamentare. Più tranquilla la situazione di Alghero (91 presenze per 156 posti) e di Lanusei (26 per 32 posti)”. “Non possono essere considerate soddisfacenti - osserva ancora l’esponente di SDR - neppure le situazioni di Sassari-Bancali dove a fronte di 439 posti ci sono 395 detenuti (compresi gli oltre 90 al 41 bis) di cui 111 stranieri e 11 donne e di Cagliari-Uta con 522 presenze (13 donne; 105 stranieri) per 561 posti. A determinare le situazioni di criticità sono a Sassari l’assenza di un Direttore stabile e perfino di un Comandante e a Cagliari l’alta incidenza di persone con problemi psichici e tossicodipendenze. La questione dei Direttori che non ci sono è davvero scandalosa. Nonostante le rassicurazioni fornite dai responsabili del Dipartimento e dai Ministri, la terra di Sardegna e le sue strutture penitenziarie non sono gradite. L’auspicio è che il 2022 porti tutti a una riflessione”. Verona. Maxi focolaio in carcere, stop agli ingressi di Laura Tedesco Corriere di Verona, 6 gennaio 2022 A Verona, purtroppo, si tratta di un “déjà vu”: contagi da Covid in carcere, era già accaduto durante la prima ondata e sta succedendo di nuovo. Riesplode l’allarme-virus all’interno del penitenziario scaligero dove sarebbe stato individuato un mega focolaio che fa registrare - stando alle stime diffuse dai sindacati - ben 170 casi di positività:140 tra i reclusi, i restanti 30 tra gli agenti. A confermare l’estrema “gravità della situazione” è il dato che si ricava a palazzo di giustizia da cui filtra la notizia che, per il momento e finché la situazione dei contagi in carcere non tornerà sotto controllo e al di sotto dei livelli di guardia, non saranno possibili nuovi accessi a Montorio: nel caso di arresti, dunque, andranno condotti in penitenziari diversi da quello veronese. A denunciare la nuova emergenza pandemica in atto nel carcere scaligero è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria autore di un durissimo comunicato stampa: “Complice la variante Omicron, dilagano i contagi da Covid-19 nel Paese e nelle carceri italiane, dove i positivi al virus fra i detenuti sono circa 900 su scala nazionale e circa un migliaio quelli fra gli operatori, con focolai di vastissime proporzioni, come presso la Casa Circondariale di Verona, dove - ha lanciato l’allarme il sindacalista senza mezzi termini - secondo le nostre informazioni sarebbero circa 140 fra i reclusi e una trentina fra la Polizia penitenziaria gli affetti da Coronavirus”. La nota diramata dalla sigla sindacale diretta da De Fazio prosegue lanciando critiche pesanti alla politica: “Il governo, con il decreto festività, ha varato nuove misure per stadi, cinema, teatri e trasporti, conclamando la sostanziale inerzia in tema di politiche penitenziarie, nulla ha sinora previsto per le carceri, al di là di un obbligo vaccinale per gli operatori, la cui efficacia contro la variante Omicron sembra peraltro ridotta. Non è riGreen pass (neppure quello semplice) a utenza, avvocati e visitatori, fra cui detenuti e rispettivi familiari che si recano a colloquio, e non vi è dotazione di mascherine FFP2, le quali non sono obbligatorie; insomma, niente di niente”. Per queste ragioni, conclude il comunicato diffuso dalla Uilpa, “auspichiamo che il governo vari specifici provvedimenti in tal senso e, non ultimo, che si appresti a promuovere un pacchetto di norme specifiche per affrontare la complessiva emergenza penitenziaria, che è ormai di dimensioni straripanti”. Cifre alla mano, neppure durante la prima ondata pandemica del 2020 il carcere di Verona aveva fatto contare così tanti casi di positività al virus: basti pensare che nell’aprile del 2020, quando il Sars-Cov-2 era entrato per la prima volta anche a Montorio, dai tamponi effettuati dall’Usl scaligera erano emersi 27 detenuti positivi e altri 17 tra gli agenti della polizia penitenziaria. Il problema venne preso subito sul serio, tant’è che l’esercito aveva provveduto a sanificare gli ambienti della casa circondariale. Ma ora a Montorio è di nuovo emergenza. Brescia. “Ortolibero”, il progetto per i detenuti di Verziano continua elivebrescia.tv, 6 gennaio 2022 Il progetto “Ortolibero” - avviato nella Casa di reclusione di Verziano dal 2015 - prosegue anche quest’anno con la partecipazione del CFP Canossa di Mompiano e di A2A. Il CFP Canossa ha donato - anche quest’anno - centinaia di piantine di ortaggi, mentre A2A ha fornito il compost. Infatti in questi giorni si stanno svolgendo le attività di concimazione propedeutiche alla prossima stagione. Inoltre, nell’edizione odierna A2A ha anche regalato ai detenuti prodotti alimentari della propria linea biologica in occasione del Natale. Nella not del Comune di Brescia, si legge che “purtroppo la pandemia ha impedito dal marzo 2020 di proseguire le attività in aula. Tuttavia sono continuate le attività in campo, nell’orto e nella serra, garantendo una grande produzione di ortaggi destinati all’autoconsumo dei detenuti”. Il progetto “Ortolibero” è stato avviato nel 2014 nell’ambito di un laboratorio di educazione al consumo consapevole (tenuto in quell’occasione da un’educatrice della cooperativa Pandora e da una volontaria dell’associazione Libera). Dopo quella giornata, furono i detenuti ha manifestare il desiderio di realizzare un orto vicino al carcere. Da quel momento è nato lo spunto per costituire una rete di partenariato con il Comune di Brescia (la Presidenza del Consiglio Comunale, il settore sostenibilità ambientale, la biblioteca di San Polo, il settore cultura, il Museo di scienze naturali, Casa Associazioni); l’associazione Libera; le Cooperative Pandora, La Mongolfiera, il Gruppo Terra e Partecipazione. “Attraverso la rete di partenariato e il coinvolgimento di venti detenuti (uomini e donne di diversa nazionalità) si è costituito il “Gruppo OrtoLibero” con cui è stato avviato un lavoro sui temi della legalità, dell’agricoltura sinergica e della sostenibilità ambientale - si legge ancora nella nota. Il protagonismo dei detenuti è stata la parola chiave attraverso la quale sperimentare una didattica di avanguardia, per affrontare in modo entusiasmante innumerevoli tematiche suscitando interesse e apprezzamento nei detenuti, e costruire un ponte con la collettività”. Fin dal 2015 intorno a questo progetto sono stati realizzati laboratori artistici, di creatività, cene, eventi e mostre, un diario (Parole e segni di libertà, la storia di OrtoLibero) e un romanzo (Ho conosciuto Marino, l’ultimo vero punk - una storia di strada a confronto con il mito di Filottete con introduzione di Don Luigi Ciotti). Padova. Il carcere “sforna” una delle eccellenze dolciarie italiane di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 gennaio 2022 È ancora piena notte nella Casa di reclusione di Padova quando l’aroma di burro e vaniglia inizia a varcare corridoi, sbarre e cancelli. Proviene dal laboratorio di pasticceria Giotto, un luogo scintillante di attrezzature e accessori ultramoderni, dove già alle 4.00 del mattino un gruppo di detenuti sforna brioche e lieviti destinati a bar e hotel locali. L’attività di panificazione continua fino alle 17.00 con l’ultima sfornata di dolci che, nel periodo natalizio consiste soprattutto nei famosi panettoni del carcere Due Palazzi da dieci anni stabilmente nella top ten nazionale del Gambero Rosso. Il New York Times ha dedicato di recente un articolo al panettone ‘cotto’ in carcere (A panettone baked in prison, and it’s one of Italy’s Best”) descrivendo la validità dell’esperienza, la professionalità dei pasticceri e l’alta qualità del prodotto. In realtà il tradizionale dolce natalizio, come ogni altro prodotto del laboratorio, non è solo cotto in carcere perché i detenuti si occupano di tutto il processo produttivo, dalla lavorazione artigianale, lunga ben 72 ore, al confezionamento. “Abbiamo iniziato a lavorare al Due Palazzi - racconta Matteo Marchetto, presidente di Work Crossing Cooperative, azienda che opera nella ristorazione collettiva e che da anni realizza programmi di attività inclusive - con un progetto di realizzazione pasti per mense. La pasticceria è stata avviata nel 2005 con 4 detenuti e una prima produzione di 100 panettoni. Quest’anno ne abbiamo prodotti 80 mila. Il laboratorio occupa 46 persone formate e seguite da 4 chef maestri pasticceri”. Di 11 tipi diversi, alcuni anche con gli ingredienti scritti in braille per i consumatori non vedenti, i panettoni Giotto sono commercializzati in 250 punti vendita italiani ed esportati anche in Francia, Svizzera, Inghilterra, Germania e Stati Uniti”. “La nostra crescita ha del miracoloso” - aggiunge il presidente di Work Crossing - “se consideriamo che lavoriamo all’interno di una struttura con regole e tempi propri non sempre compatibili con le attività produttive. Ma se siamo ancora qui, dopo tanti anni, nonostante le criticità economiche e il covid lo dobbiamo alla direzione dell’Istituto, alla sua lungimiranza e alle risorse e che mette a disposizione”. “Un’attività che inizia alle 3.00 del mattino” - spiega Lorena Orazi, responsabile dell’Area pedagogica - “richiede di impegnare un’unità operativa di Polizia Penitenziaria addetta all’apertura dei capannoni e alla sicurezza. Significa, quindi, organizzare personale e turni specifici che, tuttavia, si stanno diffondendo anche in altri istituti penitenziari dove ci sono simili esperienze di panificazione”. Attività analoghe esistono, infatti, in altre carceri come Busto Arsizio, Mantova, Roma Rebibbia NC,Siracusa, Verbania, Bergamo, Genova Marassi, Mantova, Opera e Trani solo per citare le più collaudate. Utile ricordare che la proposta di detenuti da destinare al laboratorio coinvolge in primo luogo l’area educativa ai cui componenti spetta valutare e proporre i candidati sulla base delle loro caratteristiche, delle attitudini e dei rispettivi programmi di trattamento. Una volta superata questa prima fase selettiva, i detenuti lavorano per sei mesi con uno psicologo. Quelli ritenuti idonei devono poi effettuare un altro semestre di stage prima di essere assunti. La retribuzione va dai 650 ai 1000 euro al mese, a seconda delle fasi del percorso lavorativo. Il panettone senz’altro il prodotto che ha portato notorietà alla pasticceria Giotto ma in realtà il laboratorio produce ogni genere di dolci. Gelati, pasticceria secca e fresca possono essere acquistate anche nella pasticceria aperta a Padova, in Corso Milano 105. “Uno dei segnali della crescita nostra reputazione” -sottolinea Matteo Marchetto - “è il fatto che chef pasticceri stellati abbiano scelto di lavorare a fianco dei detenuti. L’ultimo a farlo è stato Ascanio Brozzetti, pastry chef del prestigioso ‘Calandre’ di Sarmeola di Rubano, uno dei ristoranti della famiglia Alajmo”. Ma una volta usciti dal carcere quanti riescono a mettere a frutto un’esperienza così qualificata? “Alcuni di loro la proseguono in misura alternativa nelle nostre attività esterne” - risponde il presidente della cooperativa - “qualcuno continua a lavorare con noi una volta libero. Altri preferiscono evitare di raccontare dove hanno imparato il mestiere a cui devono un nuovo posto nella società”. Come è accaduto a Roberto, nome di fantasia perché il suo ex capo ci tiene a proteggere il suo anonimato: “Dopo aver lavorato con noi per ben 13 anni in carcere dove si trovava per scontare una pena non troppo breve, Roberto ha aperto una pasticceria nella sua città d’origine. È stato un successo e proprio prima di Natale ci ha comunicato di aver appena inaugurato una seconda sede”. Catania. Il teatro sociale per riunire i bambini con i genitori detenuti Marta Silvestre catania.meridionews.it, 6 gennaio 2022 Dalla partita di calcio alla consegna delle calze della Befana fino ai progetti di racconti animati. Tutto questo avviene dietro le sbarre della casa circondariale di piazza Lanza grazie alle attività di quattro volontarie dell’associazione Officina SocialMeccanica. “Ci sono adolescenti che non hanno mai avuto una conversazione che vada oltre i convenevoli con i loro padri e bambini che non hanno mai giocato con le loro madri”. A separarli ci sono le sbarre del carcere, a provare a riunirli ci sono quattro volontarie dell’associazione Officina SocialMeccanica che, da oltre cinque anni, nella Casa circondariale di piazza Lanza a Catania portano avanti attività “di promozione e utilità sociale utilizzando la metodologia del teatro sociale come strumento di analisi della realtà e di intervento per realizzare iniziative formative ed esperienziali”, come spiega a MeridioNewsMaria Chiara Salemi che è una delle socie. Dalla partita di calcio con i papà alla consegna delle calze della Befana realizzate dalle detenute, dai racconti animati ai progetti di teatro sociale. “L’obiettivo - sottolinea la volontaria - è creare all’interno del carcere un luogo a dimensione di bambini e ragazzi”. “Ci sono adolescenti che non hanno mai avuto una conversazione che vada oltre i convenevoli con i loro padri e bambini che non hanno mai giocato con le loro madri”. A separarli ci sono le sbarre del carcere, a provare a riunirli ci sono quattro volontarie dell’associazione Officina SocialMeccanica che, da oltre cinque anni, nella casa circondariale dipiazza Lanza a Catania portano avanti attività “di promozione e utilità sociale utilizzando la metodologia del teatro sociale come strumento di analisi della realtà e di intervento per realizzare iniziative formative ed esperienziali”, come spiega a MeridioNews Maria Chiara Salemi che è una delle socie. Dalla partita di calcio con i papà alla consegna delle calze della Befana realizzate dalle detenute, dai racconti animati ai progetti diteatro sociale. “L’obiettivo - sottolinea la volontaria - è creare all’interno del carcere un luogo a dimensione di bambini e ragazzi”. Il modello è quello dello spazio giallo: aree dell’istituto penitenziario integrate, socioeducative e di accoglienza dei bambini che si preparano al colloquio con il genitore detenuto. Spazi più giocati e più ludici che permettano un tipo di comunicazione più spontanea tra madri o padri e figli. Anche perché dietro le sbarre creare dei rapporti è difficile. “Così il gioco o il teatro diventano uno strumento per costruire una relazione uscendo dalle poche parole dette, dalle frasi fatte che spesso non riescono ad andare oltre un dialogo che sembra quello tra estranei. Il nostro modello - spiega Salemi - è il teatro sociale che parte dall’esigenza delle persone e arriva ad attività pensate per il gruppo”. I detenuti e le detenute scelgono spontaneamente di aderire al progetto che è pensato per figli dai nove ai 17 anni, “anche se - afferma la volontaria - nei nostri laboratori accogliamo anche bambini a partire dai cinque anni”. Quella tra Officina SocialMeccanica e il carcere di piazza Lanza a Catania è una collaborazione nata nel dicembre del 2016 quando l’istituto penitenziario decide di aderire alla Partita con papà organizzata da Bambinisenzasbarre, un’associazione che a livello nazionale da vent’anni è impegnata nella tutela dei figli di persone detenute e lavora per offrire sostegno psicopedagogico ai genitori detenuti e ai figli, colpiti dall’esperienza di detenzione di uno o entrambi i genitori. “Loro hanno chiesto a noi di occuparcene - ricorda la volontaria - e da lì è arrivata poi la richiesta del carcere di una collaborazione stabile. Dal 2017, lavoriamo con il reparto femminile sui temi della genitorialità e, nel 2020 abbiamo vinto il bando Un passo avanti della fondazione Con i bambini con il progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie”. Il filo conduttore è la Carta dei figli di genitori detenuti, il primo documento europeo (in Italia il protocollo d’intesa è stato rinnovato il 16 dicembre, per altri quattro anni, con la firma della ministra della Giustizia Marta Cartabia) che riconosce formalmente i bisogni di questi bambini e li trasforma in diritti. Non solo l’apertura di nuovi spazi gialli, ma anche la formazione specialistica della polizia penitenziaria, percorsi alternativi alla detenzione per tutelare il rapporto tra genitore detenuto e figlio. In questo stesso senso vanno anche le attività teatrali. “Nel carcere di piazza Lanza - racconta Salemi - quello del teatro sociale è un progetto che portiamo avanti dal 2018 con un laboratorio sul tema della maternità nel reparto femminile”. A questo si affiancano anche momenti più prettamente ludici: “Dal 2019, ogni anno abbiamo istituito l’appuntamento con lafesta della Befana nelle sale colloqui dell’istituto penitenziario”. Non solo un’occasione per distribuire ai più piccoli le calze piene di dolcetti da portare a casa. “È il giorno in cui vanno in scenai racconti animati - illustra la volontaria - Ogni intervento ha la durata di dieci o quindici minuti al massimo e consiste nella lettura animata e interattiva di un racconto per bambini. Poi arriva il momento della foto ricordo del gruppo famiglia che viene scatta in un angolo della sala in cui abbiamo realizzato un’ambientazione”. Una fotografia che sarà poi stampata in duplice copia ed entrambe verranno consegnate alla mamma detenuta o al papà detenuto. “Saranno poi direttamente loro a regalarne una ai figli durante il colloquio successivo. Un’immagine che da entrambe le parti viene custodita con cura perché - conclude la volontaria - rappresenta una relazione rinnovata o più profonda”. Milano. “Offerte di tempo”, con Nadia Nespoli l’arte dal carcere di Bollate in mostra chiesadimilano.it, 6 gennaio 2022 Le opere realizzate in un progetto che ha coinvolto anche detenuti e detenute esposte da venerdì 14 gennaio allo Spazio San Fedele. Sarà inaugurata venerdì 14 gennaio alle 18, presso Spazio Aperto San Fedele (piazza San Fedele 4, Milano), la mostra di Nadia Nespoli “Offerte di tempo” curata da Margherita Zanoletti. L’artista presenta una serie di tele monocrome realizzate con un intreccio manuale all’uncinetto. Queste opere di fiber art costituiscono l’esito materiale di un progetto artistico che ha coinvolto il lavoro manuale di donne e uomini detenuti all’interno del carcere di Bollate, che hanno accolto l’invito dell’artista a collaborare, offrendo il loro tempo. Nel 2019 Nadia Nespoli ha affidato a persone detenute di età, grado di istruzione ed esperienza di vita diverse delle matasse di filo di cotone, chiedendo a ciascuna di realizzare con il punto alto una tela, senza mai disfarla durante l’esecuzione. Ognuna delle opere (intitolata con il nome di chi l’ha realizzata) porta con sé un’evocazione di mani e dita che intrecciano un tessuto fatto di pieni e di vuoti, talvolta irregolari. Il filo con cui le tele sono realizzate è di colori diversi: bianco, rosso, arancione, viola, giallo, verde, rosa, blu. Anche le dimensioni variano, così come le forme: rettangoli ma anche poligoni irregolari, con punti interrotti e ripresi, intervallati da nodi a vista. La proposta dell’artista ha stimolato una vera e propria performance collettiva, pretesto per la creazione di un dialogo. Nadia Nespoli ha così “incontrato” ciascuna persona con la sua storia, e il risultato di questo percorso condiviso appare monocromo ed essenziale. Ogni “offerta di tempo” si dispiega attraverso una tecnica antica, dove il filo di cotone simboleggia il filo di un legame, del dialogo interiore che muta e progredisce con lo sguardo dell’osservatore. La mostra è frutto della collaborazione con Sesta Opera San Fedele, Laboratorio Artemisia, Fondazione Maimeri, Montali Studios, Soqquadri. L’incontro della Sesta Opera con Nadia Nespoli, dice il presidente Guido Chiaretti, “è un’opportunità per raccontare il carcere dal punto di vista dei detenuti e delle detenute che hanno realizzato le opere che compongono questa mostra”. “Il sostegno alla mostra - aggiunge il gesuita Carlo Casalone, presidente della Fondazione Carlo Maria Martini - nasce proprio dalla cura che il Cardinale ha sempre manifestato per la realtà delle carceri. La sua attenzione si rivolgeva non solo alla questione in generale, ma alle detenute e ai detenuti che in esse scontano la pena, e a tutte quelle iniziative formative che li vedono coinvolti con il loro tempo e i loro talenti”. La mostra resterà aperta fino al 15 febbraio dal martedì al venerdì (ore 16-19), sabato (ore 14-18); al mattino su appuntamento e chiuso i festivi. Info: tel. 02.86352233; sanfedelearte@sanfedele.net. Como. Don David e i detenuti. “Grazie alla fotografia tornano a sperare” di Laura Attolico La Provincia di Como, 6 gennaio 2022 Detenuti modelli e fotografi per un calendario molto speciale che abbatte le sbarre del carcere. Grazie al calendario artistico de “La Valle di Ezechiele” che vede protagonisti i detenuti della Casa Circondariale di Busto Arsizio (Varese) e la neonata cooperativa di reinserimento sociale, i detenuti sono riusciti con orgoglio a sentirsi protagonisti della bella iniziativa. La Valle di Ezechiele è una cooperativa sociale di Fagnano Olona che offre opportunità di lavoro a persone uscite dal carcere o sottoposte alle misure alternative. È stata inaugurata lo scorso ottobre dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia. Punto di collante il giovane cappellano del carcere, don David Maria Riboldi, sacerdote di Guanzate e fondatore della cooperativa che con il suo straordinario entusiasmo regala ogni giorno ai ragazzi oltre alla parola di Dio, la speranza di tornare a vivere nella società con dignità e fiducia. Lo spunto del calendario è stato un corso di fotografia per i detenuti, proposto dal giovane fotografo Hermes Mereghetti che aveva accompagnato il padre Giovanni, fotografo anch’egli, in un reportage sul Covid a San Vittore. La Direzione della Casa Circondariale di Busto Arsizio ha dato la disponibilità e così il corso di fotografia, strutturato in dieci lezioni, è entrato in carcere e ha raccolto 19 adesioni di detenuti appartenenti a nove etnie. E’ stata una bella sfida per tutti loro. Hanno scattato le foto, ma si sono messi anche in posa, riuscendo a cogliere gli uni degli altri, emozioni e momenti veri di lavoro, sport e gioco della vita in carcere. Don David Maria Riboldi dice: “Chi prende in mano uno dei nostri calendari tocca qualcosa che sa di rinascita. Non tanto perché descrive la vita in carcere, ma per come è stato realizzato. Siamo orgogliosi come “La Valle di Ezechiele”, di presentare l’unico calendario fotografico 100% made in carcere: dall’ideazione alla stampa, affidata alla cooperativa Zerografica, nel carcere di Bollate”. “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane” recensione di Alessandro Stoppoloni dinamopress.it, 6 gennaio 2022 Il libro di Luigi Romano, “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, sulle rivolte dell’aprile 2020 e più in generale sulla situazione penitenziaria in Italia. Se quegli eventi sono stati straordinari, è infatti l’ordinarietà del sistema carcerario italiano a permetterli. A metà dicembre è iniziato il processo che dovrà stabilire le responsabilità a carico degli agenti della polizia penitenziaria e dei dirigenti che il 6 aprile 2020, in pieno periodo di confinamento di massa per la pandemia da Sars-CoV-2, sono stati coinvolti nelle violenze avvenute in una sezione del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il processo, molto complesso, proseguirà nei prossimi mesi e dovrà essere seguito con attenzione. Tuttavia, a patto di lasciare da parte le responsabilità penali dei singoli, già ora è possibile tracciare un quadro di quello che è avvenuto, soffermandosi sul sistema al cui interno ha avuto origine un fatto simile, come dice Luigi Romano, avvocato e presidente di Antigone Campania, nelle prime pagine del suo breve libro La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane, pubblicato recentemente dalle edizioni MONiTOR. Romano propone di ripercorrere quanto avvenuto nella primavera del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Prima, però, partendo da un libro di Salvatore Verde, descrive il carcere come un luogo in cui la capacità repressiva dello Stato deve modificarsi di continuo per trovare sempre un nuovo equilibrio di fronte alla resistenza dei detenuti. Questo porta a cambiamenti all’interno del sistema di esecuzione penale, senza però garantire che il nuovo punto di convergenza venga raggiunto in modo rapido e senza scossoni. Durante i mesi di marzo e aprile del 2020 la situazione in diverse carceri italiane è stata ricomposta al prezzo di pesanti conseguenze, spingendo Romano ad affermare che in quelle circostanze il sistema italiano penale sarebbe imploso. Per capire meglio questa affermazione così netta seguiamo l’autore e ritorniamo quindi al marzo del 2020: primi giorni di confinamento con le scuole impegnate nell’inedita didattica a distanza, il timore dei controlli per chi doveva muoversi, l’autocertificazione da portare in tasca, la paura del contagio. Furono anche i giorni delle rivolte in diversi istituti penitenziari con scontri fra detenuti e agenti e la morte di tredici persone detenute fra i penitenziari di Modena, Terni e Bologna. Molte altre rimasero ferite, come accadde anche ad alcuni agenti. I detenuti si ribellavano all’interruzione dei colloqui in presenza con i familiari e dei servizi di assistenza e formazione in base al Dpcm dell’8 marzo 2020 e alla mancanza di misure di prevenzione del contagio. Se la paura di diffusione di una malattia ancora poco conosciuta in un luogo affollato come il carcere poteva essere un elemento non usuale, Romano fa notare come invece tutti gli elementi necessari per mettere in crisi il sistema fossero presenti da tempo (per esempio la scarsità del personale con funzioni educative, il massiccio ricorso ad alcuni farmaci per affrontare i frequenti stati di disagio psichico, l’ozio forzato per i detenuti e, appunto, il sovraffollamento. Leggere l’ultimo rapporto annuale dell’associazione Antigone permette di approfondire i singoli aspetti. I numeri del personale educativo (i cosiddetti funzionari giuridico-pedagogici) sono inferiori alla pianta organica prevista in tutti i provveditorati italiani. Ne deriva un carico di lavoro che, come nota Romano, rende il disbrigo di pratiche amministrative preponderante rispetto al lavoro educativo. Sono pochissimi i mediatori culturali assunti dal Ministero della giustizia, carenza coperta parzialmente dall’impiego di personale pagato con fondi di progetti mirati. Inoltre, le attività di volontariato sono ora molto più limitate rispetto al 2019. Il problema del sovraffollamento è ormai strutturale: nel resoconto settimanale pubblicato dal Ministero della giustizia lo scorso 20 dicembre risultavano presenti nelle carceri italiane 53.843 persone detenute, a fronte di una disponibilità ufficiale di 50.551 posti letto (nel rapporto di Antigone però si fa notare che quelli realmente disponibili potrebbero essere un numero inferiore per la chiusura di alcuni reparti). Si rimane quindi in una condizione di generale sovraffollamento (più grave in alcuni penitenziari come quelli di Taranto, Brescia e Lodi), sebbene dall’inizio della pandemia ci sia stato un decremento non trascurabile nel numero delle persone detenute (erano 61.230 il 29 febbraio 2020). Inoltre, per la sua conformazione il carcere rimane un luogo molto adatto a incentivare la nascita di forme di disagio psichico. L’ordinamento italiano prevede nei penitenziari delle articolazioni per la salute mentale per trattare questi casi, ma nel rapporto si fa notare come queste strutture spesso finiscano per concentrarsi su strategie di contenzione più che su dei percorsi terapeutici, riproducendo alcune dinamiche tipiche di un manicomio. Il 5 aprile 2020, pochi giorni prima del giorno di Pasqua, la scoperta del primo caso di infezione da Sars-CoV-2 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere spinse alcuni detenuti, che si sentivano in pericolo per la forzata convivenza ravvicinata e per la mancanza di dispositivi di protezione individuale, ad avanzare delle richieste all’amministrazione. Una sezione del reparto Nilo venne occupata e iniziò un confronto con gli agenti, un evento non straordinario secondo Romano, che però portò l’amministrazione penitenziaria campana a considerare il fatto l’avvisaglia di un pericolo molto serio e a organizzarsi per sventarlo. Ciò nonostante il confronto finì senza violenze, con una mediazione. Sembrava una buona soluzione, invece scontentò almeno una parte degli agenti come alcuni membri del Gruppo di supporto, un gruppo speciale inviato nei singoli carceri dal Provveditore regionale della Campania in caso di emergenze. Romano torna quindi alla questione dell’equilibrio carcerario e al suo continuo modificarsi, descrivendo bene quanto sia importante per chi dirige un carcere non perdere il consenso degli agenti senza però provocare la rabbia di chi è detenuto. Sembra che sia stato proprio questo il motivo per autorizzare una perquisizione nella sezione che aveva portato avanti la protesta. Era il 6 aprile e l’intervento degli agenti diventò un esercizio di violenza diffusa verso i detenuti. Numerose persone vennero ferite e una di loro, Lamine Hakimi, alcuni giorni dopo l’intervento degli agenti si sarebbe ucciso. Romano fa notare un’anomalia avvenuta nell’immediatezza dei fatti: il magistrato di sorveglianza riuscì, anche grazie alle segnalazioni dei parenti di chi si trovava in carcere, ad avere delle notizie su quello che era avvenuto, si insospettì e chiese di incontrare alcuni detenuti. Trovò reticenza e poca collaborazione da parte degli agenti, ma ottenne comunque informazioni sufficienti a mettere in discussione che l’intervento fosse stato necessario per impedire una rivolta, come invece i principali sindacati della polizia penitenziaria, seguiti dai partiti di destra, suggerivano. L’ispezione propiziò anche l’intervento della magistratura inquirente: iniziarono così le indagini alla base del processo che è ora alle prime battute. Per arrivare a una presa di posizione incisiva da parte del Governo però sarebbe stato necessario aspettare il giugno del 2021 quando, di fronte alla diffusione di alcune registrazioni che documentavano le violenze, la Ministra della giustizia Marta Cartabia avrebbe visitato il carcere campano insieme al Presidente del Consiglio Mario Draghi, definendo i fatti di Santa Maria Capua Vetere un tradimento della Costituzione e della funzione svolta dalla Polizia penitenziaria. Inoltre, la Ministra avrebbe sospeso il Provveditore regionale della Campania e alcuni agenti e funzionari in servizio nel carcere. Partendo dal caso di Santa Maria Capua Vetere Romano fa lo sforzo di riportare il lettore ai motivi che hanno permesso l’esercizio della violenza e, in particolare, a soffermarsi su quelle che nel libro vengono chiamate “le meccaniche di autoconservazione del sistema”, ossia la capacità, già menzionata, di trovare sempre un nuovo equilibrio di fronte a dei cambiamenti. L’intervento degli agenti nella forma assunta il 6 aprile 2020 è stato possibile, conclude Romano, all’interno di un sistema che tollera la violenza e, anzi, la vede come strumento ordinario di ridefinizione dei confini fra le parti presenti nel penitenziario, sottolineando la mancata denuncia o almeno la presa di posizione da parte del personale carcerario che non fa parte delle forze di polizia, come i medici o gli educatori. Forse proprio questa considerazione può essere un punto di partenza per approfondire la riflessione sul carcere come istituzione e sul suo ruolo nella società, cercando di ricostruire un quadro in cui inserire i singoli avvenimenti, partendo dalle forme assunte dal potere e dalla violenza e dalle loro relazioni in un contesto istituzionale, come suggerisce Dario Stefano Dell’Aquila nella nota che chiude il volume. Un quadro che dovrebbe tenere conto delle consuetudini, delle norme scritte e non scritte, delle costanti e delle usanze che regolano la vita e le relazioni fra le persone che, per diversi motivi, si trovano all’interno dei penitenziari. Cina, la prigione digitale dei giornalisti di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 6 gennaio 2022 Un rapporto dei giornalisti di Reporters sans frontières denuncia censura e repressione nel paese del Dragone: alle intimidazioni e agli arresti si aggiunge la censura via software, app e siti web. Dopo Stand News, giornale indipendente che ha annunciato la sua chiusura a seguito dell’arresto di sei membri dello staff, anche il Citizen News di Hong Kong chiude. Così dopo aver sollecitato il rilascio della giornalista cinese Zhang Zhan, condannata a quattro anni di carcere per aver coperto la pandemia di Covid-19, Reporters sans frontières (RSF) chiede il rilascio di tutti i giornalisti detenuti e invita le democrazie a reagire e difendere ciò che resta della stampa libera in Cina. Pochi giorni fa lo ha dimostrato con il suo ultimo rapporto. Nella prefazione di 82 pagine, Christophe Delorie, segretario generale di RSF, racconta il modello di censura cinese: “tanto più terrificante dato che il regime ha immense risorse finanziarie e tecnologiche per raggiungere i suoi obiettivi. Il “Great Firewall”, tiene il miliardo di utenti Internet cinesi lontano dal mondo mentre un esercito di censori controlla la messaggistica privata, alla ricerca di presunti contenuti sovversivi. Nel prossimo futuro, l’ubiquità delle tecnologie di sorveglianza basate su riconoscimento facciale, intelligenza artificiale e credito sociale minaccia di rendere illusoria la riservatezza delle fonti dei giornalisti”. Il rapporto rileva che almeno 127 giornalisti sono attualmente detenuti in Cina e descrive la nazione come “la più grande prigione per giornalisti del mondo”. Nel 2021 RSF World Press Freedom Index, la Cina si colloca al 177° posto su 180, solo due punti sopra la Corea del Nord. Sorveglianza residenziale in un luogo designato è l’eufemismo usato dal regime cinese per la detenzione arbitraria di dissidenti, e giornalisti indipendenti nelle cosiddette “prigioni nere”, una rete di centri di detenzione extralegali istituita in tutta la nazione. Come parte del controllo ideologico, il Dipartimento della Propaganda del Partito Comunista Cinese trasmette le linee guida quotidiane sulla censura, la struttura delle notizie e la propaganda a tutti i media statali e affiliati al partito. E infine si giunge alle Confessioni TV forzate: dissidenti politici e giornalisti costretti a “confessare” i loro presunti crimini alla TV di Stato. Dal 2013 ci sarebbero state 93 confessioni televisive forzate, tra cui 30 giornalisti e operatori dei media. Ultimo, l’invito “all’ora del tè” espressione usata dal regime per interrogatori e intimidazioni verso dissidenti e giornalisti. C’è da dire però che mentre alcune leggi, come La National Security Law introdotta a Hong Kong nel 2020, permettono al governo di indagare e arrestare indiscriminatamente i suoi cittadini e ha consentito che l’Apple Daily venisse chiuso e i suoi giornalisti arrestati, il rapporto elenca tutta una serie di strumenti software, app e siti web impiegati dal regime cinese per sopprimere la libertà di informazione. 1) Il Grande Firewall: un sistema di blocco dei contenuti per impedire alle “informazioni sensibili” di entrare nella rete cinese. 2) Gli occhi indiscreti di Internet: tecnologia di sorveglianza utilizzata per monitorare le chat di gruppo e i messaggi privati attraverso le piattaforme di social media nazionali 3) L’applicazione per smartphone “Studia Xi, rafforza la nazione”: dal 2019 i giornalisti cinesi sono stati costretti a scaricare l’app, che consente alla polizia di eseguire comandi e raccogliere informazioni personali all’insaputa dell’utente. Uno scenario terrificante, popolato dall’esercito dei troll: un numero enorme di censori online, pagati o volontari, che segnalano contenuti sensibili, diffondono narrazioni nazionalistiche e attaccano i dissidenti. Svetlana Alexievich: “La mia Bielorussia è il nuovo gulag” di Pilar Bonet* La Repubblica, 6 gennaio 2022 Parla la scrittrice premio Nobel in esilio a Berlino per aver contestato il regime di Lukashenko: “Mi sono sbagliata, l’era sovietica non è finita”. L’appuntamento con Svetlana Alexievich è a Berlino, nell’enorme e impersonale appartamento dove il Daad (Servizio tedesco per lo scambio accademico) ha accolto la scrittrice nell’autunno del 2020, quando la premio Nobel per la Letteratura 2015 dovette lasciare in fretta e furia la Bielorussia di fronte a un pericolo di repressione ancora reale. “Non so quando potrò tornare nel mio Paese”, dice in questa intervista. Alexievich, bielorussa, 73 anni, ha ottenuto la proroga del suo permesso di soggiorno per un altro anno, che spera di trascorrere in una casa più piccola e accogliente. La scrittrice era membro del Consiglio di coordinamento delle proteste contro i brogli e le brutali violenze durante le elezioni presidenziali della Bielorussia, che l’8 agosto 2020 proclamarono vincitore Aleksandr Lukashenko (al potere dal 1994). Durante la repressione che seguì, Alexievich fu interrogata dal comitato investigativo bielorusso. Alcuni diplomatici stranieri e funzionari internazionali, che avevano tenuto sotto osservazione la sua casa a Minsk per diverse settimane, l’accompagnarono all’aeroporto alla fine di settembre per dare l’allarme se ci fossero stati impedimenti alla sua partenza. Non ce ne furono. Alexievich si trova bene in Germania, dove era già stata in esilio nel primo decennio di questo secolo, quando ricevette minacce per il suo libro Ragazzi di zinco (e/o), voci sovietiche della guerra in Afghanistan. “Le mie condizioni di vita sono molto buone, ma sopportare l’esilio ora mi è più difficile che la prima volta, perché allora ero più giovane”, spiega. A Berlino, la scrittrice ha iniziato un nuovo libro, e per il momento ha interrotto quello sull’amore e la vecchiaia, a cui ha dedicato tanto tempo e lavoro. Invece di esplorare la felicità personale al di fuori della politica, si concentra adesso su una nuova opera corale, i cui protagonisti sono i suoi stessi concittadini, i bielorussi che - per aver osato chiedere elezioni giuste - sono uccisi, torturati o languono in sinistre prigioni. “Mi piacerebbe finirlo entro un anno, ma vedremo che cosa riesco a fare. Non ho una data, ma ci vogliono nove mesi per partorire una creatura. Non mi dedico solo a elencare orrori, ma cerco uno sguardo nuovo, che faccia riflettere”, dice. Da Berlino, Alexievich viaggia in altre città, in altri Paesi europei, per ascoltare le voci provenienti dal Paese che Lukashenko ha trasformato in un “nuovo Gulag”. “Oggi abbiamo un “arcipelago Gulag” a misura della Bielorussia. Quello che sta succedendo lì oggi è assolutamente paragonabile al mondo di Alexander Solzhenitsin”, dice. “La gente ha paura, perché in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, nelle città o nei villaggi, possono entrare in casa tua e arrestarti”, afferma. E continua: “In Bielorussia, la gente vive già come nei libri di Solzhenitsin, con una valigetta di emergenza pronta, un piccolo zaino con l’essenziale, uno spazzolino da denti, un cambio di vestiti, per i primi giorni in prigione”. Ci sono differenze di scala e di profondità tra il Gulag sovietico e il Gulag bielorusso. “Stalin aveva delle idee. Ora non ci sono idee, solo il desiderio di mantenere il potere. Lukashenko è riuscito a sporcare di sangue la polizia e le guardie carcerarie mettendole in un vicolo cieco, minacciando rappresaglie se dovesse accadergli qualcosa”. In Bielorussia, le guardie del regime “picchiano senza sapere in nome di che cosa”. La scrittrice avverte: “La repressione non ha ancora raggiunto il livello di Solovki (il duro campo di lavoro del Gulag sul Mar Bianco), ma la tendenza è quella. Si può trasformare una persona in un pezzo di carne solo perché vuole libere elezioni, che è ciò che è scritto nella costituzione?”. Alexievich dice di essersi sentita male quando ha visto le foto con cui un medico ha documentato le condizioni dei feriti ricoverati al pronto soccorso dopo le manifestazioni. La polizia voleva cancellare ogni traccia e aveva proibito ai medici di scrivere i referti. Racconta poi un testimone: “Il capo di un servizio sanitario si era lamentato con un capo della polizia per le condizioni dei feriti. Il poliziotto, a sua volta, rimproverava il medico per aver mandato medici piagnucolosi e troppo sensibili (nei luoghi dove la polizia era intervenuta contro i manifestanti) e poi riattaccò. Un giovane medico avvertiva coloro che arrivavano all’ospedale con traumi e segni di violenza che era obbligato a denunciarli e raccomandava loro di andare il più lontano possibile”. Polonia, Ucraina, Lituania o Germania sono stati la meta di chi ha seguito queste raccomandazioni. Tutti i membri pubblici del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa sono oggi in esilio o in prigione. “Alcuni degli esiliati preferiscono rimanere anonimi per proteggere i loro familiari in Bielorussia”, dice. Nel suo Paese, Alexievich non avrebbe potuto scrivere il libro a cui sta lavorando ora, perché “avrei vissuto nella costante paura di essere arrestata e di vedermi confiscare i manoscritti”. L’autrice vuole andare oltre una raccolta di testimonianze sulla brutalità e indaga sulle origini del male e le radici del sadismo. Come fonti utilizza interviste, lettere e documenti pubblicati, come “ultime memorie” degli imputati prima del verdetto del tribunale. Alexievich ammette di essere stata troppo frettolosa nel definire finita l’era dell’uomo sovietico. “Non solo non era finita, ma si riproduce nei giovani in uniforme e si mantiene in una parte della popolazione”, dice. “Negli anni Novanta scendemmo in piazza chiedendo la libertà, abbattemmo il monumento a Felix Dzerzhinsky (il fondatore della Ceka, la polizia politica sovietica), ma poi divenne evidente che quelle erano solo parole e ora, trent’anni dopo, si aprono musei dedicati a Stalin, si sostiene che l’abbattimento di Dzerzhinsky fu illegale e si vuole proibire l’associazione per i diritti umani Memorial. Questo significa che la democrazia sta andando indietro”, dice. “Una persona che esca dal campo di concentramento dove ha trascorso tutta la vita non può essere libera da un giorno all’altro. Solo ora ci rendiamo conto che c’è molta strada da fare”, dice. “Quando stavo scrivendo Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) e arrivavo a Mosca dopo essere stata nelle province russe, i miei interlocutori non mi credevano se dicevo loro che le persone libere di cui parlavano non esistevano”, spiega Alexievich. “In Russia, l’opposizione alla dittatura era uno strato molto sottile. In Bielorussia, l’anno scorso, mezzo milione di persone sono scese in strada e ricordo la sensazione di festa che provavamo, non avevo mai visto così tanta bella gente insieme. Ci guardavamo ed eravamo felici di essere in tanti, di non essere soli. Sembrava che, vedendo quanti eravamo, Lukashenko si sarebbe spaventato e se ne sarebbe andato. Era un’ingenuità totale. Oggi, mezzo milione di persone, le più attive, sono all’estero, perché in Bielorussia rischiano il carcere”, dice. Come si può mettere fine al regime di Lukashenko? “È una domanda difficile. Svetlana Tikhanovskaya (la moglie del candidato alla presidenza oggi in carcere Sergei Tikhanovsky, che molti riconoscono come la vera vincitrice delle elezioni del 2020) è maturata. Ognuno deve fare quello che può. Quelli che sono rimasti in Bielorussia devono stare attenti, perché scendere in strada può significare cinque o sei anni di prigione. Il Consiglio di coordinamento rimane attivo e ha molti nuovi membri, i cui nomi sono segreti. Noi che siamo fuori facciamo appelli, scriviamo lettere, ma chi lavora nella clandestinità in Bielorussia fa molto di più. Per me, oggi, la cosa principale è scrivere il mio libro”. Secondo le liste compilate dalle associazioni per i diritti umani, il numero di prigionieri politici in Bielorussia è vicino al migliaio. Tra questi c’è Viktor Babarikho, il rispettato banchiere e raffinato mecenate che voleva competere con Lukashenko per la presidenza. Babarikho è stato condannato a 14 anni di prigione da un tribunale che lo ha ritenuto colpevole di riciclaggio di denaro e corruzione. Tra i prigionieri c’è Maria Kolesnikova, che aveva diretto la campagna presidenziale di Babarikho, condannata a 11 anni per “cospirazione” contro il regime e per “aver fondato un’organizzazione estremista”. Sergei Tikhonovsky è stato condannato a 18 anni di prigione poco dopo questa intervista. In prigione in Bielorussia c’è Alexandr Feduta, politologo, filologo e critico letterario, arrestato a Mosca nell’aprile 2021 ed estradato in Bielorussia, dove è accusato di tentato colpo di Stato. E c’è anche Guennadi Mozheiko, corrispondente in Bielorussia del giornale russo Komsomolskaya Pravda, costretto a lasciare Mosca, dove si era rifugiato, per tornare a Minsk, dove è poi scomparso. Si trova in prigione anche la cittadina russa Sofia Sapega, che accompagnava il blogger Roman Protasevich sull’aereo Ryanair costretto ad atterrare a Minsk lo scorso maggio. “La Russia ha sostenuto Lukashenko fin dall’inizio. È comprensibile, perché le rivoluzioni che portano la democrazia sono contagiose”, dice la scrittrice. Mentre parliamo, Alexievich riceve delle telefonate dalla Bielorussia. Sul suo cellulare, arriva la voce della sua amica, la scrittrice Maria Vaitziashonak, che vive ancora a Silichy, in quella dacia bucolica a 40 chilometri da Minsk dove Svetlana avrebbe voluto scrivere, guardando i campi di grano e le colline. L’appartamento che la scrittrice comprò a Minsk dopo aver ricevuto il premio Nobel è rimasto vuoto. Da quel magnifico osservatorio, là dove il fiume Svislach si allarga, la scrittrice si commosse contemplando la marea dei manifestanti che sventolavano enormi bandiere rosse e bianche. Poi presero il sopravvento i carri armati e lei capì che il mondo sovietico non era finito. *Traduzione di Luis E. Moriones Kazakistan. “Decine di morti”, stato d’emergenza. Chiesto l’intervento militare della Russia di Francesco Battistini Corriere della Sera, 6 gennaio 2022 A scatenare la protesta in particolare il rialzo dei prezzi degli idrocarburi: tra le ragioni anche la mostruosa quantità di energia richiesta dai bitcoin. Chiuso l’aeroporto di Almaty, capitale economica del Paese. “Oyan Qazaqstan!”, svegliati Kazakistan. Nella capitale più fredda del mondo, dove le acque dell’Išim ghiacciano da ottobre a maggio, in uno dei più congelati regimi post-sovietici, dove da trent’anni comandano ancora i vecchi leader comunisti, ad Almaty e ad Astana bruciano nella notte i blindati della polizia e i palazzi del potere. Oyan Qazaqstan: stavolta il Kazakistan s’è svegliato davvero. E il gran fuoco della rivolta, il primo dall’indipendenza del 1991, acceso il 2 gennaio nelle lontane città petrolifere del Mangystau, impiega poco a incendiare tutto. Ci sono morti, almeno “decine” tra i manifestanti secondo le agenzie di informazione, e otto agenti di sicurezza, secondo fonti governative. Centinaia di feriti, migliaia d’arresti, saccheggi nelle ville degli oligarchi, fiamme nei municipi e alla residenza presidenziale. Intanto arrivano i russi: nella notte dei disordini, con annuncio all’alba del 6 gennaio, il presidente ha deciso che sul territorio arriveranno “migliaia di soldati russi” per aiutare a “stabilizzare la situazione”, dopo che lui stesso ha chiesto aiuto al Csto, un’alleanza militare di Paesi ex sovietici. “Non me ne vado!”, ripete alla tv Jabar 24 il presidente-travicello Kassim-Jomart Tokayev, 68 anni, un passato da ambasciatore dell’Urss, uno che parla in russo a un popolo al 70% turcofono e musulmano. Annuncia due settimane di stato d’emergenza, l’epurazione del premier e ovviamente le riforme: “La risposta sarà dura - promette, lasciando prevedere una repressione di tipo bielorusso. Questa situazione è tutta colpa di potenze straniere che sobillano!”. La causa della rabbia è soprattutto lui: a Capodanno ha liberalizzato i prezzi alle pompe di gpl e permesso che raddoppiassero ovunque. In un Paese grande nove volte l’Italia e dove tutto viaggia su gomma. In un’economia che è fra le prime dieci esportatrici mondiali di greggio e, da sempre, calmiera i carburanti. Tokayev ha fatto subito retromarcia, riabbassando le tariffe, ma s’è capito presto che nella rivolta del gas c’è ben altro che arde. “Cacciate il vecchio!”, grida la piazza. Perché l’obbiettivo della rabbia popolare non sono solo i pozzi d’oro nero, ma il pozzo nero del potere più profondo: il vecchio Nursultan Nazarbayev, 81 anni, l’”elbasy”, il Caro Leader della Nazione, il più longevo dei vecchi arnesi sovietici, l’ex segretario comunista che per 29 anni ha fatto da padrone assoluto del Kazakistan ed è ancora lì, dopo avere messo al potere il suo tirapiedi Tokayev. Hanno già postato le immagini d’una statua di Nazarbayev tirata giù a Taldykorgan, funi e applausi stile Saddam, fra gente che canta l’inno nazionale. L’eterno Nursultan è stato dimissionato dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Girano voci d’un tentato assalto alla casa di Dariga Nazarbayeva, la potente figlia, che papà ha nominato presidente d’un Senato da lui interamente controllato. Ma il regime ha disattivato internet e telefonini ed è già tanto se qualche notizia rompe la barriera del silenzio, nel regno di Nazarbayev: perfino Astana, la sfavillante capitale dei grattacieli di Norman Foster, qualche anno fa è stata ribattezzata Nursultan in cieca obbedienza al Caro Leader. Lo scossone non era previsto: fra tutti gli “stan” dell’Asia Centrale, ugualmente governati con pugno di ferro da reduci dei soviet, il Kazakistan è quello dove meglio convivono le etnie ed è stata garantita una strabiliante crescita economica. La crisi 2014 del petrolio e il calo del 90% delle esportazioni verso la Cina, causa Covid, per la prima volta in vent’anni hanno portato il Paese in recessione. Quella kazaka, osservano fonti diplomatiche, è anche la prima crisi provocata dai bitcoin: solo nel 2021, quasi 90 mila società di criptovalute si sono spostate qui dalla Cina, allettate dal basso costo dell’energia. Ma così facendo, spiegano, s’è spinto alle stelle il costo della mostruosa quantità d’elettricità necessaria agli algoritmi per “proteggere” i bitcoin. Troppi interessi giostrano intorno a questo gigante centrasiatico. Che è il nono Paese più grande del mondo, siede su enormi giacimenti d’uranio, ha coltivazioni più estese della Russia e dell’Ucraina, flirta sia con Putin che con Erdogan. “Non ammetteremo interferenze”, fa sapere il Cremlino: Tokayev ha chiesto l’intervento militare russo e i militari arriveranno in poche ore. La sveglia è suonata, qualcuno è pronto a spegnerla. L’Etiopia di volti e strade, il (ri)scatto di un Paese tra povertà e abusi di Pierluigi Panza Corriere della Sera, 6 gennaio 2022 Il reportage della giornalista italo-siriana Asmae Dachan contro lo sfruttamento dei minori (e non solo) in Africa. Ma per tante bambine il lavoro è l’unico mezzo di sostentamento e la sola opportunità per garantirsi un’istruzione. Asmae Dachan è una giornalista indipendente, fotografa e scrittrice italo-siriana che ha vinto l’ultima edizione del Premio internazionale di letteratura Città di Como (presieduto da Giorgio Albonico e con giurata Dacia Maraini) nella sezione “Fotografia”. Si occupa di immigrazione, diritti umani ed è stata insignita del cavalierato dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana: è ambasciatrice di Pace dell’Università della Svizzera e volontaria della Croce Rossa. Tra febbraio e marzo del 2020 ha realizzato il reportage intitolato “Etiopia di volti e di strade” nell’Etiopia centro-settentrionale. “Mi sono dedicata alla realtà di donne e bambine lavoratrici che lottano contro condizioni disumane di sfruttamento e negazione dei propri diritti”, racconta. “Essere lavoratrici domestiche per molte bambine significa lavorare anche quattordici ore al giorno nelle case di famiglie che chiedono loro di pulire, cucinare, fare il bucato, badare ad anziani e bambini, occuparsi dell’approvvigionamento di acqua offrendo loro, come compenso, vitto e alloggio e permettono loro di andare a scuola. In un Paese dove la povertà è estrema, per molti bambini lavorare è l’unico mezzo di sostentamento e l’unica possibilità per permettersi le spese scolastiche”. Grazie al sostegno della Ong italiana Cvm - Comunità volontari per il mondo - oggi molte giovani si riuniscono in associazioni che offrono loro la possibilità di confrontarsi e rivendicare diritti, come quello ad avere un contratto, orari di lavoro definiti e ricevere un salario. Il Cvm sostiene anche campagne contro i viaggi illegali verso l’estero, per proteggere le bambine e le giovani donne dal rischio di finire nelle reti dei trafficanti di esseri umani. Tra le altre iniziative in favore delle popolazioni locali il Cvm costruisce pozzi e di fronte all’emergenza pandemica ha realizzato corsi di formazione sulla prevenzione. Come è stato realizzare questo reportage? “Un’esperienza molto intensa, che mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà di sofferenza e precarietà. Siamo abituati a considerare il lavoro minorile come una piaga sociale da sconfiggere, ma quando si guarda in faccia la povertà più estrema ci si rende conto che per quelle bambine lavorare è spesso l’unico modo che hanno per sopravvivere. Il dolore per tante brutte esperienze di abuso e sfruttamento non impedisce però a quelle giovani di sperare in un riscatto”. L’Etiopia, già citata dallo storico greco Erodoto, in epoca romana indicava all’incirca l’antica Nubia. Fu distrutta da Regno di Axum, la città dalla quale Mussolini fece prelevare e portare a Roma il celebre obelisco poi, faticosamente, restituito. Durante il periodo coloniale europeo, l’Etiopia fu denominata Abissinia e fu dominio italiano dal 1936 al 1941. L’Italia combatté contro l’esercito di Hailè Selassié, il cui nome oggi è riemerso nella vicenda delle presunte tre nipoti che hanno partecipato al Grande Fratello. Seguirono periodi infelicissimi, come la dittatura di Mènghistu (1977-1991) fino alla nascita della Repubblica democratica. Ma ancora oggi l’Etiopia è colpita dai conflitti nella regione del Tigray.