Sistema penitenziario, Cartabia: “Da gennaio sarà la mia priorità” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 5 gennaio 2022 “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. È questo l’impegno che la ministra Marta Cartabia ha preso con i membri della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, quando, prima della pausa natalizia ha ricevuto la relazione finale predisposta al termine dei lavori che si sono tenuti, come previsto, nell’ultimo trimestre del 2021. “Dovrò valutare le proposte contenute nella relazione che la Commissione mi ha consegnato e, sulla base di esse, elaborare con il Dap un piano di azione da proporre su tutto il territorio” - ha specificato la Guardasigilli. “Il carcere ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”. Istituita con decreto ministeriale del 13 settembre 2021 e presieduta da Marco Ruotolo, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma tre, la Commissione aveva ricevuto il compito di individuare possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti penitenziari, perché sia sempre più conforme ai principi costituzionali e agli standard internazionali. Le proposte della Commissione si concretizzano oltre che in ipotesi di modifiche, in forma di articolato, anche in 8 linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative da applicare perché producano, come richiesto, consistenti miglioramenti della vita penitenziaria durante l’esecuzione penale. Così come avvenuto per le altre Commissioni ministeriali, ora la Ministra farà le sue valutazioni rispetto alle proposte di intervento avanzate. La Commissione, con la prevista partecipazione di Bernardo Petralia (capo Dap) e Gemma Tuccillo (capo dipartimento Dgmc), è stata composta da Pietro Buffa (provveditore regionale Lombardia), Antonella Calcaterra (avvocato), Carmelo Cantone (provveditore regionale Lazio, Abruzzo e Molise), Daniela De Robert (componente del Collegio del Garante dei detenuti), Manuela Federico (Uepe, già comandante polizia penitenziaria San Vittore), Antonietta Fiorillo (presidente del tribunale di sorveglianza Bologna), Gianluca Guida (direttore istituto penale per i minorenni Nisida), Fabio Gianfilippi (magistrato di sorveglianza), Raffaello Magi (consigliere Corte di Cassazione), Giuseppe Nese (psichiatra), Sonia Specchia (segretario generale Cassa ammende), Catia Taraschi (responsabile dell’ufficio detenuti Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) ed Elisabetta Zito (direttrice casa circondariale Catania). La Commissione è stata coadiuvata dalla segreteria tecnico-scientifica composta da Antonio Bianco (magistrato), Ernesto Caggiano (magistrato) e Silvia Talini (ricercatrice Università degli studi di Roma tre). Una nuova occasione per pensare a un modello di detenzione migliore di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2022 Per le carceri italiane il 2021 si è chiuso insieme ai lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario messa in piedi dalla ministra Marta Cartabia e presieduta dal professor Marco Ruotolo, che rispettando perfettamente i tempi di lavoro ha consegnato la sua preziosa relazione finale nei giorni scorsi. Il carcere in generale fa poca notizia e al carcere si dedicano pochi pensieri. Gli ultimi non sporadici, istituzionali e strutturati, che in Italia gli sono stati dedicati partivano dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che nel 2013 ha condannato il nostro Paese per i trattamenti inumani e degradanti che infliggeva alle persone detenute in istituti sovraffollati e dalle condizioni di vita indegne. Furono i giudici della Corte di Strasburgo a imporre alle autorità italiane una stagione di cambiamenti nel sistema penitenziario. Se entro un anno l’Italia non avesse migliorato sensibilmente le condizioni delle proprie carceri, scrissero nella sentenza Torreggiani, sarebbero tornati a condannarla in ciascuno delle migliaia di ricorsi analoghi che pendevano sulle loro scrivanie, costringendola al pagamento di somme esorbitanti. Il Governo italiano reagì con prontezza e intelligenza. Attraverso una serie di interventi tanto normativi quanto amministrativi, portò la popolazione detenuta a diminuire di circa 15.000 unità in pochi mesi (dimostrando ancora una volta come il carcere venga utilizzato ben al di là delle reali necessità), la vita interna a migliorare sensibilmente, gli strumenti di garanzia nelle mani dei detenuti a farsi più efficaci. Gran parte degli interventi effettuati aveva una valenza di sistema, non voleva limitarsi a tamponare l’emergenza del momento ma sperava di cogliere l’occasione per guardare a un modello di detenzione più rispettoso della Carta Costituzionale. Ma poi le cose andarono diversamente. I numeri tornarono a salire, la vita interna tornò sempre più a svolgersi nell’ozio forzato di una cella, il tentativo di introdurre un cambiamento organico nella legge penitenziaria fu enormemente depotenziato a causa delle troppe paure di perdere consenso. Adesso abbiamo una nuova occasione. Adesso si è tornati con pensieri strutturati e non sporadici sul tema del carcere. E stavolta non sono stati i giudici, bensì piuttosto la politica, a dare avvio al tentativo di una stagione riformatrice. E questa è tutt’altra cosa. Non una sentenza ma un’idea di pena, un’idea di società, una prospettiva di orizzonte a tutto tondo. Questa può e deve guidare i cambiamenti. Marta Cartabia vuole proporre oggi un modello ideale - che la Commissione Ruotolo ha magistralmente interpretato - e non già una via di fuga da una condanna. Se la politica è protagonista, allora possiamo farcela. Perché allora possiamo davvero agire con uno sguardo a tutto campo. Uno sguardo che non può fermarsi alle mura del carcere se vuole essere effettivo. Faccio un esempio: la Commissione propone l’introduzione dell’affidamento in prova di condannati con infermità psichica, detenuti portatori di patologie psichiatriche che potranno andare a intraprendere un programma riabilitativo definito dal dipartimento di salute mentale dell’azienda sanitaria locale competente per territorio. Una norma che potrà davvero mettere fine a situazioni di degrado indegne di un Paese civile e cambiare la vita a tante famiglie che oggi vivono nella disperazione. Ma è inutile dire che la norma resterà ineffettiva se contestualmente non si rafforzerà l’assistenza psichiatrica territoriale, svuotata invece negli anni di risorse e possibilità. Lo scorso 23 dicembre un uomo di 41 anni con seri disturbi psichiatrici si è tolto la vita nel carcere di Monza impiccandosi con i lacci delle scarpe. L’avvocato ha spiegato che il carcere non era il luogo adatto per lui ma che nessuno ha trovato una comunità esterna che lo accogliesse. L’uomo era in carcere a seguito di litigi con il padre e atteggiamenti persecutori verso un’infermiera del pronto soccorso. Lo sguardo di una politica protagonista dovrà dunque guardare oltre lo stretto mondo carcerario e lavorare a cambiamenti anche esterni. Inoltre, lo sguardo di una politica protagonista potrà cogliere le controspinte che troppo spesso si creano a livello amministrativo e orientarle diversamente. Sarebbe schizofrenico un sistema che da un lato lavora alla relazione Ruotolo e dall’altro accetta la bozza di circolare amministrativa resa nota alcune settimane fa che mira a un carcere chiuso e disciplinare. Sarebbe schizofrenico un sistema che da un lato vuole far uscire il carcere dal medioevo informatico nel quale è vissuto fino allo scoppio della pandemia - introducendo la telemedicina, stabilizzando le videochiamate, permettendo l’uso dei pc per motivi di studio o altro - nonché favorire un maggiore contatto con il mondo esterno e dall’altro accetta che, come ci viene detto dalle direzioni quando andiamo in visita alle carceri, l’indicazione dell’amministrazione sia quella di tornare alla disciplina più rigida degli anni passati. Su uno dei principali quotidiani nazionali, l’amministrazione penitenziaria nelle scorse ore si rallegrava del dato, che commentava come una novità, per cui 15.827 detenuti, cioè il 30% del totale, lavorano. Il dato non è affatto una novità. Al 31 dicembre 2020 lavoravano 17.937 persone detenute, il 33, 61% del totale. Faccio un’altra prova e apro a caso una relazione più risalente del Ministero sull’amministrazione della giustizia, quella del 2018: leggo che al 30 giugno 2017 lavoravano 17.536 detenuti. Quel che però non si dice è che ciascuno di loro lavora magari per pochissime ore alla settimana o al mese. Come riporta la relazione Ruotolo, “in media l’attività lavorativa pro capite non supera gli 85 giorni lavorativi annui”. Da qui, la Commissione individua una serie di interventi per potenziare l’inclusione lavorativa delle persone in esecuzione penale, tra cui l’istituzione di una struttura regionale che assicuri coordinamento organizzativo per una programmazione integrata degli interventi, in collegamento con la programmazione sociale regionale e il piano di sviluppo del territorio. Ecco: questo significa guardare oltre e ragionare in maniera complessa ed efficace. Mario Draghi e Marta Cartabia, due dei nomi che con maggiore insistenza sono usciti come potenziali futuri presidenti della nostra Repubblica, erano insieme lo scorso luglio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il simbolo più drammatico del fallimento di questo sistema penitenziario. Da quella visita possiamo ripartire: è la politica più alta che deve dare un senso alla pena. Affinché nessuno sia lasciato indietro e mai più un uomo con disturbi psichiatrici si impicchi ai lacci delle scarpe da solo in una cella. *Coordinatrice associazione Antigone Un luogo intitolato a Margara, alfiere dei diritti in carcere di Grazia Zuffa Il Manifesto, 5 gennaio 2022 Uno spazio pubblico intitolato a Sandro Margara. Questa è la richiesta alle autorità fiorentine, contenuta in un appello lanciato alla fine di dicembre e che tutti possono sottoscrivere entro la fine di gennaio. Uno spazio qualificato, che evochi l’impronta di pensiero e di azione che Margara ha lasciato nel mondo del carcere e della giustizia. Il luogo giusto è all’interno dell’area recuperata dell’ex carcere fiorentino delle Murate: quel carcere teatro negli anni sessanta e settanta delle proteste dei detenuti, che vide più volte l’impegno del magistrato Sandro Margara all’ascolto delle loro ragioni e al dialogo, quale premessa per riformare il carcere nel rispetto dei diritti umani e dei principi costituzionali. Già rievocare il ruolo di avanguardia di Margara in quella stagione permette di cogliere la complessità della sua figura: un magistrato di sorveglianza che ha saputo dare senso innovativo a questo istituto, un riformatore che, forte del suo sguardo sensibile alla quotidianità del carcere e alle persone ivi rinchiuse, ha preso parola sui principi cardine del diritto penale e sui temi correlati più scottanti nel dibattito politico, con la sapienza del fine giurista: dalla questione della legittimità dell’ergastolo e delle norme di detenzione “speciale” come il 41bis, allo spazio da riservare alle alternative alla detenzione nel sistema complessivo delle pene. Questi nodi sono ancora sul tappeto, anzi ci aspettano due scadenze decisive, l’una riguardo la sorte dell’ergastolo ostativo, l’altra delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) nel nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei”. Per le Rems, di cui si attende l’esito del pronunciamento della Corte Costituzionale, l’alternativa è fra il mantenimento del valore terapeutico di questi presidi, o il ritorno alla logica custodiale dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Perciò, richiamare oggi l’attenzione sulla figura di Sandro Margara è una felice coincidenza e insieme uno stimolo nella giusta direzione. Anche sul rifiuto dell’Opg, Margara ha precorso i tempi. Scriveva su Fuoriluogo nel 2010: questa “ditta di pessima fama” (così definiva ironico l’Opg) si regge sui presupposti della “incurabilità e sostanziale perpetuità della malattia mentale” e sulla (conseguente) “condizione detentiva assolutamente priva di possibilità terapeutiche, con strutture e personali carcerari”, oltre che “sull’esistenza della pericolosità sociale” (quale corollario della malattia mentale). “Questo sistema è crollato sui primi due punti… e resta scalfitto anche il terzo”, concludeva. Quanto all’ergastolo, dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’ergastolo ostativo, il Parlamento ha ancora alcuni mesi di tempo per modificare la normativa. Nel frattempo, il dibattito politico infuria fra chi vede in questo frangente l’occasione per ripensare la legittimità stessa dell’ergastolo, quella “pena di morte nascosta” evocata da Papa Francesco nell’enciclica “Tutti fratelli”; e chi, in nome dell’utilitarismo estremo, rivendica la pena perpetua senza possibilità di scampo per i grandi criminali, quale strumento chiave nella lotta alle mafie. Senonché, proprio sul trattamento dei “grandi scellerati” si misura la pregnanza del dettato costituzionale e la tenuta dell’aggancio alla persona, nel rispetto della sua dignità e umanità. Questi capisaldi etici del viver civile, proprio in quanto tali valgono per tutti e tutte, su questo Margara è stato limpido e inflessibile. Per questo ha criticato senza sconti l’introduzione di norme sempre più stringenti di perpetuità della pena, appellandosi ai diritti del condannato a un “trattamento umano” e al reinserimento nella comunità: garanzie di civiltà, ambedue costituzionalmente sancite, ambedue in conflitto col “fine pena mai”. Il paradigma del bidet e la vita nelle carceri congestionate di Luigi Manconi La Repubblica, 5 gennaio 2022 “Con una suora portiamo dei vestiti a un detenuto, delle coperte ai dializzati del reparto san Paolo e do un passaggio a casa a Gino che ha avuto un permesso premio di sette giorni”. Così racconta Samuele Ciambriello, Garante dei diritti delle persone private della libertà per la regione Campania. E già questo dà la misura di cosa sia effettivamente il carcere, se lo osserviamo dal punto di vista dei bisogni elementari non soddisfatti e dei diritti fondamentali non tutelati. E si tratta di cose note. O meglio: considerate a tal punto conosciute da non essere più citate perché parti di una fisiologia detentiva che si dà per fatale e irredimibile. Basti pensare (il suggerimento è dell’avvocata Maria Brucale) al “paradigma bidet”: come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita “senza bidet”. E - per una buona parte delle celle del sistema penitenziario - con cesso “alla turca” e, in genere, esposto alla vista. È questo il luogo, l’ambiente, l’arredamento domestico dove 54.134 detenuti e 36.939 poliziotti penitenziari trascorrono la loro esistenza quotidiana nel pieno della pandemia da Covid. Parlare di sovraffollamento, in tale congiuntura, può risultare persino futile: parola più esatta sarebbe congestione perché è quanto richiama quel sovrapporsi e intrecciarsi e premere di corpi e quel combinarsi di effluvi, sudori, umori, deiezioni, odori, dove saltano tutte le regole igienico-sanitarie e tutte le misure di sicurezza previsti dai protocolli anti-covid. Non stupisce, di conseguenza, che il Covid si diffonda nuovamente nel reparto del 41-bis all’interno del carcere milanese di Opera. “Nell’istituto di Opera sono diversi i detenuti positivi al 41-bis, delle cui condizioni di salute, peraltro, i familiari non hanno alcuna notizia. Esattamente come accaduto nel mese di novembre del 2020”: anche all’epoca una gravissima carenza di informazioni, che rasentava la censura, nonostante che tra quei detenuti si riscontrassero “gravi patologie pregresse come il tumore”. A scriverlo, non smentito ieri né oggi, è Damiano Aliprandi, una delle più tenaci e assidue “sentinelle” di quanto accade nelle nostre prigioni, insieme ad altri giornalisti del Dubbio e del Riformista come Angela Stella e Sergio D’Elia; e come quel pugno di esponenti politici che rispondono ai nomi di Rita Bernardini, Walter Verini, Riccardo Magi, Roberto Rampi, Roberto Giachetti, Gennaro Migliore, Paolo Siani, Alfredo Bazoli, Alessandro Capriccioli (e mi scuso se dimentico qualcuno); e i Garanti dei diritti delle persone private della libertà come Stefano Anastasia, Monica Gallo, Bruno Mellano, il già citato Ciambriello e gli altri, il cui lavoro oscuro, e spesso ostacolato con tutti i mezzi, consente che dal carcere non emergano solo gli orrori ma anche i tentativi di porvi rimedio. Il capo del Dap con “Nessuno tocchi Caino” tra i detenuti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 5 gennaio 2022 Era dai tempi di Santi Consolo che i vertici dell’amministrazione penitenziaria non prendevano parte a un confronto, seppure in remoto, con i carcerati. Affrontare le persone in carne ed ossa, insegnerebbe a tanti cosa è davvero il carcere. È apparsa sorprendente la partecipazione del Direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Dino Petralia all’ultimo congresso di Nessuno tocchi Caino. Sorprendente perché l’avvenimento avveniva nel carcere di Opera con i suoi detenuti che vivono in regime di alta sicurezza e con la partecipazione di una parte di loro e il collegamento con un gruppo di ristretti a Parma. Nulla di speciale, per chi è avvezzo a frequentare il mondo dei radicali e dei diritti. Tutto nuovo per un magistrato di ottimo curriculum, ma i cui galloni più prestigiosi consistono nell’esser stato fino a ieri un pm “antimafia”. È un messaggio, no? Una speranza che si apre. Pur se annunciata è apparsa sorprendente la partecipazione del Direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Dino Petralia all’ultimo congresso di Nessuno tocchi Caino. Sorprendente perché l’avvenimento avveniva nel carcere di Opera con i suoi detenuti che vivono in regime di alta sicurezza e con la partecipazione di una parte di loro e il collegamento con un gruppo di ristretti a Parma. Nulla di speciale, per chi è avvezzo a frequentare il mondo dei radicali e dei diritti. Tutto nuovo per un magistrato di ottimo curriculum, ma i cui galloni più prestigiosi consistono nell’esser stato fino a ieri un pm “antimafia”. Il che significa che per molti dei detenuti la cui vita oggi dipende da lui e dalla sua capacità di lasciarsi contaminare da questo mondo riformatore, può esser stato lui stesso a chiedere carcere e carcere, ergastoli ed ergastoli. Una bella contraddizione. Interessante, anche. Dino Petralia compare sullo schermo e spande la propria voce, ben sapendo quali orecchie lo ascolteranno. Non soltanto quelle dei suoi nuovi interlocutori, la caparbietà di Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, ma soprattutto di Rita Bernardini, che lui chiama semplicemente “Rita”. Si mostra entusiasta e fiero per la novità del dialogo continuato e intenso con persone che le prigioni vorrebbero proprio fossero cancellate dalla faccia della terra. E questo è il secondo aspetto sorprendente: il fatto che lui, il dottor Dino Petralia, se pur collegato da lontano, sia proprio lì, presente in video e in voce, quasi con il proprio corpo in mezzo ai “suoi” detenuti, a spiegare che cosa sta facendo e che cosa farà per loro. Era dai tempi di Santi Consolo che questo miracolo non accadeva. E c’è voluto tutto quel che è capitato negli ultimi due anni per arrivare a questo risultato, perché ci si possa ritrovare davanti a una persona quanto meno curiosa di capire che cosa succede dentro quelle mura in cui pure lui stesso ha contribuito a sbattere innocenti e colpevoli e poi magari anche a suggerire di stringere bene le manette e impedire qualunque contatto con il mondo, magari per il resto della vita e oltre. Non è stato un bel momento, quello in cui Dino Petralia e il suo vice Francesco Tartaglia sono approdati alla dirigenza del Dap. Il ministro della giustizia si chiamava Bonafede e il capo delle carceri Francesco Basentini era stato costretto alle dimissioni dopo che era scoppiato un inferno con pochi precedenti per la diffusione di un virus che non conosceva farmaci né vaccini. Ma anche dopo che gli era stato rinfacciato, domenica dopo domenica, nella trasmissione di Massimo Giletti, la colpa primordiale di esser stato preferito dal ministro a un totem dell’antimafia come Nino Di Matteo. Ma c’era stata anche una gestione ritenuta debole delle rivolte che erano scoppiate in alcuni istituti di pena. L’unica verità di quei primi mesi del 2020 è che erano saltati i nervi al mondo politico-mediatico-giudiziario dei torquemada, in seguito a una circolare di semplice buon senso che suggeriva ai direttori delle carceri di segnalare i nominativi di detenuti anziani o malati a rischio per l’epidemia del coronavirus Covid-19. Erano stati avviati procedimenti di detenzione domiciliare o di differimento pena, avendo attenzione al primo principio della nostra Costituzione, la salute. Questa era stata la gestione Basentini delle carceri. Eppure, qualcuno ricorda titoli di giornale come quello di Repubblica “I 376 boss scarcerati, ecco la lista riservata che allarma le procure”? Era un clamoroso falso, insieme agli allarmi del Fatto quotidiano e del nuovo connubio in salsa manettara tra Pd e Cinque Stelle. Sono storie di due anni fa, il decreto ragionevole fu superato da uno di segno opposto che fece riaprire le celle, nel nome dell’antimafia militante, anche a quei quattro o cinque del regime 41 bis (altro che 376!) seriamente malati. Tutti furono ritrovati nelle proprie case e non risultarono i temuti contatti con cosche sul territorio. Ma il nuovo decreto, che tra l’altro imponeva, per ogni singolo caso, la consultazione dei vertici antimafia e dei pubblici ministeri che avevano avviato le inchieste sul territorio, allontanava le decisioni da coloro che conoscevano veramente ogni caso e ogni persona, cioè i giudici di sorveglianza. Un argomento ancora in discussione in questi giorni in Parlamento con la proposta di centralizzare a Roma gli uffici di sorveglianza. Trascurando la necessità che a decidere su ogni provvedimento che riguarda i benefici del detenuto siano organi e persone presenti sul luogo di detenzione. Ne ha parlato al congresso di Nessuno tocchi Caino la presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. Chissà se il dottor Petralia ha avuto modo di sentirla, tramite Radio radicale. Perché i suoi interventi, al contrario di quel che spesso capita con i magistrati, non hanno mai l’impronta burocratica. Conoscere da vicino il detenuto vuol dire anche non ancorare la sua personalità semplicemente al reato, ribaltando, come dice Sergio D’Elia, la politica del tipo d’autore del momento dell’arresto. Ma significa soprattutto attenzione al percorso di cambiamento della persona, che non è mai quella fotografata quel giorno, quello della commissione del reato, o quella del momento in cui gli furono messe le manette ai polsi. Se dobbiamo considerare le persone “perpetuamente pericolose”, dice Giovanna Di Rosa, allora vuol dire che il carcere ha fallito nella sua funzione prevista dalla Costituzione. Dino Petralia non si è ancora affacciato a questo tipo di ragionamenti. Ma c’è forse da essere ottimisti, dopo aver sentito dalla sua bocca “ho messo una quota di passione in questo lavoro”. In un’intervista a Repubblica ha raccontato dei suoi giri nelle carceri, due visite a settimana, e non è poco. Anche in questo caso mostra stupore. Il che ci conferma il fatto che i magistrati del carcere non conoscono proprio niente. E che, anche quando non dicono di buttare la chiave, è come se lo gridassero ogni volta. Ogni pm che chiede e ogni gip che decide la custodia cautelare, e ogni tribunale o corte che sentenzia, qualcuno di loro sa davvero che cosa sta facendo? “Voglio citare esperienze che mi hanno lasciato il segno. Talvolta, quando giro le sezioni degli istituti, mi sento chiamare per nome e cognome, e mi rendo conto di come il rapporto di distacco vissuto da magistrato si sia trasformato in qualcosa di più umano”. Appunto. Un po’ “come quando scopro che in quei pochi metri talvolta manca l’acqua calda, o non funzionano gli scarichi”. Questa si chiama vita da carcerato, dove le piccole cose sono grandi problemi e quelli grandi, come i reati “ostativi” che ti impediscono di vedere un futuro, sono giganti. Al congresso il direttore Basentini ha parlato a lungo dell’importanza del lavoro. Ha ragione, chi in carcere o all’esterno può fare corsi professionali o avviarsi a un’attività sta meglio nell’immediato e nel futuro. Senza sottovalutare l’inversione della percentuale (dall’80 al 20%) della recidiva. Ma è solo un aspetto del problema. Ed è importante quel che disse, come lui racconta, suo suocero penalista il giorno in cui lui aveva vinto il concorso: “per ogni toga sarebbe importante vivere per qualche settimana la vita del carcere”. Ma da detenuto, magari. E poi riflettere sul titolo che Nessuno tocchi Caino ha dato al congresso: piuttosto che a un diritto penale migliore, pensiamo a qualcosa di meglio del diritto penale. Perché la detenzione in carcere è solo la coda e la conseguenza di qualcosa che è già successo prima. E che è sofferenza. Affettività e carcere: un progetto di riforma. Intervista all’avvocato Sarah Grieco di Marta Giorgi 2duerighe.com, 5 gennaio 2022 Nell’ultimo periodo si è tornato a parlare del sistema carcerario italiano. Tra i principali fatti di cronaca ci sono due eventi che hanno colpito l’opinione pubblica: un detenuto è morto a soli 28 anni a Torino, dopo aver perso 25 chili in sette mesi mentre a settembre, a Roma, una donna si è ritrovata a partorire in cella senza assistenza medica. Ma la situazione già critica delle carceri italiane è peggiorata nell’ultimo periodo pandemico. Il distanziamento imposto dalle norme anti-Covid ha reso ancora più difficili i contatti tra i detenuti e le famiglie. Allo stesso tempo però ha messo in luce problematiche già presenti da molti anni e mai risolte. Ne abbiamo parlato con la responsabile della “ricerca-intervento” condotta dall’Università di Cassino finalizzata all’elaborazione di una proposta di legge che metta al centro un tema fondamentale per la tutela dei detenuti come l’affettività. Negli ultimi giorni del 2021, la ministra della giustizia Marta Cartabia si è detta pronta ad avviare un progetto di riforma per il sistema carcerario italiano, arretrato rispetto a molte strutture estere. In un piano di 35 punti, elaborato in commissione giustizia, sono previsti interventi destinati alle 189 strutture italiane, ospitanti circa 54mila detenuti. Tra gli interventi previsti, quello destinato alle detenute madri che andrebbe a coprire sia la fase del parto che la delicata situazione dei bambini in cella. In questo contesto, ricordiamo quanto avvenuto a settembre dove una detenuta di Rebibbia si era ritrovata a partorire senza assistenza medica, assistita solo dalla sua compagna di cella. Già a seguito di quest’evento, il tema della maternità in carcere era tornato al centro dell’opinione pubblica, portando la ministra ad avviare un’indagine ispettiva. Altro tema fondamentale è quello inerente la salute dei detenuti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto psicologico. A dicembre, le strutture penitenziarie ritornano al centro della cronaca italiana con la morte di un recluso di soli 28 anni, deceduto per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili in sette mesi. Secondo le varie testimonianze il ragazzo che già da tempo soffriva di depressione, non riusciva più a mangiare ma nessuno sembrava credergli. Secondo la società italiana di psichiatria (Sip) infatti, il tasso di disturbi psichici è molto elevato e molto spesso quest’ultimi sono legati alla condizione di detenzione che porta molti dei reclusi a fare uso di sostante psicoattive. Il 4% di loro è affetto da disturbi psicotici contro l’1% della popolazione generale mentre la depressione colpisce il 10% dei reclusi e il 65% convive con disturbi della personalità (fonte: polizia penitenziaria). Altro punto affrontato dal ministero di giustizia è quello riguardante l’ammodernamento tecnologico delle strutture penitenziarie che andrebbe a coprire vari aspetti che vanno dai sistemi identificativi per la circolazione dei detenuti nelle strutture ai video-colloqui con i famigliari. Restano ancora problematici invece i colloqui in presenza, soprattutto se si guarda all’ultimo periodo. Con il Covid e le norme di distanziamento, le problematiche già presenti e riguardanti il tema dell’affettività, sono peggiorate. Ad oggi infatti, i detenuti hanno riscontrato molte difficoltà nel mantenere una relazione sana ed equilibrata con i membri del proprio nucleo famigliare, soprattutto per quanto riguarda i minori. Restano poi ancora aperte questioni che coprono vari aspetti della vita umana come quello riguardante la sessualità e il diritto alla privacy e che almeno nelle carceri italiane, sembrano non esistere. Per quanto riguarda queste tematiche, un gruppo di ricercatori dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale hanno dato vita ad una “ricerca-intervento” sviluppata partendo da una serie di questionari e interviste condotte all’interno di quattro istituti penitenziari, su cui formulare una proposta di legge. Al centro del progetto lo sviluppo delle qualità delle relazioni affettive nelle case circondariali italiane. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Sarah Grieco, responsabile della ricerca. Come è nata la ricerca e come è stata strutturata? Come università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale è da tempo che siamo impegnati nel settore penitenziario: infatti quello della nostra università è un impegno costante che supporta i detenuti con vari servizi che vanno da quelli legali fino al diritto allo studio. È chiaro però che dopo le sommosse avvenute in decine di carceri, durante il lockdown del marzo del 2020, abbiamo sentito l’esigenza di capire cosa stesse realmente accadendo all’interno degli istituti di pena, partendo proprio da quello che era un problema importante: l’affettività in carcere. Nonostante fossimo consapevoli di tutte le difficoltà che avremmo incontrato, soprattutto in piena pandemia, abbiamo deciso di intervistare sia i detenuti che gli operatori penitenziari. Un progetto reso possibile grazie al supporto indispensabile della presidenza del Consiglio regionale del Lazio e del Garante dei detenuti della Regione Lazio che ha supervisionato tutto il lavoro fino alla presentazione ufficiale dei risultati dello studio. La ricerca è stata strutturata in quattro istituti penitenziari della regione, con caratteristiche profondamente diverse tra loro. Prima abbiamo optato per una casa circondariale di piccole dimensioni come quella di Cassino che trovandosi all’interno del tessuto urbano ha a disposizione pochi spazi. L’istituto però presenta una sezione dedicata ai sex offenders ovvero chi ha compiuto reati a sfondo sessuale e che di conseguenza si presentano come ostativi, cioè con delle restrizioni maggiori. Poi abbiamo scelto un carcere di dimensioni piuttosto rilevanti come quello di Frosinone dove ci sono anche detenuti in massima sicurezza tra i 500 presenti, a seguire abbiamo analizzato la casa di reclusione di Paliano dove ci sono i collaboratori di giustizia per concludere con Rebibbia femminile che è l’istituto penitenziario più grande d’Europa, utile per quella parte della ricerca che guarda alla maternità e a tutti gli aspetti legati alle donne. Abbiamo intervistato oltre 230 detenuti insieme agli operatori penitenziari con dei questionari anonimi a risposta chiusa e aperta. In seguito abbiamo elaborato tutti i dati per analizzare le criticità, dividendo la ricerca in due fasi: l’analisi delle relazioni affettive nel periodo pre-pandemico e quelle del periodo post-pandemico per capire come venivano modificati i dati dopo le restrizioni dovute al Covid. Per quanto riguarda i colloqui tra detenuti e famigliari, quale sono state le differenze tra le varie carceri esaminate e qual è stato il quadro che vi siete ritrovati davanti, soprattutto in seguito alle norme di distanziamento per l’emergenza Covid? L’ambizione di questa ricerca che credo sia la prima in Italia dopo il Covid è stata l’ampiezza del campo d’indagine. Abbiamo scandagliato tutte le modalità di contatto tra detenuti e i propri famigliari approfondendo le visite, i contatti telefonici, le mail e le modalità di rapporto fuori dal carcere tra cui i cosiddetti permessi premi che sono usati pochissimo e concessi solo in rari casi. Detto ciò quello che abbiamo verificato è la grandissima discrezionalità tra i singoli istituti penitenziari: in ogni struttura carceraria infatti è l’amministrazione a fare la differenza dello stato di detenzione. Ad esempio in alcune carceri vengono istituiti, secondo l’art. 61 del regolamento, i cosiddetti colloqui pranzo ovvero la possibilità di pranzare con la propria famiglia una volta al mese. Soprattutto per i bambini, si rivela uno strumento utile per vivere un rapporto normale con la propria famiglia. C’è quindi una forte esigenza di normalità. In alcuni casi, gli intervistati chiedevano semplicemente un distributore di bevande e alimenti per poter consumare qualcosa durante il colloquio. In altri istituti al contrario, vige il divieto assoluto di introdurre qualsiasi tipo di alimento, soprattutto dopo il Covid. In carceri come quello di Rebibbia e Paliano c’è anche la possibilità di stare all’aperto o di usufruire di ludoteche, negli altri invece non c’è neanche la possibilità di accedere all’area verde o ad uno spazio per i minori. Quindi c’è una discrezionalità molto alta che deve essere necessariamente ridotta. Stiamo parlando di diritti costituzionalmente garantiti e questo non può essere lasciato in mano alla sensibilità del direttore dell’istituto. Nella nostra proposta abbiamo infatti eliminato la discrezionalità per i permessi pranzo facendo sì che siano modalità ordinarie per tutte le carceri del territorio nazionale. In questo periodo un problema importante è sicuramente rappresentato dall’uso dei plexiglass, introdotti in seguito alle norme anti Covid. Questo ha creato un impatto immediato soprattutto nei colloqui con i minori. Molti genitori hanno rinunciato alle visite perché il plexiglass rendeva ancora più traumatico il rapporto con i figli minorenni. C’era anche chi chiedeva di fare la quarantena pur di vedere la propria famiglia senza il distanziamento. Molto importante è anche il tema riguardante la maternità e la paternità, quali sono gli interventi che possono essere attuati per sanare questo disagio, anche in merito alle interviste condotte da voi? Per quanto riguarda la maternità possiamo ricordare il progetto M.A.M.A. nel carcere di Rebibbia, progettato dall’architetto Renzo Piano. Si tratta di un modulo destinato alle donne detenute in stato di gravidanza creato dallo staff di architette dell’università La Sapienza e costruito con l’aiuto di alcune detenute. Ma oltre a questo è bene mettere sullo stesso piano anche la paternità. I colloqui sono sempre fondamentali. È bene differenziare quelli tra adulti e quelli tra minori, dedicando due spazi distinti. In quelli riguardanti i minori al di sotto dei 14 anni, sono preferibili spazi all’aperto e con attenzioni che vanno dalla progettazione di ludoteche alla presenza di giochi o attività da condividere con i genitori. Per quanto riguarda gli adulti, spesso si hanno difficoltà nella conversazione per la presenza di minori. Lo stare seduti intorno ad un tavolo a dialogare può creare problemi nei confronti dei minori che necessitano quindi di spazi più adatti a loro. Un altro elemento molto importante è l’aver stabilito all’interno degli istituti la definizione di minori al di sotto dei 14 anni, un limite stabilito già nella legge del 1975 sull’ordinamento penitenziario, riformata dal ministro Orlando nel 2017. Al contrario, nel regolamento penitenziario che risale al 2000 in alcuni punti indica i minori come al di sotto dei 10 anni, in altri fa solo un riferimento generale al soggetto minorenne. Con la proposta abbiamo cercato di chiudere questa confusione stabilendo che tutti i benefici comprendono i minori al di sotto dei 14 anni. Inoltre si introduce la “linea gialla”, cioè una linea telefonica dedicata tramite il quale i minori di questa fascia d’età possono contattare il proprio genitore all’interno del carcere. Generalmente invece, le persone recluse non possono ricevere telefonate. Infine abbiamo tolto qualsiasi differenziazione, soprattutto per quanto riguarda i reati ostativi, cioè quelli che entrano all’interno del 4 bis e che comprendono non solo reati riguardanti la criminalità organizzata ma anche altre tipologie di reati più gravi. Questo incide anche sulla possibilità di frequentare i propri famigliari. Il minore non può subire le colpe del genitore. Dunque non è corretto privarlo della frequenza dei contatti concessi ai figli degli altri reclusi. Nella vostra proposta di legge, la sessualità in carcere è un altro tema fondamentale, in questo caso quali sono gli interventi previsti? Nel nostro progetto abbiamo introdotto anche il tema riguardante le visite intime che qui in Italia può sembrare una novità ma all’estero è già un’iniziativa presente da molti anni. Nella cosiddetta desk research (l’area teorica) infatti, analizziamo tutto il panorama internazionale dove prendere spunto per realizzare la proposta di legge. I dati ci dicono che oltre il 70% dei detenuti è d’accordo sull’introduzione di questi incontri, quelli che sono invece titubanti non ritengono sbagliata l’introduzione ma hanno dubbi sulle modalità. Temono che non venga garantita la privacy sufficiente, che queste visite avvengano all’interno della sezione o che i tempi non siano adeguati. La durata che non può essere ridotta all’ora prevista nei colloqui visivi è fondamentale. Inoltre quando si parla di visite intime non si parla solo di sessualità ma ci si riferisce anche alla semplice intimità. Una necessità molto richiesta dai detenuti: ovvero la possibilità del semplice contatto anche con i propri cari fuori dallo sguardo dei sorveglianti. In merito alla proposta di legge, quali sono dunque i punti più critici del sistema carcerario che richiederebbero un intervento immediato? Con la nostra proposta intendiamo elaborare un progetto di riforma tramite il Consiglio regionale del Lazio da presentare successivamente in Parlamento. Attualmente la nostra proposta è diventata una mozione depositata al Consiglio regionale del Lazio che ci auguriamo possa essere approvata nei prossimi mesi. Ad oggi la maggiore fonte di insoddisfazione sono i contatti telefonici che avvengono solitamente una volta a settimana nel lasso temporale di 10 minuti. Sono centralizzati nella maggior parte dei casi, quindi vengono trattati dall’amministrazione. Non c’è quindi la possibilità di una scheda prepagata. Inoltre 10 minuti non sono sufficienti per parlare con la famiglia. Un detenuto descrisse questa condizione come “un lungo viaggio” dove non fai in tempo neanche a sapere come sta la tua famiglia. Quindi abbiamo stabilito una completa riforma del contatto telefonico. Innanzitutto c’è bisogno di luoghi dedicati perché spesso gli apparecchi telefonici sono nelle sezioni, vicino a fonti di rumore e senza privacy. Ovviamente deve esserci un aumento del tempo a disposizione, almeno a 20 minuti. Inoltre abbiamo stabilito che ci sia una scheda prepagata che il detenuto può tenere con sé e che tre telefonate a settimana fossero gratuite. La telefonata è infatti un diritto del detenuto. Abbiamo stabilito anche un tetto limite che può essere modulato nel corso della settimana e non riferito solo al singolo giorno. Con questa riforma rispettiamo quanto viene detto nelle carte internazionali e nelle regole penitenziarie europee. Attualmente molti detenuti vivono situazioni di disagio che si ripercuotono anche sull’aspetto psicologico. Infatti durante la ricerca abbiamo constatato come molti facciano uso di psicofarmaci. In più, su proposta del nostro rettore abbiamo chiesto ai quattro istituti penitenziari analizzati di poter presentare i risultati della ricerca ai detenuti perché volgiamo fargli capire che la loro disponibilità e il loro aiuto è stato fondamentale per i risultati raggiunti. È stata la loro voce a dare vita ad una proposta di riforma che potrà cambiare la vita non solo a loro ma anche alle tante famiglie che vivono queste condizioni. La promozione sociale dei detenuti non è utopia di mons. Michele Pennisi interris.it, 5 gennaio 2022 La comunità cristiana è chiamata ad educare, aiutare, riabilitare, far sentire ciascuna persona degna di essere amata e di essere promossa nella vita sociale. Mi auguro che nella Chiesa e nella società civile si tenga conto dell’articolo 27 della Costituzione Italiana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena dentro la prigione ha senso se, mentre afferma le esigenze della giustizia e scoraggia il crimine, serve al rinnovamento della persona, offrendo a chi ha sbagliato una possibilità di riflettere e cambiare vita, per reinserirsi a pieno titolo nella società. Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, papa Francesco afferma che è determinante per la credibilità della Chiesa che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia e invita a vincere l’indifferenza non distogliendo lo sguardo dal suo prossimo e compiendo atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, fra i quali nomina i detenuti. Nelle parole del Papa c’è l’invito urgente ad adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio, avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. Da seminarista a Roma ho conosciuto ed aiutato alcuni ragazzi usciti dal carcere minorile, dove erano seguiti dall’allora don Agostino Casaroli e da alcuni miei compagni del collegio Capranica. Da viceparroco sono stato invitato da alcuni familiari di interessarmi della liberazione di alcuni prigionieri politici e di alcuni “desaparecidos” vittime della dittatura militare in Argentina. Grazie alla collaborazione di Caritas Internationalis e di Justitia et Pax riuscii a far rimpatriare in Italia nel 1979 un medico e una ragazza ambedue di Cordoba, che erano stati torturati e detenuti senza processo. Ambedue furono accolti a Grammichele (Catania) e la ragazza fu aiutata a conseguire il diploma di assistente sociale. Purtroppo per altri detenuti non si riuscì ad ottenere la liberazione ma solo risposte evasive da parte del governo argentino. Ho avuto modo di incontrare molti detenuti ed ex detenuti durante gli undici anni (2002-2013) del mio episcopato a piazza Armerina, diocesi nel cui territorio si trovano tre Case circondariali ad Enna con quattro sezioni, a Piazza Armerina e a Gela. Visitavo diverse volte l’anno i detenuti e mi tenevo informato sulle loro condizioni tramite i cappellani delle carceri. Ho amministrato diversi sacramenti del battesimo, della cresima e della prima comunione. Ricordo che un detenuto, che aveva i parenti fuori dalla Sicilia, chiese un permesso per poter trascorrere una giornata con me. La Caritas diocesana ha messo a disposizione un appartamento per i familiari dei detenuti che venivano da lontano e per ex detenuti stranieri. Sono state organizzate una serie di iniziative di evangelizzazione e di promozione umana per i detenuti con la collaborazione di alcuni movimenti ecclesiali ed associazioni di volontariato. Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo nelle Carceri ebbe a dire: “Per la realtà carceraria bisogna adoperarsi al fine di creare nuove occasioni di riscatto. Ciò si traduce per ciascuno, entro i limiti della sua competenza, nell’impegno di contribuire alla predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità. Tutto questo non deve essere considerato utopia”. Covid in carcere, netto aumento dei contagi: 804 positivi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2022 Si registra una crescita dei contagi Covid in carcere, mentre sono 96.604 le dosi di vaccino somministrate ai detenuti. Intanto il ministro Cartabia promette una riforma penitenziaria. In netto aumento i casi Covid nelle carceri italiane, che registrano una crescita consistente rispetto alle scorse settimane. I detenuti positivi sono 804 (di cui 22 nuovi giunti), su un totale di 53.142 presenze, mentre i casi sono 876 tra i 36.939 poliziotti penitenziari in servizio. I dati, aggiornati a ieri sera, sono contenuti nel report settimanale pubblicato sul sito del ministero della Giustizia. La scorsa settimana i casi erano stati 510 tra i detenuti, su una popolazione di 52.569 unità, un numero già più che raddoppiato rispetto ai 239 di quella precedente, e 527 tra gli agenti. Tra i detenuti positivi, 786 sono asintomatici, 12 hanno sintomi e sono gestiti all’interno degli istituti e 6 sono ricoverati in ospedale. Tra gli agenti penitenziari 860 sono asintomatici in isolamento domiciliare, 14 sono ricoverati in caserma e 2 in ospedale. Quarantotto sono infine i positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria, tutti in isolamento domiciliare, mentre la scorsa settimana erano 37. I dati dei vaccini in carcere - Prosegue la campagna vaccinale nelle carceri italiane. Sono 96.604 le dosi di vaccino anti Covid somministrate ai detenuti, come riportato nel bollettino settimanale, aggiornato a ieri, pubblicato sul sito del ministero della Giustizia. La scorsa settimana il totale delle somministrazioni era di 94.738 dosi. Cartabia: nel 2022 priorità alla riforma del carcere - “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità. L’ho già detto ai membri della Commissione sull’innovazione penitenziaria qualche giorno fa”. Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che nei giorni prima di Natale ha ricevuto dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario la relazione finale predisposta al termine dei lavori che si sono tenuti, come previsto, nell’ultimo trimestre del 2021. “Anzitutto dovrò valutare le proposte contenute nella relazione che la Commissione mi ha consegnato e, sulla base di esse, elaborare con il Dap un piano di azione da proporre su tutto il territorio. Il carcere ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”, ha spiegato Cartabia, come riporta il quotidiano web del ministero della Giustizia. Così come avvenuto per le altre commissioni ministeriali ora la ministra farà le sue valutazioni rispetto alle proposte di intervento avanzate. Istituita con decreto ministeriale del 13 settembre 2021 e presieduta da Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma tre, la Commissione aveva avuto il compito di individuare possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti penitenziari, perché sia sempre più conforme ai principi costituzionali e agli standard internazionali. Le proposte della Commissione si sono concretizzate, oltre che in ipotesi di modifiche, in forma di articolato, anche in 8 linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative da applicare perché producano, come richiesto, consistenti miglioramenti della vita penitenziaria durante l’esecuzione penale. Giallo sulla riforma del Csm. Via Arenula assicura: “Priorità alla legge sul carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 gennaio 2022 Nel Consiglio dei Ministri che si riunirà molto probabilmente oggi per varare il provvedimento che estende il super green pass a tutti i lavoratori arriverà anche la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario? È la domanda che si stanno ponendo tutti gli operatori della giustizia e anche i parlamentari della Commissione giustizia della Camera che saranno chiamati a svolgere il lavoro sub-emendativo, visto che la Ministra Cartabia ha preannunciato che il suo non sarà un testo blindato, come avvenuto per la riforma del processo penale. Quello che trapela da via Arenula è che le proposte della responsabile del dicastero sono a Palazzo Chigi e che lì deve essere deciso l’ordine del giorno del Cdm. Nessuna indiscrezione invece da Piazza Colonna. La certezza è che la Guardasigilli voglia accelerare, anche perché il provvedimento del Governo sarebbe dovuto essere sul tavolo del Cdm già prima di Natale, aveva assicurato la Cartabia dopo il secondo giro di incontri con le forze politiche. Ma poi tutto è saltato, con non poca irritazione da parte del Ministero della Giustizia. La priorità non era la giustizia ma la variante Omicron o, come ha ipotizzato qualcuno, Draghi non voleva dividere la scena con la Cartabia, anzi voleva complicarle le cose, in vista delle elezioni per la Presidenza della Repubblica, essendo entrambi i nomi nella lista dei papabili. Fino all’ultimo si è sperato in un nuovo Consiglio dei Ministri ad hoc prima della fine dell’anno per rendere nota a tutti la tanto sospirata terza gamba delle riforme della giustizia ma siamo rimasti tutti delusi. E comunque nulla esclude che la Ministra possa depositare i suoi emendamenti direttamente in Commissione Giustizia, senza passare per il Cdm qualora non ci fosse spazio per la riforma tanto attesa. In fondo non è un obbligo il passaggio a Palazzo Chigi, soprattutto in questo caso in cui i partiti avranno la possibilità di apportare modifiche al testo governativo. Comunque l’insofferenza non manca per questo ritardo. La scadenza di questa consiliatura del Csm si avvicina e per il rinnovo di Palazzo dei Marescialli si voterà tra luglio e settembre. Dopo lo scandalo Palamara, tutte le correnti dell’Anm sono d’accordo che non si può utilizzare l’attuale sistema di voto. L’idea della ministra sarebbe quella di creare un sistema maggioritario con collegi binominali, corretto con un meccanismo tipico del proporzionale: quello del miglior terzo. Sarebbe un modo per arginare lo strapotere delle correnti e scongiurare il bipolarismo. Ma si farà in tempo a varare la riforma? Il 24 gennaio ci sarà la prima votazione per eleggere il nuovo Capo dello Stato e questo potrebbe frenare di molto il lavoro parlamentare. A questo punto forse non arriveranno fuori tempo massimo i risultati del referendum sul sistema elettorale per le elezioni del Csm indetto dal Comitato direttivo centrale dell’Anm. La decisione a fine gennaio potrebbe giungere nel vivo del dibattito in Commissione. Però non c’è solo la modifica del sistema elettorale. “La riforma del Csm era in calendario in aula alla Camera per novembre 2021. Ma tutto si è bloccato perché il Governo non ha presentato nulla - ha scritto Enrico Costa su Twitter - Ma il ritardo sarà il minore di problemi, se l’esecutivo sarà timido nell’affrontare temi come responsabilità, valutazioni e fuori ruolo”. È lo stesso timore dell’Unione Camere Penali che con il presidente Caiazza nei giorni scorsi ha mostrato delusione per non essere mai stati convocati ai tavoli ministeriali a discutere delle loro proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario a partire proprio dalle valutazioni di professionalità dei magistrati, dai fuori-ruolo, dal diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari. Comunque ieri, a proposito di un’altra riforma - quella del sistema penitenziario -, la guardasigilli, tramite il portale di notizie del Ministero, ha fatto sapere che “da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. È questo l’impegno che ha preso con i membri della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, quando, prima della pausa natalizia ha ricevuto la relazione finale predisposta al termine dei lavori che si sono tenuti, come previsto, nell’ultimo trimestre del 2021. “Dovrò valutare le proposte contenute nella relazione che la Commissione mi ha consegnato e, sulla base di esse, elaborare con il DAP un piano di azione da proporre su tutto il territorio - ha specificato la minista -. Il carcere ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto a livello amministrativo allo scopo di migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere”. Camere di consiglio da remoto: l’emergenza non diventi ordinarietà di Antonella Marandola* Il Dubbio, 5 gennaio 2022 Fra le questioni che nelle ultime ore agitano il mondo della giustizia penale v’è senza dubbio la peculiare scelta politica di estendere con l’art. 16 del d. l. 30 dicembre 2021, n. 228 (cd. Milleproroghe) le misure speciali processuali dettate dalla legislazione emergenziale fino al 31 dicembre 2022. Inutile ricordare che si tratta dell’ennesima proroga nell’arco di questi due anni particolari anche per la giustizia. Si tratta, però, di una decisione che desta sconcerto non solo perché disposta proprio l’ultimo giorno dell’anno, ma per il fatto che attesta l’incapacità di garantire in questi due anni la possibilità di svolgere ed assicurare una regolare amministrazione della giustizia penale. Non si è stati in grado di far fronte alla ri- organizzazione e all’ammodernamento delle strutture e del personale necessarie per lo svolgimento ordinario di un’attività essenziale e fondamentale qual è l’esercizio della giurisdizione penale, attuata in nome e per conto del popolo, ma in piena e necessaria “sicurezza”. Ma lo sconcerto è destinato ad aumentare in quanto, qualche giorno fa, è stato fissato al 31 marzo 2022 il nuovo (potenziale) time-out dello stato d’emergenza. Tuttavia in maniera irragionevole la proroga dei termini in materia di giustizia civile, penale, amministrativa, contabile, tributaria e militare, si protrae fino alla fine del 2022. Se lo stato di emergenza si connota opportunamente per la temporaneità, in conformità al delicato periodo che stiamo (nuovamente) attraversando, quello legato alla giustizia si lega in maniera irrazionale ad una preoccupante stabilità, tanto da diventare “ordinario” per l’intero anno appena iniziato. Dopo un primo e del tutto irragionevole - soprattutto nel campo penale - “fermo attività” attuato nei primi mesi del 2020, vi è stato un successivo e progressivo impegno da parte del legislatore volto ad assicurare il bene- servizio giustizia e nel contempo le misure di sicurezza e di tutela degli innumerevoli operatori giudiziari. Ebbene, un tale bilanciamento ha sicuramente consentito l’avvio, da tempo atteso e attuato con molte difficoltà, di nuove e doverose metodologie procedurali anche di forte impatto (si pensi all’avvio del cd. deposito telematico degli atti), ma allo stesso tempo ha dato origine a una regolamentazione processuale fortemente derogatoria di principi e regole ordinarie (attività d’indagine con collegamenti a distanza, udienze da remoto, udienze cartolari in appello e videoconferenza per la partecipazione alle udienze di persone detenute o internate) sulle quali si sono addensate moltissime critiche da parte dell’avvocatura e di larga parte dell’accademia, posto che lo strumento da remoto smaterializza il processo penale, minando quei valori essenziali della partecipazione, dell’immediatezza, dell’oralità, del contraddittorio, della centralità della partecipazione della difesa in sede di udienza, che sono il baluardo della legalità del processo penale. Non è certo questa la sede per muovere dei rilievi tecnici alle singole previsioni, eccezionalmente ammesse per fronteggiare il rischio dei contagi nelle aule giudiziarie, ma certamente l’opzione operata nei diversi provvedimenti non sempre è parsa idonea ad assicurare l’attuazione del pieno diritto di difesa, qui inteso nel suo aspetto pubblico, e i principi di un giusto processo penale la cui regolare attuazione è resa molto difficile, se non vanificata, dalla carenza, insufficienza e/ o inidoneità delle aule, del personale, dei mezzi e strumenti tecnici o telematici presso le diverse sedi giudiziarie. Tuttavia, se finora la scelta del governo di consentire la trattazione delle cause a distanza in sede di cautela e la necessità della richiesta di discussione dei processi di Appello e di Cassazione appariva - se vogliamo - “ragionevole” e accettabile in quanto contrapposta al pericolo di contagio, con l’art. 16 del decreto Milleproroghe una tale giustificazione è neutralizzata. D’altro canto, è noto che per altre essenziali attività (si pensi alla didattica) e nonostante il proclamato stato d’emergenza, il governo ha escluso modalità di svolgimento “alternative”. Altre paiono, allora, le ragioni che hanno indotto l’Esecutivo al mantenimento dell’eccezionale regime processuale, come conferma il fatto che, poiché il governo è intervenuto fuori tempo massimo la disciplina contenuta nel provvedimento di fine anno, non si applica per le udienze di trattazione fissate tra il 1 gennaio 2022 e il 31 gennaio 2022. L’estensione non intende tutelare affatto dal rischio pandemico. Parrebbe avere, invece, il significato di rendere stabile una disciplina che si voleva solo temporalmente limitata. È fin troppo noto che nel nostro Paese l’eccezionale diventa l’abituale, lo straordinario diventa l’ordinario: alla regola non si sottrae neanche il (delicato e importantissimo) processo penale. La perpetuazione di quella disciplina per la “gestione” degli affari penali, fortemente limitativa dei diritti e delle forme (oralità, immediatezza, contraddittorio) che qualificano il nostro processo penale, reggerà nel nuovo anno su un regime di protocolli e intese interne agli uffici giudiziari e assume la veste di una vera e propria “prova tecnica” di quanto accadrà al giudizio penale una volta approvata definitivamente la “Riforma Cartabia” che molte di tali prassi (videoregistrazioni, appello cartolare, audizioni a distanza) intende mutuare definitivamente. Nell’attesa il 2022 sembra assumere la veste di vero e proprio “periodo transitorio” per la (futura) messa a regime del “nuovo” processo penale. Sarà l’anno che ci traghetterà verso un modello di processo fortemente lontano dal modello accusatorio che d’ora in avanti sarà “a richiesta”. Assicurato il “distanziamento” del difensore dall’affare penale, la pratica si avvia verso la “frantumazione dell’attività decisoria” che, in alcune sedi, avverrà “a distanza” quasi a ripudio di quella collegialità che è valore essenziale e cifra della nostra giurisdizione. Su quali atti e fascicoli, con quale contraddittorio e articolazione potranno i giudicanti confrontarsi sui diversi aspetti per giungere alla “giusta” e meditata pronuncia? In quali contesti si deciderà, invece, in presenza? Può tale attività dipendere, ancora una volta, da protocolli o dalle strutture a disposizione di chi è chiamato a svolgere una delle più autorevoli funzioni dello Stato? Ecco perché è condivisibile la denuncia e l’appello dell’Unione Camere penali al Parlamento per il rispetto dei princìpi del giusto processo affinché in sede di conversione in legge - si ritorni quantomeno a limitare il ricorso alle norme emergenziali del processo fino al 31 marzo 2022, così come previsto per altri processi (ad esempio quello tributario). Né la decretazione d’urgenza né i criteri di delega appaiono sufficienti a sovvertire il regime processuale ordinario dopo la pandemia. Una volta svincolato il regime d’eccezione (cartolare, a distanza e/ o differito) dal problema sanitario non si comprende, infatti, a quali condizioni sarebbe possibile tornare all’ordinario sistema, al ripristino, cioè, di quelle forme e modalità di un “giusto processo penale” che qualifica e fa apprezzare il nostro rito penale, per cui lo sguardo dei penalisti, anche accademici, dovrebbe, forse, muovere al di là di tale (breve) orizzonte. *Ordinaria di Diritto processuale penale all’Università del Sannio Dalla Cina arriva il magistrato-robot: un virus molto più devastante di Luca D’Auria* Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2022 Il 2022 si apre, per l’ennesima volta, con una notizia vertiginosa proveniente dalla Cina. Ma non si tratta di un nuovo virus o di qualche altra variante terrificante di Covid. Per certi versi è qualcosa di più sconvolgente, o meglio, qualcosa che va a toccare in modo decisivo la storia dell’uomo. Qualcosa che pone delle questioni talmente complesse e profonde su “chi siamo” (come esseri umani) che può produrre solamente due reazioni opposte tra loro: il rifiuto secco e sdegnato o la riflessione non acritica ma costruttiva. La notizia è la seguente: in Cina è stato realizzato un magistrato robot. Viene messo in soffitta o al museo delle cere il pubblico ministero in carne e ossa, fatto di ragione e coscienza e viene sostituito da una macchina. Per ora la scelta è ricaduta solamente sul magistrato d’accusa, chiamato a valutare quali processi portare a giudizio e quali archiviare; ma c’è da scommettere che, tra qualche tempo, anche il giudice umano (o meglio, per citare Nietzsche, “umano troppo umano”) sarà un ferrovecchio, magari un oggetto da collezione. Quanto al terzo protagonista del processo, cioè l’avvocato, la questione non si pone. Napoleone, già il 18 brumaio, appena preso il potere, aveva ordinato di “tagliare la lingua agli avvocati”. In Cina “il penalista” è una figura dello Stato. Da noi, anche al giorno d’oggi, l’avvocato rischia spesso di divenire uno strumento per assicurare il rispetto (formale) del contraddittorio. Per questo è assai più interessante riflettere sull’idea che il “togato” sostituito sia il magistrato. Provo a spendere alcune riflessioni, posta una premessa. La scelta asiatica del magistrato robot deve essere affrontata senza infingimenti: l’ideologia occidentale antropocentrica non può accettarla. “La giustizia deve restare umana” sostengono spesso i magistrati e ciò nell’idea neoilluminista che la coscienza umana assicuri la migliore performance possibile o comunque garantisca quella più affidabile e giusta. Bacone avrebbe classificato questo assunto come un idolo (nello specifico un “idolum theatri”) capace di predeterminare la cognizione e costringere il pensiero dentro percorsi definiti e chiusi. È necessario provare a smontarla, quanto meno per comprendere se è un pensiero affidabile o puramente dogmatico. Da qualche anno mi interrogo e scrivo sul rapporto tra le nuove forme di tecnologia (su tutte l’intelligenza artificiale) e il fare giustizia. Ho affermato che, in un mondo in cui l’interazione tra uomo e macchina investe tutti i campi dell’agire (si pensi, tra i più rilevanti, alla medicina e alla chirurgia) la giustizia non può negare ogni dialogo con la tecnica e ciò perché farebbe perdere alla giurisdizione stessa il suo ruolo di regolatore e guida della società (le cui componenti non accetterebbero di essere regolamentate e giudicate da un sistema non al passo coi tempi). Ma c’è molto di più. La scelta di affidare la giustizia all’intelligenza artificiale impone una domanda radicale: perché l’uomo, dotato di ragione e coscienza, dovrebbe essere sostituito da un insieme di chip in silicio? Per di più questi chip sono solamente in grado di simulare (probabilmente anche malamente) la ragione e la coscienza umana e non hanno nessuna autonomia decisionale, ma rispondono ad un algoritmo meccanico. Quindi: perché sostituire un umano studioso e coscienzioso con un algoritmo meccanico? È esattamente quello che sostengono i “laudatores” della giurisdizione umana. Le scienze cognitive, eredi del più profondo pensiero filosofico, sono in grado di abbattere l’antropocentrismo illuminista che vuole l’essere umano (e dunque anche il magistrato) un individuo libero proprio perché dotato di coscienza e ragione. In realtà la libertà umana è, assai probabilmente, molto più simile a quella descritta da Platone nel Fedro o dalla psicanalisi: un “daimon” che rappresenta “un altro” irriducibile alla propria coscienza e alla propria ragione. È libertà di essere ciò di cui non si ha coscienza e ragione (ma che rappresenta l’essenza più intima, nascosta e profonda del sé). La libertà umana, in poche parole (anche se molto provocatorie) non è quella di giudicare bene ma di giudicare “senza ragione” e “senza coscienza”. Abbattendo l’accoppiata di coscienza e ragione come alleati della libertà umana, si può realmente comprendere come agisce il cervello e dunque cos’è il diritto, che funzione ha e, di conseguenza, perché l’intelligenza artificiale può rappresentare una sfida con cui la giurisdizione deve confrontarsi. Il diritto è un algoritmo “ante litteram”, volto proprio a togliere (la vera) libertà all’uomo. L’uomo cantato del “daimon”, dell’inconscio soggettivo e collettivo e del sistema neurale automatico deve essere guidato per mano, non può “liberamente” decidere di altri uomini. Il diritto non vuole che l’uomo-giudice sia libero, perché l’uomo libero si trasforma, inevitabilmente, in un individuo nietzschiano, cioè “umano troppo umano”. L’uomo libero compone opere sublimi, ma il fare giustizia non deve essere un’opera sublime, ardita, sconvolgente. Deve solamente essere giusta in base a regole astratte e artificiali che l’uomo ha costruito come sovrastruttura per rispondere ai propri bisogni contingenti. Due anni fa stava arrivando dalla Cina la pandemia che ha sconvolto gli ultimi 24 mesi della nostra vita. Oggi è in arrivo un “virus” molto più devastante, che è in grado di cancellare un paio di millenni di costruzione culturale. È un “virus” capace di abbattere la nostra idea di uomo e il suo simbolo più antropocentrico: la modalità umana di giudicare gli umani. Buon 2022 dal futuro postpandemico. *Avvocato e docente di Diritto Intelligenza artificiale e diritto, alla giustizia servirà sempre l’uomo di Gaetano Viciconte Il Dubbio, 5 gennaio 2022 Il problema basilare su cui il legislatore eurounitario dovrà definitivamente prendere posizione rimane quello della trasparenza dell’algoritmo su cui è strutturato il sistema. Il tema dei rapporti tra diritto e sistemi di intelligenza artificiale esce dalle valutazioni di principio per approdare all’esame dell’adeguatezza della disciplina europea di prossima emanazione e all’analisi delle pronunce giurisprudenziali nel frattempo intervenute sia in sede civile sia in sede amministrativa. La proposta di regolamento UE elaborata dalla Commissione Europea del 21 aprile 2021 è fondata sul sistema della gestione del rischio, alla stregua del Gdpr sulla tutela della privacy, ma è rimesso a un successivo atto regolamentare lo statuto della responsabilità civile per i sistemi ad alto rischio e per i casi di responsabilità aggravata. Nel frattempo, la recentissima proposta di direttiva sui riders (“on improving working conditions in platform working”) formulata dal Parlamento europeo e dal Consiglio del 9 dicembre scorso propone un modello avanzato di gestione dei rapporti di lavoro mediante i sistemi di Intelligenza Artificiale, che potrebbe assumere anche il carattere di un paradigma di carattere generale. All’articolo 6, dedicato alla gestione mediante algoritmi, si prevede l’obbligo di trasparenza dei sistemi decisionali impiegati per stabilire le condizioni di lavoro, il conferimento degli incarichi lavorativi, lo stipendio, la sicurezza, l’orario di lavoro, le promozioni e lo status occupazionale. Inoltre, all’articolo 8, si prevede la revisione umana di decisioni significative, enunciando l’obbligo di garantire per i lavoratori il contatto con una persona designata per discutere e chiarire fatti e ragioni che hanno determinato la decisione assunta nei loro confronti. A ciò può seguire la fase della richiesta di vera e propria revisione della decisione, rispetto alla quale deve intervenire una risposta motivata senza ritardo e se si riscontra una violazione dei diritti dei lavoratori, occorre rettificare la decisione o, se non è possibile, offrire un adeguato risarcimento. Il problema basilare su cui il legislatore eurounitario dovrà definitivamente prendere posizione, rimane, tuttavia, quello della trasparenza dell’algoritmo su cui è strutturato il sistema di intelligenza artificiale impiegato. La Corte di cassazione, I Sezione civile, lo ha evidenziato in modo inequivocabile con l’ordinanza n.14381 del 25 maggio 2021, secondo cui quando ci si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, devono essere necessariamente resi conoscibili lo schema esecutivo in cui l’algoritmo si esprime e gli elementi considerati al tal fine. Un problema ulteriore è affrontato dal Consiglio di Stato, con la sentenza della Terza Sezione n.7891 del 25 novembre 2021, chiamato a definire l’esatta perimetrazione della nozione di “algoritmo di trattamento” nell’ambito di una procedura di gara per la fornitura di materiale sanitario. In tale pronuncia, si ribadisce come la nozione comune di algoritmo riporti alla mente “semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato”. Tuttavia, l’algoritmo tradizionale viene utilizzato in un sistema di machine learning che si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati, ai fini della decisione. Mentre cosa diversa sono i sistemi veri e propri di intelligenza artificiale, in cui l’algoritmo elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati, che determinano l’assunzione di decisioni sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico. Non c’è dubbio che il problema della trasparenza acquisirà sempre maggiore rilevanza proprio con riferimento ai sistemi di intelligenza artificiale, descritti in modo differenziale rispetto all’uso tradizionale dell’algoritmo nella suddetta pronuncia, giacché la fase del machine learning può dirsi in via di superamento, trovandoci ormai in quella della deep learning rispetto alla quale è sempre più essenziale far valere il principio di trasparenza algoritmica, per non demandare la decisione alla macchina in modo insindacabile, secondo il fenomeno del blackbox. L’obiettivo, pertanto, è quello di rintracciare sempre la catena logica sequenziale degli strumenti di automazione, giacché le decisioni algoritmiche producono atti o fatti giuridicamente rilevanti e occorre verificare che non siano il frutto di pericolosi bias cognitivi. Abriani e Schneider nel loro libro su Diritto delle imprese e intelligenza artificiale prospettano un possibile scenario tanto verosimile quanto inquietante nel quale le persone dovranno lavorare solo per inventare modelli di business e progettare algoritmi e istituzioni per regolamentarli. Soprattutto quando arriveremo ai roboboards ovvero ai consigli di amministrazione interamente strutturati secondo processi decisionali di intelligenza artificiale. Occorrerà, tuttavia, sempre tener presente, per parafrasare un altro libro pubblicato di recente da Kate Crawford, che i sistemi che si definiscono tali, in realtà, non sono né intelligenti né artificiali e che il controllo umano non potrà mai essere abbandonato. Certamente, si può aggiungere, il controllo umano è essenziale in ambito giuridico, giacché il diritto non può essere ridotto a mera computabilità. La Procura europea tutela gli interessi finanziari dell’Ue, ma è soprattutto un atto politico di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2022 La Procura Europea (Eppo), istituita nel 2017 sulla base di una cooperazione rafforzata tra 22 Stati membri, opera dal 1° giugno 2021 e ha lo scopo di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione Europea. Per chiarire cosa si intenda per interessi finanziari dell’Ue occorre partire dal bilancio europeo il quale, in parte composto da contributi finanziari degli Stati membri, oggi è finanziato con risorse proprie comprendenti principalmente dazi, il contributo Iva, le multe inflitte a società che non rispettano il diritto dell’Ue e i contributi di paesi terzi ai programmi europei. Si comprende bene quanto esso sia una parte importante del buon governo, quanto ne rappresenti la forza trainante e quanto sia un’impresa riuscire a trovare un accordo tra 27 Paesi con tante storie e identità diverse. Il bilancio dell’Alleanza, quindi, non ha solo un ruolo finanziario, ma è prima di tutto un grande atto politico. Non ha equivalente, né è paragonabile al bilancio di un Paese o di un’organizzazione internazionale e, per la natura della sua composizione, non è paragonabile al bilancio nazionale. Sfortunatamente la frode e la corruzione hanno continuato a crescere nel corso degli anni, nonostante la creazione dell’Unità di Coordinamento Antifrode (Uclaf), dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf), dell’Ufficio Europeo di Polizia, Europol e di Eurojust per la cooperazione tra le procure nazionali, perché la loro azione è rimasta limitata e, spesso, considerata asimmetrica. Questo è il motivo per cui l’assistenza giudiziaria in materia penale tra Stati membri è rimasta molto fragile per molto tempo. L’Ue, trovandosi senza alcun potere reale per via di una politica antifrode puramente amministrativa, ha allora deciso, con il Trattato di Lisbona, di istituire la Procura Europea che non si limita solo al semplice coordinamento tra i tribunali nazionali, ma svolge un ruolo specifico in quanto istituzione giudiziaria sovranazionale. Finora, a parte Polonia, Ungheria, Svezia, Danimarca e Irlanda, ne fanno parte 22 Stati membri per i quali, pur mantenendo per ciascuno di essi le prerogative riguardanti l’autonomia e l’indipendenza del proprio sistema giudiziario nazionale, Eppo rappresenta una grande scommessa sul futuro dell’Ue. Essa è fondata su un elemento centrale: la fiducia reciproca. Ecco perché la cooperazione rafforzata non dovrebbe essere vista come un freno ma, piuttosto, come una nuova e più moderna forma di controllo giurisdizionale affinché la struttura a due livelli sia la più efficace possibile e si trasformi da una cooperazione parallela a una cooperazione sovrapposta. Non si tratta più di coordinare l’azione tra i procuratori nazionali, ma di creare autentici procuratori europei. Tuttavia, gli interessi finanziari dell’Ue sono un concetto molto complesso, che la Procura Europea deve saper comprendere ed è possibile che le competenze di Eppo possano essere estese ad altri settori, oltre ai reati definiti dalla direttiva Ue 2017/1371, per esempio la politica antiterrorismo o i reati ambientali o altro ancora. Oggi, grazie allo sblocco dei fondi per l’attuale crisi sanitaria, è di molto cresciuta la sua importanza strategica e il piano di ripresa NextGenerationEu da 750 miliardi di euro rappresenta una sfida, soprattutto in tempi di crisi. Ma la somma colossale del pacchetto di stimoli per rilanciare l’economia dell’Ue rappresenta un alto rischio di frode per via dei grandi appetiti criminali, in particolare nel campo della salute. Eppo avrà, dunque, un compito molto più delicato: dimostrando l’efficacia della sua azione, rafforzerà la fiducia reciproca degli Stati membri nei confronti dell’Ue e sarà il suo vero banco di prova. Si tratta, pertanto, di un aspetto essenzialmente politico oltre che di tutela finanziaria. In questo risiede la sua particolarità. La Procura Europea è quindi una scommessa sul futuro e di certo non aiutano le sovrapposizioni di competenze multilivello che potrebbero registrarsi nel nostro Paese tra i procuratori europei delegati e le singole Procure, con le relative deleghe ai propri aggiunti, tra la Procura nazionale Antimafia e la stessa Eppo. Leggere, per esempio, di un procuratore europeo delegato a Milano, al momento sottoposto ad indagine nel procedimento Eni, da cui ci si dovrebbe attendere completa sintonia con la procuratrice antimafia titolare delle misure di prevenzione patrimoniali e, più in generale, con la Procura nazionale antimafia sul territorio lombardo, così esposto agli appetiti della criminalità organizzata, potrebbe far sorgere il timore, dal punto di vista del coordinamento degli apparati investigativi, su chi coordina chi e soprattutto cosa. Ecco perché la Procura Europea, se non dimostrasse fin dall’inizio la sua efficacia che è essenzialmente politica, in quanto simbolo della decompartimentalizzazione dello spazio giudiziario europeo, rischierebbe di far dubitare gli Stati membri su questo importantissimo progetto, perché sarà più difficile riconquistarne la fiducia in seguito. *Professore Straordinario in Diritto processuale penale comparato Cassazione: “Al 41 bis non sono giustificabili regole “più dure” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2022 Rigettato il ricorso del ministero della Giustizia all’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, che ha sancito il diritto del detenuto di acquistare gli stessi generi alimentari accessibili a chi è in media sicurezza. La sospensione delle regole ordinarie al 41 bis mira ad evitare che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l’ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà. Ma non sono giustificabili regole che delineano un regime carcerario “più duro” rispetto a quello ordinario, se non risultano necessarie agli scopi di prevenzione cui la misura è finalizzata. Rigettato il ricorso del ministero della Giustizia - Questo è, in sostanza, l’assunto della recente sentenza della Cassazione numero 47394, che ha rigettato il ricorso del ministero della Giustizia all’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia, la quale ha sancito il diritto del detenuto al 41 bis di procedere all’acquisto degli stessi generi alimentari previsti per i detenuti di media sicurezza. Accade che il 17 settembre scorso, il tribunale ha rigettato il reclamo proposto dall’amministrazione penitenziaria, avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di Spoleto, con ordinanza in data 1 luglio 2019, aveva accolto il reclamo presentato da Nunzio Di Lauro, sottoposto al 41 bis, in ordine all’acquisto di generi alimentari suscettibili di cottura, inclusi nel modello 72, e alla previsione di due fasce orarie per la cottura dei cibi, comprese tra le ore 11:00 e le 14:00 e tra le ore 16:30 e le 19:00. Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva accolto la richiesta del detenuto al 41 bis - In particolare il Magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva accolto la richiesta con cui si sanciva il diritto del detenuto di procedere all’acquisto degli stessi generi alimentari previsti per i detenuti di media sicurezza e di provvedere a cucinare con modalità identiche, senza previsione di fasce orarie differenziali. Non era, invero, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale (nr. 186/2018) giustificabile l’esistenza di un elenco di beni distinto e più ristretto, rispetto a quello in uso nelle sezioni ordinarie. Ricorre per Cassazione il ministero della Giustizia, rilevando che il divieto di acquisto di cibi presso le sezioni, per il detenuto al 41 bis, si rendeva vieppiù rilevante alla luce della circostanza che detto detenuto non poteva acquistare beni accrescendo il carisma o il suo status idoneo potenzialmente a creare posizioni di potere all’interno della struttura. La Cassazione, invece, elogia l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, specificatamente nella parte in cui sancisce il diritto all’acquisto dei generi alimentari. I giudici ritengono importante ribadire che il 41 bis configura testualmente il contenuto del regime differenziato in termini di “sospensione”, totale o parziale, nei confronti di determinati detenuti, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La norma giustifica espressamente tale eccezionale sospensione, e le restrizioni che ne derivano, con la motivata “necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza”. La Cassazione ha sancito che il tribunale di sorveglianza abbia motivato in modo adeguato e corretto - L’istituto è strettamente funzionale “al conseguimento del fine suddetto”, con la conseguenza - evidenza la sentenza della Cassazione -, che, “laddove l’intervento non scaturisca dalla necessità di perseguire e consolidare suddette finalità preventive, il trattamento ordinario dovrebbe riespandersi”. La Cassazione ha sancito che il tribunale di sorveglianza abbia motivato in modo adeguato e corretto in punto di diritto quanto al rigetto del reclamo proposto dall’Amministrazione in merito alla limitazione dei generi alimentari acquistabili al sopravvitto, ritenendola ingiustificata, poiché non funzionale alle finalità dell’istituto. Il giudice di merito, infatti, ha osservato che l’argomentazione svolta dall’Amministrazione circa la finalità - perseguita dalla previsione di una lista di prodotti alimentari più contenuta rispetto a quella destinata ai detenuti ordinari - di prevenzione del rischio che all’interno delle sezioni del circuito differenziato si possano manifestare, anche attraverso il possesso di determinati generi alimentari, posizioni affermative di uno status da parte dei detenuti più facoltosi, non sia affatto fondata ma, al contrario, appaia inutile e immotivatamente vessatoria rispetto alle ordinarie regole. In particolare, il Tribunale ha precisato che il detenuto è allocato in cella singola, e al massimo può scambiare i prodotti alimentari acquistati con i componenti del proprio gruppo di socialità e, pertanto, sono da escludere eventuali manifestazioni di supremazia o carisma criminale paventate dall’Amministrazione, anche perché gli alimenti contemplati al sopravvitto in genere non sono prodotti di lusso, né particolarmente costosi. La Cassazione quindi rigetta la parte del ricorso relativo al diritto dell’acquisito dei generi alimentari, mentre annulla con rinvio solo la parte riguardante l’orario di cottura dei cibi. In quest’ultimo caso, la scelta amministrativa di vietare di cucinare al di fuori di alcune fasce orarie potrebbe essere giustificata in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interne. Il tribunale ordina di rilasciare il visto umanitario a due afghani, la Farnesina non ci sta di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 gennaio 2022 La giudice dà ragione al ricorso presentato da Asgi stabilendo un principio innovativo. Il Tribunale di Roma ordina il rilascio del visto umanitario a due cittadini afghani in pericolo, ma il ministero degli Esteri tergiversa e cerca di evitarlo. La vicenda nasce da un ricorso firmato dalla legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) Nazzarena Zorzella per conto di due persone, fratello e sorella, che nel “paese degli Aquiloni” rischiano la vita: sono reporter, hanno lavorato per la Tv, frequentato l’università americana e collaborato con diverse Ong. “La loro posizione di giornalisti, il loro coinvolgimento con il mondo occidentale li rende particolarmente esposti all’azione repressiva del nuovo governo afghano”, si legge nell’ordinanza firmata il 21 dicembre scorso dalla giudice Cecilia Pratesi. La pronuncia stabilisce un principio innovativo: mentre le autorità statali hanno “mera facoltà” di rilasciare i visti umanitari in presenza delle circostanze che li giustificano, per il giudice dei diritti fondamentali si tratta di un’”attività doverosa” quando gli viene presentata una “posizione di rischio specifico, imminente e attuale” con la richiesta di un provvedimento che possa evitare danni irreparabili. L’ordinamento, infatti, attribuisce al giudice il compito di adottare misure d’urgenza per proteggere chi non può attendere i tempi delle procedure ordinarie del diritto. Per questo Pratesi ha ordinato il rilascio dei visti a territorialità limitata (Vlt) definiti dall’articolo 25 del codice dei visti Schengen. Si tratta di documenti che permettono l’ingresso nel Paese che li rilascia, senza possibilità di muoversi in altri Stati. A settembre 2021 Asgi aveva inviato una lettera, firmata dal presidente Lorenzo Trucco, al ministro degli Esteri Luigi Di Maio (5S) chiedendo, “stante la gravità della situazione”, a Kabul di utilizzare i Vlt per proteggere i familiari di afghani presenti in Italia e in generale chi temeva ripercussioni per la propria vita. La stessa richiesta è stata avanzata specificamente per i due giornalisti, sostenuta dalla disponibilità di una cittadina italiana ad accoglierli. Dal ministero degli Esteri, però, non sono arrivate risposte e quindi la palla è passata al al tribunale. “L’ordinanza è chiara, ma quando ho chiesto al ministero di darle esecuzione mi è stata fatta la controproposta di accedere ai corridoi umanitari. Quel canale, però, non è compatibile con l’urgenza dei due ragazzi di lasciare il Pakistan, paese in cui sono fuggiti ma dove rischiano di essere fermati e rimpatriati perché le autorità di Islamabad non rilasciano visti di ingresso”, afferma Zorzella. Dopo aver incassato il rifiuto della via dei corridoi umanitari, il ministero degli Esteri si è detto disponibile a rilasciare i visti ma solo a patto che sia provato “un percorso di accoglienza in Italia strutturato, stabile, duraturo e con copertura finanziaria”. “Pretese inaccettabili perché fingono di ignorare non solo che già una cittadina italiana ha offerto la propria disponibilità a ospitare i due giovani afghani, ma anche che ogni richiedente asilo, nel momento in cui diventa tale, ha diritto all’accoglienza pubblica se privo di risorse proprie ed è un obbligo dello Stato renderlo effettivo”, scrive Asgi in un comunicato. Il 30 dicembre Zorzella ha depositato un nuovo ricorso presso il Tribunale di Roma per chiedere di indicare le modalità esatte di esecuzione del provvedimento disposto nove giorni prima. L’udienza è attesa per metà gennaio. In ogni caso l’ordinanza della giudice Pacelli è potenzialmente utilizzabile anche da altre persone che presentino una posizione specifica di rischio e potrebbe rivelarsi uno strumento prezioso per mettere al sicuro altre vite. Roma. L’inferno di Bruno, in carcere a 87 anni: “Sembra uno zombie” di Luca Monaco La Repubblica, 5 gennaio 2022 Malato di tumore, è rinchiuso in una cella al secondo piano del reparto G9 nel carcere di Rebibbia. La protesta del garante dei detenuti. “E rischia anche di essere contagiato dal Covid”. “Sembra uno zombie - sospira la Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni - è sconvolto, farfuglia parole sconnesse, indossa gli stessi vestiti dal giorno in cui è entrato e non si ricorda se gli abbiano mai fatto la visita medica”. Che per lui, a meno di ulteriori follie della Giustizia, significherebbe finalmente poter tornare a casa. Invece, a 87 anni, malato di tumore, Bruno è rinchiuso in una cella al secondo piano del reparto G9 nel carcere di Rebibbia. Tutto questo nonostante l’età avanzata, nonostante il Covid, nonostante una serie di malattie gravi. “Non parliamo di un mafioso né di un delinquente incallito - aggiunge Stramaccioni - far entrare in carcere una persona di 87 anni, in piena pandemia, sapendo che bisogna rispettare la quarantena e il distanziamento è un’assurdità, specie in una struttura già sovraffollata”. Romano di San Paolo, una moglie e due figli, Bruno il 14 dicembre è stato condannato dalla corte di Cassazione a cinque anni di reclusione. Il giorno dopo è arrivato l’ordine di esecuzione della pena: la polizia è andata a prenderlo a casa e l’ha portato al commissariato Colombo, dove ha dovuto trascorrere la notte in attesa che venisse assegnato a un carcere. Il 16 dicembre è entrato a Rebibbia, dove è rimasto in quarantena fino a Capodanno. “Il 17 dicembre ho presentato subito istanza per mandarlo a casa - spiega l’avvocato Mario Miano - il 20 l’ufficio di Sorveglianza ha chiesto al carcere una istruttoria sanitaria per accertare le sue condizioni di salute. L’ultima volta che abbiamo parlato in videochiamata, il 29 dicembre, era ancora in quarantena e non era stato visitato. Da Rebibbia non si riesce più ad avere notizie sul suo stato di salute”. Il reato per il quale è stato condannato l’87enne non prevede misure alternative al carcere. Bruno è diabetico, ha avuto un tumore al pancreas e a ottobre gli è stato trovato un nudulo di 7 millimetri al polmone sinistro. Il giorno prima della condanna aveva fatto la biopsia al Regina Elena, adesso è in carcere, senza telefono, non sa il risultato. Rovigo. Carcere minorile, dubbi sul trasloco del personale di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 5 gennaio 2022 Il cantiere al via da lunedì fino a maggio. “Abbiamo perso una grande occasione grazie alla precedente amministrazione comunale di poter avere la Cittadella giudiziaria attigua all’attuale Tribunale”. Gianpietro Pegoraro, segretario regionale della Fp-cgil Agenti penitenziari, commenta così l’imminente partenza dei lavori del cantiere per la conversione in carcere minorile dell’ex Casa circondariale in via Verdi. Ci sono già i cartelli stradali che indicano il divieto di sosta per i parcheggi a striscia blu, sul lato destro di via Mazzini, fino al 31 maggio prossimo. Previsto che l’opera sia conclusa entro il 2024. “La collocazione del carcere minorile a Rovigo - afferma Pegoraro - è stata decisa senza consultare i sindacati. Inoltre lo spostamento da Treviso a Rovigo causerà un danno agli utenti poiché l’istituto penale minorile era già radicato nel Trevigiano dove sono avviate molte attività. Come sigla sindacale abbiamo chiesto alla direzione del Centro giustizia minorile un incontro per conoscere come avverrà il trasferimento del personale e in quali modi”. A fine 2020 il ministero per le Infrastrutture con decreto ha aggiudicato l’appalto per la realizzazione del carcere minorile per il Triveneto all’associazione temporanea di imprese (Ati) “Nidaco costruzioni Srl-ici impresa costruzioni industriali Spa”. L’ati, che ha sede nel comune molisano di Venafro (Isernia), si è aggiudicata l’appalto offrendo un ribasso del 21,050 per cento per un importo finale di 8 milioni e 615.276 euro. Il bando di gara per trasformare in istituto penale per i minori i circa 2 ettari occupati dall’ex carcere era da 11,2 milioni di euro. Asti. Non si farà nuovo padiglione del carcere per 120 detenuti La Stampa, 5 gennaio 2022 Ad Asti non si realizzerà il nuovo padiglione per circa 120 detenuti. A renderlo noto, questa mattina, il garante piemontese Bruno Mellano. Nel 2019 Asti erra risultata tra le città destinatarie del provvedimento, “ma - ha spiegato Mellano - dopo due anni di iniziative e battaglie, siamo riusciti ad ottenere di non farlo, anche data la struttura stessa del carcere di Asti che è di massima sicurezza” Ad Asti in realtà servono nuovi spazi ma non si sa quanto dei 48 milioni di budget che si aggiungono ai 132 di fondi complementari - fondi mai visti prima - arriveranno per il carcere locale. “Servono nuovi spazi soprattutto per gli incontri - rimarca la garante di Asti, Paola Ferlauto -. Lo scorso anno dieci detenuti si sono diplomati in Dad”. La dottoressa Elena Tamietti, direttore distretto Asl e referente medicina penitenziaria, ha fatto il punto sulla situazione Covid in carcere. Attualmente i positivi sono 107, il 35% della popolazione carceraria e sono tutti asintomatici o paucisintomatici. Dodici i positivi tra gli agenti (che sono a casa). Ad Asti sono 39 i detenuti non vaccinati. La copertura è dell’80%. Sondrio. Dal carcere al reinserimento con l’agricoltura di montagna di Fulvio D’Eri Il Giorno, 5 gennaio 2022 Il progetto di inclusione rivolto ai detenuti del penitenziario di Sondrio con tre percorsi di tre mesi all’interno di alcune aziende del territorio. Un progetto di inclusione riservato ai detenuti o a chi è nel post pena. Si è conclusa nei giorni scorsi la terza edizione del progetto formativo dedicato all’agricoltura, già sperimentato nel corso dell’estate 2019 e 2020. “Agricoltura di montagna: un’opportunità di inclusione sociale e lavorativa” rientra all’interno di “Porte Aperte 2021-2022: percorsi dentro e fuori dal carcere per l’inclusione sociale di persone adulte entrate in contatto con il circuito penale” che racchiude diverse iniziative di carattere formativo, lavorativo, di accompagnamento socio educativo di persone che hanno vissuto e/o che stanno vivendo un’esperienza carceraria, dando la possibilità a quest’ultime di apprendere nuove competenze e conoscenze tecnico-teoriche, di sperimentarsi in nuovi contesti positivi e di intraprendere percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Da anni “Forme Impresa Sociale” partecipa al progetto “Porte Aperte”, di cui è capofila. Anche quest’anno, oltre ad un percorso di formazione teorica e qualificante sono stati attivati tre percorsi di tirocinio, all’interno di alcune aziende agricole del territorio valtellinese (della durata media di 3 mesi ciascuno), rivolti sia a persone detenute nel carcere di Sondrio che a persone all’esterno sottoposte a provvedimenti restrittivi dall’autorità giudiziaria o nel post-pena entro 1 anno. “Il lavoro di sensibilizzazione e di rete con le aziende del territorio al tema inclusione adulti in difficoltà, rappresenta un elemento di fondamentale importanza per lo sviluppo di occasioni e opportunità che consentano ai beneficiari di sentirsi parte di una comunità, al di là dei propri errori e inciampi di percorso - dichiara Alberto Fabani, referente del Progetto per conto della Cooperativa Forme -. Anche quest’anno, in parallelo allo sviluppo di percorsi formativi ad hoc sul tema agricoltura di montagna e territorio valtellinese, si è lavorato molto sul potenziamento della rete e delle alleanze con le realtà aziendali del settore agricolo. La formazione teorica è stata condotta da un tecnico agronomo della Fondazione Fojanini di Sondrio, facente capo all’Ente Accreditato di Formazione “Ial Lombardia (Sede di Lecco e Morbegno)”. Una collaborazione che dura ormai da tanti anni. “Nell’ambito delle attività didattiche la Fondazione Fojanini dedica una particolare attenzione ai percorsi formativi rivolti alle persone che presentano alcune fragilità e che devono reinserirsi nel contesto lavorativo e sociale - dichiara Paola Draicchio, Tecnico Agronomo della Fondazione Fojanini. Il settore primario infatti favorisce progetti di inclusione”. Milano. Rugby oltre le sbarre: i valori della “palla ovale” per il reinserimento dei detenuti di Francesco Lommi luce.lanazione.it, 5 gennaio 2022 L’obiettivo di questa iniziativa è creare all’interno delle carceri una cultura dell’accoglienza e del sostegno, supportando sia la fase di detenzione sia quella successiva del reintegro in società. Il rugby è uno tra gli sport più antichi della storia. Come spesso accade, vedi per esempio la boxe, queste discipline, apparentemente dominate dalla forza bruta e dall’aggressività, vengono definite “nobili”: per quanto sul rettangolo di gioco, come sul ring, volino colpi pesanti, la correttezza, la lealtà e la sportività rimangono valori imprescindibili. A differenza di quanto accade in molti altri sport, magari anche per natura meno di “contrasto”. Ecco dunque che il progetto “Rugby oltre le sbarre”, un’iniziativa che interessa tre istituti penali milanesi, quello Minorile Beccaria di Milano, la Casa di Reclusione di Milano e la Casa Circondariale di Milano San Vittore, assume un significato chiaro. Sotto l’esperto occhio del Rugby Milano, i detenuti mettono alla prova la gestione dell’aggressività e della rabbia su un sistema di regole tecniche, ma soprattutto etiche. Condivisione, appartenenza e sostegno sono le parole chiave dell’iniziativa che si integrano con due dei pilastri di SpecialMente, il programma di responsabilità sociale d’impresa del Gruppo Bmw in Italia, cioè l’inclusione sociale e l’intercultura. L’obiettivo è quello di creare all’interno delle carceri una cultura dell’accoglienza e del sostegno, supportando - con il gioco di squadra del rugby - sia la fase di detenzione, sia quella del reinserimento in società. In particolare Freedom Rugby, all’interno dell’Istituto di pena Minorile Beccaria di Milano, è stato il progetto apripista di “Rugby oltre le sbarre” che ha coinvolto i ragazzi dai 15 ai 22 anni in attività come giornate dello sport, camp multisport settimanali all’interno del penitenziario, la produzione di un documentario, visite al Centro Sportivo Curioni durante le partite della Prima Squadra e partite in esterna presso lo stesso centro. Con il Rugby Bol al Carcere di Bollate sono invece stati coinvolti centinaia di detenuti dai 18 ai 50 anni. Il nome della squadra - Barbari di Bollate - è stato scelto dai detenuti stessi, per mettere in risalto due concetti apparentemente antitetici come la diversità e l’inclusione. Il gruppo, infatti, è eterogeneo sotto diversi punti di vista: anagrafico, di provenienza, culturale e penale. Le attività comportano un pieno contatto fisico durante allenamenti e partite, una vera rarità all’interno del carcere. Si chiama invece Ronin la squadra del Carcere di San Vittore che fa capo al reparto La Nave, una sezione dedicata alla cura di detenuti-pazienti che presentano dipendenze da sostanze stupefacenti e alcoliche. I detenuti che manifestano sufficienti motivazioni hanno la possibilità di intraprendere un percorso guidato di cura e responsabilizzazione, fin dall’inizio della custodia. Perché nella vita, come nello sport, non è mai troppo tardi per recuperare. Firenze. Debutta “One Man Jail”: teatro e tecnologia come ponte tra carcere e città provincia.fi.it, 5 gennaio 2022 Prima assoluta sabato 8 e domenica 9 gennaio 2022 ore 21.00 al Teatro Cantiere Florida, Firenze. Lo spettacolo, primo in Italia a utilizzare le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, materializzerà in scena in tempo reale i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze, raccontando una storia tra ossessioni e voglia di libertà La produzione, firmata dalla compagnia Interazioni Elementari, si inserisce nel progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di formazione nei mestieri dello spettacolo che punta alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale attraverso il teatro e la performance Intrecciare teatro e tecnologia, per ribaltare regole e percezioni portando il carcere fuori dal carcere. È in arrivo a Firenze “One Man Jail: le prigioni della mente”, l’unico spettacolo in Italia che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, in scena in prima assoluta sabato 8 e domenica 9 gennaio 2022, ore 21.00, al Teatro Cantiere Florida. Proposto e prodotto da Compagnia Interazioni Elementari, diretta da Claudio Suzzi, “One Man Jail: le prigioni della mente” grazie alla diretta streaming, materializzerà sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci, per raccontare una storia di ossessioni e libertà, mentre il pubblico si trasformerà per due ore in un gruppo di prigionieri, o forse si accorgerà di esserlo sempre stato, in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori (www.interazionielementari.com). La storia è quella di Frank Petroletti - interpretato dall’attore Filippo Frittelli- comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. All’interno della prigione, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara a esibirsi nella sua ultima performance. Lo show, caustico e strampalato, lo porterà ad affrontare le proprie paure e i pensieri che lo tengono realmente prigioniero, a liberarsi dai personaggi che affollano la sua mente, per raggiungere un “altrove” forse meno rassicurante di quello che gli si vorrebbe far credere. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che vuole andare a colmare due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future per i giovani detenuti, già a partire dal periodo di permanenza in carcere. L’obiettivo principale non è solo coinvolgere i giovani detenuti del Meucci, ma anche e soprattutto sensibilizzare la comunità fuori. “Lavoriamo perché i ragazzi vengano scritturati come attori - spiega il regista Claudio Suzzi, fondatore di Interazioni Elementari e ideatore di Streaming Theater - remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo circuitare il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si base la produzione. In un processo di incontro tra il carcere e le città, vogliamo coinvolgere un pubblico più ampio puntando, grazie al teatro, ad un maggiore sviluppo della cittadinanza attiva e alla partecipazione delle comunità locali, in modo da creare una maggiore inclusione sociale”. Un percorso che vorrebbe continuare anche dopo il ritorno in libertà dei suoi protagonisti: “Il coronamento di questo lavoro sarebbe potergli dare un seguito anche fuori dal carcere, ma al momento è impossibile per mancanza di uno spazio dedicato, una sede a Firenze, senza la quale la Compagnia Interazioni Elementari non potrà continuare a lungo il suo lavoro. Abbiamo bisogno di un luogo dove far mettere radici al progetto e alla Compagnia, e per questo confidiamo nella sensibilità, nell’ascolto e nel sostegno delle autorità locali toscane e fiorentine”. “Attraverso l’uso dello streaming - continua Suzzi - con lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” proviamo a capovolgere tre punti di vista. Il primo riguarda le modalità di fruizione del teatro in carcere. Di solito viene chiesto allo spettatore di entrare nell’istituto penitenziario, con tutte le limitazioni del caso. Con il collegamento live rendiamo la possibilità di incontro tra città e carcere molto più semplice e replicabile. Il secondo è quello che trasforma un’attività educativa, il teatro appunto, in una possibilità di lavoro vera e propria. Altro ribaltamento è quello relativo alla trama dello spettacolo: il teatro diventa un carcere, il pubblico si trasforma in un gruppo di detenuti, mentre la prigione, da cui realmente trasmettiamo, simboleggia la mente del protagonista”. La compagnia teatrale Interazioni Elementari, nata nel 2014 a Parigi come gruppo informale e costituitasi poi nel 2017 a Firenze come Associazione di Promozione Sociale, porta avanti attività di formazione, produzione e organizzazione di eventi sul territorio nazionale ed europeo. I componenti, artisti e operatori di diverse generazioni e provenienze, sono uniti da una visione comune delle arti teatrali e performative che punta sul rapporto tra ricerca artistica e società. Dal 2017 organizza laboratori di teatro per i detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze e dal 2018, sia dentro che fuori dal carcere, organizza il Festival Spiragli - Teatri dietro le quinte, nel quadro del programma dell’Estate Fiorentina del Comune di Firenze e finanziato dal Bando Cultura della Città Metropolitana di Firenze. Il progetto è finanziato dal bando “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento delle politiche giovanili e del Servizio civile universale e dalla Regione Toscana, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e da Publiacqua S.p.A. In partenariato con Associazione Volontariato Penitenziario Onlus, Associazione Altro Diritto Onlus, Associazione di Promozione Sociale Progress. In collaborazione con Istituto Penale Minorile “G.Meucci” di Firenze, Assessorato all’Educazione, Università e Ricerca, Formazione Professionale, Diritti e Pari Opportunità del Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Firenze, Garante dei detenuti della Regione Toscana, Garante dei detenuti del Comune di Firenze, Associazione Antigone Onlus, Cinema Teatro di Castello e Teatro delle Arti Lastra a Signa. Per informazioni: www.interazionielementari.com. Facebook, YouTube e Instagram @interazionielementari. Libri. “Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro” di Stefania Saltalamacchia Vanity Fair, 5 gennaio 2022 È stato bullo, teppista, rapinatore: Daniel Zaccaro non si sarebbe fermato “perché il male affascina”. Ha sbagliato e pagato, poi ha trovato aiuto. Ora, da educatore, ecco che cosa dice ai ragazzi come lui. Daniel Zaccaro, 28 anni, ex bullo e bullizzato poi giovane criminale, è stato in carcere dove ha incontrato varie persone che lo hanno aiutato a cambiare vita. Primavera 2001, Milano, zona Niguarda. Daniel ha 10 anni, gioca nei pulcini dell’Inter ed è la partita più importante. La porta davanti a lui è vuota, tira, ma finisce fuori. Come fuori finirà anche lui. “Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, ma per il padre è l’ennesima occasione per dirgli “non vali niente, non combinerai mai nulla”. Daniel Zaccaro, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, periferia nordovest, oggi ha 28 anni. È stato bullo, teppista e persino rapinatore. Ha sbagliato e ha pagato, è finito in carcere. Prima al Beccaria. Dopo a San Vittore. In mezzo, i trasferimenti per cattiva condotta nelle carceri di Catania, Bari e Bologna e i tentativi nelle comunità di Varese e Arezzo. Poi l’incontro con le persone giuste, e la volontà, lentamente, di cambiare. Il diploma, l’università. All’inizio del 2020 è diventato dottore in Scienze dell’Educazione. Alla sua laurea c’erano tutti: la pm del Tribunale per i minori che l’ha fatto condannare; Fiorella, l’insegnante in pensione che in carcere l’ha fatto studiare; don Claudio, cappellano del Beccaria e fondatore della comunità Kayròs, che l’ha rimesso in piedi. “Non mi sono mai sentito né carnefice, né vittima. Ho solo cercato in ogni modo di emergere come il più forte”, spiega, dosando bene le parole. La sua è una storia di caduta e rinascita, di seconde opportunità e di capacità di coglierle. La racconta Andrea Franzoso in “Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro”, in libreria dall’11 gennaio per De Agostini. Anche il loro incontro è una storia. “Noi siamo opposti”, spiega Franzoso, mentre Daniel sorride, “io sono un ex bullizzato. A scuola ero un secchione, Daniel mi avrebbe massacrato. E quando lui faceva le rapine, io ero ufficiale dei carabinieri, avrei potuto arrestarlo io”. Invece chi l’ha arrestata? “Sono venuti a casa, a cercarmi. Ma l’avevo messo in conto, era parte del piano per diventare popolare. Mi dicevo “Così si affermerà ancora di più il mio nome in quartiere”. Il quartiere è Quarto Oggiaro. Com’è stato crescere lì? “Ruotava tutto intorno al palazzo popolare di via Lopez, numero 8. I primi ricordi sono legati al calcio. Tornavo da scuola, mi cambiavo e giocavo a pallone”. Conserva ancora il kit dell’Inter? “Oggi tifo Juve, ma allora ero interista. La divisa era il mio orgoglio. Su di me c’era una grandissima aspettativa. Quando uno di Quarto Oggiaro va a giocare all’Inter diventa un po’ il sogno di tutti. Ho sentito addosso troppa pressione. Ogni volta che toccavo il pallone ci si aspettava la giocata perfetta, se sbagliavo erano solo insulti. Ero contento quando mio padre non veniva alle partite”. Che rapporto ha oggi con i suoi genitori? “Dopo il carcere e la comunità sono tornato a vivere con mia madre. Con mio padre non parlo da anni. Hanno divorziato quando avevo 8 anni. Mio padre a volte diventava violento, non ha avuto una vita facile nemmeno lui. Gli è rimasta una ferita aperta, ferita che a lungo ho avuto anch’io”. Che ricordo ha del primo furto? “A 12 anni rubavo i tappini degli pneumatici delle auto. Sentivo l’adrenalina. Ma credo che quella fosse una ragazzata, non una cosa da criminali”. Cos’è da criminale? “Quello che è venuto dopo. Rubare le biciclette, i motorini, i portafogli ai ragazzi della Milano bene. In quelle azioni trovavo piacere, mi sentivo appagato. Intanto a scuola erano iniziati i casini. Io che ero sempre andato bene accumulavo sospensioni, picchiavo i compagni”. Cosa si prova a essere un bullo? “Ti senti sicuro di te stesso, ma è tutto basato sulla paura. Non guadagni rispetto, è timore. Il bullo, in realtà, è un bullizzato. Mio padre prima esercitava il controllo su di me, e io poi lo esercitavo sugli altri”. Qual è il momento in cui ha sentito che non poteva più tornare indietro? “Ho rubato il cellulare a un ragazzo e si è messo a piangere, mi ha impietosito. Non potevo restituirglielo, ma mi sono tenuto solo la batteria. Poi c’erano le risse. Un giorno ho marinato la scuola per andare a rapinare una banca. Avevo 17 anni”. Cosa ricorda di quel giorno? “Io e il mio migliore amico ci siamo promessi di lasciare il cuore a casa. Siamo stati dentro 3 minuti, ne siamo usciti con più di 10 mila euro. Nei quattro mesi successivi, abbiamo organizzato altre due rapine. Ero pieno di soldi, di donne, di adrenalina. Volevo le cose più belle: giubbotti, scarpe, regali per le fidanzate. Ci siamo comprati anche una macchina che guidavamo senza patente”. Non si sentiva in colpa? “Un po’, ma faceva parte del gioco. Comportarmi così mi portava a essere glorificato dagli altri. Il bene ti spinge a fare ancora più bene, il male è peggio: affascina. Quando ho iniziato a fare le rapine il mio sogno era prendere un portavalori, e sono certo che se l’avessi fatto non mi sarei fermato. Potevo uccidere, potevo essere un Vallanzasca”. Chi è stato il primo a darle una seconda possibilità? “In carcere ho toccato la profondità del dolore. Quando sei così giù, provi a pensare di cambiare e allora ti si presenta davanti qualcuno che può aiutarti. Il primo è stato un brigadiere. Poi don Claudio. Infine a San Vittore, nel momento più buio, mi è apparsa Fiorella. Il suo sapere mi ha cambiato. Ho iniziato a divorare romanzi, saggi, tutta la letteratura italiana. Dante, Leopardi, Verga, le maschere di Pirandello. Mi sono detto: da qui, posso ripartire. Dopo San Vittore, don Claudio mi ha riaccolto nella sua comunità. All’inizio pensavo fosse fortuna, ma c’è un filosofo che dice “non esiste la fortuna, esiste il talento che incontra l’opportunità”“. Oggi, da educatore, cosa insegna? “Che nessuno può salvare nessuno, devi farlo tu. Bisogna stare con gli adolescenti, dargli fiducia. E soprattutto essere coerenti”. Non ha paura di poter ricadere? “Sì, ma non nel senso di compiere un reato. La psicologa del carcere mi ha scritto una lettera: “Ricordati che sei umano, non perfetto”. Cinema. “Un eroe” di Asghar Farhadi, le verità nascoste sotto il velo nero dell’ipocrisia di Natalia Aspesi La Repubblica, 5 gennaio 2022 Visto da Natalia Due volte premio Oscar, il regista torna nel suo Iran per raccontare una storia di espedienti, bugie e omissioni. Il film è in corsa per entrare tra i candidati alla statuetta per il miglior film straniero. Un uomo in galera per debiti ha un permesso di due giorni per convincere il creditore a ritirare l’accusa dandogli una parte della somma che gli deve: la fidanzata ha trovato per strada una borsa che contiene monete d’oro e insieme sperano di ricavarne abbastanza per estinguere il debito. Non è così, e allora se la disonestà non aiuta, si può provare con l’onestà, cercando la persona cui restituire il denaro e inventandosi così una visibilità nel ruolo di Debitore Povero ma Giusto. Però nulla è così semplice e facile, e da quel momento troppi saranno gli espedienti, le bugie, le omissioni, le storie mal congeniate perché il finto probo non sia smascherato. Un eroe è il titolo di questo nuovo film di Asghar Farhadi, un eroe della sopravvivenza quindi vero, un eroe mediatico e quindi falso, un eroe che si finge tale e si autodistrugge, un eroe che viene distrutto mentre si lascia creare. Del gesto che anche in Italia meriterebbe il plauso dei social, si impossessano tutti quelli che possono ricavarne benemerenze, la prigione per vantarsi della propria funzione di ricupero sociale, subito che un carcerato si è suicidato, la televisione che lo intervista e ne fa un personaggio del buonismo imperante (anche lì!), la benefattrice che raccoglierà denaro per aiutare una così brava persona redenta. Intanto la proprietaria della borsa si è fatta viva, ha ringraziato ed è scomparsa, il creditore non crede al ravvedimento, il suo rancore non si placa perché quel denaro era la dote di sua figlia e perché la moglie che il debitore ha abbandonato era sua sorella. E poi l’onestà non è un merito ma un dovere, di che eroismo parliamo? Farhadi è tornato a girare nel suo paese, l’Iran, dopo la parentesi in Spagna (Tutti lo sanno, 2018), e ha ritrovato la patria del suo talento, quella che gli ha fatto già vincere con Una separazione (2011) e poi con Il cliente (2016) l’Oscar per il miglior film straniero; Un eroe ha vinto a Cannes il Gran Premio Speciale della Giuria ed è il candidato dell’Iran per entrare nella rosa delle nomination all’Oscar 2022. Nell’umanità dei suoi personaggi noi ci specchiamo, nelle loro vicende quotidiane ci ritroviamo, non li sentiamo stranieri, e non importa se in Iran si vive sotto la cappa di una dittatura religiosa: perché la gente dei suoi film, pur rispettando le ferree leggi islamiche, e pur rispettandole lui stesso nel girarli, ha introiettato quella fantasiosa ipocrisia e duplicità che in privato e non solo lascia ampi spazi di libertà personale. Rahim (Amir Jadidi) esce dal carcere e si ritrova nelle polverose e fracassone strade di Shiraz, per poi raggiungere un luogo delle meraviglie cioè una immensa piazza su cui si erge un gigantesca roccia, un grattacielo di pietra rosa superbamente scolpito e in via di restauro, tomba dei re di Persia degli Achemenidi: e forse così il regista vuole ricordare a noi occidentali quale luogo di potere e cultura e arte (e vino, si dice che a Shiraz, che vuole dire vitigno, l’uva per la prima volta divenne vino) l’Iran è da migliaia di anni. Lì incontra il cognato, marito di sua sorella, che dovrebbe rimetterlo in contatto con l’irascibile creditore e poi finalmente raggiunge la sua nuova donna, che gli corre incontro felice, avvolgendosi nel fluttuante chador nero: “Come mai l’hai messo?”, le chiede lui, “Per poter nasconderci da qualche parte” gli risponde lei invitante. Rahim è un uomo bello, con quello sguardo fragile e umile di chi prima o poi ti fregherà, Farkhondeh (Sahar Goldust) è una donna di imperioso fascino che come tutte le donne del mondo, anche se musulmana, ha in mano la situazione e l’avrà soprattutto alla fine. La sorella di Rahim gli ospita l’amatissimo figlio decenne affetto da balbuzie (in cura da una logopedista), un bambino triste che non alza lo sguardo dal suo tablet, che poi porta sempre con sé il diploma di bontà con cui è stato premiato il padre, e c’è chi vorrebbe usarlo per commuovere i più incerti assetati di buone azioni. Farhadi ci mostra interni dove le donne portano molto allentata una sciarpa colorata attorno alla testa, nei luoghi pubblici le ragazze sono vistosamente truccate e coi capelli che escono civettuoli dalla sciarpa, non un poliziotto, non un religioso. Non un accenno politico non un gesto di fede. Uomini e donne, anche la coppia innamorata, non sono mai vicini, non si sfiorano mai. Che in Iran ci sia tuttora la pena di morte per impiccagione lo sappiamo, ma non che il denaro possa cancellare la sentenza, e ce lo ricorda la benefattrice che devolve la somma destinata a Rahim per salvare il condannato. I pericoli da evitare di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 gennaio 2022 Tra poche settimane saranno due anni dall’inizio della pandemia e l’Italia sarà sempre più vicina alla soglia choc dei 140 mila morti. Da quel febbraio del 2020 il virus è molto cambiato e siamo cambiati anche noi. I cittadini, stremati, chiedono decisioni nette e risposte chiare, capaci di spazzare via il coro di voci dissonanti e le interferenze della politica sul fronte della campagna vaccinale, delle misure di contenimento e delle cure. La corsa della variante Omicron, che sovrappone la sua velocità di contagio alla maggiore aggressività della Delta, impone ai governi lucidità decisionale e rapidità delle scelte. Virtù che il presidente del Consiglio Mario Draghi e la sua maggioranza di unità nazionale hanno mostrato, salvo qualche inciampo, in questi primi undici mesi, tanto che il nostro Paese ha fatto scuola in Europa sulla strategia di contrasto al Sars Cov 2. L’elezione del presidente della Repubblica si avvicina, i partiti sono sempre più inquieti e il fermento dei gruppi parlamentari rischia di ripercuotersi su scelte decisive, che hanno un impatto forte sulla vita delle persone: la salute, la scuola, il lavoro. Oggi Draghi prova a chiudere un nuovo decreto. L’auspicio è che dal Consiglio dei ministri esca una decisione forte e univoca, che spazzi via giorni di ipotesi e smentite, di accelerazioni e frenate. E cancelli la sgradevole impressione che i giochi di partito mirino ad alimentare un pericoloso sovrapporsi tra la partita del Quirinale e la partita di contrasto del Covid. Il 30 dicembre il premier era pronto a dare il via libera all’estensione del green pass rafforzato per l’intero mondo del lavoro, pubblico e privato, ma l’asse estemporaneo tra Lega e Movimento ha costretto il premier a rinviare tutto a oggi. In una settimana l’onda drammatica dei contagi e dei morti ha continuato a gonfiarsi e nonostante i dati epidemiologici, la politica ha continuato a fare e disfare, col risultato che oggi potrebbe uscire il super green pass per 23 milioni di lavoratori, oppure solo per la Pubblica amministrazione, o in alternativa per alcune categorie, forse per gli over 60. E intanto le dosi di vaccino in alcune regioni scarseggiano, le file per le iniezioni si allungano e ci sono hub dove intere famiglie con bambini sono costrette ad aspettare al freddo anche per ore. Il Paese virtuoso, che vantava meno contagi perché aveva saputo anticipare il virus, ora deve rincorrerlo? Il tracciamento dei positivi è saltato e la possibilità di farlo nelle scuole si è dimostrata quasi irrealizzabile. Milioni di bambini e ragazzi non sanno se torneranno in classe il 10 gennaio o persino a febbraio, come chiedono alcuni governatori. La maggior parte dei presidenti di Regione ha mostrato grande capacità di gestione dell’emergenza e volontà di collaborazione con il governo, talvolta anche discostandosi dalla linea del proprio partito, la Lega prima di tutto. È un circuito virtuoso che deve essere coltivato. La pandemia torna a fare paura in tutto il mondo. Il rischio altissimo per l’Italia è che gli ospedali vadano in affanno, che si superi il livello critico delle terapie intensive. È il pericolo che il governo deve evitare. Così come bisogna scongiurare l’eventualità di dover chiudere alcune attività e settori produttivi. Gli studi dicono che la variante Omicron è meno aggressiva, ma molto più contagiosa della Delta. In ogni famiglia c’è almeno una persona contagiata, alcuni hanno sintomi non lievi. E intanto circola ancora la Delta. Non si tratta di drammatizzare, ma di fotografare la realtà. Una realtà che fa i conti con chi ancora non si è vaccinato, soprattutto con chi ha deciso che non lo farà mai. L’obbligo vaccinale poteva essere la strada più facile da percorrere, il governo avrebbe avuto l’appoggio di Confindustria e sindacati. Il presidente Draghi ha invece deciso una strada meno drastica, forse proprio per non prestare il fianco a chi ancora parla di “dittatura sanitaria”. Per tutelare chi invece ha accettato i suggerimenti degli esperti e ha voluto seguire la scienza è arrivato però il momento di decisioni semplici e chiare. Vanno trovate misure il più possibile eque e unanimi, che tengano insieme l’intera maggioranza, scongiurino (se possibile) strappi e divisioni, mettano fine alla confusione e agli scontri politici sulla pelle delle persone. Con 170 mila nuovi positivi e 259 morti il tempo dei rinvii è scaduto. Senza istruzione nessuna eredità per i giovani di Elsa Fornero La Stampa, 5 gennaio 2022 Nella frenesia comunicativa che caratterizza il percorso verso l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, è ben possibile che la nostra classe politica abbia trascurato il richiamo del Papa - nel discorso pronunciato a Capodanno, in occasione della Giornata Mondiale della Pace - ai tre elementi necessari, a suo avviso, per una pace duratura: un più intenso e costruttivo dialogo tra le generazioni “quale base per la realizzazione di progetti condivisi”; l’istruzione e l’educazione come “fattori di libertà, responsabilità e sviluppo”; il lavoro come motore per “una piena realizzazione della dignità umana”. Colpisce il legame instaurato tra questi elementi, spesso genericamente associati allo sviluppo sostenibile, e la “pace duratura”. È verosimile che, nella visione del Pontefice, lo sviluppo sostenibile, pur importante, sia soltanto un obiettivo intermedio rispetto a quello, più alto e nobile, del superamento dei conflitti (e magari dei confini) e di una stabile convivenza pacifica. In ogni caso, già (cercare di) realizzare l’obiettivo intermedio richiede grande lungimiranza politica e prevalenza del senso dello stato sulla stretta convenienza dei partiti, e perciò disponibilità a rinunciare a obiettivi elettoralmente vantaggiosi nel breve periodo ma potenzialmente dannosi nel lungo. E richiede la ferma volontà di promuovere istruzione ed educazione, lavoro e cura, ricerca e innovazione come basi su cui costruire una società in grado di generare non soltanto ricchezza materiale ma anche progresso civile, giustizia, coesione e solidarietà. In ogni caso, se la mirabile sintesi offerta dal Pontefice descrive la strada da percorrere, il nostro Paese pare averla smarrita da tempo, e non certo (non soltanto) per colpa del Covid o della crisi finanziaria che l’ha preceduto. Si prendano i rapporti tra le generazioni. A testimoniarne il deterioramento è anzitutto la perdita di equilibrio demografico, rappresentato da una modesta crescita o almeno da stabilità della popolazione. L’Italia, invece, sta seguendo un andamento demografico quasi di auto-annientamento. Basta pensare che nei prossimi vent’anni il numero degli italiani diminuirà di oltre tre milioni (di 4,5 nei prossimi 40) e le uniche classi di età che mostreranno un aumento saranno quelle sopra gli ottant’anni. È difficile immaginare una visione positiva di società e di futuro in queste condizioni. Il secondo elemento negativo nei rapporti tra le generazioni - di cui oggi si comincia a prendere coscienza almeno a livello europeo - è quello ambientale, con il riscaldamento globale, l’insufficienza di fonti di energia pulite, la deforestazione ecc. La consapevolezza della criticità della questione climatica è cresciuta proprio grazie ai giovani (Greta per tutti), che hanno saputo mostrare e suscitare entusiasmo, passione, voglia di impegnarsi e anche disponibilità a sacrificare comodità nel presente: non esiste transizione ecologica senza sacrifici e questo i giovani, meno scettici e cinici, l’hanno compreso ben prima dei loro maggiori. C’è poi il problema del debito pubblico e della sua sostenibilità, oggi sottotraccia per la necessità di spesa pubblica a sostegno di famiglie e imprese in epoca di pandemia e di restrizioni alle attività. Il debito pubblico è come un vulcano temporaneamente inattivo, sotto le cui ceneri il fuoco continua a surriscaldare il magma. Nessuno sa prevedere se e quando il vulcano tornerà attivo, ma prudenza e buon senso richiederebbero almeno di non alimentarlo, fuor di metafora, con nuovo debito per spese correnti (molti politici hanno già richiesto, in questi primissimi giorni dell’anno, di aumentare il disavanzo pubblico). Senza contare quella particolare forma di debito pubblico rappresentato da promesse pensionistiche fatte senza tener conto delle variabili demografiche, né delle difficoltà occupazionali e reddituali di una parte crescente dei lavoratori di oggi e di domani. Di fronte a questi squilibri generazionali, una parte della popolazione - quella che ne ha avuto le possibilità - ha reagito accantonando ricchezza da trasmettere per via ereditaria, in una sorta di compensazione di un debito pubblico crescente con una maggiore ricchezza privata. Un gioco a somma positiva o almeno nulla? No, si tratta di un gioco a somma negativa, essenzialmente per due ragioni. La prima è che questo processo rende più diseguale la distribuzione dei redditi e soprattutto della ricchezza, il che richiede correzioni affannose da parte della politica con misure di redistribuzione, che però non favoriscono lo sviluppo. Mentre in Francia, una commissione di nomina governativa ha appena pubblicato un rapporto intitolato “Ripensare le eredità”, con proposte fiscali tendenti a rendere meno diseguali i punti di partenza, in Italia, il Parlamento si è appena opposto a “neutralizzare” i vantaggi derivanti ai ricchi dalla rimodulazione dell’imposizione fiscale. La seconda è che l’ossessione di accumulare attività finanziarie e beni materiali (in particolare, case di abitazione) finisce col sacrificare la vera ricchezza da trasmettere ai giovani, ossia l’istruzione, che, in un’economia ben funzionante, dovrebbe rappresentare il presupposto per un lavoro dignitoso e la formazione di una famiglia. Spezzare questo circolo vizioso è possibile sin da subito. Il Covid stesso ne offre l’occasione: basta, per esempio, smettere di reagire a ogni inasprimento del virus con una nuova chiusura delle scuole o un prolungamento delle vacanze. Ma avremo presto un’occasione importante anche dall’apertura delle trattative sulla nuova riforma previdenziale, dove si vedrà se ancora una volta, in nome di solidarietà spurie, si continuerà a penalizzare i giovani. Migranti. Donne, bimbi, vittime di violenze: l’Europa razzista ne ha respinti 12 mila di Giulio Cavalli Il Riformista, 5 gennaio 2022 La realtà la fotografano perfettamente i numeri. Tra gennaio e novembre 2021 sono stati documentati quasi 12mila respingimenti da parte di polizia di frontiera, forze dell’ordine o altre autorità degli Stati membri dell’Ue. Si tratta di uomini, donne e bambini che spesso hanno subito violenza fisica e sessuale, molestie, estorsioni, distruzione di proprietà, furto, separazione forzata di famiglie e alla fine la negazione del diritto di chiedere asilo. C’è tutto nel rapporto “Human dignity lost at EU’s borders”, curato da Protecting Rights at Borders (Prab), un’iniziativa che riunisce 6 organizzazioni della società civile in 6 paesi lungo la rotta balcanica e 3 diversi uffici del Danish Refugee Council. Tra le pagine si legge di “respingimenti illegali, ma apparentemente tollerati e continui” che sono “una perdita dei valori fondamentali europei della dignità umana e del rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Il rapporto mostra che finora i più alti tassi di respingimenti sono stati registrati al confine tra Croazia e Bosnia-Erzegovina. In generale, i cittadini afgani sono la popolazione che denuncia maggiormente i respingimenti (sempre a proposito dell’aiuto all’Afghanistan che tutto il mondo aveva finto di promettere): il 32% dei respingimenti riguarda persone provenienti dall’Afghanistan, il 60% di loro si sono visti negare il diritto di chiedere asilo. Nel 10% degli episodi di respingimento sono stati coinvolti dei bambini. “Stiamo parlando di persone in una posizione estremamente vulnerabile. Rubare o distruggere i loro pochissimi oggetti di valore, non ultimi i loro telefoni che per molti sono un’ancora di salvezza essenziale, è una vergogna assoluta. Il fatto che questa appaia una pratica diffusa e persino normale è estremamente preoccupante e richiede indagini per garantire che i colpevoli siano assicurati alla giustizia”, ha dichiarato alla presentazione del rapporto Charlotte Slente, Segretario Generale del Consiglio danese per i rifugiati, aggiungendo: “che avvengano al confine dell’UE con la Bielorussia, in Croazia o nel Mediterraneo, i respingimenti sono illegali. I funzionari delle forze dell’ordine hanno il diritto di proteggere i confini degli Stati, tuttavia, i diritti umani devono essere rispettati. Le violazioni dei diritti alle frontiere dell’Ue sono una macchia nera sulla reputazione dell’Ue come sostenitrice della dignità umana e del rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Con l’arrivo dell’inverno inevitabilmente la situazione è peggiorata: al confine tra Ungheria e Serbia i migranti “vivono senza accesso ai servizi di base e senza assistenza sanitaria”, al confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia le persone “rimangono principalmente in edifici abbandonati, in rovina o in accampamenti di fortuna, senza acqua, elettricità o mezzi per farli per procurarsi un riparo resistente alle intemperie”. Ma nel report si racconta anche di condizioni disumane nei confini interni dell’Ue come a Ventimiglia (dove mancano “cibo, acqua e servizi sanitari, strutture umanitarie” e le donne sono spesso vittima di violenze) o a Oulx dove i migranti sono rimasti bloccati per giorni nei pressi di un rifugio. “Con l’inverno alle porte - si legge nel rapporto - temperature che scendono sotto lo zero e neve, i bisogni delle persone aumenteranno mentre l’accesso all’assistenza umanitaria è spesso ostruito. L’accesso umanitario non dovrebbe essere politicizzato né compromesso. Assistenza salvavita e aiuti umanitari dovrebbero essere messi a disposizione di tutti coloro che sono bloccati alle frontiere dell’Ue, indipendentemente da giochi di potere politico che potrebbero essere in corso. La limitazione dell’accesso ai servizi di base provocherà problemi di protezione e le persone non avranno altra scelta che rivolgersi ai contrabbandieri e a percorsi più pericolosi”. Sulle violazioni sistematiche dei diritti umani dei migranti tunisini c’è anche l’importante racconto del documentario La via del ritorno firmato da Giovanni Culmone, Youssef Hassan Holgado e Matteo Garavoglia, finalista del Premio Morrione 2021: racconta di giovani disillusi dal proprio Paese che vengono respinti per il semplice fatto di provenire dalla Tunisia. “Merito” degli accordi che Italia e Tunisia hanno firmato nell’agosto del 2020 che hanno accelerato la procedura di rimpatrio e incrementato le intercettazioni nelle acque tunisine. Da allora circa 1700 persone sono state rimpatriate senza poter nemmeno presentare domanda d’asilo, in violazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati che prevede una valutazione della storia individuale per stabilire se la persona che presenta richiesta di asilo rischia una forma di persecuzione nel paese di origine. La stessa Convenzione vieta di discriminare “in base alla razza, alla religione o al paese d’origine” ma i trattati evidentemente qui da noi non valgono quando diventano un impiccio al razzismo di Stato. Del resto il 2021 non è stato un buon anno per il Diritto e per i diritti. Migranti. Dall’Afghanistan, ultima fuga a piedi nudi di Roya Heydari* La Stampa, 5 gennaio 2022 Il dramma di una madre al confine con la Turchia: dà i sandali ai figli e indossa buste di plastica, poi muore congelata. Quello che il mondo ha bisogno di capire è che nessuno abbandona la sua casa a meno che non sia necessario. Nessuno mette a rischio la propria vita e quella delle proprie famiglie a meno che non sia necessario. Questo è solo un altro modo per ricordarcelo. Questa donna, Ida, aveva vissuto in Afghanistan abbastanza da avere due figli, probabilmente ha cercato di far funzionare le cose, ma una volta che i taleban sono saliti al potere si è resa conto che sarebbe stato non solo difficile, ma impossibile. Probabilmente la sua vita non era facile nemmeno in passato sotto la Repubblica, ma ora sotto l’Emirato sarebbe stata probabilmente molto più complicata. Guardando le immagini che sono circolate sui social penso, di nuovo e ancora, a quanto la nostra gente continui a soffrire, fino al punto da essere costretta a lasciare il proprio paese. Una volta anche io sono dovuta fuggire, ero bambina, siamo dovuti riparare in Iran con la mia famiglia, ma poi ho avuto fortuna, sono potuta tornare in Afghanistan, dove facevo una vita buona, potevo viaggiare e studiare. Sono certa di aver avuto più vantaggi di questa donna e dei suoi figli, ma comunque, anche io alla fine me ne sono dovuta andare. Questa è la tragedia della vita afghana, sono passate così tante generazioni e la nostra gente è ancora costretta a fuggire. Alcuni, come me, sono stati in grado di costruire vite e provare a fare qualcosa di positivo o buono, mentre altri, come questa donna ei suoi figli, probabilmente hanno avuto pochissime opzioni o vantaggi, anche durante la Repubblica. Ma la cosa che ci unisce è il fatto che siamo stati costretti a lasciare il nostro paese. La gente mi chiede come mi sento a vedere cose del genere, e la risposta è sempre la stessa: è triste che questo sia il nostro destino nel mondo ormai da decenni. I nostri genitori hanno dovuto affrontare questo, noi abbiamo dovuto affrontare questo e ora i bambini più piccoli di noi devono affrontare questo. Quel che è peggio è che questa donna e altre come lei vengono ripetutamente chiamate “migranti”, non “rifugiate”. Chiamare i disperati in fuga da un sistema brutale come quello talebano e dalla povertà causata dalle sanzioni internazionali non è altro che cercare rifugio dalla violenza e dai traumi. Ma quando il mondo usa la parola “migrante” sembra che siano solo persone frustrate che si spostano da un luogo all’altro in cerca di opportunità. Ma non lo sono, stanno semplicemente cercando una possibilità nella vita. Sono stata fortunata, sono salita su un aereo e sono arrivata in Francia. Queste persone non hanno avuto la fortuna di collegamenti con ambasciate straniere o migliaia di follower online, hanno dovuto essere contrabbandate da un luogo all’altro, da un paese all’altro, tutto per poter provare a vivere una vita lontana dalla violenza e dalla povertà. È una realtà scandalosa, eppure quotidiana, che colpisce non un gruppo isolato di persone, ma un intero popolo. Mentre guardate queste immagini, vi prego, non sentitevi dispiaciuti, sentitevi pronti all’azione. La tristezza aiuta meno della rabbia e della volontà politica di intervenire. Per fare in modo che altre donne non finiscano così. E che i loro figli non si perdano nello smarrimento e nell’assenza di una casa a cui fare ritorno. La nostra gente ha bisogno di aiuto, i paesi che sono stati coinvolti nella guerra in Afghanistan non possono sentirsi chiamati fuori. *Blogger e fotoreporter afghana, oggi rifugiata a Parigi Un premio per lo sport che si schiera dalla parte dei diritti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 gennaio 2022 Il legame tra sport e diritti umani è ormai affermato da tempo: i mezzi d’informazione segnalano con sempre maggiore frequenza avvenimenti, gesti, episodi, prese di posizione di segno contrario o favorevole. Per dare valore a questi ultimi, prende il via oggi la quarta edizione del premio “Sport e diritti umani”, indetto da Amnesty International Italia e Sport4Society per riconoscere gesti simbolici o concreti per i diritti umani nell’ambiente sportivo. Fino al 25 febbraio sarà possibile segnalare all’indirizzo info@sportedirittiumani.it un/un’atleta, una squadra o un gruppo sportivo che in Italia, nel corso del 2021, si siano resi protagonisti di un gesto pubblico, di una presa di posizione, di un’azione coerente coi valori positivi dello sport, contribuendo dunque alla promozione della cultura dei diritti umani nel paese. Le candidature saranno selezionate da Amnesty International Italia e Sport4Society e proposte, per la scelta finale, alla giuria del premio presieduta da Riccardo Cucchi, scrittore e storica voce di “Tutto il calcio minuto per minuto”. I premi delle precedenti edizioni, per atti di solidarietà e per l’impegno a contrastare il discorso d’odio e la discriminazione, sono stati conferiti nel 2019 a Pietro Aradori, giocatore di pallacanestro di fama internazionale, nel 2020 al Pescara Calcio e nel 2021 all’ex calciatore Claudio Marchisio, con menzioni alla pallavolista Lara Lugli e a Zebre Rugby Club. Gran Bretagna. Wikileaks, i mille giorni di carcere di Assange di Francesco Semprini La Stampa, 5 gennaio 2022 ? rinchiuso nel penitenziario londinese di Belmarsh in attesa di una decisione sulla sua estradizione negli Stati Uniti. Oggi sono mille giorni che Julian Assange si trova rinchiuso nel carcere londinese di Belmarsh, dove è detenuto in attesa di una decisione sulla sua estradizione negli Stati Uniti. Lo denuncia la campagna per la liberazione del fondatore di Wikileaks, che manifesterà oggi davanti al penitenziario. Fino a quanto rimarrà in prigione, Assange sarà un “prigioniero politico” e la sua “detenzione infinita” finirà per ucciderlo, dice oggi la compagna Stella Moris, sottolineando che il padre dei suoi figli si trova a Belmarsh da più tempo di molti condannati per crimini violenti. Morris ha ricordato il regime di isolamento cui è stato costretto Assange durante i due lockdown per il Covid e l’ictus provocato dallo stress dell’ultima udienza in tribunale lo scorso ottobre. “Il governo americano vuole mettere a processo un editore australiano in una corte di sicurezza degli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni di carcere, in condizioni di tortura e isolamento, semplicemente perché ha svolto il suo lavoro, perché ha ricevuto vere informazioni sulle vittime e i crimini delle operazioni americane a Guantanamo, in Afghanistan e Iraq da Chelsea Manning e le ha pubblicate”, ha denunciato Morris. Assange, 50 anni, è accusato negli Stati Uniti di aver cospirato assieme all’ex analista dell’intelligence militare Manning per divulgare migliaia di documenti riservati sulle operazioni militari americane nel 2010. Egitto. La strategia “occidentale” di al-Sisi: Ramy Shaath sarà liberato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 gennaio 2022 L’attivista egiziano-palestinese, co-fondatore del Bds e volto di Piazza Tahrir, era in carcere in detenzione cautelare da due anni e mezzo. Sarà deportato in Francia, di cui la moglie è cittadina. Opaco il ruolo di Macron. Ma come per Patrick Zaki il timore è di qualche “regalia” egiziana agli alleati in cambio del silenzio sul resto delle violazioni. “Le autorità egiziane ci hanno informato ieri dell’imminente liberazione di Ramy Shaath, di cui continuiamo a seguire la situazione con la più grande attenzione”. Con poche righe, scarne, ieri il ministero degli Esteri francese proseguiva con il profilo basso tenuto in questi due anni sul caso Shaath. Il presidente Macron ne aveva accennato all’ex generale al-Sisi poco più di un anno fa, all’Eliseo, pomposa visita da cui il presidente golpista egiziano se ne andò con al collo la Legion d’Onore e nelle orecchie la dottrina Macron: il business non può essere condizionato dai diritti umani. Possibile che ci siano state pressioni dietro le quinte, di certo non sono state pubblicizzate. Del resto Parigi (che lo scorso maggio ha venduto 30 jet Rafale al regime egiziano per 4,5 miliardi di dollari) ha sempre sorvolato sull’omicidio di un suo cittadino, il 49enne Eric Lang, ammazzato di botte nel 2013 in una stazione di polizia del Cairo, morte per cui tre anni dopo sono stati condannati sei altri detenuti, ma su cui pesa come un macigno il dubbio di un ruolo dei poliziotti presenti (sul corpo furono trovati i segni di torture inflitte con l’elettricità). Insomma, dall’Eliseo non giunge voce. Eppure la prigionia di Ramy Shaath è un caso da manuale della macchina repressiva del regime di al-Sisi: attivista egiziano-palestinese figlio di Nabil Shaath (ex primo ministro palestinese), tra i volti più noti della rivoluzione di piazza Tahrir, co-fondatore del Bds Egypt, la filiale locale della campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni dello Stato di Israele, era stato arrestato nel luglio 2019 con l’accusa di sostegno a un gruppo terroristico. Ne sono seguiti due anni e mezzo di detenzione cautelare, nessuna accusa ufficiale, nessun processo, in violazione della stessa liberticida legge egiziana che prevede un massimo di 24 mesi dietro le sbarre senza portare il detenuto di fronte a un tribunale. In mezzo, nell’aprile 2020, l’inserimento del suo nome in una lista di tredici egiziani accusati di terrorismo (con l’ovvio corollario del congelamento dei beni). Poi, lunedì sera, la svolta: Ramy Shaath è stato rilasciato. In realtà è ancora dentro: le procedure egiziane di scarcerazione sono notoriamente farraginose, spesso l’ultima forma di punizione politica. A ieri sera non era ancora “sull’asfalto”, l’espressione usata dagli egiziani quando un prigioniero torna alla vita. Di certo - o quasi - si sa che sarà deportato in Francia subito dopo il rilascio: la moglie Celine Lebrun è francese ed è nel suo paese che era dovuta tornare su ordine di deportazione delle autorità egiziane dopo l’arresto del marito. Dalla Francia ha lanciato una campagna per la sua liberazione con il sostegno della società civile e delle associazioni per i diritti umani. Della deportazione ha dato notizia l’ex deputato Mohamed Anwar el Sadat (nipote dell’ex presidente Sadat ed ex capo della Commissione diritti umani del parlamento), che negli ultimi tempi ha mediato il rilascio di alcuni prigionieri politici. A ordinare il rilascio di Shaath, dicono fonti giudiziarie all’Afp, è stata la procura. Significherebbe che le accuse contenute nel fascicolo che lo ha tenuto in una cella per due anni e mezzo (e che la sua difesa non ha mai potuto nemmeno sfogliare) sarebbero cadute. O, forse, che il regime di al-Sisi sta optando per la liberazione di quegli egiziani la cui prigionia infastidisce la comunità internazionale. A partire dagli alleati più stretti. L’Italia e la Francia, ad esempio, che possono celebrare il rilascio (seppur a tempo) di Patrick Zaki e quello di Ramy Shaath. In realtà cambia poco: perché 60-100mila prigionieri politici restano in carcere e perché la liberazione di una manciata di detenuti è accompagnata dall’obbligo del silenzio. Nel caso di Patrick con un processo ancora pendente; per Ramy con una deportazione dal paese per cui si batte da decenni. Un silenzio che, secondo l’agenzia Middle East Monitor, calerebbe anche sui tribunali: il ministero della giustizia egiziana avrebbe deciso di introdurre una novità per le udienze dei detenuti in attesa di processo. Da gennaio il giudice potrà, da remoto, ricorrere a tecnologie che convertono dichiarazioni orali in testi scritti. Tagliando fuori quindi gli avvocati che non avrebbero modo di sentire cosa ha da dire la procura, e viceversa. Preoccupazione anche tra le famiglie dei prigionieri: per molti, le udienze sono la sola occasione di vederli. La guerra (mai dichiarata) di Putin nel Mali di Francesco Battistini Corriere della Sera, 5 gennaio 2022 L’emergenza terrorismo è ormai la migliore scusa per muovere i lanzichenecchi anziché le truppe. Ma Mosca non va nel Sahel per combattere Al Qaeda, bensì per accaparrarsi le miniere d’oro. La prima volta che li vedemmo, una mattina d’inverno del 2014, pattugliavano l’aeroporto di Sinferopoli. A volto coperto, bocche cucite, senza mostrine. Erano russi, ma sembravano marziani. Figli di Putin, ma ufficialmente di nessuno. Guai avvicinarli. Rimasero l’espace d’un matin, senza sparare un colpo, quanto bastava per convincere gli ucraini a mollare la Crimea. Poi, com’erano venuti, scomparvero: dal nulla, nel nulla. Ma solo ora che i mercenari della “Chastnaya Voennaya Kompaniya Vagner” sono riapparsi nel deserto del Mali per sostenere la giunta golpista contro i jihadisti - dopo aver salvato in questi otto anni sanguinari dittatori come Assad in Siria e Bashir in Sudan, autocrati come Haftar in Libia e Tuadera in Centrafrica - solo adesso europei e americani (più quelli che questi) si sono decisi a sanzionare il misterioso Gruppo Wagner, i seimila uomini armatissimi che Putin usa come una guardia pretoriana. “Sono contractor privati”, dice anche stavolta il Cremlino, sottintendendo: che hanno di diverso i nostri wagneriani dai famosi soldati Usa della società Halliburton, quelli che ai tempi di Bush Jr appartenevano al suo vice Cheney e andavano in Iraq a presidiare i pozzi? L’emergenza terrorismo è ormai la migliore scusa per muovere i lanzichenecchi anziché le truppe, fare guerre senza dichiararle. E Mosca non va nel Sahel per combattere Al Qaeda, bensì per accaparrarsi le miniere d’oro e per una buona strategia, iniziata in Siria e proseguita in Libia, che la sta riportando su teatri dove negli anni 60-70 recitava da protagonista. Finora, a infastidire affari e mercenari aveva provato solo qualche giornalista russo, subito ucciso. Ormai che è tardi, ecco levarsi la protesta dell’Europa e di chi sa che non è un buon segno, se Wagner suona la sua musica. Vox clamans in deserto: a Mali estremo, questo è sicuro, nemmeno stavolta seguiranno estremi rimedi.