Carcere, il 2022 parte male: due suicidi e di nuovo Covid al 41 bis di Opera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 gennaio 2022 Si impiccano due detenuti: uno a Salerno e l’altro a Vibo Valentia. Nuovamente positivi i reclusi al carcere duro del penitenziario milanese. L’anno 2022 comincia male per le carceri italiane. Due suicidi e nel contempo il Covid entra nuovamente nel 41 bis del carcere milanese di Opera, infettando diversi detenuti. Il primo suicidio a pochi muniti dall’inizio del nuovo anno, è avvenuto nel carcere di Salerno. Aveva recentemente compiuto 28 anni e il suo fine pena era a settembre del 2023. A darne la triste notizia è stato Samuele Ciambriello, il garante regionale dei detenuti della regione Campania. Ahmeti, il giovane albanese che si è tolto la vita, faceva regolarmente le videochiamate con il papà ed era ristretto nel reparto prima sezione, secondo piano. Il garante Ciambriello ha ricordato che si tratta di “un reparto dove lo scorso anno il 7 marzo iniziarono le proteste nelle carceri italiane dopo che erano state sospese visite, permessi, lavoro e relazioni con il mondo del volontariato”. Il garante campano Samuele Ciambriello: “Servono interventi rapidi” - Il garante regionale, a tal proposito, ha osservato: “Abbiamo bisogno di interventi rapidi sul sistema carcere per ridurre ansia e solitudine, di migliorare i temi della salute, incrementare le misure alternative al carcere. Non si può continuare a morire di carcere ed in carcere”. Ciambriello ha quindi sottolineato: “Ogni crisi è una scommessa, ma questa al tempo del Covid, non è stata colta dalla politica per avviare un processo di necessarie innovazioni, in termini di gestione, organizzazione e inclusione sociale negli Istituti penitenziari. La pandemia ha riportato alla luce non solo problematicità cronicizzate del pianeta carcere, ma soprattutto ha delineato nuove forme di incertezza, in termini di normative e in termini di diritti acquisiti dalle persone ristrette”. Il secondo suicidio dall’inizio del nuovo anno è avvenuto al carcere calabrese di Vibo Valentia. Un detenuto, originario di Satriano, è stato trovato impiccato nella sua cella e vani si sono rivelati i tentativi da parte della polizia penitenziaria e del personale medico del carcere di strapparlo alla morte. Era detenuto nella sezione Sex offender. Cinque giorni prima, nello stesso carcere un altro detenuto extracomunitario aveva tentato di togliersi la vita dandosi fuoco. Si trova attualmente ricoverato nel Centro Grandi Ustionati del Cardarelli di Napoli. I familiari dei detenuti al 41 bis di Opera non hanno notizie dei loro cari - Ma la notte di capodanno, com’è detto, è segnato anche dal ritorno del Covid nel 41 bis. Il Dubbio, attraverso la segnalazione degli avvocati come Eugenio Rogliani del foro di Milano e Maria Teresa Pintus del foro di Sassari, apprende che al carcere di Opera sono diversi i detenuti 41- bis positivi, delle cui condizioni di salute, peraltro, i familiari - come denuncia l’avvocato Rogliani - non hanno alcuna notizia. Esattamente come accaduto nel mese di novembre del 2020. Anche in quel caso è stato Il Dubbio a lanciare l’allarme. Tra di loro c’erano detenuti con gravi patologie pregresse come il tumore. Ricordiamo Salvatore Genovese, 77enne al 41 bis fin dal 1999, cardiopatico, già operato di tumore e con i polmoni malandati. Circa 10 giorni prima che ha contratto il Covid, si è visto respingere l’istanza per la detenzione domiciliare. Per il giudice stava al sicuro, curato e non esposto al contagio visto il regime di isolamento. Purtroppo, come gli altri reclusi al 41 bis a Opera, così non è stato. D’altronde, dopo le indignazioni sulle “scarcerazioni” durante la prima ondata anche nei confronti dei detenuti - malati e quindi in pericolo - dei regimi differenziati, c’è stato un susseguirsi di istanze rigettate da parte dei magistrati di sorveglianza e gip. Sappiamo che Genovese non ce l’ha fatta, ed è morto. Ovviamente, rispetto all’ondata del 2020, ora la situazione è diversa. Con il vaccino, diminuisce la probabilità che il virus porti alla morte. Ma la probabilità aumenta se la persona infetta è anziana e ha patologie pregresse. Al 41 bis di Opera ci sono diversi detenuti ultra ottantenni e con gravi patologie - Inutile dire che al 41 bis di Opera, ci sono diversi detenuti ultra ottantenni e con gravi patologie. Ma al 41 bis di Opera si somma anche un altro problema. Da tempo, l’avvocato Eugenio Rogliani, ha denunciato alle autorità che, nonostante sia stato giudizialmente riconosciuto il diritto a svolgere il colloquio visivo mensile con i propri familiari anche attraverso l’uso di piattaforme informatiche, nessuno dei suoi assistititi al 41 bis ha sino ad ora potuto esercitare il diritto ad essi riconosciuto. “La circostanza - denuncia l’avvocato Rogliani - appare del tutto singolare se solo si considera che i detenuti 41 bis allocati presso gli istituti di L’Aquila, Sassari e Tolmezzo già da tempo stano svolgendo il colloquio visivo mensile tramite video-collegamento”. Impedire i collegamenti audio-video costringe ai colloqui in presenza - Non è un dettaglio da poco, se connesso al Covid. Impedire alle famiglie dei detenuti di svolgere il colloquio visivo attraverso l’utilizzo di strumenti informatici in grado di stabilire un collegamento audio - visivo con il ristretto impone ai familiari medesimi di eseguire il colloquio in presenza e quindi di spostarsi sul territorio nazionale per lo più attraverso i mezzi di trasporto a lunga percorrenza, in un periodo durante il quale l’indice di contagio è in preoccupante ascesa. Permettere i colloqui a distanza, assicurerebbe l’accesso al reparto ad un più limitato numero di persone provenienti dall’esterno, riducendo così il rischio contagio cui sono inevitabilmente esposti tanto gli operatori penitenziari quanto i detenuti. Il segretario della Uilpa: “Sono tre le evasioni: una dal carcere e due dalla vita” - Ritornando ai primi due suicidi dall’inizio del nuovo anno, a ciò va aggiunta la prima evasione del 2022 avvenuta dal carcere di Vercelli. Per il segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio, sostanzialmente sono tre evasioni: “Una dal penitenziario e le altre due, dalla stessa vita di chi evidentemente non ha retto alle brutture di un carcere che non solo non assolve alle funzioni dettate dalla Carta costituzionale, ma che - al di là di quello che è ormai molto vicino a mostrarsi come becero chiacchiericcio di politici e governanti - non è neanche lontanamente nelle condizioni di poterlo fare”. De Fazio, si pone una domanda retorica: “Come si possono immaginare e conciliare trattamento, rieducazione e sicurezza in assenza di provveditori regionali, di direttori di carcere, di comandanti della Polizia penitenziaria, con carenze organiche di migliaia di unità in tutte le figure professionali e che raggiungono le 18mila nel Corpo di polizia penitenziaria? Noi pensiamo che non sia neppure utopia, perché a quest’ultima comunque si può credere (serve a far camminare l’uomo, sosteneva Eduardo Galeano). In verità, abbiamo il forte sospetto che nessuno o quasi possa realmente pensare che l’attuale sistema carcerario sia in grado di puntare a realizzare ciò che la Costituzione vorrebbe”. Il segretario della Uilpa afferma senza mezzi termini: “Se qualcuno non lo avesse capito, noi lo ripetiamo: non c’è più tempo. Pressoché ogni giorno, ormai, nelle discariche sociali rubricate sotto il nome di carceri succede qualcosa di grave; i detenuti continuano a patire e a morire e gli operatori, di Polizia penitenziaria in primis, ne subiscono le conseguenze dirette e indirette e spesso si trovano fra l’incudine delle legittime aspettative dell’utenza e il martello che deriva dalle ripercussioni provocate da un sistema fallimentare”. Suicidi in carcere, la Polizia penitenziaria lancia l’allarme: “È emergenza civica!” redattoresociale.it, 4 gennaio 2022 Nei primi due giorni del nuovo anno già 2 suicidi, un tentato suicidio e un’evasione. Di Giacomo (Spp): “La pandemia ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri”. De Fazio (Uilpa Pp): “Pressoché ogni giorno, nelle discariche sociali rubricate sotto il nome di carceri succede qualcosa di grave. Il Governo intervenga!” Il 2022 è iniziato male e i sindacati di polizia penitenziaria sono già sul piede di guerra. Con il suicidio per impiccagione di un detenuto presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia, preceduto di circa ventiquattr’ore da quello registrato nel penitenziario di Salerno, sale a due la tragica conta dei morti di carcere nei primi due giorni dell’anno 2022. E il bilancio sarebbe ancora peggiore se un altro detenuto che aveva tentato la stessa terribile sorte non fosse stato soccorso in tempo dalla Polizia penitenziaria presso la Casa Circondariale di Genova Marassi. A questo, si aggiunge l’evasione di sabato di un pericoloso detenuto dalla Casa Circondariale di Vercelli. Una situazione che ha allarmato i sindacati di polizia penitenziaria, appunto, che nelle ultime ore hanno preso una dura posizione. “Il suicidio di un detenuto a Vibo Valentia - dove solo pochi giorni fa un altro detenuto extracomunitario aveva tentato di togliersi la vita dandosi fuoco ed è tuttora ricoverato in gravi condizioni nel centro Grandi Ustionati del l’ospedale Cardarelli di Napoli - è il secondo dell’anno appena iniziato dopo il suicidio avvenuto a Capodanno a Salerno. E se si aggiunge che nelle ultime ore a Genova solo il pronto intervento di agenti penitenziari ha salvato un detenuto dal suicidio, la situazione è di autentica emergenza civica”. A sostenerlo è il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo, che ricorda come nel 2021 i suicidi in carcere siano stati 54 e oltre 500 negli ultimi dieci anni, mentre alcune decine di migliaia i casi di autolesionismo e il doppio i casi di interventi di agenti penitenziari che sono riusciti a sventare i tentativi di suicidi. “Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove - aggiunge Di Giacomo - il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid. Come sindacato è da tempo che abbiamo proposto l’istituzione di Sportelli di sostegno psicologico, tanto più contando su almeno 3 mila laureati in psicologia che nel nostro Paese non lavorano con continuità. Come per il personale penitenziario che continua a dare prova di impegno civico è sicuramente utile attivare corsi di formazione ed aggiornamento per essere maggiormente preparati ad affrontare casi di autolesionismo e suicidio, oltre naturalmente a provvedere rapidamente all’atteso potenziamento degli organici”. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici. L’incapacità - continua Di Giacomo - è ancora più irresponsabile in questa nuova fase di diffusione della pandemia con oltre un migliaio tra agenti e detenuti positivi solo nell’ultima settimana. Una realtà che segna un trend di contagi in forte aumento in queste festività destinato dunque ad avere conseguenze impattanti e ad aggravare la situazione già di eccezionale emergenza della gestione delle carceri. Sminuire o nascondere la verità - aggiunge - può solo portare ad un’ulteriore sottovalutazione e a complicare le problematiche esistenti per la salute della popolazione carceraria e di chi lavora”. De Fazio (Uilpa Pp): “Carceri come discariche sociali, il Governo intervenga!” - “A rendere nitido a politici e governanti il quadro delle nostre carceri non sono evidentemente bastate le rivolte del 2020 e i conseguenti tredici morti, così come non è stato sufficiente tutto ciò che è emerso nel corso del 2021. Se il capo del Dap, Bernardo Petralia, pensa che a ogni magistrato farebbe bene trascorrere una settimana in carcere, come titola la Repubblica, noi riteniamo che ne servirebbero almeno due ai nostri politici per comprenderne appieno le storture, la disorganizzazione e i molteplici deficit”. È quanto afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Che prosegue: “Sempre dalla Repubblica apprendiamo che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha dichiarato che da gennaio le carceri saranno la sua priorità. Noi, che fidandoci anche delle parole del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, pronunciate in occasione del voto di fiducia in Parlamento ci eravamo illusi che potessero, e forse dovessero, costituire la priorità sin dall’inizio del suo mandato, sottolineiamo che gennaio è iniziato da due giorni e che, mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata”. “Se qualcuno non lo avesse capito - insiste il segretario della Uilpa Pp - noi lo ripetiamo: non c’è più tempo! Pressoché ogni giorno, ormai, nelle discariche sociali rubricate sotto il nome di carceri succede qualcosa di grave; i detenuti continuano a patire e a morire e gli operatori, di Polizia penitenziaria in primis, ne subiscono le conseguenze dirette e indirette e spesso si trovano fra l’incudine delle legittime aspettative dell’utenza e il martello che deriva dalle ripercussioni provocate da un sistema fallimentare”. “Non bastano meri interventi amministrativi né la revisione dei regolamenti, tantomeno i puri drafting normativi che ci capita talvolta di leggere: servono interventi immediati e tangibili da parte del Governo, con un decreto che affronti l’emergenza e la contestuale messa in campo di una riforma unitaria e strutturale dell’intero sistema d’esecuzione penale. Mentre si attende che il tema divenga la priorità - conclude amaro De Fazio -, in carcere e di carcere si continua a morire e, in questo scorcio di 2022, alla media di una vittima al giorno”. Rita Bernardini: “Subito un decreto per le carceri. Fate presto, non c’è più tempo” elivebrescia.tv, 4 gennaio 2022 “Fate Presto, fate presto, fate presto. Non c’è più tempo. Appello rivolto a Parlamento e Governo. Subito un decreto!” È questo il messaggio di denuncia di Rita Bernardini. Con un’incitazione ripetuta tre volte, perché la situazione - già grave prima e in presenza del Covid-19 lo è ancora di più - pare essere veramente critica. Rita Bernardini è stata deputata dei Radicali dal 2008 al 2013 - ora è Membro del Consiglio Generale del Partito Radicale - ed è Presidente di “Nessuno Tocchi Caino” (Una Lega internazionale per l’abolizione della pena di morte nel mondo e in generale per la lotta contro la tortura). In un post su Facebook, dove annunciava la visita al carcere bresciano di “Canton Mombello”, si è espressa così: “In viaggio verso il carcere di Brescia, l’istituto più sovraffollato d’Italia”. Non era sola però, con lei c’erano anche Sergio D’Elia (Radicali), Elisabetta Zamparutti (Radicali), Roberto Rampi (PD), e gli avvocati Mario Piazza e Lorenzo Cinquepalmi. Nel messaggio successivo, sempre pubblicato su Facebook, ecco la descrizione della situazione appena vista: “Carcere di Brescia, non ci sono più gli spazi per gli isolamenti. 2 sezioni su 8 hanno fatto i tamponi, risultato 10 positivi. Nelle altre sezioni non si sa. Elevato numero di positivi fra il personale che non riesce a coprire i turni. Celle fatiscenti con letti a castello a tre piani. Cessi alla turca con tubo che pende dall’alto definito doccia. 356 detenuti in 186 posti. Direttrice straordinaria (veramente!) che deve dirigere anche l’altro carcere (casa di reclusione) + incarico all’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna). Sui 25 ispettori previsti ce ne sono 2, sui 32 sovrintendenti ce n’è uno solo. Su sei educatori previsti ce ne sono solo 4 per due carceri. Il magistrato di sorveglianza: chi l’ha visto? Fate presto”. I casi di Covid hanno subito una decisa impennata nelle ultime settimane, impennata causata - come tutti i dati confermano - verosimilmente dalla variante Omicron. Il Governo, le regioni e i Comuni hanno deciso delle nuove strette per arginare l’avanzare dei contagi, approvando nuove norme e chiedendo ai cittadini di continuare a prestare attenzione. Già, quelle norme che si rispettano qui fuori, in libertà. Ma nelle carceri qual è la situazione? Questa è la risposta di Rita Bernardini. Carceri: meno della metà ha un direttore di Luca Cereda vita.it, 4 gennaio 2022 Il report di Antigone sull’anno appena chiuso. Spesso mancano anche docce, acqua calda e lo spazio minimo vitale previsto alla legge. E il Covid ha accentuato i problemi preesistenti nei penitenziari italiani. Il 2021 è stato un anno di attesa per quanto riguarda il sistema penitenziario italiano. Colpito e sconvolto dal Covid-19 nel corso del 2020, quello che l’associazione Antigone - tra 30 anni attenta alle dinamiche in carcere - ha potuto verificare nel corso di quest’anno è stato un tentativo di ritorno alla normalità che, purtroppo, non in tutti gli istituti è stato tale e non in tutti con la prontezza necessaria. Nel corso del 2021 l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione ha visitato 99 carceri per adulti, più della metà di quelli presenti in Italia, da Sciacca in Sicilia a Bolzano in Alto-Adige. “Il sistema penitenziario italiano ha bisogno di importanti riforme - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone -. Proprio negli ultimi giorni la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia e presieduta da Marco Ruotolo, ha presentato una relazione che contiene diverse proposte in tal senso. Alcune di queste proposte erano state inserite anche nel nostro documento che alcune settimane fa avevamo presentato pubblicamente: dalla previsione di più contatti telefonici e visivi con l’esterno, al maggiore spazio assegnato alle tecnologie; dalla previsione di garanzie nei procedimenti disciplinari nei confronti delle persone detenute, fino all’attenzione prestata alla sofferenza psichica”. Tra gli istituti visitati alcune delle situazioni più difficili da segnalare sono state rilevate nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove sono stati registrati in media in un anno 105 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti, o nel Lorusso Cotugno di Torino, dove nel reparto Sestante erano ristretti in condizioni inaccettabili 17 pazienti psichiatrici. Dalle visite è emerso che in un terzo degli istituti visitati c’erano celle in cui i detenuti avevano meno di 3 mq a testa di spazio calpestabile, quindi al di sotto del limite per il quale la detenzione viene considerata inumana e degradante. Ma non è solo il dato dei metri quadri a destare preoccupazione. Nel 40% delle carceri che Antigone ha monitorato c’erano infatti celle senza acqua calda e nel 54% celle senza doccia, come pure sarebbe previsto dal regolamento penitenziario ormai in vigore dal 2000. Mentre in 15 istituti non ci sono riscaldamenti funzionanti e in 5 il wc non è in un ambiente separato rispetto al luogo dove si dorme e vive. Altro dato importante è il fatto che il 34% degli istituti non abbia aree verdi per i colloqui nei mesi estivi. Se si guarda al personale, le cose non vanno di certo meglio. Solo il 44% delle carceri ha un direttore incaricato solo in quell’istituto e solo nel 21% degli istituti c’era un qualche servizio di mediazione linguistica e culturale. In media, nelle strutture che abbiamo visitato, gli stranieri erano il 32,6%. “È importante che le autorità politiche e amministrative - prosegue Gonnella - si adoperino affinché nel più breve tempo possibile possano essere rese operative. Ma è al contempo importante - conclude il presidente di Antigone - che venga bloccata la volontà dell’Amministrazione Penitenziaria di riformare il circuito di media sicurezza, cosa che farebbe fare un passo indietro preoccupante all’intero sistema trattamentale e rieducativo”. Ogni 100 detenuti erano in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Segno di un carcere che oggi, ancor più del passato, è un contenitore dell’emergenza sociale, della povertà e dell’esclusione. Per quanto riguarda infine il lavoro, in media lavorava nel 2021 il 43,7% dei detenuti. La maggior parte di loro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e con mansioni che spesso non hanno alcuna spendibilità all’esterno. Inoltre, per far lavorare più detenuti possibili, il numero di ore lavorate è molto basso, come dimostra lo stipendio lordo medio percepito che è di 560 € al mese. Intanto negli ultimi giorni dell’anno sono nel frattempo partiti tre processi per violenze nelle carceri italiane: Monza, Santa Maria Capua Vetere e Torino. Per tutti e tre Antigone aveva presentato degli esposti ai competenti Procure della Repubblica e nei procedimenti è presente con i propri avvocati. Covid, prorogate fino al 31 marzo 2022 le misure straordinarie per le carceri garantedetenutilazio.it, 4 gennaio 2022 Tra le misure dell’emergenza Covid-19: licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, durata straordinaria dei permessi premio, detenzione domiciliare Palazzo Chigi a Roma, sede del governo italiano. Nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana del 25 dicembre 2021 è stato pubblicato il decreto legge 24 dicembre 2021, n. 221, “Proroga dello stato di emergenza nazionale e ulteriori misure per il contenimento della diffusione dell’epidemia da Covid-19”, che comprende le proroghe anche delle misure per le carceri fino al 31 marzo 2022 (licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, durata straordinaria dei permessi premio, detenzione domiciliare). Sono tre le misure prorogate sul carcere. La prima è quella relativa al possibile termine massimo delle licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà concesse ai sensi dell’art. 28 comma 1 del decreto legge 137/2020: “ferme le ulteriori disposizioni di cui all’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354, al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse licenze con durata superiore a quella prevista dal primo comma del predetto articolo 52, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. La seconda riguarda la possibilità di concedere permessi premio di cui all’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario in deroga ai limiti temporali ordinari, ai sensi dell’art. 29 comma 1 del decreto legge 137/ 2020: “ai condannati cui siano stati già concessi i permessi di cui all’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 o che siano stati assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, i permessi di cui all’articolo 30-ter della citata legge n. 354 del 1975, quando ne ricorrono i presupposti, possono essere concessi anche in deroga ai limiti temporali indicati dai commi 1 e 2 dello stesso articolo 30- ter”. La terza è la possibilità di consentire l’esecuzione domiciliare delle pene detentive non superiori a 18 mesi, ai sensi dell’art. 30 comma 1 del decreto legge 137/ 2020: “in deroga a quanto disposto ai commi 1, 2 e 4 dell’articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”, salve le eccezioni ivi contemplate”. Giustizia, l’allarme dei magistrati di Area: “Così impossibile ridurre tempi e arretrato” adnkronos.com, 4 gennaio 2022 Ufficio processo è rivoluzione copernicana ma pone molti interrogativi e problemi, palazzi inadeguati e serve formazione. “La magistratura ha il dovere di evidenziare, sin da ora, che le condizioni di lavoro, l’organico effettivo dei giudici, l’attuale, anche se finalmente in via di superamento, carenza del personale amministrativo, rendono, in molti uffici ed allo stato attuale, probabilmente impossibile il raggiungimento dell’obiettivo nazionale sotteso all’innovazione dell’Ufficio per il Processo”. A sottolinearlo, in una nota, è il coordinamento di Area democratica per la Giustizia. “Un’occasione imperdibile o un’innovazione faticosa ed inutile?”, si chiede il gruppo elle toghe progressiste, che afferma di avvertire la “necessità di scrivere per rappresentare al ministro, al Csm, all’Avvocatura i rischi di scorciatoie pericolose”. “Siamo allo soglie di una rivoluzione copernicana nel modo di svolgere il nostro lavoro; siamo stati investiti da un compito complesso ed arduo, al quale non ci vogliamo sottrarre ma che possiamo affrontare soltanto ottenendo chiare risposte alle numerose problematiche ed interrogativi che pone”, evidenzia Area, spiegando che “non è stato ancora chiarito come l’obiettivo di riduzione dell’arretrato e dei tempi del processo, stabilito per ora su scala nazionale, verrà distribuito tra i diversi uffici. Si tratta di un’operazione tanto complessa quanto necessaria, considerata la differenziata distribuzione dell’arretrato e l’attuale diversificata durata del processo nelle diverse realtà giudiziarie”. “Tutti i palazzi di giustizia presentano carenze edilizie e già ora non sono adeguatamente capienti a contenere il numero di persone che vi lavorano: con l’arrivo di centinaia di addetti all’Ufficio per il Processo la situazione non può che peggiorare”, denuncia il gruppo, ritenendo “urgente che siano adottati tutti gli interventi necessari sia a recuperare i nostri Palazzi di Giustizia sia ad adeguarli alle nuove necessità”. Così come la formazione “dovrà essere non solo iniziale, ma affiancare l’intero periodo di lavoro”. Infine, “è forte il rischio che, a fronte degli obiettivi di risultato richiesti, e non preceduti da un prudente studio di fattibilità, i magistrati, già sottoposti da tempo a ritmi produttivi molto elevati, sviluppino una tendenza alla standardizzazione impropria delle decisioni. Ne discenderebbe una inaccettabile diminuzione della qualità della giurisdizione, che diventerebbe forse più rapida, ma sicuramente più ingiusta, chiuderebbe ogni spazio all’evoluzione della giurisprudenza in tema di difesa dei diritti, creerebbe insoddisfazione e conflitto sociale”. Sentenze decise da remoto: il no dell’avvocatura di Valentina Stella Il Dubbio, 4 gennaio 2022 Con una “mossa a sorpresa”, il decreto Milleproroghe estende ben oltre la fine dello stato d’emergenza (fissata al 31 marzo prossimo) il ricorso alle camere di consiglio da remoto nel processo penale: potranno essere adottate per l’intero 2022. Scelta contestata da penalisti e Cnf: “Perché il doppio binario solo per la giustizia? Così la collegialità va a farsi benedire”. L’Unione Camere penali lancia l’allarme: se è vero che il governo ha prorogato lo stato d’emergenza sanitaria fino al 31 marzo 2022, tuttavia lo stesso esecutivo “consente ai magistrati di tenere le camere di consiglio da remoto fino al 31 dicembre 2022, senza far più riferimento al rischio di contagio”. Da qui l’appello dei penalisti alle forze parlamentari affinché “sia posto rimedio all’ennesima violazione delle regole del processo accusatorio”. Vediamo bene cosa è successo, tramite proprio una nota dell’Ucpi: “Con il decreto legge n. 221 del 24 dicembre, per quanto attiene alla materia penale, si è intervenuti solo prorogando le discipline emergenziali che riguardano licenze, permessi premio e detenzione domiciliare. Evidentemente il ministero ci ha ripensato”, si osserva nella nota, “ed ecco che, con l’articolo 16 del decreto Milleproroghe non solo tutte le norme di emergenza della legislazione civile, penale, amministrativa, contabile, tributaria e militare sono state prorogate ma la solita “manina”, neppure tanto nascosta, questa volta ha disvelato il vero intendimento che è quello di assecondare i desiderata di una parte di Anm”. Il problema dunque qual è? La norma, spiega ancora il comunicato dell’Ucpi, ha il significato di “rendere stabile la disciplina che tra l’altro consente ai giudici di decidere da remoto, prescindendo dal rischio pandemico, perpetuando una disciplina dalla quale la riforma Cartabia ha inteso allontanarsi e peraltro prevedendo un periodo transitorio per la messa a regime del processo telematico”. Per tutto questo gli avvocati penalisti “denunziano l’evidente ennesimo attacco alle garanzie ed alle prerogative difensive, questa volta perpetrato strumentalizzando la pandemia per individuare un termine di proroga privo di qualsiasi collegamento con l’emergenza sanitaria. L’appello è alle forze parlamentari che hanno a cuore i principi del giusto processo affinché, in sede di conversione, si ritorni quantomeno a limitare il ricorso alle norme emergenziali del processo al generale termine del 31 marzo 2022 previsto per l’emergenza nazionale”. Il provvedimento dovrà essere convertito entro il 28 febbraio, ma già produce i suoi effetti, anche se la disciplina non si applica alle udienze fissate per gennaio, specifica l’Ucpi. È l’avvocato Eriberto Rosso, che dell’Unione è segretario, a chiedersi: “Quali atti si possono consultare e condividere in una camera di consiglio composta da tre giudici fisicamente lontani tra loro? Quali fascicoli sono a disposizione dei singoli magistrati? È evidente che, organizzata così, la collegialità è ridotta a un simulacro, che peraltro non aggiunge alcuna efficienza al processo. Il processo d’appello”, dice ancora al Dubbio l’avvocato Rosso, “ordinariamente si risolve in una udienza, anzi, in una udienza sono chiamate e trattate più cause. Il vero problema sono i tempi morti, gli anni impiegati perché un fascicolo raggiunga la Corte d’appello dal Tribunale e, poi, le singole sezioni. E ancora: un conto è se il difensore ritiene di non dovere sviluppare oltre il contraddittorio argomentativo rispetto all’atto di impugnazione, altro è prevedere che la procedura di appello sia meramente cartolare. Le istituzioni europee chiedono all’Italia di limitare i tempi per la celebrazione dei processi, non certo le garanzie. Smaterializzare la camera di consiglio non serve a rendere più rapido il processo, semplicemente a renderlo meno equo. Il Dl proroga la modalità esclusiva di deposito tramite portale telematico ben oltre l’emergenza e senza tenere minimamente conto delle tante critiche e delle indicazioni degli operatori, quando la delega Cartabia indica invece la necessità di un regime transitorio”. La preoccupazione dell’Ucpi è condivisa anche dall’avvocato Giovanna Ollà, coordinatrice della Commissione diritto penale del Cnf: “Premetto che gli avvocati penalisti non sottovalutano affatto il rischio legato all’innalzamento dei contagi da covid. Tuttavia, quello che però è oggettivamente strano è che mentre lo stato d’emergenza viene prorogato fino al 31 marzo 2022, e già qualcuno ha sollevato dubbi sulla legittimità di questa ennesima proroga, per il sistema giustizia viene usato un doppio binario che oltrepassa di gran lunga lo stesso stato d’emergenza. In una camera di consiglio da remoto”, ricorda la consigliera Cnf, “la collegialità è limitata, affievolita: durante una crisi pandemica possiamo accettare questa modalità, ma non può divenire la regola generale. Noi, come Consiglio nazionale forense, abbiamo sempre evidenziato il rischio di stabilizzazione di provvedimenti emergenziali”. Già nel 2020, con i decreti Ristori e Ristori bis, si prevedeva che nei procedimenti civili e penali le deliberazioni collegiali in camera di consiglio potessero essere assunte mediante collegamenti da remoto. La misura fu stigmatizzata da subito dall’Ucpi e la norma, come disse il presidente Caiazza, è stata “totalmente disapplicata in diverse Corti d’appello, come quelle di Roma, Catania, Milano, Messina, che hanno assunto posizioni comuni con le Camere penali territoriali rifiutando la possibilità della camera di consiglio da remoto”. “A Roma la camera di consiglio da remoto non è mai partita - ci conferma il presidente dei penalisti capitolini Vincenzo Comi -. Proprio la fermezza delle nostre convinzioni ha consentito alla Camera penale di Roma di ottenere nel 2020, sotto la presidenza di Cesare Placanica, un protocollo con la Corte d’Appello secondo il quale, “nel riconoscere le forti preoccupazioni che il rischio di una normativa emergenziale possa tradursi in una irreversibile lesione dei principi del giusto processo”, si era esclusa ogni ipotesi di camera di consiglio da remoto nei processi di secondo grado. Quel protocollo, di cui siamo molto orgogliosi, ha poi generato la disapplicazione della norma a livello nazionale: la camera di consiglio da remoto rappresenta una scelta inutile e grave, dalle conseguenze dannose per il processo penale. Per un magistrato consapevole è una diminutio della efficienza del processo. Non è un problema di assolvere o condannare, ma di dare il peso giusto al processo”. “Il magistrato che sbaglia non paga mai. I pm amano i fascicoli ad alta visibilità” di Luca Fazzo Il Giornale, 4 gennaio 2022 Il deputato Enrico Costa (Azione): “Le correnti dell’Anm rifiutano un controllo sulla qualità”. Un’altra tragedia che forse si poteva evitare, un altro caso che porta a chiedersi se gli errori dei magistrati sono destinati a restare sempre senza sanzioni. La morte del piccolo Daniele Paitoni solleva temi sui quali Enrico Costa, deputato di Azione! e membro della commissione Giustizia, si batte da sempre. Possiamo dire che la giustizia è l’unica industria italiana dove non esiste il controllo qualità? “Purtroppo sì. Non sono io a dirlo, sono le cifre. Ho chiesto al ministro Cartabia i dati sui pareri che i consigli giudiziari forniscono sui magistrati in occasione delle richieste di avanzamento. Bene, il 99 per cento ricevono parere positivo. Le pare un dato verosimile? Sono tutti bravi? A questo si aggiunge un altro dato sulla irresponsabilità di fatto che hanno sul piano disciplinare: il 98,5 per cento delle segnalazioni viene archiviato direttamente dalla Procura generale della Cassazione. Che controllo di qualità è possibile con numeri simili?”. Sta dicendo che chi sbaglia non paga mai, o quasi mai? “Esatto. Per garantire standard di qualità più alti basterebbe un fascicolo personale del magistrato che raccolga le sue performance: quante sentenze ha emesso e quante ne sono state annullate, quanti arresti ha chiesto e non ottenuto, quanti fascicoli ha lasciato prescrivere, quanti imputati ha mandato a giudizio per processi nati morti. Invece ci si basa sui convegni cui ha partecipato, sulla disponibilità verso i colleghi, la gentilezza con gli avvocati. Tutte cose importanti, eh, ma il controllo di qualità è un’altra cosa. Se ho arrestato uno che era innocente deve restare nel mio fascicolo. Se ho sbagliato prognosi, e ho liberato uno che poi ha ucciso ancora, deve restare anche questo”. C’è in giro una sorta di sciatteria nella gestione dei fascicoli processuali? “Io parlerei soprattutto di burocratizzazione. Il magistrato di ogni ruolo è diventato un burocrate colpito quotidianamente da una gragnola di fascicoli e la conseguenza è una analisi superficiale. Va a finire che in buona parte dei casi il lavoro del pubblico ministero lo fa la polizia giudiziaria, lui si adegua perché non ha il tempo né gli strumenti”. Però quando a un fascicolo tengono davvero investono tempi e risorse in quantità: basti pensare al processo infinito al povero Angelo Burzi. “È chiaro che c’è un doppio binario, da una parte i fascicoli qualunque e quelli su cui per un motivo o per l’altro si vogliono tenere i riflettori accesi. Mi piacerebbe analizzare su quali processi le Procure fanno ricorso se l’imputato in primo grado viene assolto. Ci sono i processi che vengono abbandonati e ci sono quelli che invece vengono portati avanti fino all’ultimo ricorso possibile. E tra questi ci sono quasi sempre i processi ad alto impatto mediatico, i fascicoli ai quali il pm si affeziona, e in cui non riesce ad accettare l’idea di venire smentito da una sentenza di tribunale. Ci sono casi di pm che per continuare a sostenere l’accusa si fanno spostare in altri uffici, o restano in uffici di cui non fanno più parte. Sono i processi ad alta visibilità. O magari quelli dove il pm ha fatto arrestare l’indagato durante le indagini preliminari e vuole evitare che ottenga il risarcimento per ingiusta detenzione”. Che rimedi ci sono? Ogni volta che si parla di valutarli per davvero i magistrati insorgono. “Un sistema di valutazione reale della performance dei magistrati sarebbe nell’interesse di tutti tranne che delle correnti dell’Anm. Perché a quel punto si saprebbe chi è il migliore candidato a una certa promozione, a una data carica. E il potere delle correnti tracollerebbe”. Burzi, il senso della giustizia di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 4 gennaio 2022 Il caso del suicidio dell’ex consigliere regionale e il rispetto dovuto a chi deve emettere una sentenza. Di fronte all’insondabilità del gesto estremo, da chiunque e in qualunque circostanza compiuto, sta rispetto e silenzio. L’ex consigliere regionale del Piemonte Angelo Burzi, qualche giorno dopo la condanna a tre anni di reclusione da parte della Corte di Appello di Torino nel processo “Rimborsopoli” sull’utilizzo dei fondi regionali stanziati per il funzionamento dei gruppi rappresentati nel Consiglio Regionale, alle 23.47 del 24 dicembre, subito prima di togliersi la vita, ha scritto una mail “certo che questo mio gesto estremo sia l’unica strada da me ancora percorribile”. Quando si è costretti a confrontarsi con una persona che ha voluto dare conto della sua tragica scelta con una lettera destinata alla diffusione non ci si può sottrarre dalla riflessione. Lasciamo da parte alcune, scontate, infondate, ma non per questo meno deprecabili, speculazioni politiche. Nella mail dell’ingegner Burzi, resa pubblica secondo la sua volontà e giustamente pubblicata nella sua integralità sulla stampa, vi sono dure accuse. L’opinione pubblica è posta di fronte ad una vicenda processuale che si trascina per oltre un decennio. La politica è chiamata confrontarsi con una disciplina del finanziamento pubblico ai partiti e alle loro rappresentanze nelle istituzioni, che, tra oscillazioni e ipocrisie, ha generato prassi discutibili e talora perverse. Ma è la magistratura ad essere chiamata in causa direttamente, a rendere conto della sua responsabilità nel discernere, con scelta che non ammette terza soluzione, tra ciò che è reato e ciò che non lo è. La valutazione di fatti concreti raffrontati a una normativa inadeguata e a prassi applicative difformi provoca inevitabilmente interpretazioni diverse, nei vari gradi di giudizio e in diverse sedi giudiziarie. La linea che divide il bianco il nero non sempre è tracciata in modo nitido di fronte agli occhi di chi ha la responsabilità del giudicare. “Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Matteo, 7, 1-2). L’ammonimento evangelico per chi esercita la professione del giudicare, pur necessaria a mantenere la pace civile, è richiamo all’umiltà di fronte ai limiti e agli errori di una giustizia resa da donne e uomini su altre donne e altri uomini. Proprio la consapevolezza di questi limiti è fondamento dell’”irresponsabilità” in senso tecnico del giudicante (salvo i casi estremi di tradimento della funzione). Ma il contrappeso è la “responsabilità” piena di fronte al foro della pubblica opinione. Quasi due secoli addietro Jeremy Bentham, in testo che sarà molto diffuso nel mondo anglosassone, ma tuttora poco citato in Italia, propone la pubblicità come controllo sull’esercizio della giustizia: “La pubblicità è l’essenza della giustizia. Pone il giudice stesso, mentre giudica, sotto giudizio”. Fuori luogo e sgradevoli le speculazioni politiche su questa tragica vicenda, ma ancor più la pretesa di sottrarsi alle critiche fossero anche le più aspre. Non vi è autorità giudiziaria, per quanto elevata, che possa arrogarsi il compito di stabilire “la verità e l’obbiettività delle vicende e delle dinamiche”, come ha preteso, con un comunicato stampa, il Procuratore generale di Torino. La sentenza definitiva, con quella che i tecnici chiamano l’autorità della cosa giudicata, per l’esigenza sociale di porre un termine ai processi fissa la verità processuale. Come ci indicano i detti latini, tuttora spesso richiamati, facit de nigro album, aequat quadrata rotundis, la verità processuale potrebbe anche essere in aperto contrasto con la realtà, con la “verità e l’obbiettività delle vicende”. La salvaguardia della convivenza civile impone che sia rispettato il compito di chi deve decidere e non può sottrarsi anche nei casi difficili, pur con la consapevolezza che ciò che secondo le regole del processo è stato definito nero nella realtà potrebbe essere bianco o viceversa. Proprio la libera e anche aspra critica contribuisce a fondare la fiducia nella giustizia, che non può essere fede cieca, ma rispetto per coloro cui la società ha affidato il compito arduo, ma irrinunciabile, di decidere, persone umane, sulle vicende di altre persone umane. Nuovi dubbi sul suicidio in carcere di Nino Gioè. Il boss voleva collaborare di Alessia Candito La Repubblica, 4 gennaio 2022 Atti e interrogatori inediti depositati a Reggio Calabria al processo “‘Ndrangheta stragista” sollevano ombre sul presunto suicidio. “Aveva presentato frequenti e ripetute richieste di colloquio con magistrati e forze dell’ordine”, ha messo a verbale un agente penitenziario. E adesso è caccia a quelle missive Non dicerie, né spifferi di pentiti. Che il boss di Altofonte Nino Gioè volesse collaborare con la giustizia, adesso è ufficiale. Arriva da Reggio Calabria la pista che potrebbe gettare nuova luce sul caso Gioè, ufficialmente morto suicida nella notte fra il 28 e il 29 luglio del ‘93, mentre a Roma e Milano esplodevano le bombe piazzate dai clan. Sta negli interrogatori, nuovissimi, che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha messo agli atti del processo d’appello ‘Ndrangheta stragista, in primo grado costato un ergastolo al boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e al mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone, condannati come mandanti degli attentati contro i carabinieri con cui la ‘Ndrangheta ha firmato la propria partecipazione agli attentati continentali. Una stagione in cui Gioè ha giocato un ruolo. E di peso. Mafioso di rango, tra i protagonisti della storia delle stragi - c’era lui con Giovanni Brusca a Capaci, quando l’autostrada saltava portandosi via la vita di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli uomini della scorta - uno dei pochi ad avere un contatto diretto con Totò Riina, il boss era anche uomo di mezzo. Uno che in mano e in uso ha avuto un cellulare ufficialmente disattivato, ma che il giorno della strage di Capaci ha chiamato per tre volte un numero statunitense, che con l’intelligence aveva contatti e ci ha parlato, come con quel Paolo Bellini - estremista nero, trafficante d’arte, killer di ‘Ndrangheta, in odore di servizi, oggi imputato per la strage di Bologna - che potrebbe aver suggerito ai clan di colpire i grandi monumenti per far tremare l’Italia. Gioè era un uomo dai mille segreti. Ed era pronto a raccontarli. Nei suoi ultimi giorni a Rebibbia aveva presentato “frequenti e ripetute richieste di colloquio con i magistrati e le forze dell’ordine”. Ed erano ufficiali, perchè “ero io a prendere cognizione del contenuto delle istanze che scriveva” dichiara il 10 giugno 2019 Antonio Ciliegio, che all’epoca era agente penitenziario e insieme ai colleghi aveva ricevuto l’ordine di vigilare su Gioè “visto il rischio per la sua incolumità in prospettiva di una sua imminente collaborazione”. Ne erano coscienti a Rebibbia e lo sapeva il boss, che aveva smesso di uscire dalla cella perché “probabilmente “si sentiva in pericolo o era stato espressamente minacciato da qualche detenuto”. Il tempo lo impegnava scrivendo. “Ricordo due-tre missive al giorno inoltrate cinque o sei giorni prima del suo decesso” sottolinea Ciliegio. Dove sono quelle lettere? A chi scriveva Gioè? Qualcuno ha mai risposto o lo ha incontrato? Di eventuali colloqui potrebbe sapere qualcosa Massimo De Pascalis, che di Rebibbia all’epoca era direttore e per questo è stato ascoltato nel dicembre 2018. Ma quella pagina di interrogatori agli atti non c’è ancora. Di certo, dice Ciliegio, esistevano “espedienti” che, in virtù di “accordi diretti con il direttore o il capo delle guardie”, permettevano ai detenuti di “avere incontri riservati con le forze dell’ordine o con i servizi senza lasciare traccia”. Erano gli anni del “protocollo Farfalla”, costato la vita all’operatore carcerario Umberto Mormile, ammazzato a Milano per aver scoperto i rapporti fra uomini dell’intelligence e il boss di ‘Ndrangheta, Domenico Papalia. Lo stesso Papalia a cui Gioè si preoccupa di chiedere scusa nella sua presunta lettera di commiato e da cui Riina riceve in eredità la sigla “Falange Armata”, servita poi per firmare stragi, omicidi, attentati. Una stagione di sangue - è la pista su cui si lavorano Reggio ed altre procure - pensata non solo in Sicilia. E in cui settori dei servizi hanno avuto un ruolo. “Noi, orfani delle stragi bianche in cerca di giustizia” di Floriana Bulfon L’Espresso, 4 gennaio 2022 “Le morti sul lavoro non sono incidenti, sono omicidi”. Sono i figli degli operai uccisi: una vittima a ogni turno. Lutti senza colpevoli. Famiglie spezzate, aiuti negati. E la giustizia arranca tra burocrazia, lungaggini e cavilli. Gulio ha dodici anni e disegna pali altissimi. Lui li chiama alberi ma sono senza foglie e mamma Paola sa il perché: “Sono le travi che hanno portato via il suo babbo”. Alessandro Rosi è morto schiacciato da oltre 80 tonnellate di acciaio. Se n’è andato così il 9 agosto 2019 in una giornata di lavoro lasciando Giulio e Paola “con la morte che ti scava dentro”. Giuseppina, invece, ogni mattina va a raccogliere le arance, piegata dalla fatica per pochi euro, perché non vuole far mancare nulla alla figlia. E lotta perché Maria Stella possa sapere chi l’ha lasciata senza il padre. È la condizione degli orfani della strage silenziosa che cancella tre vite al giorno, una ogni otto ore. Sopravvivono dentro una giustizia dimezzata, tra processi per stabilire i colpevoli che durano troppi anni e assistenze che non ci sono. A partire da quella psicologica perché, chiarisce Paola, “cambia il modo di riuscire a stare al mondo e sembra che nessuno consideri come superare un trauma”. Lei e Giulio ogni settimana fanno una seduta di psicoterapia, 50 euro ciascuno che pesano su un bilancio familiare, eppure si sentono persino fortunati perché possono permetterselo. Famiglie spezzate da mancanze incolmabili, costrette a combattere con carte bollate e avvocati, a dimostrare le responsabilità di un sistema inaccettabile in cui la fretta e il ridurre i “tempi morti” prevale sulla sicurezza. A non accettare che si possa uscire da casa per andare a lavorare e non tornare più. “Alessandro non è stato ucciso dalla trave che lo ha travolto, ma da un sistema che spinge per velocizzare il lavoro così da aumentare i profitti. È inaccettabile che ciò avvenga nel silenzio più assordante”, dice Paola. Alessandro lavorava con la gru, da Firenze l’hanno mandato in trasferta a Cremona e la sua vita è finita dentro a una cassa di legno “con gli stessi vestiti da lavoro perché era impossibile toglierglieli. Quando l’ho dovuto spiegare a Giulio si è ammutolito, poi nei giorni successivi ha voluto sapere se avesse sbagliato qualcosa, se fosse lui il colpevole”. La figlia di Giuseppina invece non ha mai chiesto nulla. E forse proprio per questo la madre continua a cercare i documenti di quello che lei chiama “incidente”. “Era il 2001, avevo 23 anni e appena partorito Maria Stella. Lontana da casa con una bambina di nove giorni, non sapevo che fare. Non ho una carta di quello che è successo”. Giuseppina è tornata in Calabria dai genitori, non ha avuto risarcimenti tranne il vitalizio dell’Inail per la figlia: “Solo 900 euro fino a 18 anni, che sospendono se lei non studia”. Nessun colpevole, una morte senza responsabili. Nel processo per Alessandro Rosi invece, tranne due imputati, tutti hanno chiesto di patteggiare: da 6 a 10 mesi di reclusione, con concessione del beneficio della sospensione condizionale e una pena pecuniaria per le due società coinvolte. “Quando incontro i miei assistiti, madri, padri, figli, fratelli, sorelle, tutti avvolti da un lutto complicato da elaborare a causa del carattere improvviso e violento, mi rendo conto che la prima necessità è quella di sapere che cosa è successo al loro caro, perché è morto e se quella la morte potesse essere evitata. A nessuno importa conoscere il controvalore economico di quella perdita”, spiega l’avvocata Alessandra Guarini. In mezzo ci sono loro, i sopravvissuti, vittime che nel processo sono considerate “un soggetto eventuale”. Tutti chiedono un cambiamento che serva in concreto a salvare vite e invece assistono all’inesorabile aumento dei decessi, nonostante le norme siano sempre più stringenti. Ogni volta si ripete “perché non accada più” ma ogni legge viene vanificata dai controlli che latitano e da una cultura che non si oppone all’idea del lavorare a tutti i costi e in tutte le condizioni. Una contabilità della morte a cui sfuggono decine se non centinaia di vite perché abusive e sommerse. Come i lavoratori “anziani”, costretti ancora ad arrampicarsi sui ponteggi dei cantieri anche se hanno superato i 60 anni perché, tra intermittenza dei contratti e lavoro nero, non riescono a raggiungere i contributi per la pensione. Morti che aumentano trainate dalla ripresa dell’edilizia, spinta soprattutto dall’ecobonus. Nei primi nove mesi di quest’anno le denunce per infortuni nel comparto costruzioni sono state 21.346 contro le 17.891 dello stesso periodo del 2020; le morti sul lavoro 87 contro 73. Sono il sacrificio umano versato in nome della rinascita economica, che rischia di farsi più feroce quando i contratti del Pnnr accelereranno i cantieri per rispettare le scadenze europee. A volte il paradosso è che il datore di lavoro è rappresentato dallo Stato. Accade soprattutto nel settore marittimo e portuale: “I meccanismi processuali si complicano quando sul banco degli imputati salgono i datori di lavoro pubblici, talvolta istituzionali, si crea un cortocircuito micidiale: lo Stato che processa se stesso”, ragiona l’avvocata Guarini. E intanto Paola e Giuseppina pensano alle altre famiglie: “A quelle tre che oggi si sentiranno dire “siete vedove, vedovi, orfani”. Solo chi prova quel dolore lo comprende”. È la telefonata che ha ricevuto Manuele. “Molla tutto e vieni qua. Pregavo fosse una mano, un braccio, una gamba. Non si può morire così”, ricorda. E invece è morta così la sua compagna Laila El Harim. A 40 anni inghiottita da una fustellatrice in una fabbrica di cartoni per dolci esportati in mezza Europa. Laila era arrivata dal Marocco nella bassa modenese a vent’anni e s’era costruita una carriera: era diventata capo macchina. L’avevano assunta alla Bombonette di Camposanto da due mesi e teneva un diario su quello che succedeva in quel capannone. “Oggi tutto bene, devo scrivere la mail a ... per la fornitura”, “oggi problemi tecnici...”. Era precisa e affidabile Laila e inviava proprio a Manuele le foto dei congegni che la preoccupavano. S’erano conosciuti in fabbrica, cartonai tutti e due, qui nella Packaging Valley, vanto dell’Emilia. Poi è arrivata Rania, la loro bambina che ha cinque anni e lo scorso luglio, un mese e mezzo prima di morire di lavoro, anche la promessa di matrimonio: “Le ho chiesto di sposarmi. Le ho dato l’anello d’oro, con l’acquamarina. Lei mi ha detto sì, adesso dovevamo solo organizzare la cerimonia, le piaceva il Salento e voleva l’abito bianco”, racconta Manuele. E invece è rimasto solo con Rania in una casa con i mobili nuovi, il cuore di legno intagliato, il mutuo da pagare e una bambina a cui non sai come spiegare. “Finché non ti tocca è un numero. Non pensi mai a chi c’è dietro”, dice. Ora ci sarà il processo, la relazione del direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, ha stabilito che la macchina a cui lavorava Laila “aveva un doppio blocco, ma non automatico e azionabile solo manualmente dalla lavoratrice” ma per ora Manuele pensa a Rania e ad andare avanti e si chiede “come sia possibile non investire in sicurezza”. “È un crimine di pace”, ripete Giordano. “Quando si muore sul lavoro, si muore di dovere: non lo si può chiamare infortunio, quasi fosse una fatalità sfortunata, perché è omicidio. Muore una persona e si uccide il futuro di un’intera famiglia. Oggi chi si sta occupando del figlio di Luana D’Orazio e dei figli delle oltre seicento persone morte dopo la giovane mamma di Prato?”, chiede. Perché quando c’è un incidente sul lavoro le vittime non sono solo i lavoratori ma anche figli, genitori, compagni, parenti. Quelli che vengono chiamati, usando un’insopportabile terminologia del ventennio, “orfani del lavoro”; e che chiedono perché si può morire per aver fatto il proprio di dovere e perché altri non lo hanno fatto. Giordano, che prima di quest’incarico faceva il magistrato, ricorda uno di loro: “All’inizio del processo si presentò in aula un ragazzino, essendo minorenne gli chiesi chi fosse. Mi rispose che era il figlio della vittima e voleva sapere perché era morto il suo papà. Fissai tutte le udienze di pomeriggio per consentirgli di seguirle senza perdere giorni di scuola ma alla fine, proprio quando si attendeva la sentenza, non venne più. Chiesi all’avvocato e mi disse che era il più grande di tre fratellini: aveva lasciato la scuola ed era dovuto andare a lavorare in un bar; la mamma non poteva tirare avanti. Per bisogno aveva dovuto rinunciare alla scuola e a sapere”. Il bisogno era più forte ed era arrivato prima della giustizia e Giordano si domanda “cosa possa pensare quel ragazzino oggi da cittadino adulto di un Paese che per chi muore di lavoro non riesce a dare sempre giustizia”. Senza contare che molti dibattimenti finiscono nel nulla, perché la lentezza fa scattare la prescrizione: “In questi casi, l’ingiustizia è massima”. La disfatta di una Repubblica fondata sul lavoro, come dice la Costituzione, che è incapace di renderlo sicuro e non riesce neppure a dare giustizia alle vittime. La mafia che non spara fa convivere l’Italia con il suo male più nascosto di Attilio Bolzoni Il Domani, 4 gennaio 2022 Dopo ogni emergenza le organizzazioni mafiose hanno lucrato sfruttando i business del momento: dai terremoti alle alluvioni. In fin dei conti non danno troppo fastidio. Perché non ci sono morti per le strade, non c’è allarme sociale, non ci sono problemi di ordine pubblico. Il punto è proprio questo: le mafie come problema di ordine pubblico. Così le ha sempre considerate lo stato italiano. Oggi quel problema non c’è e di conseguenza non ci sono neanche le mafie. Nulla di inedito, un secolo e passa di storia del nostro paese racconta che sono cattive e pericolose solo quando sparano, quando si manifestano all’esterno con la violenza delle armi. E siccome è calato il silenzio, l’Italia può continuare a convivere senza vergogna con il suo male più nascosto. Anche in tempi di emergenza, soprattutto in tempi di emergenza come questi sconvolti dalla pandemia che tanta altra ricchezza porterà alle organizzazioni criminali. L’assalto non è ancora partito ma loro sono già lì in agguato, pronte a tuffarsi in quel fiume di denaro che arriverà con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Tutti ne parlano - ministri dell’Interno e della Giustizia, procuratori nazionali antimafia, i capi dei reparti investigativi di eccellenza - tutti avvertono del rischio dell’aggressione ma devono misurarsi con mafie coperte (come lo sono sempre state dalla loro origine, a parte i sanguinosi anni dei Corleonesi) e quasi invisibili. Perché c’è un dato che si dimentica sempre: le mafie se non le cerchi non le trovi. Ed è da un po’ che nessuno le cerca per davvero. Governo dopo governo va di moda fare la mossa, il gesto, letteralmente iniziare il movimento senza portarlo a termine. Si preferisce e conviene colpire il crimine più brutale, che disturba, che fa rumore. Quella che una volta veniva definita “alta mafia” per i suoi rapporti con la politica e il mondo degli affari è al riparo, più il ricordo delle stragi si fa lontano al di là della retorica e più l’”alta mafia” è impalpabile, sfuggente. Protetta dalla stanchezza o dall’indifferenza dell’opinione pubblica, da un’antimafia sociale sgonfia o imbrattata, da una riforma della giustizia che non è al passo con le sfide che richiedono le mafie contemporanee. La “lotta alla mafia” è sempre più di frequente un proclama, una scatola vuota, è quella fotografia che ritrae insieme sorridenti Falcone e Borsellino e che viene agitata come un santino. Il crimine è tornato statistica. Negli ultimi giorni dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno ci ha informato sul bilancio del 2021. Da gennaio a fine novembre sono stati catturati 1343 latitanti, di cui 705 ricercati da autorità giudiziarie italiane in ben 51 paesi. Il 16,2 per cento dei soggetti è stato arrestato in Romania, il 13,9 per cento in Spagna, il 12,3 per cento in Germania, il 10,5 per cento in Francia. Numeri sicuramente importanti ma freddi, che dicono tutto e niente. Comunque nella lista del Viminale, dopo ventinove anni, manca ancora il nome che più di altri doveva essere presente nel lungo elenco: Matteo Messina Denaro, il padrino che custodisce i segreti delle bombe che hanno ucciso i giudici Falcone e Borsellino. Il boss è fuori dagli indici e dai grafici, su di lui si possono fare solo fantasiose stime sul tempo che ci vorrà per prenderlo. Un giorno? Una settimana? Altri ventinove anni? Sono cifre che spiegano e non spiegano. Nonostante la grave crisi sanitaria ed economica generata dal Covid, il numero di imprese registrate alle Camere di Commercio lombarde negli ultimi dodici mesi è sensibilmente aumentato. Miracoli o forse qualcos’altro? Le calamità naturali, i terremoti, le grandi opere, i disastri provocati dall’incuria o dall’ingordigia sono occasioni che le mafie non si sono mai lasciate sfuggire. Quando sentono l’odore dei soldi si avventano. Esattamente vent’anni fa, durante il secondo governo Berlusconi, sembrava che da un momento all’altro la Sicilia non sarebbe stata più un’isola e il famoso Ponte avrebbe finalmente unito le due regioni e pure le due mafie, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Ed ecco che alla Camera di Commercio di Messina si sono all’improvviso registrate centinaia di società, per lo più teste di ponte provenienti dalla provincia di Agrigento o da Palermo e dalla Locride o dalla Piana di Gioia Tauro, tutte accorse sulle due rive dello Stretto per sedersi intorno alla tavola. Imprese di movimento terra, di bitumi e calcestruzzi, di autotrasporti. Andrà a finire così anche con il Pnrr. Ma non ce ne accorgeremo subito, le mafie non si scopriranno fino a quando i riflettori saranno accesi, fino a quando ci sarà un po’ di attenzione sui fondi europei che inonderanno l’Italia. E’ la sintesi questa di un’interessante analisi elaborata dalla Direzione Investigativa Antimafia (la Dia) che spiega un “doppio scenario” su mafie e Covid. Il primo è sull’emergenza degli ultimi due anni. Mafie coinvolte nel “ciclo della sanità” (nella produzione di dispositivi medici come mascherine e respiratori), nello smaltimento di rifiuti speciali e nella sanificazione ambientale, nei servizi funebri e cimiteriali. E poi nell’aiuto offerto agli operatori del turismo e della ristorazione messi in ginocchio dalla pandemia, usura, il tentativo di impossessarsi delle attività, sfruttare le aziende in crisi per il riciclaggio. Con un’Italia divisa in due anche per le mafie. Nelle regioni del nord l’obiettivo sarebbero le imprese in difficoltà per il reimpiego dei capitali illeciti, in quelle del sud l’attacco ai finanziamenti pubblici. Ma è lo scenario di medio e lungo periodo - gli esperti della Dia ipotizzano un’evoluzione temporale dai cinque ai dieci anni - che segnerà la partita decisiva. L’assalto vero scatterà quando le cassaforti si apriranno e magari, allora, ci saremo tutti dimenticati degli allarmi. Il “sistema antimafia” dello stato sarà davvero in grado di respingere quell’assalto, si sta dotando di leggi e strumenti adeguati per fronteggiare le grandi holding del malaffare, nei settori della finanza, dell’energia e dell’interscambio di beni e servizi? O continuerà a dare la caccia soltanto alle facce sconce, agli impresentabili del crimine? Lazio. Affidati a università e associazioni gli sportelli del Garante garantedetenutilazio.it, 4 gennaio 2022 Da quest’anno per la prima volta copriranno tutti gli istituti penitenziari per adulti della regione. Con la determinazione n. 830 del 28 dicembre 2021, il direttore del Servizio Tecnico, organismi di controllo e garanzia del Consiglio regionale del Lazio, Vincenzo Ialongo, ha approvato il verbale della commissione esaminatrice istituita presso la struttura del Garante dei detenuti, per l’esame delle istanze per il rinnovo degli sportelli per i diritti negli istituti penitenziari del Lazio. Il valore complessivo dell’affidamento è di 89.060 euro iva inclusa. Con la stessa determinazione si affidano per un anno gli sportelli ai seguenti soggetti risultati idonei: primo lotto, relativo agli sportelli delle case circondariali di Viterbo e Rieti, all’associazione Arci solidarietà Viterbo Onlus, per un corrispettivo di 17.080 euro iva inclusa; secondo lotto, relativo alle case circondariali di Latina e Velletri, all’università di Roma Tor Vergata, 12.810 euro iva inclusa; terzo lotto, relativo alle case circondariali di Cassino, Paliano e Frosinone, all’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, 14.640 euro iva inclusa; quarto lotto, relativo alla Casa di reclusione e alla Casa circondariale di Civitavecchia, all’associazione Arci solidarietà onlus, 12.810 euro iva inclusa; quinto lotto, Rebibbia femminile, Casa di reclusione Rebibbia e Istituto a custodia attenuata III casa di Rebibbia, all’Università Roma tre, 14.640 euro iva inclusa; sesto lotto, Roma Regina Coeli, Università Roma tre, 17.080 euro iva inclusa. L’affidamento riguarda dunque 14 dei 13 istituti penitenziari per adulti del Lazio, in quanto, a seguito di un precedente avviso e con un apposito protocollo d’intesa, lo sportello per i diritti nella Casa circondariale di Rebibbia era stato affidato all’associazione Antigone onlus a titolo gratuito. Con l’affidamento degli sportelli per Latina e Velletri si completa il quadro degli istituti penitenziari per adulti della regione. La determinazione è stata pubblicata nel sito del Consiglio regionale del Lazio nella sezione Amministrazione trasparente”. Promossi con apposite decisioni del Garante dei detenuti, gli sportelli svolgono un’attività di sostegno ai detenuti che ne fanno richiesta, per la risoluzione delle problematiche individuali, attraverso un’azione di informazione e ausilio nella redazione di istanze a firma propria. Gli sportelli comunicano al Garante i casi in cui sia necessario interloquire con i responsabili delle amministrazioni pubbliche e/o le autorità competenti nella risoluzione delle problematiche rappresentate dal detenuto e devono comunicare tempestivamente al Garante tutte le problematiche di natura generale relative all’istituto di propria competenza emerse nel corso dello svolgimento dell’attività, relazionando trimestralmente, e comunque ogni qualvolta il Garante lo richieda, sullo stato di soddisfazione dei diritti delle persone detenute nell’istituto penitenziario. “Novara diventi il secondo polo regionale per curare la salute mentale dei detenuti” di Marco Benvenuti La Stampa, 4 gennaio 2022 L’appello del Garante Mellano: “Torino non basta, ci sono i fondi e la palazzina nell’ex carcere femminile”. “Novara può diventare la seconda articolazione sanitaria della regione per la salute mentale dei detenuti. Non ci sono numeri elevati, ma almeno chi ha problemi non deve spostarsi verso Torino. È quindi urgente, prima che sia troppo tardi, il recupero e la rifunzionalizzazione della palazzina interna alla cinta muraria “ex-femminile”, struttura chiusa da oltre dieci anni. I soldi ci sono”. L’appello è lanciato dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano in concomitanza con la presentazione del “Sesto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”, sintesi dei principali nodi che riguardano i tredici istituti di pena del territorio. “Se non ora quando?” è l’interrogativo posto da Mellano nei confronti di tutta una serie di situazioni in sospeso. E lo pone sostenendo che “la crisi di questa stagione storica, nell’ambito dell’esecuzione penale in carcere, può rappresentare una vera opportunità di cambiamento radicale: ai fondi propri del Ministero, implementati a fatica in questi ultimi anni, si aggiungono i fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Sono stati previsti 132,9 milioni di euro. I tempi, le modalità, i progetti, l’operatività, la visione saranno gli elementi decisivi affinché interventi indispensabili e urgenti, siano anche utili, efficaci, efficienti”. Ecco perché, nel sottolineare alcune priorità per il 2022, il Garante rilancia il progetto che riguarda la palazzina “ex-femminile” della casa circondariale di via Sforzesca, cui più volte ha fatto riferimento in passato: “Vi si potrebbero collocare di tutti i locali adibiti ai servizi medico-infermieristici e la cosa valorizzerebbe il presidio sanitario regionale interno al carcere, consoliderebbe e razionalizzerebbe l’accesso delle ambulanze, servizio erogato dall’Asl di Novara, e potrebbe rispondere, con sempre maggior efficacia ed efficienza, a una responsabilità propria del servizio sanitario, cogliendo anche la particolare esigenza della casa circondariale connessa alla presenza del circuito detentivo speciale del “41bis”, con la presenza molto particolare di circa 70 ristretti del regime di “carcere duro”“. Ancor più nello specifico, “si potrebbe valutare la possibilità di prevedere spazi da dedicare all’attivazione di una seconda articolazione psichiatrica in carcere, Atsm: le norme nazionali e regionali prevedono una struttura dedicata per ogni regione. Il Piemonte ha individuato un’unica Atsm nella sezione “Sestante” della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino: il Piemonte orientale e il sistema penitenziario piemontese, con un’iniziativa del genere a Novara, potrebbe giovarsi di un servizio specifico dedicato a una tematica sempre più emergente come la gestione del disagio mentale in carcere”. Mellano evidenzia i problemi del sovraffollamento: “A Torino, con una capienza di 1.060 posti, abbiamo poco meno di 1.400 detenuti. Fortunatamente la situazione di Novara, da questo punto di vista, è stabile, non è allarmante. La capienza regolamentare dichiarata è 158 persone, il 23 dicembre erano presenti 173, in calo rispetto all’anno scorso. A preoccupare è la situazione riguardante i direttori: “Pochi scelgono di fermarsi in Piemonte. Penso al carcere di Verbania: in un anno abbiamo cambiato quattro direttori. Questo può influire negativamente sui progetti di socialità: c’è il finanziamento per un campetto da calcetto interno ma la burocrazia, e tutti i cambi ai vertici, finiscono per rallentare la sua realizzazione. Anche a Novara c’è una situazione sospesa: c’è un direttore temporaneo perché momentaneamente quello titolare è a Torino. Speriamo che tutto si risolva in tempi brevi”. Sassari. L’assemblea civica cerca il Garante dei detenuti di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 4 gennaio 2022 Il Consiglio comunale chiamato a scegliere il sostituto di Unida: presentate una decina di candidature. Entro questo mese di gennaio l’assemblea civica sassarese sarà chiamata a eleggere il nuovo Garante per i detenuti del carcere di Bancali, ossia colui che dovrà sostituire Antonello Unida, recentemente “licenziato” nel corso di una irrituale seduta a porte chiuse (anche per la stampa), con voto segreto. Seduta nella quale su 18 presenti (le opposizioni hanno polemicamente abbandonato l’aula) in 17 hanno votato a favore della decisione di revoca, peraltro presa unanimemente dalla conferenza dei capigruppo della scorsa settimana, e uno contro. I termini sono scaduti qualche giorno fa e a Palazzo Ducale sono arrivate una decina di candidature. Il regolamento prevede adesso che il presidente del Consiglio comunale Maurilio Murru convochi la conferenza dei capigruppo, i quali dovranno fare una prima scrematura per scegliere i tre nomi da portare in Consiglio per il voto finale. I tempi saranno brevi: dopo l’Epifania verranno convocati i capigruppo e dopo la scelta dei tre nomi si andrà al voto al primo consiglio comunale utile. Il dichiaratamente “no vax” Unida, sotto accusa dopo la bufera mediatica scatenata da alcuni video postati sulla sua vetrina social - nei quali ribadiva le sue teorie sulla lotta al covid attraverso la vita sana e riservata - e proclamava fiero la sua scelta di non vaccinarsi e di essere anti green pass - avevano scatenato uno tsunami, partito proprio dal carcere di Bancali, la “struttura” che Unida con passione (e più di uno strappo), frequentava, e che non era disposta a dargli accesso senza certificato verde. Da lì l’incontrollabile crescendo, con la palla avvelenata che è arrivata anche, al palazzo di giustizia, oltre ad essere rimbalzata su tutti i media nazionali, dove “il garante no vax” ancora spopola con un video in cui, in costume da bagno è pronto a una delle sue rigeneranti nuotate invernali, sostiene che il Covid si combatte con la respirazione. A “squalificare” Onida anche le ospitate a raffica su radio e tv, dove il garante non ha mollato di un centimetro sulle sue convinzioni. Così dopo una furente dichiarazione del sindaco Campus (“la medicina è dai tempi degli egizi una scienza e non una filosofia”), l’avvio della procedura di revoca. Parma. Il Garante: “Il mio capodanno in carcere insieme ai detenuti” di Michele Ceparano Gazzetta di Parma, 4 gennaio 2022 Roberto Cavalieri, il garante dei detenuti del Comune di Parma, ha passato il Capodanno nel carcere di via Burla. Non una semplice visita, ma più di quattro ore. Mentre dappertutto si festeggiava o, pandemia permettendo, si cercava di farlo, Cavalieri ha scelto di restare in prima linea, in quell’universo carcerario che lui in tutti questi anni - è stato, infatti, nominato dal Comune nel 2014 - ha instancabilmente cercato di far conoscere e aprire alla città. Il garante ha varcato il cancello dell’istituto penitenziario parmigiano che ospita, con l’ala di recente apertura, 690 detenuti, alle 20,30 e si è trattenuto ben oltre la mezzanotte. Ha poi affidato a Facebook alcune sue riflessioni, parole che in tanti hanno letto e commentato. “Come garante dei detenuti - ha spiegato sulla sua pagina - ho voluto dare un segno di vicinanza ai reclusi e anche al personale della polizia penitenziaria in servizio”. Cavalieri è passato davanti a tutte le oltre duecento celle della media sicurezza, dove si trova la maggioranza dei detenuti. “Quelle vuote - elenca - quelle inagibili, quelle occupate. In tante i detenuti già dormivano. In altre si aspettava la mezzanotte per festeggiare. Con chi era sveglio si sono scambiate due chiacchiere, un impegno a fare presto un colloquio, una parola per chi aveva saputo che il padre era morto e per chi si disperava perché non ce la fa più”. Poi le richieste, “tante - prosegue il garante -, di sollecitare il magistrato per avere la libertà anticipata o la fissazione di un’udienza”. Ma c’è anche qualcuno che, “dopo tanti anni che ci conosciamo, mi ha chiesto come stavano i miei figli”. Perché quello del carcere è un mondo reale. A mezzanotte, i botti che provengono della città, infatti, non coprono “le urla e i tagli che si infligge con una lametta un detenuto”. Poi, l’uomo ritorna alla calma mentre Cavalieri gli promette di andarlo a trovare di nuovo “per sostenere il suo trasferimento vicino alla famiglia e ai figli. Non sarà facile - commenta - ottenere quello che desidera nel nuovo anno”. Durante la sua visita Cavalieri incontra dei giovani, “da poco maggiorenni, in via Burla in seguito a reati commessi qui a Parma nell’ambito di quel fenomeno che sono le cosiddette baby gang”. Quello, inoltre, che deve colpire è “la condizione di estremo isolamento e povertà in cui in via Burla vivono tante persone le cui famiglie sono indigenti e non possono neppure permettersi di far loro una visita”. Queste quattro ore e mezza, aggiunge il garante, “per me sono state un’ulteriore occasione per comprendere cos’è il carcere”. Per i detenuti e gli agenti, “sempre disponibili con me, è la normalità”. Per gli altri, invece, il suo auspicio è che possa nascere “la speranza e il desiderio di capire cos’è e di impegnarsi per migliorarlo tutti insieme. Perché il carcere - puntualizza il garante - non deve essere qualcosa di lontano dalla città, ma parte di essa”. Un altro auspicio per questo 2022 riguarda, infine, “la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita dal ministro della Giustizia Marta Cartabia. Speriamo che porti dei risultati”. Ivrea (To). Dossier sul carcere: “Celle fredde e spesso si allagano” di Andrea Scutellà La Sentinella del Canavese, 4 gennaio 2022 Il Garante Bruno Mellano chiede videosorveglianza a 5 anni dagli episodi su cui indaga la procura “Questione ora è urgente”. Dalla videosorveglianza ai serramenti: sono tanti i problemi della prigione di Ivrea che vengono segnalati nel Sesto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, presentato il 29 dicembre a Palazzo Lascaris, sede del consiglio regionale a Torino. Non si tratta di problemi banali. Come ha sottolineato il garante comunale fresco di nomina, Raffaele Orso Giacone, i “serramenti in plexiglas trasmettono tutto il freddo e anche l’acqua possibile. Il responsabile delle manutenzioni, però, mi ha detto che i lavori stanno finalmente per essere appaltati”. Il dossier non parla soltanto di freddo e dispersione energetica, ma anche di “infiltrazioni di pioggia che spesso allagano le celle maggiormente esposte alle intemperie”. C’è poi la questione della videosorveglianza, che è stata rimarcata anche dal garante regionale Bruno Mellano. Il riferimento è alle violenze di cinque anni fa, da cui sono nate le indagini della procura di Ivrea per cui era stata richiesta l’archiviazione, ma che sono state avocate dalla procura di Torino. In questo contesto delicato, spiega Mellano “era stata promessa a tutte le parti, anche alla penitenziaria, copertura completa di videosorveglianza, che garantisce i detenuti, gli agenti e gli operatori su tutto quello che succede all’interno. È stata installata soltanto in due piani su quattro. Io ritengo sia davvero una questione urgente, ripeto, a garanzia di tutti”. Altri due problemi strutturali indicati come prioritari dal garante dei detenuti Raffaele Orso Giacone riguardano “il ripristino del campo sportivo che non può essere usato perché ha il fondo da rifare” e “la mancanza degli spazi occupati per attività ricreative e di socializzazione, per cui potrebbero essere usati gli uffici del sopravvitto”. Un’altra carenza denunciata, invece, è legata alla sanità “totalmente assente, anche se c’è tanta buona volontà da parte degli operatori”. Orso Giacone ha esordito nel suo discorso ricordando di essere subentrato a Paola Perinetto soltanto da un mese e mezzo. “Ha avuto vicende particolari - ha detto - ma il suo lavoro è stato attento e puntuale”. Perinetto fu rimossa dal consiglio comunale dopo il post in cui metteva a confronto il premier Mario Draghi e Cesare Battisti, definendo il primo un noto criminale. La buona notizia, però, arriva dal sovraffollamento. La struttura di corso Vercelli resta al di sopra della capienza regolamentare di 194 persone, ma secondo il dossier dei garanti al 23 dicembre ce ne erano 202. Tante in meno rispetto alle 258 che il carcere aveva raggiunto soltanto qualche anno fa. Porto Azzurro (Li). Non si ferma l’attività dell’associazione “Dialogo” all’interno del carcere iltelegrafolivorno.it, 4 gennaio 2022 Corsi di formazione, colloqui periodici e aiuto alle famiglie. “La situazione sanitaria non può fermare l’azione dei volontari. E all’interno delle normative anti contagio sarà possibile continuare le attività educative e di assistenza”. Con queste parole Licia Baldi, presidente dell’associazione di volontariato carcerario ‘Dialogo’ esprime soddisfazione per l’esito dell’incontro avuto nella casa di reclusione di Porto Azzurro con il direttore Francesco D’Anselmo, le educatrici Giuseppina Canu e Sara Aiosi e la vice comandante della polizia penitenziaria Ruggiero. Nell’occasione i volontari hanno presentato il programma di attività previste sia all’interno che all’esterno del carcere. Una parte di primo piano spetta ai colloqui con i detenuti, a cui si dedicano due persone, in attesa dell’autorizzazione per un terzo volontario. Sul versante formativo l’associazione cerca di offrire occasioni culturali attraverso la scuola, il teatro e la biblioteca. “Continua - spiega Licia Baldi - l’attività di supporto scolastico agli stranieri e agli universitari. L’organizzazione e la fruizione della biblioteca, rivestono grande importanza per la riflessione e la conoscenza. Un contributo alla comunicazione e socializzazione viene dal progetto del teatro. Un altro progetto è “Il verde tra le mura”, con attività teorico-pratiche di orticultura e giardinaggio. Nel 2022 prenderanno il via due nuovi progetti, ‘Scacchi al Forte’ ed un corso di inglese”. E poi l’ospitalità alle famiglie nella casa di via Bechi a Portoferraio. Roma. Domani sant’Egidio porta i doni nelle carceri di Civitavecchia terzobinario.it, 4 gennaio 2022 Mercoledì 5 gennaio le porte dei due Penitenziari di Civitavecchia, il Nuovo Complesso in Via Aurelia Nord e la Casa di Reclusione in via Tarquinia, si apriranno ai volontari della Comunità di Sant’Egidio che porteranno ad ogni detenuto un regalo natalizio ed un messaggio di auguri. Mercoledì mattina i volontari incontreranno i detenuti in diverse sezioni del Nuovo Complesso, tra cui la sezione femminile e l’infermeria dove sono reclusi i detenuti malati, mentre il pomeriggio al “Giuseppe Passerini” di via Tarquinia oltre la distribuzione natalizia ci sarà una tombolata per sottolineare la gioia dello stare insieme in serenità. Questa iniziativa si colloca in un insieme di incontri organizzati dalla Comunità nel periodo natalizio a Civitavecchia: i pranzi di Natale il 25 dicembre nella sala Giovanni Paolo II alla Cattedrale e nella Parrocchia San Giuseppe di Campo dell’Oro, le feste con le distribuzioni di generi alimentari e doni natalizi a tante famiglie italiane e straniere che vivono in condizioni di povertà, ai senza dimora, agli anziani di Vila Santina ed a quelli che vivono a casa in condizioni di fragilità. Nel tempo della pandemia Covid-19 Sant’Egidio non ha dunque rinunciato ad incontrare tante persone povere e marginali, per la strada o chiuse in tante strutture. Certamente lo ha fatto nello stretto rispetto di tutte le norme di prevenzione anti-Covid-19, ma anche pensando che il Natale, festa della famiglia, diventa particolarmente doloroso per chi è lontano dai propri cari, come i detenuti. Proprio quando sembrava che la vita stesse tornando alla normalità, con la ripresa di alcune attività esterne e con il rientro dei volontari, seppure ridotto, ecco che con la nuova ondata di contagi le carceri sono tornate a chiudersi, con il carico di isolamento, solitudine e paura. È per questo che la Comunità di Sant’Egidio ha pensato a un gesto di vicinanza che potesse raggiungere il maggior numero di detenuti possibile, riuscendo ad arrivare in questo Natale 2021 a 12.000 sul totale di 54.000 detenuti in Italia. Più di un detenuto su 5 ha ricevuto un regalo e oltre 3500 un pasto con pietanze tipiche delle festività nelle carceri del Lazio, Abruzzo, Liguria, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria, Campania. Il carcere è luogo di marginalità estrema, ma non può e non deve essere un’isola in cui nessuno entra; è una periferia oltre la periferia, piena di periferici che aspettano di essere visitati e accolti. La Comunità di Sant’Egidio auspica un uso ridotto della carcerazione in favore delle misure alternative, seguendo l’orientamento degli ultimi anni che ha visto crescere il numero di coloro che espiano la pena con misure alternative al carcere. A Civitavecchia, per esempio, la Comunità gestisce una casa che accoglie i detenuti nel loro ultimo periodo di detenzione in misura alternativa. La Comunità di Sant’Egidio è impegnata inoltre nell’accoglienza e nel sostegno alle famiglie, perché ad ognuno possa essere data una nuova possibilità per superare gli errori ed avere una speranza. Si tratta quindi di un impegno culturale di vasto respiro, che indirizzi alla piena re-integrazione chi ha fatto esperienza del carcere, in una società aperta. Asti. “Gazzetta Dentro”, la redazione nel carcere in tempi di pandemia di Domenico Massano Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2022 Anche nel 2021, nonostante la pandemia, all’interno della Casa di Reclusione ad Alta Sicurezza di Asti la Gazzetta Dentro è riuscita a portare avanti le sue pubblicazioni (con l’ultima ancora in bilico a causa della nuova diffusione dei contagi e la conseguente chiusura delle attività). Da alcuni anni mi occupo, come volontario, di questo particolare progetto editoriale finalizzato a dar voce alle persone detenute e realizzato nell’ambito delle attività dell’area trattamentale del carcere, grazie al contributo dell’Associazione Effatà. Si tratta di un periodico frutto del lavoro di una Redazione cui partecipano persone ristrette e non (siamo circa una decina), distribuito principalmente all’interno della casa di Reclusione, ma la cui valenza comunicativa, grazie alla pubblicazione settimanale di alcuni articoli sulla Gazzetta d’Asti, si spera possa contribuire a creare un ponte fra carcere e comunità locale, due luoghi che, pur trovandosi nello stesso territorio, sembrano lontanissimi e sconosciuti. Sebbene solo negli ultimi mesi del 2021 si sia potuti rientrare fisicamente nel carcere e riprendere le attività in presenza (anche se per una breve finestra temporale prima delle nuove chiusure), il percorso non si era fermato proseguendo a distanza con diverse modalità (on-line e telefoniche), dimostrando grandi capacità di resilienza e testimoniando l’importante investimento umano che accompagna questo impegno, come più volte rimandato nel corso delle riunioni di redazione o in articoli quali quello scritto da Guido: “sono circa due anni che lavoro presso la redazione “Gazzetta Dentro”, ciò mi ha aiutato tantissimo, … non solo scrivo articoli, ma costruisco anche lo stesso giornalino per poi distribuirlo nelle varie sezioni. Tutto questo ha fatto sì che io ritrovassi quella fiducia e autostima in me stesso che mi è mancata per tanti lunghissimi anni”. La testimonianza prosegue affiancando a questa dimensione più personale, una più specifica: “Un giornale qui dentro è il mezzo più efficace per raccogliere le nostre storie e i nostri pensieri per poi riproporli a questa società che spesso non sa, oppure non vuole sapere, che anche noi abbiamo il diritto alla dignità e al rispetto umano”. Il fatto che il progetto della Gazzetta Dentro non si rivolga solo all’interno del carcere ma trovi settimanalmente uno spazio esterno su un giornale locale, garantisce un’opportunità di grande valore conoscitivo e comunicativo non solo per chi lavora nella redazione, ma anche per l’intera comunità: “la pubblicazione di alcuni articoli sul quotidiano cittadino “Gazzetta d’Asti” ci permette di far comprendere alla società che qui dentro esistono delle “persone” non reati che camminano. In carcere ciò che maggiormente colpisce è la necessità manifestata da persone recluse come me di raccontarsi, di ricostruire la propria storia attraverso i propri vissuti, … Diventa dunque in questa fase fondamentale il processo d’ascolto che voi (la società) attuate nei nostri confronti”. Nel corso del 2021 le parole hanno continuato ad attraversare le sbarre offrendo, tra i tanti argomenti trattati, anche uno sguardo “da dentro” sull’impatto della pandemia (tema nuovamente in primo piano vista la nuova ondata globale di contagi), che si può provare a riproporre, sinteticamente, attraverso alcuni brani degli articoli della “Gazzetta Dentro”, fin dalla prima diffusione del virus all’interno del carcere descritta da Amedeo: “A metà di Marzo scoppia il caos dopo che un detenuto avverte dei dolori febbrili e, sottoposto al test rapido, viene trovato positivo. … È sembrato di vivere in un campo di battaglia, che poi in fondo un po’ lo è stato. ... Panico assoluto. ... Cercavamo uno nello sguardo dell’altro un’espressione di conforto per sostenerci, lo stesso cercavano i nostri cari nelle video chiamate che pensavano che per non farli preoccupare nascondessimo la verità”. Il periodo è stato particolarmente difficile soprattutto per chi, come Gerardo, era stato contagiato: “La solitudine, quando l’ho incontrata, anche per me è stata una prova difficile e me ne sono reso particolarmente conto quando sono stato colpito da questa brutta malattia denominata Covid-19”. Nella gestione della pandemia una criticità in particolare, peraltro ampiamente prevedibile, emergeva chiaramente nella riflessione di Salvatore sulla situazione nelle carceri italiane “in cui l’endemica condizione di sovraffollamento incide significativamente su tutto, ivi compreso il rispetto-non rispetto delle norme “anticovid”, tra le tante la raccomandata distanza di sicurezza”. Riflessioni amare ma che, in relazione alla pandemia, rispecchiano non solo la realtà della Casa di Reclusione di Asti, in cui sono detenute circa 300 persone a fronte di una capienza regolamentare di 205 posti, ma anche quella complessiva degli istituti penitenziari italiani in cui un diffuso e cronico stato di sovraffollamento ha inevitabilmente avuto delle gravi conseguenze sull’intera comunità carceraria sia limitando o rendendo impossibile l’adozione di adeguate misure preventive, sia amplificando e acuendo problematiche preesistenti. Sembra evidente che senza interventi strutturali (che non sono la costruzione di ulteriori penitenziari) e senza una nuova cultura della pena, difficilmente la condizione attuale potrà evolvere positivamente, come evidenziava Michele: “Sembra di essere rimasti ancorati alla nostra fatiscente cultura della pena. Non è necessario costruire nuove strutture carcerarie (aumentare la capienza penitenziaria significherebbe, infatti, soltanto favorire un maggior ricorso alla carcerazione). Le innovazioni da introdurre nel sistema di detenzione italiano (in coerenza con l’art. 27 della Costituzione) sono altre: una diversa cultura della pena (che non è solo detentiva), idee per la riabilitazione (e non per la segregazione), spazi adeguati per la dignità umana”. Voltaire riteneva che il grado di civiltà di un Paese si misurasse osservando la condizione delle sue carceri. In questa prospettiva, seppur sommessamente e con inevitabili criticità e ambiguità, anche nel 2021 il percorso condiviso con la “Gazzetta Dentro” ha rappresentato un piccolo spiraglio da cui provare a guardare in modo diverso non solo alla realtà carceraria ma alla società di cui tutti siamo parte. È stato un percorso fatto di parole e riflessioni che hanno continuato ad attraversare le sbarre per contribuire a costruire ponti, a tessere tenui fili relazionali e comunicativi tra persone e realtà differenti e, spesso, lontane ma appartenenti a un’unica comunità di vita. Un percorso che cercherà di proseguire anche in questo nuovo anno, nella speranza di tener viva quella ineludibile “dialettica tra noi e gli altri [in cui] si gioca la complessa dinamica che lega identità e convivenza”. (Nel 2021 hanno partecipato alla Redazione della Gazzetta Dentro: Gerardo, Gennaro, Ettore, Guido, Beppe, Domenico, Marinella, Amedeo, Salvatore, Michele). Trani. Convegno nazionale su “La Riforma Cartabia della Giustizia” quotidianoitaliano.com, 4 gennaio 2022 Venerdì 14 gennaio 2022, con inizio alle ore 8.30, si svolgerà, presso la Biblioteca Storica Ordine Avvocati Trani, il Convegno Nazionale sul tema “La Riforma Cartabia della Giustizia. La Giurisdizione come metodo”. L’evento è Organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trani e dal Dipartimento di Economia, Management e Diritto dell’Impresa - Uniba, in occasione della presentazione del primo numero della Rivista semestrale Unità e Pluralità del Sapere giuridico - Casa Editrice NelDiritto. Comitato organizzativo: Prof.ssa Francesca Jole Garofoli, Avv. Giovanni Pansini, Avv. Michele Curtotti, Prof. Fabrizio Pompilio, Avv. Raffaele Carfora, Dott. Giulio Marino, Avv. Pia Panessa. Unità e Pluralità del sapere giuridico è un archetipo nato dalle riflessioni scaturite, nel maggio 2004, in un Convegno a Bari su “L’unità del sapere giuridico tra diritto penale e processo”. Di qui, l’idea del Prof. Avv. Vincenzo Garofoli di dar vita ai Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza di Bari e, oggi, alla Rivista semestrale Unità e Pluralità del Sapere giuridico - Casa Editrice Nel Diritto che, si prefigge l’obiettivo di un recupero dei valori della giurisdizione attraverso i contributi scientifici di volta in volta pubblicati come costante punto di riferimento della ricerca di un contesto unitario del sapere, entro il quale il diritto possa collocarsi come quell’insieme di idee e principi che si evolve e cresce parallelamente all’animus delle discipline giuridiche. Nella nuova Rivista semestrale intitolata, appunto, “Unità e Pluralità del sapere giuridico” il concetto di Unità “riflette la più originaria unità: l’unità dell’essere e, quindi, dell’ente e degli enti”. In tal senso, in dottrina, “l’unità del sapere è tema fondamentale e fondante del sapere filosofico. Se il pensiero pensa l’essere, e l’unità è dell’essere o, ancora, l’essere è l’unità o l’uno, il sapere, la scienza non possono che tendere all’unità”. La considerazione di partenza che si svilupperà in seguito nella rivista semestrale de qua, è rappresentata dalla inadeguatezza dell’idea classica del diritto affermatasi negli ultimi decenni, intesa come scienza divisa in settori, ognuno di essi “espressione dell’autoreferenzialità proprio di un sistema autodefinito”. Occorre, diversamente, un approccio sinergico capace di unire il sapere giuridico sotto l’unica prerogativa rappresentata dalla necessità di dare una risposta adeguata ai problemi della modernità, in una sorta di ideale parallelismo con il processo di globalizzazione nel mondo economico. Certo non è concepibile un’idea di sistema giuridico statico quasi “stagnante”, in cui le norme restano sempre uguali a sé stesse, perché questa sarebbe contraria alla logica di Unità e Pluralità del sapere giuridico come strumento più idoneo per affrontare la sfida della modernità. Ciò che, invece, è opportuno evitare è l’idea di giurisdizione come giustizia del caso singolo ove l’intervento del legislatore, preordinato ad affrontare la contingenza con la soluzione di casi pratici operando scelte di opportunità politica, suscita non poche perplessità. Il moltiplicarsi dei “casi singoli” finisce per creare una serie variegata - spesso eterogenea - di discipline per così dire “speciali” che fanno di un istituto giuridico (se proprio non si può fare a meno di questa categoria concettuale) una sorta di “prontuario” che male si concilia con l’idea illuministica di codice dotato di autoreferenzialità. Il metodo della giurisdizione, invece, impone l’adozione di regole chiare che, in stretta aderenza al principio ispiratore dell’ordinamento giuridico, risulta di gran lunga il più idoneo ad offrire una idea di omogeneità e di giustizia capace di andare al di là del “caso singolo” e della situazione contingente, che inevitabilmente portano a “sminuzzare” il sapere giuridico. Si deve, in sostanza, rifuggire da una logica atomistica in cui le singole discipline giuridiche siano viste come microcosmi autoreferenziali, per abbracciare una idea di sintesi in cui gli studiosi delle materie giuridiche dialoghino nell’ottica dell’Unità e Pluralità del sapere giuridico. Si è voluto sancire, così, un carattere immanente all’intero ordinamento giuridico che esprime, ad ogni latitudine, il grado di civiltà raggiunto da una comunità giuridicamente organizzata. La quadratura del cerchio, quindi, non può che essere nell’Unità e Pluralità del sapere giuridico in simbiosi con il metodo della giurisdizione, fondamentali strumenti per scongiurare il rischio che la decisione del giudice diventi sempre più un “atto di fede”, con conseguenze drammatiche sulla tutela delle libertà fondamentali dell’uomo. La sfida alla modernità è, dunque, “lanciata”, ma per poterla sostenere si dovrà essere, anche, capaci di riunire attorno a un tavolo civilisti, penalisti, processualisti, filosofi, tributaristi e studiosi di altre discipline, superando le differenze, per i problemi reali della società. Del resto, l’impegno basilare consiste nel determinare il metodo della giurisdizione applicata al processo penale, a quello tributario, a quello costituzionale, a quello amministrativo, insomma, a tutti gli altri processi dell’ordinamento: metodo che si realizza nella sua natura di giudizio collettivo al quale partecipano, giudicando su loro stesse, le medesime parti che devono essere giudicate. In ciò si ravvisa la natura sovrana del metodo succitato ed il perché la Giurisdizione è l’opposto della sopraffazione. È per tali motivi che, in occasione della presentazione del primo numero della Rivista, il tema scelto per il convegno: “La Riforma Cartabia della Giustizia. La Giurisdizione come metodo”, impegnerà i relatori, nelle tre sessioni previste, in un confronto dialettico sulle eventuali divergenze tra risultati pretesi dall’Europa e gli effetti che la Riforma in atto produrrà nel nostro sistema processuale. Probabilmente, la Riforma sarà un’occasione mancata se non dovesse prevalere quello spirito di unità e pluralità. In altri termini occorrerà decidere quale tipo di processo si vorrà consegnare alle future generazioni e, soprattutto, chiedersi se siamo ancora capaci di guardare ai metavalori di ogni individuo oppure, “occorre che tutto cambi affinché nulla cambi”? Questo è lo scenario in cui si articolerà la giornata di studio che vedrà la partecipazione: negli indirizzi di saluto del Rettore Uniba - Presidente Ordine Avvocati Trani - Direttore DEMDI - Presidente del Tribunale di Trani - Procuratore della Repubblica di Trani - Consiglio Nazionale Forense - Da Gramsci a Fattah: ancora oggi troppa letteratura nasce in carcere di Paola Caridi L’Espresso, 4 gennaio 2022 Cinque anni al blogger di piazza Tahrir. E lunghe persecuzioni per Zehra Dogan e Ahmet Altan in Turchia, o per l’iraniana Gholian. Come in Italia sotto il fascismo o nella Polonia comunista, in Medio Oriente essere scrittori è un delitto. Silenzio dalle prigioni. Nessuna parola deve alzarsi in volo e superare le alte mura delle carceri. Anche se dentro - dentro le celle, nelle stanze degli interrogatori e delle torture, nelle limitate ore d’aria - le voci si levano alte. Basta che non si scriva e non si legga. Nessuna parola nero su bianco. Nell’era del digitale, del consumo compulsivo di dati, è ancora la carta a far paura alle dittature. Carta e penna sono vietate, o soggette a estenuante negoziato. Eppure, carta e penna sono gli oggetti necessari per scrivere alle famiglie. Ai propri cari. Perché le visite nei parlatoi sono centellinate, proibite nella maggior parte dei casi. E poi c’è la carta dei libri, l’inchiostro delle riviste. Perché anche leggere è considerato un pericolo. Parliamo dell’Egitto di oggi. Di Iran e Turchia. Potremmo parlare dell’Egitto di ieri, della Nigeria degli anni Sessanta, della Polonia degli anni Ottanta. O dell’Italia del fascismo e del suo prigioniero più famoso, Antonio Gramsci. Proprio Gramsci è divenuto, nel corso dei decenni, un simbolo, oltreconfine. Nelle università americane e britanniche. Nei circoli intellettuali di tutto il mondo. E anche tra gli arabi. Il Gramsci delle lettere e dei quaderni dal carcere non è solo molto tradotto: è figura di riferimento per intere generazioni, specie quelle più recenti. Com’è riferimento per Alaa Abd-el Fattah, il prigioniero più noto tra i circa sessantamila detenuti di coscienza che affollano all’inverosimile le carceri egiziane. Alaa Abd-el Fattah, o @alaa, com’è conosciuto nella realtà virtuale, non è solo la figura iconica della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. È una delle menti politiche più lucide che è possibile trovare in tutta la regione araba, e che occorre leggere - soprattutto noi italiani - per comprendere cos’è veramente successo e cosa sta accadendo in Egitto. Sette degli ultimi anni @alaa li ha passati nel carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. È ancora lì dentro, dopo l’ultimo biennio in detenzione cautelare. E resterà in carcere per altri cinque anni: così ha stabilito il tribunale del Cairo il 20 dicembre scorso introducendo nuove accuse. L’ennesima sentenza contro l’autonomia di pensiero e la democrazia, per un uomo che è stato limitato nella sua libertà da tutti coloro che si sono succeduti al potere, a cominciare da Hosni Mubarak. Gramsci, dunque. Lo stesso Gramsci a cui per parecchio tempo fu negata carta e penna “dato che passo per essere un terribile individuo, capace di mettere il fuoco ai quattro angoli del paese o giú di lí”, scriveva nel 1928 in una delle sue lettere contingentate. @alaa lo cita poco meno di un secolo dopo, in una lettera del 2019, uno degli scritti contenuti in “Non siete stati ancora sconfitti”, pubblicato da hopefulmonster editore (in contemporanea con l’edizione inglese di Fitzcarraldo), risultato di un sorprendente lavoro collettivo di raccolta, selezione e traduzione delle sue parole. “Non riesco davvero a sforzare la mia immaginazione con sogni post-rilascio ma, sai, cerco di trovare una ragione per essere un minimo ottimista di fronte all’ondata di destra che sta sommergendo il pianeta, e i cui effetti prima o poi arriveranno anche qui”. Scrive: “Certo, mi sforzo di applicare la teoria di Gramsci riguardo “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”, ma qui c’è una tale negazione della volontà che devo fare esercizio di ottimismo della ragione prima di incasinare i miei compagni”. Tutti i sistemi autoritari sono accomunati dall’incapacità di gestire il proprio rapporto con l’atto del pensare. L’esercizio del pensiero, del dubbio, della confutazione è per questi sistemi insopportabile: è quella forza dei fragili che impone alla tirannia di togliere dalla vista della società i corpi dei dissidenti e rinchiuderli dentro le carceri, perché restino invisibili. Non potendo più disporre di un corpo, di un corpo fisico, il prigioniero dà alle parole - unica parte di sé che prova a far uscire dalle mura del carcere - un volume nel mondo. Passa dal corpo al corpus letterario. Carta e penna erano sempre nelle mani di Nawal al Sa’dawi, come un simulacro. Li teneva stretti anche in tutti gli interventi pubblici e le interviste che ha rilasciato nella sua vita, sino alla morte al Cairo nel 2021 a un passo dai 90 anni. Carta e penna che vengono negate all’icona del femminismo egiziano quando, alla fine dell’estate del 1981, viene arrestata assieme a un migliaio di oppositori alla politica dell’allora presidente Anwar al Sadat. È Nawal al Sa’dawi stessa a raccontarlo, nelle “Memorie dalla prigione” che pubblica dopo il suo rilascio. Ogni giorno il secondino entrava nella cella della prigione di al Qanater, a nord del Cairo, in cui era rinchiusa con altre detenute politiche, e la minacciava. “Le memorie della prigione” sono state scritte su un rotolo di carta igienica con una matita da trucco. Zehra Dogan, artista curda costretta all’esilio dalla Turchia dopo una detenzione durissima, ha impresso invece i suoi disegni sul retro delle lettere che le inviava un’amica. La potenza dei disegni di Zehra Dogan, poi costretta all’esilio dopo una detenzione durissima, non ci trascina solo all’interno dell’inferno della “Prigione n. 5”, pubblicato da Becco Giallo. Interroga su un mondo invisibile in cui “tutto il male del mondo” si concentra sui corpi inermi dei prigionieri. Così è anche per i racconti dell’iraniana Sepideh Gholian, “colpevole” dei resoconti giornalistici sulle proteste dei lavoratori della più grande raffineria di zucchero del Paese, quella di Haft Tappeh. Arrestata con il leader sindacale Esmail Bakhshi, Gholian (nata nel 1994) ha avuto un breve rilascio su cauzione per essere di nuovo arrestata e costretta a peregrinare in diverse carceri dell’Iran. I suoi “Diari da carcere” sono pubblicati grazie all’impegno di Gaspari, libreria e casa editrice di Udine, con l’aiuto dell’associazione “Librerie in Comune” e del festival vicino/lontano. La “scrittura dalle prigioni” egiziane, iraniane, turche arriva dunque, in anni recenti, ai lettori italiani attraverso un numero sorprendente di libri che compongono quasi un canone. La lista è lunghissima, spazia dai memoriali ai testi di riflessione politica e teorica, dalla narrativa alla poesia: Gramsci e Rosa Luxemburg, Nelson Mandela, Wole Soyinka, l’indonesiano Pramoedya Ananta Toer, i russi della letteratura concentrazionaria. I dissidenti dell’Europa orientale, prima del crollo del Muro. Vaclav Havel e la sua riflessione sui “senzapotere”. Adam Michnik, arrestato nel dicembre 1981 assieme a migliaia di esponenti del sindacato Solidarno??. “Un prigioniero conta tutto, tranne il tempo. Un prigioniero scopre il tempo”, dice Ahmet Altan, uno dei più importanti scrittori turchi contemporanei, nel suo diario dal carcere, “Non rivedrò più il mondo” (Solferino). E Alaa Abd-el Fattah gli fa eco: “Dicono che siamo in prigione perché non siamo stati in grado di decidere. La portata dei nostri sogni era troppo grande. Come se questo fosse un crimine”. Il Terzo settore ringrazia per le belle parole: “Ma nel 2022 dalla politica vogliamo fatti” di Vanessa Pallucchi* Corriere della Sera, 4 gennaio 2022 Un mondo fatto da 350mila associazioni ha chiuso il 2021 con gli elogi del premier Draghi e del presidente Mattarella: “Ma la legge di bilancio 2022 va in direzione opposta e non solo per l’obbligo Iva, sospeso ma non cancellato, bensì per tutti gli altri emendamenti bocciati. Ora serve davvero un cambio di passo, le parole non bastano più”. In un anno, il 2021, nel quale l’onda lunga della pandemia si è abbattuta su tante iniziative legate alla socialità, la cultura, l’educazione, il Terzo Settore ha continuato a rappresentare un importante fattore di tenuta sociale del Paese con l’attività delle sue 350mila associazioni. Per questo motivo il nostro mondo ha ricevuto più volte parole di apprezzamento da molti esponenti politici, compreso il presidente del Consiglio Mario Draghi. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, ha elogiato l’opera di chi si impegna nel volontariato. Tuttavia, a fronte di questi elogi, nella realtà delle scelte politiche non vediamo ancora quel grande cambio di passo, quell’investimento deciso a sostegno del Terzo Settore, che noi chiediamo da tempo. Anzi, la legge di bilancio 2022 ci pare vada in direzione opposta. Non soltanto, infatti, ha inserito l’obbligo Iva, fortunatamente sospeso per due anni, per le associazioni che non svolgono attività commerciale: soprattutto, non contiene alcuni importanti provvedimenti attesi da tempo da tutto il Terzo Settore. Mi riferisco al sostegno straordinario per le associazioni di volontariato e quelle di promozione sociale, alla mancata esenzione dall’Irap, e alle modifiche alle norme fiscali per gli enti associativi, senza le quali migliaia di Enti del Terzo Settore rimangono in una condizione di incertezza proprio nel momento in cui si apre il percorso di adesione al nuovo registro unico Runts. Gli emendamenti che contenevano tali provvedimenti sono stati tutti respinti dal Governo. Noi ci aspettiamo che quel cambio di passo avvenga nel 2022: questo è il nostro appello al premier, affinché convochi al più presto la cabina di regia interministeriale sul Terzo settore, prevista dalla legge. I punti fondamentali da affrontare sono tre: attuare compiutamente la Riforma del Terzo settore, dunque definire anche un assetto fiscale funzionale allo sviluppo degli Ets; riconoscere nel Pnrr, dopo l’evidente disattenzione che abbiamo visto nei primi bandi, il ruolo del Terzo Settore e delle sue competenze nel campo dell’innovazione sociale; investire di più sull’economia sociale, che può rappresentare uno straordinario volano di sviluppo e di innovazione per il nostro paese. Nel futuro, prossimo e non, ci sarà sempre più bisogno di solidarietà, di contrasto alle disuguaglianze e alle povertà vecchie e nuove: ed è proprio il terreno in cui opera il Terzo Settore, che agisce da sempre nell’aiuto alle persone più fragili, per lo sviluppo delle nostre comunità. In questa sfida noi ci stiamo: ma chiediamo di uscire dalla retorica per passare a fatti concreti. *Portavoce Forum Terzo settore Dicono: “Costituzione inattuale”. Ma è solo l’alibi per poterla tradire di Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 4 gennaio 2022 Riportiamo di seguito la prima parte della relazione svolta da Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, al 70° Congresso di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani dal titolo “Gli ultimi. La tutela giuridica dei soggetti deboli”. Il Congresso si è tenuto a Roma lo scorso 9 dicembre. Nel pronunciare il suo discorso, Flick ha intessuto un dialogo continuo con l’altro prestigiosissimo relatore intervenuto, il giudice costituzionale Giuliano Amato. Sul Dubbio di domani pubblicheremo la seconda parte della relazione. Non ho molto da dire se non ricordare alcuni slogan del momento in cui viviamo, uno dei quali ad esempio è lo slogan “usa e getta”. Il mercato, il profitto, un qualcosa che è molto lontano da ciò che ci ha spiegato nella sua relazione Giuliano Amato e che tutti condividiamo. La pandemia è stato uno stress-test sulla convivenza che ha aperto molti interrogativi e molte perplessità. Non ha causato, perché c’erano già, ma ha rafforzato ed enfatizzato una serie di diseguaglianze che sono l’esatto contrario di ciò che ci dicono il Vangelo e la Costituzione italiana.Una delle prime domande che mi pongo in relazione al tema del congresso è sulla bocca di tutti. Non posso pormela per il Vangelo perché sono convinto che certamente è ancora attuale; posso e devo pormela invece per la Costituzione: è ancora attuale? Rispetto all’età di quest’ultima, ai suoi problemi, alle sue lacune, a ciò che manca in essa, molto è stato detto dal professor Amato. La sua elencazione dei diritti dei deboli dimostra però che la Costituzione è fortemente presente in questo campo, alla luce della serie di principi e di articoli che sono stati richiamati nella sua relazione. Il problema allora non è se la Costituzione è attuale; è che la Costituzione non è attuata. Una cosa molto diversa e forse più preoccupante. Secondo la saggezza del Libro dei libri, della Bibbia, della Genesi, ci stiamo avviando al secondo diluvio universale. Ne abbiamo purtroppo sottomano avvisaglie molto forti; accentuerà ancora di più le diseguaglianze che già oggi ci sono perché il nuovo diluvio universale nasce dal problema della lotta tra l’uomo e l’ambiente. Abbiamo cominciato ad avvertirne il pericolo per la nostra sopravvivenza e la paura che ci potrà essere per il futuro. Non abbiamo però avvertito un altro rischio altrettanto forte e altrettanto grave; per continuare ad usare i riferimenti della Bibbia è il problema della torre di Babele. Per valutare l’entità di quel rischio è sufficiente ricordare il percorso rapido, sconvolgente e incredibile, dalla informazione all’informatica; o tener presente il fatto che mentre prima era il diritto a creare il linguaggio, ora al contrario è il nuovo linguaggio digitale a creare il diritto; o valutare la frattura che si sta creando con il digital divide. Credo e temo che ci stiamo avviando verso una nuova torre di Babele, attraverso una situazione in cui (più prima che dopo) il linguaggio criptico e per pochi eletti della digitalizzazione inevitabile - pur con tutti i vantaggi enormi che essa ci ha dato nel presente e ci ha promesso per il futuro - finirà per riproporci la stessa situazione che capitò ai nostri progenitori che nella piana di Ur stavano realizzando una torre destinata ad arrivare fino al cielo: la torre di Babele. Ad essa seguì per volontà del Padreterno la incomunicabilità fra gli uomini e la loro diaspora. Intravedo questo negli orientamenti che mi sembra di cogliere nell’evoluzione dei social e dei padroni del web - un tempo si diceva i “baroni ladri”, con riferimento ai protagonisti delle ferrovie che unirono le due parti occidentale ed orientale degli Stati Uniti - e nella prospettiva di nuove rotte e nuovi traguardi cui essi stanno già pensando. C’è chi pensa - non ho capito se per sfuggire ad un eventuale default - alla creazione di un mondo completamente virtuale, in cui appartarsi e vivere in una bolla di illusioni grazie agli occhiali miracolosi del “metaverso”. C’è chi pensa alla realizzazione di una nuova umanità planetaria lasciando questa terra che dovrebbe rimanere solo più un deposito di rifiuti derivanti dal principio “usa e getta”. C’è chi pensa al post-umano, cioè ad un dialogo tra l’uomo e la macchina in cui non sarà più l’uomo a governare la macchina, ma rischiamo che sia la macchina con la sua capacità a governare l’uomo. È una provocazione vivere in un mondo nel quale Facebook mi dice chi sono, Google mi dice cosa penso, Amazon mi dice cosa voglio. È una provocazione preoccupante quella di chi propone di dare un premio Nobel a un calcolatore di recentissima progettazione, di dimensioni di capacità di calcolo immani. È un’altra provocazione quella della progettazione di un calcolatore la cui potenza di calcolo è inimmaginabile per noi. È una provocazione quella di chi - attraverso un approfondimento ulteriore dello studio di quelle che un tempo erano considerate le neuroscienze - immagina già un dialogo tra l’uomo e la macchina che consenta di cambiare dei pezzi di uomo con i pezzi della macchina, a cominciare dalla telecamera al posto dell’occhio. Si pensa addirittura di arrivare ad un dialogo uomo/macchina che non richiede più il ricorso al linguaggio; basterà lo sguardo, basterà il battito di ciglia. Temo che tutto questo - se non ci riflettiamo e se non riusciamo a elaborare delle regole efficaci ed adeguate per raggiungere un equilibrio tra scienza ed etica, tra strumenti e valori, tra diritti e morale - possa diventare un problema molto forte per il futuro dell’umanità e della convivenza. Ho recentemente tentato di compiere una verifica per valutare se la Costituzione non è più attuale o più semplicemente non è attuata. Una verifica sul concetto di dignità, nella quale condivido pienamente ciò che hanno detto il professor Amato nella sua relazione e la Corte costituzionale più volte. Sono sempre più convinto che l’accusa di inattualità cerchi di nascondere l’alibi della mancata attuazione della Costituzione da parte di tutti noi, politici, economisti, uomini di cultura e giuristi in prima fila.È un discorso che preoccupa perché basta pensare ad esempio allo sviluppo abnorme della città. Amato parlava dell’incendio nelle baracche. Due o tre anni fa è bruciata la guglia di Notre Dame: una vicenda triste; però per fortuna era una guglia dell’ottocento, si è potuto ricostruirla. Il mondo intero si è appassionato, ha promesso soldi che poi non ha mai dato (ma questo è un altro discorso) e ne hanno parlato tutti i media. Negli stessi giorni è bruciata una baraccopoli vicino a Foggia. Una cronaca drammatica che si ripropone quotidianamente come quella della morte nel cimitero del Mediterraneo. La mattina dopo spazzando le ceneri si sono trovati i resti di un migrante clandestino raccoglitore di pomodori. Nessuno ne ha parlato. Certo non si conosceva quell’episodio se non a livello locale, ma viviamo in un mondo così attento alle chat, al pettegolezzo, alle discussioni profonde sui vax e sui no-vax, che però non coglie più realtà come quelle di chi muore mentre raccoglie i pomodori; o di chi muore nelle baracche cercando di riscaldarsi la notte dopo aver raccolto i pomodori; o di chi muore annegato mentre cerca di raggiungere e conquistare il posto di raccoglitore dei pomodori. C’è qualcosa che non funziona in questo sistema. La città è l’emblema paradigmatico della meraviglia e della tecnologia, ma anche dei rischi della tecnologia. Ci stiamo illudendo che la tecnologia sia la bacchetta magica, che l’algoritmo e la digitalizzazione possano risolvere tutti i problemi della città con la smart city o la città “in un quarto d’ora”. In realtà però rimangono aperti tutti i problemi di una convivenza nella megalopoli urbana. In essa, la cosiddetta “città giusta” è rimasta un’utopia; le città adesso sono ridotte a ghetti dei ricchi che si fronteggiano con i ghetti dei poveri. La città non è più quella indicata dalla Costituzione come formazione sociale ove si svolge la personalità dell’uomo attraverso il rispetto dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili. È piuttosto una realtà di convivenza in nome del commercio, del profitto e/o della sicurezza (spesso illusoria); o di convivenza in nome del potere, della burocrazia, del conflitto di competenze. Poi arriva la pandemia, con la sua falce che porta via tutti. Solo adesso cominciamo - questa mi pare una speranza per il futuro - a renderci conto che non usciremo dalla pandemia se non “salviamo l’Africa”. Perché salvare l’Africa? Perché altrimenti è perfettamente inutile continuare a produrre vaccini che proteggano le nostre fortezze del benessere; il virus ha trovato la strada per diventare un fenomeno globale che ci coinvolge tutti.Qualche volta viene da pensare ai fuggiaschi ebrei dall’Egitto quando, dopo aver attraversato il Mar Rosso, stavano percorrendo con fatica, con noia, con ansia il deserto per arrivare alla Terra promessa. Non ne potevano più e approfittarono dell’assenza di Mosè, che era salito sul monte Sinai a prendere le tavole della legge, per costruirsi un vitello d’oro. Noi adesso al vitello d’oro stiamo sostituendo l’algoritmo d’oro: cioè il modo di affrontare i problemi della vita solo ed esclusivamente attraverso una logica di calcolo. È un calcolo meraviglioso, quasi infinito nelle sue potenzialità; però la realtà rimane in tutta la sua drammaticità; è come la storia del mitico re Mida che era felice di trasformare in oro quello che toccava fino a quando si accorse (quasi subito) che non poteva più portare il cibo alla bocca. Tanto è vero che - arrivando alla conclusione di un percorso in cui mi sono occupato soprattutto di diritto - vedo con qualche perplessità e preoccupazione il valore mitico attribuito alla digitalizzazione nella progettazione del piano del recovering in vista degli aiuti finanziari europei. Ci illudiamo veramente che le risorse della digitalizzazione - che pure è assolutamente necessaria - saranno sufficienti a risolvere i problemi della giustizia? Oppure arriveremo prima o dopo ad una giustizia di tipo predittivo che ha molto poco di predittivo perché è una giustizia sistemata soltanto con la selezione dei precedenti e con la profilazione per impostare l’algoritmo relativo ai suoi destinatari: una giustizia gestita in realtà prima da praticanti avventizi nell’ufficio del giudice e destinata poi inevitabilmente a risolversi in una giustizia robotica? Questo mi preoccupa. Ecco perché considero lo stress-test della pandemia estremamente importante e perché vorrei sottolineare nella riflessione del collega Amato un altro elemento: l’insegnamento proposto dall’articolo 9 della Costituzione. Intendo riferirmi alla riscoperta di uno dei principi fondamentali di essa. L’articolo 9 - nel suo riferimento alla tutela del patrimonio storico-artistico da un lato e alla tutela del paesaggio dall’altro lato, non più inteso in senso solo estetico ma in senso globale come ambiente - si occupa del rapporto tra l’uomo e la natura. Questo rapporto tra passato e futuro è mediato e comprensibile soltanto attraverso la cultura. Il primo comma dell’articolo 9 richiama lo sviluppo della cultura; il secondo comma ammonisce di pensare al passato quando si deve progettare il futuro, perché senza passato non ci può essere futuro. Credo che questo avvertimento sia importante nel momento in cui - riprendendo quello che ha detto Amato - si colleghino il Vangelo e il magistero della Chiesa sul tema dei diritti fondamentali nella convivenza alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e alla Costituzione del nostro Paese. Siamo usciti da una catastrofe che non credevamo fosse possibile. La seconda guerra mondiale o meglio la prosecuzione e con essa la fine tragica della prima guerra mondiale è stata caratterizzata dalla Shoah, dalle armi di distruzione di massa, dal coinvolgimento delle popolazioni civili. Adesso si fa la guerra in altro modo, a distanza attraverso la tecnologia, con i droni. Abbiamo eliminato i filtri e le convenzioni del diritto sulla e nella guerra, ammesso che di filtri si trattasse. Ricordo accanto a questo che ci eravamo illusi di essere una società civile. Sono state abolite la pena di morte - penso a Cesare Beccaria - e la tortura; però in diversi paesi la pena di morte sopravvive e abbiamo scoperto che la tortura si può continuare a fare se pure entro certi limiti. E la si fa e la si pratica anche nel nostro civilissimo paese. Penso al G20, alle caserme di Bolzaneto. Penso alla vicenda emblematica di Stefano Cucchi e di molti altri anche in questi giorni. Penso a che cosa è capitato a Santa Maria Capua Vetere e in molti altre carceri quando si è vissuto all’interno di quelle carceri lo stress-test della pandemia. Infine la pena di morte è stata sostituita dal terrorismo su larga scala. Questo discorso mi fa pensare che non abbiamo valutato a sufficienza i rischi, i pericoli che affiancano gli enormi vantaggi della globalizzazione. Abbiamo trasformato o ci siamo illusi di poter trasformare il cittadino in un consumatore “usa e getta”; abbiamo emarginato prima con l’assuefazione, poi con metodi più energici i “diversi”. Quelli che non vanno bene alla società del benessere; quelli che non vanno bene alla società e al modo di vivere cui siamo abituati in un contesto che anche nella economia e nella finanza è riuscito a combinare i peggiori pasticci attraverso la finanza virtuale e attraverso le crisi che si ripetono a partire dal 2008 e sono aggravate dalle conseguenze della pandemia. Tutto questo lo ha ricordato recentemente - lo diceva nella sua relazione Amato e la nostra Corte aveva cominciato a fare qualche accenno in questo senso - una sentenza del Tribunale federale tedesco del marzo scorso. Si è cercato di inverare con essa una massima di estrema saggezza che mi pare era di De Gasperi: “L’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni. Il politico pensa alle prossime elezioni”. Anche se è vero che per poter pensare alle prossime generazioni bisogna prima cercare di vincere le prossime elezioni. Ecco perché credo che a questo punto sia estremamente importante rivalutare sotto questo profilo l’articolo 9 della Costituzione. È la norma che con chiarezza - con la stessa chiarezza di altre norme che ci ha ricordato il collega, maestro della Costituzione - ci dimostra l’importanza di non elevare a sistema quel presentismo che è il modo con cui noi oggi invece affrontiamo la politica, l’economia, la vita sociale e tutto il resto. Passato? Non c’ero, perciò non ne rispondo. Futuro? Chi saranno e chi sono oggi i soggetti titolati a rappresentare il futuro? C’è un amministratore di sostegno dei nostri nipoti e dei nostri pronipoti? Non mi pare.Il problema è questo. La ricerca di un equilibrio tra diritti, valori e interessi contrapposti ha bisogno di un intervento come quello che a mio avviso la Corte costituzionale ha cercato e tuttora cerca di proporre. Considero per me positiva soprattutto l’esperienza dei nove anni alla Corte, nella ricerca collegiale di un equilibrio tra valori diversi che altrimenti possono confliggere. Penso alle sentenze con cui ad esempio la nostra Corte si è occupata della vicenda dell’Ilva, cercando di coordinare, di mettere in equilibrio il diritto alla salute, il diritto all’ambiente e il diritto al lavoro; e non è poco. Credo che questo discorso sia fondamentale: cercare di dare un minimo di concretezza a quelle che sono le situazioni più vistose delle diseguaglianze dei più deboli, che la Costituzione ci impone di tutelare in modo particolare. Penso ad esempio al dibattito sul fine vita senza ancora una soluzione; allo scontro tra intolleranti dall’una e dall’altra parte per giungere ad assicurare ai più fragili e sofferenti il diritto di morire con dignità; alla ricerca di un equilibrio in una società laica e pluralista come la nostra, da parte della Corte e finalmente ora anche da parte del legislatore. La scelta di chi si lascia morire di Donatella Di Cesare La Stampa, 4 gennaio 2022 Si sa che la morte è un tema tabuizzato nello spazio pubblico. Se ne parla frettolosamente con un certo imbarazzo. Anche in questa pandemia, dove pure la morte incombe come mai, si usano cifre, schemi, tabelle. È già stato detto più volte, sottolineando i limiti di un’informazione non sempre all’altezza del compito, che i “deceduti del giorno” sono ridotti a un numero. In genere, però, questa denuncia punta l’indice contro la mancanza di rispetto verso coloro che non ci sono più. E giustamente. Ma la questione è più complessa e va al di là del rispetto etico. Questo modo asettico e anaffettivo di comunicare avalla un rapporto sbagliato con la morte a cui tutti purtroppo tendiamo. Qualcuno è morto - senza nome e senza volto. Perciò nessuno muore davvero. Semplicemente: si muore. Posso voltarmi dall’altra parte e proseguire la mia esistenza, perché tanto a me non tocca. La morte è respinta nel perenne non-ancora. Questo terribile equivoco ha oggi raggiunto con la pandemia apici inimmaginabili. D’altronde non vediamo funerali e raramente sentiamo parole di congedo. Ed ecco un effetto inquietante di questa rimozione che si innesta e si potenzia nel negazionismo del Covid: i No Vax che vanno a morire nelle corsie degli ospedali e nelle terapie intensive. I primi episodi potevano ancora passare per eccezioni. Ma ormai i casi si moltiplicano e il fenomeno, che appare in tutta dirompenza, lascia sgomenti. Anzitutto i medici, ai quali viene chiesto di farsi indietro, di non ricorrere all’intubazione, perché sarebbe dannosa, né tanto meno alla trasfusione, perché potrebbe contenere sangue dei vaccinati. “Il mio corpo deve essere preservato dall’alterazione a cui vorreste sottoporlo con le vostre cure”, questo in sintesi il convincimento dei No Vax. Alcuni arrivano al pronto soccorso persino con la lettera di un avvocato in borsa per diffidare gli operatori sanitari, per far sì che non intervengano. Un affronto inconcepibile per la medicina, che da sempre lotta per la vita e che oggi è messa a dura prova. Non era mai successo: chiedere chiedendo ai medici, in fondo, di lasciar morire il paziente. Giungere a rifiutare l’ossigeno, quando già non si respira più. E alla fine morire. L’angoscia che queste morti suscitano dovrebbe suggerire di usare toni diversi dal solito sarcasmo, dalla derisione o dalla condanna. Fino a ieri potevamo denunciare i danni che i non vaccinati producono nella comunità. Oggi dobbiamo, con profonda tristezza, riflettere sui danni che infliggono a se stessi. E in questa riflessione è inevitabile la domanda sulla responsabilità. Chi dovrebbe rispondere di queste morti? Chi ne porta il peso? La lista è lunga. Va dai politici che sin dall’inizio hanno sminuito la pandemia scagliandosi contro i “terroristi” che infonderebbero inutilmente paura, ai molti raggiratori di cui pullula ormai lo spazio pubblico, quelli che hanno trovato cinicamente nella pandemia l’occasione per un po’ di visibilità. Ma di questa lista fanno parte anche coloro che, magari in buona fede, non si sono resi conto dell’enorme peso delle proprie parole. In questo caso non si trattava infatti - e non si tratta - di scegliere un partito anziché un altro, di difendere un’idea anziché un’altra. In ballo c’è la vita, e c’è chi la perde. È più semplice rimuovere e ben più difficile richiamare al dramma che stiamo vivendo. Una politica responsabile, un’informazione seria aiutano a comprendere per tempo i rischi e ad affrontarli in modo consapevole. Ben prima dell’ultima tappa nella terapia intensiva. Una società che ha paura della diversità di Gianluca Nicoletti La Stampa, 4 gennaio 2022 Dopo il caso del bimbo affogato a due anni dalla madre, “convinta che fosse autistico”. Una madre ha annegato il suo piccolo perché non tollerava l’idea che potesse avere un cervello fuori standard. Sembra che nessun medico le avesse consegnato una diagnosi di neurodiversità, eppure il solo supporre che, nella testa di quel figlioletto di due anni e mezzo, qualcosa non fosse nella norma, è bastato a quella donna per eseguire una sentenza di morte. È sintomo di una profonda incapacità di gestire, con strumenti moderni, l’arcaico pregiudizio di cui è intriso il possibile disallineamento mentale di un proprio congiunto. In tempi molto meno remoti di quello che si possa credere, qualora ci si trovasse a dover fare i conti con un figlio che, si capiva, non avrebbe proprio posseduto la percentuale minima di senno richiesta per non dare nell’occhio, si faceva internare in tutta fretta il più lontano possibile da casa, dove sarebbe restato per tutto il resto della sua vita. Non era raro che la famiglia inscenasse persino un finto funerale, unico suggello socialmente accettabile a quell’onta che avrebbe gettato, su tutta la stirpe, il sospetto di un “sangue malato”. Per questo il fatto di Torre del Greco non è solo il dramma di una famiglia, è rivelatore di una ben più estesa lacuna culturale, spesso difficile da individuare, perché circoscritta alla sola difficoltà di elaborare, in maniera “civilizzata”, la più indicibile delle possibili disabilità, che è quella mentale. Ho avuto più di un segnale di quanto siamo ancora attraversati da un limaccioso retro pensiero, ignorante e superstizioso; un residuo del vecchio mondo che, nonostante le belle apparenze e la brillantezza dell’argomentare, contamina persino chi ha il privilegio di una forte presenza nei media. Non conto più le volte che, anche da illustri opinionisti, mi sia sentito dare dell’incapace di cogliere l’ironia, quando mi sono permesso di segnalare il loro uso incivile di termini come “bambino ritardato” o “autistico” e persino “mongoloide”, intesi come categoria dispregiativa per evidenziare la scarsa attitudine alla giusta comprensione della realtà, da parte di loro antagonisti ideologici. Per quanto possa essere a tanti fastidioso, il nostro progredire evolutivo è generato da un pensiero definito, anche con disprezzo, “politicamente corretto”. È la miglior definizione del nostro esserci alleggeriti da molti pregiudizi capaci di scatenare sofferenza, anche se sicuramente evoca distorsioni e forzature ipocrite, quando se ne abusa come dogma. In realtà il “cervello ribelle” è ancora assai più ostico a digerire per il cripto benpensante di quanto lo sia il diverso comportamento sessuale e affettivo, la diversa provenienza geografica, il diverso colore della pelle. Fa paura perché quasi tutti abbiamo il sospetto di essere noi stessi, o avere in famiglia, portatori occulti di qualcuno di quei segnali, che potrebbero fare di un essere umano libero, un individuo che una gran parte della collettività, anche se non lo dice apertamente, ancora preferirebbe “rinchiuso al sicuro”. Ammetterlo è duro, sarà più facile per tutti pensare che tutto il problema dell’inaccettabile diversità mentale stia solo in quella mamma affogatrice. Per stare tranquilli basta convincerci di essere parte della società dei savi, solo così nulla avremo da rimproverarci. Armi nucleari, il Consiglio di sicurezza Onu si impegna a “prevenirne l’ulteriore diffusione” di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2022 Lo hanno reso noto Pechino insieme a Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia in una dichiarazione congiunta in vista della conferenza sul Trattato di non proliferazione (Tnp). I firmatari ribadiscono la loro “determinazione a rispettare, in particolare, gli obblighi dell’articolo VI di ‘proseguire in buona fede negoziati su misure efficaci relativi alla cessazione della corsa agli armamenti atomici al più presto e al disarmo e su un trattato di disarmo generale e completo sotto un controllo internazionale stretto ed efficace’” I cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu - Cina, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia - hanno ribadito l’impegno a “prevenire l’ulteriore diffusione” delle armi nucleari. In una dichiarazione congiunta in vista della conferenza sul Trattato di non proliferazione (Tnp), i cinque paesi sottolineano la loro volontà di “lavorare con tutti gli Stati per compiere ulteriori progressi sul disarmo, con l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari”. “Affermiamo - scrivono i paesi del Consiglio di sicurezza - che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai verificarsi. Viste le conseguenze di grande ampiezza che avrebbe l’impiego di armi nucleari, affermiamo anche - continua il comunicato diffuso da Parigi - che esse, fin quando esistono, devono servire a scopi difensivi, di dissuasione e prevenzione della guerra. Siamo fermamente convinti della necessità di prevenire la proliferazione di queste armi”. I firmatari ribadiscono in particolare la loro “determinazione a rispettare gli obblighi del Trattato sulla non proliferazione (Tnp), in particolare quello che figura nell’articolo VI di “proseguire in buona fede negoziati su misure efficaci relativi alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari al più presto e al disarmo nucleare e su un trattato di disarmo generale e completo sotto un controllo internazionale stretto ed efficace”. La dichiarazione è stata accolta positivamente dalle associazioni internazionali che da decenni si battono per il disarmo, anche se in molti sottolineano come sarebbe giunto il tempo per andare oltre le parole, viste le ingenti risorse che Paesi come Usa, Cina e Russia continuano a stanziare per alimentare i propri arsenali con armi sempre più potenti. Proprio la Cina, all’indomani del comunicato congiunto, ha annunciato che continuerà a “modernizzare” il suo arsenale nucleare “per questioni di affidabilità e sicurezza” ed ha invitato Stati Uniti e Russia a ridurre le loro scorte. “Gli Stati Uniti e la Russia possiedono ancora il 90% delle testate nucleari del pianeta. Devono ridurre il loro arsenale nucleare in modo irreversibile e legalmente vincolante”, ha detto Fu Cong, direttore generale del dipartimento per il controllo degli armamenti cinese. Migranti. Tribunale dà l’ok a protezione umanitaria per 2 giornalisti afgani: veto da Farnesina di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2022 Asgi: “Violato diritto alla protezione”. Di uno dei giornalisti il Fatto.it aveva raccontato la storia nei mesi scorsi. Dopo un difficile trasferimento in Pakistan, quando le frontiere erano già serrate, i due giovani reporter avevano ottenuto l’ok per la concessione del visto umanitario, ma il ministero ha bloccato tutto. Adesso l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione che segue il loro caso presenterà un nuovo ricorso. I giornalisti afghani sono pronti a essere accolti in Italia dopo la fuga dal Paese di nuovo nelle mani dei Talebani, ma un cavillo fa slittare la procedura. Il Tribunale di Roma, il 21 dicembre scorso, ha emesso una pronuncia con cui ordinava il rilascio di un visto umanitario per due reporter operativi in Afghanistan, ma quando anche l’ultimo dettaglio sembrava risolto è arrivato il veto della Farnesina. La vicenda, sotto il profilo giudiziario, è stata seguita dall’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione: “Inaccettabile la mancanza di rispetto del diritto alla protezione - attacca l’avvocata Nazzarena Zorzella che ha seguito il caso dall’inizio - Come ha affermato il Tribunale di Roma, è dovere del giudice riconoscere il diritto all’ingresso in Italia per avere protezione di fronte al rischio di grave compromissione dei diritti umani. Un diritto che non può essere condizionato in alcun modo, con l’unica eccezione dei controlli di sicurezza ordinariamente svolti dallo Stato. Il comportamento del ministero denota una evidente resistenza al rispetto dei diritti fondamentali della persona, in contrasto con gli obblighi costituzionali che per primo dovrebbe rispettare. La battaglia certamente continuerà ma non farà onore allo Stato italiano”. Di uno dei giornalisti il Fatto.it aveva raccontato la storia. In particolare l’accorato appello per essere aiutato a lasciare definitivamente l’Afghanistan a causa dei rischi legati alla sua professione. Con lui adesso c’è la sorella, anch’essa giornalista, in fuga verso la salvezza. In questa fase, visti gli ostacoli posti dal ministero degli Esteri, decidiamo di mantenere occultate le loro generalità, in attesa di novità sotto il profilo giuridico. Il ritorno al potere degli Studenti Coranici l’agosto scorso ha messo in serio pericolo molti collaboratori dei contingenti internazionali della Nato, delle ambasciate e tutti i professionisti in qualche modo ‘non graditi’ all’Emirato Islamico. Tra questi anche i due protagonisti di questa storia. Al momento del primo contatto, i due giornalisti si trovavano ancora in Afghanistan, a Kabul. Nel momento in cui Asgi, attraverso una persona garante della loro accoglienza in Italia, ha avviato la pratica giuridica per l’ottenimento del visto per motivi umanitari, è iniziata una corsa contro il tempo. Entro i primi giorni di dicembre i due dovevano necessariamente essere entrati in Pakistan per prendere contatti con la nostra ambasciata. A differenza di quanto accadeva nelle prime settimane successive alla fuga dell’Occidente, da novembre passare il confine è diventato impossibile a livello ufficiale e molto rischioso in generale. I due giovani hanno prima tentato la via della frontiera attraverso il famigerato Khyber Pass, senza fortuna. Un viaggio impervio e drammatico per certi versi ha consentito loro l’ingresso in Pakistan molto più a sud, nella zona tra Kandahar e Quetta, per poi risalire verso Islamabad, la capitale pakistana, sede dell’ambasciata italiana. Quando il 21 dicembre scorso il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso proposto dei due giovani giornalisti, attraverso Asgi, ordinando all’Italia di rilasciare loro i visti umanitari, la vicenda sembrava potersi chiudere con un lieto fine. Il ricorso, infatti, era stato preceduto da una richiesta formale al ministero per gli Affari Esteri in cui si era evidenziato il concreto pericolo a cui erano esposti i due giovani. La Farnesina, però, non ha mai risposto, rendendo necessaria la proposizione del ricorso d’urgenza riconosciuto dal Tribunale romano: “Nonostante la chiarezza dell’ordine giudiziale - aggiunge l’avvocato Zorzella - il ministero per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale sta opponendo una strenua quanto inaccettabile resistenza. Da una parte proponendo ai ricorrenti di entrare a far parte dei corridoi umanitari, che ancora devono essere attivati, con tempi lunghi e indefiniti, dall’altra chiedendo di dimostrare con idonea documentazione il percorso di accoglienza e integrazione in Italia con adeguata copertura finanziaria. Pretese inaccettabili”. La vicenda comunque non è chiusa. Asgi ha fatto sapere di non avere intenzione di mollare: “Ho già depositato un nuovo ricorso, sempre al Tribunale, per sbloccare la vicenda in cui cercherò di rendere impossibile la creazione di ulteriori ostacoli - conclude l’avvocato - La sentenza dovrebbe arrivare entro il 13 o al massimo il 14 gennaio, per fortuna in tempi decenti. Speriamo piuttosto che venga accolto. Il concetto di base è molto semplice, se la pubblica amministrazione riceve un ordine lo deve eseguire. È quanto mi aspetto dal ministero degli Esteri”. Gran Bretagna. Piano di Londra per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 4 gennaio 2022 Uno scambio di migranti per sancire la pace tra Londra e Parigi, almeno per quanto riguarda gli attraversamenti nel Canale della Manica. È il piano al quale stanno lavorando i tecnici del ministro dell’Interno britannico Pritti Patel che in questo modo spera di superare la crisi che si è inasprita tra i due Paesi dopo il naufragio che alla fine di novembre ha provocato la morte di 27 migranti partiti da Calais e il conseguente scambio di accuse tra il presidente francese Macron e il premier britannico Johnson. L’accordo prevede la disponibilità di Londra a prendere in considerazione le domande di asilo presentate in Francia da migranti che possano dimostrare di avere validi motivi per entrare nel Regno unito, in cambio della possibilità di rimandare in Francia quote di migranti già arrivati sulle coste britanniche. Inoltre è previsto un rafforzamento dei pattugliamenti delle coste da parte della polizia francese con il trasferimento dei migranti fermati in centri di accoglienza situati a centinaia di chilometri da Calais allo scopo di scoraggiare ulteriori tentativi di attraversamento della Manica. Se questi sono i punti dell’accordo, Londra sa bene che non potrà discuterli prima di aprile e solo dopo che si saranno svolte le elezioni presidenziali francesi. “A prescindere di chi sarà il nuovo presidente”, sottolineano fonti del ministero dell’Interno, nella consapevolezza che fino ad allora per Macron sarà praticamente impossibile prendere decisioni su un tema spinoso come l’immigrazione. Nel frattempo il governo inglese ha presentato in parlamento un progetto di legge sulla nazionalità e sui confini che cambierà n modo radicale il sistema di asilo. Crisi della Manica a parte, la presidenza di turno dell’Unione europea, cominciata il 1 gennaio, darà alla Francia e a Macron in particolare la possibilità di spingere per modificare il trattato di Schengen riuscendo così a limitare i cosiddetti movimenti secondari, gli spostamenti di quei migranti che abbandonano il paese di primo approdo per recarsi in Francia e Germania. Una riforma sulla quale Parigi avrebbe il consenso di altre capitali. da Berlino alla stessa Bruxelles, e che rappresenta anch’essa un modo per mettere un argine alle partenze da Calais. Iran. Nazanin Zaghari-Ratcliffe inizia un altro anno in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2022 Con l’inizio del nuovo anno la cittadina iraniana-britannica Nazanin Zaghari-Ratcliffe ha superato i 2.100 giorni di carcere. Nazanin, ora 42enne, è stata arrestata il 3 aprile 2016 all’aeroporto Imam Khomeini di Teheran mentre stava per imbarcarsi su un volo per rientrare nel Regno Unito dopo una visita alla sua famiglia in Iran. Dopo un lungo periodo di isolamento, il 6 settembre dello stesso anno è stata condannata a cinque anni di carcere per “appartenenza a un gruppo illegale”, col quale avrebbe partecipato alla “definizione e alla realizzazione di progetti multimediali e informatici finalizzati alla caduta ‘morbida’ del governo”. Scarcerata nel marzo 2021 poco prima della fine della pena, sembrava che l’incubo fosse finito. Invece, è stata condannata a un altro anno di carcere per “propaganda contro il sistema”. Dietro queste infondate accuse non vi sarebbe altro che la rivendicazione, da parte iraniana, di un credito di 400 milioni di sterline che Londra dovrebbe saldare a Teheran sin dagli anni Settanta. Il marito di Nazanin, Richard, che vive a Londra con la loro figlia Gabriella di sette anni, si sta ancora riprendendo dalle tre settimane di sciopero della fame portate avanti a novembre. Insieme ad alcuni parlamentari e soprattutto alle organizzazioni britanniche per i diritti umani continua a chiedere al governo di Boris Johnson di dare priorità alla scarcerazione della moglie e risolvere questa storia del debito con l’Iran. *Portavoce di Amnesty International Italia Sudan. Nuovo bagno di sangue. Il premier si arrende ai golpisti: “Dimissioni irrevocabili” di Antonella Napoli La Repubblica, 4 gennaio 2022 Hamdok, deposto e poi reinsediato dagli stessi militari sotto la pressione internazionale, rinuncia al tentativo di formare un governo. Si va verso elezioni anticipate. Un nuovo bagno di sangue e l’uso dell’artiglieria pesante da parte dell’esercito hanno spinto il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, a rendere ufficiali le dimissioni “congelate” da una settimana, definendole irrevocabili. Si apre così lo scenario di elezioni anticipate. Di fronte all’ennesima repressione dei militari che solo oggi hanno ucciso quattro manifestanti - il premier deposto con un colpo di Stato il 25 ottobre e poi reinsediato dagli stessi golpisti sotto pressione internazionale ha deciso di rinunciare a formare il nuovo governo. “Ho fatto del mio meglio per evitare che la nazione scivolasse verso la catastrofe e che fosse versato altro sangue di innocenti”, ha dichiarato Hamdok, “ma alla luce della frammentazione delle forze politiche e dei conflitti tra le componenti del consiglio di transizione, nonostante tutto quello che è stato fatto per raggiungere un accordo, ciò non è accaduto”. Nel corso di quella che si è rivelata una delle più drammatiche dimostrazioni per le strade della capitale Khartoum, le forze di sicurezza hanno lanciato lacrimogeni e sparato contro migliaia di dimostranti che si dirigevano verso il palazzo presidenziale per protestare ancora una volta contro il colpo di stato, sfidando una città blindata ed il blocco di internet. Dal giorno della presa del potere del generale Abdel Fattah al-Burhan sono almeno 60 le persone uccise e centinaia i feriti. E il bilancio dei morti è destinato a salire, fa sapere il Sindacato dei medici pro-democrazia. “Nonostante le repressioni, non ci fermeremo - afferma Khalid Omer Yousef, ex ministro degli Affari del Gabinetto del Presidente del Consiglio - nuovi cortei sono già previsti per giovedì prossimo. La brutalità della strage di oggi non è descrivibile a parole. L’unica risposta possibile è portare avanti un’azione unitaria anti-golpe fino alla completa sconfitta dei militari. Non è più tempo di divergenze secondarie. È tempo di guardare al nemico comune che non rispetta la santità del sangue e non disdegna la perdita di vite umane”. Già giovedì scorso erano stati uccisi sette manifestanti, nonostante la capitale fosse stata blindata con blocchi stradali e container utilizzati per chiudere i ponti sul Nilo, in migliaia sono riusciti ad arrivare a ridosso del Palazzo presidenziale. La risposta delle forze armate che presidiavano i punti strategici di Khartoum e delle zone limitrofe con autoblindo e armi pesanti è stata di una violenza mai vista. Avevano l’ordine di colpire a morte. E oggi si è ripetuto lo stesso drammatico copione.